ROMA, PARLAMENTO DELLA REPUBBLICA ITALIANA. CAMERA DEI DEPUTATI, 29 settembre 2010: Di Pietro VS Berlusconi: "S-pregiudicato illusionista; stupratore della democrazia" (YOUTUBE).
Berlusconi, An e la Lega giurano su Costituzione e unità del paese
Mercoledì la fiducia alla Camera *
Nove senza portafoglio, dodici con. I 21 ministri del nuovo governo Berlusconi giurano davanti al Capo dello Stato sulla Costituzione e sull’unità nazionale. Un bel colpo per la Lega, che non ha mai disdegnato di dire a chiare lettere quel che pensa della nostra Carta e dell’Italia unita.
Per primo tocca a Berlusconi giurare «fedeltà alla Repubblica», di «osservare la Costituzione» e di «esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione». Poi è la volta di Umberto Bossi, seguito da un Calderoli radioso. Giurano Raffaele Fitto, Mara Carfagna. E Andrea Ronchi, prima di firmare il giuramento si fa il segno della croce. Poi tocca a Brunetta e Rotondi. Berlusconi li guarda orgoglioso. Giura anche Giorgia Meloni, che a 31 anni vanta il record di essere già stata vicepresidente della Camera e ministro. Ma dai giovani di cui dovrà occuparsi, dice, vuole essere ricordata come «una di loro». Ritornano ad essere ministri anche Franco Frattini e Roberto Maroni. Prima volta invece per Angelino Alfano che guiderà la Giustizia. Giurano Ignazio La Russa, Giulio Tremonti, Claudio Scajola, Stefania Prestigiacomo, Altero Matteoli. Infine primo incarico per il leghista Luca Zaia e per i forzisti Maria Stella Gelmini e Sandro Bondi.
Ricapitolando, la composizione del governo sarà questa: 12 ministri provengono dalle fila di Forza Italia, quattro dalla Lega Nord, quattro da Alleanza Nazionale e uno dalla Democrazia cristiana per le autonomie. Gianni Letta è poi il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. In extremis, il Cavaliere ha raggiunto l’accordo con Alleanza Nazionale.
* l’Unità, Pubblicato il: 07.05.08, Modificato il: 08.05.08 alle ore 18.01
IL GOVERNO BERLUSCONI (la Repubblica)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Lo Stato deve manifestare contro i fascisti
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 10.02.2018)
Altro che vietare le manifestazioni, a Macerata deve manifestare lo Stato: manifestare la sua ferma determinazione di combattere i fascisti con tutte le sue forze, nel pieno rispetto della Costituzione e delle leggi.
A Macerata deve andare il presidente della Repubblica e parlare, con i corazzieri alle spalle, e con lui sul palco devono esserci il presidente del Consiglio, il ministro degli Interni e quello della Difesa, i presidenti di Senato e Camera, i comandanti militari e delle forze di sicurezza. Devono dire con parole chiare che la Repubblica s’impegna solennemente a non dare tregua ai fascisti e a proteggere la libertà e la sicurezza di tutti, cittadini e non cittadini.
Possibile che le alte cariche dello Stato, uomini e donne colti e saggi, almeno si spera, non si rendano conto che sottovalutare il pericolo neofascista è moralmente ignobile e politicamente suicida? Possibile che non sappiano che lo Stato liberale è crollato nel 1922 perché non volle e non seppe combattere i fascisti, non certo perché i fascisti erano più forti?
Se Vittorio Emanuele III avesse decretato lo stato d’assedio e mandato contro i fascisti l’esercito e i carabinieri, avrebbe salvato lo Stato liberale.
Con tutte le differenze del caso, oggi la Repubblica democratica può sconfiggere il neofascismo soltanto se lo combatte con la massima intransigenza. In Italia il fascismo è un reato, l’antifascismo è un dovere civile. Ha, quindi, perfettamente ragione Giuseppe Civati a sostenere che “Fascismo e Antifascismo non sono in nessun modo paragonabili”. E con lui hanno ragione le associazioni e le organizzazioni che hanno chiesto alle autorità competenti di autorizzare la manifestazione. È un loro dovere ancor prima che loro diritto.
Sarebbe una vergogna tirarsi indietro. Ma i cittadini da soli non possono vincere contro i fascisti, poiché i fascisti usano la violenza: sparano, aggrediscono, intimidiscono. I cittadini non possono e non vogliono scendere sul terreno della violenza.
Soltanto lo Stato può usare la forza legittima e se non lo fa chi lo rappresenta si carica di una responsabilità gravissima. Per giustificare la scelta iniziale - per fortuna ieri rivista - di vietare le manifestazioni non vale l’argomento dell’ordine pubblico.
Lo Stato deve garantire agli antifascisti il diritto di manifestare e proteggerli da aggressioni fasciste. Se vuole, può farlo. Permettere agli antifascisti di manifestare significa non solo fare capire ai fascisti che lo Stato questa volta non è con loro ma contro di loro, ma dare forza alle istituzioni repubblicane. Altrettanto dissennato è l’argomento di chi sostiene che il gesto di Traini è stato un atto di solitaria follia. Chiunque abbia letto qualche libro sulle organizzazioni terroristiche intende perfettamente che quel che ha fatto Traini è puro terrorismo: violenza indiscriminata e a qualunque costo, contro un determinato gruppo sociale. I terroristi, infatti, agiscono anche a rischio della libertà e della vita, quando sanno di poter contare su una comunità che li sostiene. Infatti ecco Forza Nuova che si fa carico delle spese legali e manifesta con Casapound per aiutarlo, ecco Salvini che dichiara che la colpa è di chi ha fatto arrivare gli immigrati, ecco i molti che non parlano ma lo considerano un eroe.
Proprio perché l’atto terroristico di Macerata è segno della forza delle idee fasciste, la risposta deve essere una guerra senza quartiere. Le parole del sindaco di Macerata, Pd, che approva la scelta di vietare le manifestazioni in nome di un silenzio che rispetti le ferite della città sono penose. Qualcuno gli spieghi che il silenzio è atto di rispetto e di pietà per le vittime, ma che il dovere più importante e pressante è fermare gli aguzzini.
Il dato vero che deve preoccupare è che la solidarietà antifascista, che in passato aveva unito liberali, democristiani, repubblicani, socialdemocratici socialisti, comunisti e aveva saputo fare argine valido contro il neofascismo e ogni altra idea che mirasse a destabilizzare lo Stato, oggi non esiste più. Provino Pietro Grasso e Giuseppe Civati a proporre a chi a vario titolo è alla testa degli altri partiti politici (Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Giorgia Meloni, Luigi Di Maio, Matteo Salvini) di firmare prima del 4 marzo un documento comune in cui ciascuno s’impegna solennemente a combattere il neofascismo. Sarà un fallimento.
Lo scenario che probabilmente ci aspetta è quello di un governo di centrodestra guidato, di fatto, da Berlusconi. Com’è noto Berlusconi in più di un’occasione ha manifestato la sua simpatia per Mussolini, ed è poco incline a combattere i fascisti e felice di bastonare gli antifascisti, che poi per lui sono comunisti camuffati. Così, nel 2022, avremo le piazze piene di fascisti ed essi stessi, o i loro amici, al governo.
I fatti di Macerata rappresentano una svolta fondamentale. Le alte cariche dello Stato possono salvarla o agevolarne la morte.
Rinnovo l’appello: vada il presidente Mattarella a Macerata e pronunci le parole giuste per sconfiggere il pericolo fascista, prima che sia tardi.
L’etica perduta della politica
di STEFANO RODOTÀ (la Repubblica, 17 Dicembre 2016)
TRA una politica che fatica a presentarsi in forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità.
Mai nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto.
Dobbiamo ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole “disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”. Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano, anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato da Silvio Spaventa.
Così la questione “morale” si presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una sua legittimazione sociale.
In questi anni il degrado politico e civile è aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.
Non ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati.
È stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta?
LA ’NAZIONALIZZAZIONE’ DEL MENTITORE
Il paradosso della Costituzione
Difesa oggi dagli antipartito, 70 anni fa nel mirino degli “apolitici” dell’Uomo Qualunque. Bobbio li definiva il “pantano in cui finirà per impaludarsi il rinnovamento democratico”
di Giovanni De Luna (La Stampa, 09.12.2016)
Il paradosso del referendum del 4 dicembre è questo: la Costituzione del 1948 è stata vittoriosamente difesa dalle forze politiche che ne hanno sempre criticato il carattere «comunista» (Berlusconi e la Lega) o denunciato la fissità «talmudica» (così Grillo, nel 2011 sul suo blog). Il paradosso è anche più evidente se lo si confronta con le polemiche che - tra il 1945 e il 1947 - accompagnarono il varo della Carta Costituzionale.
Allora, il passaggio dalla dittatura alla democrazia fu accolto con sospetto e diffidenza da una larga fetta dell’opinione pubblica, abituata da venti anni di fascismo a considerare la politica una pratica «inconcludente» e incline a guardare agli uomini dei partiti con la diJffidenza dovuta a chi svolgeva «non un’attività disinteressata al servizio della collettività e della nazione, cercando invece di procurare potere, ricchezza, privilegi a sé stesso, alla propria famiglia, fazione, clientela elettorale». Queste frasi - tratte da uno dei tanti rapporti dei carabinieri che allora funzionavano come oggi i sondaggi di opinione - fotografavano un diffuso sentimento «antipartito» che si tradusse negli impetuosi successi elettorali dell’Uomo Qualunque.
La nuova Repubblica
Anche tra le file del Partito d’Azione - al quale oggi viene attribuita la paternità della Costituzione - all’inizio la forma partito era vista con sospetto. La nuova Repubblica che nasceva dalla Resistenza avrebbe dovuto puntare direttamente sugli uomini (con un rinnovamento della classe dirigente) e sulle istituzioni (con un allargamento della partecipazione politica fondata sulle autonomie e sull’autogoverno). Lo scriveva un giovane Norberto Bobbio (non aveva ancora 40 anni): «Una responsabilità pubblica ciascuno può assumerla dentro o fuori dei partiti, secondo le sue capacità e le sue tendenze, e magari meglio fuori che dentro».
Ma proprio i suoi articoli di allora sul quotidiano Giustizia e Libertà ci consentono oggi di capire che intorno alla Costituzione la partita si giocò essenzialmente tra la politica e l’antipolitica, meglio - come si diceva a quel tempo - tra gli «apolitici» e gli uomini dei partiti. Il qualunquismo nascondeva dietro la maschera della «apoliticità» e dell’«indipendenza» una lotta senza quartiere ai partiti del Cln, giudicati come il lascito più significativo e più pericoloso della Resistenza. BJobbio lo diceva esplicitamente: «gli indipendenti [...] non sono né indipendenti, né apolitici. Sono politici, ecco tutto, di una politica che non è quella dei comitati di liberazione o del fronte della Resistenza».
«Vizi tradizionali» italiani
L’«apoliticismo» (per Bobbio «l’indifferenza o addirittura l’irrisione per ogni pubblica attività in nome dell’imperioso dovere di lavorare senza ambizioni né distrazioni per la famiglia, per i figli e soprattutto per sé») si traduceva in una critica alla «politica di partito» che, scriveva, «lusinga e quindi rafforza inveterate abitudini, vizi tradizionali del popolo italiano, incoraggia gli ignavi, fa insuperbire gli ottusi e gli inerti [...], offre infine a tutti gli apolitici un motivo per allearsi, facendo di una folla di isolati una massa organica, se non organizzata, di persone che la pensano allo stesso modo e hanno di fronte lo stesso nemico [...] generando di nuovo quel pantano in cui finirà per impaludarsi lo sforzo di rinnovamento democratico dello Stato italiano».
Per gli uomini della Resistenza il nemico era quindi diventato quella «sorta di alleanza dei senza partito», «scettica di quello scetticismo che è proprio delle classi medie italiane», alimentata «da un dissenso di gusti, un disaccordo di stati d’animo, uno scontro di umori, una gara di orgogli, dai quali null’altro può derivare che invelenimento di passioni, impacci all’azione ricostruttrice».
La Carta strumentalizzata
Sembra che Bobbio parli proprio di quell’estremismo di centro che caratterizza oggi una parte della società italiana e un movimento come quello di Grillo. Allora fu un passaggio decisivo per l’approdo a una sua convinta adesione alla «democrazia dei partiti», frutto di una riflessione approfondita su un «modello», quello inglese, che, partendo dai capisaldi fondamentali delle origini (la divisione dei tre poteri, la monarchia costituzionale e il governo parlamentare), era stato in grado di rinnovarsi, spostando progressivamente verso il basso, verso il corpo elettorale, rappresentato e diretto dai partiti, il baricentro del sistema politico.
Le cifre del referendum del 4 dicembre ci dicono come l’elettorato dei movimenti più tipicamente antipartito (Cinque Stelle e Lega) abbia votato massicciamente per il No (l’80%), affiancato da una ristretta fascia di elettori appartenenti al Pd (23%) o alle varie sigle accampate alla sua sinistra. Essere salvata da quelli che volevano affossarla, adesso come nel 1948: da questo duplice paradosso cronologico la Costituzione esce come schiantata, degradata a puro pretesto, con una torsione innaturale che la espone, in futuro, a ogni tipo di uso strumentale.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
La democrazia senza morale
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 8 aprile 2016) *
Nel marzo di trentasei anni fa Italo Calvino pubblicava su questo giornale un articolo intitolato “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”. Vale la pena di rileggerlo (o leggerlo) non solo per coglierne amaramente i tratti di attualità, ma per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione”.
Per cercar di rispondere a questa domanda, bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde.
Quell’articolo della Costituzione dovrebbe ormai essere letto ogni mattina negli uffici pubblici e all’inizio delle lezioni nelle scuole (e, perché no?, delle sedute parlamentari).
Comincia stabilendo che «tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi» . Ma non si ferma a questa affermazione, che potrebbe apparire ovvia. Continua con una prescrizione assai impegnativa: « i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». Parola, quest’ultima, che rende immediatamente improponibile la linea difensiva adottata ormai da anni da un ceto politico che, per sfuggire alle proprie responsabilità, si rifugia nelle formule «non vi è nulla di penalmente rilevante», «non è stata violata alcuna norma amministrativa». Si cancella così la parte più significativa dell’articolo 54, che ha voluto imporre a chi svolge funzioni pubbliche non solo il rispetto della legalità, ma il più gravoso dovere di comportarsi con disciplina e onore.
Vi è dunque una categoria di cittadini che deve garantire alla società un “ valore aggiunto”, che si manifesta in comportamenti unicamente ispirati all’interesse generale. Non si chiede loro genericamente di essere virtuosi. Tocqueville aveva colto questo punto, mettendo in evidenza che l’onore rileva verso l’esterno, « n’agit qu’en vue du public », mentre «la virtù vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza».
Ma da anni si è allargata un’area dove i “servitori dello Stato” si trasformano in servitori di sé stessi, né onorati, né virtuosi. Si è pensato che questo modo d’essere della politica e dell’amministrazione fosse a costo zero. Si è irriso anzi a chi richiamava quell’articolo e, con qualche arroganza, si è sottolineato come quella fosse una norma senza sanzione. Una logica che ha portato a cancellare la responsabilità politica e a ridurre, fin quasi a farla scomparire, la responsabilità amministrativa. Al posto di disciplina e onore si è insediata l’impunità, e si ripresenta la concezione «di una classe politica che si sente intoccabile», come ha opportunamente detto Piero Ignazi. Sì che i rarissimi casi di dimissioni per violato onore vengono quasi presentati come atti eroici, o l’effetto di una sopraffazione, mentre sono semplicemente la doverosa certificazione di un comportamento illegittimo.
Questa concezione non è rimasta all’interno della categoria dei cittadini con funzioni pubbliche, ma ha infettato tutta la società, con un diffusissimo “così fan tutti” che dà alla corruzione italiana un tratto che la distingue da quelli dei paesi con cui si fanno i più diretti confronti.
Basta ricordare i parlamentari inglesi che si dimettono per minimi abusi nell’uso di fondi pubblici: i ministri tedeschi che lasciano l’incarico per aver copiato qualche pagina nella loro tesi di laurea: il Conseil constitutionnel francese che annulla l’elezione di Jack Lang per un piccolo sforamento nelle spese elettorali; il vice-presidente degli Stati Uniti Spiro Agnew si dimette per una evasione fiscale su contributi elettorali (mentre un ministro italiano ricorre al condono presentandolo come un lavacro di una conclamata evasione fiscale).
Sono casi noti, e altri potrebbero essere citati, che ci dicono che non siamo soltanto di fronte ad una ben più profonda etica civile, ma anche alla reazione di un establishment consapevole della necessità di eliminare tutte le situazioni che possono fargli perdere la legittimazione popolare.
In Italia si è imboccata la strada opposta con la protervia di una classe politica che si costruiva una rete di protezione che, nelle sue illusioni, avrebbe dovuto tenerla al riparo da ogni sanzione. Illusione, appunto, perché è poi venuta la più pesante delle sanzioni, quella sociale, che si è massicciamente manifestata nella totale perdita di credibilità davanti ai cittadini, di cui oggi cogliamo gli effetti devastanti. Non si può impunemente cancellare quella che in Inghilterra è stata definita come la “constitutional morality”.
In questo clima, ben peggiore di quello degli anni Ottanta, quale spazio rimane per quella “controsocietà degli onesti” alla quale speranzosamemte si affidava Italo Calvino? Qui vengono a proposito le parole di Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema americana, che nel 1913 scriveva, con espressione divenuta proverbiale, che «la luce del sole è il miglior disinfettante». Una affermazione tanto più significativa perché Brandeis è considerato uno dei padri del concetto di privacy, che tuttavia vedeva anche come strumento grazie al quale le minoranze possono far circolare informazioni senza censure o indebite limitazioni (vale la pena di ricordare che fu il primo giudice ebreo della Corte).
L’accesso alla conoscenza, e la trasparenza che ne risulta, non sono soltanto alla base dell’einaudiano “conoscere per deliberare”, ma anche dell’ancor più attuale “ conoscere per controllare”, ovunque ritenuto essenziale come fonte di nuovi equilibri dei poteri, visto che la “democrazia di appropriazione” spinge verso una concentrazione dei poteri al vertice dello Stato in forme sottratte ai controlli tradizionali. Tema attualissimo in Italia, dove si sta cercando di approvare una legge proprio sull’accesso alle informazioni, per la quale tuttavia v’è da augurarsi che la ministra per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione voglia rimuovere i troppi limiti ancora previsti.
Non basta dire che limiti esistono anche in altri paesi, perché lì il contesto è completamente diverso da quello italiano, che ha bisogno di ben più massicce dosi di trasparenza proprio nella logica del riequilibrio dei poteri. E bisogna ricordare la cattiva esperienza della legge 241 del 1990 sull’accesso ai documenti amministrativi, dove tutte le amministrazioni, Banca d’Italia in testa, elevarono alte mura per ridurre i poteri dei cittadini. Un rischio che la nuova legge rischia di accrescere.
Ma davvero può bastare la trasparenza in un paese in cui ogni giorno le pagine dei giornali squadernano casi di corruzione a tutti livelli e in tutti i luoghi, con connessioni sempre più inquietanti con la stessa criminalità? Soccorre qui l’amara satira di Ennio Flaiano. «Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: “Ah, dice, ma non sono in triplice copia!”». Non basta più l’evidenza di una corruzione onnipresente, che anzi rischia di alimentare la sfiducia e tradursi in un continuo e strisciante incentivo per chi a disciplina e onore neppure è capace di pensare.
I tempi incalzano, e tuttavia non vi sono segni di una convinta e comune reazione contro la corruzione all’italiana che ormai è un impasto di illegalità, impunità ostentata o costruita, conflitti d’interesse, evasione fiscale, collusioni d’ogni genere, cancellazione delle frontiere che dovrebbero impedire l’uso privato di ricorse pubbliche, insediarsi degli interessi privati negli stessi luoghi istituzionali (che non si sradica solo con volenterose norme sulle lobbies). Fatale, allora, scocca l’attacco alla magistratura e l’esecrazione dei moralisti, quasi che insistere sull’etica pubblica fosse un attacco alla politica e non la via per la sua rigenerazione. E, con una singolare contraddizione, si finisce poi con l’attingere i nuovi “salvatori della patria” proprio dalla magistratura, così ritenuta l’unico serbatoio di indipendenza. Il caso del giudice Cantone è eloquente, anche perché mette in evidenza due tra i più recenti vizi italiani. La personalizzazione del potere ed una politica che vuole sottrarsi alle proprie responsabilità trasferendo all’esterno questioni impegnative. Alzare la voce, allora, non può mai essere il surrogato di una politica della legalità che esige un mutamento radicale non nelle dichiarazioni, ma nei comportamenti.
Il populismo in Parlamento
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 25.02.2013)
LA DEMAGOGIA non si traduce facilmente in rappresentanza parlamentare. Vive di politica diretta e il suo più grande ostacolo è la normalità che segue il voto. Si adatta meglio ad una permanente campagna elettorale perché retta sull’espressività e sull’arte affabulatrice del leader, la ricerca dell’applauso e del contatto diretto con il pubblico. La demagogia si avvale di una retorica spesso aggressiva.
E rinasce ogni qual volta la distanza tra chi sta dentro e chi sta fuori i luoghi del potere si allarga fino ad aprire una falla nella quale si fa strada questa forma alternativa di espressione politica, la cui linfa vitale sono emozioni di opposizione, come la rabbia o l’esasperazione. La demagogia prende energia dalla relazione di vicinanza del leader con la folla: egli porta la massa dove vuole e deve farsi portare da essa per meglio eccitarla e averla sua.
La demagogia non vive di azione differita, vuole un rapporto fisico diretto, come quello tra Beppe Grillo e le folle che si assembrano ai piedi del suo palco inscenando una drammatizzazione delle vicende politiche più problematiche e delle difficoltà sociali ed economiche che le accompagnano. Che cosa ci si deve aspettare dalla politica demagogica ora che le urne si chiudono e una folta pattuglia di eletti entra in Parlamento?
C’è un’incertezza palpabile su quel che sarà il post-elezioni dei movimenti populisti - certamente del M5S - proprio per l’oggettiva difficoltà a tradurre le emozioni delle folle in rappresentanza politica. Le ragioni dello scontento che fa da benzina al demopopulismo sono più che giustificate. È giustificato il disgusto urlato nelle piazze oceaniche che raduna Grillo per il modo con il quale amministratori delegati governano banche e imprese nel proclamato dispregio delle regole e con arbitrio - cloni di una classe politica che Mario Monti ha chiamato “cialtrona”.
È giustificata l’angoscia per il domani anche a causa di politiche di austerità senza progetto che hanno impoverito troppi italiani, senza peraltro riuscire a risolvere i problemi che dovevano risolvere. È comprensibile il disagio di molti onesti cittadini di fronte ai potenti che vorrebbero appropriarsi del bene della giustizia per garantirsi impunità. Indignazione giusta e sacrosanta che però stenterà a trovare un’efficace rappresentanza se si affiderà alla guida demagogica.
La demagogia che riempie le piazze e i siti Internet ha il potere di attrarre consenso ma non ha probabilmente alcun interesse a creare stabilità nel dopo le elezioni. La sua forza (che si paventa molto consistente) può essere di impedimento alla formazione di una maggioranza duratura. La stabilità del governo è del resto il nemico dei movimenti demopopulisti, la cui aspirazione sono piazze piene di scontenti (che restino tali). La democrazia consente di tenere i giochi aperti; a questo serve la regola della ciclicità elettorale, a mediare stabilità e mutamento, apertura del contenzioso e sua temporanea chiusura. È questa regola fondamentale che la demagogia mal digerisce e fa di tutto per sovvertire, per essere forza mobilitante permanente.
Inoltre la demagogia non è rappresentabile; rabbia e indignazione sono emozioni difficili da tradurre in progetti politici condivisi. Anche per questo ha senso temere scenari di instabilità. Che cosa faranno i rappresentanti del M5S in Parlamento? Dove si posizioneranno in rapporto alla maggioranza che si formerà?
E che proposte porteranno avanti che possano rappresentare quella rabbia che il loro leader fa montare ogni ora che passa? È vero che il M5S ha dimostrato, nelle amministrazioni locali, di esprimere eletti di buon senso. Ma il Parlamento non è un consiglio comunale e i pochi punti di programma che Grillo propone non sono paragonabili in efficacia e per portata alla voglia azzeratrice che la sua retorica alimenta.
Il caos che un conglomerato di eletti non uniti in partito e, soprattutto, senza idee guida “in positivo”, ma uniti principalmente dalla rabbia anti-sistema, è purtroppo prevedibile. L’unica speranza è che, proprio a causa della loro inconsistenza come partito, gli eletti del M5S si sentano totalmente liberi di seguire il loro buon senso; che, insomma, rappresentino solo se stessi al meglio della ragionevolezza di cui sono capaci.
Non si può non vedere il paradosso: gli eletti di questo movimento demagogico non devono dar conto a nessuno e proprio da questa assenza di mandato politico e di controllo dipende la stabilità del quadro politico post-elettorale. Portati in Parlamento sull’onda dell’emozione, dobbiamo sperare che molti di loro sappiano e vogliano esprimere l’indignazione e la rabbia con comportamenti ragionevoli, volti a promuovere stabilità per potere picconare per davvero gli effetti del malgoverno che si è accumulato in questi anni di cialtroneria sistemica.
Dal "Diario" di Elsa Morante*
Roma 1° maggio 1945
Mussolini e la sua amante Clara Petacci sono stati fucilati insieme, dai partigiani del Nord Italia. Non si hanno sulla loro morte e sulle circostanze antecedenti dei particolari di cui si possa essere sicuri. Così pure non si conoscono con precisione le colpe, violenze e delitti di cui Mussolini può essere ritenuto responsabile diretto o indiretto nell’alta Italia come capo della sua Repubblica di Sociale. Per queste ragioni è difficile dare un giudizio imparziale su quest’ultimo evento con cui la vita del Duce ha fine.
Alcuni punti però sono sicuri e cioè: durante la sua carriera, Mussolini si macchiò più volte di delitti che, al cospetto di un popolo onesto e libero, gli avrebbe meritato, se non la morte, la vergogna, la condanna e la privazione di ogni autorità di governo (ma un popolo onesto e libero non avrebbe mai posto al governo un Mussolini). Fra tali delitti ricordiamo, per esempio: la soppressione della libertà, della giustizia e dei diritti costituzionali del popolo (1925), la uccisione di Matteotti (1924), l’aggressione all’Abissinia, riconosciuta dallo stesso Mussolini come consocia alla Società delle Nazioni, società cui l’Italia era legata da patti (1935), la privazione dei diritti civili degli Ebrei, cittadini italiani assolutamente pari a tutti gli altri fino a quel giorno (1938).
Tutti questi delitti di Mussolini furono o tollerati, o addirittura favoriti e applauditi. Ora, un popolo che tollera i delitti del suo capo, si fa complice di questi delitti. Se poi li favorisce e applaude, peggio che complice, si fa mandante di questi delitti. Perché il popolo tollerò favorì e applaudì questi delitti? Una parte per viltà, una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse o per machiavellismo.
Vi fu pure una minoranza che si oppose; ma fu così esigua che non mette conto di parlarne. Finché Mussolini era vittorioso in pieno, il popolo guardava i componenti di questa minoranza come nemici del popolo e della nazione, o nel miglior dei casi come dei fessi (parola nazionale assai pregiata dagli italiani). Si rendeva conto la maggioranza del popolo italiano che questi atti erano delitti? Quasi sempre, se ne rese conto, ma il popolo italiano è cosìffatto da dare i suoi voti piuttosto al forte che al giusto; e se lo si fa scegliere fra il tornaconto e il dovere, anche conoscendo quale sarebbe il suo dovere, esso sceglie il suo tornaconto.
Mussolini, uomo mediocre, grossolano, fuori dalla cultura, di eloquenza alquanto volgare, ma di facile effetto, era ed è un perfetto esemplare e specchio del popolo italiano contemporaneo. Presso un popolo onesto e libero, Mussolini sarebbe stato tutto al più il leader di un partito con un modesto seguito e l’autore non troppo brillante di articoli verbosi sul giornale del suo partito. Sarebbe rimasto un personaggio provinciale, un po’ ridicolo a causa delle sue maniere e atteggiamenti, e offensivo per il buon gusto della gente educata a causa del suo stile enfatico, impudico e goffo. Ma forse, non essendo stupido, in un paese libero e onesto, si sarebbe meglio educato e istruito e moderato e avrebbe fatto migliore figura, alla fine. In Italia, fu il Duce. Perché è difficile trovare un migliore e più completo esempio di Italiano.
Debole in fondo, ma ammiratore della forza, e deciso ad apparire forte contro la sua natura. Venale, corruttibile. Adulatore. Cattolico senza credere in Dio. Corruttore. Presuntuoso: Vanitoso. Bonario. Sensualità facile, e regolare. Buon padre di famiglia, ma con amanti. Scettico e sentimentale. Violento a parole, rifugge dalla ferocia e dalla violenza, alla quale preferisce il compromesso, la corruzione e il ricatto. Facile a commuoversi in superficie, ma non in profondità, se fa della beneficenza è per questo motivo, oltre che per vanità e per misurare il proprio potere. Si proclama popolano, per adulare la maggioranza, ma è snob e rispetta il denaro. Disprezza sufficientemente gli uomini, ma la loro ammirazione lo sollecita.
Come la cocotte che si vende al vecchio e ne parla male con l’amante più valido, così Mussolini predica contro i borghesi; accarezzando impudicamente le masse. Come la cocotte crede di essere amata dal bel giovane, ma è soltanto sfruttata da lui che la abbandonerà quando non potrà più servirsene, così Mussolini con le masse. Lo abbaglia il prestigio di certe parole: Storia, Chiesa, Famiglia, Popolo, Patria, ecc., ma ignora la sostanza delle cose; pur ignorandole le disprezza o non cura, in fondo, per egoismo e grossolanità. Superficiale. Dà più valore alla mimica dei sentimenti , anche se falsa, che ai sentimenti stessi. Mimo abile, e tale da far effetto su un pubblico volgare.
Gli si confà la letteratura amena (tipo ungherese), e la musica patetica (tipo Puccini). Della poesia non gli importa nulla, ma si commuove a quella mediocre (Ada Negri) e bramerebbe forte che un poeta lo adulasse. Al tempo delle aristocrazie sarebbe stato forse un Mecenate, per vanità; ma in tempi di masse, preferisce essere un demagogo. Non capisce nulla di arte, ma, alla guisa di certa gente del popolo, e incolta, ne subisce un poco il mito, e cerca di corrompere gli artisti. Si serve anche di coloro che disprezza. Disprezzando (e talvolta temendo) gli onesti, i sinceri, gli intelligenti poiché costoro non gli servono a nulla, li deride, li mette al bando.
Si circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, e quando essi lo portano alla rovina o lo tradiscono (com’è nella loro natura), si proclama tradito, e innocente, e nel dir ciò è in buona fede, almeno in parte; giacché, come ogni abile mimo, non ha un carattere ben definito, e s’immagina di essere il personaggio che vuole rappresentare.
* Cfr.: Elsa Morante, Opere, Mondadori (Meridiani), Milano 1988, vol. I, pp. L-LII.
LIBERTA’ DI DIFFAMAZIONE
di Michael Braun,
corrispondente del quotidiano berlinese Die Tageszeitung e della radio pubblica tedesca *
L’Italia ha un nuovo martire: Alessandro Sallusti. Condannato a 14 mesi di carcere per diffamazione, oggi si presenta - ed è presentato dalla quasi totalità dei suoi colleghi - come la vittima di una legge aberrante che (così si afferma) punisce un “reato di opinione” e non ha uguali nelle altre democrazie.
Ma le cose stanno davvero così? Uno sguardo al codice penale tedesco ci dice subito che la diffamazione è reato punibile con due anni di carcere, e se avviene a mezzo stampa la pena sale addirittura fino a cinque anni. Insomma: chi, utilizzando le pagine di un giornale, denigra qualcuno ricorrendo ad affermazioni palesemente false rischia la galera anche in Germania.
Ciò detto potrei aggiungere che anche a me questa condanna, senza condizionale, sembra esagerata. Ma questo punto è già sottolineato da tanti, praticamente da tutti, giornalisti e politici. Un altro punto rischia invece di scomparire: cioè che, in veste di direttore, Sallusti si è reso complice di un reato grave, e che prima di assurgere al ruolo di martire ha vestito i panni dell’autore di un atto illecito.
Vogliamo ricordare che cosa scriveva cinque anni fa un certo Dreyfus (la vocazione al martirio, a quanto pare, era già tutta presente) sul giudice Giuseppe Cocilovo? Quel giudice aveva autorizzato una ragazzina tredicenne ad abortire, dietro richiesta della ragazza e di sua madre. Il quotidiano Libero commentava così: “Un magistrato ha applicato il diritto - il diritto! - decretando: aborto coattivo. (...) Qui ora esagero, ma prima domani di pentirmi, lo scrivo: se ci fosse la pena di morte, e se mai fosse applicabile in una circostanza, questo sarebbe il caso. Per i genitori, il ginecologo, il giudice. Quattro adulti, contro due bambini. Uno assassinato, l’altro (in realtà) costretto alla follia”.
Dopo la sentenza contro Sallusti ora Il Giornale (dove il condannato nel frattempo è trasmigrato come direttore) decreta: “L’articolo sotto accusa: duro, ma è un’opinione”. Davvero? Potremmo già disquisire sull’aggettivo “duro”. Invocare la pena di morte per quattro persone che non si sono resi colpevoli neanche della più minima illegalità vi sembra duro? A me sembra una violenza inaudita. Ma non è questo il punto.
La pena di morte viene invocata da quel Dreyfus con un argomento inventato di sana pianta: che la ragazzina sarebbe stata costretta all’aborto da quattro adulti mentre risulta che lei stessa voleva interrompere la gravidanza. Questa sì che è tecnica di diffamazione: capovolgere i fatti, voler costringere le ragazzine a non abortire e poi strillare in modo non solo scomposto, ma menzognero. Il reato di diffamazione esiste per una precisa ragione: per permettere al diffamato di difendere il suo onore contro attacchi basati su racconti non veritieri. Altro che reato di opinione. Se qualcuno si alzasse affermando che Sallusti è - per esempio - uno spacciatore, un pedofilo, un contrabbandiere o un amico dei mafiosi come reagirebbe l’illustre direttore? Guardandosi allo specchio, facendo spallucce e dicendo fra sé e sé, “è solo un’opinione”? Non credo. E bene farebbe a querelare.
Bene ha fatto pure il giudice Cocilovo a querelare Sallusti. Del resto il condannato continua a dare versioni lievemente distorte perfino della storia processuale. Scrive: “Non ho accettato trattative private con un magistrato (il querelante) che era disponibile a lasciarmi libero in cambio di un pugno di euro, prassi squallida e umiliante più per lui, custode di giustizia, che per me”. Par di capire che Cocilovo volesse sfruttare l’occasione per portare a casa un bel gruzzoletto. È squallido e umiliante, più per Sallusti che per altri, che il direttore non riesca mai a raccontare le cose se non attraverso una lente deformata: Cocilovo esigeva l’ammissione di colpa e il pagamento di ventimila euro non a lui, ma a Save the Children.
Ma ancora oggi Sallusti non è in grado di realizzare che la diffamazione c’è effettivamente stata, che non è un’opinione affermare il falso a spese dell’onore di un’altra persona, facendola passare per l’aguzzino di una ragazzina. Giustissimo l’intento di tanti direttori e giornalisti di difendere la libertà di stampa, giustissima la domanda se la pena comminata non sia esagerata. Ma da qui a difendere un diffamatore (o un direttore che pubblica e copre i diffamatori) ci corre. Non risulta che Sallusti si sia mai scusato per quell’articolo.
Opinionista o killer mediatico?
di Franco Monaco* (il manifesto, 29 settembre 2012)
Chiarisco subito onde fugare equivoci: la pena del carcere è troppo, si provveda a cambiare la legge. Ciò detto non posso tacere un certo disagio per la corale levata di scudi a cominciare da Quirinale, palazzo Chigi, ministro della Giustizia. Il caso Sallusti non si risolve nel suo spiacevole epilogo. Un epilogo che peraltro speriamo non sia effettivamente il carcere. Il nostro ordinamento è nel suo complesso abbastanza garantista da autorizzarci a confidare che in carcere Sallusti non ci andrà. E comunque il caso dovrebbe suggerire meno enfasi, più misura, più consapevolezza della molteplicità e della complessità dei problemi che, profittando dell’occasione, merita mettere a tema. Provo a raccoglierne alcuni attraverso una sequela di interrogativi.
La legge, giusta o sbagliata che sia, non va rispettata? La magistratura non ha il dovere di applicarla? La legge non è uguale per tutti, giornalisti compresi? La libertà di stampa non è un diritto che, come tutti i diritti, non è esente da limiti? Che c’entra la libertà di opinione con la pubblicazione di notizie false (a quanto sembra, consapevolmente false) e calunniose? Le vittime non vanno difese, neppure quando si rifiutano loro le scuse e la doverosa rettifica? Basta che un articolo non sia firmato perché non ne risponda nessuno? Il Quirinale ha diritto di sindacato su sentenze definitive?
Non è contraddittorio che, tra coloro che più strillano in queste ore, vi siano politici che propongono il carcere per i giornalisti in tema di intercettazioni, con palese intento intimidatorio? E’ normale che si faccia scrivere sotto pseudonimo un signore radiato dall’albo dei giornalisti per comportamenti immorali e illegali? Nulla da dire sul fatto che quel signore sia stato portato in parlamento per premiarlo dei servizi resi come "agente Betulla" nel quadro della vergognosa campagna diffamatoria verso Prodi, Fassino e altri sul caso, costruito ad arte, Telekom Serbia, che per un intero anno ha occupato le prime pagine de Il Giornale?
A fronte di questo cumulo di problemi, politici e media si sono tutti e unanimemente concentrati sulla ingiusta condanna comminata a Sallusti, rappresentato come martire della libertà di stampa, e persino sull’asserito accanimento dei magistrati.
Mi chiedo: non merita, così, distrattamente, spendere una parola sul giornalismo inteso come killeraggio verso gli avversari politici? Quel giornalismo di cui i Sallusti e i Farina sono campioni. Come se tale giornalismo, quello che ha confezionato il cosiddetto metodo Boffo, non gettasse discredito sul nobile e impegnativo mestiere del giornalista. Come se esso non avesse responsabilità nell’imbarbarimento della nostra vita civile e politica. Come se, di quell’uso della penna e del computer come armi per distruggere le persone, non vi siano state innumerevoli vittime (certo più anonime di Sallusti ma segnate per sempre) per le quali non il capo dello Stato ma proprio nessuno ha levato la voce e mosso un dito.
Ribadisco: condivido l’esigenza di correggere la legge sul punto delle sanzioni. Magari suggerirei di farlo senza la precipitazione e l’ossessione del caso singolo che sono sempre cattive consigliere quando si legifera sulla delicata materia dei diritti. Ma è difficile sottrarsi all’impressione che, al fondo di tanto, troppo zelo, stiano due pulsioni magari inconsapevoli: un riflesso corporativo della corporazione dei giornalisti e lo spirito partigiano o corrivo dei politici, quelli di destra che corrono in soccorso di uno dei loro, quelli di sinistra che devono ostentare il loro animus liberale e longanime verso gli avversari. Meglio sarebbe dare prova di distacco e compostezza.
*Senatore Pd
L’arte di tradire bene
di Maurizio Viroli (il Fatto. 07.07.2012)
Anche Marco Travaglio deve riconoscerlo: Berlusconi aveva tutte le ragioni di bollare come traditori i parlamentari del Pdl che gli avevano votato contro nel novembre 2011. È vero che i parlamentari, afferma la Costituzione, rappresentano la Nazione, e dunque non sono tenuti a obbedire a nessuno, neppure al capo del loro partito, ma quando si parla di Pdl la Costituzione, si sa, conta poco.
Nella nostra tradizione culturale e religiosa, le parole ‘traditore’ e ‘tradimento’ hanno una forte accezione negativa. Evocano la figura di Giuda Iscariota, figlio di Simone, e le parole del Vangelo: “In verità vi dico che uno di voi mi tradirà” (Giovanni 13, 21 - 22), e la terribile immagine di Giuda, Bruto e Cassio nella bocca di Lucifero, il primo e più grande dei traditori, nel fondo dell’Inferno dantesco. Ma, avverte Giulio Giorello nel suo libro Il tradimento in politica, in amore e non solo (Longanesi, 2012), a guardare più attentamente, i traditori sono, nella realtà e nelle rappresentazioni artistiche e letterarie, figure ambigue che suscitano giudizi contrastanti.
LO STESSO GIUDA, ha sostenuto ad esempio Christian Petr nell’Elogio del traditore, vendette Cristo perché si rese conto che non intendeva affatto essere liberatore del suo popolo su questa terra. Non fu né avido né ingrato, ma chiaroveggente (p. 8). E soprattutto non va dimenticato che doveva essere uomo di forte coscienza morale se, sopraffatto dal rimorso, prima cercò di restituire i 30 sicli e poi si suicidò.
Anche i due eroi repubblicani Cassio e Bruto che Dante punisce come traditori, anche se ebbero il coraggio di uccidere Cesare nella vana speranza di fare rinascere la libertà repubblicana in Roma, non sono esenti da ombre. Plutarco ci dice, nelle sue celebri Vite parallele, che Cassio odiava Cesare più per motivi personali che politici. Leopardi, nel canto dedicato a Bruto minore, fa pronunciare all’eroe repubblicano parole sconsolate sulla vanità della virtù: “O misera virtù, eri solo una parola, e io ti adoravo come una cosa reale. Ma tu eri schiava del caso”.
È vero, sono ancora parole di Christian Petr, che “non proviamo mai pietà per il traditore” (p. 135), ma è del pari vero che nella politica rivoluzionaria più estrema, quella di Stalin, il tradimento è opera necessaria e lodevole. I testi che Giorello ha scelto sono eloquenti e sconvolgenti: “Non abbiamo esitato a tradire i nostri amici e a scendere a compromessi con i nostri nemici, per salvare il partito”, dichiara uno degli inquisitori di Stalin nel romanzo di Arthur Koestler Buio a mezzogiorno. La giustificazione del tradimento nella politica rivoluzionaria è inconfutabile, se si condividono le premesse, e se si accetta che esista un’istituzione umana, il partito e il suo segretario generale, che dispongono di una conoscenza assoluta della verità e quindi non possono errare: “Ma il parto del Mondo nuovo ha le sue doglie: per eliminare la politica ci vuole la politica, per eliminare la guerra ci vuole la guerra, per eliminare il tradimento ci vuole il tradimento” (p. 118).
Dai suoi esempi e dalle sue narrazioni, Giorello ricava un interrogativo generale sul significato e sul valore da attribuire al tradimento. Non soltanto nei casi delle grandi e tragiche figure dei traditori, ma “persino nel caso delle dispute del nostro Paese non è miope ridurre il ‘tradimento’ di questi o quegli a mero effetto di qualche più o meno sordida passione? ”. Quali che siano le motivazioni di chi tradisce, il tradimento rivela una valenza storica che supera le speranze e i timori degli attori che sono coinvolti. Tradire, rileva Giorello, è facile, ma tradire bene è difficile.
COSA VUOL dire tradire bene? A mio giudizio Giorello dà al termine ‘bene’ e all’idea del tradimento ben eseguito una connotazione estetica, più che svolgere un’argomentazione politica o morale. Nei casi più elaborati, scrive infatti, il tradimento assume “le caratteristiche di una vera e propria opera d’arte”. (pp. 8-9) Vero, ma si può aggiungere che l’opera d’arte degli antifascisti come Carlo Rosselli che si proclamarono orgogliosamente traditori della patria fascista perché si sentivano fedeli a un’altra idea di patria è altra cosa dall’opera d’arte del militante antifascista che diventa spia dell’OVRA e che con un raffinato gioco di simulazioni e dissimulazioni riesce a fare catturare dal regime i migliori dirigenti di ‘Giustizia e Libertà’.
Giorello rifugge dalle indicazioni morali e dagli ammonimenti politici e osserva che la condanna o l’apprezzamento per le varie figure di tradimento narrate nel libro sono scelte inevitabilmente personali. Posizione lodevole, che mette l’autore al riparo dall’accusa infamante, in Italia, di essere un moralista che aspira, addirittura, a educare.
Ma per aiutare il lettore e la lettrice a formulare il proprio giudizio meditato poteva forse arricchire il saggio con qualche considerazione sulla differenza, ad esempio, fra tradire un uomo e tradire un principio e invitare, con delicatezza, si capisce, a riflettere sul fatto che uno dei valori più alti che il cittadino dovrebbe fare proprio, per la nostra Costituzione, è proprio la fedeltà, vale a dire l’esatto contrario del tradimento.
ITALIA, 1994-2011: CRISI GRAVISSIMA E *STATO* DI COMA PROFONDO!!!
TUTTI INSIEME A ESORTARE E A GRIDARE (ancora!), SENZA PIU’ *PAROLA* E *DIGNITA’*:
"FORZA ITALIA", FORZA "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!! Avanti tutta ...
L’ITALIA, IL "BAAL-LISMO", E LA FINE DELLA SOVRANITA’ E DELLA SOVRA-UNITA’. "LA REPUBBLICA, UNA E INDIVISIBILE", VENDUTA L’ANIMA E FATTOSI RUBARE IL NOME STESSO "ITALIA", E’ DIVENTATA LA CASA DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’" (1994-2011)!!!
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique (...) E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino.
2011, c’era bisogno di una scossa nazionale
di GIORGIO NAPOLITANO *
Caro Direttore,
il suo giornale ha il merito di essere stato, fin dal concepimento di un programma di celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità, tra i soggetti (anche lei personalmente) che più hanno creduto nella straordinaria importanza dell’occasione che si presentava e dell’impegno che andava esplicato per un sostanziale rafforzamento delle ragioni e del sentimento del nostro «stare insieme» come italiani - nazione - Stato e cittadini.
La quantità e qualità delle iniziative che si sono succedute - tra le quali un particolare spicco hanno assunto quelle promosse a Torino - ci hanno detto che erano insieme maturata un’esigenza e insorta una disponibilità largamente condivise. C’era bisogno di una scossa nazionale unitaria di fronte alle difficoltà, alle derive, agli scoramenti che colpivano il nostro Paese e alle prove sempre più ardue che lo attendevano (e lo attendono).
Ritengo che il quasi imprevedibile successo delle celebrazioni, non ancora del tutto concluse, abbia lasciato un segno profondo, anche contribuendo al crearsi di condizioni più favorevoli per affrontare con fiducia una nuova inedita e incoraggiante fase della vita politico-istituzionale italiana.
* La Stampa, 20/11/2011
La Costituzione, unica bussola
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.11.2011)
Avevano un suono diverso le parole pronunciate dal presidente del Consiglio e dai ministri del nuovo governo nel momento in cui giuravano di osservare "lealmente" Costituzione e leggi e di esercitare le loro funzioni nell’interesse "esclusivo" della Nazione. La formula apparentemente burocratica del giuramento rivelava un’assenza: la mancanza negli ultimi anni d’ogni lealtà governativa verso una Costituzione continuamente dileggiata e aggredita, l’abbandono dall’interesse esclusivo della Nazione a vantaggio di una folla di interessi privati e persino inconfessabili. Quelle parole scomparse e tradite sono ritornate nel momento in cui davanti al nuovo governo non è soltanto il compito assai difficile di affrontare i temi dell’economia riprendendo pure il cammino dell’equità e dell’eguaglianza, senza le quali la coesione sociale è perduta. L’insistita sottolineatura del nuovo stile di Mario Monti all’insegna di "sobrietà" e "serietà" non riguarda, infatti, segni esteriori. Ricorda un altro compito, forse persino più difficile e certamente bisognoso di molto impegno e di molto tempo, quello di far uscire il nostro Paese dalla regressione culturale e civile nella quale è sprofondato.
È questione che non si affida tanto a provvedimenti formali. Accontentiamoci, per il momento, d’una prima, non indifferente certezza. Il sapere che non vi saranno ministri della Repubblica che, di fronte alla domanda di un giornalista o di un cittadino, leveranno in alto il dito medio o risponderanno con una pernacchia (non il nobile e difficile "pernacchio" di Eduardo). Rispetto e lealtà non sono dovuti soltanto a Costituzione e leggi, ma a tutti coloro che nel mondo reale incarnano valori e principi che lì sono iscritti. In questi anni abbiamo assistito proprio al rifiuto dell’"altro", l’avversario politico o l’immigrato, lo zingaro o la persona omosessuale. L’indegna gazzarra scatenata alla Camera dai deputati della Lega contro la civilissima richiesta di avviare il riconoscimento degli immigrati come cittadini, e non come merce usa e getta, è stata la conferma evidente della difficoltà di invertire una tendenza che, mai contrastata efficacemente per convenienza politica e debolezza culturale, ha terribilmente inquinato l’ambiente civile.
Sarà la minuta sequenza degli atti concreti a dare sostanza all’abbandono di un perverso costume. Al governo spettano nomine importanti, sottosegretari e Rai per cominciare. Il rispetto della Costituzione, inoltre, muove dal rispetto degli istituti che la innervano, a cominciare dal referendum che ha ridato ai cittadini la possibilità di far sentire la loro voce, spenta da una legge elettorale indegna e venata da incostituzionalità. Proprio dal voto sui referendum di giugno vengono tre indicazioni che il governo non può in alcun modo eludere: il no al nucleare (lo ricordi qualche ministro che non deve avere bene appreso la lezione di sobrietà e umiltà invocata dal presidente del Consiglio); il rifiuto di ogni legislazione attributiva di privilegi; il nuovo ruolo attribuito ai beni comuni, all’acqua direttamente (non si segua il cattivo esempio delle furbizie nelle quali il governo precedente si stava esercitando). Se il governo vuole conservare la fiducia manifestata da una larga parte dell’opinione pubblica, e cercar di recuperare critici e scettici, deve essere consapevole che proprio questi sono i casi in cui massima dev’essere la sua lealtà verso la Costituzione. È bene aggiungere che, considerando i vari movimenti e indignati che occupano le piazze del mondo, in Italia il risveglio civile non solo si era manifestato prima che in altri Paesi, ma aveva trovato un fiducioso incontro con le istituzioni tramite i referendum. Sarebbe un grave errore politico mettere questa vicenda tra parentesi, poiché proprio da lì è cominciato quel rinnovamento che ha trovato nel governo Monti un suo approdo, sia pure controverso.
Come tutto questo incrocerà i sentieri parlamentari è questione tra le più aperte. A proposito della quale, tuttavia, è bene insistere su una banale verità, del tutto travisata da chi, gridando alla fine della democrazia, ha lamentato un ruolo marginale del Parlamento in una crisi tutta gestita tra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio incaricato. Ma abbiamo già dimenticato o cancellato il fatto istituzionale più clamoroso di questi ultimi anni, appunto la scomparsa del Parlamento, dileggiato da Silvio Berlusconi come luogo di inutili e incomprensibili lungaggini, espropriato d’ogni potere dai voti di fiducia e dai maxiemendamenti blindati, ridotto a mercato quando v’erano da reclutare truppe mercenarie, rattrappito nei suoi lavori in un paio di giorni a settimana, addirittura chiuso per mancanza di questioni rilevanti da mettere all’ordine del giorno? Uno degli esiti, o paradossi, di questa crisi sta proprio nell’aver rimesso al centro dell’attenzione pubblica e della politica proprio il Parlamento, ricordando così, come molte volte aveva già fatto il presidente della Repubblica, che la nostra rimane una Repubblica parlamentare ed è lì che i governi ricevono investitura e legittimità.
Sul rapporto tra governo e Parlamento si è insistito molto in questi giorni, discutendo soprattutto della possibilità che qualcuno voglia prima o poi "staccare la spina", di possibili maggioranze variabili nell’approvare singoli provvedimenti. Ma vi è un altro aspetto del problema, particolarmente rilevante nella prospettiva ricordata all’inizio della "bonifica" politica e civile del nostro sistema istituzionale e della nostra società. Qualcuno, nel dibattito parlamentare, ha avuto l’impudenza di invocare la ripresa del cammino parlamentare del disegno di legge sulle intercettazioni. Qualcun altro ha adombrato i temi della difesa della vita, con un trasparente richiamo al disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico) attualmente in discussione al Senato, e dopo che s’era verificato il grave episodio di un governo che, in articulo mortis, aveva diffuso le nuove linee guida in materia di procreazione assistita. L’insistenza su questi temi rivela un intento strumentale, volto anche a creare frizioni parlamentari che possono insidiare la tenuta del governo. Ma, se appare davvero improbabile un rinnovato assalto a favore di una legge bavaglio, più serie preoccupazioni destano i temi legati alla bioetica e al biodiritto.
Per proteggere il governo, non si tratta di invocare una "tregua etica" o rivendicare l’autonomia del Parlamento in materie non comprese nel programma governativo, magari facendosi forti di qualche improvvida dichiarazione che ha associato la costituzione di questo governo con il "ritorno" dei cattolici in politica. Se alla lealtà verso la Costituzione dobbiamo continuare a rifarci, è appunto il percorso costituzionale che deve essere rigorosamente seguito tanto dal governo che dal Parlamento. E questo significa mettere da parte il testo sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, grondante di incostituzionalità, sgrammaticature e difficoltà applicative in ogni suo articolo. Significa riprendere il cammino verso una seria disciplina delle unioni di fatto, comprese quelle tra persone omosessuali, alle quali la Corte costituzionale ha riconosciuto un "diritto fondamentale" al riconoscimento giuridico della loro condizione, indicazione finora del tutto disattesa dal Parlamento. Significa riportare a ragione e Costituzione la materia della procreazione assistita.
Per non rimanere prigionieri dell’emergenza che ha segnato la nascita di questo governo, e per sfuggire alle perversioni che questa può produrre, bisogna imboccare senza esitazioni la via di una politica che sia tutta politica "costituzionale".
STORIA D’ITALIA, 1994-2011: LA COSTITUZIONE, LE REGOLE DEL GIOCO, E IL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO ... CHE GIOCA DA "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" CON IL LOGO - PARTITO DI "FORZA ITALIA" E DI "POPOLO DELLA LIBERTA’"!!!
(...) I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizione e di scontri nella politica nazionale" (...)
Deriva pericolosa
di Michele Ainis (Corriere della Sera, 01.04.11)
Una roba così non era mai successa. Il capo dello Stato che convoca i capigruppo al Quirinale, li mette in riga come scolaretti, gli chiede conto dei fatti e dei misfatti. D’altronde non era mai successo nemmeno il finimondo andato in scena negli ultimi due giorni. Il ministro della Difesa che manda a quel paese il presidente della Camera, quello della Giustizia che giustizia la sua tessera scagliandola contro i banchi dell’Italia dei Valori, quello degli Esteri che lascia la Libia al suo destino per votare un’inversione dell’ordine del giorno in Parlamento. Dall’altro lato della barricata, fra i generali del centrosinistra, contumelie e strepiti, toni roboanti, decibel impazziti. E intanto, nelle valli che circondano il Palazzo, folle rumoreggianti dell’opposizione, lanci di monetine, improperi contro il politico che osa esibire il suo faccione.
Diciamolo: la nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile. Ed è un bel guaio, nel mese in cui cadono i 150 anni della storia nazionale. Perché uno Stato unito ha bisogno di istituzioni stabili, credibili, forti di un popolo che le sostenga. Ma in Italia la fiducia nelle istituzioni vola rasoterra. Per Eurispes nel 2010 le file dei delusi si sono ingrossate di 22 punti percentuali, per Ispo il 73%dei nostri connazionali disprezza il Parlamento. Colpa dello spettacolo recitato dai partiti, colpa del clima di rissa permanente che ha trasformato le due Camere in un campo di battaglia.
Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux. Nel nostro caso le scortesie sono tangibili e concrete come il giornale lanciato in testa al presidente Fini. Ma non è soltanto una questione di bon ton, di buona educazione. O meglio, dovremmo cominciare a chiederci per quale ragione i nostri politici siano scesi in guerra. Una risposta c’è: perché sono logori, perché hanno perso autorevolezza, e allora sperano di recuperarla gonfiando i bicipiti. Sono logori perché il tempo ha consumato perfino il Sacro Romano Impero, e perché il loro impero dura da fin troppo tempo.
Guardateli, non c’è bisogno d’elencarne i nomi: sono sempre loro, al più si scambiano poltrona. Stanno lì da quando la seconda Repubblica ha inaugurato i suoi natali, ed è proprio il mancato ricambio delle classi dirigenti la promessa tradita in questo secondo tempo delle nostre istituzioni. Da qui l’urlo continuo, come quello di un insegnante che non sa ottenere il rispetto della classe. Perché se sei autorevole parli a bassa voce; ma loro no, sono soltanto autoritari. Ma da qui, in conclusione, il protagonismo suo malgrado del capo dello Stato.
D’altronde non sarà affatto un caso se l’istituzione più popolare abita sul Colle: dopotutto gli italiani, nonostante la faziosità della politica, sanno ancora esprimere un sentimento di coesione. E il presidente simboleggia per l’appunto l’unità nazionale, così c’è scritto nella nostra Carta. La domanda è: come raggiungerla? Con un ricambio dei signori di partito, con un’iniezione di forze fresche nel corpo infiacchito della Repubblica italiana. Ci penseranno (speriamo) le prossime elezioni. Quanto poi siano lontane, dipenderà dalla capacità di questo Parlamento di mantenere almeno il senso del decoro.
Il Presidente della Repubblica grida: Forza Italia.
Il Presidente del Partito "Forza italia" grida: Forza Italia.....
Chi è il vero Presidente della Repubblica?!!!
IL "QUIZ" CONTINUA ....!!!
BERLUSCONI (CON I SUOI COM-PARI) RUBA LE CHIAVI DI CASA DELL’ITALIA INTERA, REALIZZA UN COLPO DI STATO, E IL PARLAMENTO E IL CAPO DELLO STATO PERMETTONO A 17 ANNI DI DISTANZA ANCORA L’ESISTENZA DEL SUO PARTITO!?!
DUE PRESIDENTI (1994-2011) GRIDANO "FORZA ITALIA"!!! E si pensa ancora che sia tutto una barzelletta!!! (fls)
di Gaetano Azzariti (il manifesto, 10.02.2011)
«Farò causa allo Stato», sarebbe questa la reazione di Berlusconi alla richiesta di rito abbreviato presentata dalla Procura di Milano. Vista la nota propensione a raccontar barzellette del nostro Presidente del Consiglio si può pensare che si sia trattato solo di una malriuscita battuta di spirito.
Se, invece, si dovesse prendere sul serio l’affermazione riportata dalle agenzie di stampa, essa apparirebbe sintomatica di una concezione premoderna dei rapporti tra poteri, estranea alla nostra cultura democratica e costituzionale, lontana dalla realtà dello Stato contemporaneo e dall’evoluzione che, dai tempi di Montesquieu, ha portato a conformare lo Stato come un’entità divisa.
Una barzelletta se s’immagina il «Capo» del governo che fa causa a se medesimo, chiedendo magari al «suo» ministro della giustizia il risarcimento per i danni subiti dal tentativo di svolgere i processi che lo vedono coinvolto. Vedere accanto la vignetta-copertina di Vauro, certamente illuminante più di ogni discorso su una simile schizofrenia dissociativa.
A noi non rimane che prendere sul serio quanto è stato detto. La dichiarazione è grave e inquietante perché tende a negare ogni autonomia ai poteri dello Stato, a quello giudiziario in particolare. Se si ha un minimo di rispetto per la divisione dei poteri (carattere fondativo della civiltà costituzionale moderna) si dovrebbe sapere che compete ai giudici l’esercizio della giurisdizione nei confronti di ogni soggetto di diritto, di ogni persona. La minaccia di «far causa» perché il giudice svolge le sue indagini ha come scopo quello di negare l’autonomia e l’indipendenza del potere, mira a delegittimare l’ordine della magistratura nel suo complesso.
Nulla può valere a giustificare le affermazioni del premier, neppure le sue eventuali ragioni «processuali». Non si può escludere allo stato, infatti, che la Procura di Milano stia interpretando male le regole processuali, né si può escludere che in sede dibattimentale le ragioni della difesa prevalgano su quelle dell’accusa, venendosi così a dimostrare la non perseguibilità penale per le imputazioni mosse. Ma ciò dovrebbe indurre Berlusconi a partecipare al processo che lo vede indagato, non a minacciarne un altro «eguale e contrario».
Deve essere chiaro che la Procura sta esercitando le sue funzioni d’indagine nel rispetto delle regole processuali. Ha presentato, infatti al Gip la richiesta di rito immediato ai sensi degli art. 453 e segg. del Codice di procedura penale. Spetterà ora al Giudice verificare la sussistenza dei presupposti.
Ci sono alcuni profili giuridici che dovranno essere valutati con attenzione e pacatezza: quelli concernenti la possibilità di procedere per via breve, oltre che per il reato di concussione, anche con riferimento all’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile; quello riguardante la competenza della procura milanese; quello relativo al carattere comune ovvero funzionale del reato di concussione posto in essere - secondo l’accusa - dal Presidente del Consiglio. Questioni delicate, che si dovrebbero sviluppare secondo la normale dialettica processuale, nel contraddittorio delle parti, in base a quanto stabilisce la legge.
Ma chi ha mai detto che è facile fare i processi? Anche le accuse dovranno essere provate. In fondo proprio a questo servono i processi. Sono le «sante inquisizioni» i riti d’indagine che non servono a nulla, avendo sin dall’inizio già formulato una condanna. Per fortuna il medioevo giuridico è alle nostre spalle, sebbene il Presidente Berlusconi non sembra essersene accorto. Noi, che siamo sempre stati garantisti, con tutti e in ogni caso, non indietreggiamo: è nel processo che si provano le accuse e può farsi valere l’innocenza di ciascun indagato.
Per cortesia Cavaliere, si faccia processare. Dimostri, se può, in quella sede la sua innocenza, almeno la non rilevanza penale dei suoi comportamenti privati: l’onore del paese ne verrebbe sollevato. Se è convinto che la procura di Milano non abbia «né la competenza territoriale né quella funzionale» faccia come tutti: lo dica al giudice che dovrà valutare l’operato della procura, eserciti i suoi diritti di difesa. Ma non fugga dal processo, non è più il tempo antico del «diritto sovrano». E poi, signor Presidente se lo faccia dire: se proprio non crede alla giustizia perché vuol far causa allo Stato?
LA GIORNATA
Berlusconi, attacco ai magistrati
L’ultimatum di Maroni scuote il Pdl
Il leghista: "Diamoci 3 settimane, o il governo tiene o si va a votare".
Il Pd: conferma che sono alla fine.
I finiani rilanciano: si vada avanti, la legislatura arriverà fino alla fine *
ROMA. Un attacco ai giudici e ai giornali della sinistra, la difesa strenua di due anni e mezzo di governo e la volontà di andare avanti con il programma, ma solo i finiani saranno leali. In caso contrario «siamo pronti a tornare davanti al popolo». Berlusconi chiude la festa del Pdl e spinge sull’acceleratore, denunciando un’eversione in atto da una frangia delle toghe contro di lui, rilanciano l’idea di una commissione d’inchiesta e lanciando strali contro il presidente emerito della Repubblica Scalfaro che, nel 1994, fu complice di «un fatto eversivo contro di noi». Rivendica il suo diritto a governare, Berlusconi, «Ho ancora il 60 per cento del gradimento degli italiani», dice bocciando il governo tecnico. «L’unica preoccupazione sarebbe cambiare la legge elettorale: a che fine? Per tornare al passato, al frazionamento che tanto male ha fatto all’Italia». L’unica soluzione, spiega, è testare la maggioranza. «Vogliamo credere alla lealtà al programma, che per noi non è carta straccia, dichiarata dai colleghi parlamentari che hanno formato un gruppo parlamentare autonomo. Li metteremo alla prova», dice il premier, ma «se questa lealtà verrà meno nei fatti non ci metteremo un minuto per tornare al popolo italiano a chiedere di nuovo la sua fiducia. Questo è il nostro sentimento, il nostro auspicio, la nostra speranza».
L’ultimatum del Carroccio
Ma l’intervista di Maroni al Corriere della Sera manda in fibrillazione la maggioranza. «Il premier - dice Maroni - ha voluto testare ancora questa maggioranza e noi abbiamo deciso di dargli fiducia e sostenerlo ancora lealmente. Ma è difficile che così si possa durare. Ora ci diamo tre settimane di tempo per vedere se questa maggioranza ha davvero la forza di sostenere l’azione del Governo. Se così non è meglio staccare subito la spina. Noi avremmo voluto farlo subito e andare ad elezioni a novembre, per essere più forti da dicembre per fare le riforme. A Berlusconi l’avevamo detto ma lui ha preferito provare ancora la maggioranza». Ora, dice Maroni, «non è più una questione di fiducia» al governo e al premier ma di risultati concreti dell’azione dell’esecutivo e di comportamenti del centrodestra nel mese di ottobre.
La Russa: "Verifica sulla maggioranza"
L’intervista dell’esponente leghista ha provocato reazioni immediate. Per il coordinatore del Pdl e ministro della Difesa La Russa bisogna «verificare se la maggioranza è veramente forte, in caso contrario, tre settimane o tre mesi, sarebbe giusto chiedere al Presidente della Repubblica di tornare a votare» . «Maroni riassume la preoccupazione di tutti, ma il premier ha recuperato l’iniziativa che gli permetterà di tenere unita la coalizione e completare la legislatura», assicura il ministro per l’Attuazione del Programma di Governo Rotondi. «All’amico Maroni dico che la legislatura arriverà fino alla fine e che si rispetterà non solo il programma, ma la volontà degli elettori che ci hanno dato un grandissimo consenso per realizzare le riforme delle quali l’Italia ha bisogno», è la convinzione del ministro delle Politiche comunitarie Andrea Ronchi. «L’Italia - afferma il finiano - ha bisogno di governabilità e stabilità e non di pericolose fughe in avanti come le elezioni». Quanto a ipotesi di terzo polo, alle quali per qualcuno Fli potrebbe aderire, Ronchi risponde in modo netto: «Siamo figli del bipolarismo, che deve essere ulteriormente rafforzato. Chiunque parli di terzo polo per ciò che mi riguarda è fuori dalla realtà ».
Il Pd: "La maggioranza non c’è più"
L’opposizione intanto coglie la pala al balzo e va all’attacco. Per Enrico Letta «le parole di Maroni dimostrano che la maggioranza del 2008 non c’è più» e che con il voto di fiducia «c’è stato solo un rattoppo». Il vicesegretario del Pd detta la linea: «Anche noi riteniamo giusto e naturale che gli elettori si esprimano, ma pensiamo che lo si debba fare in primavera dopo che legge elettorale è stata cambiata». Bersani spazza via i tentennamenti: mentre questo governo va avanti «traccheggiando», il Pd è pronto al voto, assicura il segretario democratico. E, a chi gli chiede se il Pd sarebbe in grado di ricompattarsi adesso in vista del voto anticipato, il segretario nazionale risponde: «Assolutamente sì». Per il dipietrista Belisario (Idv) «l’intevista di Maroni conferma che il governo è uno zombie, durerà ancora poco». Il capogruppo dell’Italia dei Valori al Senato attacca il premier: «Berlusconi è un presidente del Consiglio dimezzato, sotto il costante ricatto della Lega da una parte e dei finiani dall’altra, non era capace di governare prima figurarsi adesso».
* La Stampa, 3/10/2010
CRAC PARMALAT
Quirinale: "Tanzi è indegno"
Revocato titolo di cavaliere
Il presidente della Repubblica accogliendo la proposta del ministro dello Sviluppo economico ha cancellato l’onorificenza al merito del lavoro conferita all’ex patron della Parmalat nell’84
ROMA - Calisto Tanzi non è degno del titolo di Cavaliere del Lavoro. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, accogliendo la proposta del ministro dello Sviluppo economico, ha firmato venerdì scorso il decreto di revoca "per indegnità" della decorazione di Cavaliere al Merito del Lavoro, che era stata conferita all’ex patron della Parmalat il 2 giugno 1984, con decreto firmato dall’allora Capo dello Stato, Sandro Pertini.
Dopo le complesse vicende del crac della Parmalat e delle condotte tenute dal fondatore e presidente dell’azienda (per le quali Tanzi è già stato condannato 1 a Milano) il ministero dello Sviluppo economico aveva chiesto di cancellare l’onorificenza ritenendo che sussistessero "le condizioni previste dalla legge per la revoca". Sarà ora lo stesso ministero di via Veneto, come si afferma nel decreto presidenziale, a curare la trascrizione del provvedimento nell’albo dell’ordine, oltre che a farlo pubblicare nella Gazzetta Ufficiale.
Nell’agosto scorso il presidente aveva tolto all’imprenditore responsabile del gigantesco fallimento di migliaia di risparmiatori anche il cavalierato della Gran Croce
* la Repubblica, 20 settembre 2010
"Nessuna ombra sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale di cui è parte integrante Roma Capitale" *
"E’ mio doveroso impegno ed assillo che non vengano ombre da nessuna parte sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale, di cui è parte integrante il ruolo di Roma capitale". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Roma Capitale al Campidoglio.
"Un ruolo - ha aggiunto il Presidente - che non può essere negato, contestato o sfilacciato nella prospettiva che si è aperta e sta prendendo corpo di un’evoluzione più marcatamente autonomista e federalista dello Stato italiano".
"Questa - ha proseguito il Capo dello Stato -, con il netto riconoscimento contenuto nel riformato Titolo Quinto della Carta e con la conseguente norma di legge del 2009, chiama piuttosto voi che rappresentate e amministrate Roma a un nuovo impegno ordinamentale, d’intesa con la Regione e la Provincia, e ad una nuova prova di efficienza e modernità nell’esercizio di funzioni ben più ricche che nel passato. Portarvi all’altezza di questa prova è ciò che conta e che vi stimola, non l’invocare formalmente il rango di Roma capitale".
Il Presidente Napolitano nel suo intervento ha anche elogiato Roma e la sua capacità di accoglienza: "Mai - ha detto - mi sono sentito a disagio, pur senza dissimulare la profondità delle radici e degli affetti che mi legavano e mi legano a Napoli: ed è forse propria dei napoletani l’attitudine a integrarsi, anche in luoghi ben più lontani, così come propria di Roma, e straordinaria, è la capacità inclusiva, l’attitudine ad aprirsi, ad accogliere altri, ad abbracciare, innanzitutto, ogni italiano".
Le celebrazioni per i 140 anni di Roma Capitale erano iniziate questa mattina con la deposizione di una corona di alloro da parte del Presidente della Repubblica al Monumento dei caduti di Porta Pia alla presenza del Segretario di Stato di Sua Santità, Cardinale Tarcisio Bertone, del Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, del Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, del Presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, del Presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, del sottosegretario Gianni Letta, e delle autorità di governo.
* SITO: PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
LEGGE ELETTORALE
La tentazione del Cavaliere
lo scambio fra lodo e Mattarellum
Berlusconi potrebbe tornare al Mattarellum solo se il Pd accetta di votare il lodo Alfano in veste costituzionale. Otterrebbe i due terzi, eviterebbe il referendum e bloccherebbe al più presto tutti i suoi processi milanesi
di LIANA MILELLA *
A MARE il Porcellum, pur di salvare se stesso. Il ritorno al Mattarellum, ma solo se il Pd accetta di votare il lodo Alfano in veste costituzionale, in modo da ottenere i due terzi, evitare il referendum e bloccare al più presto - aprile calcolano gli uomini di Berlusconi - tutti i suoi processi milanesi. Stavolta definitivamente. Senza più patemi. Tranquillo fino allo scadere della legislatura. È questa la tela segreta, il grande scambio tra scudo e legge elettorale, che in queste ore sta tessendo palazzo Chigi. Nella quale l’atteggiamento e la posizione di Fini rivestono, per il Cavaliere, un ruolo fondamentale. Un suo sì, "ma pieno, rotondo e senza scherzi", allo scudo rappresenta un primo passo essenziale. Perché, ragiona il premier con il Guardasigilli Angelino Alfano, "dell’intesa sul lodo dobbiamo essere sicuri al cento per cento, altrimenti è meglio che io faccia saltare tutto adesso per votare in primavera".
Il Porcellum, la legge "porcata" come la battezzò il leghista Calderoli, gli ha regalato il potere assoluto di mettere in lista chi gli pare e consegnarlo come un pacco regalo agli italiani, ma Berlusconi è deciso a buttarla via tentando uno scambio con il Pd. Che sfrutta un dato di fatto, la voglia profonda dei Democratici di tornare al sistema inventato dall’ex ministro Sergio Mattarella. Come dimostra la notizia che i pd Arturo Parisi e Stefano Ceccanti ieri si vantavano di aver già raccolto 187 firme, 80 senatori e 107 deputati, per sostenere quella "semplice legge" ipotizzata dall’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky e una legislatura fa depositata dall’ex pm Felice Casson. Due righe, "è abrogato il Porcellum, si torna al Mattarellum". Sui mal di pancia del Pd punta Berlusconi, convinto, mentre ne ragiona con i suoi, che lo scambio tra lodo Alfano e abolizione del Porcellum non sia affatto un sogno impossibile.
A chi, delegato a svolgere il ruolo di ambasciatore, gli obietta che "mai e poi mai i Democratici voterebbero per una legge che considerano ad personam", lui fornisce l’argomento utile da spendere: "Ditegli che solo così potranno cambiarla, altrimenti si torna a votare con quella". Fa di conto, il Cavaliere. Dà per scontata l’adesione dell’Udc e comincia a convincersi che anche Fini sullo scudo stia facendo sul serio. Al presidente della Camera, che già quest’estate si interrogava su quale potesse essere la via d’uscita per risolvere i problemi giudiziari del premier e chiedeva consigli, in quel di Ansedonia, alla sua consigliera per la giustizia Giulia Bongiorno, lei aveva risposto che l’unica via, la più "pulita", era quella della sospensione dei processi per la durata del mandato, ma da perseguire con legge costituzionale. Fini dunque non gioca, e ieri Italo Bocchino lo ha confermato ad Angelino Alfano.
Incontro casuale, si dice. Due padri che portano a scuola, per l’inizio dell’anno, la figlia e il figlio. Guarda caso pure nella stessa classe. Poi una merenda, tra scorte e telecamere, al bar Ruschena, lungotevere all’angolo della Cassazione. Un’ora e più di colloquio. Su Repubblica la notizia che Fini dà mandato alla Bongiorno di dare il via libera all’accelerazione del lodo. Bocchino conferma che il suo capo fa sul serio. Quella "è una strada che rispetta le regole, non scassa il sistema, riguarda solo un processo e non ne manda a capofitto centinaia come il processo breve".
E allora non resta che far di conto. Verificare i tempi. Incrociare il progetto con la decisione della Consulta sul legittimo impedimento (il 14 dicembre). L’ipotesi di cambiare quella legge, su cui pure Alfano ha ragionato, non pare spendibile. Una versione che la attenuasse, ha spiegato l’avvocato del premier Niccolò Ghedini, danneggerebbe soltanto il suo assistito. La tattica decisa è un’altra. Che i berluscones spiegano così: "Metteremo la Corte di fronte al fatto compiuto che il Parlamento sta approvando a tappe forzate la legge costituzionale, per cui la legge ponte, il legittimo impedimento, è comunque destinata a scomparire". Per questo contano i tempi, cui è delegato a lavorare Carlo Vizzini, il presidente della commissione Affari costituzionali e relatore del lodo. Che ieri ha sottoposto al capogruppo pdl Maurizio Gasparri l’ipotesi di un incontro congiunto tra Camera e Senato per verificare la stesura di un testo definitivo.
Su questo si gioca la corsa a tappe forzate. Sì rapido al Senato, aula ad inizio ottobre, entro dicembre il secondo voto alla Camera. Tre mesi obbligatori di attesa. Poi la terza e quarta lettura. Legge pronta ad aprile. E qui, calcola Vizzini, "dovrebbero essere necessari 190, al massimo 200 giorni, per andare al referendum, qualora fosse necessario". Ma Berlusconi lavora per evitarlo mettendosi d’accordo col Pd. Se non ci riuscisse ecco il referendum in autunno, che lui considera già vinto visto che spenderà la sua faccia. A quel punto starà per scadere il legittimo impedimento. Ma a vederlo da fuori è un puzzle con molti, troppi incastri.
* la Repubblica, 14 settembre 2010
IL RETROSCENA
L’ira di Berlusconi sul Colle:
Scorretto, non doveva intervenire
Il Cavaliere ora teme lo scenario del ’94, una soluzione "alla Dini". Irritazione per la scelta dell’intervista all’Unità: "Proprio il giornale che mi denigra sempre". Su Fini: "La storia della casa gli ha tolto la maschera, perderà anche la poltrona"
di CARMELO LOPAPA *
È il fantasma del ’94 che ritorna. La soluzione "alla Dini" che si staglia all’orizzonte. Il premier Silvio Berlusconi intravede l’uno e l’altra e lo sfogo è denso di rabbia. "Napolitano è stato scorretto".
L’intervista del capo dello Stato all’Unità fa vedere nero, al presidente del Consiglio. La legge di primo mattino e la mette via: "È una intromissione indebita" è stata la reazione a caldo, riferita da alcuni fra i tanti capigruppo, ministri e semplici deputati che lo hanno sentito al telefono per sondarne gli umori, cogliere le sfumature, prevedere l’andazzo.
Il monito del Colle è sceso giù sull’inner circle berlusconiano come una doccia fredda. "Proprio all’Unità doveva concedere l’intervista?" si è chiesto retoricamente il Cavaliere. "Proprio al giornale che da sempre conduce una campagna denigratoria contro di me? È una provocazione". Ma non è solo il "mezzo" ad aver indispettito il capo del governo, ancora ieri ad Arcore e in procinto di trasferirsi da oggi in Sardegna giusto per la pausa di Ferragosto. Quell’evocazione del "vuoto politico" che metterebbe a rischio il Paese in caso di ricorso alle urne, l’invito a fermare la campagna di delegittimazione nei confronti del presidente della Camera, sono per Berlusconi la conferma che l’obiettivo del voto anticipato, in caso di crisi politica in autunno e dimissioni, non sarà tanto facile da raggiungere. Non è insomma una soluzione scontata, per il Quirinale. Prendono così corpo nuovamente, nel giro di poche ore, tutti i sospetti del leader Pdl sulle chances crescenti di un governo tecnico o di transizione. "Ma se danno vita a un altro esecutivo al posto mio, sarà un colpo di Stato e come tale io lo denuncerò" ha confessato il premier a uno dei maggiorenti del partito nel corso della giornata. "E di fronte a un golpe io mando la gente in piazza". Richiamo non nuovo alla mobilitazione, arma finale che Berlusconi in più di un’occasione ha ventilato. Questa volta al cospetto del Colle. Non a caso, poche ore dopo la pubblicazione dell’intervista a Napolitano, proprio il capogruppo Cicchitto viene lanciato subito alla carica, col richiamo alle "menifestazioni" di piazza. Poi tutti i falchi a seguire. Bondi, Gasparri, Napoli, tra gli altri.
Ma ad aver irritato altrettanto Berlusconi è stato anche l’invito a frenare la campagna in corso sull’inquilino di Montecitorio. "Sono stati usati due pesi e due misure. Nulla in mia difesa quando un anno fa sono stato al centro di un attacco politico e mediatico senza precedenti - si è sfogato ancora - adesso l’invito a fermare un’inchiesta su Fini sulla quale io nulla ho a che fare". Di più. "Il presidente della Repubblica avrebbe dovuto invitarlo piuttosto a fare chiarezza sulla faccenda della casa, e allora sì che Gianfranco sarebbe stato sull’orlo delle dimissioni". Il sospetto neanche tanto velato che il premier non riesce a cacciare è che l’asse Quirinale-Montecitorio, l’intesa solidissima tra Napolitano e Fini, resista e trami alle sue spalle. Magari per disarcionarlo. Magari per affidare le redini di un esecutivo di emergenza, di solidarietà nazionale, a una figura terza, al governatore di Bankitalia Mario Draghi, per esempio.
Quel che anche ieri il premier andava ripetendo ai più stretti collaboratori è che "con Fini non farò mai la pace". Toni ancora più aspri del solito: "Con questa storia della casa gli è stata tolta la maschera, io gli toglierò la poltrona". Il leaeder Pdl resta infatti convinto che il presidente della Camera "sarà costretto a dimettersi: e in ogni caso, lo porterò al voto, gli farò fare la fine di Rifondazione comunista". Su questo, sul ricorso al più presto alle urne, l’intesa con Bossi resta piena. Col Senatur si sono sentiti nel pomeriggio, concordando per il 25 agosto un vertice informale tra dirigenti di Pdl e Carroccio, nella villa berlusconiana sul lago Maggiore. Le parole di Napolitano, neanche a dirlo, sono state lette al contrario con grande apprezzamento da Gianfranco Fini. "Bisognerebbe ascoltare le sue parole anziché giocare allo sfascio" sarebbe stato uno dei suoi commenti. Il capogruppo Italo Bocchino ha da poco lasciato Ansedonia, casa di vacanza del presidente della Camera, quando viene diffusa una sua nota in cui, prendendo spunto dall’intervista al capo dello Stato, si sottolinea non a caso come sia "facile capire chi gioca allo sfascio e vuol trascinare il paese in una ulteriore avventura elettorale nel più assoluto disprezzo dell’interesse nazionale". La convinzione dei finiani - anche alla luce delle ultime prese di distanza di Montezemolo e della Marcegaglia dal governo Berlusconi - è che il premier sia "ormai isolato: ha capito che il suo progetto di elezioni anticipate non avrà sbocco".
* la Repubblica, 14 agosto 2010
GOVERNO
I berlusconiani attaccano Napolitano Il Pd: "Il premier rispetti la Costituzione"
"Meglio il voto che la paralisi politica" dice il coordinatore Bondi e Cicchitto annuncia "manifestazioni di piazza" contro l’ipotesi del governo tecnico. I finiani con il capo dello Stato
ROMA - "No alla corsa al voto e stop alla campagna contro il presidente della Camera" 1, il messaggio recapitato da Giorgio Napolitano al mondo politico non è piaciuto per nulla al Pdl ed i big del partito sono scesi in campo per puntualizzare e mettere paletti a partire dalla contrarietà all’ipotesi di governi tecnici. Fabrizio Cicchitto si spinge a prefigurare " incisive manifestazioni di piazza" qualora venissero messe in pratica "manovre di Palazzo". Apprezzamento per il messaggio del Capo dello Stato arriva invece dal gruppo di "Futuro e Libertà": basta con gli attacchi al presidente della Camera, dicono i finiani. Nell’opposizioni è critico con i berlusconiani il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. "Berlusconi rispetti la Costituzione", dice Bersani, "le minacce dei suoi non impressionano nessuno". Mentre Di Pietro pur condividendo le valutazioni del Capo dello Stato, ritiene che il suo messaggio "sia in anticipo e possa generare equivoci e malumori".
Pdl su Napolitano. Il messaggio del Capo dello Stato resta al centro della giornata politica. In casa Pdl un governo tecnico è un’eventualità non contemplata. "L’intervista del presidente della Repubblica pone questioni al mondo politico che non possono essere eluse e che dovranno trovare un chiarimento nell’interesse del paese", dice il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. "Vi sono tuttavia aspetti dell’attuale situazione politica - prosegue Bondi - che risultano già evidenti, a partire dalla constatazione che, maggiormente in una situazione di perduranti difficoltà economiche, sia meglio il ricorso al voto piuttosto che la paralisi politica".
No a governi tecnici. Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl ribadisce il suo no all’ipotesi di esecutivi tecnici. "Non sono per niente condivisibili le ipotesi di governi tecnici e di governi di transizione. Si tratterebbe, infatti, di manovre di Palazzo, volte ad evitare che si ascolti quello che pensano gli elettori cioè la volontà effettiva del popolo. Qualora decollassero operazioni di questo tipo, sarebbe legittimo sviluppare - è la conclusione di Cicchitto - le più’ incisive manifestazioni politiche, in Parlamento e nel Paese". "E’ giusto", aggiunge Gasparri, "il tono misurato usato dal presidente Napolitano in una intervista rilasciata a un giornale di partito, noto per le sue campagne di odio contro Berlusconi che non corrispondono alle critiche di Napolitano alle campagne di delegittimazione delle istituzioni". "Non c’è nessuno spazio in questo Parlamento", conclude Gasparri, "per cambiare la legge elettorale. Napolitano lo sa benissimo. Le alternative sono solo due: o Berlusconi o il voto".
Fli: accogliere l’appello di Napolitano. Futuro e libertà rilancia invece l’appello del presidente della Repubblica e invita a far cessare gli attacchi contro il presidente della Camera, Gianfranco Fini. "Tutti dovrebbero riflettere sulle parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano secondo cui è ora che cessi la campagna gravemente destabilizzante sul piano istituzionale qual è quella volta a delegittimare il presidente di un ramo del Parlamento e la stessa funzione essenziale che egli è chiamato ad assolvere per la continuità dell’attività legislativa". E’ quanto hanno dichiarato i parlamentari di Fli, Italo Bocchino, Silvano Moffa e Pasquale Viespoli.
"Poichè ad alimentare questa irresponsabile campagna sono alcuni esponenti del Pdl e del governo oltre che il continuo delirio calunniatorio del giornale della famiglia Berlusconi è facile capire chi gioca allo sfascio e vuol trascinare il paese in una ulteriore avventura elettorale nel più assoluto disprezzo dell’interesse nazionale. Noi non ci stiamo e sentiamo il dovere di denunciarlo con chiarezza", concludono.
Bersani: Berlusconi rispetti la Costituzione. Condivisione per il messaggio del presidente della Repubblica dall’opposizione. "Le parole del presidente Napolitano sono un richiamo forte e chiaro alla responsabilità politica e ai principi costituzionali". Lo afferma il Segretario nazionale del Pd Pier Luigi Bersani. "E’ inutile negare che la discussione che si è aperta tocca ormai un punto di fondo". "Si vuole interpretare la Costituzione come un involucro formale", nota il segretario del Pd, "cui dare sostanza con un consenso interpretato come un plebiscito e, se occorre, come ha detto Cicchitto, anche con la piazza. Se la destra pensa con idee del genere di camminare sul velluto, si sbaglia di grosso". "Finchè Berlusconi non avrà fatto la Costituzione di Arcore", conclude Bersani, "volente o nolente rispetterà quella su cui ha giurato. Sappia che le minacce esplicite o velate non impressionano nessuno".
La precisazione di Di Pietro. Apprezzamento, ma con un distinguo dall’Idv. "Il presidente della Repubblica ha detto una cosa giusta, anzi giustissima", dichiara Antonio Di Pietro, "ma ritengo che il suo messaggio sia in anticipo e possa generare equivoci e malumori. Lui è l’arbitro, e non può muoversi come un giocatore perchè così rischia di condizionare il gioco".
I centristi. L’Udc condivide "in pieno il prezioso invito del presidente Napolitano alla moderazione dei toni e alla sobrietà". Lo dice il segretario centrista Lorenzo Cesa, che avverte: "Nel caso in cui questa maggioranza venisse meno c’è la costituzione a fare la massima chiarezza sui percorsi e sui soggetti cui compete esprimersi: tutto il resto, compresi i commenti stizziti di alcuni esponenti politici alle parole del Capo dello Stato, denota solo il livello di degrado cui è arrivato lo scontro politico in questo paese".
* la Repubblica, 13 agosto 2010 (ripresa parziale)
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ... ________________________________________________________________
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parla alle alte cariche dello Stato
"Serve massima condivisione per fare le riforme. Ma il clima non è buono"
"Nessun complotto contro il governo
ma il Parlamento è stato compresso" *
ROMA - "Bisogna guardare con ragionevolezza allo svolgimento di questa legislatura ancora nella fase iniziale, non si paventino complotti che la Costituzione e le sue regole rendono impraticabili contro un governo che goda della fiducia della maggioranza in Parlamento". Giorgio Napolitano pronuncia parole chiare sulle tensioni politiche che agitano l’Italia. Ricordando la funzione di salvaguardia della Costituzione che impedisce "scorciatoie", rilanciando la necessità delle riforme e tirando una bacchettata, indiretta, all’esecutivo. Parlando con le alte cariche dello Stato al Quirinale, infatti, il presidente definisce il Parlamento "compresso", critica l’uso di "fiducie e maxiemendamenti", il "continuo succedersi di decreti legge" (47 in questa legislatura) e sottolinea come si tratti "di fenomeni che tendono a consolidarsi e ad aggravarsi".
Parlando con le alte cariche dello stato al Quirinale, il presidente invita "alla più larga condivisione, strada maestra per realizzare le riforme istituzionali, strada percorribile". Cosa non facile, però. Soprattutto oggi: "Il clima non è ancora favorevole. Proprio per questo è necessario fermare il degenerare della violenza e nessuno si deve sottrarre". Ricorda l’aggressione a Berlusconi, Napolitano. Definendola "un fatto assai grave, di abnorme inconsulta violenza, che ha costituito motivo non solo di profondo turbamento ma anche di possibile (ne abbiamo visto i primi segni) ripensamento collettivo".
Certo Napolitano non sottovaluta l’esasperazione che segna il mondo della politica ("una conflittualità che va ben oltre il tasso fisiologico delle democrazie mature"), ma sottoliena come l’Italia non sia "un paese ’diviso su tutto. Stiamo attenti a non lacerare quel fondo di tessuto unitario vitale e condizione essenziale per affrontare i problemi".
Poi tocca alla giustizia. Napolitano non nasconde i problemi. "I problemi vanno affrontati nella loro oggettività - dice il capo dello Stato - Ci sono buoni motivi per ritenere che occorrano per stabilire un più corretto rapporto tra politica e giustizia insieme a comportamenti più moderati e costruttivi modifiche sia di leggi ordinarie sia di clausole costituzionali".
Il Capo dello Stato ribandisce poi l’importanza del mantenimento degli impegni assunti, a cominciare da quello della guerra in Afghanistan: non si tratta infatti di "una missione o una guerra americana, ma un impegno della comunità internazionale e dell’Onu con l’unico scopo di proteggere il mondo dal terrorismo internazionale". "Per quanto serie siano le difficoltà di carattere finanziario non possiamo in nessun modo venir meno agli impegni presi - spiega il presidente - perché il ruolo che l’Italia svolge è fondamentale per la sua reputazione internazionale".
Le reazioni. "Un monito chiarissimo che non si presta a interpretazioni divergenti. Le riforme della Costituzione si devono fare per un preciso interesse nazionale ed è doveroso ricercare la più larga convergenza possibile" commenta il presidente della Camera, Gianfranco Fini. "Forte e chiaro come al solito. Ora lavoriamo tutti su questa traccia" dice il leader del Pd, Pierluigi Bersani. mentre per il presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo si tratta di "musica per le orecchie di chi spera che poi quanto il presidente della Repubblica ha detto si avveri".
* la Repubblica, 21 dicembre 2009
Ronde, come spaccare l’Italia
Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato percorrono le nostre strade con poteri incostituzionali di controllo del «territorio»
di Furio Colombo (l’Unità, 1.03.2009)
La secessione di Bossi assomiglia alla minaccia nucleare di Teheran. Il piano è già fatto, ma i pezzi arrivano un po’ per volta. La differenza è che, per ogni passo avanti dell’Iran, anche piccolo, anche simbolico, il mondo trasalisce e alza la voce. In Italia, invece, tutti assistiamo assenti o compiaciuti mentre, con espedienti o modalità diverse, la Lega smantella l’Italia. Non siamo ancora arrivati al federalismo fiscale che segnerà lo smembramento ufficiale e legale del Paese. Ma molti pezzi staccati di ciò che era l’Italia giacciono già, in esibizione penosa, sui prati dei «territori».
I cittadini non sono più uguali. I diritti condivisi sono stati spezzati. I sindaci-sceriffi si sono dotati di poteri che - in uno Stato normale - non hanno nulla a che fare con i compiti e le funzioni dei sindaci. Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato (o meglio da un ministro infiltrato dentro lo Stato di cui è avversario) percorrono le nostre strade con il nome civettuolo di “ronde” a cui si danno poteri di controllo del «territorio» che - in condizioni normali, e se vigesse la Costituzione - spetterebbero solo allo Stato.
Tenete conto della parola «territorio». Non esiste nella Costituzione, che infatti recita: «L’Italia è composta di Comuni, Province, Regioni». La Lega Nord ha imposto le parole «territori» e «popoli» perché non sa dire cos’è o dov’è la sua presunta patria, la Padania, e non sa come distinguere i suoi presunti cittadini “padani” da tutti gli altri italiani.
Il colpo di genio è venuto attraverso l’accordo-ricatto di Arcore: invece di svelare le amicizie pericolose di Berlusconi con la mafia (come aveva cominciato a fare «La Padania» nel 1999, pubblicando in prima pagina la foto di Berlusconi accanto a quella di Totò Riina), la Lega viene dotata di tutto il sostegno mediatico e finanziario necessario per sembrare un partito nazionale.
In tal modo un partito locale eletto quasi solo in due regioni italiane conquista punti cruciali di controllo nel governo e dello Stato italiano che era, invece, il nemico (ricordate “Roma ladrona”?).
Ma la strategia della Lega, mentre da un lato ricatta con successo tutto il versante berlusconiano e porta un partito nazionalista come An a sostenere con fervore ogni nuovo atto secessionista, dall’altro affascina e ipnotizza ciò che resta della sinistra. La prova più impressionante sono le «ronde di Penati», ovvero il disorientante sostegno alla cultura della Lega da parte del presidente della Provincia di Milano, già Ds, ora leader Pd, Filippo Penati . «Che c’è di sbagliato nell’associare ai sindaci carabinieri e poliziotti in pensione e mandarli a sorvegliare parchi, scuole, strade? Chiamiamoli presìdi e non ronde e le obiezioni verranno meno». (La Repubblica, 23 febbraio).
Che c’è di male? C’è che salta tutto l’impianto di legalità costituzionale di un Paese democratico. C’è che si nega il compito delle forze dell’ordine regolate dalla legge. C’è che si aboliscono i diritti garantiti dei cittadini. C’è che a Milano l’unico esponente Pd (cioè della normale cultura costituzionale italiana nelle istituzioni) abbraccia in modo pubblico e clamoroso la cultura della Lega che infaticabilmente lavora a divaricare l’Italia.
I governi, centrale e locale, vengono riorganizzati come agenti persecutori degli immigrati e di tutti gli altri cittadini (dai medici ai poliziotti ai giudici) che non intendono prestarsi al brutto gioco della divaricazione morale e della spaccatura fisica del Paese.
Intorno allo slancio della cultura rondista si forma un focoso rapporto plebiscitario e tribale fra sindaco ed elettori, dove tutto avviene al di fuori delle leggi e della Costituzione. I danni sono enormi, da Lampedusa che brucia agli attacchi di natura razziale frequenti, ripetuti, spinti fino all’omicidio e alle persone a cui danno fuoco sulle panchine. Gli ospedali diventano luoghi pericolosi da cui stare alla larga se si è clandestini, anche per chi è portatore di malattie contagiose. Le scuole hanno classi separate per i non italiani e test di «cultura locale» per tenere lontani dall’integrazione i figli degli immigrati, e tenere bassa e umiliante la qualità della scuola italiana.
Devastando con leggi nazionali e arbitrio locale la Costituzione italiana, la Lega ha fatto molto di più della secessione. Ha infettato di cattiveria persecutoria tutto il Paese, aperto la strada ai linciaggi, diffuso disprezzo e odio. La Lega, salita sulla groppa di Berlusconi, governa la Repubblica italiana. È peggio, molto peggio, della minaccia di secessione.
POLITICA
Il prezzo dell’impunità
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Berlusconi andrà fino in fondo senza curarsi degli inviti del Capo dello Stato a trovare in Parlamento soluzioni condivise - almeno per materie come la sicurezza e la giustizia. Non si attarderà ad ascoltare le perplessità del suo alleato (la Lega). Non presterà alcuna attenzione alle sollecitazioni di un’opposizione moderata e ragionevole (Udc, Pd).
Non stringerà la mano tesa di una magistratura che, stanca di guerra, vuole almeno tutelare - in questa temperie - una decente funzionalità dell’amministrazione giudiziaria, un’accettabile efficacia del processo penale, la concretezza della pena. Venisse giù il cielo, Berlusconi andrà fino in fondo per due ragioni che sono indivisibili nella indefinitezza che ha sempre separato il suo privato dalla responsabilità pubblica che (legittimamente) interpreta. Deve proteggersi da un presente penale e rimuovere ogni incognita dal futuro. La sua urgenza personale (non essere processato) è diventata pubblica necessità come la diffusa percezione d’insicurezza, come la crisi della "monnezza" a Napoli. Oscurità che chiedono di essere rimosse presto, con un’immediata decisione, rapida come un lampo di luce, anche a costo di violare lo Stato di diritto - anche in quest’occasione, come nelle altre - di separare lo Stato dal diritto. Diventata estrema e improrogabile la necessità di fermare il suo processo e di scongiurare la possibilità che ce ne siano in futuro, vengono congelati per un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno del 2002, in attesa di approvare un nuovo "lodo" immunitario.
Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari. È un reato rarissimo, in Italia. Si celebrano meno di due processi all’anno per quel delitto. È questa trascurabile presenza statistica che rende indispensabile fermare per un anno migliaia di processi per i più diversi reati. La decisione paralizza una macchina giudiziaria già inceppata e caccia l’esecutivo in una contraddizione irrisolvibile e irragionevole, se ci fosse ancora spazio per la ragione. Da un lato, definisce un catalogo di reati di grave allarme sociale e ne irrobustisce le pene; dall’altra, per gli stessi reati (stupro, usura, traffico di rifiuti, sfruttamento della prostituzione, omicidio colposo per i pirati della strada...) li dice irrilevanti, marginali e dappoco fino allo spartiacque del 30 giugno 2002. In nome di una personale sicurezza e impunità, il capo del governo accetta di mettere in tensione la sicurezza di tutti. Racconta di voler rendere più sicuro il Paese e lo rende disarmato. Chiede alla magistratura di fronteggiare le minacce diffuse e l’azzoppa irrimediabilmente.
Il metodo può apparire incoerente per il senso comune, per la più fragile delle decenze istituzionali. È, al contrario, ragionevolissimo per un esecutivo e una maggioranza iperpersonalizzati che presentano il premier come un sovrano, come il solo salvatore capace di risolvere i problemi del Paese, il solo uomo in cui la maggior parte degli italiani ha "fiducia". Salvare da ogni controllo di legalità Berlusconi, trasformato in icona e pietra angolare del sistema; proteggere il suo potere e - con esso - la possibilità stessa di una "decisione" libera dai consueti legacci o dai "costituzionali" contrappesi vuol dire - in questo nuovo, artificioso stato di necessità - tutelare non Berlusconi, ma il governo del Paese, la sola via d’uscita dalle molte crisi che lo affliggono.
In questo slittamento di significato dal privato al pubblico, dalle ragioni di uno alle necessità di tutti, si deve cogliere uno dei segni distintivi di questa stagione politica. Bisogna cominciare a fare i conti con gli esiti. Occorre iniziare a cogliere, dietro la retorica berlusconiana, le tecniche che la sostengono. È necessario prendere atto, oggi e innanzitutto, dello svuotamento funzionale del potere del Parlamento.
C’erano molte ragioni per una valutazione attenta del Senato dei pericoli, contraddizioni e debolezze del provvedimento con forza di legge approvato dal governo. Le circostanze aggravanti da infliggere a chi "si trova illegalmente sul territorio nazionale" rispettano il dettato costituzionale o danno vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero? La sospensione incondizionata dei processi migliora davvero il "servizio giustizia" nell’interesse del cittadino - sia esso imputato o vittima - o ne pregiudica in modo grave il lavoro? Un’immunità che garantisca le alte cariche dello Stato deve davvero passare attraverso lo strappo violento del precetto che rende tutti uguali davanti alla legge? C’era anche "materia" politica e istituzionale da sorvegliare dopo le aperture della Lega, le proposte di Udc e Partito democratico, le prudenti riflessioni dell’Associazione nazionale magistrati. Il Senato (e alla Camera non andrà in modo diverso) si è mostrato del tutto indifferente a ogni questione; disinteressato a ogni distinzione tra utile e dannoso, necessario e arbitrario, giusto e ingiusto; neutrale anche rispetto ai valori costituzionali interpellati dal decreto del governo e dagli emendamenti imposti dal presidente del Consiglio.
Affiora un metodo. Il Parlamento (un Parlamento non di eletti, ma di "nominati") rinuncia a elaborare "politiche", le subisce. Non le discute, le approva a occhi chiusi consegnandosi, come fosse un involucro vuoto, a una impotente autoemarginazione. Libera dalla presenza del potere legislativo, la retorica "anti-sistema" di Berlusconi potrà muoversi senza ostacoli - se quel che si è visto finora è soltanto un saggio del futuro della legislatura - lungo i confini disegnati dalle tre strategie finora messe in campo. Istituzionale: coinvolge il capo dello Stato nelle sue iniziative, salvo imbrogliarlo nel merito; mima il dialogo con le opposizioni, salvo affondarlo secondo convenienza. Extra-istituzionale: con una comunicazione manipolata e sovrattono, abusa della "fiducia" che il Paese gli concede a piene mani per compilare un’agenda di governo che ne trascura i problemi più autentici. Anti-istituzionale: aggredisce con sistematicità le istituzioni di controllo, subito la magistratura. È un’agevole previsione credere che molto presto toccherà all’informazione.
* la Repubblica, 25 giugno 2008.
Respinto il ricorso in appello di mediaset contro Centro Europa7
Per i giudici la decisione spetta al ministro delle Comunicazioni
No del Consiglio di Stato a Rti
"Governo applichi sentenza Ue"
ROMA - Tocca al governo decidere sull’istanza di Centro Europa7 per l’assegnazione delle frequenze televisive nazionali analogiche. Lo dice il Consiglio di Stato, che ha respinto il ricorso in appello proposto da Rti Spa (Mediaset) contro l’emittente, con il quale si chiedeva l’annullamento della sentenza del Tar del Lazio del settembre 2004.
I giudici di Palazzo Spada ritengono "la persistenza del dovere del ministero (delle Comunicazioni, ndr) di rideterminarsi motivamente sull’istanza di Centro Europa7 per l’attribuzione delle frequenze".
Il Consiglio di Stato si richiama alla sentenza della Corte di Giustizia Ue, che lo scorso 31 gennaio aveva stabilito che le norme italiane sulle frequenze non rispettano le direttive comunitarie, non rispettano il principio della libera prestazione dei servizi e non seguono criteri di selezione obiettivi.
Come dire che il sistema italiano limita la concorrenza. E il lungo periodo transitorio di cui ha sinora beneficiato Retequattro era da ritenersi illegittimo. La sentenza Ue riconosceva quindi a Europa7 il diritto ad avere le frequenze per trasmettere.
* la Repubblica, 31 maggio 2008
Ostruzionismo su "salva-Rete4" La maggioranza è già in affanno
Veltroni: «Decreto è una forzatura»
Maggioranza in affanno per l’ostruzionismo dell’opposizione che è riuscita anche in una manovra di sgambetto al governo su un emendamento minore e per un pelo non ha fatto saltare la seduta per mancanza di numero legale al mattino. Il confronto è infatti su un decreto "milleproroghe" che riguarda argomenti disparati ma nel quale il governo aveva "nascosto" una norma sulle frequenze tv da assegnare che di fatto sanava la situazione delle rete Mediaset in modo da "dribblare" la sentenza di condanna della Corte Europea.
«È un blitz». Così lo definisce la ministro-ombra delle Comunicazioni del Pd, Giovanna Melandri, conversando con i giornalisti in Transatlantico prima che in aula inizi la discussione. La scelta del governo di inserire quell’emendamento nel primo decreto legge da far passare «dimostra una strana fretta». E la Melandri annuncia che «il Pd farà ostruzionismo sia alla Camera che al Senato». La battaglia iniziata da Antonio Di Pietro la settimana scorsa ora coinvolge anche tutto il Partito democratico.
La maggioranza e il governo si trovano spiazzati. Già per un soffio non cadono in un primo trabocchetto sull’appello nominale per l’avvio della seduta. L’opposizione esce. E mancano 10 deputati del Pdl. La maggioranza non cade solo perché l’Udc, mantenendo la sua presenza nell’Emiciclo, garantisce il quorum necessario per la validità del voto. In più i 14 interventi già programmati dall’Idv per fare ostruzionismo non possono essere conteggiati assenti. Il capogruppo Fabrizio Cicchitto e il suo vice Maurizio Lupi si mettono a verificare chi sono gli assenti. Si prende tempo.
Nel frattempo il vicepresidente dei deputati del Popolo della Libertà, Italo Bocchino esprime tutta la sua amarezza nel constatare le difficoltà inaspettate. Accusa l’opposizione di paralizzare di fatto il Parlamento non permettendo all’Assemblea di occuparsi del pacchetto sicurezza, dell’emergenza rifiuti, dei provvedimenti fiscali. Come se fosse colpa dell’opposizione di aver introdotto la norma "salva-Rete4" nelle prime decisioni dell’esecutivo.
«L’opposizione - protesa Bocchino - disattende quanto detto in campagna elettorale quando ci aveva parlato di cambio registro, di dialogo, e di fine dell’anti berlusconismo che tanti danni ha creato alla sinistra». Quindi ha il coraggio di accusare l’opposizione «che ancora una volta fa battaglie personali e non pensa al bene del Paese».Ma poi il governo annuncia che ripresenterà il cosiddetto emendamento "salva Rete 4" sulla base di una nuova formulazione. Lo annuncia in aula a Montecitorio il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Elio Vito. La seduta alla Camera viene quindi sospesa per riprendere alle ore 15. Ma modifiche sostanziali non se ne vedono. E l’opposizione mette a segno un altro sgambetto.
L’emendamento respinto riguardava una parte minore del dispositivo, su «norme a tutela della fauna selvatica», che è stato bocciato con 240 voti contrari e 238 sì, quindi per due voti di scarto. L’opposizione, a sorpresa, dopo la votazione dell’emendamento precedente non ha fatto dichiarazioni di voto. Lo scrutinio è quindi avvenuto a brevissima distanza dal precedente, prendendo alla sprovvista i deputati di maggioranza che pensavano sarebbe passato più tempo e in parte avevano lasciato l’aula. Per il segretario del Pd Walter Veltroni, la sconfitta del governo «dimostra quello che abbiamo sempre detto: stanno facendo una cosa sbagliata e ne sono consapevoli. Le difficoltà alla prima prova impegnativa - prosegue - testimoniano come non basti avere sulla carta i numeri, bisogna motivare e convincere. Si tratta di una forzatura, tutti ne sono consapevoli, e le forzature hanno le loro contraddizioni».
Il governo ha annunciato che il sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle comunicazioni, Paolo Romani sta lavorando con i tecnici a recepire delle proposte dell’opposizione per migliorare la norma. Ma intanto il Pdl si vendica e dice «no a Leoluca Orlando e ad un esponente dell’Italia dei valori alla commissione permanete di Vigilanza Rai. Per il capogruppo Cicchitto l’opposizione deve proporre «un nome come Castagnetti e Migliavacca». Se no, niente.
L’Idv perciò chiede formalmente un colloquio con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «Siamo in un’emergenza democratica, il primo atto del presidente del Consiglio tende a salvare la sua azienda non dai comunisti ma dalle decisioni dell’Unione europea», denuncia Massimo Donadi capogruppo dell’Idv alla Camera. E Giuseppe Giulietti invita il Pd a bloccare per protesta verso il veto a Orlando il rinnovo del Cda Rai.
* l’Unità, Pubblicato il: 27.05.08, Modificato il: 27.05.08 alle ore 17.56
Il dissenso è fuorilegge
di Valentino Parlato (il manifesto, 23.05.2008)
«Non è che un inizio». Questo cantavamo, un po’ più giovani e pieni di speranze nel maggio del 1968. Dopo quarant’anni la stessa frase ci torna in mente, ma come l’annuncio di un futuro denso di incognite e preoccupazioni, in cui tutto sembra stravolgersi, mettendo in discussione persino quelli che ritenevamo i princìpi intangibili dei diritti individuali delle persone. Questo il senso del primo pacchetto di provvedimenti di Berlusconi tornato trionfalmente a occupare Palazzo Chigi.
I titoli dei primi commenti apparsi sui giornali di ieri sono eloquenti: «Lo scempio del diritto» di Giuseppe Di Lello sul manifesto, «L’uguaglianza calpestata» di Stefano Rodotà su la Repubblica. La condanna di questa prima uscita del governo è radicale, ma - ripeto - quel che è andato in scena a Napoli è solo un inizio. L’inizio di un’offensiva autoritaria, anticostituzionale. Questo dobbiamo avere bene in testa, e dovrebbe avercelo bene in testa anche quel fantasma di governo ombra, che nelle intenzioni dei suoi autori dovrebbe coinvolgersi e partecipare al governo del paese. In positiva dialettica con la brigata di Berlusconi, Bossi e gli uomini di Fini e Alemanno.
Tutto questo si inquadra perfettamente e minacciosamente nel quadro attuale delle economie capitalistiche. Non solo in Italia e in Europa, ma in tutto il mondo. La situazione attuale è - lo leggiamo su tutti i giornali - è di grave crisi della finanza e dell’economia e, quindi, della politica e della democrazia. Le situazioni di crisi quasi sempre hanno spinto a destra: a monte del fascismo e del nazismo ci sono crisi economiche, inflazione galoppante, rabbie di popolo. Quando tanti anni fa, lavoravo a Botteghe Oscure e mi entusiasmavo anche per i più piccoli sintomi di una crisi del capitalismo italiano, Giorgio Amendola mi ammoniva, dall’alto della sua figura, dicendo che in mancanza di una grande forza, veramente grande, della sinistra, l’esito «naturale» delle crisi è il fascismo, o quasi.
La domanda inevitabile è: «ma il partito democratico, quel che resta della sinistra arcobaleno, i sindacati, Cgil in testa, hanno coscienza di questo sperimentato pericolo? Si rendono conto che la condanna a cinque anni per chi crea disordini (per ora) nella gestione dei rifiuti o semplicemente si oppone a una discarica sotto casa (che mette a repentaglio la sua salute) è solo un’anticipazione di quel che già sta nel nostro orizzonte? Capiscono che in nome delle emergenze (a volte gonfiandole e usandole) si arriva a mettere in pericolo i diritti fondamentali, le libertà personali, la possibilità di dissentire dalle misure che il potere prende e impone?
La prospettiva è questa e quel che resta della sinistra direi anche della democrazia deve attrezzarsi per fronteggiare questo pericolo autoritario, direi fascisteggiante. E innanzitutto prenderne coscienza e reagire. «Non è che un inizio».
Norme salva-Rete4: è ancora conflitto di interessi *
C’è tensione tra maggioranza ed opposizione sull’emendamento del governo in materia di frequenze tv al decreto salva-infrazionì, presentato dall’esecutivo Prodi e ora all’esame della Camera. L’Italia dei Valori mercoledì mattina ha inscenato una protesta sotto Montecitorio contro il tentativo del governo di far passare il provvedimento. Dalla piazza Antonio Di Pietro infiamma i toni: «L’emendamento dimostra che il Presidente del Consiglio si fa una legge a suo uso e consumo. Questa volta il governo ha presentato una proposta criminogena per salvare Retequattro. Ancora una volta saranno gli italiani a pagare per Silvio Berlusconi». L’emendamento, dice Di Pietro, punta ad «aggirare la sentenza della Corte di Giustizia europea e quella della Corte Costituzionale italiana, sentenze che danno ragione a Europa 7. Piuttosto che dare immediata esecutività a quella sentenza, come sarebbe avvenuto in qualsiasi Paese democratico, il nostro governo risponde con un emendamento per aggirarla».
Per l’occasione Walter Veltroni annuncia battaglia.«Penso che sia una cosa sbagliata nel merito e nel metodo». Quindi farete un’opposizione dura? chiedono i cronisti e il leader del Pd risponde: «Tutte le cose sbagliate nel merito e nel metodo hanno l’opposizione che si meritano». Reagisce ovviamente anche il patron di Europa 7, Francesco Di Stefano: l’emendamento del governo «prende tempo, non rispetta la sentenza della Corte di giustizia Ue».
L’emendamento, un solo articolo diviso in cinque commi, punta a evitare il deferimento dell’Italia davanti alla Corte di Giustizia di Strasburgo nell’ambito della procedura di infrazione avviata da Bruxelles a ottobre 2006 sulla compatibilità di alcune norme del Testo unico della radiotelevisione e della legge Gasparri con la legislazione Ue.
In particolare, si modifica il sistema delle «licenze tv», sostituito con un meccanismo di «autorizzazione generale», sufficiente a giustificare il «trading», cioè la compravendita delle frequenze. Il testo stabilisce inoltre che chi ne ha titolo possa continuare a trasmettere fino allo «switch off», cioè al termine previsto per il passaggio definitivo al digitale terrestre (fine 2012). Si accelerano però i tempi per il piano di assegnazione delle frequenze: entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione deve essere definito «il programma di attuazione del piano di assegnazione delle frequenze tv» in digitale, con l’indicazione delle «modalità tecniche» per il passaggio alla nuova tecnologia, delle «aree territoriali» e delle «rispettive scadenze».
In difesa degli interessi del Cavaliere si schiera anche la terza carica dello Stato. In apertura di seduta, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha spiegato che sono state ritenuti ammissibili, anche se «in via eccezionale», gli emendamenti anche «non strettamente attinenti alla materia del decreto», varato dal precedente governo, ma dettati dalla «necessità di adempiere a obblighi comunitari».
Il deputato del Pd, già presidente della Rai, Roberto Zaccaria è più diretto: «Tutti si chiedono il perchè dell’ urgenza con cui il governo ha inserito in un decreto con caratteristiche di necessità e urgenza, una norma sulla televisione. Il problema non è politico-parlamentare ma ha le sue origini solo nell’andamento nel titolo Mediaset, che ha perso in sei mesi il 19,65% e in un anno ben il 35,45%. Li c’è un problema di necessità e urgenza». «Secondo persone ben informate - ha sottolineato Zaccaria - da quando è aperta la procedura di infrazione nei confronti dell’ Italia sulla tv, gli investitori sono cauti negli investimenti sul titolo Mediaset». Per Zaccaria «il governo ha presentato un provvedimento a notte fonda, sul quale nella passata legislatura si è discusso per oltre un anno in commissione e che ora si vuole introdurre con un decreto. Il vero regista della norma è Fedele Confalonieri (presidente Mediaset) che ieri da Cannes ha parlato dell’ emendamento quando era ancora sconosciuto a molti dei deputati».
Il provvedimento fa discutere anche all’interno della coalizione di maggioranza. La Lega timidamente frena e con Luciano Dussin dice: «Dato che l’opposizione non ha fatto ostruzionismo con i primi decreti forse sarebbe meglio evitare di andare allo scontro».
L’opposizione si prepara quindi a condurre una dura battaglia parlamentare contro il decreto ma il problema dei provvedimenti pecuniari che potrebbero arrivare da Buxelles rimane. Una delle ipotesi suggerite dal partito democratico è inserire la norma - resa urgente dal possibile deferimento dell’Italia, che secondo Gentiloni rischierebbe multe da 300-400 mila euro al giorno - nella prossima legge comunitaria.
* l’Unità, Pubblicato il: 22.05.08, Modificato il: 22.05.08 alle ore 16.58
Berlusconi e il vizietto Mediaset. Una norma per salvare Rete4
Vittima, di nuovo, la tv Europa7
Pochi giorni di governo e Berlusconi è gia a lavoro per tutelare i propri interessi. Questa volta si tratta di salvare Rete4 dalla sentenza della Corte Europea di Giustizia che il 31 gennaio ha condannato l’Italia per aver permesso alla rete Mediaset di trasmettere illegalmente dalle frequenze terrestri.
Vittima di turno del cronico conflitto d’interessi del cavaliere è Europa7. La televisione di Francescantonio Di Stefano, da anni si batte per poter trasmettere sulle frequenze ottenute dopo un bando vinto regolarmente nel luglio 1999 e sempre occupate da Rete4. Martedì il governo ha presentato un emendamento per aggirare la sentenza della Corte Europea e per evitare che il canale di Mediaset sia costretto a passare sul satellite.
«L’emendamento del governo in materia di frequenze televisive è un rimedio peggiore del male». Lo dichiara Paolo Gentiloni, responsabile comunicazione del Partito Democratico. «Col pretesto di rispondere alla procedura di infrazione europea sulla legge Gasparri il governo ha appena presentato un emendamento al "decreto salva-infrazioni" che, da un lato, ignora buona parte dei rilievi della Commissione e, dall’altro, propone una nuova sanatoria per tutti gli attuali titolari di frequenze», sottolinea l’ex ministro delle Comunicazioni. «In sostanza - prosegue Gentiloni - si finge di fronteggiare l’infrazione Ue mentre, in realtà, si tenta di aggirare la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 31 gennaio scorso».
L’epopea di Europa7 comincia nel 1999 quando ottiene dallo Stato la concessione per una rete nazionale. Il Governo D’Alema, allora in carica però non le assegna le frequenze per iniziare a trasmettere. Nel novembre del 2002 la Corte Costituzionale con la sentenza n. 466 stabilisce che Retequattro deve dismettere definitivamente le trasmissioni terrestri entro il 31 dicembre 2003. Il 24 dicembre 2003 Silvio Berlusconi firma un decreto legge (“salva Retequattro”) per superare tale termine.
Il Consiglio d’Europa composto da 45 Paesi, approva nel giugno del 2004 una risoluzione che deplora l’esclusione di un potenziale operatore televisivo, Europa 7, vincitore della gara pubblica per la diffusione televisiva sulle frequenze occupate da Retequattro del Gruppo Mediaset. Il 19 luglio 2005 il Consiglio di Stato, con un dispositivo di ben 61 pagine, riconosce tutti i diritti e le ragioni di Europa 7 e invia alla Corte di Giustizia dieci quesiti nei quali ravvisa che la legge Gasparri e il decreto legge Berlusconi non rispettano le direttive Europee. Il 31 gennaio 2008 la Corte di Giustizia Europea stabilisce che i regimi transitori susseguitisi con la legge Maccanico, il decreto legge “salva Retequattro” e la legge Gasparri non rispettano le direttive europee e che, quindi, il lungo periodo transitorio di cui ha beneficiato Retequattro è illegittimo e, riconosce ad Europa 7 il diritto ad avere le frequenze per trasmettere.
* l’Unità, Pubblicato il: 21.05.08, Modificato il: 21.05.08 alle ore 14.50
L’ultima maschera del nuovo statista
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 18 maggio 2008)
COMINCIO questa mia rassegna settimanale dei principali fatti e misfatti politici con una citazione. E’ tratta da un libro di Alexis de Tocqueville, "La democrazia in America" scritto due secoli fa e ormai diventato un classico. L’ha ricordato Umberto Eco nella sua "bustina" sull’ Espresso di venerdì.
«Nella vita di ogni popolo democratico c’è un passaggio assai pericoloso, quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente dell’abitudine alla libertà. Arriva un momento in cui gli uomini non riescono più a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore e da un momento all’alto può presentarsi l’uomo destinato ad asservirla. Non è raro vedere pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o distratta e che agiscono in mezzo all’universale immobilità cambiando le leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi. Non si può fare a meno di rimanere stupefatti di vedere in quali mani indegne possa cadere anche un grande popolo». Aggiungo per doverosa completezza l’avvertenza che spesso compare in certi film che trattano problemi e casi di stretta attualità: «Ogni riferimento a personaggi reali è infondato o puramente casuale».
Abbiamo assistito ed assistiamo, dopo la vittoria del centrodestra ad una profonda trasformazione del leader di quella parte politica, da pochi giorni asceso per la quarta volta in 14 anni alla presidenza del Consiglio. Tanto è stato demagogico e iracondo nelle sue precedenti apparizioni e tanto appare oggi uno statista pensieroso del bene comune. Molti dubitano della sincerità di questa trasformazione.
Un campione intervistato da "Sky Tg24" su questo tema, rispondendo alla domanda «è sincero o è bugiardo?» ha dichiarato per l’82 per cento «è bugiardo». Una parte consistente del campione è formata evidentemente da persone che appena pochi giorni prima avevano votato per lui. Ciò rende estremamente pertinente l’analisi di Tocqueville.
Ma io non credo - e l’ho già scritto domenica scorsa - che Silvio Berlusconi, bugiardo per antonomasia, in questo caso menta. E’un grande attore e un grande venditore del suo prodotto, cioè di se stesso, e come tutti i grandi attori si immedesima completamente con ciò che dice. Nel momento in cui decide di assumere e interpretare il personaggio dello statista, quella maschera diventa vera, diventa realtà, l’attore si comporta da statista e lo è. Quindi va preso sul serio. Del resto in politica le parole sono pietre ed è precluso fare il processo alle intenzioni.
Tuttavia la memoria delle maschere assunte in precedenza rimane e deve rimanere perché l’attore può cambiar maschera a suo piacimento e in qualunque momento se gli ostacoli che incontra lungo la strada si rivelino troppo difficili e troppo ostici ai suoi interessi e alle sue ambizioni. Il grande attore non ha convinzioni proprie e una propria identità: si immedesima nella parte e quella è la sua forza. Finita una recita ne comincia un’altra; talvolta interpreta due parti e due personaggi diversi e addirittura contrapposti. In queste situazioni pirandelliane Berlusconi ci si ritrova molto bene e tutti noi, cittadini di questo Paese, dobbiamo ricordarcelo.
Ho detto che il grande attore non ha convinzioni proprie o, se pure ne ha, esse sono irrilevanti di fronte alla sua personalità recitante. Ma quando la recita è finita le sue pulsioni istintuali affiorano e determinano i suoi comportamenti. Abbiamo imparato a conoscerle, le pulsioni istintuali di Berlusconi che è sulla scena nazionale da ormai trent’anni. Il neo-statista va preso sul serio e gli si può e anzi gli si deve fare un’apertura di credito; del resto le elezioni le ha vinte e la sua legittimità è piena e fuori discussione. Non altrettanto la sua tempra morale e politica. Perciò con lui la disponibilità deve andare di pari passo alla memoria vigile e al riscontro costante tra parole e fatti, tra intenzioni e realizzazioni.
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La sua campagna elettorale e quella dei suoi alleati Bossi e Fini è stata costruita soprattutto sul tema della sicurezza. Gli errori del centrosinistra su questo tema sono stati molti e gravi: la maggioranza si è più volte sfaldata, i dirigenti della sinistra radicale hanno frequentemente bloccato provvedimenti di energica prevenzione e di necessaria repressione predisposti a suo tempo dal ministro dell’Interno Giuliano Amato in accordo con Prodi. La magistratura, le sue lentezze e i suoi riti hanno fatto il resto e la delinquenza ha goduto di una diffusa impunità. Non tale tuttavia da rappresentare una minaccia nazionale. Se essa è balzata al primo posto nelle preoccupazioni degli italiani ciò è avvenuto perché la percezione di quella minaccia e la paura che ne è derivata sono state cavalcate senza risparmio e senza ritegno dai triumviri del centrodestra.
Cecità di fronte al fenomeno della micro-delinquenza da parte della sinistra radicale, eccitamento della paura da parte della destra: in queste condizioni i richiami alla ragione e al senso di responsabilità dei democratici sono caduti nel vuoto.
Immediatamente dopo la vittoria elettorale di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te, del giustizialismo di quartiere. Nelle province di camorra la criminalità organizzata si è trasformata in giustizialismo di piazza: la manovalanza camorrista ha preceduto la polizia e i carabinieri, l’assalto ai campi rom è venuto prima delle leggi in corso di redazione da parte del nuovo ministro dell’Interno il quale, in accordo con il sindaco di Milano e con quello di Roma, ha anche istituito la nuovissima figura del "Commissario ai rom". Che cosa debba fare un commissario addetto ad un’etnia è un mistero, ma una cosa è certa: si tratta di un’inutile e pericolosissima criminalizzazione d’una collettività.
Maroni si affanna da qualche ora a ridimensionare gli aspetti abnormi di queste sue iniziative strombazzate a pieno volume durante la campagna elettorale. Il reato di immigrazione clandestina, che costituiva uno dei punti forti della predicazione leghista, ha dovuto essere depennato di fronte alle obiezioni del capo dello Stato e dell’opinione pubblica europea, ma resta un contesto non solo repressivo ma persecutorio che eccita ancora di più la gente di mano e il teppismo della destra estrema.
L’altro ieri a Napoli uno stuolo di mamme scarmigliate e urlanti voleva scacciare alcuni handicappati-rom che per una notte erano stati ricoverati in un convitto dopo l’incendio del campo di Ponticelli. «Bruciarli no, ma scacciarli sì e subito» urlavano quelle mamme ed una in particolare che era la più agitata. Si è poi saputo che è la moglie del boss camorrista di quel quartiere.
A questo siamo arrivati, ma c’è una logica nella follia d’aver cavalcato la paura fino a questo punto: poiché miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico interno sul quale scaricare le tensioni e doveva essere un nemico capace di concentrare su di sé l’immaginario della nazione. Ora quell’isteria dell’immaginario ha preso la mano da Napoli a Verona e può dar luogo a conseguenze assai gravi.
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Walter Veltroni ha fatto bene ad incontrare Berlusconi a Palazzo Chigi venerdì mattina. Dal resoconto fatto dallo stesso segretario del Pd risulta che abbiano toccato vari e importanti argomenti: dalle riforme istituzionali da fare insieme ai programmi dei due schieramenti che restano invece, come è giusto che sia, fortemente conflittuali. In particolare hanno parlato di Rai (qui la conflittualità è massima) di sostegno dei salari (anche su questo punto non c’è stato accordo) di legge elettorale europea (istituzione d’una soglia di sbarramento del 3 per cento).
Non si è parlato invece di sicurezza, per riguardo (così è stato detto) alle prerogative del Capo dello Stato cui spetta di controfirmare i decreti e i disegni di legge. A noi non sembra una buona cosa avere escluso dall’agenda di questo primo incontro il tema della sicurezza. Al dà degli specifici provvedimenti di prevenzione e di repressione che si dovranno adottare, resta una visione d’insieme che riguarda - come scrive Tocqueville nella citazione sopra riportata - «il gusto di civiltà e di libertà».
La nostra visione di cittadini democratici mette strettamente insieme la legalità, la protezione dei cittadini, la certezza delle pene, la repressione rigorosa della giustizia di strada e delle ronde «volontarie», l’opposizione più ferma ad ogni criminalizzazione di etnie e di collettività. Questo avremmo voluto che il segretario del Pd dicesse a titolo di premessa nel suo primo incontro con il presidente del Consiglio. Sappiamo che questa visione e questi valori appartengono interamente al patrimonio etico-politico di Veltroni e del partito da lui guidato. Vogliamo sperare che siano condivisi anche da Silvio Berlusconi nella sua nuova veste di statista. Ma se ci si deve impegnare in una politica di dialogo istituzionale, questi valori non possono essere sottaciuti e dati per noti; vanno viceversa proclamati e la loro condivisione va posta come premessa e condizione indispensabile al dialogo. Se non fossero condivisi e tradotti in atti legislativi e in linee guida amministrative conformi, il dialogo non potrebbe e non dovrebbe evidentemente aver luogo.
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Poche altre cose vogliamo aggiungere a proposito delle riforme istituzionali che maggioranza ed opposizione dovranno portare avanti insieme. Ben venga il riconoscimento da parte di Berlusconi del governo-ombra come interlocutore del governo governante. Ma non c’è soltanto il Partito democratico all’opposizione, sicché se si vorrà formalizzare questa novità bisognerà volgere al plurale quella parola perché tutte le opposizione hanno il diritto di interloquire. Oppure non si formalizzi nulla e si aumentino piuttosto i poteri di controllo del Parlamento in pari misura ai maggiori poteri che è giusto riconoscere al presidente del Consiglio, capo dell’Esecutivo.
E’passato quasi sotto silenzio (se si esclude il lucido articolo di Ignazio Marino su «Repubblica» di venerdì) il fatto che nel nuovo governo non esiste più il dicastero della Sanità, derubricato come parte del dicastero del «Welfare» affidato ad un sottosegretario o vice ministro che sia.
La derubricazione d’un ministero le cui attribuzioni sono sotto l’usbergo della Costituzione sotto forma del diritto alla salute di tutti i cittadini, è incomprensibile e inaccettabile. Capisco che la derubricazione possa esser gradita ai presidenti delle Regioni più ricche ma proprio per mantenere la parità di prestazioni sanitarie secondo il bisogno e non secondo il reddito che la Costituzione sancisce, non si può abolire il ministero della Salute e disossare il Servizio sanitario nazionale.
Questa materia riporta l’attenzione sul federalismo fiscale, altro tema delicatissimo che fa parte di quelle riforme da fare insieme tra maggioranza ed opposizione. Bossi ha programmato da tempo la sua secessione dolce del Lombardo-Veneto basata su un federalismo fiscale spinto all’estremo e Berlusconi, Tremonti e Fini gli hanno dato carta bianca. Dove ci può portare questo salto nel buio in termini politici ed economici è ancora del tutto ignoto. I primi studi effettuati da economisti indipendenti mostrano squilibri fortissimi tra Nord e Sud, tra regioni ricche e regioni povere, tra entrate tributarie incassate e fonti di reddito che le generano.
Il federalismo fiscale si ripercuote anche su alcuni principi costituzionali, sul Senato federale, sulla composizione e i poteri della Corte Costituzionale. Se non ci sarà accordo su queste complesse e delicatissime questioni il governo dovrà procedere da solo e poiché non dispone della maggioranza necessaria per leggi di natura costituzionale dovrà ricorrere ad un referendum che spaccherebbe il Paese in due.
Ci pensi bene il neo-statista di Palazzo Chigi. Noi ci auguriamo che la sua sopravvenuta saggezza gli porti consiglio e gli dia la forza di far marciare i suoi alleati in accordo con lui anziché lui in accordo con loro. In caso contrario la strada sarà tutta in salita e non sarebbe un bene per un Paese che ha bisogno di crescere crescere crescere. Crescere soprattutto moralmente, signor presidente del Consiglio, perché questa è ormai diventata la nostra principale emeregenza
Con la scusa del popolo
di Gad Lerner (la Repubblica, 16.05.2008)
Difficile, soprattutto per dei politici, mettersi contro il popolo. Col rischio di passare per difensori della delinquenza, dei violentatori, dei ladri di bambini. E’ questa, infatti, la percezione passivamente registrata dai mass media: un popolo esasperato, l’ira dei giusti che finalmente anticipa le forze dell’ordine nel necessario repulisti.
Ma siamo sicuri che "il popolo" siano quei giovanotti in motorino che incendiano con le molotov gli effetti personali degli zingari fuggiaschi, le donne del quartiere che sputano su bambini impauriti e davanti a una telecamera concedono: "Bruciarli magari no, ma almeno cacciarli via"? Che importa se parlano a nome del popolo i fautori della "derattizzazione" e della "pulizia etnica", i politici che in campagna elettorale auspicarono "espulsioni di massa", i ministri che brandiscono perfino la tradizione cattolica per accusare di tradimento parroci e vescovi troppo caritatevoli?
La vergogna di Napoli, ma anche di Genova, Pavia e tante altre periferie urbane, non ha atteso l’incitamento dei titoloni di prima pagina, cui ci stiamo purtroppo abituando. "Obiettivo: zero campi rom" (salvo scatenarsi se qualche sindaco trova alloggi per loro). "I rom sono la nuova mafia" (contro ogni senso delle proporzioni). "Quei rom ladri di bambini" (la generalizzazione di un grave episodio da chiarire). Dal dire al fare, il passo dell’inciviltà è compiuto. Perfino l’operazione di polizia effettuata ieri con 400 arresti e decine di espulsioni sembra giungere a rimorchio. La legge preceduta in sequenza dalla furia mediatica e popolare, come se si trattasse di una riparazione tardiva.
Chi si oppone è fuori dal popolo. Più precisamente, appartiene alla casta dei privilegiati che ignorano il disagio delle periferie. Ti senti buono, superiore? Allora ospitali nel tuo attico! L’accusa, e l’irrisione, risuonano ormai fin dentro al Partito democratico. Proclama Filippo Penati, presidente di centrosinistra della Provincia di Milano: "I rom non devono essere ‘ripartiti’, bisogna farli semplicemente ripartire". E accusa Prodi di non aver capito l’andazzo, di non aver fatto lui quel che promettono i suoi successori. Nel 2006 fu Penati, insieme al sindaco Moratti, a chiedere al comune di Opera di ospitare provvisoriamente 73 rom (di cui 35 bambini). Dopo l’assedio e l’incendio di quel piccolo campo, adesso è stato eletto sindaco di Opera il leghista rinviato a giudizio per la spedizione punitiva. Mentre si è provveduto al trasferimento del parroco solidale con quegli estranei pericolosi.
La formula lapalissiana secondo cui "la sicurezza non è né di destra né di sinistra" appassisce, si rivela inadeguata nel tumulto delle emozioni che travolge la cultura della convivenza civile. Perfino la politica sembra derogare dal principio giuridico della responsabilità individuale di fronte alla legge. Perché un conto è riconoscere le alte percentuali di devianza riscontrabili all’interno delle comunità rom, che siano di recente immigrazione dalla Romania, oppure residenti da secoli in Italia, o ancora profughe dalla pulizia etnica dei Balcani. Un conto è contrastare gli abusi sull’infanzia, la piaga della misoginia e delle maternità precoci, i clan che boicottano l’inserimento scolastico e lavorativo, la pessima consuetudine degli allacciamenti abusivi alla rete elettrica e idrica.
Altra cosa è riproporre lo stereotipo della colpa collettiva di un popolo, giustificandola sulla base di una presunta indole genetica, etnica. Quando gli speaker dei telegiornali annunciano la nomina di "Commissari per i rom", sarebbe obbligatorio ricordare che simili denominazioni sono bandite nella democrazia italiana dal 1945. Il precetto biblico dell’immedesimazione - "In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se fosse uscito dall’Egitto" - dovrebbe suggerirci un esercizio: sostituire mentalmente, nei titoli di giornale, la parola "rom" con la parola "ebrei", o "italiani". Ne deriverebbe una cautela salutare, senza che ciò limiti la necessaria azione preventiva e repressiva.
La categoria "sicurezza" non è neutrale. Ne sa qualcosa il centrosinistra sconfitto alle elezioni, e solo degli ingenui possono credere che se Prodi, Amato o Veltroni avessero cavalcato l’allarme sociale con gli stessi argomenti della destra il risultato sarebbe stato diverso. Qualora il nuovo governo applichi con coerenza la politica di sicurezza annunciata, è prevedibile che nel giro di pochi anni il numero dei detenuti raddoppi, o triplichi in Italia. Scelta legittima, anche se la sua efficacia è discutibile. Quel che resta inaccettabile è il degrado civile, autorizzato o tollerato con l’alibi della volontà popolare. Insopportabili restano in una democrazia provvedimenti contrari al Codice di navigazione - l’obbligo di soccorso alle carrette del mare - o che puniscano la clandestinità sulla base di criteri aleatori di pericolosità sociale.
Da più parti si spiega l’inadeguatezza della sinistra a governare le società occidentali con la sua penitenziale vocazione "buonista". E’ un argomento usato di recente da Raffaele Simone nel suo "Mostro Mite" (Garzanti), salvo poi trarne una previsione imbarazzante: la cultura di sinistra col tempo sarebbe destinata a essere inclusa, digerita dalla destra. Discutere un futuro lontano può essere ozioso, ma è utile invece riscontrare l’approdo a scelte comuni là dove meno te l’aspetteresti: per esempio sulla pratica delle ronde a presidio del territorio.
Naturalmente gli assalti di matrice camorristica ai campi rom di Ponticelli non sono la stessa cosa della Guardia nazionale padana. Che a sua volta non va confusa con i volontari di quartiere proposti dai sindaci di sinistra a Bologna e a Savona. Nel capoluogo ligure, per giustificare la proposta, è stata addirittura evocata l’esperienza del 1974, quando squadre antifasciste pattugliarono la città dopo una serie di bombe "nere". Il richiamo ai servizi d’ordine sindacali o di partito è suggestivo, quasi si potesse favorire così un ritorno di partecipazione e militanza che la politica non sa più offrire. Ma è dubbio che nell’Italia del 2008 - afflitta da nuove forme di emarginazione come i lavoratori immigrati senza casa, le bidonvilles fucine di criminalità ma spesso impossibili da cancellare - le ronde possano considerarsi uno strumento di democrazia popolare.
Dobbiamo sperare in una reazione civile agli avvenimenti di questi giorni, prima che i guasti diventino irrimediabili. Già si levano voci critiche ispirate a saggezza, anche nella compagine dei vincitori (Giuseppe Pisanu). Il silenzio, al contrario, confermerebbe solo l’irresponsabilità di una classe dirigente che ha già cavalcato gli stupri in chiave etnica durante la campagna elettorale.
GOVERNO: BERLUSCONI 4/1
"Abbiamo raggiunto il primato....! Nel giro di nemmeno 24 ore il governo è fatto!"
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Mbè? Che ci vuole a presentare Berlusconi con Berlusconi?
Un governo ombra!
Berlusconi e i suoi cloni.
Berlusconi e i suoi accoliti.
Berlusconi e i suoi seipsi, e cioè i servetti, i locotenenti, gli amici, i figliocci, i procuratori d’affari e via degradando.
Questa la squadra!
E’ tardi. ma mi impegno a consegnarvi il curriculum della grandi "personalità" cooptate a dirigere i Ministeri di questo caravanserraglio.
Cominciamo con Tremonti.
Tremonti Giulio (FI)
Anagrafe
Nato a Sondrio il 18 agosto 1947.
Curriculum
Laurea in Giurisprudenza; economista, tributarista e docente universitario; ministro dell’Economia nei governi Berlusconi 1 e 2 (nel secondo fu anche vicepremier); 4 legislature (1994, 1996, 2001, 2006).
Segni particolari
Di famiglia liberale, da giovane simpatizza per i gruppi extraparlamentari e poi collabora con «il manifesto», poi si sposta progressivamente a destra. Negli anni Ottanta collabora con il «Corriere della Sera» e si avvicina alla politica. Nel 1987 si candida al Parlamento con il Psi, essendo molto vicino a Gianni De Michelis, nonché componente della famosa Assemblea socialista di Craxi («nani e ballerine») e consulente (dal 1974 al 1990) dei ministri socialisti Franco Reviglio e Rino Formica. Nei primi anni Novanta si scopre «nuovista», e si avvicina alla Rete di Leoluca Orlando, poi aderisce ad Alleanza democratica. Nel 1994 viene eletto al Senato con il Patto Segni, cioè all’opposizione contro il vincente Polo berlusconiano. Ma poi vota la fiducia al governo Berlusconi e, in cambio, ne diventa ministro delle Finanze. Forzista molto vicino alla Lega Nord, tiene i rapporti con Umberto Bossi e li riallaccia nel 1999 dopo il lungo isolamento del Carroccio. Nell’estate del 2004 viene «licenziato» da ministro e da vice-premier a opera di Fini, che lo accusa di aver «presentato conti falsi all’Europa» (3 luglio 2004).
Poi però ritorna nel 2005, giusto in tempo per gustarsi la disgrazia del suo arcinemico Antonio Fazio, governatore di Bankitalia, dimissionario per lo scandalo delle scalate bancarie. Uno scandalo in cui, comunque, il nome di Tremonti risuona spesso, in quanto il suo ex studio di commercialisti ora retto da Claudio Zulli, assiste l’Unipol di Consorte nella scalata alla Bnl (Consorte dirà a Zulli che occorre «ringraziare Tremonti» per l’appoggio assicurato alla causa). Sia nel ‘94, sia nel 2001-04, il ministro Tremonti vara una dozzina di condoni fiscali, anche se li aveva sempre combattuti con parole di fuoco. Breve antologia dei suoi scritti, un monumento alla coerenza.
In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: i condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge (...) Per la massa enorme degli evasori le probabilità di essere verificati sono minime (lo dicono le Finanze), le conseguenti liti tributarie si possono tirare in lungo senza costo (lo dicono ancora le Finanze), infine i condoni sono cadenzati ogni decennio: ‘73, ‘82, ‘91. Vuol dire che il rapporto fiscale si basa su questa ragione pratica: farla franca, confusi tra milioni di evasori; farla lunga, coltivando con calma la lite; farla fuori, con poche lire di condono. In questo sistema smontato e rovesciato, a dettare legge sono proprio i fatti fuorilegge, l’evasione e la furbizia («Corriere della Sera», 25settembre 1991).
Mancano quindici giorni alla data di scadenza del condono fiscale, ma ancora manca la necessaria circolare esplicativa. Dunque, da un lato lo Stato sacrifica i princìpi della giustizia per avere gettito, dall’altro lato fa di tutto per non averlo o per averlo in ritardo con conseguente fortissimo incremento degli oneri finanziari a suo carico («Corriere della Sera», 6 maggio 1992).
Nell’estate de 2001 Tremonti sprizza ottimismo da tutti i pori:
L’autunno non sarà un autunno di preoccupazione, noi vogliamo trasmettere al Paese la fiducia che abbiamo. Sarà un autunno positivo per l’economia e per la gente. Sarà un autunno di sviluppo, e il governo sarà assolutamente unito nella discussione con le parti sociali. Non sarà un autunno problematico, sarà l’avvio di quello che noi pensiamo possibile: un nuovo miracolo italiano. Noi abbiamo trovato i conti pubblici in profondo disordine. Nonostante le bugie che vengono dette dal passato governo, il buco c’è ed è molto grande. Tuttavia questo è un Paese che ha un governo stabile, forte e deciso. Da tanti anni non c’è mai stato un governo con questa capacità di governare. In 50 giorni abbiamo fatto più di quello che avevamo detto che avremmo fatto in 100 giorni. A settembre tutto sarà trasformato in legge, e cambierà in parte notevole e in bene la vita dei cittadini. Potranno ristrutturare le case, reinvestire, stabilire contratti di lavoro migliori (Ansa, 25 agosto2001).
Sono convinto che parta un ciclo positivo che vede l’Italia registrare un differenziale a suo favore rispetto agli altri Paesi dell’Ue. Ho prospettato la possibilità che il Paese, nell’arco di alcuni anni, a partire da ora, raggiunga un ciclo positivo. Si tratta di una stagione che si avvicina, anche se non è un fatto istantaneo. Siamo in un’economia globale, ma l’Italia può crescere con un differenziale regionale positivo: un di più rispetto al di meno che c’era stato finora. Ho fatto una discussione con il governatore della Banca d’Italia su Sant’Agostino e i >‘ miracoli... (Ansa, 8 settembre 2001, tre giorni prima dell’attentato alle Twin Towers)
Dev’essere un portafortuna: tre giorni dopo Bin Laden abbatte le Twin Towers e sprofonda l’economia mondiale nella depressione. Tremonti non ci fa caso e annuncia un nuovo boom economico anche grazie all’euro (che poi, come le Twin Towers, diventerà grande alibi per il fallimento della sua politica economica):
Noi vogliamo che l’Italia si venga a trovare sopra il livello dell’onda quando la ripresa economica comincerà a manifestarsi, ed in questo senso sono molto importanti i segnali di fiducia che vengono sia dalle imprese che dai lavoratori. Ritengo che l’introduzione dell’euro possa favorire la prospettiva di un nuovo miracolo economico italiano. Del resto, era impossibile prevedere quello che sarebbe successo l’11 settembre scorso, eppure in sei mesi di attività il governo ha già (i modificato radicalmente la struttura economica del Paese. L’Italia, con l’avvio della ripresa, potrà essere ancora più competitiva, spinta appunto dalla fiducia che è in crescita (Ansa, 31 dicembre2001).
L’Italia ha davanti a sé un anno di ripresa: il governo conferma le previsioni sì di crescita dell’economia e ritiene che nel complesso si sia svoltato‘. Siamo ottimisti e tutti gli indicatori sono buoni: i consumi di energia, gli indici di fiducia delle famiglie e delle imprese (Ama, 12 marzo 2002).
Cofferati è un reazionario e Amato un bugiardo. Questo sarà un autunno di confronto e non di scontro con le parti sociali. Sarà un autunno positivo per l’economia e la gente, avvieremo il miracolo economico. La vita della gente cambierà notevolmente in bene (al Meeting di Rimini, 25 agosto 2003).
L’autunno non sarà un autunno di preoccupazione, noi vogliamo trasmettere al Paese la fiducia che abbiamo. Sarà un autunno positivo per l’economia e per la gente. Non sarà un autunno problematico, sarà l’avvio di quello che noi pensiamo possibile: un nuovo miracolo economico» (25 agosto 2001).
Risultato finale del 2006: condoni, nessun calo della pressione fisca1e, crescita zero.
Assenze 561 su 4875 (11,5%)
missioni 3797 su 4875 (77,9%).
Frase celebre
«Le promesse di Berlusconi? Miracolismo finanziario (...). La promessa di un’aliquota fiscale unica al 33 per cento? (...) Panzane. Quell’idea mi ricorda la favola di Voltaire, che diceva voglio diventare svizzero, maledetta l’imposta unica che mi ha ridotto in miseria. Quell’idea fa pagare meno ai poverissimi e ai superricchi, ma penalizza proprio la classe media, l’uomo della strada. (...) Il mondo è cambiato, i beni che hanno valore economico sono diversi. L’etere, per esempio, non è forse tassabile? O vogliamo considerare il demanio come qualcosa limitato al fisico?»
Domanda: «Scusi, ma l’etere non è già tassato?» Risposta: «In modo ridicolo, mi creda» («Corriere della Sera», 21 marzo 1994).
Buona notte.... nonostante tutto.
Aldo [don Antonelli]
Questa polemica con Travaglio è semplicemente da voltastomaco.
Dà il senso abietto della ottusità morale in cui ci si è cacciati.
Passano gli anni ma la musica non cambia e la cadenza è sempre la stessa.
Ha cominciato Lui, con la sua discesa in campo!
In crisi finanziaria con le sue aziende, affogato in un mare di processi, viene folgorato dal suo genio celestial-diabolico: "scendo in campo". Entrando in politica e formando un suo partito avrà le spalle coperte: le inquisizioni giudiziarie saranno persecuzioni politiche! Le offese a lui rivolte saranno offese alle istituzioni! La lotta contro le sue malefatte sarà lotta contro lo Stato!
Oggi, dopo aver portato al governo "il suo capogruppo, il suo luogotenente al Partito, il suo ex segretario personale, il suo portavoce, il suo consigliere economico e la sua ex conduttrice preferita" (Sebastiano Messina su La Repubblica di oggi) e (aggiungo io) i suoi avvocati e i suoi commercialisti, tutti uniti dal minicom comune denominatore dell’asservaggio, lo stesso giochetto lo si può ripetere con tutti i suoi eletti.
No, caro Schifani, il senato non è un confessionile ed il fatto di esserne presidente non ti immacolatizza dai tuoi rapporti mafiosi!
E fa rabbia che in questo coro di esecrazioni contro Travaglio ci si sia intromesso anche il PD!
Non vogliono che si dicano certe cose?
Ebbene, noi le gridiamo ai quattro venti!
Non vogliono che circolino tramite le televisioni?
Noi le diffondiamo via internet!
Dovranno ammazzarci per far tacere le nostre voci.
Chi è Schifani?
Il nome lo definisce: homen/nomen!
Qui di seguiito e in allegato la sua scheda.
Un abbraccio a tutte e a tutti, tutto nonostante!
Aldo [don Antonelli]
Schifani Renato Giuseppe
Anagrafe
Nato a Palermo l’11 maggio 1950.
Curriculum
Laurea in Giurisprudenza; avvocato; dal 2001 Capogruppo di FI al senato; 3 legislature (1996, 2001, 2006).
Soprannome
Fronte del Riporto.
Segni particolari
Porta il suo nome, e quello del senatore dell’Ulivo Antonio Maccanico, la legge approvata nel giugno del 2003 per bloccare i processi in corso contro Silvio Berlusconi: il lodo Maccanico-Schifani con la scusa di rendere immuni le «cinque alte cariche dello Stato» (anche se le altre quattro non avevano processi in corso). La norma è stata però dichiarata incostituzionale dalla consulta il 13 gennaio 2004. L’ex ministro della Giustizia, il palermitano Filippo Mancuso, ha definito Schifani «il principe del Foro del recupero crediti», anche se Schifani risulta più che altro essere stato in passato un avvocato esperto di questioni urbanistiche. Negli anni Ottanta è stato socio con Enrico La Loggia della società di brookeraggio assicurativo Siculabrokers assieme al futuro boss di Villabate, Nino Mandalà, poi condannato in primo grado a 8 anni per mafia e 4 per intestazione fittizia di beni, e dell’imprenditore Benny D’Agostino, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo il pentito Francesco Campanella, negli anni Novanta
il piano regolatore di Villabate, strumento di programmazione fondamentale in funzione del centro commerciale che si voleva realizzare e attorno al quale ruotavano gli interessi di mafiosi e politici, sarebbe stato concordato da Antonino Mandalà con La Loggia. L’operazione avrebbe previsto l’assegnazione dell’incarico ad un loro progettista di fiducia, l’ingegner Guzzardo, e l’incarico di esperto del sindaco in materia urbanistica allo stesso Schifani, che avrebbe coordinato con il Guzzardo tutte le richieste che lo stesso Mandalà avesse voluto inserire in materia di urbanistica. In cambio, La Loggia, Schifani e Guzzardo avrebbero diviso gli importi relativi alle parcelle di progettazione Prg e consulenza. Il piano regolatore di Villabate si formò sulle indicazioni che vennero costruite dagli stessi Antonino e Nicola Mandalà [il figlio di Antonino che per un paio d’anni ha curato gli spostamenti e la latitanza di Bernardo Provenzano, nda], in funzione alle indicazioni dei componenti della famiglia mafiosa e alle tangenti concordate.
Schifani, che effettivamente è stato consulente urbanistico del comune di Villabate, e La Loggia hanno annunciato una quercia contro Campanella.
Assenze 321 su 1447 (22,2%)
missioni 20 su 1447 (1,4%).
Frase celebre
«Li abbiamo fregati!» (dopo l’approvazione della legge sul legittimo sospetto, che doveva servire per spostare i processi contro Berlusconi e Previti da Milano a Brescia, 1° agosto 2002).