di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 14.06.2008)
Berlusconi è intenzionato a dimostrare che - per governare la crisi italiana, come vuole che noi l’immaginiamo - è costretto per necessità a separare lo Stato dal diritto, la decisione dalla legge, l’ordine giuridico dalla vita. Come se il Paese attraversasse una terra di nessuno.
Così critica, oscura e sinistra da rendere urgente e senza alternative un potere di regolamentazione così esteso da modificare e abrogare con decreti le leggi in vigore. Con il «decreto sicurezza» (alla voce immigrati) e con il «decreto Napoli», è stato chiaro che Berlusconi intende muoversi in uno «stato di eccezione». Ha deciso di esercitare il suo potere secondo un tecnica che gli impone di creare - volontariamente e in modo artefatto - una necessità dopo l’altra, giorno dopo giorno, quale che siano le priorità più autentiche e dolorose del Paese. Nonostante quel che si può pensare, infatti, la necessità non è una situazione oggettiva, implica soltanto un giudizio o una valutazione personale. In fondo, sono straordinarie e urgenti soltanto le circostanze definite tali: quel che, come tali, definisce il Cavaliere.
Il quinto consiglio dei Ministri del Berlusconi IV ha dichiarato l’assoluta necessità di ridimensionare l’azione dei giudici; di limitare il diritto di cronaca; di declinare le ragioni dello Stato con l’esibizione, la forza, le armi dell’Esercito. E’ finora il caso più emblematico ed esplicito di quel che abbiamo definito la «militarizzazione della politica». Non è mai avvenuto in Italia che i soldati fossero chiamati a far fronte all’ordine pubblico o al controllo delle città. Nemmeno nei terribili mesi che seguirono alla morte di Falcone e Borsellino, all’aperta sfida lanciata contro lo Stato dalla Cosa Nostra di Totò Riina. In quell’occasione, l’Esercito si limitò a proteggere, con "posti fissi", gli edifici pubblici e i luoghi "sensibili" liberando dall’impegno non investigativo le forze di polizia. La decisione del governo di «parificare» 2.500 soldati «agli agenti di pubblica sicurezza» con «compiti di pattugliamento e perlustrazione» delle città inaugura una nuova, inedita stagione. Evocando ragioni (necessità) di «ordine pubblico» e «sicurezza» avvicina, sovrappone il diritto alla violenza. Assegnata all’Esercito, altera il suo segno la funzione amministrativa della polizia, chiamata a rendere esecutivo il diritto. Quella funzione e presenza si fa intimidazione. Non solo per chi trasgredisce, ma per tutti coloro che non credono «democratico» che il governo sostenga le sue decisioni con la violenza. Nello slittamento del legittimo esercizio del potere verso un arbitrario diritto della forza, come non avvertire il rischio che chiunque dissenta sia considerato un "criminale" perché avversario di una «decisione assoluta» che sola può assicurare la «governabilità» e l’uscita dalla crisi? Non è questa l’idea politica, il paradigma di governo, addirittura il fondo sublogico che consiglia a Berlusconi di intervenire anche contro la magistratura limitando l’uso delle intercettazioni o contro l’informazione, promettendo il carcere a chi pubblica il testo o il riassunto di "un ascolto"?
Magistratura e informazione, i due ordini che, in un’equilibrata architettura di checks and balances, sono le istituzioni di controllo dei poteri, diventano in questo quadro i pericolosi agenti attivi e degenerati del declino da affrontare. «Nemici», perché impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l’urgenza di un provvedimento legislativo che Berlusconi avrebbe voluto con immediata forza di legge. E’ stato costretto a una marcia indietro dal capo dello Stato e, dalla Lega, a una correzione che autorizza le intercettazioni anche per i reati contro la pubblica amministrazione. Ma il disegno di legge, se non sarà corretto in Parlamento, dissemina l’iter investigativo e la sua efficacia di intralci, intoppi, legacci, esclusioni, vuoti, bizzarri obblighi (se l’indagato è un vescovo bisognerà avvertire il segretario di Stato vaticano, cioè il ministro di un altro Stato). Sono ostacoli che salvaguardano le pratiche più spregiudicate dei colletti bianchi, rendono più fragile la sicurezza dei più deboli, senza proteggere davvero alcuna privacy. I corifei del sovrano diffondono numeri farlocchi sul passato, mai spiegano perché non chiudono le falle nella rete dei gestori di telefonia, venute alle luce con l’affare Telecom. Né svelano all’opinione pubblica come e se daranno mai conto dell’uso delle «intercettazioni preventive» che oggi, al di fuori del processo penale e di ogni tipo di controllo giurisdizionale, possono essere effettuate dalle polizie e, dal 2005, anche dai servizi segreti su delega del presidente del Consiglio con l’autorizzazione del procuratore presso la Corte d’Appello.
Non è la privacy del cittadino che interessa a Berlusconi. Gli interessa soltanto la sua privacy e la sua immagine, l’annullamento di un paio di conversazioni con Agostino Saccà, l’oblio di altre in cui di lui si parla. Intende creare una sorta di «diritto positivo della crisi» che impone al giudice di che cosa occuparsi in ossequio alla funzionalità della decisione politica, presentata come necessaria e univoca. Vuole giornalisti silenziosi, intimiditi dalla minaccia del carcere. Vuole editori spaventati dalle possibili, gravi penitenze economiche.
Il soldato come questurino, il giudice come chierico, il giornalista come laudatore sono le tre figure di una scena politica che minaccia di trasformare radicalmente la struttura e il senso della nostra forma costituzionale. Sono i fantasmi di un tempo sospeso dove il governo avrà più potere e il cittadino meno diritti, meno sicurezza, meno garanzie.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
“Bella ciao" e Tom Waits canta come un partigiano
di Gino Castaldo (la Repubblica, 14.09.2018)
Ha scelto bene Tom Waits come riapparire dopo due anni di silenzio: una straziante e profonda versione di Bella ciao, sentito omaggio all’Italia e alla sua lotta contro il fascismo, suggerito da una incredibile e inaspettata popolarità di cui all’estero sta godendo l’inno partigiano. Anzi a sentire il suo vecchio compagno di strada, il chitarista Marc Ribot (che esce oggi col progetto anti-Trump Song of Resistance 1948- 2018),
Waits l’ha scelta senza esitare nel mazzo di pezzi che gli aveva proposto, una ricca scelta di canti di opposizione scovati nella storia degli ultimi decenni. Certo, l’arcinota melodia diventa ufficialmente Goodbye beautiful, ma per onorare come si conviene l’originale, Waits ha lasciato alcune parole in italiano, compreso un ruvido e strascicato "partisciano" che ammalia come un esperto colpo da maestro.
Racconta Ribot che quando la fece ascoltare in anteprima ai suoi amici italiani gli dissero che la voce di Tom suonava proprio come quella di un vecchio partigiano. E infatti è ruvida, disperata, un’elegia più che un canto di protesta, un urlo di dolore di fronte all’avanzata inesorabile del male, dei nemici della libertà e della democrazia. Ed è solo l’ultimo capitolo, di certo il più autorevole, di una straordinaria catena che sta rilanciando nel mondo il nostro più famoso e condiviso canto di Resistenza.
Ci ha pensato la serie spagnola La casa di carta e a seguire un mare di remix e mash-up che hanno trasformato Bella ciao addirittura in un forsennato pezzo da discoteca, con esempi al limite del buon gusto, anzi decisamente oltre, fino al magistrale tocco di classe di Tom Waits, all’interno di un disco tutto ispirato ai canti lotta.
Dice Marc Ribot, che in passato ha collaborato anche con Vinicio Capossela, che arriva un momento in cui bisogna lasciare da parte timori e incertezze e che ogni movimento di opposizione ha bisogno delle sue canzoni. Il suo disco può servire da memoria storica, tanto per ricordare com’è che si faceva, e del resto il governo Trump, insiste Ribot, va combattuto in ogni modo.
E l’Italia musicale? Per ora tace, e a ricordare Bella ciao ci pensano gli stranieri, perfino gli eroi della dance come l’olandese Tiesto. Da noi il testimone non è stato ancora raccolto. E invece sarebbe bello "rispondere" a Tom Waits, allungare la catena, riprendersela, sarebbe bello che a rilanciarla, a darle nuova vita ci pensasse qualche rapper nostrano, un rocker in vena di riscoprire il linguaggio dell’antagonismo. O dobbiamo pensare che oggi un pezzo come Bella ciao serva solo all’America di Trump?
Il colpo di stato d’autunno
Nei prossimi mesi la maggioranza politica tenterà di attuare il più devastante disegno autoritario dal dopoguerra in poi
di Luigi De Magistris (l’Unità 30.8.2009)
Credo che il popolo italiano debba essere consapevole che la maggioranza politica di ispirazione piduista tenterà di utilizzare le Istituzioni per portare a compimento nei prossimi mesi il più devastante disegno autoritario mai concepito dal dopoguerra in poi. Un vero golpe d’autunno.
Da un punto di vista istituzionale si cercherà di rafforzare il progetto presidenzialista di tipo peronista disegnato su misura dell’attuale Premier. Poteri assoluti al Capo dello Stato eletto dal popolo. Elezioni supportate dalla propaganda di regime costruita attraverso il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione. Il Parlamento coerentemente ad un assetto autoritario e verticistico del potere ridotto ad organo di ratifica dei desiderata dell’esecutivo con le opposizioni democratiche messe in condizione di esercitare mera testimonianza. La distruzione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura attraverso la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo con modifiche costituzionali realizzate illegittimamente con legge ordinaria (quale quella che subordina il Pm all’iniziativa della polizia giudiziaria e, quindi, del governo), nonché attraverso la mortificazione del suo ruolo attraverso leggi quale quella che elimina di fatto le intercettazioni (rafforzando quindi la cd. microcriminalità in modo, poi, da invocare poteri straordinari per combatterla).
La revisione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura - non però nella direzione di liberare tali fondamentali organi dalle influenze partitiche e di poteri che pure sono presenti - ma attraverso il rafforzamento della componente politica e partitocratica. La soppressione della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione formalizzando normativamente la scomparsa dei fatti. La disintegrazione della scuola pubblica, dell’università e della ricerca, in modo da favorire il consolidamento della sub-cultura di regime, quella per intenderci che ha realizzato il mito del «papi», ossia del padrone che dispensa posti e prebende.
Il prossimo Presidente della Repubblica - il desiderio dei nuovi peronisti è ovviamente quello che Berlusconi diventi il Capo, il Capo di tutto e di tutti dovrà avere ampi poteri e con questi anche il comando delle forze armate (dopo aver già ottenuto la gestione della sicurezza attraverso la sua privatizzazione con l’utilizzo delle ronde da lanciare magari a caccia di immigrati e omosessuali) in modo da poter governare anche eventuali conflitti sociali con la forza.
Sul piano economico e del lavoro la maggioranza prepara la repressione al dissenso ed al conflitto sociale causato da un disegno che punta a rafforzare le disuguaglianze attraverso una politica economica che consolida sempre più i poteri forti e squilibra fortemente il Paese come nei regimi (chi ha già tanto deve avere di più, mentre sempre di più saranno quelli che non riescono ad arrivare alla fine del mese), con l’assenza del contrasto all’evasione fiscale e l’approvazione di norme che rafforzano il riciclaggio del denaro sporco. Il furto delle risorse pubbliche che vanno a finire nelle tasche dei soliti comitati d’affari. Il mancato adeguamento dei salari al costo della vita. L’incapacità di favorire l’iniziativa economica privata fondata sulla libera concorrenza supportando, invece, la rapacità dei soliti prenditori. L’assenza di strategia che possa rilanciare il lavoro pubblico e privato fondandolo sulla meritocrazia e non sul privilegio e sull’occupazione della cosa pubblica (come, per fare un esempio, nella sanità). Assenza di politiche economiche fondate su sviluppo e lavoro, tutela delle risorse e rispetto della natura e della vita. Il saccheggio, in definitiva, della nostra «Storia».
Un progetto contro il nostro futuro. Il colpo di Stato apparentemente indolore ed a tratti invisibile reso possibile dall’istituzionalizzazione delle mafie, dalla loro penetrazione nelle articolazioni economiche e pubbliche del Paese, dal loro controllo del territorio, dalla capacità di neutralizzare la resistenza costituzionale. Un golpe senza armi ma intriso di violenza morale con l’utilizzo del diritto illegittimo,della creazione di norme in violazione della Costituzione. L’eversione attraverso l’uso di uno schermo legale. L’uccisione della democrazia dal suo interno. È necessario, quindi, che si realizzino subito le condizioni per una grande mobilitazione civile, sociale e politica che si opponga a questo disegno autoritario che stravolge gli equilibri costituzionali e l’assetto democratico del nostro Paese.
La maggioranza richiesta era di 273
Via libera dalla Camera al Lodo Alfano
I sì sono stati 309, i no 236, 30 gli astenuti. La norma, che prevede l’immunità per le 4 massime cariche dello Stato, dovrebbe essere votata in Senato prima della pausa estiva. Passa un emendamento del Pd sulla ’’non reiterabilità’’. Soddisfatto il Guardasigilli: ’’Testo migliorato’’. Ma Veltroni attacca: ’’Leggi ad personam’’. D’Alema: ’’Berlusconi rinunci e affronti il giudizio a testa alta’’. Caso Mills, da Csm risoluzione a tutela dei magistrati citati dal premier
Roma, 10 lug. (Adnkronos/Ign) - Sì della Camera al ’Lodo Alfano’. Arriva il primo via libera al provvedimento che consente la sospensione dei procedimenti giudiziari a carico delle quattro alte cariche dello Stato. Scontato il sì del centrodestra, si astiene l’Udc, votano contro il Partito democratico e l’Idv. Alla fine 309 sì, 236 no, 30 astenuti. Ora il testo andrà all’esame del Senato e dovrebbe essere votato prima della pausa estiva, mentre l’Assemblea di Montecitorio da domani si prepara ad affrontare il decreto legge sicurezza e c’è attesa per conoscere il destino della cosiddetta norma ’blocca processi’, che a questo punto dovrebbe essere radicalmente modificata.
"Siamo contenti, crediamo di aver fatto un buon lavoro", commenta soddisfatto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano. "Abbiamo migliorato il testo che era venuto fuori dal Consiglio dei ministri - aggiunge il Guardasigilli - accettando un emendamento dell’opposizione che era già nella lettera della legge, ovvero il fatto che dopo la legislatura di copertura e di tutela delle alte cariche, non vi potesse essere un ulteriore utilizzo della medesima norma anche in caso passaggio ad un’altra funzione. Questo emendamento lo ha specificato meglio e noi lo abbiamo accolto".
Alfano ha poi ripetuto che il lodo non è un provvedimento ad personam, tagliato a misura per Silvio Berlusconi, ma "risponde alle esigenze del Paese e riteniamo possa rispondere alle esigenze di far svolgere serenamente il proprio lavoro alle alte cariche dello Stato". Berlusconi, "dopo aver brillantemente vinto le elezioni, merita di governare serenamente questo Paese e il Paese ha bisogno di essere governato. Siamo molto soddisfatti".
Ma dall’opposizione il leader del Pd Walter Veltroni attacca, parlando in aula alla Camera, il governo Berlusconi : "Siamo tornati al passato come ci fosse una maledizione". Veltroni critica sia le forzature con cui sta procedendo, sia i provvedimenti che, come il ’lodo Alfano’ e prima il ’salva Rete4’ , sono "obiettivamente leggi per una persona". Il segretario del Pd denuncia che la politica italiana di oggi sembra destinata a "replicare il passato, potremmo essere nel 2001, nel 2004 o nel 1998".
Da parte sua, Massimo D’Alema ha invitato con un ’’consiglio amichevole’’, il presidente del Consiglio a ’’rinunciare e affrontare il giudizio a testa alta’’. L’ex vicepremier, pur apprezzando ’’la rinuncia a una misura come l’emendamento blocca processi, che per bloccare un processo ne avrebbe fermati molti’’, definisce il lodo una ’’soluzione pasticciata e confusa’’ e chiede che il Parlamento torni a discutere di un tema delicato come la giustizia su cui il ’’confronto è stato compromesso da scelte frettolose e arbitrarie’’. ’’Ritengo che in definitiva questa leggina rappresenti un errore politico’’, spiega.
La giornata era iniziata con il no dell’aula di Montecitorio (296 voti contrari) alle due pregiudiziali di costituzionalità presentate dal Pd, quindi si era passati all’esame i 283 emendamenti al disegno di legge.
L’ANALISI
Il morso del Caimano
di CURZIO MALTESE *
È un po’ ingenuo, anzi molto, stupirsi che Berlusconi sia tornato Caimano. Se esiste una persona fedele a se stessa, oltre ogni umana tentazione di dubbio o di noia, questa è il Cavaliere. Era così già molto prima della discesa in politica, con la sua naturale carica eversiva, il paternalismo autoritario, l’amore per la scorciatoia demagogica e il disprezzo irridente per ogni contropotere democratico, a cominciare dalla magistratura e dal giornalismo indipendenti, l’insofferenza per le regole costituzionali, appresa alla scuola della P2.
Il problema non è mai stato quanto e come possa cambiare Berlusconi, che non cambia mai. Piuttosto quanto e come è cambiata l’Italia, che in questi quindici anni è cambiata moltissimo. In parte grazie all’enorme potere mediatico del premier.
Ogni volta che Berlusconi ha conquistato Palazzo Chigi ha provato a forzare l’assetto costituzionale e per prima cosa ha attaccato con violenza la magistratura. Lo ha fatto nel 1994 con il decreto Biondi, primo atto di governo; nel 2001, quando i decreti d’urgenza sulla giustizia furono presentati prima ancora di ricevere la fiducia; e oggi. Con una escalation di violenza nei toni e, ancor di più, nei contenuti dei provvedimenti.
Il pacchetto giustizia di oggi è più eversivo della Cirami e del lodo Schifani, a sua volta più eversivi del "colpo di spugna" del ’94. Ma, alla crescente forza delle torsioni imposte da Berlusconi agli assetti democratici, ha corrisposto una reazione dell’opinione pubblica sempre più debole. Nel ’94 la rivolta contro la "salva-ladri" azzoppò da subito un governo destinato a durare pochi mesi. Nel 2001 i "girotondi" inaugurarono una stagione di movimenti, con milioni di persone nelle piazze, che si tradussero fin dal primo anno in una serie di pesanti sconfitte elettorali per la maggioranza di centrodestra, pure larghissima in Parlamento.
La terza volta, questa, in presenza di un tentativo ancora più clamoroso di far saltare i cardini della magistratura indipendente, la reazione è molto debole. L’opposizione, accantonate le illusioni di dialogo, annuncia una stagione di lotte, ma non ora, in autunno. La cosiddetta società civile sembra scomparsa dalla scena. I magistrati sono gli unici a ribellarsi con veemenza, ma sembrano isolati, almeno nei sondaggi. Quasi difendessero la propria corporazione e non i diritti e la libertà di tutti, così come l’hanno disegnata i padri della Costituzione.
Ecco che la questione non è che cosa sia successo a Berlusconi (nulla), ma che cosa è successo al Paese. Siamo davvero diventati un "paese un po’ bulgaro", come si è lasciato sfuggire il demiurgo pochi giorni fa? La risposta, purtroppo, è sì.
In questo quarto di secolo che non ha cambiato Berlusconi, l’Italia è cambiata molto e in peggio, il tessuto civile e sociale si è logorato, il senso comune è stato modellato su pulsioni autoritarie. Molti discorsi che si sentono negli uffici, nei bar, sulle spiagge oggi, da tutti e su tutto, si tratti di immigrazione o di giustizia, di diritti civili come di religione, di Europa o di sindacati, nell’Italia del ’94 sarebbero stati inimmaginabili.
Il berlusconismo è partito dalla pancia di un Paese dove la democrazia non si è mai compiuta fino in fondo, per mille ragioni (ragioni di destra e di sinistra), ma ora ha invaso tutti gli organi della nazione ed è arrivato al cervello. La mutazione genetica della società italiana è evidente a chi ci guarda da fuori. Perfino negli aspetti superficiali, di pelle: non eravamo mai stati un popolo "antipatico", com’è oggi. Più seriamente, il ritorno di Berlusconi al potere e le sue prime e devastanti uscite hanno evocato i peggiori fantasmi sulla scena internazionale.
Si tratta però di vedere se il "caso Italia" è tale anche per gli italiani. Se nell’opinione pubblica esistano ancora quei reagenti democratici che hanno impedito nel ’94 e nel 2001 la deriva, più o meno morbida, verso un regime. I segnali sono contraddittori, la partita è aperta. Certo, in questi decenni la forza d’urto del populismo berlusconiano è andata crescendo, così come la presa su pezzi sempre più ampi di società. Non si tratta soltanto di potere delle televisioni o dell’editoria, ma di una vera e propria egemonia culturale. E sorprende che nell’opposizione, gli ex allievi di Gramsci, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non comprendano i meccanismi e la portata della strategia in atto.
Altro che "l’onda lunga" di craxiana memoria. Anche loro, purtroppo, non cambiano mai. Si erano illusi (ancora!) di trasformare Berlusconi in uno statista, offrendogli un tavolo di trattative. S’illudono (ancora!) di poter resistere con la politica del "giù le mani" e con l’arroccarsi nelle regioni rosse, che sono già rosa pallido e rischiano prima o poi di finire grigie o nere. In attesa di tempi migliori.
Non ci saranno tempi migliori per l’opposizione. Bisogna trovare qui e ora il coraggio di proposte forti e alternative al pensiero unico dominante, invenzioni in grado di suscitare dibattito e bucare così la plumbea egemonia "bulgara" dell’agenda governativa. Bisogna farsi venire qualche idea, anzi molte, una al giorno, per svegliare l’opinione pubblica democratica dal torpore ipnotico con cui segue gli scatti in avanti di Berlusconi. Lo stesso torpore ipnotico che coglie la preda davanti alle mosse del caimano. Che alla fine, attacca.
* la Repubblica, 21 giugno 2008.
Intercettazioni: e allora arrestateci tutti
di Marco Travaglio *
L’altro giorno, fingendo di avanzare un’«ipotesi di dottrina», Giovanni Sartori ha messo in guardia sulla Stampa dai «dittatori democratici» e ha spiegato: «Con Berlusconi il nostro resta un assetto costituzionale in ordine, la Carta della Prima Repubblica non è stata abolita. Perché non c’è più bisogno di rifarla: la si può svuotare dall’interno».
«Si impacchetta la Corte costituzionale, si paralizza la magistratura. si può lasciare tutto intatto, tutto il meccanismo di pesi e contrappesi. E di fatto impossessarsene, occuparne ogni spazio. Alla fine rimane un potere ’transitivo’ che traversa tutto il sistema politico e comanda da solo». Non poteva ancora sapere quel che sarebbe accaduto l’indomani: il governo non solo paralizza la magistratura, ma imbavaglia anche l’informazione abolendo quella giudiziaria. E, per chi non avesse ancora capito che si sta instaurando un regime, sguinzaglia pure l’esercito per le strade. Nei giorni scorsi abbiamo illustrato i danni che il ddl Berlusconi-Ghedini-Alfano sulle intercettazioni provocherà sulle indagini e i processi. Ora è il caso di occuparci di noi giornalisti e di voi cittadini, cioè dell’informazione. Che ne esce a pezzi, fino a scomparire, per quanto riguarda le inchieste della magistratura. Il tutto nel silenzio spensierato e irresponsabile delle vestali del liberalismo e del garantismo un tanto al chilo. Che, anzi, non di rado plaudono alle nuove norme liberticide. Non si potrà più raccontare nulla, ma proprio nulla, fino all’inizio dei processi. Cioè per anni e anni. Nemmeno le notizie «non più coperte da segreto», perché anche su quelle cala un tombale «divieto di pubblicazione» che riguarda non soltanto gli atti e le intercettazioni, ma anche il loro «contenuto». Non si potrà più riportarli né testualmente né «per riassunto». Nemmeno se non sono più segreti perché notificati agli indagati e ai loro avvocati. Niente di niente. L’inchiesta sulla premiata macelleria Santa Rita, con la nuova legge, non si sarebbe mai potuta fare. Ma, anche se per assurdo si fosse fatta lo stesso, i giornali avrebbero dovuto limitarsi a comunicare che erano stati arrestati dei manager e dei medici: senza poter spiegare il perché, con quali accuse, con quali prove.
Anche l’Italia, come i regimi totalitari sudamericani, conoscerà il fenomeno dei desaparecidos: la gente finirà in galera, ma non si saprà il perché. Così, se le accuse sono vere, le vittime non ne sapranno nulla (i famigliari dei pazienti uccisi nella clinica milanese, che stanno preparando una class action contro i medici assassini, sarebbero ignari di tutto e lo resterebbero fino all’apertura del processo, campa cavallo). Se le accuse invece sono false (come nel caso di Rignano Flaminio, smontato dalla libera stampa), l’opinione pubblica non potrà più sapere che qualcuno è stato ingiustamente arrestato, né come si difende: insomma verrà meno il controllo democratico dei cittadini sulla Giustizia amministrata in nome del popolo italiano.
Chi scrive qualcosa è punito con l’arresto da 1 a 3 anni e con l’ammenda fino a 1.032 euro per ogni articolo pubblicato. Le due pene - detentiva e pecuniaria - non sono alternative, ma congiunte. Il che significa che il carcere è sempre previsto e, anche in un paese dov’è difficilissimo finire dentro (condizionale fino a 2 anni, pene alternative fino a 3), il giornalista ha ottime probabilità di finirci: alla seconda o alla terza condanna per violazione del divieto di pubblicazione (non meno di 9 mesi per volta), si superano i 2 anni e si perde la condizionale; alla quarta o alla quinta si perde anche l’accesso ai servizi sociali e non resta che la cella. Checchè ne dica l’ignorantissimo ministro ad personam Angelino Alfano.
E non basta, perché i giornalisti rischiano grosso anche sul fronte disciplinare: appena uno viene indagato per aver informato troppo i suoi lettori, la Procura deve avvertire l’Ordine dei giornalisti affinchè lo sospenda per 3 mesi dalla professione. Su due piedi, durante l’indagine, prim’ancora che venga eventualmente condannato. A ogni articolo che scrivi, smetti di lavorare per tre mesi. Se scrivi quattro articoli, non lavori per un anno, e così via.Così ti passa la voglia d’informare. Anche perché, oltre a pagare la multa, finire dentro e smettere di lavorare, rischi pure di essere licenziato. D’ora in poi le aziende editoriali dovranno premunirsi contro eventuali pubblicazioni di materiale vietato, con appositi modelli organizzativi, perché il «nuovo» reato vien fatto rientrare nella legge 231 sulla responsabilità giuridica delle società. Significa che l’editore, per non vedere condannata anche la sua impresa, deve dimostrare di aver adottato tutte le precauzioni contro le violazioni della nuova legge. Come? Licenziando i cronisti che pubblicano troppo e i direttori che glielo consentono. Così usciranno solo le notizie che interessano agli editori:quelle che danneggiano i loro concorrenti o i loro nemici (nel qual caso l’editore si sobbarca volentieri la multa salatissima prevista dalla nuova legge, da 50 mila a 400 mila euro per ogni articolo, e accetta di buon grado il rischio di veder finire in tribunale la sua società). La libertà d’informazione dipenderà dalle guerre per bande politico-affaristiche tra grandi gruppi. E tutte le notizie non segrete non pubblicate? Andranno ad alimentare un sottobosco di ricatti incrociati e di estorsioni legalizzate: o paghi bene, o ti sputtano. Ultima chicca: il sacrosanto diritto alla rettifica di chi si sente danneggiato o diffamato, già previsto dalla legge attuale, viene modificato nel senso che la rettifica dovrà uscire senza la replica del giornalista. Se Tizio, dalla cella di San Vittore, scrive al giornale che non è vero che è stato arrestato, il giornalista non può nemmeno rispondere che invece è vero, infatti scrive da San Vittore. A notizia vera si potrà opporre notizia falsa, senza che il lettore possa più distinguere l’una dall’altra. Tutto ciò, s’intende, se i giornalisti si lasceranno imbavagliare senza batter ciglio.
Personalmente, annuncio fin d’ora che continuerò a informare i lettori senza tacere nulla di quel che so. Continuerò a pubblicare, anche testualmente, per riassunto, nel contenuto o come mi gira, atti d’indagine e intercettazioni che riuscirò a procurarmi, come ritengo giusto e doveroso al servizio dei cittadini. Farò disobbedienza civile a questa legge illiberale e liberticida. A costo di finire in galera, di pagare multe, di essere licenziato. Al primo processo che subirò, chiederò al giudice di eccepire dinanzi alla Consulta e alla Corte europea la illegittimità della nuova legge rispetto all’articolo 21 della Costituzione e all’articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali («Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche», con possibili restrizioni solo in caso di notizie «riservate» o dannose per la sicurezza e la reputazione). Mi auguro che altri colleghi si autodenuncino preventivamente insieme a me e che la Federazione della Stampa, l’Unione Cronisti, l’associazione Articolo21, oltre ai lettori, ci sostengano in questa battaglia di libertà. Disobbedienti per informare. Arrestateci tutti.
* l’Unità, Pubblicato il: 15.06.08, Modificato il: 15.06.08 alle ore 15.19
Intercettazioni, no al bavaglio
Giornalisti europei contro Alfano
Articolo 21: legge anticostituzionale *
Il ministro AlfanoL’assemblea della Federazione europea dei giornalisti, riunita a Berlino, ha votato all’unanimità un documento di condanna della stretta sulle intercettazioni voluta dal governo italiano e le sanzioni penali previste contro i giornalisti. «L’assemblea annuale della Federazione europea dei giornalisti - si legge nel testo approvato reso noto dalla Fnsi, presente a Berlino con il presidente Roberto Natale, il segretario Franco Siddi e col direttore Giancarlo Tartaglia - condanna il progetto di legge del governo italiano che, con la scusa della privacy, vuole stabile sanzioni penali - fino a tre anni di carcere - per i giornalisti che pubblichino informazioni o citino notizie di inchieste giudiziarie. È il caso soprattutto delle intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura. Questa è un’iniziativa - prosegue il documento - che mette il bavaglio ai giornalisti e impedisce ai cittadini di essere informati su temi d’interesse pubblico compresi nelle inchieste giudiziaria».
«Questo modo di procedere - è scritto ancora - è contrario ai principi universali dei diritti dei media e della loro funzione nelle democrazie moderne. I giornalisti, infatti, non devono nascondere le informazioni d’interesse generale, sia originate da fonti libere sia da fonti confidenziali, che essi hanno il dovere di proteggere. Il progetto di legge del governo italiano è contrario alle convenzioni internazionali e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. L’assemblea annuale della Fej sostiene il sindacato dei colleghi italiani, la Fnsi, nel suo contrasto, nella sua opposizione contro il disegno di legge e fa appello al Parlamento italiano a non approvarlo o a modificarlo profondamente».
Articolo 21: disegno di legge anticostituzionale «La magistratura potrebbe sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla corte costituzionale perchè il disegno di legge sulle intercettazioni limita la sua autonomia. La norma costituzionale che sarebbe violata è l’art.112 che prevede l’obbligo per il pm di esercitare l’azione penale. Questa norma verrebbe svuotata se il pm non avesse i mezzi per condurre l’azione penale...». È il parere autorevole dell’avvocato Domenico D’Amati, presidente del comitato giuridico di Articolo21 che interviene sul sito dell’associazione sul tema del ddl sulle intercettazioni.
«Non è difficile prevedere che - afferma D’Amati se il disegno di legge sulle intercettazioni sarà approvato dalle Camere e se la legge approvata sarà promulgata dal Presidente della Repubblica, Berlusconi avrà il suo caso Guantanamo davanti alla Corte Costituzionale. Il primo magistrato cui sarà chiesto di condannare alla reclusione un giornalista per aver dato notizia delle malefatte di qualche esponente della casta, emerse da intercettazioni in sede giudiziaria, manderà gli atti alla Consulta perchè annulli la nuova legge. E la Corte Costituzionale non sarà la sola a sancire l’abnormità di questo tentativo di ritorno ai tempi bui, perchè non mancheranno certo di pronunciarsi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Corte di Giustizia dell’Unione».
Per D’Amati, «un’altra ragione che potrà portare la legge sulle intercettazioni davanti alla Corte Costituzionale è che essa si presenta come attentato all’autonomia della magistratura. Per l’art. 112 della Costituzione, il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale. Questa norma sarebbe svuotata del suo contenuto, se il Pubblico Ministero fosse privato della possibilità di ricorrere, in caso di necessità, allo strumento delle intercettazioni».
Giulietti: proposta Alfano è un bavaglio ai giornalisti «La proposta presentata, dal ministro Alfano in materia di intercettazioni, per quanto riguarda il diritto di cronaca è letteralmente irricevibile». Lo afferma Giuseppe Giulietti, portavoce di articolo 21. «Non è solo e soltanto un tentativo di mettere un bavaglio ai cronisti e agli editori - sostiene - ma è anche e soprattutto il tentativo di mettere una benda sugli occhi e sulle orecchie dei cittadini italiani. Se tali norme dovessero essere mai approvate non favorirebbero il diritto sacrosanto alla privacy delle persone, bensì aumenterebbero i ricatti incrociati e il commercio clandestino dei dossier. Il cronista che entrerà in possesso di notizie di particolare rilevanza sociale non potrà che pubblicarle pena la violazione del codice deontologico e della legge professionale del 1963. Questo principio del resto è stato riconosciuto anche dai giudici di Strasburgo. Agli editori ed ai cronisti non resterebbe che ricorrere alla obiezione di coscienza facendo prevalere i valori contenuti nell’Articolo 21 della Costituzione. Nelle prossime ore - conclude - l’associazione ’Articolo 21’ costituirà in Europa ed in Italia un comitato di giuristi che avranno il compito di seguire l’iter della legge e di controllarla in tutte le sedi possibili».
Bindi: no ai privilegi per i parroci «Sono assolutamente contraria a una norma che crei privilegi per qualunque esponente di qualsiasi religione». Così Rosy Bindi, intervistata da Lucia Annunziata nel corso di "In mezz’ora", ha commentato il ddl sulle intercettazioni che prevede che per intercettare un prete si debba avvisare il vescovo. Alla conduttrice, che le fa notare come questa norma fosse presente anche nel disegno di legge preparato da Clemente Mastella, la vicepresidente della Camera ha risposto: «Se questa norma c’era, io non me ne ero accorta e chiedo scusa, perchè sono contraria a questo provvedimento. Posso solo dire: meno male che non è stato approvato».
Bonelli (Verdi): aria di regime Per Angelo Bonelli dei Verdi «anche la stampa europea sente aria di regime in Italia. Per questa ragione oggi da Berlino ha fortemente criticato il disegno di legge sulle intercettazioni varato dal governo Berlusconi che, non solo rischia di imbavagliare il diritto all’informazione dei cittadini, ma che lega le mani su reati gravi alla magistratura, commentando il documento votato all’unanimità dall’assemblea della Federazione europea dei giornalisti.
«La destra - aggiunge l’esponente del Sole che ride - vuole far assomigliare sempre più il nostro Paese ad un regime sud americano minacciando con il carcere i cronisti e mandando l’esercito per le strade per l’ordine pubblico». «Il disegno di legge sulle intercettazioni è un attacco alla libertà d’informazione dei cittadini e mina fortemente la capacità di indagine della magistratura ma, soprattutto, rischia di far diventare l’Italia la zimbella d’Europa - ha concluso Bonelli - Non esiste nulla di simile in nessun altro Paese europeo».
* l’Unità, Pubblicato il: 15.06.08, Modificato il: 15.06.08 alle ore 20.33
La parrucca del Re Sole che governa il Bel Paese
di EUGENIO SCALFARI *
"BERLUSCONI vuole dimostrare che per governare la crisi italiana è costretto per necessità a separare lo Stato dal diritto. Come se il Paese attraversasse una terra di nessuno. Il soldato come questurino, il giudice come chierico, il giornalista come laudatore: sono le tre figure di una scena politica che minaccia di trasformare il senso della nostra forma costituzionale. Sono i fantasmi di un tempo sospeso dove il governo avrà più potere e il cittadino meno diritti, meno sicurezza, meno garanzie". Così ha scritto ieri Giuseppe D’Avanzo su questo giornale.
Purtroppo questo suo giudizio fotografa esattamente la realtà. Non sarà fascismo, ma certamente è un allarmante "incipit" verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori sensibili della vita democratica, complici la debolezza dei contropoteri, la passività dell’opinione pubblica e la sonnolenta fragilità delle opposizioni.
Questa sempre più evidente deriva democratica, che si è profilata fin dai primi giorni della nuova legislatura ed è ormai completamente dispiegata davanti ai nostri occhi, ha trovato finora il solo argine del capo dello Stato. Giorgio Napolitano sta impersonando al meglio il suo ruolo di custode della Costituzione. L’ha fatto con saggezza e fermezza, dando il suo consenso alle iniziative del governo quando sono state dettate da necessità reali come nella crisi dei rifiuti a Napoli, ma lo ha negato nei casi in cui le emergenze erano fittizie e potevano insidiare la correttezza dei meccanismi costituzionali. Sarebbe tuttavia sbagliato addossare al presidente della Repubblica il peso esclusivo di arginare quella deriva: se la dialettica si riducesse soltanto al rapporto tra il Quirinale e Palazzo Chigi la partita non avrebbe più storia e si chiuderebbe in brevissimo tempo. Bisognerà dunque che altre forze e altri poteri entrino in campo.
Bisogna denunciare e fermare la militarizzazione della vita pubblica italiana della quale l’esempio più clamoroso si è avuto con i provvedimenti decisi dal Consiglio dei ministri di venerdì sulla sicurezza e sulle intercettazioni: due supposte emergenze gonfiate artificiosamente per distrarre l’attenzione dalle urgenze vere che angustiano gran parte delle famiglie italiane.
E’ la prima volta che l’Esercito viene impegnato con funzioni di pubblica sicurezza. Quando fu assassinato Falcone e poi, a breve distanza di tempo, Borsellino, contingenti militari furono inviati in Sicilia per presidiare edifici pubblici alleviando da quelle mansioni la Polizia e i Carabinieri affinché potessero dedicarsi interamente alla lotta contro una mafia scatenata.
Ma ora il ruolo che si vuole attribuire alle Forze Armate è del tutto diverso: pattugliamento delle città con compiti di pubblica sicurezza e quindi con poteri di repressione, arresto, contrasti a fuoco con la delinquenza.
Che senso ha un provvedimento di questo genere? Quale utilità ne può derivare alle azioni di contrasto contro la malavita? La Polizia conta ben oltre centomila effettivi, altrettanti ne conta l’Arma dei carabinieri e altrettanti ancora la Guardia di finanza. Affiancare a queste forze imponenti un contingente di 2.500 soldati è privo di qualunque utilità.
Se il governo si è indotto ad una mossa tanto inutile quanto clamorosa ciò è avvenuto appunto per il clamore che avrebbe suscitato. Tanto grave è l’insicurezza delle nostre città da render necessario il coinvolgimento dell’Esercito: questo è il messaggio lanciato dal governo. E insieme ad esso l’eccezionalità fatta regola: si adotta con una legge ordinaria una misura che presupporrebbe la dichiarazione di una sorta di stato d’assedio, di pericolo nazionale. Un provvedimento analogo fu preso dal governo Badoglio nei tre giorni successivi al 25 luglio del ’43 e un’altra volta nel ’47 subito dopo l’attentato a Togliatti. Da allora non era più avvenuto nulla di simile: la Pubblica sicurezza nelle strade, le Forze Armate nelle caserme, questa è la normalità democratica che si vuole modificare con intenti assai più vasti d’un semplice quanto inutile supporto alla Pubblica sicurezza.
* * *
Il disegno di legge sulle intercettazioni parte dalla ragionevole intenzione di tutelare con maggiore efficacia la privatezza delle persone senza però diminuire la capacità investigativa della magistratura inquirente.
Analoghe intenzioni avevano ispirato il ministro della Giustizia Flick e dopo di lui il ministro Clemente Mastella, senza però che quei provvedimenti riuscissero a diventare leggi per la fine anticipata delle rispettive legislature.
Adesso presumibilmente ci si riuscirà ma anche in questo caso, come per la sicurezza, il senso politico è un altro rispetto alla "ragionevole intenzione" cui abbiamo prima accennato. Il senso politico, anche qui, è un’altra militarizzazione, delle Procure e dei giornalisti.
Le Procure. Anzitutto un elenco dei reati perseguibili con intercettazioni. Solo quelli, non altri. E’ già stato scritto che lo scandalo di Calciopoli non sarebbe mai venuto a galla senza le intercettazioni. Così pure le scalate bancarie dei "furbetti". Ma moltissimi altri. Per chiudere sul peggiore di tutti: la clinica milanese di Santa Rita, giustamente ribattezzata la clinica degli orrori.
Le intercettazioni poi non possono durare più di tre mesi. Non c’è scritto se rinnovabili e dunque se ne deduce che rinnovabili non saranno. Cosa Nostra, tanto per fare un esempio, è stata intercettata per anni e forse lo è ancora. Tre mesi passano in un "fiat", lo sappiamo tutti.
I giornalisti e i giornali. C’è divieto assoluto alla pubblicazione di notizie fin all’inizio del dibattimento. Il deposito degli atti in cancelleria non attenua il divieto. Perché? Se le parti in causa o alcune di esse vogliono pubblicizzare gli atti in loro possesso ne sono impedite. Perché? Non si invochi la presunzione di innocenza poiché se questa fosse la motivazione del divieto bisognerebbe aspettare la sentenza definitiva della Cassazione. Dunque il motivo della secretazione è un altro, ma quale?
In realtà il divieto non è soltanto contro giornali e giornalisti ma contro il formarsi della pubblica opinione, cioè contro un elemento basilare della democrazia. Il caso del Santa Rita ha acceso un dibattito sull’organizzazione della Sanità, sul ruolo delle cliniche convenzionate rispetto al Servizio sanitario nazionale. Dibattito di grande rilievo che potrebbe aver luogo soltanto all’inizio del dibattimento e cioè con il rinvio a giudizio degli imputati.
L’eventuale archiviazione dell’istruttoria resterebbe ignota e così mancherebbe ogni controllo di opinione sul motivo dell’archiviazione e su una possibile critica della medesima. Così pure su possibili differenze di opinione tra i magistrati inquirenti e l’ufficio del Procuratore capo, sulle avocazioni della Procura generale, su mutamenti dei sostituti assegnatari dell’inchiesta. Su tutti questi passaggi fondamentali la pubblica opinione non potrebbe dire nulla perché sarebbe tenuta all’oscuro di tutto.
Sarà bene ricordare che il maxi-processo contro "Cosa Nostra" fu confermato in Cassazione perché fu cambiato il criterio di assegnazione dei processi su iniziativa del ministro della Giustizia dell’epoca, Claudio Martelli, allertato dalla pressione dei giornali in allarme per le pronunce reiterate dell’allora presidente di sezione, Carnevale. Tutte queste vicende avvennero sotto il costante controllo della stampa e della pubblica opinione allertata fin dalla fase inquirente. Falcone e Borsellino non erano giudici giudicanti ma magistrati inquirenti. Mi domando se avrebbero potuto operare con l’efficacia con cui operarono senza il sostegno di una pubblica opinione esaurientemente informata.
Le gravi penalità previste da questa legge nei confronti degli editori costituiscono un gravame del quale si dovrebbero attentamente valutare gli effetti sulla libertà di stampa. Esso infatti conferisce all’editore un potere enorme sul direttore del giornale: in vista di sanzioni così gravose l’editore chiederà a giusto titolo di essere preventivamente informato delle decisioni che il direttore prenderà in ordine ai processi. Di fatto si tratta di una vera e propria confisca dei poteri del direttore perché la responsabilità si sposta in testa al proprietario del giornale.
Si militarizza dunque il giudice, il giornalista ed anche la pubblica opinione.
* * *
Ha ragione il collega D’Avanzo nel dire che questi provvedimenti stravolgono la Costituzione. Identificano di fatto lo Stato con il governo e il governo con il "premier". Se poi si aggiunge ad essi il famigerato lodo Schifani, cioè il congelamento di tutti i processi nei confronti delle alte cariche dello Stato, l’identificazione diventa totale.
Qui il nostro discorso arriva ad un punto particolarmente delicato e cioè al tema dell’opposizione parlamentare.
Parlo di tutte le opposizioni politiche. Ma in particolare parlo del Partito democratico.
Negli ultimi giorni il Pd e Veltroni quale leader di quel partito hanno assunto su alcune questioni di merito atteggiamenti di energica critica nei confronti del governo. La luna di miele di Berlusconi è ancora in pieno corso con l’opinione pubblica e con la maggior parte dei giornali ma è già svanita in larga misura con il Partito democratico. Salvo un punto fondamentale, più volte ribadito da Veltroni: il dialogo deve invece continuare sulle riforme istituzionali e costituzionali. E’ evidente che questa "riserva di dialogo" condiziona inevitabilmente il tono complessivo dell’opposizione. Le riforme istituzionali e costituzionali sono di tale importanza da trasformare in "minimalia" i contrasti di merito su singoli provvedimenti. Tanto più che Tremonti chiede all’opposizione di procedere "sottobraccio" per quanto attiene alla strategia economica; ecco dunque un’ulteriore "riserva di dialogo". Sembrerebbe, questa, una novità a tutto vantaggio dell’opposizione ma non è così. La politica economica italiana dovrà svolgersi nei prossimi anni sotto l’occhio vigile delle Autorità europee. Che ci piaccia o no, noi siamo di fatto commissariati da Bruxelles.
Tremonti dovrà assumere responsabilità impopolari. Necessarie, ma impopolari e vuole condividere con l’opposizione quell’impopolarità.
Intanto, nel merito delle riforme, Berlusconi procede come si è detto e visto, alla militarizzazione del sistema. "L’Etat c’est moi" diceva il Re Sole e continuarono a dire i suoi successori fin quando scoppiò la rivoluzione dell’Ottantanove. Voglio qui ricordare che uno dei modi, anzi il più rilevante, con il quale l’identificazione dello Stato con la persona fisica del Re si realizzò fu l’asservimento dei Parlamenti al volere della Corona. Gli editti del Re per entrare in vigore avevano bisogno della registrazione dei Parlamenti e soprattutto di quello di Parigi. Questa era all’epoca la sola separazione di poteri concepita e concepibile. Ma il re aveva uno strumento a sua disposizione: poteva ordinare ai Parlamenti la registrazione dell’editto. Di fronte all’ordine scritto del Sovrano il Parlamento registrava "con riserva" e l’editto entrava in funzione. Di solito quest’ordine veniva dato molto di rado ma col Re Sole e con i suoi successori diventò abituale. Quando i Parlamenti si ribellarono ostinandosi a non obbedire il Re li sciolse. Il corpo del Re prevalse sulla labile democrazia del Gran Secolo.
Il Re Sole. Ma qui il sole non c’è. C’è fanghiglia, cupidigia, avventatezza, viltà morale. Corteggiamento dell’opposizione. Montaggio di paure e di pulsioni. Picconamento quotidiano della Costituzione. Quale dialogo si può fare nel momento in cui viene militarizzato il Paese nei settori più sensibili della democrazia? Il Partito democratico ha un solo strumento per impedire questa deriva: decidere che non c’è più possibilità di dialogo sulle riforme per mancanza dell’oggetto. Se lo Stato viene smantellato giorno per giorno e identificato con il corpo del Re, su che cosa deve dialogare il Pd? E’ qui ed ora che il dialogo va fatto, la militarizzazione va bloccata. Le urgenze e le emergenze vanno trasferite sui problemi della società e dell’economia.
"In questo nuovo buon clima si può fare molto e molto bene" declama la Confindustria di Emma Marcegaglia. Qual è il buon clima, gentile Emma? Quello dei pattuglioni dei granatieri che arrestano gli scippatori e possono sparare sullo zingaro di turno? Quello dell’editore promosso a direttore responsabile? Quello del magistrato isolato da ogni realtà sociale e privato di "libero giudizio"? Quello dei contratti di lavoro individuali? E’ questo il buon clima?
Ricordo che quando furono pubblicati "on line" gli elenchi dei contribuenti ne nacque un putiferio. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, autore di tanto misfatto, fu incriminato e si dimise. Ma ora il ministro Brunetta pubblica i contratti di tutti i dirigenti pubblici e le retribuzioni di tutti i consulenti e viene intensamente applaudito e incoraggiato. Anch’io lo applaudo e lo incoraggio come ho applaudito allora Visco e Romano. Ma perché invece due pesi e due misure? La risposta è semplice: per i pubblici impiegati si può.
E’ questo il buon clima? Attenti al risveglio, può essere durissimo. Può essere il risveglio d’un paese senza democrazia. Dominato dall’antipolitica. Dall’anti-Europa. Dall’anarchia degli indifferenti e dalla dittatura dei furboni.
Io trovo che sia un pessimo clima.
* la Repubblica, 15 giugno 2008.
L’osservatorio
Gli elettori e il comportamento dell’opposizione Il Pd delude il 40% dei suoi: troppo remissivo
di Renato Mannheimer (Corriere della Sera, 15.6.08)
Il governo continua di settimana in settimana a vedere incrementati la popolarità e il consenso di cui gode presso l’elettorato. Anche se, negli ultimi giorni, una quota crescente (benché sempre minoritaria) di coloro che inizialmente avevano sospeso la propria opinione sull’esecutivo in attesa di verificare il suo operato, inizia ad esprimere qualche scetticismo. Ma la valutazione definitiva sul governo è, per quasi tutti, di fatto rinviata alla fine del periodo della cosiddetta «luna di miele» (grossomodo alla fine dell’estate), quando i cittadini trarranno i primi bilanci sui risultati dell’azione della compagine guidata da Berlusconi.
Intanto, però, si diffonde in misura sempre maggiore nel Paese la percezione di una forte inadeguatezza dell’iniziativa dell’opposizione, a fronte della capacità propositiva del governo. In realtà, nelle inchieste di opinione condotte più di recente, il giudizio sull’opposizione risulta dividere il Paese in parti pressoché eguali tra loro: metà dei cittadini ne approva l’operato, in misura più o meno convinta, e metà, viceversa, esprime una valutazione di segno opposto. L’atteggiamento critico è più frequente tra i giovanissimi e, ciò che riveste un significato politico ancora maggiore, tra gli operai e i lavoratori subordinati in genere, ove l’opinione negativa sull’azione dei partiti di opposizione supera il 51%.
In linea di principio, l’atteggiamento critico verso l’opposizione è più presente (53%) tra quanti, alle ultime elezioni, hanno votato per le forze di centrodestra. Ma è interessante rilevare come il giudizio di insufficienza per il Pd e gli altri partiti di opposizione, sia diffusissimo anche tra chi in aprile aveva scelto il centrosinistra: tra costoro, addirittura il 42% esprime oggi una valutazione negativa sull’operato dell’opposizione nei primi mesi di vita del governo. Specialmente il Pd viene accusato di avere scarsa capacità propositiva, di possedere poca iniziativa e, secondo alcuni, di essere talvolta troppo «subordinato» verso ciò che viene proposto dall’esecutivo in carica. Per la verità, di fronte alla richiesta diretta di formulare un giudizio esplicito sul comportamento dell’opposizione nell’ultimo periodo, poco più di metà dell’elettorato nel suo complesso lo definisce «equilibrato». Ma questa opinione positiva (o, se si vuole, «assolutoria») proviene paradossalmente in misura maggiore dalle fila dei votanti per le forze di governo (ove è espressa dal 53%) che da quelle degli elettori dell’opposizione stessa (50%). Tra questi ultimi, infatti, più del 40% giudica Veltroni e alleati «troppo remissivi ».
In definitiva, l’opinione pubblica sembra, in questo primo periodo di esistenza dell’esecutivo, punire assai più l’opposizione del governo. Concordando col titolo del recente commento sull’Italia dell’Economist, secondo cui «Veltroni rischia di essere fin troppo gentile con Berlusconi».