Tra Toni Negri e Tommaso d’Aquino
di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 27.04.2012)
Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» è improntato a un prorompente «ottimismo della volontà». Com’è noto, Antonio Gramsci raccomandava che i due elementi della fatidica coppia - «pessimismo dell’intelligenza» e «ottimismo della volontà» - procedessero sempre insieme. Meno noti i motivi che secondo lui renderebbero raccomandabile, anzi inevitabile, l’accoppiata: «Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche». D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltano a ogni sciocchezza». Per cui, appunto: «Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».
Riguarda in qualche modo la citazione gramsciana gli estensori del suddetto «Manifesto»? No, assolutamente no: volevo soltanto che il pensiero gramsciano fosse almeno una volta richiamato, per intero). Mi predisporrei perciò a introdurre qualche elemento pessimistico nel ragionamento del «Manifesto», cercando al tempo stesso di guardarmi dallo spingermi troppo nella direzione opposta, cosa che, ahimè, in casi del genere capita di frequente. Utilizzerò di volta in volta argomenti concettuali ed esempi pratici: le mie esperienze degli ultimi dieci anni me lo consentono (cosa che non a tutti i miei interlocutori accade).
1. Politica. Un perno del «Manifesto», assolutamente condivisibile, è che «democrazia rappresentativa» e «democrazia partecipata» dovrebbero integrarsi e ri-equilibrarsi profondamente. L’idea, invece, che uno dei due versanti, quello della «democrazia rappresentativa», rappresentato essenzialmente dal sistema dei partiti, sia attualmente tutto da buttare e l’altro, quello della «democrazia partecipativa», tutto da esaltare e valorizzare, è completamente sbagliata, e fortemente autolesionistica. Ci sono realtà istituzionali e politiche, con le quali è possibile/necessario mantenere un livello alto di confronto, di scontro e comunque di serio rapporto; e ci sono realtà di base totalmente catturate all’interno del sistema dello sfruttamento e dell’utilitarismo individualistico. In alcune Regioni d’Italia (molte, direi), se si facesse un referendum sull’abusivismo vincerebbero gli abusivisti.
La stessa cosa si potrebbe dire del rapporto fra centro e periferia. In taluni casi, l’auspicato decentramento del potere funziona alla grande; in certi altri assolutamente no. Alcuni Comuni sono virtuosi; gli altri (la maggioranza, io penso) no, anzi sono spesso i manutengoli degli interessi privati più sporchi. In casi come questi, oltre che battersi in ogni modo con la denuncia, bisogna ricorrere in un modo o nell’altro alle istanze «superiori»: le Regioni, lo Stato.
L’idea che il quadro sia omogeneo in tutte le sue componenti e su tutti i suoi versanti è distruttiva. Attualmente il quadro è invece frastagliato, poliforme e multicentrico. Al tempo stesso, tutto si tiene. L’idea giusta, appunto, che la «democrazia partecipativa» spinga per una riforma profonda della «democrazia rappresentativa» e del «sistema dei partiti» comporta che nessuna opportunità, nessuna chance sia cammin facendo ignorata e trascurata, e tutte invece siano volte all’unico obiettivo che meriti oggi perseguire: una diversa nozione e pratica della politica.
Il sistema - il sistema tutt’intero, intendo - si può riformare solo se si salva. E si salva solo se viene coinvolto tutt’intero, dalla A alla Z, per quanti sforzi questo comporti, e quanta pazienza e sobrietà richieda. Occorre violentemente attirare l’attenzione sul presente così com’è, se si vuole trasformarlo.
2. Principi, ideologia. È fuor di dubbio che siano fortemente cambiati forme e attori del conflitto. Mi chiedo però fino a che punto il gigantismo del sistema - la globalizzazione, appunto - abbia tolto di mezzo il fondamentale antagonismo fra capitale e lavoro: lo ha se mai anch’esso ingigantito, a livello planetario. Di questo non c’è traccia nel «Manifesto»: si direbbe che i protagonisti del conflitto siano, in questo quadro, attori di una diversa separazione/contrapposizione sociale (e politica, e culturale). Si lotta, infatti, per qualcosa di profondamente diverso dagli obiettivi tradizionali: si lotta per i cosiddetti «beni comuni».
Dei «beni comuni» Stefano Rodotà, che ne è l’interprete al tempo stesso più innovativo ed equilibrato, dà una definizione che io accolgo e faccio mia. Essi «sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». E cioè: ci sono beni, esattamente definiti dal punto di vista delle caratteristiche dominanti, delle possibili fruizioni e delle possibili forme di governance, la cui «proprietà», per così dire, è comune, cioè appartengono «a tutti e a nessuno». Detto così, va benissimo: questi «beni comuni» rientrano perfettamente nel quadro di un programma di «democrazia partecipativa», la quale, oltre a valere per sé, preme sulla «democrazia rappresentativa» per mutarne obiettivi e metodi ed eventualmente per ottenere un sistema di governance giuridico-istituzionale, che sia rispettoso della natura speciale di quel bene (mi riservo di porre a Rodotà una domanda, ma lo farò più avanti).
Ma i «beni comuni» divengono nel «Manifesto» il programma di massima del «nuovo soggetto politico». La cosa mi pare abnorme. Non solo per il pericolo successivamente segnalato dallo stesso Rodotà: «Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorte di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità d’individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità comune di un bene può sprigionare tutta la sua forza» (il manifesto, 12 aprile). Ma soprattutto perché, se i «beni comuni» assurgono a orizzonte ideologico e di valore del nuovo movimento, ci si dovrebbe chiedere più trasparentemente (una delle richieste basilari di una vera «democrazia partecipativa») non solo dove va ma anche da dove viene un movimento così orientato.
La risposta sarebbe lunga e problematica: ma qualcosa si può cominciare a dire. Uno dei punti di partenza possibili è senza ombra di dubbio Michael Hardt e Antonio (Toni) Negri: Comune (titolo originale dell’opera, molto più significativo di quello della tradizione italiana: Commonwealth), apparso nel 2009 (trad. ital. 2010), che porta il sottotitolo anch’esso estremamente significativo di: Oltre il privato e il pubblico. Lo chiamo in causa per almeno due motivi: perché il «comune» negriano è, esplicitamente, il frutto del palese rifiuto e superamento da parte dell’autore del vecchio operaismo e, più specificamente ancora, della teoria marxiana del valore; e perché i «beni comuni» sono obiettivi strategici logicamente comprensibili e accettabili, solo nella prospettiva biopolitica di una «democrazia della moltitudine», che veda anch’essa il superamento del conflitto di classe di fronte ai bisogni del più indeterminato ma appunto perciò meno obsoleto e più possente soggetto rivoluzionario: «Oggi potremmo dire: "Sta sorgendo una razza multitudinaria"» (Moltitudine, Rizzoli, Milano, 2004, pp. 409).
Ogni volta, però, che ci si allontana dall’idea che questa sia una società divisa in classi - ossia ci si allontana dalla persuasione laica che esistono sfruttati e sfruttatori, percettori di un enorme surplus di potere a danno di altri che ne hanno poco o punto, a causa del meccanismo economico dominante (lo so, lo dico in maniera troppo rozza e approssimativa, ma qui non posso fare altrimenti) - si aprono scenari imprevedibili e sorprendenti. Per esempio, si scopre che la radice della nozione di «bene comune» è teologico-cristiana. Ne ragiona infatti con profondità niente di meno che Tommaso d’Aquino (riprendendo in parte, come soventi gli capita, definizioni aristoteliche): il quale, nella Summa Theologiae (I-II, 90, 3), scrive (traduzione improvvisata, e forse zoppicante): «...Come l’uomo è parte della casa, così la casa è parte della città; e la città è la comunità perfetta, come si dice in Aristotele, Politica (Aristotele, infatti, lì parla della "polis"). E perciò, siccome il bene del singolo uomo non è l’ultimo fine, ma è ordinato in funzione del "bene comune" (ad commune bonum); nello stesso modo, il bene di una casa è ordinato in funzione del bene di una città, la quale è la comunità perfetta».
Tommaso è un autore che i «benecomunisti» non amano citare (solo un piccolo cenno polemico in U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari, 2011, pp. 41). Nelle opere di Negri, ad esempio, non ce n’è traccia. Eppure è di fondamentale importanza. Il ritorno al Medio Evo, di cui si parla a proposito dei «benecomunisti», è tutt’altro che banale: significa la riappropriazione, in funzione apparentemente anticapitalistica, di un intero universo concettuale e ideale pre-capitalistico. Insomma: se la società divisa in classi non fosse alla fin fine altro che una «comunità», ovviamente non potrebbero esserci «beni comuni». I cittadini, les citoyens, in lotta per due secoli e mezzo per contendere all’avversario di classe ciò che a loro spetta, diventano «persone», prive di connotazione sociale (secondo un dettame che la teologia cristiana farebbe volentieri proprio): «Unire le persone per bene» intorno a un metodo è molto più agevole che farlo nel merito ed è certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente vecchi steccati...» (U. Mattei, il manifesto, 4 aprile). «Superare i vecchi steccati» è ciò che cercano di fare proprio oggi tutte le forme di «antipolitica».
Sorprende che molti dei firmatari del «Manifesto», che sono stati o sono ancora o si dicono ancora marxisti, non abbiano notato che in questo testo non viene mai nominato, nonché la «classe», neanche il «popolo». La soggettività politica viene trasferita a altre entità per ora poco chiare, autodefinentesti e autordinantesi, quali che la lotta politica fosse il frutto selezionato, alla fin fine, di alcuni gruppi intellettuali, che, come si diceva scherzando una volta, «danno la linea». E naturalmente, insieme con «classe» e con «popolo», spariscono le categorie di «destra» e di «sinistra» (anch’esse mai nominate nel «Manifesto»). I «benecomunisti» stanno più avanti, anche in questo caso, di queste obsolete distinzioni: stanno là dove «le persone per bene» - operai, impiegati, funzionari, banchieri, capitalisti, pensionati, sfruttatori, purché «per bene» - decidono di stare tutte insieme per meglio governare il loro «comune» destino.
Il riferimento a Tommaso d’Aquino non deve però far pensare a una discussione e a un rinfacciamento puramente dottrinari, destituiti di esiti pratici e politici immediati. La dottrina di Tommaso cala infatti di peso in quella attuale, e perfettamente operante, della Chiesa cattolica.
Come si fa a non accorgersi di un dato così clamoroso? La filologia in certi casi conta più della logica (ma è anche più rara, molto più rara). Nel Catechismo della Chiesa cattolica (Edizioni Piemme, Città del Vaticano, 1993), la dottrina del «bene comune» occupa il posto centrale nella conformazione dell’agire sociale e pastorale della Chiesa nel mondo (III, II: La comunità umana; 2. La partecipazione alla vita sociale; II. Il bene comune). Il «bene comune», secondo l’ammonimento di Tommaso qui puntualmente richiamato («Non vivete isolati, ripiegandovi, in voi stessi ... invece riunitevi insieme, per ricercare ciò che giova al bene di tutti (bonum commune), è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente» (pp. 361). Non si potrebbe dir meglio in un contesto nel quale il conseguimento del «bene comune» rappresenta il nuovo Sovrano. Ma certo stupisce che il «messaggio» che esce dal progetto di un «nuovo soggetto politico» sia così vicino a quello uscito dal Consiglio Vaticano II (cui il Catechismo fondamentalmente attinge).
3. Comportamenti e passioni. Potremmo ancora citare a lungo dal Catechismo, e anche da molti altri e diversi autori del medesimo orientamento. Siccome le analogie sono indubbiamente clamorose, sarebbe interessante ascoltare una spiegazione del perché, sopprimendo la categoria analitica e pratica del conflitto di classe, tornano a manifestarsi prepotentemente e a dilagare visioni del mondo in cui l’ultraterrenità, e il discorso teologico-scolastico, tornano a farsi dominanti. In attesa che una qualche risposta venga (ma se uno usa gli stessi termini e concetti di un altro, qualcosa di «comune» dev’esserci), osservo che il lungo capitolo che conclude il «Manifesto» sui «comportamenti» «e sulle passioni» non fa che accentuare, ai limiti del disagio, le reazioni che si provano di fronte alla teoria fin qui esposta dei «beni comuni». Un universo di buoni sentimenti - «la compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità e il rispetto degli altri», «il sentimento dell’empatia» - dovrebbe prendere il posto di quello in cui finora siamo sventuratamente nati e cresciuti - quello delle «passioni negative, l’invidia, l’odio, l’orgoglio, l’ira... la rivalità, la voglia di sopraffare...». Allora, nel nuovo universo, « a predominare sarebbero le virtù sociali delle mitezza e della fermezza...».
Io qui non so cosa dire. Va bene non aver letto (o aver dimenticato) Machiavelli. E Marx. E Schmitt. Ma pretendere di affrontare l’incredibile violenza dell’attuale sistema di sfruttamento globale con il sorriso sulle labbra e le pacche sulle spalle, mi pare indizio di una mentalità che non porta da nessuna parte (naturalmente, anche Negri impernia la sua ideologia multitudinaria sull’«amore»: se no, che biopolitica sarebbe? Anche il male, tuttavia, secondo lui, può impadronirsi dell’amore. Il conflitto sarebbe allora fra un amore malato e «cattivo» e un amore buono, autentico. Interessante).
4. «Beni comuni» e «Pubblico». Torno alla domanda che qualche colonna fa avrei voluto rivolgere a Rodotà. Ho citato la sua definizione di «beni comuni», che ora per chiarezza del lettore ritrascrivo: «(Essi) sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali, e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». La domanda è: non potrebbe esser questa anche una buona definizione di «pubblico?» E cioè: lo Stato democratico-capitalistico moderno, nella sua complessa strutturazione, è il frutto di spinte contrastanti nelle quali la funzione e l’indirizzo loro impresso da esigenze, interessi e modalità di vita propri delle classi cosiddette subalterne, hanno lasciato un segno consistente. Il «pubblico» oggi non s’identifica certo con lo Stato Leviatano; se mai si potrebbe dire che, nei casi migliori, lo Stato è stato (e in parte ancora è) un’articolazione del «pubblico» - il «pubblico», che tra le proprie funzioni più specifiche e prestigiose ha quella di proiettare la tutela dei beni d’interesse comune «nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». Sanità pubblica, Scuola pubblica, Università, ricerca, sistema delle pensioni, diritti del lavoro, solidarietà sociale, tutela del territorio, sistema della giustizia «imparziale» e nei limiti delle umane abitudini) «uguale per tutti», sono i principali requisiti di un sistema imperniato sul «pubblico» (e non sul «privato»). È la materia, del resto, chiarissimamente descritta e regolata negli artt. 2, 3 e 4 della nostra Costituzione (che forse andrebbero tenuti più presenti).
Se le cose stanno così, non sarebbe meglio, invece che procedere negrianamente «oltre il privato e il pubblico», considerare la battaglia per i «beni comuni» un allargamento e un rafforzamento di quella per il «pubblico», in una visione più dinamica e articolata di quella praticata presentemente?
La cosa è tutt’altro che facile, ma è decisiva. Quel che io vedo è che il «pubblico», costruito prevalentemente con le lotte di generazioni e generazioni di cittadini italiani ed europei, è minacciato, frantumato, reso subalterno da una colossale invasione del «privato». Il governo Monti in Italia, politicamente, ideologicamente ed economicamente, ne rappresenta un esempio di prim’ordine. Allora, se le cose stanno così, all’ordine del giorno oggi non c’è la reclusione insieme di «pubblico» e «privato» nel medesimo cassetto di vecchi arnesi ormai inutili: c’è una gigantesca battaglia per la difesa del «pubblico», che, invece di fermarsi all’esistente, eventualmente si rafforzi e s’allarghi con l’individuazione e la conquista di nuovi territori. Per questo i partiti sono ancora necessari, in Italia e in Europa.
Quel che è accaduto recentemente in Francia dimostra eloquentemente che la forza di organizzazioni centralizzate e ben dirette è essenziale alla causa del mutamento. Se, come si spera, il candidato socialista riuscirà a prevalere, l’intero assetto europeo dei prossimi anni ne risulterà influenzato.
In Italia stiamo molto peggio, lo so, ma le coordinate del lavoro da fare sono molto simili.
5. Il «metodo» viene prima del «merito?» Il metodo adottato dai promotori del «Manifesto», come già s’è detto, appare sul manifesto il 29 marzo. Dopo le prime battute, assai interessanti, di dibattito, due degli organizzatori (Alberto Lucarelli, Ugo Mattei) dichiarano aperta la consultazione per la scelta del nome del «nuovo soggetto politico» (il manifesto, 17 aprile), dando per scontato che a Firenze il prossimo 28 aprile il «nuovo soggetto politico» si faccia (ignorando del tutto riserve e precisazioni come quelle emerse negli interventi già citati di Stefano Rodotà e in quello di Piero Bevilacqua (13 aprile). Un dibattito è serio se serve a determinare le conclusioni. Se le conclusioni sono già date, il dibattito non è serio.
Io spero che a Firenze i promotori ci ripensino: che non nasca un «nuovo soggetto politico» su basi così fragili. Ci sono cento, mille, diecimila cose da fare per un’organizzazione che pratichi seriamente il verbo autentico della Rete: ossia, molti soggetti collocati liberamente all’interno di un terminale che fa da punto di riferimento logistico (niente di più) dell’insieme (se mai avrebbe senso lavorare, con i medesimi criteri, per una Rete di Reti: ma di questo eventualmente parleremo un’altra volta).
Ma l’obiettivo fondamentale e strategico è riconquistare il «pubblico», sottrarlo alla cattiva politica, in tutte le sue modalità, stratigrafie e manifestazioni, e al tempo stesso allargarlo, e di molto, oltre le dimensioni originarie (ad esempio, io provo un grande interesse per la riflessione di Guido Viale sulla «riconversione ecologica dell’economia»: ma anche in questo caso mi chiedo come affrontare una gigantesca problematica del genere limitandosi a praticarla dal basso, e su segmenti limitati di territorio).
Su questo percorso incontreremo molti ostacoli e molti diversi interlocutori: e, se sarà necessario, dovremo usare anche molta astuta e consapevolissima cattiveria.
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA "MAMMONICA":
IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO", MOLTO CARO (= "CARITAS")!
ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA: LA CARESTIA AVANZA!!! Benedetto XVI "cambia la formula dell’Eucarestia"! «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!!
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Rousseau, il piacere dell’eguaglianza
A trecento anni dalla nascita del ginevrino dalla vita spericolata e virtuosa Un pensatore decisivo per le origini della sinistra che vide le alienazioni della società di massa, anticipò il romanticismo e inventò la sovranità popolare
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 01.05.2012)
Jean-Jacques Rousseau compirà trecento anni il 28 giugno. E festeggiamenti e maledizioni sono già cominciate. Come nella vita del ginevrino, sempre in bilico tra devozioni e ripulse. Usciamo da giochini mediatici e luoghi comuni. Per esempio: Hollande a sinistra è con Rousseau, Sarkozy a destra è con Hobbes. Parola della rivista Philosophie. Oppure: Rousseau virtuista, moralista, pericoloso, «giustizialista». Secondo la vulgata di Corrado Ocone su La Lettura del 15 aprile.
Cominciamo da qualcos’altro: da Jean-Jacques e dal suo «problema», come direbbe Ernst Cassirer. Problema di una certa «soggettività», che diventa il teatro interiore di un dramma storico più vasto: la modernità di massa. Che può stritolare o emancipare individui e popoli.
Presto detta la cifra biografica del ginevrino. Orfano di una madre bibliofila morta nel concepirlo e allievo di un padre calvinista e orologiaio. Che lo abbandona dopo una rissa. Girovago e mantenuto, da nobili e gran dame, sue amanti. Prima fra tutte Madame de Warenne, la sua «maman». Incisore, segretario, operista, lacché, copista di partiture.
C’è stato chi come Robert Darnton ha ipotizzato che Il nipote di Rameau, dissipato parente del musicista allora in voga, e ispiratore del dialogo di Diderot, fosse Rousseau stesso. I conti tornano. Diderot fu sponsor di Jean-Jacques, e lo conobbe da parassita e da profeta. La musica, copiata o composta c’è. Rousseau scrisse tre opere, tra cui le Le Muse galanti, rappresentata in casa di Madame di Epinay, altra sua amante. Ma più che altro torna una «dialettica». Quella scoperta da Hegel, recensore del libro di Diderot nella Fenomenologia dello spirito: coscienza libertina e coscienza virtuosa. Nichilismo e morale. Dissoluzione e volontà.
Ma a un certo punto Jean Jacques «si decide». E, folgorato nel 1750 da un concorso dell’Accademia di Digione, scende in guerra contro il Progresso, i Lumi, l’Enciclopedia. E attacca l’ineguaglianza e il dispotismo, l’educazione falsa. Il dissipato, sempre amato da influenti protettori, è diventato un Licurgo dell’Etica.
Ma qual è il cuore del problema in questa Etica immaginaria che risana le piaghe del mondo assieme a quelle di Jean-Jacques? Eccolo: autenticità del soggetto umano, e ricostruzione (romantica) della natura umana divisa da orgoglio, ineguaglianza e proprietà. Qui la chiave. Per Rousseau la politica, al tempo moderno, è l’unica psico-terapia in grado di arginare l’infelicità. Terapia psicologica, non a caso. Non solo perché in Rousseau c’è una psico-pedagogia per raddrizzare le storture dell’anima e creare buoni cittadini. Non solo perché tra Confessioni e Réveries praticherà l’autoanalisi tesa all’«autenticità» e alla «trasparenza» del soggetto. Ma perché nell’era del dispotismo, segnato da nuove ineguaglianze proprietarie, la politica è l’unica salvazione. Per ripristinare l’unità infranta dall’«amor proprio» e dal prometeismo alienato, che ha lacerato il sentimentalismo dell’«amor di sé», entro il quale il genere umano viveva nell’equilibrio della compassione per l’altro.
C’è qui una chiara lezione calvinista. Quella del peccato originale che si svela nella perversione dell’ego ritorta nell’onnipotenza autosufficiente. Fino ad asservire l’altro in una smisurata libido manipolatoria. Dopo il crollo dell’unità senza colpa del genere umano e della sintonia tra simili con la natura benefica. E l’inizio della tecnica e delle arti, esercizi di arricchimento e vanità.
Ricomporre quella unità, infranta da catastrofi, disubbidienze e usurpazioni, è impossibile per Rousseau (come scrive nel Discorso sull’ineguaglianza). E però residua un dovere: ricomporre la frattura almeno artificialmente. Almeno nella volontà etica pungolata dalla «mancanza originaria». Come? Con un contratto. Un artificio sociale in forma di protesi razionale.
Insomma, una specie di regno dei fini in terra, assiso su un vulcano fatto di potenziale e latente regressione verso l’egotismo connaturato alla natura umana. È una giustificazione per fede quella di Rousseau, dove l’atto di fede sta nel tramutare la perfettibilità umana (pericolosa e arrogante) in virtù mediana dell’accordo politico giusto. Che ripristini la trasparenza, l’immediatezza della compassione e la gioia del rispecchiarsi nell’inerme: per elevarlo e farne un cittadino libero. Fare Contratto sociale è lavare il peccato originale. E consacrare, con una teologia politica, l’ecclesia dei cittadini all’unico modo di venerare Dio. Con una comunità civile. Dove l’eucarestia risanatrice è lì presente e reale, nella Volontà generale e nell’Io comune.
Dunque, ecco un patto dove «ciascuno unendosi a tutti non obbedisce che a se stesso e resti tanto libero come prima». C’è la persona giusnaturalista in quel patto, e gli averi. E nondimeno solo il patto li riconosce, arrogandosi il diritto politico di revocarli. Non più diritti imprescrittibili e sanciti a valle dal patto, come in Locke. E neanche la soggezione perenne al sovrano, una volta conferitogli l’assenso nel contratto. L’idea è un’altra. È il moto quieto e continuo della Volontà indivisa che si esercita in comune e non si smembra. Si autorappresenta e non si cede, se non come delega tecnica, revocabile a maggioranza. Niente corpi intermedi. Niente fazioni, «partiti» o associazioni. Niente arricchimenti di troppo, poiché libera per Jean-Jacques è quella società dove nessuno è tanto ricco da poter compare la libertà di un altro, o tanto povero da doverla venderla. Per inciso: splendido slogan per la sinistra, anche oggi!
Come è splendida l’analisi, che nel Contratto Rousseau svolge su opulenti e pezzenti. I primi sono i fautori della tirannide, i secondi coloro dai quali provengono i tiranni. Perchè gli uni comprano, e gli altri vendono... Sicché Rousseau analista della diseguaglianza, che l’incipiente capitalismo cova all’ombra dell’Antico Regime. E Rousseau riformatore d’anime in forma politica. Altra intuizione: la società moderna seduce e «aliena», con scintillio di lusso e di denaro. Ed è esposta a demagoghi e involuzioni autoritarie, se il cittadino si estranea dal civismo.
Ma c’è dell’altro. Jean-Jacques fu un profeta egualitario, che per paradosso ha alimentato i suoi nemici: uomini e movimenti dispotici. Bandire infatti fazioni e corpi intermedi, genera sempre un vortice fatale. Tra «stato, movimento e popolo» polarizzato sul tiranno carismatico che si fa scudo dell’emergenza. Ed è così che nella storia la dittatura, «provvisoria e commissaria», diviene «sovrana» (Carl Schmitt). Nei totalitarismi di destra e sinistra. Sull’onda dell’«azione diretta» contro rappresentanza e partiti. Dai giacobini, ai reazionari comunitari, al soviettismo. Passando per populismi e fascismi. Risolutiva a riguardo l’analisi sul Terrore giacobino del solito Hegel: la Volontà generale per palesarsi senza corpi intermedi, ha bisogno di complotti da stroncare e pericoli da sventare. Di mobilitazione e guerra civile, fino all’autodistruzione.
Ecco allora ciò che deve essere chiaro: gli eredi perversi Rousseau sono all’oggi i fanatici del «partito personale». Tra presidenzialismo, antipolitica e dintorni. Eredi inconsapevoli o cinici. Che rimuovono un dato: quella di Rousseau era pur sempre una democrazia civica ed egualitaria, all’alba della democrazia, con tutta la carica selvaggia del grido lancinante contro l’ingiustizia. In conclusione perciò, tanti auguri Jean-Jacques! Non hai colpa per come ti hanno usato: contro te stesso. Perciò, onde evitare malintesi, di destra o di sinistra, promettiamo di difenderti. Ma anche di maneggiarti con cura.
Con «Alba» professori, No Tav e sindacalisti
di Andrea Garibaldi (Corriere della Sera, 30.04.2012)
ROMA - C’era più gente del previsto (1.500 persone), al PalaMandela di Firenze, e si è dovuta prendere una sala più grande. Ma «pochi erano i giovani», secondo lo stesso promotore dell’iniziativa, lo storico inglese-toscano Paul Ginsborg. Così, sabato, è nata «Alba», Alleanza lavoro beni comuni ambiente, nel nome del «referendum tradito» sull’acqua pubblica, della democrazia non circoscritta al Parlamento, contro il neo liberismo europeo incarnato da Monti, contro la riforma del lavoro.
Alba osteggia gli odierni partiti ed è contro l’antipolitica. Un nuovo partito, insomma? Su questo già si discute. Ginsborg frena, vuol prima sviluppare i circoli territoriali, non è interessato a «una cosa da 2 per cento». Ma Marco Revelli, un passato in Lotta continua, storico del fordismo e della «cultura di destra», prevede anche la preparazione per le elezioni del 2013.
Un applaudito intervento in questa direzione ha fatto Alberto Lucarelli, docente di Istituzioni di diritto pubblico a Napoli. Solo che Lucarelli, a Napoli, è anche assessore ai Beni comuni: non starà preparando il terreno al suo sindaco, de Magistris? Lucarelli ha lanciato una raccolta di firme contro l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione: entusiasmo in sala. Una sala con molti ex dei Girotondi. Non c’è però Nanni Moretti (e nemmeno viene evocato) e non c’è Pancho Pardi, senatore con Di Pietro. Poi, molti professori, come Ugo Mattei, che insegna diritto a San Francisco e a Torino, si è battuto per l’acqua pubblica e lavora con gli occupanti del teatro Valle a Roma. Per Mattei, il governo Monti è fascistoide: «Una reazione al successo popolare dei referendum».
Fra i firmatari del manifesto di Alba, il sociologo Luciano Gallino, sostenitore di un’Agenzia pubblica per l’occupazione, lo storico dell’ambiente Piero Bevilacqua, il magistrato Livio Pepino, il giurista Luigi Ferrajoli, Paolo Cacciari, ex deputato di Rifondazione, Guido Viale, uno dei leader di Lotta continua, oggi studioso di riconversione e diverso sviluppo alternativo. E Stefano Rodotà, che si è espresso «per una organizzazione a rete», per carità non un partito «di reduci di tutte le battaglie perse a sinistra». E ancora, Giuliana Beltrame, consigliere comunale a Padova eletta con Rifondazione, Massimo Torelli, Sinistra plurale fiorentina, Andrea Bagni, che si occupa di Scuola pubblica, Nicoletta Pirotta, Iniziativa femminista europea.
Ci sono i No Tav, come Claudio Giorno, Dario Fracchia e Sandro Plano. E la Fiom, con Gianni Rinaldini, segretario generale prima di Landini. L’intervento più calorosamente accolto, al PalaMandela, è stato quello di Giorgio Airaudo, leader Fiom a Torino e in Piemonte. Ad annusare l’aria, anche Nicola Fratoianni, assessore e consigliere di Vendola e Paolo Ferrero, segretario di ciò che resta di Rifondazione. E anche Vincenzo Vita, area sinistra del Pd: «Il mio partito - dice - dovrebbe guardare con attenzione a quest’area, magari anche accogliendo alcuni candidati».
Firenze, nasce «Alba»
Primo dubbio: presentarsi alle urne?
Paul Ginsborg, Guido Viale, Luciano Gallino, Stefano Rodotà e altri hanno dato vita ieri a Firenze all’«Alleanza lavoro benicomuni ambiente», Alba, un nuovo soggetto politico «non partito» della sinistra.
di Osvaldo Sabato (l’Unità, 29.04.2012)
La «cosa» di sinistra ha un nome e gli autori del manifesto «per un nuovo soggetto politico» auspicano che possa rappresentare una nuova alba per la politica italiana. Si chiamerà proprio Alba, acronimo di Alleanza lavoro benicomuni ambiente, il nuovo partito non partito nato dal manifesto firmato fra gli altri da professori e intellettuali come Paul Ginsborg, Paolo Cacciari, Luciano Gallino e Stefano Rodotà. Obiettivo: evitare il default della democrazia rappresentativa, quella che partendo dal basso dovrebbe condizionare le scelte dei partiti. Una situazione di scollamento, che per l’assessore napoletano della giunta De Magistris, Alberto Lucarelli, deve cambiare e di corsa.
Il nome Alba, battezzato con un grande applauso, è stato deciso attraverso una votazione durante la prima assemblea nazionale del movimento che ha visto la partecipazione di quasi 1400 persone, più della metà non avevano aderito al manifesto. Oltre ad Alba erano stati messi in votazione altri tre possibili nomi: Lavoro e beni comuni, Italia bene comune, Alternativa democratica. Quest’ultimi tre bocciati. Con una nastro arancione al braccio chi parla ha sette minuti per dire la sua.
Molti insistono sulla rottura con il modello novecentesco del partito, l’urgenza di nuove regole, una maggiore trasparenza, meno burocrazia, meno carrierismo. «Vogliamo essere un soggetto costituzionale che si candida ad essere protagonista nell’arena politica» spiega il politologo Marco Revelli. Parlano il giurista torinese Ugo Mattei, Paolo Cacciari, Gianni Rinaldini del direttivo della Cgil. Dice la sua anche il vendoliano Fratoianni. Fra il pubblico l’ex portavoce del Social forum genovese Marco Agnoletto.
Si fa vedere anche Sergio Staino «sono venuto per capire quale sia il progetto ma francamente non potrei dire di esserci riuscito». Ma Ginsborg incalza sulle nuove regole della politica? «Al massimo due legislature per i parlamentari. E poi: trasparenza non segretezza sui finanziamenti. Basta clientele. Ancora: semplicità non burocrazia, potere distribuito non accentrato, rotazione degli incarichi direttivi» sottolinea lo storico «il modello dei partiti che oggi abbiamo davanti è arrivato al capolinea» e «una delle priorità è quella di ricostruire l’unità della sinistra, ma dal basso». Insomma largo alle nuove forme di far politica giocando anche la carta del web, come dimostrano le 4200 adesioni al manifesto raccolte on line.
Ad ascoltare c’è anche il senatore Pd Vincenzo Vita «ho sentito molti interventi che potrebbero tranquillamente svolgersi in un’assemblea del Pd, e lo dico senza nessuna polemica». Sui futuri rapporti con il nuovo soggetto politico, Vita sottolinea che «se prevale l’elemento del movimento, e non dell’ennesimo nuovo partito, allora è più facile». Il senatore del Pd ha tuttavia spiegato di aver «trovato eccessivi alcuni attacchi» al suo partito, espressi durante alcuni degli interventi durante l’assemblea. «Nell’arco di due legislature questo movimento può diventare la maggioranza del paese» azzarda Ugo Mattei, professore di diritto civile all’università di Torino.
«Il Pd ci guarda poco: non ci temono, ma non ci sottovalutano, anche perché qui ci sono idee» osserva Ginsborg, rispondendo ai giornalisti, in merito alla possibilità che Alba partecipi con una propria lista alle elezioni politiche del 2013, lo storico inglese ma da anni trapiantato a Firenze per il momento preferisce «parlare di percorso». «Ci sono tra noi quelli più impazienti, che vogliono lanciare qualcosa per il 2013; e poi ci sono altri, come me, che vogliono prima rinsaldare la cultura e le basi dei circoli territoriali. Poi vediamo». «Non vedo molti giovani, ma senza di loro non si sopravvive, non c’è futuro» nota Ginsborg. Nel frattempo il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, propone una confederazione a sinistra «per non cancellare le singole differenze».
“Noi, la nuova alba della sinistra”
Ecco l’ultima sigla di Paul Ginsborg
Più di mille in assemblea a Firenze
di Sandra Amurri (il Fatto, 29.09.2012)
È sorta l’Alba (Alternativa lavoro beni comuni e ambiente). È il nome che la rete e gli oltre mille partecipanti al convegno di Firenze, ieri, hanno scelto per un movimento che non vuole essere un ennesimo partito per non evocare una parola divenuta sinonimo di esercizio del potere fine a se stesso. Ma di fatto, come spiega Ugo Mattei, docente di Diritto civile a Torino e uno dei promotori del referendum sull’acqua dello scorso anno, vuole diventare “un’organizzazione stabile con una posizione forte contro il neoliberismo, che dialoga con tutti”. Ma non con quei partiti, “come il Pd, per intendersi, che sostengono il governo Monti, in quanto pensiamo che questo governo tecnico sia una catastrofe, puro collaborazionismo con i poteri forti a discapito del Paese. Mentre si parla con la base del Pd, con Sel, con la Federazione della sinistra, con l’Idv, con i grillini ma non con Grillo e con il movimento No Tav, ovviamente, con la Fiom, con il movimento antimafia”.
RADICALITÀ nel combattere tutto ciò che è segreto come la mafia, appunto, contro la corruzione divenuta strutturale al sistema e nel difendere la trasparenza: “Tutti i passaggi della nostra elaborazione e della vita collettiva dovranno essere visibili, accessibili”, spiega Marco Revelli, uno dei promotori insieme a Stefano Rodotà, Paul Ginsborg, Luciano Gallino, Alberto Lucarelli e Ugo Mattei del manifesto per una democrazia partecipativa per i beni comuni. E la “centralità del lavoro, a cominciare dalla difesa dello Statuto dei lavoratori nella sua integralità. Si tratta di un cambio di paradigma nel modo di pensare le cose e di fare la politica. Nei programmi, nel metodo che diventa contenuto ma anche nel linguaggio che sappia parlare non ai già convinti, ai ‘nostri’ ma alla platea ampia e larghissima delle vittime dell’attuale modello economico e sociale, fallito e fallimentare, ma totalitario”, conclude Revelli.
Alba ha una parola d’ordine: “Liberazione”. Liberare il Paese dal neoliberismo, da partiti che hanno tradito il loro compito primario sancito dalla Costituzione. “I Padri costituenti hanno sancito che i partiti dovessero ubbidire al volere del popolo sovrano, ma nell’eventualità che questo potesse non accadere avevano previsto che la parola sarebbe tornata ai cittadini con il referendum. Invece questi signori non solo non rispondono più al ruolo affidato loro dalla Costituzione ma contraddicono anche i risultati del referendum, oltrepassando i confini della democrazia”, spiega Mattei che si serve della metafora della catasta di legna che non brucia perché umida e che bisogna far tornare ad ardere. “Dobbiamo dare fuoco alla legna per scaldare gli animi, agitare le coscienze, strappare dall’isolamento chi subisce sulla propria pelle la negazione dei più elementari diritti, dobbiamo dar vita alla ribellione in tutte le sue forme: referendum, sciopero della fame, occupazione... ”.
L’assemblea di Firenze ha eletto un comitato con il compito di preparare nei territori l’organizzazione di una due giorni programmatica che si terrà a fine giugno. Verrà affrontato anche il tema delle candidature? “Non è un tema all’ordine del giorno - spiega Mattei - bisognerà prima capire chi aderirà e come”. Tradotto vuol dire che i partiti esistenti come Sel, Idv e Federazione della sinistra dovranno decidere se abbandonare le loro sigle ed entrare nel nuovo partito, che si chiama Alba. “Noi ci siamo a dialogare, ad ascoltare senza rinunciare alle differenze, ma facendo sì che le differenze diventino un arricchimento”, dice Paolo Ferrero nel suo intervento che conclude ribadendo la sua appartenenza comunista.
DISPONIBILITÀ assicurata anche da Sel. Un futuro molto prossimo da costruire con “mitezza e fermezza”, dice lo storico Paul Ginsborg. La situazione del Paese è drammatica, è una situazione d’emergenza e “Alba vuole costruire un’alternativa resistente e programmatica su alcuni punti essenziali come la difesa dei diritti dei lavoratori”. La platea si infuoca quando Giorgio Airaudo della Fiom racconta che i lavoratori vivono una condizione di libertà vigilata e la politica non rappresenta più il mondo del lavoro. Ma c’è anche chi se ne va senza “particolare entusiasmo”, come Sergio Staino che commenta: “Sono venuto per capire quale sia il progetto, ma francamente non potrei dire di esserci riuscito”. Chissà se Alba riuscirà davvero ad illuminare un nuovo cammino della sinistra italiana verso il bene comune. Di certo l’obbiettivo è ambizioso e necessario, ma altrettanto complesso.
Tornano i professori, Ginsborg battezza ’Alba’ "Nuovo soggetto politico"
Assemblea al Mandela Forum
Gran parte dei partecipanti, come il ’padrone di casa’ Ginsborg, sono stati animatori dei girotondi del 2002
Firenze, 28 aprile 2012 - Circa 1200 persone hanno partecipato all’assemblea convocata al MandelaForum di Firenze da professori e intellettuali come Paul Ginsborg, Ugo Mattei, Paolo Cacciari, Luciano Gallino e Stefano Rodota’ firmatari del manifesto per un ’soggetto politico nuovo’. Gran parte dei partecipanti, come il ’padrone di casa’ Ginsborg, sono stati animatori dei girotondi del 2002.
Si chiamerà Alba, acronimo di Alleanza lavoro benicomuni ambiente, il ’soggetto politico nuovo’. La decisione e’ arrivata attraverso una votazione che si e’ svolta durante la prima assemblea nazionale del movimento. Oltre ad Alba erano stati messi in votazione atri tre possibili nomi: Lavoro e beni comuni, Italia bene comune, Alternativa democratica.
Nei giorni scorsi i promotori hanno annunciato che il nuovo soggetto si collochera’ ’’nell’area di sinistra’’ ma in antitesi ’’all’attuale sistema dei partiti ormai senza la fiducia dei cittadini’’ e con una posizione critica nei confronti delle politiche del Governo Monti. In platea, oggi, quasi nessun politico e, come ha detto lo stesso Ginsborg, ’’pochi giovani’’. Fra i politici Vincenzo Vita (Pd), il segretario del Prc Paolo Ferrero, oltre all’ex deputato europeo del Prc e portavoce del Genoa Social Forum del 2001 Vittorio Agnoletto.
IL COMMENTO DI GINSBORG - ’’Il modello dei partiti che oggi abbiamo davanti e’ arrivato al capolinea’’ e ’’una delle priorita’ e’ quella di ricostruire l’unita’ della sinistra, ma dal basso’’. Ha detto il professore Paul Ginsborg, durante l’assemblea al MandelaForum di Firenze. ’’Ne’ partito, ne’ movimento - ha aggiunto Ginsborg -: siamo un nuovo soggetto politico’’. Per il professore c’e’ bisogno di ’’una organizzazione politica nuova. Non ci ispiriamo a qualcuno o qualcosa, stiamo cercando di inventare qualcosa: proprio per questo abbiamo prodotto un manifesto’’ sottoscritto online, fino ad oggi, da circa 4500 persone. ’’Qui - ha proseguito - non si tratta di aggiustare pezzi di potere o di partiti, ma di far nascere nuove idee’’. Rispondendo ai giornalisti, in merito alla possibilita’ che il nuovo soggetto sia pronto per le elezioni politiche del 2013, Ginsborg ha sottolineato che adesso preferisce ’’parlare di percorso. Ci sono tra noi quelli piu’ impazienti, che vogliono lanciare qualcosa per il 2013; e poi ci sono altri, come me, che vogliono prima rinsaldare la cultura e le basi dei circoli territoriali. Poi vediamo’’. ’’Siamo oggi oltre 1200 - ha aggiunto Ginsborg -: non vedo molti giovani, ma senza di loro non si sopravvive, non c’e’ futuro’’.