Cinquanta intellettuali di ispirazione eterogenea e di varia competenza hanno accettato di misurarsi con i nodi cruciali di una realtà da tempo in crisi: scomparsi i vecchi valori, restano indefiniti i nuovi
Liberaldemocratici sono insieme a socialisti e cattolici
Sinistra in cerca d’autore
Un dizionario politico-culturale
Si rimprovera al Pd la liquidazione di una grande storia
Il mito culturale del popolo è stato regalato alla destra
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 09.10.2008)
Ci sono libri più di altri capaci di intercettare lo spirito del tempo. Sinistra senza sinistra è uno di questi (Feltrinelli, pagg. 352, euro 14). Nasce da un’inquietudine diffusa, almeno in una zona non irrilevante del paese: ma è possibile che la sinistra sia davvero finita? Estinta in parte nella sua rappresentanza parlamentare - liquidazione che riguarda l’ala più radicale - soprattutto polverizzata nella battaglia delle idee, nella proposta legislativa su temi essenziali, nella capacità di leggere le trasformazioni del paese? Quel che ci appare oggi nell’agone politico è una sinistra spaesata, balbettante, litigiosa, talvolta incagliata in beghe meschine, sostanzialmente subalterna alla nuova egemonia politica e culturale della destra. Sinistra, appunto, senza sinistra.
Eppure sopravvive oggi una vasta collettività di persone per le quali essere di sinistra ha ancora un senso. Nei grandi richiami ideali ma anche nel comportamento quotidiano. Un popolo di esiliati in patria, paragonati una volta da Cesare Garboli a tanti agrimensori K che vivono ai margini del magico castello dove si decidono, o si dimenticano, i loro destini. Una collettività che include il fattivo mondo dell’associazionismo e del volontariato, che ogni giorno sfida l’inerzia di chi li rappresenta. È anche questa la "sinistra senza sinistra" alla quale si rivolge l’instant book, preparato in velocità dalla casa editrice Feltrinelli grazie all’appassionato contributo di oltre cinquanta intellettuali di ispirazione eterogenea e di varia competenza, tra costituzionalisti, sociologi, filosofi, storici, urbanisti, politologi, giuristi ed economisti, anche operatori sociali ed esponenti dei movimenti. Ne è scaturita un’agenda a più voci, non sempre omogenea nell’intonazione, ma attraversata da un comune sentimento di rabbia per quel che poteva essere e non è stato, e insieme da passione civile per quel che ancora si può fare.
Un cahier de doléances, da un lato, che ripercorre le occasioni mancate della sinistra italiana; dall’altra, una sorta di manifesto sui grandi temi della contemporaneità, che richiedono oggi più che mai una voce limpida e ferma. «Un nuovo patto di civiltà», lo definiscono in casa editrice, «al quale dedicarsi con cura e dedizione». Un libro che - aggiungono in via Andegari - un marchio storico come la Feltrinelli non poteva non fare.
Da «Autonomia delle persone» a «Legalità», da «Città» a «Ideologia», da «Diritti umani» a «Famiglia», da «Coscienza di classe, coscienza di luogo» a «Immigrazione», sono oltre cinquanta i lemmi che compongono questo nuovo dizionario politico-culturale d’una sinistra declinata nelle diverse anime, liberaldemocratica, socialista e cattolica.
Una sorta di alfabeto civile - composto tra gli altri da Chiara Saraceno, Stefano Rodotà, Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Giorgio Ruffolo, Guido Rossi, Chiara Valentini, Tomàs Maldonado, Ilvo Diamanti, Luciano Gallino, Gad Lerner, Tito Boeri, Adriano Sofri, Gianfranco Pasquino, Luciano Canfora - che pur incompleto può però servire da bussola in un’Italia segnata da degrado istituzionale e morale, disgregazione sociale, scarsa memoria storica. Amnesia che ha contagiato pericolosamente anche la gauche.
Nella discontinuità delle voci, c’è una trama comune che le attraversa. Quel che si rimprovera al Partito Democratico è il taglio reciso con i propri legami ideali, la liquidazione brusca d’una storia intellettuale che annovera a sinistra molti padri nobili, l’assenza d’una elaborazione culturale che ne definisca il percorso e la base sociale.
Ne è scaturito un «indistinto, incolore, incolto», denuncia Pasquino, privo di una cultura politica precisa, nonostante la promessa d’una felice sintesi delle migliori culture riformiste del paese. Insieme all’ideologia come visione fideistica della storia, incalza Nadia Urbinati, è stata buttata via anche l’ideologia quale politica delle idee, necessaria in ogni democrazia. Quel corpus di valori - così sintetizza Marc Lazar - solo attraverso il quale passa l’identità, e la capacità di mobilitare.
In questa furia autolesionistica, sembra quasi fatale la subalternità agli slogan populisti della destra. Un cedimento denunciato dagli studiosi in terreni diversi, dalla sicurezza ai flussi migratori, dalla famiglia alla fecondazione artificiale, dalla teoria della città alla giustizia, fino all’uso pubblico della storia.
Quel che la sinistra ha regalato in questi anni alla destra - scrive Aldo Bonomi - è il potentissimo mito culturale del popolo. «È venuto meno quell’elemento che garantiva la connessione con il paese profondo e la sua cultura, la capacità di esprimere e reinventare il popolare, o nelle parole di Gramsci il nazionalpopolare come mastice tra nazione culturale e nazione politica, tra territorio e Stato, tra comunità e rappresentanza».
Per rimettere insieme i cocci della "nuova sinistra" occorrerà ripartire da qui, dalla conoscenza del territorio - "coscienza di luogo", la definisce il sociologo - legata alle travolgenti trasformazioni del capitalismo globale. Proposte, idee, tentativi di definire una sinistra moderna. Soprattutto, la volontà di riscrivere quella vignetta di Altan dove all’omino col basco che rivendica "Ma io sono di sinistra!" replica accigliato l’amico: "Piantala, che ci stanno guardando tutti".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SCHEDA EDITORIALE *
Sinistra senza sinistra
Idee plurali per uscire dall’angolo
Autori vari
Collana: Serie Bianca
Pagine: 352
Prezzo: Euro 14
In breve
È davvero finita la sinistra nel nostro Paese, o è ancora possibile ridefinire idee, analisi, esperienze e sentimenti capaci di tracciare una nuova carta politica per una sinistra moderna? La sinistra come poteva essere, la sinistra che non c’è stata, la sinistra che vorremmo. Un progetto collettivo al quale hanno aderito con entusiasmo voci di diversa provenienza e tra le più autorevoli.
Il libro
È davvero finita la sinistra nel nostro Paese? Le ultime elezioni hanno consegnato alla destra non solo la responsabilità di governare, ma anche la gestione di un ciclo politico di lunga durata e senza oppositori? Anche nel diffuso clima di sfiducia, non tutti la pensano così. Anzi: c’è chi ritiene che sia ancora possibile ridefinire idee, analisi, esperienze e sentimenti capaci di tracciare una nuova carta politica per una sinistra moderna.
È l’obiettivo di questo libro, o almeno è l’obiettivo a cui questo libro vuole portare un contributo significativo. Un libro reattivo, nervoso e non paludato, provocatorio. Un libro di interventi veloci e diretti, del tutto estraneo alle logiche di partito. Senza pretese di completezza, ma capace di segnare una differenza rispetto alle posizioni oggi dominanti. Un progetto collettivo al quale hanno aderito con entusiasmo voci di diversa provenienza e tra le più autorevoli: quelle di studiosi e opinionisti, operatori sociali ed esponenti dei movimenti, impegnati tutti i giorni nel tentativo di ridare senso a un’azione politica e civile.
Approfondimento
Autori e voci
Adriano Sofri: I Penultimi
Marco d’Eramo: Moderatismo
Nadia Urbinati: Ideologia
Carlo Augusto Viano: Laicità
Salvatore Natoli: Laicità
Luciano Canfora: Uguaglianza
Salvatore Veca: Autonomia delle persone
Carlo Freccero: Comunicazione
Massimo Mucchetti: Privatizzazione della Rai
Ilvo Diamanti: Geografia elettorale
Rossana Rossanda: Il vuoto a sinistra
Marc Lazar: Le basi sociali
Gustavo Zagrebelsky: Legalità/legittimità
Giorgio Ruffolo: Turbocapitalismo
Alessandro Colombo: Guerra
Guido Rossi: Europa
Guido Martinotti: Città
Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli: Sicurezza
Aldo Bonomi: Coscienza di classe, coscienza di luogo
Danilo Zolo: Paura
Gianfranco Bettin: Federalismo
Loris Caruso: Nimby
Alessandro Dal Lago: Immigrazione e razzismo
Gad Lerner: Rom
Anna Elisabetta Galeotti: Integrazione
Virginio Colmegna: Solidarietà
Giorgio Bocca: Onestà
Donatella della Porta: Corruzione
Franco Corleone: Garantismo
Antonio Cassese: Diritti umani
Giulio Marcon: Volontariato e terzo settore
Sergio Bevilacqua: Il popolo delle partite Iva
Marco Rovelli: Omicidi bianchi
Susanna Camusso: “Post”
Christian Marazzi: Inflazione
Stefano Rodotà: Prìvacy
E. “Gomma” Guarneri: Rete
Raf Valvola Scelsi: Culture del gratuito
Tito Boeri: Merito
Luigi Manconi: Unioni civili
Silvia Ballestra: Libertà di scelta
Chiara Valentini: Fecondazione assistita
Chiara Saraceno: Famiglie
Matteo Schianchi: Disabilità
Daniele Checchi: Formazione
Telmo Pievani: Darwin
Guido Viale: Rifiuti
Alex Zanotelli: Napoli
Claudio Fava: Mafia-Giuseppe A. Veltri: Mezzogiorno
David Bidussa: Uso pubblico della storia
Tomás Maldonado: Radici
Gianfranco Pasquino: Socialdemocrazia
Intervista
"Ora il Pd si sciolga per far nascere la lista Nuova Europa". L’appello di Massimo Cacciari
«La sinistra è salita sull’Acropoli. Ora bisogna scendere». E per battere i nazionalisti alle elezioni del 2019 occorre rompere con il passato. Perché la vecchia Ue è finita per i suoi tradimenti. La proposta del filosofo
di Marco Damilano (l’Espresso, 05 settembre 2018)
Il 3 agosto Massimo Cacciari ha firmato un appello insieme a Enrico Berti, Michele Ciliberto, Biagio de Giovanni, Vittorio Gregotti, Paolo Macrì, Giacomo Manzoni, Giacomo Marramao, Mimmo Paladino, Maurizio Pollini, Salvatore Sciarrino. Nomi della cultura, dell’università, della ricerca: filosofi, artisti, musicisti. In quel testo si parla di «spirale distruttiva», di «pensiero unico intriso di rancore e di risentimento».
E si trova la richiesta di una discontinuità con il passato: «È indispensabile chiudere con il passato ed aprire nuove strade all’altezza della nuova situazione, con una netta ed evidente discontinuità: rovesciando l’ideologia della società liquida, ponendo al centro la necessità di una nuova strategia per l’Europa», in vista della scadenza decisiva dell’anno che si apre: le elezioni europee della primavera 2019. «C’è il rischio che si formi il più vasto schieramento di destra dalla fine della seconda guerra mondiale. La responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande. Non c’è un momento da perdere».
L’allarme è stato ripreso da tanti in queste settimane e il primo momento di discussione pubblica sarà a Mestre, dal 6 all’8 settembre, al festival della politica organizzato dalla fondazione Gianni Pellicani. Nel frattempo, tutto quello che è successo nel mese di agosto, dal consenso ottenuto dal governo Salvini-Di Maio dopo il crollo del ponte Morandi al blocco della nave Diciotti nel porto di Catania, dalla sfida nei confronti dell’Europa sui contributi Ue all’attacco sui conti pubblici, conferma quanto è scritto nel testo-appello: «Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi. L’ossessione per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità, acuisce in modi drammatici una crisi dell’Unione europea che potrebbe essere senza ritorno».
La nostra conversazione con Massimo Cacciari parte da qui.
«Il nostro appello non va alla ricerca di adesioni formali, è la richiesta di un’assunzione di responsabilità, di un’iniziativa concreta. In alcune università si stanno preparando momenti di dibattito, nel mondo cattolico si sono mosse le Acli, a livello europeo Etienne Balibar sta preparando qualcosa di analogo per la Francia. È un movimento che si attiva a partire da un’urgenza: vogliamo evitare che l’Europa muoia. L’Europa è demograficamente vecchia, ma è necessaria, se non vogliamo un destino popolato da miserabili staterelli sovrastati da quanto decideranno gli Imperi, il ripetersi dei conflitti del Novecento, il ritorno in farsa delle tragedie del vecchio secolo».
Un obiettivo nobile, che rischia di essere fuori tempo massimo. Bisogna evitare che l’Europa muoia, certo. Ma per molti cittadini europei, e italiani, l’Europa è già morta, da tempo, dopo la Brexit, dopo la crisi dell’euro, dopo le crisi dei migranti non governate da nessuno. C’è una vasta letteratura internazionale in materia: penso al dramma in nove atti raccontato dallo studioso indiano Ashoka Mody nel suo “EuroTragedy”, in cui racconta il capovolgimento dell’Europa da continente di pace e sicurezza dopo il secondo conflitto mondiale a terra di divisione. E c’è la crescita dei movimenti sovranisti e populisti, che non hanno una vera prospettiva alternativa, ma si nutrono del tramonto dell’Europa, delle astrattezze, dei tradimenti, del distacco dal popolo con cui è stato portato avanti il processo di integrazione.
«Non è morta l’Europa. È finita l’Europa che si è andata costruendo negli ultimi 20-25 anni. Anni in cui si sono inanellati una serie di errori straordinari. È il punto di partenza di qualsiasi azione: non si possono coprire le immense responsabilità delle classi dirigenti politiche, economiche e intellettuali. L’Europa attuale è una costruzione a-storica, ignorante dello specifico di ogni tradizione, in preda da tempo a una deriva burocratica, centralista, anti-federalistica. La catastrofe finale è arrivata con la crisi economica, quando l’Europa si è mostrata incapace di difendere i suoi cittadini più deboli. È in quel momento che è avvenuto lo strappo tra la coscienza europea e la sua organizzazione. Lo strappo è qui e qui c’è la necessità di una discontinuità radicale con il passato. E quindi: politiche sociali diverse e una costruzione istituzionale di tipo federalista».
Oltre alla crisi economica c’è la questione dei migranti, anche lo spettacolo vergognoso degli ultimi giorni: esseri umani trattati dal governo italiano come arma di ricatto, governi europei incapaci di progettare l’accoglienza e la ricollocazione degli aventi diritto all’asilo, la propaganda scatenata che non incontra resistenze.
«Non si diventa razzisti per opera dello Spirito Santo. Quando nel 1933 i tre quarti dell’elettorato socialdemocratico votarono per Hitler non era arrivato l’Anticristo a sedurre gli uomini, c’era stato un lungo processo storico. Lo stesso vale per quanto accaduto negli ultimi anni. La costruzione centralistica e burocratica e le politiche sociali dominate dal tradimento delle promesse offerte dal vecchio welfare: progresso, benessere. Se rompi questo nesso, i popoli diventano anti-democratici. La crisi ha messo l’Europa a nudo nelle sue debolezze e mancanze e si sono aperte le praterie per le forze anti-europee, ciascuna con le sue particolarità. Per il Front di Marine Le Pen è il sogno di una nuova grandeur francese, nei paesi dell’Est c’è il mito risorgimentale e nazionalista. Per la Lega e il Movimento 5 Stelle in Italia il discorso è diverso, perché fino alla formazione del governo M5S aveva fatto da argine all’elettorato leghista».
Lo storico Timothy Snyder in “La paura e la ragione” (Rizzoli) ha scritto di due narrazioni che si sono confrontate negli ultimi anni. La politica dell’inevitabilità, ovvero l’idea della fine della storia, della globalizzazione come unico orizzonte possibile, è stata sconfitta. E al suo posto c’è la politica dell’eternità: il ritorno ciclico dei miti della razza, del suolo, del territorio, le radici, l’identità.
«Le forze socialiste sono crollate ovunque per la loro subalternità culturale a un modello in cui andava bene tutto: bene l’Europa, bene la moneta unica, bene l’allargamento. Bene, più di tutto, la globalizzazione. Questo spiega perché le forze tradizionali della sinistra europea siano smottate così rapidamente, uno sfaldamento così veloce. Il problema era solo l’Anpassung, come dicono i tedeschi, l’adattamento. Perché, altrimenti, se non ti adattavi, eri fuori dalla storia».
Ricordo il refrain dei congressi, dei convegni, dei politici e degli intellettuali dell’adattamento: dobbiamo gestire la globalizzazione, governarla.
«Magari! Quella era la migliore delle ipotesi, in molti non si ponevano neppure il problema. Per la maggior parte dei leader della sinistra europea la globalizzazione è stata un destino inesorabile, da Tony Blair a Matteo Renzi, vedi l’ammirazione senza sfumature di differenza per il modello Marchionne. E chi non era dentro, chi restava fuori? Era un affar suo, non nostro. La conseguenza è stata una sinistra che vince nei centri storici e perde nelle periferie. Sinistra, hai perso il tuo popolo! Ti sei asserragliata in una acropoli, sotto non esisti più».
Il distacco dal popolo ora è diventato abissale. Il populismo era un risentimento, si è trasformato in un sentimento, popolare.
«Dai leader populisti arriva un messaggio molto semplice: noi difendiamo il nostro popolo. Aprire i confini significa farvi entrare i ladri in casa e noi non lo permetteremo. È una questione che Matteo Salvini usa con grande intelligenza, con grande sagacia, in modo simbolico. Un simbolo enorme: la nostra casa è in pericolo, dobbiamo difenderci. Solo i coglioni, perdonami, dicono che le bandiere e i simboli non contano nulla: contano eccome! Eppure per anni si è detto il contrario, lo ripetevano i Blair e i Renzi. Ma la politica senza simboli, senza un sol dell’avvenire, è ineffettuale. Non produce e non ottiene nulla».
Tutto vero, però anche il vostro appello è stato accusato di intellettualismo, di astrattezza. Qualcuno ha scritto che si punta a far nascere un partito dei sapienti, di poche intelligenze illuminate, i dotti.
«E invece è necessario fare il movimento opposto: scendere dall’acropoli, ricostruire una presenza nella pianura. Il senso del nostro appello è dire a tutti: organizzatevi. Anche perché è evidente che i populisti falliranno e ci porteranno al disastro, per la loro fragilità strategica».
Si può fare prima delle elezioni europee? Con chi?
«In Italia l’unica forza, nel bene e nel male - ora direi soprattutto nel male - è il Pd. Non dà segni di vita, è sordo agli appelli, i suoi esponenti si limitano a dare del barbaro a Salvini, un esercizio sterile. Quando vedo Martina sul molo di Catania, davanti alla nave Diciotti, penso che faccia felice solo Salvini, è un atto di propaganda nei suoi confronti. Perché dietro quel gesto non c’è nessuno. Cosa ti sogni di fare opposizione dopo che da venticinque anni sei al governo o punti ad andarci? Non sei il Pci, come fare l’opposizione a questi l’hanno raccontato i nonni, ma loro non l’hanno mai vista, sono una classe politica che è stata cooptata per andare al governo. Fare l’opposizione in queste condizioni è una cosa comica! Se ci presentiamo così, è finita».
E allora? Va sciolto il Pd e poi cosa?
«La mia idea è fare leva sulla scadenza elettorale del 2019 per costruire un simbolo europeo. Le forze che condividono questo progetto si mettano insieme, in modo transnazionale: Macron in Francia, Ciudadanos in Spagna, Tsipras in Grecia, che è stato bravissimo. Un progetto che si chiami Nuova Europa. Senza questa iniziativa il Pd rischia la liquidazione. O ti ritiri e cavalchi in retromarcia o sfidi i populisti e i sovranisti su questo terreno».
È un progetto che assomiglia al Fronte repubblicano di Carlo Calenda? E che porta al coinvolgimento con il Pd di Forza Italia?
Tra gli intellettuali liberali (Giovanni Orsina, Angelo Panebianco) si discute: arrendersi ai barbari o fare il fronte unico. «Io dico di no. Forza Italia, i conservatori, devono restare fuori. Quello che serve è una forza democratica europea di totale discontinuità con il passato. È questo la Nuova Europa: un progetto di governo nuovo, di rottura con la vecchia interpretazione dell’Europa e in contrasto con i sovranisti».
Il governo di Salvini e di Di Maio arriverà alle elezioni europee?
«La cupiditas dominandi di Di Maio è inarrestabile, sarà difficile che scenda dal governo, M5S potrebbe entrare in difficoltà e sparire. L’unico tranquillo in questo momento è Salvini, con tutti i suoi fronti di sfida, da Fico a Mattarella. Ha un target fortissimo, una bandiera, un simbolo. E ha un nemico, che è essenziale. Le leadership europee sono apparse nemiche dei popoli, è questa la sua forza».
Nelle ultime pagine, in seguito agli articoli di Roberto Esposito sull’Espresso, su cui è intervenuto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera- La Lettura, si è sviluppato un dibattito sull’identità: l’assenza di un’identità che è stata tra i fattori di debolezza dell’Unione europea. Sei convinto che una formazione come la Nuova Europa che proponi sarebbe in grado di superare questo vuoto? Oppure si rischia di rifare un albero senza radici?
«Tu mi parli di radici, ma è Gesù Cristo che ha detto: sarete riconosciuti dai frutti, su quelli sarete giudicati. E allora: chi siamo? Siamo Salvini o siamo altro? L’identità è qualcosa che si cerca, non è data una volta per tutte. L’identità europea è una ricerca, è qualcosa che si fa nella storia. È stato un errore pensare il contrario: un’Europa senza identità e senza simboli o con un’identità da trovare esclusivamente nel passato. La radice dell’identità non va cercata nel passato, la radice si può individuare solo nel futuro».
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
LE PAROLE PER RACCONTARE QUEL CHE RESTA DI UN’IDEA
di Carlo Galli *
Fine delle ideologie, crisi del riformismo, globalizzazione: eppure c’è ancora chi scommette sul futuro di un concetto. Abbiamo chiesto a celebri pensatori e intellettuali europei di spiegare la loro visione e le prospettive possibili
La sconfitta della sinistra comunista, e le trasformazioni politiche ed economiche che sono seguite - la globalizzazione -, hanno reso il capitale più aggressivo (perché più esposto alla competizione), e hanno causato la crisi del compromesso socialdemocratico, cioè delle conquiste della sinistra riformista: i diritti sociali oggi sono visti come un costo e non come un valore. Ecco perché ha senso interrogarsi sulle prospettive di un’idea. Oggi il centro della società è il mercato, l’impresa e le sue esigenze di sviluppo, l’individualismo aggressivo; la frantumazione del ceto medio creato dalle passate politiche di welfare è già in atto, e la società si polarizza tra pochi ricchi e molti poveri; anche le forme giuridiche dell’uguaglianza - la legalità, i diritti civili - sono minacciate dall’insicurezza e dalla paura, i nuovi messaggi biopolitici che vengono dallo Stato; la democrazia è sostituita dal populismo.
La sinistra deve quindi trovare la capacità di criticare il presente, e ne deve nominare apertamente le contraddizioni; deve essere convinta che a un problema non c’è solo la soluzione proposta da chi detiene il potere, ma almeno un’altra, alternativa, che ha come finalità l’emancipazione di chi non ha potere, e la liberazione delle sue capacità di sviluppo autonomo, di vitale spontaneità (e pertanto deve essere antiautoritaria e laica). Deve essere riconoscibile, cioè deve essere coerentemente "parte" - nel momento in cui la società si frantuma in parti, anche se non coincidenti con le "classi" tradizionali -, e deve quindi entrare decisamente nei conflitti reali; ma deve anche farsi carico delle questioni generali di uguaglianza formale e sostanziale - pur mettendo in conto che i conflitti non potranno mai cessare. Deve produrre una nuova idea di società, una nuova "egemonia", da contrapporre all’egemonia della destra. Ciò significa combattere la paura e la disuguaglianza con la legalità, la giustizia e la speranza; e lottare per un nuovo compromesso, molto meno squilibrato dell’attuale, oltre che meno burocratico che nel passato, tra economia e diritti di libertà, tra mercato e Stato, tra privato e pubblico.
QUELLE PAROLE CHE LA SINISTRA DEVE RISCOPRIRE
di Marc Lazar *
La crisi della sinistra riformista europea oggi è oramai un’idea condivisa. Essa non ha motivo di vergognarsi del proprio passato. Ha contribuito a forgiare la democrazia e il welfare e, dunque, un’ampia parte dell’identità europea. Ciò nonostante, il suo modello di cambiamento graduale delle società nel quadro degli Stati-nazione è in via di esaurimento. La sinistra, più della destra, soffre la globalizzazione, le trasformazioni del capitalismo mondiale, il processo di individualizzazione, la sensazione sempre più ossessiva del declino del vecchio continente, le tentazioni di ripiegamento identitario sfruttate dai movimenti populisti.
La Storia dimostra che ciò che ha fatto la forza della socialdemocrazia è stata la sua capacità di adattamento alle evoluzioni delle società, il più delle volte generate esse stesse dalle metamorfosi del capitalismo. Un aggiornamento spesso difficile, nutrito da vivaci dibattiti interni sulle proposte definite "revisioniste", da Eduard Berstein (fine del secolo XIX) a Anthony Giddens (fine del secolo XX), passando per tanti altri pensatori e responsabili politici. E, tuttavia, con una domanda ossessiva dei nostri giorni al socialismo: il suo avvenire si iscrive nella linea dell’ideologia e dei suoi punti di riferimento, oppure suppone di varcare le frontiere tradizionali della sinistra e di esplorare altri orizzonti?
Per pensare la sinistra oggi e domani bisogna, più che mai, tornare alla famosa affermazione di Norberto Bobbio, per il quale il valore dell’uguaglianza traccia la linea di separazione dalla destra. La crisi economica del 2008 ha ricordato la pertinenza di quest’idea, adattata al mondo di oggi, che non significa egualitarismo, ma un’uguaglianza delle opportunità, rispettosa dei percorsi e delle aspirazioni individuali. Un’uguaglianza che deve rendere possibili non tanto degli Stati-forti, divenuti impossibili, quanto degli Stati ammodernati, regolatori e animatori, coordinati a livello europeo. Uguaglianza nel mondo e in Europa. Uguaglianza sociale tra i diversi gruppi e individui. Uguaglianza tra i sessi, mentre le donne rimangono sempre discriminate. Uguaglianza tra le generazioni, in un’Europa che subisce il complesso di Cronos, il dio greco che divorava i propri figli. Uguaglianza tra i territori, mentre oggi si approfondisce la divaricazione tra le regioni ricche e le zone più in difficoltà. Uguaglianza tra i cittadini e gli immigrati in regola che fanno ormai parte integrante della nostra Europa. Uguaglianza, ancora, in rapporto all’ambiente.
Ma c’è l’altro Bobbio, quello che nel 1955 constatava come gli intellettuali italiani sapessero perfettamente che cosa avrebbe dovuto essere la società italiana, ma ignoravano che cosa fosse. Cinquantacinque anni dopo, la sua riflessione si può allargare all’insieme dei partiti della sinistra europea, troppo chiusi su se stessi, in mano a oligarchie che stanno invecchiando, più che mai preoccupate di difendere i loro piccoli interessi. Conoscere la società nella sua complessità attuale, segnata da tendenze contraddittorie e antagonistiche, per ritrovare il popolo e, così, non lasciare più questa parola e ciò che comporta alle forze populistiche. La sinistra deve unirsi a lui in questo grido di dolore e di rabbia di cui parlava il sociologo Durkheim per definire il socialismo, ma anche in un grido di speranza, non per creare sogni che si trasformano generalmente in incubi, ma per ridare un senso alla politica. Per esempio, nell’accettare la forza della leadership nelle nostre democrazie, ma combinandola con l’estensione della partecipazione dei cittadini alla vita democratica. (traduzione di Luis E. Moriones)
LA LIBERTÀ È UN VALORE SOCIALE
di Anthony Giddens *
Nella politica di oggi la divisione tra sinistra e destra è assai meno netta che in passato, perché al capitalismo non si contrappone più un’alternativa socialista ben definita. Per di più, alcuni dei maggiori problemi che ci troviamo ad affrontare - ad esempio il cambiamento climatico, al centro di molti dibattiti contemporanei - trascendono la divisione classica tra sinistra e destra.
Eppure la distinzione ha ancora un senso. Essere di sinistra vuol dire avere a cuore alcuni valori essenziali; credere nell’importanza della solidarietà sociale, dell’uguaglianza, della tutela dei più vulnerabili, e nella «libertà sostanziale»: non solo quella economica, o la libertà davanti alla legge, ma una libertà reale per tutti i cittadini.
E significa anche attenersi a un certo quadro politico, in cui si conferisca grande importanza all’attivismo e alla capacità di intervento dei governi, necessaria a controbilanciare la tendenza dei mercati incontrollati di produrre instabilità economica e macroscopiche sperequazioni sociali, sostituendo ai valori sociali parametri puramente economici. (Traduzione di Elisabetta Horvat)
L’UGUAGLIANZA COME DIRITTO CULTURALE
di Gianni Vattimo *
La distinzione tra destra e sinistra è ancora ben viva e consiste, come sempre, nell’opposizione tra chi prende le differenze - di ricchezza, di salute, di forza, di capacità - come differenze "naturali", e parte di lì per costruire un progetto di sviluppo, proprio utilizzandole ed esasperandole; e chi invece vuole garantire una competizione non truccata, correggendo le differenze "di natura". Di qui il darwinismo sociale che ha sempre caratterizzato la destra, fino al razzismo fascista; e quello che si può chiamare il "culturalismo" della sinistra, che va oltre il dato "naturale". Il problema della sinistra è sempre stato quello di riconoscersi francamente per quel che è, come "cultura vs. natura": quando ha creduto di essere più fedele alla natura (come difesa dei diritti "naturali" o come scienza economica "vera") è sempre diventata totalitarismo. La forza della sinistra sta nel difendere il diritto di chi non ha "diritti", di chi non è "legittimato" né dalla natura (quella che sempre anche il Papa invoca) né della scienza (per lo più al servizio del potere). Il proletariato di Marx non è l’uomo "vero", è solo la classe generale, la grande massa degli espropriati che merita di farsi valere anche solo in nome del (borghese) principio democratico.
SE LA SOLIDARIETÀ NON È MAI FUORI MODA
di Jürgen Habermas *
Chi crede tuttora nella forza rivoluzionaria di autoguarigione delle crisi economiche gravita in nebulose profondità attorno al concetto del «politico», o soffia sulla «sollevazione prossima ventura». Il resto è disfattismo.
La «sinistra» deve il suo nome all’ordine degli scanni parlamentari all’Assemblea nazionale francese del 1789. Quanto al termine «socialismo», il suo significato era e rimane nient’altro che la messa in atto delle parole d’ordine della Rivoluzione francese. La libertà non può essere ridotta alla mera possibilità, per i soggetti partecipi di un sistema di mercato, di esprimere individualmente il proprio voto. Solo l’inclusione egualitaria di tutti i cittadini come co-legislatori, in un contesto di formazione di opinioni e volontà politiche informate, può assicurare a ciascuno gli spazi e i mezzi per determinare e plasmare autonomamente la propria personale esistenza.
L’uguaglianza non può essere solo quella formale davanti alla legge, ma deve comportare l’equa ripartizione dei diritti, che devono avere eguale valore per ciascuno, indipendentemente dalla sua posizione sociale. La solidarietà non deve degenerare in paternalistica assistenza agli emarginati; la partecipazione alla comunità politica con pari diritti non è conciliabile con la privatizzazione, che scarica i rischi e i costi originati a livello sociale complessivo su singoli gruppi o persone, senza indennità o risarcimenti di sorta.
E’ questo il modo in cui la sinistra intende i principi costituzionali, non certo spettacolari, che nelle nostre società democratiche informano il diritto vigente. La sinistra recluta i suoi aderenti tra i cittadini tuttora sensibili alle stridenti dissonanze tra questi principi di fondo e la realtà, da tempo accettata, di una società sempre meno solidale. Una società nella quale le élite si barricano, anche moralmente, nelle loro gated communities è fetida. I mali della sinistra rispecchiano il generale ottundimento di questo spirito normativo, e la crescente tendenza ad accettare come normale e ovvio un egoismo razionalista, che con gli imperativi del mercato è penetrato oramai fin dentro i pori di un ambiente di vita colonizzato.
Naturalmente il deficit della sinistra non è solo di tipo motivazionale, ma riguarda anche il piano cognitivo, ove si è mancato di affrontare tutta la complessità delle sfide reali - ad esempio, i rischi che corre oggi la moneta europea. Altrimenti la sinistra non si limiterebbe a lamentare la distruttività dei mercati finanziari incontrollati, ma ravviserebbe nella speculazione contro la moneta europea un’astuzia politica della ragione economica. Si attiverebbe contro l’asimmetria dell’UE, che a una completa unificazione economica affianca l’incompletezza di quella politica. E comprenderebbe infine che un’Europa democratica e solidale è un progetto di sinistra. (Traduzione di Elisabetta Horvat)
LA SFIDA DELLA SCUOLA, UN’EDUCAZIONE PER TUTTI
di Fernando Savater *
Oggi, la sinistra non può essere altro che quella che difende il concetto di società. Vale a dire, qualcosa di diverso dalla semplice giustapposizione di individui atomizzati e di interessi contrapposti in lizza. I membri di una società vedono se stessi come soci degli altri, vale a dire come collaboratori e complici di un beneficio che in qualche misura deve raggiungere tutti. La sinistra deve ricordare che la democrazia, in qualsiasi luogo del mondo, ha due nemici fondamentali: la miseria e l’ignoranza. Dove la miseria è tollerata, dove l’ignoranza non è combattuta, la democrazia si trasforma in una caricatura di se stessa. Pertanto, la sinistra - che ha già imparato che non può essere che democratica in un modo deciso e scrupoloso - deve tentare di mettere fuori legge le condizioni di povertà estrema - come a suo tempo si mise fuori legge la schiavitù - e deve far sì che l’educazione per tutti, pubblica, laica e senza esclusioni maliziose diventi il suo compito prioritario. Un’altra questione molto attuale che la sinistra deve affrontare è la crescita della corruzione sia politica che finanziaria (che normalmente agiscono insieme) e che minaccia di pervertire la democrazia in "cleptocrazia", mettendo le istituzioni o la sfera pubblica al servizio dei depredatori. (traduzione di Luis E. Moriones)
* la Repubblica, 27.12.2010
Sinistra senza sinistra
di Gad Lerner (dal blog)
E’ appena uscito da Feltrinelli questo volume collettivo, cinquanta voci per riflettere sulla scomparsa di un’opposizione culturale all’egemonia del centrodestra. Ve lo consiglio, ci sono diversi stimoli utili. Nel frattempo vi anticipo il mio contributo, dedicato ai Rom: lo spauracchio che ci ha fatto alzare bandiera bianca sul terreno della sicurezza.
La sinistra deve stare con il popolo, ma se il popolo odia gli zingari? Non c’è dilemma più nitido. Di fronte a quel bivio numerosi amministratori della sinistra lombarda (non a caso di matrice comunista amendoliana), dalla sindaco di Pavia a quello di Sesto San Giovanni, hanno imboccato la via "popolare". Guidati dal motto politicamente scorretto, e dunque di sicura presa, coniato dal presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati: "Non dobbiamo ripartire i campi rom. Bisogna farli semplicemente ripartire".
Versione italiana del già arcinoto manifesto leghista su cui nessuno aveva mai avuto niente da ridire: "Campi rom, foera de ball". Il popolo, si sa, è ruvido. Quando le popolane di Ponticelli presero a sputi in faccia e male parole le zingare, dopo che certi loro scugnizzi malavitosi dotati di motorino avevano incendiato l’accampamento con le molotov, già la locale sezione del Partito democratico aveva provveduto ad affiggere sui muri di quella periferia napoletana, sotto il simbolo tricolore, quel solito slogan: "Via il campo rom". E che nessuno parli di pogrom, per favore, la gente non capirebbe. Si trattò di "eccessi", strumentalizzazione camorristica di un legittimo risentimento popolare, favoriti dall’inadempienza delle forze dell’ordine.
C’è poi una sinistra che di fronte a quel bivio imbocca la direzione opposta, adottando gli zingari per elevarli a nuovi protagonisti dell’antagonismo metropolitano, surrogati di un proletariato ormai cooptato nel blocco di potere. Sono loro, gli zingari, l’ultimo vero popolo rivoluzionario. Il nomadismo andrebbe riconosciuto come insopprimibile vocazione, fascinosa alterità.
Poco importa che la maggioranza dei "nomadi" aspiri a una residenza normale, e comunque se non sgomberati rimangano per decenni nello stesso luogo derelitto. Le elevate percentuali di devianza criminale si giustificherebbero con la loro tradizione comunitaria, impermeabile ai dogmi della proprietà privata. Le spose bambine, le maternità precoci, l’ignoranza contraccettiva sarebbero il naturale contrappunto di una società mercificata e sterile. La retorica ultraminoritaria dello "zingaro è bello" fa presa crescente nella sinistra comunista e nei centri sociali che non si limitano a protestare contro le discriminazioni e le malversazioni inflitte agli zingari. Ma giungono a contrapporsi polemicamente al volontariato sociale operante nelle baraccopoli.
La paziente opera di educazione, avviamento al lavoro, regolarizzazione degli habitat (pagamento delle bollette, freno al viavai dei residenti, espulsione dei violenti), viene denunciata come snaturamento identitario: dovremmo "accettarli così come sono", l’integrazione viene respinta come sottomissione.
Questa sinistra affascinata dalla cultura rom, differenza da tutelare contro la minaccia di omologazione, non riscuote certo consensi popolari quando si oppone alle politiche di sicurezza della destra. Ma è interessante notare la rivincita simbolica incamerata dall’intellighenzia sensibile alla questione zingara: nel circuito musicale, teatrale, cinematografico, letterario e perfino sulle passerelle degli stilisti la suggestione gitana si traduce in opere di successo. Come dire: gli zingari intrigano, perfino affascinano, ma a patto che restino virtuali, alla larga da casa mia.
Entrambe le visioni sopra descritte scaturiscono da una sopravvalutazione parossistica del ruolo attribuito agli zingari (non c’è altro termine generico che accomuni le popolazioni rom, sinti e camminanti) nella realtà italiana. Stiamo parlando, certo, della più grande minoranza d’Europa, tra i 7 e i 9 milioni di cittadini dell’Unione.
Ma nel nostro paese, neppure dopo l’apertura delle frontiere agli immigrati dalla Romania si è raggiunta quota 200 mila: una percentuale talmente esigua rispetto alle dimensioni della penisola -tanto più se si considera che circa 60 mila sono italiani da secoli, più della metà hanno meno di 14 anni, e tra gli stranieri prevalgono gli zingari fuggiti quasi vent’anni fa dalle guerre balcaniche (tuttora condannati dalla burocrazia a restare privi di documenti)- da smentire che possano davvero rappresentare un’emergenza.
La sovrarappresentazione italiana del pericolo rom è un fenomeno unico in Europa. Vi sono certo nazioni, come la Romania e la Slovacchia, in cui gli zingari subiscono un’ostilità politica e sociale, ma nell’ambito di contrapposizioni etniche alimentate da bel altra presenza numerica.
Minimizzare la questione zingara risulta, ciò nonostante, impossibile. Quando si è trovata a dover gestire il turbamento dell’opinione pubblica per reati odiosi che sollecitavano allarme sociale -come l’allora sindaco Veltroni a Roma, nel caso del delitto Reggiani, novembre 2007- anche la sinistra ha fatto ricorso all’espediente degli sgomberi spettacolari. Fingendo d’ignorare che i baraccati possono venir costretti a vagabondare altrove in cerca di ricovero notturno, ma non scompaiono da un giorno all’altro. Quando erano decine di migliaia ad accamparsi nelle baraccopoli dell’hinterland romano, nei primi anni Sessanta, narrati magistralmente da Pier Paolo Pasolini, nessuna forza politica popolare avrebbe considerato redditizio assumerli come bersaglio. Erano molti di più, rispetto ai derelitti delle bidonvilles di oggi, ma non erano né stranieri né zingari. Comunità di minoranza che neppure possono godere della protezione di uno Stato alle spalle, come accade per esempio ai cinesi e agli ebrei. Bersagli ideali del malcontento popolare.
Tanto più che la persistenza degli stereotipi diffusi da sette secoli sugli zingari -propensione al furto, popolo misterico e in integrabile, dedito al ratto dei bambini e alla violenza sulle donne- non è stata scalfita neppure dallo sterminio nazista di un numero di zingari compreso fra i 219 mila e il mezzo milione, tra il 1942 e il 1945, nei medesimi lager in cui venivano deportati gli ebrei. Per decenni si è preferito rimuovere il genocidio degli zingari, censurando la memoria dei sopravvissuti e talvolta addirittura giustificando la persecuzione (sentenza della Corte suprema tedesca nel 1956) in quanto "campagna preventiva contro i crimini". Nessuno ha eretto un tabù per contrastare gli stereotipi antigitani.
Le stesse persone che mai tollererebbero battute ostili nei confronti degli ebrei o dei neri, spesso ammettono una deroga culturale riguardo agli zingari. Non è considerato infame desiderarne l’eliminazione perché nei loro confronti persiste l’identificazione fra un popolo e una colpa. Difendi gli zingari? Vuol dire che sei un difensore dei delinquenti. E’ un’accusa che viene rivolta in perfetta buona fede: ma come, non ti rendi conto che "quelli" sono davvero diversi da noi, sono il male?
Per alcuni mesi tra il 2007 e il 2008 la leadership veltroniana del Partito democratico si è illusa di poter cavalcare anche le pulsioni irrazionali del paese, rifugiandosi dietro a una formula anodina: "La sicurezza non è né di destra né di sinistra". Ma proprio la sovrarapresentazione del pericolo rom si è incaricata di confutare per prima tale scioglilingua: quando accetti di trasformare in emergenza nazionale, finalizzata alla repressione o all’espulsione di un popolo, le manchevolezze della politica nell’opera di integrazione-repressione, hai già consegnato alla destra lo scettro del comando.
Prima di rassegnarsi a questa banale constatazione, nella sinistra più subalterna culturalmente al leghismo abbiamo dovuto assistere a ulteriori elucubrazioni verbali. Come il Documento sulla Sicurezza diramato dal Pd lombardo nel giugno 2008 che auspicava la formazione di reparti di vigilanti volontari da affiancare alle forze di polizia, sorta di "ronde democratiche" da contrapporre alle ronde padane. Con lapsus involontario ma significativo, lo stesso documento conteneva la richiesta di un tetto percentuale per limitare l’eccessiva concentrazione di bambini stranieri nelle classi della scuola primaria: proposta di per sé non scandalosa, se i demagoghi della sinistra filoleghista non l’avessero proposta come questione di ordine pubblico. Proprio così, quando la paura gioca brutti scherzi la gente comincia a temere anche i bambini. Il caso rom è di nuovo esemplare. Se il ministro Maroni ha voluto con insistenza sottolineare la necessità di raccogliere le impronte digitali dei minori rom, è perché sa benissimo di riscuotere i consensi di una massa che in quelle manine scorge prima di tutto la destrezza dei borseggiatori impuniti. Niente di meglio, è il passo successivo, che presentarsi con cinismo beffardo come unici veri protettori di quei bambini indifesi. Favorendo il loro avviamento scolastico? Sostenendo le amministrazioni che gli schiudono l’ospitalità nelle case popolari? No, identificandoli. E promettendo loro salvezza attraverso la sottrazione ai genitori naturali. Promettendo di incrementare le revoche della patria potestà, come se tale provvedimento estremo e delicatissimo dovesse simboleggiare la liberazione dei bambini zingari -non dall’emarginazione e dalla povertà- ma dalla loro etnia maledetta.
A discarico degli amministratori di sinistra che hanno cavalcato l’ostilità anti-rom, va riconosciuto che è difficile, soprattutto per dei politici, mettersi contro il popolo. Col rischio di passare per difensori della delinquenza, dei violentatori, dei ladri di bambini (sia ben chiaro: negli ultimi vent’anni non risulta un solo caso di minore rapito da zingari in Italia). I mass media registrano passivamente la commedia di un popolo esasperato, l’ira dei giusti che talvolta anticipa le forze dell’ordine nel necessario repulisti. Nei talk show televisivi da anni i leaders degli opposti schieramenti considerano improponibile adoperare la parola "integrazione" e hanno fatto semmai a gara nel promettere espulsioni, dimenticando quanto sia vasta la categoria dei drop-out non estradabili.
Perfino i vescovi e i parroci troppo caritatevoli vengono accusati di tradimento, rifacendosi a dottrine medievali secondo cui la compassione e l’assistenza sono lecite solo nei confronti dei poveri appartenenti alla tua comunità: dunque i vagabondi devono essere rinchiusi, cacciati o uccisi. Così gli episodi di violenza contro la presenza degli zingari nelle periferie urbane si moltiplicano senza neppure bisogno dell’incitamento dei titoloni di prima pagina di giornali degni eredi, settant’anni dopo, de "La difesa della razza". Si va dal solito demagogico "Obiettivo: zero campi rom", fino al ridicolo "I rom sono la nuova mafia", per sfociare nel bieco stereotipo "Quei rom ladri di bambini".
Sarebbe assai benefico ricordare qui il precetto biblico dell’immedesimazione ("In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se fosse uscito dall’Egitto") e perciò ogni volta sostituire con la parola "ebrei" o "italiani" la parola "rom". Ma è un esercizio liquidato come poco redditizio da un gruppo dirigente della sinistra che ha sottovalutato le conseguenze della sconfitta subita sul terreno dei valori di civiltà, senza neanche provarsi a difenderli.
C’è infatti un’accusa particolarmente insidiosa da cui la sinistra sente il bisogno di difendersi, col rischio di accentuare la sua subalternità culturale alla destra.
Difendere gli zingari; denunciare il chiaro scopo intimidatorio e discriminatorio del censimento nei cosiddetti campi nomadi e delle impronte digitali da rilevare solo a loro; ricordare che i Commissari prefettizi nominati a Roma, Milano, Napoli per l’emergenza nomadi sono i primi dal 1938 incaricati di una sovrintendenza etnica: tutto ciò avrebbe il difetto di separare ulteriormente la sinistra dal popolo. Rivelando un’ostilità elitaria tipica della casta dei privilegiati che ignorano il disagio delle periferie. L’adulazione del popolo, il germe del populismo, penetrano così anche un ceto politico amministrativo della sinistra che mal sopporta la convivenza con le sue stesse tradizioni culturali. Chi si oppone è fuori dal popolo. Ti senti buono, superiore? Allora ospitali nel tuo attico, e non venirci a dire che dobbiamo investire risorse pubbliche per mantenere e ospitare questi corpi estranei alla società perbene. I veri poveri sono i nostri italiani, gli zingari sono dei privilegiati. Non a caso impazzano leggende metropolitane secondi cui riceverebbero sussidi quotidiani dagli enti locali, e il volontariato cattolico li alloggerebbe a scapito dei concittadini senzatetto.
Rinunciando a una battaglia culturale su un terreno considerato troppo sfavorevole e impopolare come la questione zingara, la sinistra ha sacrificato un tratto distintivo della sua idealità. Ma l’approccio corrivo a una destra che ricorre impunemente a termini come "derattizzazione", allude all’eliminazione fisica dei rom, li stigmatizza con stereotipi identici a quelli antisemiti, non è solo mortificante: alla lunga si rivela anche nocivo politicamente. E’ vero che ci sono sindaci di sinistra che hanno perso le elezioni, in apparenza, solo per il fatto di aver consentito la sistemazione provvisoria sul territorio comunale di poche decine di zingari, metà dei quali bambini. E perfino un nordista come Cacciari, che strizza maliziosamente l’occhio alla Lega, viene ripagato con la furia di chi si oppone alla sistemazione di un campo per zingari italiani residenti a Venezia da decenni.
Ma alla dimensione irrazionale della politica di destra può contrapporsi efficacemente solo la passione civile e religiosa, la memoria storica, la denuncia del sopruso perpetrato nei confronti di un popolo, il coraggio di propugnare un’opera d’integrazione. Nel 1938 coloro che si opposero alla legislazione razziale promulgata dal regime fascista furono accusati di "pietismo" e con questa motivazione un migliaio di loro furono espulsi dal Pnf. Perché mai dovremmo sentirci disonorati dall’accusa di "buonismo", settant’anni dopo?
La Sinistra che non vede
di Aldo Bonomi *
Un fantasma si aggira nella politica italiana, il fantasma della sinistra. Ma differentemente dallo spettro del comunismo marxiano questa volta porta con sé l’annuncio di un doloroso crepuscolo. Doloroso quanto prevedibile. Perché i segnali c’erano tutti: sia in campo sociale sia elettorale. Le stesse elezioni dell’aprile 2006 non solo avevano messo in luce il mancato sfondamento da parte del centro-sinistra, ma anche sul fronte della cosiddetta «sinistra radicale» avevano messo in luce come il buon risultato di allora lo si dovesse più alla crescita nelle regioni meridionali, mentre nelle cinture metropolitane del Nord e nelle tradizionali regioni rosse i voti già allora erano in calo. La «questione settentrionale» riemergeva puntualmente.Tuttavia, rimango convinto che le ragioni di una sconfitta epocale, come quella che ha espulso la sinistra dalla rappresentanza parlamentare, abbiano più a che fare con processi di lungo periodo che con i guasti dell’ultima esperienza governativa.
Lo sradicamento dai processi sociali ed economici e la perdita di connessione culturale e sentimentale rispetto alle grandi trasformazioni della nostra epoca rappresentano il nodo tutto preistituzionale da sciogliere. Che cosa è successo? La mia opinione è che le elezioni abbiano dato sanzione a una mutazione che travaglia l’identità della sinistra italiana nel suo insieme. Essa ha perso il controllo di due miti culturali potentissimi che ha avuto in modo sostanziale per quasi due secoli: il moderno e il popolare . Il moderno. La rappresentanza sociale e politica della sinistra era espressione di una società dai fini certi. Il Sol dell’Avvenire, il Palazzo d’Inverno, l’idea di rappresentare l’avanguardia organizzata di un movimento storico incessantemente proiettato a costruire il futuro, incardinavano l’idea stessa di sinistra dentro quella di moderno. Oggi il campo su cui la sinistra, soprattutto quella radicale, si esercita è sul piano economico e sociale con l’opposizione di marca «luddista» a un moderno percepito come un campo totalmente occupato dall’impresa e dalle sue logiche. La sinistra si oppone alla mercificazione dei beni comuni ereditati dalla tradizione o dalla natura, ma non riesce a progettare nuovi beni comuni (infrastrutture, diritti ecc.) che parlino di un progetto di ordine economico e sociale alternativo. Rifugiandosi invece in una sfera dei diritti etici e civili giocata spesso come sostituto funzionale dell’incapacità di rimettere a tema la questione sociale (da qui un’infatuazione per lo «zapaterismo»). Una linea che però finisce per suscitare reazioni conservatrici proprio nella base popolare tradizionale della sinistra, in certo qual modo incrementando il circolo vizioso dello sradicamento. È questo, infatti, il secondo corno del dilemma. È venuto meno quell’elemento che garantiva la connessione con il paese profondo e la sua cultura, la capacità di esprimere e (re)inventare il popolare, o nelle parole di Gramsci il nazional-popolare inteso come mastice tra nazione culturale e nazione politica, tra territorio e stato, tra comunità e rappresentanza. Questa capacità «popolare» era un’eredità storica peculiare della sinistra italiana. La cui identità politica profonda nasce prima nel territorio e quindi nella comunità e nel popolare.(...)
La mia impressione è che questi due elementi, prima il moderno e poi il popolare, sono stati progressivamente scippati e reinventati dal ritorno della destra a partire dagli anni ottanta e dopo la grande rottura del Sessantotto. Prima con il binomio Thatcher/Reagan poi con il populismo postindustriale dei Le Pen e arrivando in Italia fino al duo Bossi-Berlusconi e all’ideologia «protettiva» di Tremonti, la destra ha occupato proprio quell’elemento territoriale da cui originariamente era partita la parabola della sinistra italiana e che, anche dopo la fine della grande fabbrica, aveva provvisoriamente garantito la sua tenuta politica. Come è potuto avvenire? Rimango convinto che per comprendere le ragioni della sconfitta e per tentare di rimettere insieme i cocci di una «nuova sinistra», l’operazione da compiere sia di rimettere la politica e la rappresentanza «sui suoi piedi», ovvero riconquistare un nuovo sapere sociale su cosa è oggi il capitalismo, e la questione materiale, senza il quale semplicemente non c’è sinistra. In questo modo e non inseguendo le chimere postideologiche, può essere possibile comprendere il rancore sociale montante che fa da base culturale all’egemonia della destra. È la discontinuità rappresentata dalla globalizzazione il punto di partenza di ogni riflessione. Che deve comprendere almeno tre passaggi chiave: il territorio, la rappresentanza dei nuovi soggetti e quella che possiamo definire come la questione neoborghese. Partiamo dal territorio. Da anni sono convinto che viviamo dentro un salto di paradigma. Oggi è necessario ragionare non più soltanto in termini di conflitto tra capitale e lavoro, con lo stato come soggetto di redistribuzione del prodotto sociale. Invece, ritengo che sia necessario riflettere su una nuova forma del conflitto tra flussi e luoghi, con il territorio come dimensione intermedia in cui situare la ricostruzione dei processi di rappresentanza. Parlare di globalizzazione significa parlare di una serie di flussi produttivi, finanziari, umani. Sono flussi le transnazionali, le internet company, i corridoi europei (la Tav), e quelli che Tremonti definisce i padroni della tecnofinanza. E sono flussi anche le migrazioni. (...)
Tuttavia, è necessaria la consapevolezza che mentre nel Novecento la rappresentanza sindacale e politica cresceva in una società caratterizzata dai mezzi scarsi e fini certi oggi siamo passati a una società dai mezzi abbondantissimi ma con fini totalmente incerti. Utilizzando le categorie di Ernesto De Martino, tutto ciò ha prodotto una moderna apocalisse culturale. Che significa fondamentalmente non riconoscersi più in ciò che c’era abituale. C’era abituale il quartiere, c’era abituale la fabbrica, la comunità di uguali e il conflitto. Tutte strutture radicate nel Dna profondo della sinistra che si sono depotenziate. (...)
È la metropolizzazione del territorio con le sue conseguenze in termini di figure sociali che va posta al centro. Di che cosa parliamo? Parliamo di uno spazio sociale e produttivo dove l’espansione della città si è fusa con un capitalismo molecolare di oltre cinquecentomila imprese con due milioni di addetti. Se si cerca la classe operaia si scopre che esiste ancora e vive e lavora proprio nei territori delle tante città infinite. E vota con il suo «padroncino» non solo per retaggio culturale, ma perché tende magari a condividerne ansie e speranze in rapporto a una dimensionecompetitiva ormai divenuta dimensione esistenziale diffusa. È una sorta di melting pot produttivo in cui si è prodotto un gigantesco processo di scomposizione e ricomposizione delle figure produttive.(...) Ritengo che le ideologie legate alla questione sociale siano ancora in piedi. Sul mercato delle culture politiche si possono distinguere almenoquattro ideologie o correnti di pensiero strutturate o invia di strutturazione. La prima ideologia è tutta interna al pensierodel mercato. Si presuppone che il capitalismo sia un sistema dotato della capacità di autoregolarsi. È una visione propria delle élite delle grandi transnazionali che sposta il potenziale conflitto tra shareholders e stakeholders (portatori di interesse) territoriali all’interno dell’impresa. Al centro vi è la figura dell’utente-cliente come dominus del mercato, attore autonomo dall’impresa capace di vincolarne l’azione minacciando (o attuando) strategie di uscita individuali non limitate alla valutazione della qualità dei prodotti, ma estese anche al rispetto da parte dell’impresa della sua sfera valoriale o degli interessi della società. È una visione che ha radici profonde soprattutto nelle società anglosassoni dove ha assunto anche una veste giuridica attraverso le cosiddette class actions di consumatori che, in quanto tali, divengono titolari di diritti. Una seconda ideologia, all’esatto opposto, è quella esemplificata dalla teoria della decrescita di Serge Latouche. Anche questa è un’ideologia potentissima, perché dà riferimenti culturali ai movimenti di conflitto delle società locali contro i processi di modernizzazione promossi dai grandi attori del capitalismo globale. È un’ideologia con cui confrontarsi. E quanto il sindacato si deve confrontare? Le difficoltà del sindacato torinese rispetto alla Tav sono lì a testimoniarlo. Terza ideologia, è quella della moltitudine come nuovo soggetto della trasformazione sociale, sostituto funzionale in tempi di globalizzazione dell’operaio-massa. La figura dell’Impero ne è il corrispondente dal punto di vista dei processi costituenti della rappresentanza. Altra ideologia è la rappresentazione del conflitto tra flussi e luoghi a partire dall’emergere della coscienza di luogo come nuovo elemento identitario sul quale imperniare i processi di costruzione della rappresentanza. Più un luogo è in grado di sviluppare, oltre alla coscienza di classe per tutelare i soggetti, anche la coscienza di luogo, più esso è in grado di rapportarsi ai flussi e negoziare il proprio cambiamento. Il sindacato dovrebbe essere uno dei soggetti. È vero, per esempio, che il termine «coscienza di luogo» ovviamente sussume molti dei problemi anche della decrescita, della qualità della vita, dell’ambientalismo. Su questo fronte il discrimine politico corre tra una coscienza di luogo orientata alla chiusura e una coscienza di luogo centrata sulla relazione con la dimensione dei processi di modernizzazione. È dentro questa ideologia emergente, radicata nei processi materiali, che si è sviluppata la parabola leghista con la sua capacità di accoppiare l’elemento identitario di difesa a quello della modernizzazione delle grandi infrastrutture divenute simbolo politico (Malpensa, il disegno delle utilities del Nord ecc.). Le ideologie dunque esistono. Esse sono diverse dalle grandi narrazioni novecentesche, ma ancora potenti e in via di strutturazione. Semmai esiste, ed esiste soprattutto a sinistra, un problema di posizionamento rispetto a queste ideologie emergenti. (...) In conclusione, credo che la scommessa sia produrre meccanismi anche di potere oltre che ideologici, che consentano un processo di riterritorializzazione delle élite economiche fondato sull’idea, per dirla con il filosofo francese Lévinas, che l’identità non stia nel soggetto (e nella sua difesa) ma nella relazione con l’altro. Quale può essere il ruolo della sinistra dentro questa nuova dinamica? Assumere i flussi come unica dimensione rilevante? Cavalcare le propensioni alla chiusura del locale, secondo il modello del «sindacalismo di territorio» leghista? Penso invece che esista una terza possibilità: mettersi in mezzo tra flussi e luoghi assumendo il territorio come nuovo spazio d’azione intermedio e accompagnare le società locali nel «metabolizzare» culturalmente i cambiamenti; per dirla con uno slogan, «mediare i flussi per accompagnare i luoghi». Il nodo è costruire una società locale capace di agganciarsi al globale e aprire l’enclave che è dentro di noi al mondo. La sfida per il tessuto della rappresentanza e per la sinistra è «fare società» accompagnando questo processo di apertura e trovando forme organizzative adatte. Questo mi pare un obiettivo di fondo su cui varrebbe la pena di ragionare.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.10.08, Modificato il: 10.10.08 alle ore 10.32
l’Unità 10.10.2008
La Sinistra torna in piazza
di Piero Di Siena
Domani, 11 ottobre, tutta la sinistra italiana, vale a dire le forze che hanno dato vita alla sfortunata esperienza della Sinistra l’Arcobaleno, tornerà a manifestare insieme contro la politica di governo della destra italiana. Dopo mesi di divisioni anche aspre tra i partiti e dentro di essi, questo costituisce una inversione di tendenza. Le prospettive politiche restano diverse ma si è compreso che, comunque, la sinistra non poteva mancare all’appello nel momento in cui appare sempre più evidente l’urgenza di reagire a un attacco senza precedenti che da parte della destra viene condotto - su più terreni: dal lavoro alla scuola e all’università, dalla giustizia ai diritti civili e alla funzione delle autonomie locali - contro valori e conquiste che hanno segnato la vita dell’intera storia repubblicana. Che la sinistra, fuori del Parlamento e ridotta al suo minimo storico, debba ricominciare da zero il suo cammino, riuscendo finalmente a interpretare le domande e i bisogni di un mondo totalmente cambiato, è fuori di discussione. Ma essa non farebbe alcun passo in avanti se venisse meno “qui” e “ora” al dovere di far sentire la propria voce contro la destra al governo.
Coloro che hanno promosso la manifestazione - circa duecento personalità della politica, della cultura e dei movimenti sociali della sinistra italiana -, ricevendo l’assenso di tutti i partiti, sono consapevoli di non essere i soli a condurre un’azione di contrasto contro la destra. Lo stesso Partito democratico sembra svegliarsi dall’incanto che l’ha travolto sin dalla campagna elettorale, preda come è stato dell’illusione che con Berlusconi e la sua coalizione si potesse costruire un’idea di Paese condivisa.
E sarebbe augurabile che la manifestazione del 25 ottobre rappresentasse, almeno da questo punto di vista, una svolta. Di Pietro l’11 ottobre a piazza Navona inizia la raccolta di firme per il referendum sui temi della giustizia, che rimane questione cruciale. Il successo delle manifestazioni della Cgil del 27 settembre e l’esito insperato della vertenza Alitalia potrebbero rompere l’isolamento del movimento sindacale e rendere più difficili le manovre tendenti alla sua divisione, di cui si sono resi protagonisti in questi mesi congiuntamente governo e Confindustria. E tuttavia i fatti di questi mesi hanno dimostrato che senza una sinistra in campo un’opposizione stenta a nascere. La pretesa autosufficienza del Partito democratico è stata solo causa di divisioni che non hanno risparmiato nemmeno i suoi rapporti interni. Di Pietro ha dimostrato di non riuscire a uscire fuori dal recinto giustizialista che da sempre caratterizza la sua azione politica. La manifestazione dell’11 ottobre ha, perciò, l’ambizione di mettere in campo forze la cui vocazione è invece quella di unire, a partire dai contenuti della piattaforma che sta alla base della mobilitazione. Non si tratta né di dialogare con le altre piazze né di contrapporsi ad esse, ma di parlare con spirito unitario al Paese, sperando che per questa via si realizzino le condizioni per ricostruire un’alternativa a Berlusconi e al suo governo.
Piazze e piazzisti
di Pietro Spataro *
Laggiù si urla «governo sfascista ti abbatteremo a vista», qui si ritma «premier infame per te ci son le lame». Dietro il palco domina la scritta «contro il regime per la libertà». In lontananza una bara con la foto del presidente del Consiglio s’avvia mesta in corteo. No, non è la cronaca di una manifestazione annunciata. Non è un flash anticipato dal corteo che oggi porterà in piazza a Roma la sinistra radicale. E nemmeno una scena fantastica di quello del Pd del 25 ottobre. Quegli slogan sono stati già urlati. Quella parola d’ordine sul palco è già stata esposta. Quella bara ha già sfilato. Era sabato 2 dicembre 2006. Roma, Piazza San Giovanni: il capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi si scagliò con parole dure e battute pesanti contro il premier Romano Prodi. Disse che la sinistra aveva fatto i brogli e che il popolo aspettava una guerra di secessione per riconquistare la libertà. È tutto scritto sui giornali di allora, basta controllare.
Oggi però, a parti invertite, Berlusconi ritiene che scendere in piazza sia un’offesa, un pericolo, un attentato. Dice che con chi sfila nei cortei non si dialoga, figurarsi. Aggiunge che non si lascerà prendere in giro. La piazza diventa quindi un luogo di perdizione e di maledizione. Il posto degli istinti animali. Grande elemento di disturbo per chi invece “deve lavorare” e “deve fare” e non può perdersi in chiacchiere.
Se non fosse preoccupante nemmeno varrebbe la pena perderci tempo. In questi lunghi quindici anni di berlusconismo abbiamo assistito a tanti di quegli strappi che rischiamo quasi quasi di farci il callo. Ma il punto è delicato e riguarda la corretta vita democratica del Paese.
Ci sono, infatti, due parole del dizionario democratico che vanno storte al Berlusconi Capo del Governo: Parlamento e Opposizione. Abbiamo già visto in questi mesi quale idea abbia di Camera e Senato. Bei palazzi nel centro di Roma nei quali si aggirano strani signori che pretendono di fare le leggi, discutere proposte, magari votare anche ed emendare. Addirittura esercitare il potere loro conferito dagli elettori. Così Berlusconi ha deciso che si deve perdere tempo e che si governa per decreto, si va avanti con i voti di fiducia trasformando il luogo simbolo della democrazia in una specie di grande pulsantiera. Al presidente della Repubblica che lo avverte e gli dice vigilerò risponde: sissignore. Poi però sforna altri decreti. Aleggia addirittura in queste ore (nonostante la smentita del ministro Alfano nell’intervista rilasciata ieri al direttore di questo giornale) un maxidecreto sulla giustizia.
Siamo visionari? Non pare, se è vero che su questo tema il Quirinale tiene gli occhi bene aperti. E se anche ieri Napolitano ha sentito il bisogno di ricordare che la nostra è una Repubblica Parlamentare e che allontanarsi da questa via può «condurre veramente fuori strada e in vicoli ciechi».
L’altro caposaldo delle moderne democrazie è l’opposizione. Proprio perché siamo in democrazia nessun governo ha il potere assoluto, ma le sue prerogative vengono compensate da una serie di contrappesi. L’opposizione è uno dei più importanti. Certo, è una cosa ovvia. Ma per il nostro premier non sembra sia così. Chi non adora, nel suo caso, non ha diritti, è un nemico e spesso un comunista. La sua è una idea di democrazia senza contestazioni, nella quale la scena è tutta e solo degli yesmen. Preoccupante? Abbastanza preoccupante.
L’opposizione, come si sa, può esercitare il suo ruolo dentro e fuori il Parlamento. Nelle aule e nelle piazze. E la esercita con più o meno durezza ma con spirito democratico e con senso dello Stato. È stato così quando c’era il Pci. Lo è ancora oggi che non c’è più.
Andare in piazza il 25 ottobre per il Pd (così come sarà oggi per la sinistra radicale ed è stato ieri per gli studenti) è un modo forte per far sentire la propria voce e dare voce alla propria gente. Per essere, certo, contro il governo ma con l’obiettivo di risolvere i problemi del Paese in un momento delicato e difficile. Insomma per gridare le proprie critiche e poter dire dei “no” e dei “basta”. È tutto a posto, tutto naturale. Legittimo. Succede qui e succede in tutte le democrazie del mondo. Non succede nei posti dove comanda uno solo che pensa, propone, vota, decide, accoglie e respinge. Sono posti, quelli, che non ci piacciono. Per questo quel refolo di dubbio (che Franceschini ridimensiona nell’intervista a Eduardo Di Blasi a pagina 8) che abbiamo visto serpeggiare dentro il Pd sul tema andare in piazza o no, andarci per criticare o per appoggiare, ci è sembrato alquanto disorientante.
Non bisogna offrire alcun alibi al decisionismo berlusconiano. La piazza non fa paura, non deve far paura. La piazza è il luogo delle idee, dell’incontro e della partecipazione. È un luogo della democrazia. Non bisogna diffidarne. Meglio diffidare, invece, di quei piazzisti che preferiscono il Billionaire o il Bagaglino per raccontare barzellette e farsi piacere. E poi decidono sempre tutto da soli.
pspataro@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 11.10.08, Modificato il: 11.10.08 alle ore 8.36