IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Quale unità custodire
di MICHELE AINIS (La Stampa, 12.05.2010)
L’unità nazionale è figlia della storia, di processi culturali, fatti linguistici, intraprese politiche, fenomeni sociali. Ma è anche frutto del diritto: senza coesione giuridica non c’è unità politica, senza un tessuto di regole comuni e condivise è impossibile la stessa convivenza. Dunque il diritto non può creare l’unità nazionale, però deve alimentarla, e in conclusione deve conservarla.
A questa vocazione risponde innanzitutto la legge più alta, quella scolpita nelle tavole costituzionali. Nei 150 anni dell’Italia unita ne incontriamo due, diverse nella propria genesi, nella concezione dei rapporti fra lo Stato e i cittadini, nell’architettura della cittadella pubblica. Eppure c’è almeno un filo di continuità fra lo Statuto Albertino e la Carta repubblicana: l’uno e l’altra sono stati concepiti con lo sguardo rivolto al futuro, alle generazioni che verranno. Nel più autorevole commento allo Statuto, firmato da Racioppi e Brunelli, quest’ultimo era raffigurato come una sorgente di «principii in attesa della loro sostanza vitale». Un secolo più tardi Piero Calamandrei illustrò il medesimo concetto sui banchi dell’Assemblea Costituente; e rivolgendosi agli altri deputati li esortò a operare, secondo il verso dantesco, «come quei che va di notte, che porta il lume dietro e a sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte».
C’è insomma una tradizione giuridica italiana che si mantiene inalterata pur nel passaggio dal regno alla repubblica; ma in che misura si è tradotta in un fattore d’unificazione? Se effettuassimo un esame intransigente, dovremmo stendere un bilancio in rosso. Sull’unità degli italiani pesano fratture storiche mai del tutto ricucite: quella fra élite e masse popolari, a partire dal modo in cui le classi dirigenti sabaude gestirono il nuovo Stato nazionale; quella fra laici e cattolici dopo il Non expedit di Pio IX; la guerra civile dopo l’8 settembre; la conta fra monarchici e repubblicani; lo scontro fra partiti di sistema e partiti antisistema, gli uni e gli altri - significativamente - con un riferimento fuori dal contesto nazionale (Washington, Mosca, Città del Vaticano). E pesa infine una questione meridionale che nel tempo si è aggravata, invece d’attenuarsi.
Tuttavia gli ostacoli al sentimento unitario non devono indurci a negare quello stesso sentimento. Vale per l’unità nazionale, vale per tutti gli altri valori espressi dalla Costituzione, a cominciare dai valori di eguaglianza e libertà. Potrà mai esistere una società totalmente libera, totalmente eguale? Non su questa terra, perché la vita stessa genera ogni giorno nuove situazioni di diseguaglianza, nuove ferite alla libertà degli individui. Conta allora la tensione verso l’eguaglianza, verso la libertà, infine verso l’unità. La condizione umana riecheggia la fatica di Sisifo, ciascuno di noi porta un masso sulle spalle, senza mai riuscire a liberarsene. A loro volta i valori costituzionali sono come l’orizzonte che ci sovrasta: non possiamo toccarlo con le mani, ma non possiamo neppure evitare di tendervi lo sguardo.
Nella Carta repubblicana, questo orizzonte si disegna nell’art. 5: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Una formula icastica, che però fu ritenuta a lungo una scatola vuota. Per quale ragione? Perché ospita due principi che a prima vista si negano l’un l’altro, perché l’unità è nemica della diversità. Ma l’identità - in termini aristotelici - è sempre un divenire, sia per i singoli sia per i corpi collettivi. In secondo luogo, l’unità non è uniformità: anche il matrimonio è un’unione fra sessi diversi, e d’altronde l’unione dell’uno sarebbe un ossimoro. In terzo luogo, in democrazia l’unità è a sua volta pluralista, il pluralismo genera l’autonomia delle comunità locali, e l’autonomia esprime una carica antiautoritaria, perché avvicina governanti e governati.
Da qui la doppia valenza dell’art. 5: vi si estrae sia un principio propulsivo, nel senso del decentramento del potere pubblico; sia un principio negativo, un argine a riforme che possano disgregare il nostro tessuto connettivo, anche se approvate nella forma della legge costituzionale.
Ma a chi spetta custodire l’unità? Dice l’art. 87: «Il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale». Anche in questo caso la formula costituzionale inizialmente venne irrisa, fino a qualificarla espressione «poetica» o al più pleonastica.
Sennonché - come osservò Ruini in Assemblea costituente - vi s’incarna «la forza permanente dello Stato al di sopra delle fuggevoli maggioranze». Certo: il Presidente è specchio dell’unità che c’è, può rifletterla, non può crearla artificiosamente. Anche il suo ruolo di custode sarebbe impotente dinanzi a fenomeni insurrezionali, quando il fatto diventa diritto. Ma l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino.
michele.ainis@uniroma3.it
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA.
LA LEZIONE DI FREUD: SIGMUND FREUD E LA LEGGE DELL’"UNO", DEL "PADRE NOSTRO". IL ‘LUPO’ HOBBESIANO, L’ ‘AGNELLO’ CATTOLICO, E “L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA”. Indicazioni per una rilettura
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
La sovranità del limite. La questione della giustizia in Alain Supiot
di Mauro Cascio (La voce repubblicana -10/06/2021)
Chi non cerca il limite in sé è condannato a trovarlo fuori di sé. Se si dovesse sintetizzare l’ultimo lavoro di Alain Supiot, La sovranità del limite (una splendida edizione italiana pubblicata da Mimesis e curata da Andrea Allamprese e Luca D’Ambrosio), lo si farebbe così. E limite è anche legge. Se la mia libertà è quella di dispiegare me stesso (che non vuol dire fare quello che voglio, a capriccio: la mia libertà non mi consente per esempio di essere una scopa o un lampadario, se non lo sono), la giustizia è la volontà costante e perpetua di rendere a ciascuno quel che gli è dovuto. E a ciascuno il suo limite. -«Nella lingua Beti del Camerun la parola che significa giusto (sasôô) viene dal verbo soussou, che vuol dire saltare, sormontare un ostacolo. Perciò, come rileva Jean-Godeffroy Bidima [...] la giustizia (così definita) è quello che permette alla società di aprirsi un passaggio nell’intrico di significati. Essa permette agli individui che stanno litigando, oppure scambiando, di aprirsi un passaggio gli uni verso gli altri».
La questione della giustizia è ineliminabile, non ne possiamo fare a meno, ne dobbiamo dare una definizione, ne dobbiamo trovare una collocazione nella nostra idea di mondo. Ma è anche una questione insolubile, cioè ci rimane in mano come problema radicale, perché, a considerare la sua scienza con quella neutralità assiologia che i giuristi vorrebbero (senza cioè ‘sistemi’ filosofici à la Hegel), “non è riducibile all’applicazione di una norma quale che sia, poiché nella nostra tradizione giuridica essa è la ‘madre delle leggi’”. «Principio metagiuridico, la giustizia è stata spesso rappresentata sotto forma di una dea (oggi di una Idea) di cui i giuristi sarebbero i sacerdoti».
E a proposito della Poiesis della Giustizia e della sua rappresentazione poetico-religiosa non possiamo trascurare l’opera di Pietro Piacentino (1130-1192). «Piacentino, che sostiene di aver scoperto il Tempio della Giustizia mentre passeggiava in campagna, lo descrive così. Al centro siede la Giustizia, che esprime dignità ma anche tristezza. Porta sulla testa la Ragione dallo sguardo penetrante, e tra le braccia l’ultima figlia, Equitas, dal volto pieno di bontà, che si sforza di equilibrare i piatti della bilancia tenuta da sua madre». È circondata da sei virtù civiche.
(1) Innanzitutto la Religio consistente nell’omaggio e nel culto alle “cose sacre”. La cosa sacra, beninteso, è la ragione fondativa stessa, per esempio la Costituzione della Repubblica Romana, i primi articoli della Costituzione Italiana, quanto eleva il principio della dignità umana. La Religio non va confusa con il “sentimento oceanico” descritto da Freud: non riguarda il privato e il foro interiore, bensì il pubblico e il foro esterno.
(2) La Pietas, filiale e patriottica.
(3) La Gratia, la virtù consistente nel ricordare i servizi ricevuti nella Città e nel restituirli.
(4) La Vindicatio, da non tradurre come ‘vendetta’, perché il verbo latino vindico equivale all’inglese to vindicate: reclamare giustizia.
.(5) L’Observantia, la deferenza che si mostra a persone superiori in merito e in dignità.
(6) La Veritas. Verità, certo, ma anche lealtà.
La tendenza contemporanea del diritto, chiosa Supiot, è quello di darsi semplicemente come oggetto. Anche questo è un grave errore di chi non accetta un’architettura dei saperi e pretende che le scienze dello Spirito siano isolate l’un l’altra. Il diritto oggettivo che semplicemente sta è una cosa che non è a capace, in quanto a stare, nemmeno di stare in piedi e che dipende dai capricci e dalle convenzioni a cui si appoggia per non cadere. E già dire così significa ammettere che il diritto è sempre soggettivo, le condizioni sono spesso singolari e si danno una condizione data, cioè in un momento storico del determinarsi dello Spirito.
Già Michel Foucault aveva osservato la connessione tra istituzioni e soggettività. Non ci può essere una rigida contrapposizione: le istituzioni devono essere fatte di soggettività. Ma Vico e Montesquieu hanno fatto di meglio, perché sono stati più attenti a non ridurre il tutto a schemi formali, esterno ai soggetti. Il diritto è di chi lo partecipa. La sostanza del diritto è la morale. Lo schema formale esterno ai soggetti è la dittatura. L’istituzione vissuta dai soggetti la Repubblica.
Idee.
«Senza coscienza del limite non c’è diritto né giustizia»
Parla il giurista francese Alain Supiot: «Il neoliberismo piega la democrazia alla ricerca di una efficienza economica a breve termine. E questo favorisce l’adesione all’uomo forte»
di Simone Paliaga (Avvenire, martedì 3 agosto 2021).
L’illimitato, il superamento dei limiti sembra essere la cifra caratterizzante il mondo di oggi. Ne parla in La sovranità del limite (Mimesis, pagine 216, euro 18,00) Alain Supiot, professore emerito del Collège de France e membro della Commissione mondiale sul futuro del lavoro.
Cosa significa l’espressione “sovranità del limite”, professore?
L’idea si ispira a Simone Weil, una delle più grandi menti del XX secolo. Nel suo libro La prima radice, scritto a Londra poco prima di morire, nel 1943, critica la sentenza di Hitler per cui “la forza regna ovunque e da sola domina la debolezza”. A essa, che esprime rozzamente una convinzione ampiamente condivisa nella civiltà occidentale, risponde che “la forza bruta non è sovrana quaggiù. È per natura cieca e indeterminata. Ciò che è sovrano qui è la determinazione, il limite”. Purtroppo il suo messaggio è rimasto inascoltato. Le correnti principali della filosofia politica, della sociologia o dell’economia hanno ridotto qualsiasi tipo di rapporto umano a un rapporto di dominio rimanendo cieche dinanzi ai limiti delle risorse del pianeta. Le molteplici crisi che ci assalgono oggi ricordano che gli uomini incapaci di autocontrollo sono condannati a raggiungere il loro limite catastrofico, come Hitler nel suo bunker il 30 aprile del 1945.
Simone Weil batte Carl Schmitt, dunque?
Schmitt, giurista cattolico e nazista, come Hitler fa del potere il segno della sovranità. L’opposizione con Weil diventa più chiara risalendo ai dibattiti medievali sull’Onnipotenza divina. Per alcuni, questa onnipotenza è assoluta, così che non esiste ordine nel mondo che non possa essere abolito in qualsiasi momento dalla volontà di Dio. Per altri, si tratta di una Onnipotenza ordinata: Dio si sarebbe autolimitato per lasciare spazio alla sua creazione e alla libertà umana. L’idea dell’autocontrollo di Dio si trova anche nella nozione ebraica di tzimtzum. Sovrano è chi afferma l’onnipotenza della propria volontà o chi possiede in sé il senso dei limiti della volontà? La questione si pone da quando la nozione di sovranità è stata secolarizzata per diventare, da Bodin e Descartes, l’attributo dei re e poi degli individui.
Come interiorizzare il limite?
Sul piano politico, la risposta è data da Montesquieu. “Perché non si abusi del potere, il potere deve fermare il potere”, quindi la costituzione deve garantire la separazione dei poteri. Sul piano individuale, l’interiorizzazione è l’oggetto primario dell’educazione che istituisce l’essere umano, cioè accompagna la sua crescita come il tutore sostiene la pianta finché non ne ha più bisogno. Interiorizzare le regole è una condizione di libertà. Per esercitare la libertà di espressione, per esempio, bisogna sottomettersi prima alla legge di una lingua! Più in generale, è sovrano chi non ha bisogno di un padrone perché è padrone di se stesso.
Perché affrontare oggi la questione del limite?
Perché il neoliberismo sta raggiungendo il suo limite catastrofico! A differenza del liberalismo classico, che poneva i calcoli di utilità individuali sotto l’ombrello di una legge comune, il neoliberismo pone la legge sotto l’ombrello dei calcoli di utilità. La legge non si fonda più su un’ideale di giustizia deliberato democraticamente, ma su una ricerca di efficienza economica a breve termine.
Se c’è una lezione da imparare dalla storia del diritto, è che un ordine politico la cui legge primaria è la competizione di tutti contro tutti, genera necessariamente violenza. Lo sapevano già gli antichi greci, che condannavano la pleonessia, l’accumulo illimitato di ricchezze. E l’Organizzazione internazionale del lavoro, l’ILO, lo conferma affermando “che solo sulla base della giustizia sociale si può stabilire una pace duratura”. Ignorando questa osservazione, che ora va estesa alla giustizia ambientale, ci si condanna a uno shock con la realtà di cui l’implosione finanziaria del 2008 e l’attuale pandemia globale non sono altro che sue manifestazioni.
Che ruolo ha il Diritto?
Non si dovrebbero né sopravvalutare né sottovalutare le risorse del Diritto, che Simone Weil pone in una regione intermedia tra il Cielo della giustizia e l’Inferno della forza bruta. Ma è chiaro che promuovendo il law shopping e una corsa al ribasso verso il sociale e l’ecologia, la globalizzazione mina il rule of law. Serve un nuovo salto normativo, che, come nel dopoguerra, promuova regole adatte alle nuove sfide tecnologiche, ecologiche e sociali.
E la governance digitale?
Il Diritto, la democrazia, lo Stato e tutti i quadri giuridici sono travolti dalla rinascita del vecchio sogno occidentale di armonia fondata sul calcolo. Riattivato prima dal taylorismo e dalla pianificazione sovietica, questo progetto scientista assume ora la forma della governance attraverso i numeri, sotto l’egida della globalizzazione. La ragione del potere non si trova in un’istanza sovrana che trascende la società ma in norme inerenti al suo corretto funzionamento. Prospera così un nuovo ideale normativo, che mira alla realizzazione efficace di obiettivi misurabili piuttosto che all’obbedienza a leggi giuste. Sospinto dalla rivoluzione digitale, il nuovo immaginario istituzionale è quello di una società in cui il diritto lascia il posto al programma e la regolamentazione alla regolazione. Ma quando la sicurezza non è garantita da una legge uguale per tutti, gli uomini non hanno altra scelta che giurare fedeltà al più forte. Radicalizzando l’aspirazione a un potere impersonale, che già caratterizzava l’imporsi del regno della legge, la governance coi numeri dà origine paradossalmente a un mondo dominato da vincoli di fedeltà.
Che cos’è il principio di solidarietà? Può porre un limite alla globalizzazione?
A differenza dell’assicurazione privata, che si basa sul calcolo attuariale del rischio, un regime di solidarietà si basa sull’appartenenza a una comunità, sia essa nazionale, professionale o familiare. I membri di questa comunità più fortunati e meno esposti al rischio contribuiscono di più dei meno fortunati o dei più esposti, per avere gli stessi diritti. A differenza dell’assistenza o della carità, la solidarietà non divide il mondo tra chi dona senza ricevere e chi riceve senza donare. Tutti contribuiscono secondo le proprie capacità e ricevono secondo i propri bisogni. Dovrebbe essere uno strumento potente per passare da una logica della globalizzazione, che mette in competizione tutti contro tutti, a una logica della mondializzazione, cioè di solidarietà tra nazioni rispettose della diversità delle loro storie e culture. Così, ad esempio, la questione della migrazione non sarà risolta né dalla costruzione di muri né dall’abolizione dei confini, ma dalla solidarietà tra i paesi del nord e del sud, in modo che tutti i giovani africani non siano costretti all’esilio per poter sperare di vivere con un lavoro decente.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS".
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
Editoriale
Le menzogne, il censore e il premier
James Bond. Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia
di Norma Rangeri (il manifesto, 12.04.2020).
Qualche domanda: quante volte il premier Conte è stato attaccato in diretta tv, e sul circuito mediatico delle opposizioni, sul piano personale? E senza alcun contraddittorio? La leader che guida Fratelli d’Italia non ha forse accusato Conte di essere addirittura un “criminale”, con nessun conduttore o direttore di tg che replicasse “no, questo non si può dire in diretta tv”?
Quando mai Mentana si è indignato per le parole pesanti indirizzate al premier? E non è da censori affermare - come lui ha detto - che non avrebbe mandato in onda le accuse di Conte a Salvini e Meloni se avesse saputo?
Nemmeno gli fosse arrivata una cassetta registrata di Berlusconi come ai vecchi tempi, quando l’appello al popolo, via Vhs, veniva trasmesso da Arcore ai prediletti tg di famiglia e naturalmente a quelli della Rai plaudente. La famosa Rainvest a reti unificate.
Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia. Il diritto e il dovere di rispondere alle sonore bugie che abbeverano l’opinione pubblica grazie a una informazione molto lacunosa, se non subalterna e connivente. Il dovere di ricordare che il Mes non lo riguarda.
E infatti la Ue ha fatto presente erga omnes che l’accordo sul salva-stati passò nel 2011 durante il governo Berlusconi IV, con Meloni giovane ministra. La stessa persona che oggi vuol giocare il ruolo della vittima insieme a Salvini, proprio lui che ha usato e abusato del ruolo istituzionale di ministro dell’interno e che ora, senza pudore, si appella addirittura al Capo dello Stato, dopo aver inondato di fango e fake news Conte e il suo governo.
Le opposizioni d’altronde, giocano le loro carte. Noi che conosciamo bene il ruolo dell’opposizione, e lo teniamo in gran conto, non abbiamo mai usato le menzogne, gli insulti personali. Le destre di oggi ne fanno invece pratica quotidiana. E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi.
E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi. Oltretutto quello che sta emergendo nelle Regioni sotto la loro guida conferma responsabilità e colpevoli incapacità nell’emergenza della lotta alla pandemia.
Alzano il tiro perché ogni giorno che passa si solleva il velo su una condotta al centro di accertamenti giudiziari. Il direttore del Pio Albergo Trivulzio, indagato per epidemia e omicidio colposo, dipende dal governo di destra lombardo. E gettare la palla fuori campo serve a distrarre gli italiani dalla tragedia che stanno vivendo migliaia di famiglie per aver perso i loro cari a causa di scelte sanitarie molto pericolose per la vita dei malati.
Al contrario, chi appoggia direttamente o indirettamente questo governo, dovrebbe apprezzare un presidente del Consiglio che parla in modo chiaro, diretto, che non nasconde la realtà ai cittadini, che non si piega alle pressioni confindustriali, che non fa da sponda alle forze politiche che lo sostengono, che soprattutto non propala bufale. Forse avrebbe dovuto ricostruire meglio il caso Mes, perché non tutti sanno, anzi, ma una risposta agli italiani era necessaria.
La critica che invece va mossa riguarda proprio la coalizione di governo. Perché appare chiaro che la tragicità della situazione che attraversa ogni cellula della vita sociale, non può essere cancellata da un “vogliamoci bene”, che continua a nascondere la polvere sotto il tappeto. Tra Pd e M5S riaffiorano rivalità, visioni diverse, contrapposizioni capaci di minare il fragile terreno sul quale poggia la coalizione.
Rivedendo Conte in tv emergeva un certo nervosismo, solo in parte dovuto allo stress del momento. Nato contro i pieni poteri reclamati dalle destre, costruito in difesa di un clima democratico messo in crisi dall’odio, dal razzismo, dalla xenofobia, sempre di più questa maggioranza deve dimostrare di essere all’altezza di una proposta politica in grado di avviare la ricostruzione del paese, sgovernato da un sistema che ne ha fatto il regno europeo delle diseguaglianze.
Perché quel cambiamento verso uno stato sociale e di diritto (per i lavoratori come per gli immigrati e per i carcerati), dentro una battaglia europea cruciale e inimmaginabile senza la micidiale opera distruttrice del virus, non ammette rinvii, né concederà repliche
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI. Un invito e un appello a fare luce, a fare giorno
FLS
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Napolitano riflessioni sul bel paese uno e indivisibile *
Il ciclo delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità non può considerarsi ancora esaurito: lo dicono notizie e annunci che continuano ad affluire. Ma un bilancio sostanziale è certamente possibile, e vorrei sottolinearne alcuni aspetti. Innanzitutto l’eccezionale diffusione e varietà di iniziative, e il carattere spontaneo che molte di esse hanno presentato: non sollecitate e coordinate dall’alto, da nessun luogo “centrale”, Presidenza della Repubblica o Governo. Si è davvero trattato di un gran fiume di soggetti che si sono messi in movimento, in special modo al livello locale, fin nei Comuni più piccoli - istituzioni, associazioni di ogni genere, gruppi e persone.
È stato un gran fervore di richiami di antiche memorie, anche famigliari, e di impegni di studio, di discussione, di comunicazione. Quel che si è mosso, poi, nelle scuole è stato straordinario: quanti insegnanti, per loro conto, e quanti studenti, a ogni livello del sistema d’istruzione, si sono messi d’impegno e hanno dato in tutte le forme il loro contributo! E anche in termini quantitativi che cosa è stata la partecipazione dei cittadini anche alle manifestazioni nelle piazze e nelle strade e dai balconi delle case, in un’esplosione mai vista di bandiere tricolori e di canti dell’Inno di Mameli!
Ce lo aspettavamo? In questa misura e in questi toni, no: nemmeno quelli tra noi, nelle massime istituzioni nazionali, che ci hanno creduto di più e hanno deciso di dedicarvisi più intensamente. È stata una lezione secca per gli scettici, e ancor più per coloro che prevedevano un esito meschino, o un fallimento, dell’appello a celebrare i centocinquant’anni dell’unificazione nazionale. Soprattutto, è stata una grande conferma della profondità delle radici del nostro stare insieme come Italia unita. Si può davvero dire che le parole scolpite nella Costituzione - «la Repubblica, una e indivisibile» - hanno trovato un riscontro autentico nell’animo di milioni di italiani in ogni parte del Paese. E non in contrapposizione ma in stretta associazione - come nell’articolo 5 della Carta - all’impegno volto a riconoscere e promuovere le autonomie locali. Nello stesso tempo, si può ritenere che il così ampio successo registratosi vada messo in relazione col bisogno oggi diffuso nei più diversi strati sociali di ritrovare - in una fase difficile, carica di incognite e di sfide per il nostro Paese - motivi di dignità e di orgoglio nazionale, reagendo a rischi di mortificazione e di arretramento dell’Italia nel contesto europeo e mondiale.
L’aver fatto leva sull’occasione del Centocinquantenario, l’aver puntato su celebrazioni condivise, è stato dunque giusto e ha pagato. Non bastava però lanciare un appello generico: occorreva richiamare in modo argomentato fatti storici ed esperienze, fare i conti con interrogativi e anche con luoghi comuni, favorire quella che non esito a chiamare una riappropriazione diffusa, da parte degli italiani, del filo conduttore del loro divenire storico, del loro avanzare - tra ostacoli e difficoltà, cadute e riabilitazioni, battute d’arresto e balzi in avanti - come società e come Stato nei secoli XIX e XX. Gli interventi che ho svolto, nel succedersi delle iniziative per il Centocinquantenario, hanno segnato i momenti e i contenuti dello sforzo compiuto: spero che il leggerli, raccolti in volume, ne renda il senso complessivo, lo sviluppo coerente.
Qual è la conclusione che oggi ne traggo? Che non si è trattato di un fuoco fortuito, di un’accensione passeggera che già sta per spegnersi, di una parentesi che forse si è già chiusa. No, si è trattato di un risveglio di coscienza unitaria e nazionale, le cui tracce restano e i cui frutti sono ancora largamente da cogliere. Non ci porti fuori strada l’impressione che appena dopo aver finito di celebrare il Centocinquantenario in un clima festoso e riflessivo, aperto e solidale, si sia ritornati alle abituali contrapposizioni, alle incomunicabilità, alle estreme partigianerie della politica quotidiana.
Quel lievito di nuova consapevolezza e responsabilità condivisa che ha fatto crescere le celebrazioni del Centocinquantenario continuerà a operare sotto la superficie delle chiusure e rissosità distruttive, e non favorirà i seminatori di divisione, gli avversari di quel cambiamento di cui l’Italia e gli italiani hanno bisogno per superare le ardue prove di oggi e di domani.
Giorgio Napolitano
* Avvenire, 23 novembre 2011
Ma la ragione è un bene comune
di Luigi La Spina (La Stampa, 15/05/2010
All’apparenza, un’analisi, dotta e pacata, sui rapporti tra Stato e Chiesa, soprattutto negli ultimi due secoli. In realtà, un grido d’allarme, preoccupato e appassionato, sui rischi, per la civile convivenza tra laici e cattolici, del fondamentale spostamento operato da Benedetto XVI nel magistero ecclesiale: dal binomio «verità-fede» alla coincidenza «verità-ragione».
Questo «travestimento» del più recente libro di Gustavo Zagrebelsky potrebbe freudianamente scoprire il motivo che ha spinto l’autore a intitolare il volume prendendo a prestito una immagine di Thomas Mann. Il grande romanziere tedesco scriveva che religione e politica si sono abituate, lungo i secoli, a «scambiarsi la veste», combattendosi o alleandosi, per indossare l’una i panni dell’altra.
Il costituzionalista torinese mette subito in luce perché tra la Chiesa cattolica e lo Stato, almeno quello laico e democratico, il contrasto sia, in linea di principio, insuperabile. La pretesa universalistica di questa religione propone inevitabilmente la sua dottrina morale a tutti gli uomini, non solo ai fedeli. Ecco perché la Chiesa cattolica non si può rassegnare a vivere in uno Stato pluralista, garante della libera convivenza di tutte le fedi. Il contesto relativista, contrassegno identitario della democrazia liberale, dovrebbe implicare, infatti, la sua rinuncia alla predicazione di una verità assoluta.
Di fronte a questa antinomia teorica, la Chiesa ha cercato, dalla metà dell’Ottocento, una strada che riconoscesse, nei fatti, il pluralismo, ma che non la costringesse a rinnegare quella pretesa di universalità del suo messaggio.
Zagrebelsky individua tre tappe fondamentali di questo tentativo: la prima corrisponde all’offerta della religione cattolica nella veste di «dottrina sociale». La svolta compiuta da Leone XIII, nell’ultimo periodo del XIX secolo, soprattutto con l’enciclica Rerum novarum. La seconda, con il Concilio vaticano del 1962-1965, punta a una concezione religiosa fondata sulla difesa della dignità dell’esistenza umana. La terza, quella individuata dall’attuale pontefice, declina la predicazione cattolica come religione civile, àncora di salvezza delle democrazie in autodecomposizione.
E’ proprio su quest’ultima «veste», per richiamare il titolo del libro, che si appuntano le preoccupazioni dell’autore. Se la verità proclamata dal messaggio cattolico non si fonda sulla fede, ma sulla ragione, patrimonio di tutti gli uomini, credenti e non credenti, non sono più ammessi limiti, contraddizioni, eccezioni all’adesione universale nei confronti di questa religione e dei suoi precetti. «Il rapporto col mondo di una simile autorappresentazione della Chiesa - scrive Zagrebelsky - difficilmente può concepirsi in termini amichevoli: si tratta di essere conquistati o di conquistare... è la riproposizione, in forma intellettualistica, del tradizionale principio: extra Ecclesiam nulla salus, con tutta la sua portata d’intolleranza e la naturale tendenza della religione a farsi religione di Stato».
Possono sembrare timori eccessivi quelli di Zagrebelsky, in un clima di consolidata secolarizzazione. Ma l’ex presidente della Corte Costituzionale ravvisa proprio nell’indifferenza, impronta tipica delle nostre democrazie liberali, «la condizione in cui tutto può avvenire e anche i progetti più arrischiati possono avere chances di successo, se non perché suscitano adesione, almeno perché non suscitano reazioni».
L’intenzione profonda del costituzionalista, con queste parole, è «svelata»: lanciare una scossa perché il mondo laico avverta il rischio di una rottura di quell’armistizio tra Chiesa e Stato indispensabile perché un conflitto, teoricamente ineliminabile, trovi la possibilità di una collaborazione, nel segno della saggezza intellettuale e della compassione umana. Si tratta di un appello alla «ragione pubblica», come la chiama Zagrebelsky, quello spazio democratico che non confini la religione nel campo delle convinzioni da esprimere solo in privato. Ma, pur ammettendola nella fondazione della società civile, neghi a qualsiasi concezione particolare la pretesa di possedere una verità assoluta, tale da imporla a tutti.
La postmodernità secondo Bauman
di Zygmunt Bauman
Anticipiamo un brano del libro di "Modernità e ambivalenza" pubblicato da Bollati Boringhieri e in uscita in questi giorni. *
Il crollo delle "grandi narrazioni" (come le definisce Lyotard) - il dissolversi della fede nelle corti d’appello sovraindividuali e sovracomunitarie - è stato visto con timore da molti osservatori, come un invito a una situazione del tipo "tutto va bene", alla permissività universale e dunque, alla fine, alla rinuncia a ogni ordine morale e sociale. Memori della massima di Dostoevskij «Se Dio non esiste, tutto è permesso», e dell’identificazione durkheimiana del comportamento asociale con l’indebolirsi del consenso collettivo, siamo giunti a credere che, a meno che un’autorità imponente e indiscussa - sacra o secolare, politica o filosofica - non incomba su ogni individuo, il futuro ci riserverà probabilmente anarchia e carneficina universale. Questa credenza ha efficacemente sostenuto la moderna determinazione a instaurare un ordine artificiale: un progetto che sospettava di ogni spontaneità finché non se ne provava l’innocenza; un progetto che metteva al bando tutto ciò che non era esplicitamente prescritto e identificava l’ambivalenza con il caos, con la "fine della civiltà" così come la conosciamo e potremmo immaginarla.
Forse la paura scaturiva dalla coscienza repressa che il progetto era condannato fin dal principio; forse era coltivata deliberatamente, dal momento che svolgeva l’utile ruolo di baluardo emotivo contro il dissenso; forse era solo un effetto collaterale, un ripensamento intellettuale nato dalla pratica sociopolitica della crociata culturale e dell’assimilazione forzata. In un modo o nell’altro, la modernità decisa a demolire ogni differenza non autorizzata e tutti i modelli di vita ribelli non poteva che concepire l’orrore per la deviazione e trasformare la deviazione in sinonimo di diversità. Come commentano Adorno e Horkheimer, la cicatrice intellettuale ed emotiva permanente lasciata dal progetto filosofico e dalla pratica politica della modernità è stata la paura del vuoto; e il vuoto era l’assenza di uno standard vincolante, inequivocabile e applicabile a livello universale.
Della popolare paura del vuoto, dell’ansia nata dall’assenza di istruzioni chiare che non lascino nulla alla straziante necessità della scelta, siamo informati dai racconti preoccupati degli intellettuali, interpreti designati o autodesignati dell’esperienza sociale. I narratori però non sono mai assenti dalla loro narrazione, ed è un compito disperato quello di provare a separare la loro presenza dalle loro storie. È possibile che in generale ci fosse una vita fuori dalla filosofia, e che questa vita non condividesse le preoccupazioni dei narratori; che se la passasse piuttosto bene anche senza essere disciplinata da standard di verità, bontà e bellezza provati razionalmente e approvati filosoficamente.
È possibile persino che molta di questa vita fosse vivibile, ordinata e morale proprio perché non era ritoccata, manipolata e corrotta dagli agenti autoproclamati della "necessità universale". Ma non c’è dubbio sul fatto che una particolare forma di vita non possa passarsela bene senza il sostegno di standard universalmente vincolanti e apoditticamente validi: si tratta della forma di vita dei narratori stessi (più precisamente, la forma di vita che contiene le storie narrate per gran parte della storia moderna).
È stata soprattutto quella forma di vita a perdere il suo fondamento una volta che i poteri sociali hanno abbandonato le loro ambizioni ecumeniche, e a sentirsi dunque minacciata più di chiunque altro dal dissolversi delle aspettative universalistiche. Finché i poteri moderni si sono aggrappati con risolutezza all’intenzione di costruire un ordine più efficace, guidato dalla ragione e dunque in definitiva universale, gli intellettuali non hanno avuto grande difficoltà ad articolare la loro rivendicazione a un ruolo cruciale nel processo: l’universalità era il loro dominio e il loro campo di specializzazione.
Finché i poteri moderni hanno insistito sull’eliminazione dell’ambivalenza come misura del miglioramento sociale, gli intellettuali hanno potuto considerare il loro lavoro - la promozione di una razionalità universalmente valida - come veicolo principale e forza trainante del progresso. Finché i poteri moderni hanno continuato a denigrare, mettere al bando e sfrattare l’Altro, il diverso, l’ambivalente, gli intellettuali hanno potuto contare su un massivo supporto alla loro autorità di giudicare e di distinguere il vero dal falso, la conoscenza dalla mera opinione.
Come il protagonista adolescente dell’Orfeo di Jean Cocteau, convinto che il sole non sorgesse senza la serenata della sua chitarra, gli intellettuali si sono convinti che il fato della moralità, della vita civile e dell’ordine sociale dipendesse dalla loro soluzione del problema dell’universalità: dalla loro capacità di fornire la prova decisiva e definitiva del fatto che il "dovere" umano sia inequivocabile, e che la sua inequivocabilità abbia fondamenti incrollabili e totalmente affidabili.
Questa convinzione si è tradotta in due credenze complementari: che non ci sarebbe stato niente di buono nel mondo, a meno che non ne fosse provata la necessità; e che provare questa necessità, se e quando ci si fosse riusciti, avrebbe avuto sul mondo un effetto simile a quello attribuito agli atti legislativi di un governante: avrebbe sostituito il caos con l’ordine e reso trasparente ciò che era opaco.
L’effetto più spettacolare e durevole dell’ultima battaglia della verità assoluta non è stato tanto la sua inconcludenza, derivante come direbbero alcuni dagli errori di progetto, ma la sua totale irrilevanza per il destino mondano di verità e bontà. Questo destino è stato deciso molto lontano dalle scrivanie dei filosofi, giù nel mondo della vita quotidiana dove infuriavano le lotte per la libertà politica e dove si spingevano avanti e si ricacciavano indietro i confini dell’ambizione statale di legiferare sull’ordine sociale, di definire, segregare, organizzare, costringere e reprimere.
* la Repubblica, 12 maggio 2010