L’EU-CHARISTIA. "La parola «Eucaristia» deriva dal verbo greco «eu-charistèō/rendo grazie» che a sua volta proviene dall’avverbio augurale «eu-...-bene» e «chàirō-rallegrarsi/essere contento»" (Paolo Farinella, prete).
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
«Il calice fu versato per molti»
Cambia la formula dell’Eucarestia
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 25 aprile 2012)
La lettera di cinque pagine è rivolta alla conferenza episcopale tedesca ma riguarda ogni vescovo, a cominciare dagli italiani che ne discuteranno nell’assemblea di maggio. Benedetto XVI spiega le ragioni per cui si dovrà cambiare la formula dell’Eucarestia nella messa.
Nell’ultima cena Gesù spezza il pane («questo è il mio corpo») e poi prende il calice del vino, e qui durante la messa il sacerdote ripete parole che i fedeli sanno a memoria: «Questo è il mio sangue... versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». Solo che nei Vangeli non si legge «per tutti». E il pontefice vuole che si torni alle parole di Gesù: «Versato per molti».
Lo stesso Papa ricorda i riferimenti testuali. Nel vangelo più antico, Marco (14,24) si legge upèr pollôn, in quello di Matteo (26,28) c’è scritto un analogo perì pollôn, insomma il «per molti» è la traduzione letterale dal testo originale greco. Assente in Giovanni, in Luca (22,19) c’è «per voi» (upèr umôn). L’indicazione era già contenuta in un documento della Santa Sede firmato nel 2006 dal cardinale Francis Arinze. Ma ha incontrato resistenze, dalla Germania agli Usa all’Italia.
L’espressione «per tutti» venne introdotta dopo il Concilio con la riforma di Paolo VI, nel ’69, il messale latino aveva «pro multis». Il timore di tanti vescovi è che si interpretasse la modifica come l’esclusione di alcuni dalla salvezza, una reazione preconciliare. Così il Papa ha scritto ai vescovi tedeschi, chiarendo che le cose non stanno affatto così: l’«universalità» della salvezza non si discute, anche San Paolo scrive che Gesù «è morto per tutti». Il senso non cambia: negli anni Sessanta, ricorda, gli esegeti giustificavano il passaggio a «per tutti» citando Isaia 53 («il giusto mio servo giustificherà molti») e dicendo che «molti» è «un’espressione ebraica per dire la totalità». Solo che Gesù usa «molti». Bisogna guardarsi da traduzioni «interpretative» che hanno portato a «banalizzazioni» e «autentiche perdite», scrive: «Mi accorgo che tra le diverse traduzioni a volte è difficile trovare ciò che le accomuna e che il testo originale è spesso riconoscibile solo da lontano».
Questione di «fedeltà» alla «parola di Gesù» e alla Scrittura. Il Papa invita tuttavia a preparare preti e fedeli: «Fare prima la catechesi è la condizione fondamentale per l’entrata in vigore della nuova traduzione». La sua stessa lettera, come una catechesi, dà voce ai dubbi («Cristo non è morto per tutti?», «Si tratta di una reazione che vuole distruggere l’eredità del Concilio?») per fugarli.
In Italia si continua a dire «per tutti» ma presto la Cei concluderà la discussione sul nuovo messale. I timori non mancano, ma un grande teologo come il vescovo Bruno Forte spiega: «Il problema non è teologico, ma pastorale. Il Papa mette in luce che la redenzione oggettiva, per tutti, passa attraverso l’adesione libera di ciascuno. Dire "per molti" non esclude ma anzi esalta la dignità e l’assenso umano. Tuttavia la gente è abituata a "per tutti": per questo, dice il Papa, il cambiamento va fatto dopo una lunga catechesi che ne faccia capire il valore».
I dubbi sull’originale ebraico
di Armando Torno (Corriere della Sera, 25 aprile 2012)
Le parole dell’Ultima Cena, allorché Gesù invitò a bere il suo sangue, ricordano che veniva versato «per molti» o «per tutti»? Il Vangelo di Giovanni non le cita, ma i sinottici - Matteo, Marco e Luca - le riferiscono con varianti.
Il testo, anche se Gesù parlava con i discepoli in aramaico, ci è giunto in greco e si è diffuso in Occidente nella versione di Gerolamo, la Vulgata latina. Se «per molti» fa discutere e taluni preferiscono «per tutti» (lo suggerì la riforma di Paolo VI del 1969), va detto che il Vangelo di Matteo (26,28) riporta perì pollòn (diventò pro multis); Marco (14,24), invece, sceglie uper pollòn che Gerolamo rende di nuovo con pro multis.
Le due espressioni greche possono avere in italiano - lo suggerì Luciano Canfora anni fa, durante i dibattiti sul caso - significati quali «per molte ragioni» (Matteo) o «in difesa di molti» (Marco). Luca (22,17) si esprime con uper umòn, che nella Vulgata diventa pro vobis e non contrasta con l’italiano «per voi».
Le parole della tradizione liturgica, comunque, riprendono il greco perì pollòn e il latino pro multis, che sono un calco del semitico la-rabbîm: il quale significa «per le moltitudini» o anche «per tutti». Tradurre con «molti» ci sembra improprio rispetto all’originale ebraico.
(...) Hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti: mysterium fidei: qui pro vobis et pro
multis effundetur in remissionem peccatorum. Haec quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis.
(Questo infatti è il calice del mio sangue, del nuovo ed eterno testamento: Mistero della fede: che per voi e
per molti sarà sparso in remissione dei peccati. Tutte le volte che farete questo, lo farete in memoria di me)
(...) Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.
(....) Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Diede loro anche questo comando: ogni volta che farete questo lo farete in memoria di me: predicherete la mia morte, annunzierete la mia risurrezione, attenderete con fiducia il mio ritorno finché di nuovo verrò a voi dal cielo.
UNA "LEZIONE" DAL MITO DI PROMETEO, NARRATO DA PROTAGORA*
"Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano.
Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?« «A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia»"
Federico La Sala
LA FILOSOFIA E LA "RISPOSTA" SU "CHE COSA E’ L’ ILLUMINISMO?", OGGI: IL "CORAGGIO DI ASSAGGIARE" ("Sàpere aude!")" DI KANT E L’ANALISI SU "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" ("Der Mensch ist, was er ißt") DI FRIEDRICH GEDIKE, nella «Berlinische Monatsschrift» del 1784.
UN "INVITO A RIFLETTERE" SU UNA QUESTIONE DI SOSTANZA, PROPAGANDA (FEDE), FILOLOGIA, E "FACOLTA’ DI GIUDIZIO" (#KANT2024) E, INSIEME, AD ACCOGLIERE "L’AFFASCINANTE «SFIDA» AL PANETTONE LOMBARDO" (si cfr. Emiliano Antonino Morrone, "Federica Greco, l’orgoglio calabro e l’affascinante «sfida» al panettone lombardo", Corriere della Calabria, 19 gennaio 2024):
Per meglio accogliere la sollecitazione del giornalista Emiliano Antonino Morrone, e, possibilmente, riprendere il filo dall’amore (#charitas) di Gioacchino da Fiore (San Giovanni in Fiore) e dal coraggio di assaggiare ("#Sàpere aude") di Orazio (Venosa), mi sia lecito, ricordare alcuni contributi storiografici sul tema del cibo e della antropologia filosofica:
a) Ludwig Feuerbach, "L’uomo è coà che mangia", a c. di Franco Tomasoni, Morcelliana, Brescia 2015.
b) Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a c. di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017.
c) Gianfranco Ravasi, "L’uomo è ciò che mangia", Famiglia Cristiana,18 maggio 2023.
"Sàpere aude!" (Kant, 1784). L’Illuminismo e il buon uso della propria intelligenza, della propria facoltà di giudizio, per uscire dallo "stato di minorità":
A)
ANDREA TAGLIAPIETRA, "La metafora gustosa. Feuerbach e la gastroteologia": "[...] Il detto italiano «parla come mangi», al di là dell’invettiva del luogo comune, rivela un fondo di verità difficilmente smentibile. La cultura umana si specchia, infatti, vuoi nelle parole del linguaggio che dalla bocca escono, vuoi in quegli alimenti e in quelle pietanze che nella bocca, invece, entrano.
Si inizia a intravedere, quindi, tutto lo spessore e la ricchezza che la frase di Feuerbach racchiude e che sta alla base del suo successo e della capacità di condensare molti motivi del pensiero del filosofo tedesco ben oltre l’immagine scolastica e polverosa dei manuali, che ne hanno fatto una sorta di mero raccordo della storia della filosofia fra Hegel e Marx. Del resto l’efficacia della massima appartiene già alla dimensione del significante e all’ambivalenza fonetica che ne fa oscillare il significato fra l’affermazione ontologica e la descrizione dell’azione di mangiare. Il gioco di parole Mensch ist, was er ißt è di fatto intraducibile nella nostra lingua, come anche nei principali idiomi europei correnti di cui abbiamo dato conto in apertura di questo saggio.
Traducendo «l’uomo è ciò che mangia», infatti, noi rendiamo il significato principale della «formula», ma non quello allusivo, veicolato non dal significato ma dal significante delle parole. Esso nasce dall’assonanza, nella lingua tedesca, fra ist (= «è», terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo sein, «essere») e ißt, ossia isst con la «s» raddoppiata (= «mangia», analoga voce del verbo essen, «mangiare»).
Per dare un’idea di ciò che qui risulta intraducibile ci viene in soccorso la lingua latina che, in virtù di un gioco linguistico affine al tedesco e, anzi, ancora più sofisticato, dal momento che l’ambiguità non è solo fonetica ma anche grafica, ci permette di volgere la formula feuerbachiana in homo est quod est, dove il primo est è la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo essere, mentre il secondo est è la terza persona singolare del verbo edere, cioè «mangiare». In questo caso, l’ambiguità grafica consente di leggere la «formula» in perfetta specularità, per cui possiamo tradurre sia con «l’uomo è ciò che mangia» sia con «l’uomo mangia ciò che è».
Questi parallelismi linguistici avevano già una loro tradizione in cui forse Feuerbach, nelle sue ricerche intorno alla religione e al tema del sacrificio, può essersi imbattuto.
Nel 1784 Friedrich Gedike, un teologo protestante di simpatie illuministe che, proprio per queste ultime, era incorso nella censura prussiana, aveva scritto il breve articolo Su «mangia» ed «è». Un contributo alla spiegazione dell’origine del sacrificio, pubblicandolo nello stesso numero della «Berlinische Monatsschrift» che conteneva il saggio sull’Illuminismo di Moses Mendelssohn a cui rispose, com’è noto, quello celeberrimo di Kant.
Nel saggio Gedike paragonava la prospettiva ontologica dell’uomo civilizzato, condensata nella massima cartesiana per cui cogito ergo sum («penso dunque sono») e per la quale il pensiero fa da fondamento all’essere, alla condizione naturale dei nostri progenitori, per i quali valeva piuttosto il detto edo ergo sum («mangio dunque sono»). La frase, volta alla terza persona singolare, suona, in latino, est, ergo est, con una coincidenza tra l’essere e il mangiare che la lingua tedesca conserva nella somiglianza fonetica fra ißt e ist. È quindi in questa prospettiva naturalistica ed elementare, concludeva Gedike, che mostra lo stretto legame, suggerito anche dal linguaggio, tra l’idea dell’essere e quella del nutrimento, che dobbiamo comprendere illuministicamente l’origine e l’importanza religiosa dei sacrifici e del pasto sacrificale.
Comincia a risaltare, allora, l’assonanza decisiva della massima, il suo senso duplice, ambivalente e intraducibile che, mentre afferma che l’«uomo è ciò che mangia», ribadisce anche che l’«uomo è ciò che è», richiamando la citazione diretta e, quindi, sottilmente dissacrante, del famoso versetto del libro biblico dell’Esodo in cui l’Altissimo, il Dio degli ebrei e dei cristiani, nomina se stesso. Un passo che ha, nell’originale ebraico, ehyeh asher ehyeh, un significato puramente negativo e antidolatrico, suonando più o meno come «io sarò quel che sarò», ossia un rifiuto da parte del Signore di rispondere all’impertinente domanda di Mosè su quale fosse il Suo nome. Eppure, già la Septuaginta, la Bibbia greca, in età alessandrina, trasporta l’enigmatico versetto scritturistico nei termini del linguaggio ontologico dei filosofi ellenici (egó eimí ho on) e la Vulgata traduce in latino ego sum qui sum, espressione che verrà interpretata dalla tradizione della Chiesa prevalentemente come un’affermazione. Anzi, come la dichiarazione stessa del fondamento metafisico dell’esistenza: «io sono colui che è». Si tratta del Qui est che, secondo la Summa Teologiae di Tommaso d’Aquino, è il nome proprio che più si addice a Dio.
L’uomo, come la sua proiezione teologica alienata e fantasmatica, afferma dunque di essere ciò che è. Soltanto che, a differenza di Dio, ossia del desiderio che sublima se stesso nella vertigine dell’immaginazione, per essere ciò che è, l’uomo ha la necessità di mangiare, di nutrire il suo corpo, di misurarsi con la realtà della natura, con il bisogno e le difficoltà di soddisfarlo." (cfr. Ludwig Feuerbach, "L’uomo è ciò che mangia", di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017, pp. 20-22. senza le note).
B) FRANCESCO TOMASONI, "Ludwig Feuerbach: l’uomo e la sua alimentazione":
"Nel 2015 si è svolto a Milano l’Expo, una manifestazione fieristica dal titolo “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” che in 184 giorni e con 145 nazioni partecipanti, fra cui ovviamente il Brasile, ha avuto 21 milioni di visitatori. Sull’onda di questo evento è tornato di attualità il celebre motto di Feuerbach: «L’uomo è (ist) ciò che mangia (isst)». Nella lingua tedesca l’assonanza fra le terze persone del verbo essere e del verbo mangiare è evidente e suggerisce una stretta relazione fra essere e mangiare. Non a caso i critici dell’epoca vi videro un’espressione di rozzo materialismo, che poteva essere avvicinata alla frase di Karl Vogt: «I pensieri stanno press’a poco nel medesimo rapporto col cervello, come la bile al fegato o l’urina alle reni». Vogt era ben consapevole di usare un’espressione «in un certo senso rozza», ma intendeva dire che «tutte le attività psichiche» erano «solo funzioni della sostanza cerebrale».
Eppure l’assonanza fra essere e mangiare era già stata messa in rilievo più di sessant’anni prima da un teologo protestante di tendenze razionalistiche, Friedrich Gedike, in un articolo della prestigiosa rivista “Berlinische Monatsschrift”, in cui comparvero anche gli interventi di Kant, Mendelssohn e altri sul significato dell’illuminismo.
Già nel titolo [Friedrich Gedike, Über ißt und ist. Ein Beitrag zur Erklärung der Opfer, „Berlinische Monatsschrift“, Hrsg. F. Gedike u. J.E. Biester, Vierter Bd., Julius bis December 1784, pp. 175-180.] egli evidenziava l’assonanza e mostrava che, ancor più che nel tedesco, in latino e in greco i due verbi coincidevano per alcune forme della flessione. Non si trattava dunque di un caso, bensì dell’effetto di un processo naturale. Per i popoli primitivi i concetti astratti erano troppo ardui, perciò al loro posto subentravano riferimenti materiali. Così «per l’uomo rozzo e ancora del tutto sensuale il concetto di essere, nei tempi della prima origine delle lingue, era troppo sottile e remoto [...] al contrario il concetto del mangiare era certamente uno dei primi sviluppatisi in lui».
Poteva dunque argomentare nel modo seguente: mangia, dunque è (in latino: est, ergo est). La terza persona, nella quale la coincidenza era perfetta, rifletteva la mentalità primitiva secondo cui il soggetto osservava le cose fuori di sé, ma non era ancora giunto all’autocoscienza. L’identità fra essere e mangiare aveva anche indotto i primitivi a concludere che se gli dei esistevano, dovevano mangiare.
Da qui i banchetti sacrificali, in cui si invitavano le divinità a condividere la mensa con gli uomini. Quanto più però questi si convincevano della superiorità degli dei, tanto più offrivano loro cibi preziosi, addirittura carne umana. Secondo Gedike i sacrifici umani erano venuti non alle origini, bensì in un periodo «intermedio di civiltà». Solo il raggiungimento pieno dell’illuminazione (Aufklärung) e della civiltà aveva fatto percepire l’abominio di quelle pratiche. In antitesi all’identità fra essere e mangiare, Gedike ricordava l’affermazione di Cartesio: «cogito ergo sum». L’autocoscienza dell’uomo civile si fondava sull’identità fra essere e pensiero. Per il teologo dunque al materialismo del primitivo si contrapponeva il razionalismo o lo spiritualismo dell’uomo moderno.
Benché non esistano prove del fatto che Feuerbach abbia letto questo articolo, esso è utile per comprendere il suo distacco da Hegel e i suoi due interventi sull’alimentazione e sui sacrifici. Anch’egli nel suo periodo giovanile aveva sottoscritto la concezione cartesiana, secondo cui l’essenza umana era data dal pensiero o dall’autocoscienza. Poi però nei Principi della filosofia dell’avvenire aveva negato che il carattere distintivo dell’uomo risiedesse semplicemente in quelli. La sua essenza era una totalità che si rifletteva nel complesso della sua sensibilità. Non si trattava solo della capacità di sentire e percepire, bensì di tutta la relazione corporea con la natura. Anche lo stomaco umano era essenzialmente diverso da quello degli animali: «Dagli animali l’uomo non si distingue solo grazie al pensiero. Tutta la sua essenza costituisce piuttosto tale differenza [...] Anzi, persino lo stomaco dell’uomo, malgrado noi lo guardiamo dall’alto in basso con disprezzo non è un’essenza ferina, ma umana, perché è universale, perché non deve servirsi di un tipo determinato di alimenti. Proprio per questo l’uomo non è affetto da quel furore vorace (Freßbegierde) con cui l’animale si getta sulla preda».
L’universalità, che già nell’Essenza del cristianesimo Feuerbach aveva attribuito al genere umano, faceva sì che questo non si limitasse a un tipo di alimenti e quindi dimostrasse, anche nel mangiare, la sua libertà. In proposito egli si appoggiava alla distinzione, presente nella lingua tedesca, fra “essen”, mangiare proprio degli umani, e “fressen”, divorare tipico degli animali, aggiungendo come nel secondo caso lo stomaco assumesse il predominio su tutto, mentre nel primo caso esso era in armonia con la testa, ossia con la ragione e l’etica.
Un amico di famiglia, Georg Friedrich Daumer, criticò l’esaltazione che in questo passo Feuerbach aveva fatto dell’uomo rispetto agli animali [...] Daumer toccava un punto, al quale Feuerbach era stato sensibile fin dai primi scritti, quello della fame.
Nello stesso brano della Storia della filosofia moderna che prima abbiamo ricordato per l’identificazione dell’essenza umana col pensiero, Feuerbach accennava alla fame come esempio per distinguere vari gradi di essere: «Un essere con uno stomaco riempito in modo da star bene è un essere molto più reale di un essere con stomaco vuoto». Lo stomaco vuoto rappresentava sensibilmente la contraddizione fra la presenza ideale dell’oggetto e la sua assenza reale, ossia la separazione da un ente, al quale per natura si era uniti. Già nella dissertazione De ratione Feuerbach si era soffermato su questa situazione per mettere in luce la tensione dialettica del desiderio.
Nelle Lezioni tenute a Erlangen come Privatdozent era tornato sull’argomento trattando dell’impulso o della pulsione (Trieb), un concetto già elaborato da Fichte, che avrebbe avuto grande fortuna nell’Ottocento fino a Freud e al suo famoso saggio della Metapsicologia: Le pulsioni e i loro destini (Triebe und Triebschicksale). Aveva affermato: «Un altro esempio è l’appagamento dell’impulso (Triebes) stesso; quando calmo la fame, questo calmarla in quanto appagamento è affermazione della mia vita, un godimento, ma questo godimento c’è in me soltanto in quanto c’è la fame, il non godimento [...] al godimento spetta l’essere e il non essere». Nel Leibniz Feuerbach aveva spiegato ulteriormente il rapporto con l’oggetto, presente negli impulsi e, in particolare, nella fame e nella sete: «A dispetto di tutti gli empiristi fame e sete sono due filosofi a priori; esse anticipano e deducono a priori l’esistenza dei loro oggetti». Nella loro struttura ontica era dunque insito l’oggetto, prima che si presentasse nelle cose sensibili.
Questa visione caratterizza nell’Essenza del cristianesimo la relazione del soggetto con l’oggetto: «L’uomo non è nulla senza oggetto [...] Tuttavia l’oggetto al quale un soggetto si riferisca essenzialmente, necessariamente non è altro che l’essenza propria di questo soggetto, ma resa oggettiva».
La conclusione dell’opera consisteva nell’esaltazione dell’eucarestia secondo il suo significato etimologico, ossia come solenne ringraziamento per il pane e il vino grazie all’esperienza della fame: «Per comprendere il significato religioso della consumazione del pane e del vino mettiti nella situazione in cui quell’atto altrimenti quotidiano venga, contro natura, violentemente, interrotto. La fame e la sete non distruggono solo la forza fisica, bensì anche quella spirituale e morale dell’uomo, lo spogliano dell’umanità, dell’intelletto, della coscienza. Oh! Se tu mai provassi tale mancanza, tale infelicità, allora come benediresti e loderesti la qualità naturale del pane e del vino che ti ridonano la tua umanità, il tuo intelletto! Così basta solo interrompere il consueto, comune corso delle cose per restituire a quanto è comune un significato non comune, alla vita in quanto tale un significato assolutamente religioso. Santo sia per noi quindi il pane, santo il vino, ma santa anche l’acqua! Amen» [...]" (cfr. Francesco Tomasoni, Università del Piemonte Orientale, Vercelli - ripresa parziale, senza le note, pp. 109-112).
FLS
EPIFANIA (#APPARIZIONE) E #IMMAGINAZIONE ("EPINOIA"), #6 GENNAIO 2024. Per "orientarsi nel pensiero" (#Kant) e nella realtà (#Marx), e cercare di non scambiare il gioco dell’illusione (#Schein) con la realtà dell’apparenza (#Erscheinung),
Un "invito alla lettura" dello studio sulla storia del #cibo "eu- caristico" ("EU-#CHARIS-TICO) del teologo, docente di "Storia della Chiesa", Anselm #Schubert, "Pasto divino. Storia culinaria dell’eucaristia" (Carocci editore 2019):
NOTA:
Epifania2024. #Memoria e #archeologia di un evento epocale: i #Magi erano #sapienti e sapevano #distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone "giocastolaio" (#Erode). Ma, oggi, dove sono i magi?
Kafka ancora agli inizi del secolo scorso sapeva la differenza tra la #manifestazione epifanica e il #giogo dei "giocastolai" e delle "giocastolaie", e ricordava: "[...] alla nascita di Cristo nella capanna semiaperta era subito presente il mondo intero, i pastori e i savi d’Oriente" (Lettera a Helli Hermann, autunno 1921).
Anselm Schubert, “Pasto divino”
di Luca Arcari (Storica_mente.Laboratorio di storia)
Affrontare la storia dell’eucaristia dal punto di vista degli alimenti utilizzati e della loro preparazione rappresenta la novità principale del volume di Anselm Schubert, originariamente pubblicato in tedesco (Gott essen, München, C.H. Beck oHG, 2018). Il volume si pone nel ricco filone storiografico della recente storia dell’alimentazione, applicandola però alla storia dell’eucaristia, che in questo modo non emerge più, o non solo, come una storia di dottrine teologiche, ma come un complesso di pratiche di simbolizzazione di un atto culinario, con tutto ciò che questa prospettiva sembra implicare.
Nonostante una certa tensione verso l’istituzionalizzazione, che nella storia dei gruppi di seguaci di Gesù appare con una certa nitidezza alla fine del IV secolo, quando il concilio di Laodicea (363-364 e.v.) cerca di formulare la netta distinzione tra eucaristia e pasto comune, il focus chiarisce la varietà delle pratiche di ritualizzazione presenti nel frastagliato universo cristiano, a partire dai gruppi di giudei credenti in Gesù del I-II sec. e.v. (cap. 1), passando per quelli bollati come eretici da alcuni Padri della Chiesa del III-IV sec. - che in molti casi continuano a celebrare i loro riti imbandendo cibi vari (gli artotiriti menzionati da Epifanio di Salamina, nel IV sec., ad esempio consumano pane e formaggio) -, fino alle definizioni teologico-dottrinali di Agostino (cap. 2), e alle divaricazioni che distinguono sempre più l’Oriente e l’Occidente tra tardoantico e medioevo (cap. 3). Il medioevo sancisce anche quella che, di fatto, emerge come una vera e propria “clericalizzazione delle sostanze” (cap. 4), sia in Oriente (dalla “nuova Roma” alla chiesa russa) che in Occidente, con cibi e modalità di ritualizzazione del mangiare comune che appaiono sempre più come specchi identitari paralleli al consolidarsi dei vari cristianesimi come strumenti di auto-definizione “proto-nazionale”: «L’introduzione nella Chiesa franca della liturgia romana [scil. l’uso di orazioni da recitare durante l’eucaristia, che ormai è chiaramente definita come pasto rituale amministrato interamente da personale altamente specializzato e che prevede il consumo comunitario di pane e vino “purissimi”] determinò un cambiamento, in tutto l’Occidente latino, decisivo per il futuro del cristianesimo. Se all’inizio l’eucaristia era intesa ancora come un ringraziamento da parte della comunità, o come rievocazione del sacrificio espiatorio di Cristo, da quel momento divenne un atto sacro, con cui il sacerdote richiamava la divinità in terra sotto gli occhi dei fedeli» (51). Tra il 1050 e il 1525 la chiesa soprattutto latina vede inoltre una vera e propria esplosione di teologie e religiosità eucaristiche, che raggiungono il loro pieno sviluppo all’inizio del XIII secolo. Emergono soprattutto le ostie consacrate e il calice di vino, che diventeranno, per secoli, almeno in Occidente, «il vero e proprio centro religioso e culturale della cristianità. Nella trasformazione soprannaturale che la loro materia subisce, l’unità tra Dio e l’uomo si rende percepibile, sperimentabile, palpabile, commestibile» (65).
Una notevole attenzione Schubert la pone anche su quella che lui definisce come “la disputa sul corpo di Dio”, un ricco ambito interconnesso di problemi e questioni che attraversano la storia dei cristianesimi soprattutto occidentali tra il 1525 e il 1830 (cap. 6). Le varie scissioni e i multiformi gruppi soprattutto europei dibattono e si dividono anche per quanto concerne l’effettiva presenza di Cristo nella comunione e su quale fosse il significato di questa presenza più o meno “reale” per i fedeli. La luterana centralità della Bibbia come unica cartina al tornasole attraverso cui misurare l’aderenza all’originario messaggio di Gesù, mostra tutti i suoi riverberi anche per quanto concerne le pratiche di ritualizzazione della “comunione” all’interno delle varie forme di protestantesimo succedute alla esegesi e alla riflessione teologica di Lutero. Lutero, come già Hus, raccomanda di reintrodurre il vino della comunione anche per i laici, nonostante la forte propensione per l’acqua pura, mentre Calvino mostra una fondamentale apertura verso alimenti diversi oltre al pane e al vino, dato che non sono gli ingredienti terreni del pasto ritualizzato a contenere il Cristo celeste, rinviando, in quanto nutrimento corporeo, al nutrimento spirituale dell’anima che si realizza durante il pasto comunitario. Questa apertura a cibi diversi, d’altronde, si riscontra inevitabilmente anche nel cattolicesimo “mondiale” del XVI secolo che, nonostante il tentativo dichiarato di un ritorno esclusivo alla “tradizione” (con tutta le problematicità che questo termine implica e pone), mostra di avere coscienza di un dilemma rispetto alle chiese extraeuropee quando prescrive che le ostie siano fatte «perlomeno per la maggior parte di frumento» (111).
La disamina di Schubert prosegue con le dinamiche legate alle pratiche eucaristiche nell’epoca della riproducibilità industriale (1830-1970), che evidenziano alcune delle questioni connesse, da un lato, alla diffidenza soprattutto protestante nei confronti del pane industriale, che non si sapeva esattamente di cosa fosse fatto, e, dall’altro, alle critiche nei confronti del vino, a loro modo figlie delle istanze proprie dei movimenti di opposizione nei confronti dell’alcolismo (cap. 7). Per quanto concerne il mondo protestante, comunque, si sottolinea anche come a partire dagli anni Settanta del Novecento si verifichi un mutamento per quanto riguarda il dibattito sulla forma e sugli ingredienti dell’eucaristia, allora ripreso con una intensità che non si vedeva almeno dal Seicento, a fronte della maggiore uniformità propria nel mondo cattolico, nonostante alcune delle posizioni espresse nella Sacrosanctum Concilium del 1963 (cap. 8).
Il volume di Schubert, che si raccomanda per la chiarezza espositiva e la ricchezza di dettagli, evidenzia con particolare attenzione quanto le pratiche di ritualizzazione del pasto eucaristico nella storia dei cristianesimi siano, proprio in una prospettiva di lunga durata, strettamente intrecciate all’utilizzo di particolari alimenti e bevande o di specifiche modalità di preparazione dei cibi. Ne deriva un affresco per nulla omogeneo, che mostra quanto i processi di ritualizzazione - stando alla prospettiva inaugurata, tra gli altri, da C. Bell (di cui si veda almeno Ritual Theory, Ritual Practice, Oxford, Oxford University Press, 1992) - siano il frutto di dinamiche culturali mai totalmente definibili in maniera precostituita o predeterminata. In sostanza, dalla rigidità del concetto di “rito”, il volume invita a porsi nella prospettiva dei processi di ritualizzazione, con tutte le complessità diacroniche e diatopiche che tale prospettiva inevitabilmente implica.
FLS
Documento.
I vescovi Usa: il politico cattolico dà scandalo se non segue la Chiesa
Nel testo approvato ieri chi svolge ruoli di autorità ha una responsabilità speciale verso la dottrina. Ma nessun esplicito riferimento al presidente Biden
di Elena Molinari, Baltimora (Avvenire, giovedì 18 novembre 2021)
Dopo mesi di discussione e due giorni di acceso dibattito, i vescovi americani hanno approvato ieri un atteso documento sulla coerenza eucaristica. Il testo era stato proposto dopo le elezioni 2020 da alcuni presuli Usa che vedevano la necessità di prendere una posizione chiara rispetto a un «presidente cattolico che si oppone agli insegnamenti della Chiesa». Il riferimento era all’accettazione della legalità dell’aborto da parte di Joe Biden, il secondo capo della Casa Bianca cattolico nella storia.
Ma il testo che è passato con 222 sì, otto no e tre astensioni non contiene riferimenti espliciti ad alcun politico, nè esamina l’opportunità di negare la comunione a personaggi pubblici che difendono posizioni non in linea con l’insegnamento morale della Chiesa. Il documento sostiene però che i cattolici che rivestono ruoli di autorità «hanno una responsabilità speciale» nel seguire la legge della Chiesa.
E sottolinea che coloro che ricevono la comunione pur avendo ripudiato nella loro vita pubblica gli insegnamenti della Chiesa «creano scandalo e indeboliscono la determinazione degli altri cattolici di essere fedeli alle esigenze del Vangelo».
In definitiva, durante la prima assemblea plenaria in persona in due anni, la Conferenza episcopale americana ha accolto gli inviti del Vaticano ad evitare condanne che potessero «diventare una fonte di discordia», come il cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, aveva ammonito in una lettera i vescovi Usa. Prevalso anche il timore, espresso da alcuni vescovi come Robert McElroy di San Diego, che l’Eucaristia possa essere usata come «un’arma in battaglie politiche».
La terza giornata di lavori della plenaria a Baltimora, aperti alla stampa, ha però rivelato che opinioni diverse sul tema permangono all’interno della Conferenza. Il testo, infatti, affida ai singoli vescovi il «compito speciale di porre rimedio a situazioni che comportano azioni pubbliche in contrasto con la comunione visibile della Chiesa e la legge morale». E se alcuni vescovi hanno interpretato il passaggio come un invito al dialogo, altri vi hanno visto una possibile apertura a negare l’eucaristia ai politici cattolici che ammettono l’aborto.
L’arcivescovo Joseph Naumann di Kansas City, ad esempio, ha evidenziato la responsabilità dei vertici ecclesiastici di parlare con i cattolici che agiscono in modo contrario agli insegnamenti morali della Chiesa, senza «aver paura di dire quanto è grave non difendere questi insegnamenti nella sfera pubblica».
Il comitato dottrinale che ha steso le 30 pagine sul «Mistero dell’Eucaristia nella vita della Chiesa», inoltre, ha accettato all’ultimo momento la richiesta dell’arcivescovo di San Francisco, Salvatore Cordileone, di includere la responsabilità delle persone in posizione di autorità di promuovere la vita dei non nati. «Non riconoscere la categoria di esseri umani vittima della più grande distruzione della vita umana nel nostro tempo sarebbe un’evidente omissione che, per alcuni di noi, trasformerebbe questo documento in un problema piuttosto che in un aiuto», ha detto l’arcivescovo.
I presuli sono stati però unanimi nell’evidenziare che il documento va ben oltre la questione dei politici cattolici e mette soprattutto in evidenza il ruolo del sacramento nella vita della Chiesa.
Le 30 pagine pongono infatti una rinnovata enfasi sulla catechesi sul significato dell’Eucaristia, in risposta a un calo, negli Usa, della fede nella presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo nella comunione.
Come ha spiegato l’arcivescovo di Denver Samuel Aquila è importante «portare una maggiore consapevolezza tra i fedeli di come l’Eucaristia può trasformare le nostre vite». I vescovi hanno infatti lanciato ieri da Baltimora una campagna triennale di «risveglio eucaristico», che prevede lo sviluppo di nuovi materiali didattici, la formazione di leader diocesani e parrocchiali, un nuovo sito web e l’invio di un’équipe di 50 sacerdoti nei 50 Stati per predicare l’Eucaristia. La campagna culminerà con un Congresso eucaristico nazionale nel giugno 2024 a Indianapolis.
LA POLITICA DELL’EUCARESTIA ... E "LA QUARTA «P» (QUELLA DELLA «PACE») CHE MANCA ALL’AGENDA DEL G20"
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
Scheda
MEMORIA DI LORENZO VALLA:
Lunedì 24 febbraio [2020], alle ore 11.00, verrà presentato il volume Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019.
Interverranno:
Alberto Melloni, Segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII
Antonio Manfredi, Scrittore latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
Daniele Conti, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Sarà presente la curatrice del volume.
L’incontro - aperto a tutti gli interessati - si terrà nella Sala dei Seminari dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
* Fonte: INSR. Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, 24 febbraio 2020
Corpus Domini. Il Papa: l’Eucaristia è il "farmaco" e la forza per amare chi sbaglia
All’Angelus in Piazza San Pietro, Francesco ricorda la Solennità del Corpo e Sangue di Cristo e sottolinea che l’Eucaristia guarisce perché la misericordia di Gesù non ha paura delle nostre miserie
di Redazione Internet (Avvenire, lunedì 7 giugno 2021) *
L’Eucaristia è il "farmaco" efficace contro le nostre chiusure. Fragilità e forza, amore e tradimento, peccato e misericordia. Papa Francesco, nella catechesi all’Angelus in Piazza San Pietro - come riporta Vatican News -, si sofferma su questi aspetti parlando della Solennità del Corpo e Sangue di Cristo, il Corpus Domini, e del racconto dell’Ultima Cena di Gesù con l’istituzione dell’Eucaristia, “il sacramento più grande”, il Pane di vita.
Richiamando le parole di don Primo Mazzolari, Papa Francesco, già al mattino nella sua omelia per la solennità del Corpus Domini, aveva prefigurato l’immagine di una Chiesa che è “una sala grande”, dalle "porte aperte", “dove tutti possono entrare”. Non "un circolo piccolo e chiuso", ma "una Comunità con le braccia spalancate, accogliente verso tutti”.
Una comunità dove si guarda all’Eucarestia con "stupore e adorazione": se manca quello, avverte il Papa, "non c’è strada che ci porti al Signore. Neppure ci sarà il Sinodo". L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi. “La Chiesa dev’essere una sala grande”, ha affermato a più riprese Francesco nella Messa per il Corpus Domini celebrata anche quest’anno all’Altare della Cattedra di San Pietro e non - a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia - nel tradizionale scenario del sagrato di San Giovanni in Laterano, con la processione fino a Santa Maria Maggiore, oppure in luoghi di periferia come avvenuto nel 2018, con la celebrazione a Ostia, e nel 2019, nel quartiere romano di Casal Bertone. Contingentato anche il numero dei fedeli presenti in Basilica. A loro, e alle centinaia di persone collegate alla celebrazione via streaming, il Pontefice pone una domanda: “Quando si avvicina qualcuno che è ferito, che ha sbagliato, che ha un percorso di vita diverso, la Chiesa è una sala grande per accoglierlo e condurlo alla gioia dell’incontro con Cristo?”. “L’Eucaristia vuole nutrire chi è stanco e affamato lungo il cammino, non dimentichiamolo!”, afferma Francesco. “La Chiesa dei perfetti e dei puri è una stanza in cui non c’è posto per nessuno; la Chiesa dalle porte aperte, che festeggia attorno a Cristo, è invece una sala grande dove tutti possono entrare”.
L’umanità assetata
Quella della sala grande è una delle tre immagini proposte dal Vangelo della Solennità, che il Pontefice usa come spunti di riflessione per la sua omelia. L’altra immagine è l’uomo che porta una brocca d’acqua. “Seguitelo”, dice Gesù ai due discepoli inviati in città, perché dove li avrebbe condotti quell’uomo, là si sarebbe celebrata la Cena della Pasqua. Un uomo “anonimo” diventa dunque “guida per i discepoli”, mentre la brocca d’acqua è “segno di riconoscimento” che, dice il Papa, fa pensare all’“umanità assetata”, sempre alla ricerca di una sorgente d’acqua che la disseti e la rigeneri”.
Non possiamo farcela da soli
Bisogna riconoscerla, però, questa “sete di Dio” per celebrare l’Eucaristia. Bisogna essere, cioè, “consapevoli che non possiamo farcela da soli ma abbiamo bisogno di un Cibo e di una Bevanda di vita eterna che ci sostengono nel cammino”. “Il dramma di oggi - osserva il Pontefice - è che spesso la sete si è estinta. Si sono spente le domande su Dio, si è affievolito il desiderio di Lui, si fanno sempre più rari i cercatori di Dio. Dio non attira più perché non avvertiamo più la nostra sete profonda”. La sete di Dio, rimarca il Papa, “ci porta all’altare”; se manca “le nostre celebrazioni diventano aride”.
Una Chiesa con la brocca in mano
“Diventiamo una Chiesa con la brocca in mano, che risveglia la sete e porta l’acqua”, è dunque l’esortazione conclusiva del Papa per questa festa del Corpus Domini. “Spalanchiamo il cuore nell’amore, per essere noi la sala spaziosa e ospitale dove tutti possano entrare a incontrare il Signore. Spezziamo la nostra vita nella compassione e nella solidarietà, perché il mondo veda attraverso di noi la grandezza dell’amore di Dio”.
IL TESTO DELL’OMELIA DEL PAPA PER IL CORPUS DOMINI
L’Eucaristia è pane dei peccatori non premio dei santi
L’Eucaristia guarisce perché unisce a Gesù: ci fa assimilare il suo modo di vivere, la sua capacità di spezzarsi e donarsi ai fratelli, di rispondere al male con il bene. Ci dona il coraggio di uscire da noi stessi e di chinarci con amore verso le fragilità altrui. Come fa Dio con noi. Questa è la logica dell’Eucaristia: riceviamo Gesù che ci ama e sana le nostre fragilità per amare gli altri e aiutarli nelle loro fragilità.
Una logica nuova che Francesco ritrova in quel “gesto umile di dono, di condivisione” che porta Gesù a non dare pane in abbondanza per sfamare le folle ma ad offrire se stesso. “In questo modo Gesù - afferma il Papa - ci mostra che il traguardo della vita sta nel donarsi, che la cosa più grande è servire. E noi ritroviamo oggi la grandezza di Dio in un pezzetto di Pane, in una fragilità che trabocca amore e condivisione”.
Nell’Eucaristia la fragilità è forza: forza dell’amore che si fa piccolo per poter essere accolto e non temuto; forza dell’amore che si spezza e si divide per nutrire e dare vita; forza dell’amore che si frammenta per riunirci tutti noi in unità.
Il Pane dei peccatori
Un amore che si rafforza se è donato a chi ha sbagliato. Nel tradimento del discepolo, “il dolore più grande per chi ama”, in quell’ “abisso più profondo” Gesù non punisce ma dona misericordia.
Quando riceviamo l’Eucaristia, Gesù fa lo stesso con noi: ci conosce, sa che siamo peccatori e sbagliamo tanto, ma non rinuncia a unire la sua vita alla nostra. Sa che ne abbiamo bisogno, perché l’Eucaristia non è il premio dei santi, ma il Pane dei peccatori. Per questo ci esorta: “Non avete paura! Prendete e mangiate”.
In quel Pane c’è un “senso nuovo alle nostre fragilità”, Gesù ci dice che siamo preziosi, “ci ripete - afferma il Papa - che la sua misericordia non ha paura delle nostre miserie”.
E soprattutto ci guarisce con amore da quelle fragilità che da soli non possiamo risanare. Quali fragilità? Pensiamo. Quella di provare risentimento verso chi ci ha fatto del male - da questo da soli non possiamo guarire -; quella di prendere le distanze dagli altri e isolarci in noi stessi - da quella da soli non possiamo guarire -; quella di piangerci addosso e lamentarci senza trovare pace; anche da questa, noi soli non possiamo guarire. È Lui che di guarisce con la sua presenza, con il suo pane, con l’Eucaristia. L’Eucaristia è farmaco efficace contro queste chiusure.
Infine Francesco ricorda che nei quattro versetti della Liturgia delle ore c’è "il riassunto di tutta la vita di Gesù". "E ci dicono così che Gesù nascendo, si è fatto compagno di viaggio nella vita. Poi, nella cena si è dato come cibo. Poi, nella croce, nella sua morte, si è fatto prezzo: ha pagato per noi. E adesso, regnando nei Cieli è il nostro premio, che noi andiamo a cercare quello che ci aspetta".
Al termine dell’Angelus, il Pontefice ha ricordato l’iniziativa dell’Azione Cattolica che si terrà martedì: "Dopodomani, martedì 8 giugno, alle ore 13.00, l’Azione Cattolica Internazionale invita a dedicare un minuto per la pace, ciascuno secondo la propria tradizione religiosa. Preghiamo in particolare per la Terra Santa e per il Myanmar".
Poi ha rivolto il suo saluto ai "ragazzi del Progetto Contatto di Torino e il Gruppo Devoti della Madonna dei Miracoli di Corbetta, le famiglie di Cerignola e l’Associazione Nazionale Ambulanti, con numerosi lavoratori delle fiere e artisti di strada", ringraziandoli per i doni ricevuti. Infine un pensiero e un incoraggiamento ai salentini del sud della Puglia che in Piazza San Pietro hanno ballato "la pizzica".
IL TESTO DELL’ANGELUS DEL PAPA
Il video dell’Angelus
* Fonte: Avvenire, lunedì 7 giugno 2021 (ripresa parziale).
#filologia «(gr. «idou ho #anthropos»)
e
#principiodicarità:
#Ascensione «per uno», «per molti» o «per tutti»?!
#DanteAlighieri non narra come stato è possibile uscire dall’#inferno
e
#giungere in #purgatorio e in #paradiso?!
Liturgia. La Pasqua porta il nuovo Messale nelle parrocchie italiane
Dal giorno della Risurrezione diventa obbligatorio il libro liturgico curato dalla Cei. Il vescovo Maniago: segno di speranza e di ripartenza. Le revisioni? Già accolte senza difficoltà
di Giacomo Gambassi (Avvenire, venerdì 2 aprile 2021)
Tutti lo chiamano il nuovo Messale Romano. Ufficialmente è la traduzione in italiano della terza edizione tipica latina del libro per celebrare l’Eucaristia che la Santa Sede ha varato nel 2002. Da domenica 4 aprile il testo si aprirà sugli altari di tutte le parrocchie della Penisola. Perché, come ha stabilito la Cei che ha guidato un percorso durato quasi diciotto anni, il volume diventerà obbligatorio nell’intero Paese dal giorno di Pasqua. E non solo scandirà le celebrazioni in Italia, ma anche quelle presiedute in italiano da Francesco in Vaticano. Messale per la Penisola ma anche “del Papa”. E poi esempio per le traduzioni nelle diverse lingue nazionali dell’edizione tipica latina.
Certo, il rinnovato libro liturgico è già utilizzato da alcuni mesi in numerose diocesi o parrocchie. Molte regioni ecclesiastiche avevano indicato nell’Avvento il periodo per il “debutto” locale. E anche il Pontefice celebra con il nuovo Messale. Resta il fatto che con la solennità della Risurrezione finisce definitivamente in archivio la precedente edizione datata 1983 che, quindi, per quasi quarant’anni ha segnato la vita liturgica nel Paese.
«La scelta della Pasqua ha un preciso significato», spiega il vescovo di Castellaneta, Claudio Maniago, che da presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia ha curato l’ultima e più complessa fase della realizzazione del Messale. «Nella vita della Chiesa - prosegue - il giorno della Risurrezione rimanda all’inizio di un tempo rinnovato. Ecco, con il volume pubblicato lo scorso settembre la Chiesa italiana è chiamata a scrivere un nuovo capitolo del suo cammino».
L’esordio solenne avviene in un frangente ancora marcato dalla pandemia, con le limitazioni e i “ritocchi” ai riti imposti dalle misure anti-Covid. Non è sicuramente la Pasqua di un anno fa, senza le Messe a porte aperte. Però le liturgie risentono dell’effetto coronavirus.
«Potrebbe apparire penalizzante l’uscita di un nuovo libro liturgico in un tempo come l’attuale - afferma Maniago -. Tuttavia la pubblicazione del Messale è stata giustamente interpretata come un segno di speranza che può aiutare le comunità a concentrarsi su quanto è davvero essenziale. E l’Eucaristia è fonte e culmine della vita cristiana, è celebrare in ogni istante della storia la Pasqua del Signore. Direi che il nuovo volume è uno sprone per tornare a gustare con maggiore intensità e partecipazione ciò che nei mesi scorsi ci era stato tolto nella sua pienezza o ciò che ancora oggi è condizionato da vincoli che per motivi sanitari siamo doverosamente tenuti a rispettare».
Un test sul nuovo Messale - con le illustrazioni dell’artista Mimmo Paladino - c’è già stato nelle comunità che lo stanno impiegando dall’autunno. «Si è trattato di un tempo congruo per far sì che dopo la pubblicazione del volume si potesse avere una fase di sperimentazione e di prova necessarie», sottolinea il vescovo. E il primo bilancio che la Cei ha stilato è più che positivo.
«L’accoglienza è stata buona - racconta Maniago -. Da una parte, è stata accompagnata da una sana dose di curiosità, consapevoli comunque che le novità non stavano in una diversa struttura della celebrazione ma piuttosto in miglioramenti e revisioni dei testi con anche significative variazioni che intendono rendere più vicino alla sensibilità contemporanea quanto viene pronunciato. D’altro canto, le novità sono state recepite senza particolari fatiche: penso a quelle che toccano l’assemblea, come le modifiche del “Padre Nostro” o del “Gloria”. Inoltre i sacerdoti, che sono i primi utilizzatori del Messale, hanno potuto confrontarsi con formule ed espressioni nuove, come quelle nelle Preghiere eucaristiche: il linguaggio adoperato ha richiesto un adattamento di fronte a passaggi divenuti così familiari che potevano quasi essere recitati a memoria. L’unica difficoltà riscontrata è stata quella relativa alla veste editoriale: il carattere del libro ha creato in qualche prete più avanti con l’età un disagio alla prima lettura ma poi non è stato problematico abituarsi al diverso formato».
#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
CORONAVIRUS E VACCINO.
IL PAPA:"[...] Ripeto che sarebbe triste se nel fornire il vaccino si desse la priorità ai più ricchi, o se questo vaccino diventasse proprietà di questa o quella Nazione, e non fosse per tutti (Emanuela Campanile, Francesco: non discriminare sui farmaci, l’accesso alle cure sia per tutti, pf. Pandemia e povertà farmaceutica, VaticanNews, 19.09.2020)
Liturgia.
Dal «Gloria» al «Padre Nostro»: così cambia il Messale. Prima copia al Papa
Donata dal presidente della Cei Bassetti al Pontefice stamani. Il nuovo libro sarà obbligatorio da Pasqua 2021, ma i parroci potranno usarlo fin da subito. Modificate le Preghiere eucaristiche
di Giacomo Gambassi (Avvenire, venerdì 28 agosto 2020)
Non è il numero “zero” del nuovo Messale in italiano ma idealmente è come se lo fosse. La prima copia del libro liturgico, frutto della nuova tradizione della Messale Romano di Paolo VI promossa dai vescovi italiani, è stata consegnata questa mattina a papa Francesco al termine dell’udienza concessa in Vaticano al presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti. Un incontro “a porte chiuse”, come avviene di solito, ma arricchito stavolta dal “dono” del Messale Romano rinnovato che al Pontefice è stato presentato da una delegazione della Cei composta, oltre che dal cardinale presidente, anche dal segretario generale, il vescovo Stefano Russo, dal presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia, il vescovo Claudio Maniago (a lungo impegnato in questo complesso servizio), dal direttore uscente e da quello entrante dell’Ufficio liturgico nazionale della Cei, rispettivamente don Franco Magnani (coordinatore di tutta l’opera) e don Mario Castellano. E ancora da suor Elena Massimi, collaboratrice per la sezione musicale dell’Ufficio liturgico della Cei, da due addetti di segreteria, dall’artista Mimmo Paladino che ha realizzato le illustrazioni del Messale, dallo stampatore Maggioni e da una rappresentante dello studio grafico.
Papa Francesco ha ringraziato per il dono ricevuto, sottolineando l’importanza del lavoro svolto e la continuità nell’applicazione del Concilio di cui il Messale Romano di Paolo VI è un frutto. Il cardinale Bassetti, salutando Bergoglio, ha ricordato l’impegno profuso da tanti nel migliorare il testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico.
L’utilizzo del nuovo Messale diventerà obbligato nelle parrocchie della Penisola a partire dalla prossima Pasqua, ossia dal 4 aprile 2021, ma potrà essere utilizzato immediatamente, cioè non appena il libro pubblicato giungerà nelle comunità, anche se ciascun vescovo potrà stabilire nella propria diocesi da quando impiegarlo.
Si tratta della nuova traduzione in italiano della terza edizione tipica - in latino - del Messale Romano scaturito dal Concilio Vaticano II nella quale cambiano alcune formule con cui viene celebrata l’Eucaristia nella nostra lingua.
Il nuovo volume è edito dalla Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena in un unico formato e viene distribuito dalla Libreria Editrice Vaticana che lo farà arrivare nelle librerie e nelle parrocchie che lo stanno prenotando a partire dalla fine di settembre. Il costo è di 110 euro.
Papa Francesco aveva autorizzato la promulgazione della terza edizione in italiano del Messale Romano un anno fa. Il testo italiano era passato al vaglio della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti per la necessaria confirmatio. La nuova traduzione era stata approvata nel novembre 2018 dall’Assemblea generale della Cei.
Fra le novità introdotte quelle sul Padre Nostro: non diremo più «e non ci indurre in tentazione», ma «non abbandonarci alla tentazione». Inoltre, sempre nella stessa preghiera, è previsto l’inserimento di un «anche» («come anche noi li rimettiamo»). In questo modo il testo del Padre Nostro contenuto nella versione italiana della Bibbia, approvata dalla Cei nel 2008, e già recepito nella rinnovata edizione italiana del Lezionario, entrerà anche nell’ordinamento della Messa.
Altra modifica riguarda il Gloria dove il classico «pace in terra agli uomini di buona volontà» è sostituito con il nuovo «pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Se queste sono le principali variazioni che riguardano il popolo e quindi dovranno essere “imparate” da tutti, si annunciano anche altre modifiche in ciò che viene pronunciato dal sacerdote, anche ad esempio nelle Preghiere eucaristiche, vale a dire quelle della consacrazione del pane e del vino.
Oltre ai ritocchi e agli arricchimenti della terza edizione tipica latina, il volume propone altri testi facoltativi di nuova composizione, maggiormente rispondenti al linguaggio e alle situazioni pastorali delle comunità e in gran parte già utilizzati a partire dalla seconda edizione in lingua italiana del 1983.
«Il libro del Messale - spiega il cardinale Bassetti - non è soltanto uno strumento liturgico, ma un riferimento puntuale e normativo che custodisce la ricchezza della tradizione vivente della Chiesa, il suo desiderio di entrare nel mistero pasquale, di attuarlo nella celebrazione e di tradurlo nella vita. La riconsegna del Messale diventa così un’occasione preziosa di formazione per tutti i battezzati, invitati a riscoprire la grazia e la forza del celebrare, il suo linguaggio - fatto di gesti e parole - e il suo essere nutrimento per una piena conversione del cuore». Le variazioni giungono al termine di un percorso durato oltre 17 anni. Un arco temporale in cui «vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della presentazione del Messale», aveva spiegato la Cei in una nota.
La nuova traduzione italiana è quella della terza edizione tipica del Missale Romanum, edizione in latino che risale al 2002. La prima editio typica, che recepiva la riforma liturgica del Vaticano II e seguiva le indicazioni della Sacrosanctum Concilium, è stata pubblicata nel 1970 ed era stata tradotta in italiano nel 1973. La seconda edizione tipica latina porta la data del 1975. E proprio la traduzione italiana dell’edizione del 1975 - traduzione che risale al 1983 - è quella ancora in uso per qualche mese.
Scheda editoriale (Carocci editore)
Anselm Schubert
Pasto divino
Storia culinaria dell’eucaristia
«Prendete e mangiate, questo è il mio corpo [...]. Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue». Con queste parole Gesù istituisce la comunione. Oggi, però, sappiamo che l’eucaristia cristiana nasce dagli antichi simposi. Si è discusso a lungo su cosa si mangiasse e si bevesse nella Chiesa delle origini: formaggio, pesce o verdure? Latte, succhi o miele? Oppure soltanto pane? Lievitato o azzimo? Vino rosso o bianco? Solo per l’officiante o anche per i fedeli? In epoca moderna i dubbi non hanno fatto che aumentare: non sarebbe più igienico usare un calice personale? Il vino può essere anche analcolico e la farina senza glutine? E cosa si deve usare nei paesi in cui non si trovano né grano né vino? Vanno bene anche Coca-Cola, noci di cocco e succhi di frutta? Anselm Schubert racconta la storia dell’eucaristia dal primo Cristianesimo a oggi concentrandosi perla prima volta sugli alimenti utilizzati. Ne risulta una brillante ricostruzione che fa vedere con altri occhi il Cristianesimo e il suo rito più solenne.
Saggi
Una storia dell’eucaristia
di Maurizio Gentilini (Almanacco della Scienza, 08. 05.2019)
Le dispute attorno alla forma e ai contenuti della formula liturgica di consacrazione dell’eucaristia, che si richiama ai gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena tramandati dal racconto evangelico, hanno attraversato la storia delle chiese cristiane fin dai primi secoli. Poiché “tradurre è sempre tradire”, anche in anni recenti i confronti più accesi tra liturgisti e biblisti, tra teologi e filologi, insistono sul senso da attribuire al passo - dedotto dalla Vulgata - “Pro vobis et pro multis effundetur”, confrontato con l’“uper pollon” del più antico testo greco dei Vangeli. Il sangue di Cristo, “versato per voi e per tutti” nel canone liturgico italiano, è stato versato solo “per molti” (secondo il testo latino) o “per la moltitudine” (secondo il senso dell’espressione greca)?
Al di là delle dispute teologiche, che storia hanno avuto il pane e il vino per diventare forma simbolica e ufficialmente riconosciuta dalla tradizione canonica e rappresentare il corpo e il sangue di Cristo? Lo storico della Chiesa Anselm Schubert, docente all’Università di Erlangen-Norimberga, nel suo libro ’Pasto divino’ racconta la storia dell’eucaristia dal primo Cristianesimo a oggi, concentrandosi per la prima volta sugli alimenti utilizzati. Una ricostruzione laica, approfondita e brillante, che presenta da un punto di vista inedito il rito più solenne del cattolicesimo e di altre confessioni cristiane.
L’autore passa in rassegna gli usi liturgici di molte comunità dei primissimi secoli (anche quelle bollate di eresia) e i riferimenti nei testi canonici e apocrifi, evidenziando come quella eucaristica fosse una cena nel senso letterale della parola, cioè un ritrovo di persone che mangiavano assieme, consumando le specie consacrate al termine del pasto, dopo altre portate. Dal II al IV secolo, dalla Grecia, alla Turchia all’Africa settentrionale, si può rilevare la consuetudine di consacrare di pane e olio, ma anche formaggio, sale, pesce e verdure. Nel 397 il Concilio di Cartagine vietò espressamente ai sacerdoti di consacrare latte e miele finché, di lì a poco, si sarebbe trovata unità nella Chiesa sull’uso del pane e del vino. Nei secoli e millenni successivi la cultura eucaristica e la disciplina liturgica si sarebbero andate consolidando, attraverso però controversie teologiche, scismi e divisioni confessionali. La modernità, la colonizzazione, la presenza missionaria in tutto il mondo e le necessità di inculturazione della fede fecero infatti incontrare gli usi liturgici con le materie prime e i cibi locali, spesso molto diversi dal frumento e dall’uva.
’Pasto divino’, attraverso la storia degli ingredienti della comunione, permette un viaggio nella storia della cultura e dell’alimentazione dell’ecumene (o globale, come diremmo oggi), che sembra sempre più orientata a convergere verso il punto di partenza.
Maurizio Gentilini
titolo: Pasto divino
categoria: Saggi
autore/i: Schubert Anselm
editore: Carocci
pagine: 228
prezzo: € 22.00
Liturgia.
Via libera del Papa alla nuova traduzione italiana del Messale
Probabilmente saranno necessari alcuni mesi prima che il “rinnovato” libro liturgico entri in vigore. Tra le novità principali quelle su Padre Nostro e Gloria
di Giacomo Gambassi (Avvenire, mercoledì 22 maggio 2019)
La nuova traduzione italiana del Messale è pronta ad arrivare nelle parrocchie della Penisola. Ancora non c’è una data certa ma è giunto il “via libera” del Papa. Durante la prima giornata di lavori dell’Assemblea generale della Cei, il cardinale presidente Gualtiero Bassetti ha annunciato ai vescovi che Francesco ha autorizzato la promulgazione della terza edizione in italiano del Messale Romano di Paolo VI. Il testo italiano è passato al vaglio della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti per la necessaria confirmatio. Ancora è prematuro sapere quando cambieranno alcune formule con cui viene celebrata l’Eucaristia nella nostra lingua. Probabilmente saranno necessari alcuni mesi prima che il “rinnovato” libro liturgico entri in vigore.
La nuova traduzione era stata approvata lo scorso novembre dall’Assemblea generale della Cei. Fra le novità introdotte quelle sul Padre Nostro: non diremo più «e non ci indurre in tentazione», ma «non abbandonarci alla tentazione». Inoltre, sempre nella stessa preghiera, è previsto l’inserimento di un «anche» («come anche noi li rimettiamo »). In questo modo il testo del Padre Nostro contenuto nella versione italiana della Bibbia, approvata dalla Cei nel 2008, e già recepito nella rinnovata edizione italiana del Lezionario, entrerà anche nell’ordinamento della Messa. Altra modifica riguarda il Gloria dove il classico «pace in terra agli uomini di buona volontà» è sostituito con il nuovo «pace in terra agli uomini, amati dal Signore».
Le variazioni giungono al termine di un percorso durato oltre 16 anni. Un arco temporale in cui «vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della presentazione del Messale», aveva spiegato la Cei in una nota. Nelle intenzioni, infatti, la pubblicazione della nuova edizione non è solo un fatto “editoriale”, ma «costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica». L’utilizzo del nuovo Messale verrà accompagnato da una sorta di «riconsegna al popolo di Dio», tramite un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
La nuova traduzione italiana è quella della terza edizione tipica del Missale Romanum latino che risale al 2002. La prima editio typica, che recepiva la riforma liturgica del Vaticano II e seguiva le indicazioni della Sacrosanctum Concilium, è stata pubblicata nel 1970; la seconda porta la data del 1975. E proprio la traduzione italiana dell’edizione del 1975 - traduzione del 1983 - è quella ancora in uso.
IL SENNO DI PRIMA ("PROMETEO"), IL SENNO DI POI ("EPIMETEO"), I DISASTRI E IL "DISPOSITIVO DI DERIVAZIONE KANTIANA" ...*
Il sociologo.
Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima
Dopo il ragionamento è il solito, col senno di poi: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto?
di Maurizio Fiasco (Avvenire, sabato 18 agosto 2018)
Come accadono i disastri? C’è un’espressione, all’apparenza banale ma ricorrente, quando siamo sconcertati per un evento dai costi umani incalcolabili. «Col senno di poi». Che equivale: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto? Quel che ha condotto al precipitare di una situazione - fisica, come un ponte, oppure comportamentale come una battaglia, un volo, il funzionamento di uno stabilimento industriale - aveva già emesso dei segnali.
I disastri - risulta quasi sempre agli investigatori ex post - hanno avuto una incubazione, più o meno lunga. Incubazione tutt’altro che muta, o col bavaglio, anzi spesso visibile per un complesso di segnali. Come ha insegnato, quarant’anni fa un illuminato e inascoltato Barry Turner, non sono prevenuti - ovvero fermati da decisioni pragmatiche - per le patologie della comunicazione tra gli attori di un sistema. Industriale, amministrativo, finanziario, politico: non importa la scala di grandezza. Le incompetenze si strutturano e agiscono come un sistema.
I segnali sono sfuggiti a un apparato cognitivo, a una mente capace di connetterli e perciò di abbattere le barriere che inibiscono il giudizio. È mancata la responsabilità di contrastare la universale ottusità dei sistemi, di tutti i sistemi organizzativi. Che squalificano la coscienziosità di chi abbia colto il segnale e si sia posto in modo attivo per spingere al provvedere.
Egli finisce per scontrarsi con la gerarchia, con i muri levati su dai rituali dell’organizzazione, per impattare con la squalificazione che si replica davanti all’umile operatore che sta sul terreno e lì ’vede’ qualcosa che non va. Oppure c’è il feticcio della responsabilità di vertice. Chi è in alto - pensa il testimone dei segnali che il disastro sta inviando - lo capirà più e meglio di me.
Ma il superiore guarda al consenso e alle conferme di chi siede ancora più in alto di lui. E quest’ultimo rivolge la sua mente al mandato di chi è il supremo detentore di quel bene, di quella situazione, di quel dato potere. E tutto questo complesso di fattori cambia la prospettiva, perché il conformismo è più potente della psicologia della responsabilità.
A meno che nella persona responsabile in situazione trovino nutrimento valori morali assoluti: che spingono ad assumersi il rischio personale di andare controcorrente, e di superare derisioni e ostracismo, di non farsi influenzare dal dispositivo di derivazione kantiana, «faccio quel che devo, accada quel che può».
Insomma, la responsabilità, invece di essere ispirata a valori trascendenti, si attesta alla procedura, al ’di fronte’, a quel che le regole gerarchiche - per esempio il mandato degli azionisti - hanno assegnato. E così si scambia la diversa posizione ricoperta nella piramide organizzativa con la diversità di valori etici e professionali di quanti operano in una struttura complessa: che invece, a rigore, sono unici e universali. Cioè per tutti. Nelle forze armate, dal piantone al generale; nelle autostrade, dall’operaio che passa il bitume all’amministratore delegato della infrastruttura. Unitarietà dei valori e trasparenza della comunicazione sono la speranza del «senno di prima». Potremmo dire l’intelligenza del Buon Samaritano che si prende carico della complessità della situazione e non trascura alcuna variabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
IL NATALE DI GESU’: L’INCARNAZIONE SECONDO L’ IMMAGINAZIONE "TEANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO. Gianfranco Ravasi ne ripropone una sintesi e la presenta come "il realismo del nascere nella storia"!!!
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
I DOLCI DI NATALE, L’UNESCO, E LA CULTURA. Una nota a margine *
MAGNIFICO: COMPLIMENTI [ALLA FONDAZIONE TERRA D’OTRANTO.]. I caratteristici dolci salentini del Natale: purciddhuzzi e cartiddhate [di Massimo Vaglio] Un articolo sapiente - dal basso all’alto e dall’alto al basso. Tutto ben preparato, e da gustare: dai sapori ai saperi, e viceversa.
Questa è cultura - e coltura!!! Da qui, dal grano e dalla farina (e tutto il resto), dall’agri-coltura alla antropologia, e alla teologia - all’ "istituzione Eucaristica": "Un-esco" formidabile, altrimenti si resta sempre e solo nella caverna!
SENZA GRAZIA (gr.: "CHARIS"), non si esce dall’ "inferno": in giro, non ci sono che mercanti e mercantesse (altro che profeti e sibille: si cfr. Armando Polito, Dalla Sibilla ai "carmati.. http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/13/dalla-sibilla-ai-carmati-di-san-paolo-e-allorto-dei-turat/), che pensano a come diventare "nobili" (come certi metalli), con il caro-prezzo e la carestia - e nessun Cristo che sappia e possa istituire Eu-charis-tia!!!
I "purciddhuzzi" e le "cartiddhate" sono proprio dei bei segnavia per un percorso di umanità e solidarietà - e non di dis-umanità e af-far(aon)ismo! - da riprendere e da ripercorre con occhi aperti, innocenti come colombe e prudenti come serpenti (su questo, si cfr. l’art. di Armando Polito, Serpente? Presente! ...http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/ e le note nella "coda", nel "forum").
Per UNA NUOVA ALLEANZA, LA RICETTA c’è - ci vuole solo la buona volontà ...
PER UN BRILLANTISSIMO NATALE - CON TANTISSIMI STRUFFOLI SU OGNI TAVOLA,
MOLTISSIMI AUGURI
Federico La Sala
Così Feuerbach inventò il motto "L’uomo è ciò che mangia".
La frase più celebre del padre del materialismo tedesco fu ispirata da un trattato del fisiologo Jakob Moleschott. Che ora viene ripubblicato insieme a un saggio del filosofo in cui replica alle accuse degli idealisti.
di Marino Niola (la Repubblica, 23.08.2016)
«L’uomo è ciò che mangia». È l’aforisma sul cibo più citato di sempre. Al punto da diventare un tormentone. Non solo per noi, che siamo costretti a sorbircelo in tutte le salse e spesso a sproposito. Ma soprattutto per il suo autore, il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, che passò tutta la vita a struggersi perché della sua poderosa opera non veniva ricordata che questa frase. E per di più al solo scopo di accusarlo di aver leso l’onorabilità del pensiero tedesco. Sporcando le astrazioni dell’idealismo con il suo materialismo che riduceva tutto a pappa e ciccia.
La frase incriminata compare per la prima volta in una recensione che Feuerbach dedica al Trattato dell’alimentazione per il popolo del medico e fisiologo olandese Jakob Moleschott, pubblicato in Germania nel 1850. Un’opera rivoluzionaria, perché fa della nutrizione il principio motore della storia umana. Ponendo il cibo all’origine della società, del pensiero, della religione e persino delle differenze culturali e di classe.
Il Trattato, tradotto in italiano nel 1871 da Giuseppe Bellucci per l’editore Treves di Milano, viene adesso ristampato da Volumnia Editrice (pagg. 171, euro 22) con un utilissimo apparato di testi di antropologi, nutrizionisti, scienziati. E con un bel saggio di Luciano Giacchè che ricostruisce mirabilmente il contesto della vicenda e ne mostra l’attualità, alla luce della cibomania contemporanea.
Ma la vera chicca dell’edizione Volumnia è la riproposizione del saggio Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, che Feuerbach scrive nel 1862, dodici anni dopo la sua discussa recensione, per rispondere agli attacchi che gli erano piovuti addosso. Il risultato è una magistrale ricapitolazione del materialismo feuerbachiano.
La forza dirompente del Trattato per Feuerbach sta nel fatto che fa da supporto a una nuova filosofia, dimostrando scientificamente che il pensiero comincia proprio dalla pancia e poi arriva alla testa. Ma l’autore va ancora più in là. E partendo dall’affermazione, decisamente positivista, di Moleschott secondo cui «senza fosforo non c’è pensiero» ci regala un’altra affermazione passata ormai nel senso comune. «Perché tu introduca qualcosa nella tua testa e nel tuo cuore è necessario che tu abbia messo qualcosa nello stomaco». Un missile contro quella filosofia che ha sempre messo le idee al principio di tutto, dimenticando che a produrle è il corpo. Come dire che è la materia a generare lo spirito e non il contrario.
Ma non si tratta di una semplice disputa filosofica. Quello che hanno a cuore sia il medico che il filosofo è la ricaduta sociale e politica delle loro affermazioni. Entrambi concordano sul fatto che alla base del progresso delle nazioni non sono certo le prediche, che disseminano la vita di principi, ma la giusta distribuzione del carburante. L’operaio inglese, spiegano, è più efficiente perché mangia meglio del popolano napoletano. Fra l’altro vale la pena di ricordare che Moleschott nel 1861 fu chiamato per chiara fama da Francesco De Sanctis, allora ministro della Pubblica istruzione del primo governo Cavour, alla cattedra di Fisiologia all’università di Torino e divenne anche senatore del Regno d’Italia.
Lungi dal tessere l’elogio della gola, i due fanno un discorso radicale che rimette in discussione il dualismo che divide l’uomo dall’altra parte di se stesso. Il corpo e la mente, l’anima e la carne. Per Feuerbach l’unità dell’essere umano sta proprio nell’alimentazione. Che è il trait d’union tra natura e cultura. E questo vale per gli uomini come per gli animali. E d’altra parte il Trattato di Moleschott inizia proprio constatando che se il nutrimento ha trasformato il gatto selvaggio in gatto domestico, da carnivoro a onnivoro, perché dovremmo stupirci se l’alimentazione influenza la natura dell’uomo e delle sue istituzioni? Compresa la religione: gli alimenti che gli uomini, di tutte le fedi, sacrificano da sempre sugli altari ne sono la prova.
Per Feuerbach, l’immortalità degli dei deriva dal fatto che, come racconta Omero, non si nutrono di pane e vino ma di cibi non umani come nettare e ambrosia, ovvero la materia stessa dell’immortalità. Insomma anche Dio è ciò che mangia.
E che mangiare e vivere siano la stessa cosa, per Feuerbach, sta scritto in parole come bios, che in greco antico significava vita, ma anche generi di sopravvivenza. E una traccia di questa familiarità rimane anche nel nostro vitto, dal latino victum, voce del verbo vivere. Ma anche in termini come viveri e vettovaglie, che hanno la stessa radice. Insomma se Feuerbach non avesse assimilato e digerito Moleschott probabilmente il suo pensiero non sarebbe stato lo stesso. Evidentemente anche il filosofo è ciò che mangia.
«L’Eucaristia è il centro e la forma della vita della Chiesa» Papa Francesco:
L’EUCARISTIA (E LA "CARESTIA" DELLA CHIESA DEL "LATINORUM"): UN DOPPIO SCANDALO.
Vaticano, lettera ai vescovi tedeschi: “No comunione ai divorziati risposati”
Monsignor Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha bocciato l’apertura della diocesi di Friburgo. Una mossa concordata con Bergoglio, che su un tema così delicato non vuole nessuna "fuga in avanti"
di Francesco Antonio Grana (il Fatto quotidiano, 12 novembre 2013)
Questa comunione non s’ha da dare, né domani, né mai. È questo in sintesi il pensiero del “custode della fede” di Santa Romana Chiesa, monsignor Gerhard Ludwig Müller, parafrasando i “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni, uno dei pochi libri che Papa Francesco tiene gelosamente sulla sua scrivania nella suite 201 di Casa Santa Marta. Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede - e curatore dell’opera omnia di Joseph Ratzinger - ha bocciato senza appello l’apertura ai divorziati risposati espressa da un ufficio della diocesi di Friburgo. Müller che, secondo le indiscrezioni è al secondo posto dietro il Segretario di Stato Pietro Parolin nella lista dei cardinali che Papa Francesco creerà nel suo primo concistoro del 22 febbraio 2014, ha inviato una lettera durissima a tutti i vescovi della Germania. Una mossa concordata con Bergoglio che su un tema così delicato non vuole nessuna “fuga in avanti”, espressione adoperata dal portavoce vaticano padre Federico Lombardi, delle chiese particolari a dispetto del dibattito sinodale che coinvolgerà per due anni i rappresentati dell’episcopato mondiale.
Una discussione che, proprio per volontà del Papa, sarà preceduta dalla più ampia consultazione di fedeli mai avvenuta nella storia della Chiesa di Roma su temi così delicati come i matrimoni gay e “l’utero in affitto”. Nella sua lettera, Müller sottolinea che nel documento della diocesi di Friburgo viene utilizzata una “terminologia non chiara” e in alcuni punti esso si allontana dal magistero della Chiesa, in particolare quando affronta la possibilità che una coppia di divorziati risposati arrivi responsabilmente, attraverso una decisione di coscienza, ad accostarsi alla comunione. In questo caso, secondo gli autori del documento, il parroco e la comunità devono rispettare tale decisione. Müller, invece, ribadisce che i divorziati risposati devono essere invitati a partecipare alla vita della Chiesa, ma non possono essere assolutamente ammessi alla comunione. Il farlo, secondo il “custode della fede”, creerebbe uno smarrimento dei fedeli relativamente al magistero della Chiesa sulla indissolubilità delle nozze.
Un’altra critica riguarda la preghiera e la benedizione delle coppie di divorziati risposati. “Cerimonie di questo tipo - scrive Müller - sono state espressamente vietate da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Pertanto, a causa delle citate divergenze il progetto di linee-guida deve essere ritirato e rielaborato in modo che non vengano avallate vie pastorali contrarie al magistero della Chiesa”. La dura bocciatura del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha suscitato subito la reazione del cardinale di Monaco e Frisinga, sede episcopale che fu di Ratzinger, Reinhard Marx, uno degli otto “saggi” scelti da Papa Francesco per aiutarlo nel governo della Chiesa ed elaborare la riforma della Curia romana. Il porporato ha bollato la lettera di Müller come “un’eruzione di dottrina” e un “recinto” posto attorno all’ospedale da campo della misericordia, immagine che aveva utilizzato Bergoglio per definire la Chiesa nella sua intervista alla Civiltà cattolica.
“Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede non può chiudere la discussione”, ha ribattuto duramente Marx. Da cardinale di Buenos Aires, Bergoglio precisava che “oggi nella dottrina cattolica si rammenta ai fedeli divorziati e sposati in seconde nozze che non sono scomunicati, sebbene vivano una condizione al margine di quanto esige l’indissolubilità matrimoniale e il sacramento stesso del matrimonio, e si chiede loro di integrarsi comunque nella vita parrocchiale. Le Chiese ortodosse - aggiungeva il futuro Papa - hanno un’apertura anche più grande in merito al divorzio”. Non a caso Francesco vuole invitare proprio i “fratelli ortodossi” ai due sinodi che si occuperanno della famiglia, nel 2014 e nel 2015, e che dovranno decidere se dare o no la comunione ai divorziati risposati.
SALVEZZA PER TUTTI. O PER NESSUNO. IN GERMANIA, 500 PARROCI CONTESTANO IL NUOVO MESSALE *
37212. BERLINO-ADISTA. La nuova traduzione in lingua tedesca del Messale voluta dal Vaticano non piace, da un punto di vista sia formale che sostanziale e teologico. Lo affermano, in un appello ai membri della Conferenza episcopale tedesca, circa 500 parroci tedeschi aderenti alla Pfarrer-Initiative, timorosi che questa traduzione venga approvata e definitivamente adottata in occasione della prossima assemblea generale dei vescovi, in programma a Fulda per settembre.
A costituire il maggiore problema, per i parroci, sono le parole che il prete pronuncia al momento della consacrazione eucaristica: «Questo è il mio sangue, versato per voi e per molti». La modifica al testo era stata annunciata ai vescovi germanofoni da Benedetto XVI nell’aprile 2012: l’espressione latina pro multis avrebbe dovuto essere tradotta con “per molti”, e non più “per tutti” modificando così sostanzialmente l’uso in vigore.
La richiesta è contenuta in una lettera indirizzata all’arcivescovo di Monaco, card. Reinhard Marx, ai vescovi ausiliari della stessa diocesi, mons. Bernhard Hasslberger e mons. Woflgang Bischof, e al vicario episcopale mons. Rupert Graf zu Stolberg, e porta la firma dei portavoce del movimento dei parroci Albert Bauernfeind, Walter Hofmeister, Hans-Jörg Steichele, Christoph Nobs, Karl Feser e Klaus Kempter.
Il documento esprime anche la speranza che nel corso della celebrazione eucaristica sia utilizzata una lingua che «aiuti gli uomini e le donne di oggi ad avere un dialogo con Dio e a partecipare, dunque, attivamente alla liturgia». La nuova traduzione, si legge nel testo della lettera, «è ben poco poetica e suggestiva» e non fa che amplificare i problemi già esistenti, tanto da rischiare di spingere molti preti a rifiutarne il ricorso per motivi di coscienza.
Il documento fa anche riferimento alle prime fasi del pontificato di papa Francesco, il quale ha mostrato segnali che fanno presagire la volontà di instaurare un più intenso rapporto collegiale con i vescovi e di adottare misure che riducano il ruolo di Roma e il centralismo vaticano; i parroci auspicano, infatti, che il nuovo papa «riconosca nuovamente ai vescovi il diritto di esercitare le funzioni di loro competenza senza la tutela della Curia romana». Alla luce di queste considerazioni, chiedono dunque fermamente ai vescovi dell’arcidiocesi di Monaco di non dare la loro approvazione al nuovo testo e di continuare, invece, ad utilizzare la traduzione usata fino a questo momento.
Nella loro lettera i parroci riportano le parole del papa sul concetto di armonia nella diversità, contenute in un’intervista rilasciata da Bergoglio al mensile 30Giorni nel 2007 (n. 11/07), quando era arcivescovo di Buenos Aires: «Nella Chiesa l’armonia la fa lo Spirito Santo. Uno dei primi padri della Chiesa scrisse che lo Spirito Santo “ipse harmonia est”, lui stesso è l’armonia. Lui solo è autore al medesimo tempo della pluralità e dell’unità. Solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l’unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l’unità facciamo l’uniformità, l’omologazione. Ad Aparecida abbiamo collaborato a questo lavoro dello Spirito Santo». E ancora: «Il restare, il rimanere fedeli implica un’uscita. Proprio se si rimane nel Signore si esce da sé stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane, proprio se si è fedeli si cambia. Non si rimane fedeli, come i tradizionalisti o i fondamentalisti, alla lettera. La fedeltà è sempre un cambiamento, un fiorire, una crescita. Il Signore opera un cambiamento in colui che gli è fedele. È la dottrina cattolica».
Già nel 2007, il Consiglio presbiterale di Rottenburg-Stuttgart aveva votato a favore del mantenimento della traduzione inclusiva per tutti, giudicando quella del Vaticano, per molti, ambigua. «La promessa di salvezza di Dio - recitava un comunicato stampa diffuso dal Consiglio presbiterale - vale per tutte le persone. Verità di fede espressa in modo più chiaro nella formula “per tutti”».
Un mese e mezzo prima, era stato il Consiglio presbiterale di Augsburg a dire lo stesso chiedendo al vescovo, mons. Walter Mixa, di «promuovere presso il Vaticano e presso la Conferenza episcopale tedesca» la possibilità di continuare a tradurre l’espressione del Messale romano pro multis con per tutti. Subito prima del voto, era intervenuto alla riunione del Consiglio presbiterale il preside dell’Accademia Cattolica della Baviera, p. Florian Schuller, sottolineando che la storia dei testi centrali della liturgia è «profondamente iscritta nelle coscienze» e che un cambiamento come quello prescritto da Roma rischia di provocare polarizzazioni e proteste a livello di parrocchie. (ludovica eugenio)
* Adista Notizie n. 23 del 22/06/2013
SACRAMENTUM CARITATIS O SACRAMENTUM CHARITATIS?!: CHARISTIA O CARISTIA E CARESTIA?! PER MOLTI, NON PER TUTTI ... (fls)
Tutto è racchiuso nell’Eucaristia
a cura di Sabatino Majorano (Avvenire, 16.06.2013)
Compimento dell’iniziazione cristiana, l’Eucaristia costituisce, per tutta la vita della Chiesa e di ogni suo membro, la fonte e il culmine. La sua centralità è uno dei tratti più significativi del rinnovamento liturgico voluto dal Vaticano II.
Per evidenziarla il Catechismo fa sue le parole della Lumen gentium: l’Eucaristia è «fonte e apice di tutta la vita cristiana»; e di Presbyterorum ordinis: «Nella Santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua» (Catechismo 1324).
Istituita dal Cristo nell’ultima cena e affidata alla Chiesa perché l’attui lungo i secoli, l’Eucaristia è il memoriale della sua morte e risurrezione: «Sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della gloria futura» (Sacrosanctum Concilium, 47).
È per eccellenza «mistero della fede», come proclama il sacerdote dopo aver pronunziato le parole della consacrazione sul pane e sul vino. È impossibile non restare stupiti «di fronte alla conversione sostanziale del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore Gesù, una realtà che supera ogni comprensione umana» (Sacramentum caritatis, 6). La ragione, che pure deve cercare di comprendere, lascia il posto alla fede e al grazie ammirato.
Nell’Eucaristia la Chiesa trova «il compendio e la somma» della sua fede. Il Catechismo lo ricorda con le parole di sant’Ireneo: «Il nostro modo di pensare è conforme all’Eucaristia, e l’Eucaristia, a sua volta, si accorda con il nostro modo di pensare» (Catechismo, 1327). È grazie ad essa che, nonostante le nostre incoerenze e i nostri limiti, cresciamo nella vita nuova.
L’Eucaristia è anche il sacramento della carità per eccellenza: essendo «il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo», in essa «si manifesta l’amore "più grande", quello che spinge a "dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13)... Gesù nel Sacramento eucaristico continua ad amarci "fino alla fine", fino al dono del suo corpo e del suo sangue» (Sacramentum caritatis, 1).
«La salvezza di Cristo dono offerto a tutti»
di Bruno Forte, arcivescovo di Chiesti-Vasto
“Avvenire” del 19 gennaio 2013
Il dibattito intorno alla traduzione delle parole della consacrazione del vino nella celebrazione dell’Eucaristia si sta facendo vivo nel nostro Paese, come mostrano vari interventi e pubblicazioni recenti. Il sangue di Cristo è stato versato «per molti» o «per tutti»? Come tradurre l’espressione greca « hypér pollôn », presente nei testi biblici, sottesi alla formula liturgica?
La traduzione della Bibbia, approvata dalla Conferenza episcopale italiana, sia nella precedente che nell’attuale versione, ha tradotto così l’espressione: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti » (Marco 14, 24 ); «Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati» (Matteo 26,27-28). Isaia 53,11s, poi, è reso in modo analogo: «Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità... ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti».
Da parte mia, ho avuto modo di esprimere la mia posizione in varie sedi: lo feci, ad esempio, in una riunione di qualche anno fa del Consiglio permanente della Cei, di cui facevo parte come presidente della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, argomentando la mia preferenza per il «per molti». In sede di Assemblea dei vescovi italiani, pur ribadendo la mia preferenza, espressi la mia comprensione per la difficoltà pastorale che i più vedevano e che non ho mai negato: capirà la gente questo cambiamento di traduzione dopo l’uso pluridecennale della traduzione «per tutti»? Non si penserà forse che con questo cambiamento si vogliano restringere gli spazi dell’accoglienza di tutti nella salvezza offerta da Gesù, quasi a voler presentare una Chiesa dei «no», più severa ed esigente?
Provo a fare chiarezza nel conflitto delle interpretazioni: la traduzione «per tutti» non è scorretta, perché non c’è dubbio che Dio voglia tutti salvi e il Figlio sia stato mandato per la salvezza di tutti. Questa traduzione, tuttavia, come ogni traduzione può essere cambiata e migliorata. Ad esempio, alcuni propongono come nuova traduzione la formula «per una moltitudine», che fa eco alla scelta della traduzione francese del testo liturgico: «pour la multitude». Il punto fondamentale da affermare è che Cristo è morto per la salvezza di tutti, anche se non è scontato che tutti vorranno accettare il Suo dono.
Quest’idea a me sembra resa correttamente dalla traduzione letterale «per molti», che meglio rispecchia la distinzione fra la redemptio objectiva, offerta dal Signore a tutti, e la redemptio subjectiva, quella effettivamente accolta o rifiutata dalla libertà di ciascuno. Si tratta di una resa che rispetta maggiormente non solo l’originale del testo, ma anche la libertà dell’assenso da parte della creatura umana, e dunque la sua dignità nella prospettiva dell’alleanza salvifica con il Dio vivente. Noi non sappiamo se tutti entreranno nella salvezza di Cristo, precisamente perché è in gioco la libertà di ciascuno di accogliere o rifiutare il dono.
Mi sembra ovvio che come spera Cristo e spera la Chiesa, così noi speriamo che tutti lo accolgano, impegnandoci ad annunciare credibilmente a ciascuno la bellezza di quanto il Signore ci offre.
In questa luce, è importante sottolineare che «molti» in italiano si oppone a «pochi», ma non è il contrario di tutti. Resta certamente la difficoltà di modificare un testo usato per anni nella liturgia e di dover conseguentemente spiegare la scelta operata: ma l’opzione «per molti» potrebbe essere occasione di una catechesi arricchente, che aiuti i credenti a riappropriarsi del messaggio centrale della salvezza offerta a tutti, senza imporsi alla libertà di nessuno. È quanto fa l’Eucaristia: essa realizza e annuncia la salvezza universalmente offerta e lascia il rischio della libertà umana come presupposto sullo sfondo. Da questo insieme di considerazioni deduco che la traduzione «per molti» sarebbe la più esatta. Altri episcopati l’hanno accolta, in lingue di diffusione mondiale (basti pensare all’inglese: « for many »).
Perché la sfida accettata da quei pastori non potrebbe essere accolta anche da noi, considerando che in gioco c’è il messaggio centrale della fede cristiana e la celebrazione di esso per la nostra salvezza, culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa?
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 19 maggio 2013)
Il colpo d’occhio dal sagrato era impressionante: la folla riempiva tutta la piazza e si dilatava fino a coprire Via della Conciliazione. Uno dei responsabili vaticani delle comunicazioni mi diceva che questi numeri erano prima da «eventi straordinari», ora sono l’ordinario di ogni udienza generale.
A incontrare Papa Francesco mercoledì scorso, come pellegrini nell’anno della fede, c’erano con me circa diecimila fedeli dell’Arcidiocesi affidatami: un numero altissimo, cresciuto in pochi giorni da quando si era passati alla concretizzazione dell’iniziativa in programma da mesi. L’arrivo del Vescovo di Roma, in piedi sulla jeep bianca, e il suo lungo giro fra i vari settori di Piazza San Pietro, hanno suscitato un’indescrivibile entusiasmo.
Si percepiva una profonda corrente di amore fra il Papa e i pellegrini, tutti desiderosi di un contatto personale, fosse anche solo di uno sguardo o di un gesto, come quello tenerissimo di asciugare a distanza con un movimento della mano le lacrime di un bambino che piangeva in braccio alla mamma. Poi, la catechesi nello stile di questo Papa, semplice e profonda, con battute improvvisate che rendevano la folla particolarmente partecipe.
Il tema, ispirato a una pagina del Vangelo di Giovanni, era quello della verità: non qualcosa da possedere, ma Qualcuno da incontrare e da amare, il Signore Gesù. La verità come amore ricevuto e donato, come senso e forza della vita, come sequela del Figlio di Dio nel suo farsi tutto a tutti. Quindi, i saluti: la gioia di scambiare qualche parola con Papa Francesco, il suo sorriso contagioso, la sua memoria e attenzione per ciascuno, le sue battute...
A un mio giovane prete che gli diceva di essere parroco di un piccolo paese di montagna, il Papa domanda: «Allora conosci i nomi di tutti?». E al suo sì piuttosto emozionato, incalza: «Anche dei cani?» Alla risata spontanea dei circostanti, intervengo per aiutare il giovane a superare un attimo d’imbarazzo: «I nostri cani, Santità, sono religiosi. Hanno un solo difetto: si addormentano durante le omelie dell’Arcivescovo!». Qui, a ridere di gusto è il Papa. Un altro mio presbitero gli dice quasi nell’orecchio: «Mia madre è molto devota alla Madonna dei nodi...». E Papa Francesco replica prontamente: «E allora le dica di pregare tanto per me, che di nodi da sciogliere ne ho parecchi...».
L’impressione generale è di incontrare qualcuno che ti capisce e ti vuol bene, a partire da una fede viva e irradiante. La domanda che nasce è perché tutto questo colpisca così intensamente la gente.
Provo a individuare tre ragioni, che mi sembra possano far pensare in particolare quanti sono chiamati a comunicare a vasto raggio con gli altri, dagli operatori dei "media" ai politici, fino a coloro che vogliono servire la causa dell’annuncio del Vangelo agli uomini.
La prima delle ragioni del "successo" mediatico di Papa Francesco mi sembra risieda nella sua autenticità: niente nei suoi gesti o nelle sue parole appare affettato o frutto di calcolo. Si sente in lui una grande freschezza, un lasciar trasparire all’esterno ciò che egli da sempre è: un uomo di Dio, un cristiano e un prete innamorato del Signore, un gesuita attento a discernere gli abissi del cuore umano, un maestro spirituale esercitatosi a lungo nella preghiera e nella carità.
I poveri stanno veramente al centro del suo cuore e di conseguenza della sua attenzione: basta vedere com’è attratto irresistibilmente da chiunque sia debole o segnato dalla sofferenza. Il trasporto verso gli ammalati o i bambini ne è un segno eloquente. Le scelte di sobrietà nello stile di vita ne sono un altro. In un mondo segnato da una profonda crisi etica, prima ancora che economico-finanziaria, mentre si riscopre l’urgenza della sobrietà nelle scelte personali e della solidarietà in quelle relazionali, il messaggio che arriva dal Papa venuto dalla fine del mondo risulta più che mai attuale e necessario.
È come se la risposta data dal Conclave al bisogno di eleggere un nuovo Vescovo di Roma sia arrivata anche come un segno dei tempi, un messaggio lanciato a quanti vivono la crisi per puntare a superarla insieme nella semplicità di vita e nella condivisione fraterna.
Una seconda ragione del fascino che Papa Francesco esercita sui cuori è il suo linguaggio: egli parla con chiarezza e semplicità, trasmettendo contenuti profondi e centrali per la fede e la vita.
Un vero capolavoro in questo senso è stato il discorso dalla loggia delle benedizioni la sera dell’elezione. Mentre chiedeva alla gente di pregare con lui e per lui, con uno stupendo segno di umiltà, si presentava per quello che è anzitutto dal punto di vista teologico, e cioè come vescovo della Chiesa di Roma, chiamata - secondo una bellissima espressione di Ignazio di Antiochia agli inizi del secondo secolo - a «presiedere nella carità».
Qualche ecumenista ha detto che queste parole hanno fatto di più per il dialogo ecumenico intorno al primato del Papa che anni di riflessioni e discussioni. Ne è stato segno eloquente la presenza del Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo alla messa di inaugurazione del pontificato. Così, a detta di molti confessori, le parole di Papa Francesco su Dio che non si stanca mai di perdonare, mentre siamo noi a volte che ci stanchiamo di chiedere perdono, hanno toccato innumerevoli cuori, inducendo tanti a ritornare al sacramento della riconciliazione, spesso trascurato da anni.
Infine, colpisce la grande umanità del Papa: egli sa farsi vicino, sa condividere il dolore e la gioia, il pianto e il sorriso. L’essere uomo di grande profondità spirituale e di cultura, non gli impedisce di mettersi alla scuola degli altri, da vero fratello in umanità. Ascoltare la vita reale, comprendere le prove e le attese della gente, farsene voce e farsi prossimo degli altri, sono qualità che si percepiscono in lui come proprie della sua natura e dell’intera sua esperienza di pastore.
In realtà, Papa Francesco ci insegna che solo chi sa ascoltare si fa anche ascoltare, perché riesce a dar voce al cuore di tutti. Autenticità, semplicità e umanità non sono certo virtù che s’improvvisano, sono anzi come la punta di iceberg di una vita educata alla carità e nutrita di fede e di passione per la causa di Dio, che è anche la vera causa dell’uomo. Esse costituiscono un modello e una sfida per tutti, specie per chi ha responsabilità verso altri: non esiterei a dire che il mondo sarebbe molto migliore, e in particolare la cosa pubblica andrebbe molto meglio, se chi ne porta il peso sapesse farlo con stili sobri di vita, con semplicità e profondità di linguaggio, con un senso di umanità vasto e partecipe. Proprio così, lo stile di questo Papa è un dono, ma anche una sfida che ci riguarda tutti.
PAROLA A RISCHIO
Risalire gli abissi
La salvezza è per tutti. Alla portata di tutti.
Perché è sorriso, liberazione, gioia.
di Giovanni Mazzillo (Teologo) *
G come gioia, come Gesù, respiro di gioia per tutti gli infelici della terra. Parliamo di Gesù, il cui corrispondente nome greco Iesoûs deriva direttamente dall’originale ebraico Je(ho)šhu e significa JHWH salva, per precisare immediatamente che il termine salvezza oggi non significa gran che per i nostri contemporanei, e di conseguenza risuona poco interessante persino quel nome, pur originariamente portatore di una gioia immensa e inaudita. Ciò avviene non solo per l’inevitabile logorio delle parole più usate e talora abusate, ma per il fatto che ha perso rilevanza e pertanto significato il valore stesso della “salvezza”.
Salvezza
Salvezza da chi e/o da che cosa? Appunto, è questo il primo problema. La salvezza appare di primo acchito un concetto immediatamente derivato dal superamento di una situazione negativa, Si salva, o come succede in questo caso, viene salvato, qualcuno che si trova in una situazione di pericolo. Il pericolo di perdere qualcosa, di perdere se stesso. Di essere cancellato, di sparire, appunto come sparisce da un computer un testo non “salvato” o un’immagine non messa al sicuro.
Ma essere salvati è per noi persone umane, e pertanto non riducibili a una traccia di codificazione binaria o algoritmica, molto di più che conservare un’impronta e una presenza. Coerentemente con la nostra realtà dinamica e relazionale, essere salvati significa avere un luogo, un senso, una rilevanza nel contesto di una realtà che giustifica, sorregge, garantisce il mantenimento e la crescita qualitativa, e pertanto il conseguente riconoscimento di un originario, inalienabile, imprescindibile valore personale.
La domanda «Chi o che cosa si può dire oggi salvato?» esige pertanto una primordiale differenziazione. Altro è il concetto di ciò che è salvato (cioè il dato messo al sicuro), ben altro è l’essere umano salvato. Questi non è solo garantito in ciò che ha di più proprio e pertanto è distinto dal mero “dato”, che invece è una sorta di file compilato (non per nulla in tedesco proprio il file è chiamato Datei, leggi datai, cioè «rea-ltà data»). L’essere umano è tale solo in un incontro, in una relazione. La persona è tutta nelle relazioni delle quali vive. Proprio la relazionalità sorregge il senso e la gioia del suo esistere.
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia, termine che esprime tutto ciò e anche qualcosa di più.
Nell’annuncio della sua nascita, diversamente da quanto appare nella traduzione latina, e in quella italiana da essa derivata, nella preghiera più popolare che ci sia, Maria è salutata non con il saluto che si dava all’imperatore, alle autorità o anche agli amici con l’esclamativo «Ave!», bensì con l’invito a rallegrarsi, cioè a gioire (chaîre): a entrare in un circuito di esultanza per un dono gratuito e inatteso. Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù...”. L’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia...» (Lc 1,30-31; 2,10-11).
Il resto del Vangelo, soprattutto quello di Luca, evidenzia la gioia improvvisa e incontenibile che contagia quanti vengono a contatto con Ješhu. A cominciare da Elisabetta e dal suo bambino, che le esulta nel grembo, il futuro Battista. Così esultano ancora due anziani che sembrano essere rimasti in vita per mantenere viva la speranza d’Israele: Simeone e Anna, o i pastori; mentre nel racconto di Matteo, viene detto che i Magi “provarono una grandissima gioia” nel rivedere la stella che indicava il luogo della natività di Gesù.
La stessa gioia è testimoniata dai semplici e dagli umili, dagli infelici e dai peccatori che si sentono aiutati, capiti, perdonati. A gioire sono ancora i bambini e le donne, classi tradizionalmente neglette dalla piena partecipazione alla grazia collegata alle tradizionali benedizioni di Dio. Insomma il cuore del Vangelo è la lieta notizia annunciata ai bisognosi e agli infelici della terra. Il Dio che si dona totalmente, è il Dio che dona illimitatamente la gioia agli uomini. E perché la nostra gioia fosse piena (Gv 15,11), il Figlio di Dio è arrivato umanamente a perdere se stesso.
Perché avessimo una gioia che nessuno avrebbe mai più potuto toglierci, ha permesso che fosse tolta a lui la vita, per riprenderla di nuovo, ma con la conoscenza ormai nella sua carne e nella sua psiche di cosa significhi la morte umana. Di cosa voglia dire la gioia di vivere, di vivere non con il naturale sorriso con cui vive ogni creatura per la stessa gioia dell’esistere, ma di provare e diffondere la gioia di chi conosce la sofferenza e non resta inchiodato alla sofferenza. O al limite, di chi, nonostante le ferite e talora i chiodi mai interamente rimossi della sofferenza, sa sorridere della vita, perché questa è ormai rischiarata da colui che vince la morte e la depressione della sofferenza.
La gioia è dunque uno dei nomi della salvezza, ma di una salvezza che assume di volta in volta nomi nuovi e nomi antichi: riscatto, liberazione, sensatezza, leggerezza dell’esistere... Se la parola non fosse tanto inflazionata, si potrebbe dire che la salvezza altro non è che la felicità. È la felicità nel suo senso etimologico: come abbondanza e fertilità. Possiamo tradurre: come vita sensata che raggiunge il suo scopo e nasce da relazioni benevole, tendenti al bene altrui, trovando negli altri la propria gioia e comunicandola con relazioni che fanno crescere se stessi e gli altri.
In quanto tale, la felicità è simile alla pace e ne è la forma storica: è star bene con sé e con gli altri, con il proprio passato e con il proprio futuro. Perché, soprattutto oggi, c’è bisogno paradossalmente più di ricostruire il futuro che il passato o il presente. Per poterlo fare c’è bisogno di quella gioia consapevole che non si arrende e che non si ripiega su se stessa. Si ritrova nel futuro di una convivenza che non nasconde, ma sa riconoscere e superare i conflitti attraverso uno sguardo d’amore verso ciò che ci è intorno. È uno guardo che viene da lontano e tuttavia tocca la nostra umanità, questa mia e questa tua umanità, quella assunta, attraversata e come divinizzata da quel Gesù che continuamente dà senso a ogni tentativo di superare la violenza con l’amore. È l’unico a dar senso a ogni discorso di pace, anche questo che hai appena finito di leggere.
Sempre l’imbroglio del latino
di Giancarla Codrignani *
Un’amica mi ha segnalato con sua grande afflizione l’ultimo recupero del Concilio di Trento da parte di Benedetto XVI: ha stabilito che, nella formula della consacrazione, il valore salvifico vada limitato a "molti" e non "a tutti", come era diventato abituale dopo il Concilio Vaticano II e come, nell’assemblea plenaria del novembre 2010, 171 vescovi su 182, avevano "votato" di preferire.
A me importano poco le precisazioni filologiche anche perché, non avendo registrazioni dell’ultima cena del Signore, il testo greco è già una traduzione e quella latina di Girolamo è la traduzione di una traduzione. Il guaio è che il praticante cattolico, quello che "sente essa" recitando il rosario o pensando ai casi suoi o a niente, non si accorge di questo genere di cambiamenti, dato che, evidentemente (altrimenti si ribellerebbe), non capisce neppure la differenza di condividere la "comunione" accogliendola con la mano o di riceverla come il bimbo che si fa imboccare. Per questo il cambiamento è grave. Il papa può giustificare la sua scelta raccontando che, andando in giro per il mondo, si è accorto che le parole rituali subiscono impatti linguistici diversi e ha sentito il dovere di definire una volta per tutte il testo del Messale Romano: tanto varrebbe tornare al latino per tutti i paesi del mondo, così si eliminerebbe definitivamente urbi et orbi la possibilità di comprendere il senso della consacrazione. Tuttavia chi si informa sulla vita della sua chiesa pensa che si tratti di un’altra risposta indiretta al clero austro-tedesco in fermento per le marce indietro del Papa e ritenuto disubbidiente.
La strategia autoritaria del pontefice romano rappresenta un atto grave di potere: se il sangue di Gesù è stato versato "per molti" e non per tutti, per salvarsi i peccatori dovrebbero obbligatoriamente farsi assolvere dal prete della Chiesa cattolica e le altre religioni passare per la conversione. Con l’aggravante che il provvedimento va non solo contro il Vaticano II e il suo Spirito, ma anche contro l’ecumenismo e contro tutti gli "infedeli". Di questi tempi abbastanza temerario per un Papa che crede che Dio sia amore.
* http://www.mosaicodipace.it/. 10 maggio 2012
L’Ultima cena. Per molti ma non per tutti
di Luigi Accattoli (Corriere della Sera/la Lettura, 12 agosto 2012)
«Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati»: dice così l’attuale formula della consacrazione del vino in traduzione italiana. Ma da sei anni il Papa chiede che in tutto il mondo si adotti una traduzione letterale del testo latino, che ha «pro vobis et pro multis» e gli episcopati si vanno allineando, ma non quello italiano che vorrebbe mantenere le parole «per tutti». Ne è nata una disputa che vede anche la proposta «per la moltitudine», o «per moltitudini immense».
Il dibattito ha più di quarant’anni e risale alle traduzioni del Messale Romano nelle lingue moderne, all’indomani del Vaticano II. Quella italiana fu approvata da Paolo VI nel 1971. La questione è stata riproposta da papa Benedetto con una lettera ai vescovi della Germania che ha la data del 14 aprile di quest’anno, con la quale si rifaceva a una lettera circolare inviata nel 2006 dalla Congregazione per il culto alle Conferenze episcopali dei Paesi dov’era in vigore la traduzione «per tutti» per invitarle a rimediare. La sollecitazione del Papa teologo fa parte del suo miniprogramma di «riforma della riforma liturgica», com’è stato chiamato da alcuni osservatori.
La lettera del Papa ai vescovi della sua Germania ovviamente vale per gli episcopati di tutto il mondo alle prese con analoghe traduzioni «inclusive» e dunque anche per il nostro. Benedetto nella lettera rifà la storia della traduzione «per tutti», si appella alla più recente traduzione «unificata tedesca» della Bibbia - cioè condivisa da cattolici e protestanti - che è tornata al «per molti» e conclude: «La traduzione di pro multis con per tutti non è stata una traduzione pura, bensì un’interpretazione, che era, e tuttora è, ben motivata, ma è una spiegazione e dunque qualcosa di più di una traduzione». È perciò necessario che essa venga «sostituita dalla semplice traduzione per molti».
Le lingue coinvolte sono tutte le principali, tranne il francese che ha «pour la multitude». La prima Conferenza episcopale ad accettare l’invito del Papa è stata nel 2009 quella dell’Ungheria. Sono seguite alcune Conferenze latinoamericane (Messico, Cile, Argentina, Paraguay, Uruguay, Bolivia), mentre i vescovi spagnoli attendono che venga approvata la nuova edizione del messale che avrà «por muchos» e non più «por todos los hombres». Nelle chiese anglofone «for many» al posto di «for all» è in uso dal 2011. I vescovi del Portogallo hanno votato per la sostituzione del «por todos» con il «por muitos» e attendono il via libera di Roma per la pubblicazione del nuovo messale. In tedesco sta per arrivare il «ffir Viele» voluto dal Papa tedesco al posto di «ffir Alle».
I nostri vescovi - generalmente in prima fila nel seguire i desiderata papali - in questa occasione sono tra i renitenti e si mostrano affezionati al «per tutti», se non altro al fine di risparmiarsi le obiezioni dei partecipanti alle celebrazioni, che direbbero: «Si cambia di nuovo?», ma anche: «Il sangue di Cristo non è sparso per tutti?». Nel novembre del 2010, in una votazione su questa richiesta del Papa, 171 nostri vescovi votarono «no», 11 «sì», mentre solo 4 furono quelli che proposero «per la moltitudine». Ed è oggi verosimile che siano quei quattro ad averla vinta: la soluzione alla francese sta infatti guadagnando terreno tra i nostri studiosi.
Francesco Pieri, prete di Bologna e professore di Liturgia e greco biblico, propone «per la moltitudine» nel volumetto appena uscito Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucaristiche (Edb). Un altro studioso, Silvio Barbaglia, prete di Novara e professore di Esegesi, suggerisce «per moltitudini» con un intervento sulla rivista «Fides et Ratio» intitolato Per tutti oppure per molti? I due hanno l’appoggio del decano dei teologi italiani Severino Dianich, prete di Pisa, che firma l’introduzione al volume di Pieri.
Per Pieri «una soluzione per avvicinarsi alla lettera della formula senza tradirne il senso è rappresentata dalla felicissima traduzione del messale francese, pour la multitude, che sarebbe senza difficoltà adottabile in italiano e probabilmente anche nelle altre lingue romanze: per la moltitudine o se si preferisce per una moltitudine. Una tale traduzione, più vicina alla lettera del messale romano di quella attualmente in uso, aiuterebbe a dischiudere a un maggior numero di fedeli il cuore stesso di quella preghiera eucaristica con la quale per oltre un millennio e mezzo l’Occidente ha celebrato la messa, professando la propria fede e alimentando la propria devozione».
«Credo - scrive Barbaglia - che l’espressione letterale più corretta che renda il senso innovativo dato dalla redazione liturgica sia: per voi e per moltitudini. Ma l’espressione pro multis potrebbe anche essere resa con due termini invece di uno: attraverso un sostantivo che esprima l’idea della moltitudine, accompagnato da un aggettivo che ne sottolinei la dimensione in-definita. L’aggettivo della lingua italiana - proveniente dalla lingua latina - che meglio esprime tutto ciò è immenso, che significa senza misura: esattamente la dimensione di ciò che non è delimitato o definito. L’esito dell’analisi qui condotta sarebbe dunque per voi e per moltitudini immense».
Tra le accezioni di «moltitudine» il dizionario Battaglia elenca come sesta - e con una quantità di esempi, dal Pallavicino al Leopardi - quella che indica «l’universalità, la generalità, la maggioranza degli uomini, l’umanità intera». E in questo significato che già l’adottarono i vescovi francesi e che la propongono ora gli studiosi italiani, sostenendo che «moltitudine» corrisponde meglio di «molti» al senso del greco «polloi» che è nei Vangeli (e dell’ebraico «rabbim» che forse fu sulla bocca di Gesù), dal quale viene il latino «multis», perché indica una «quantità senza misura», aperta alla totalità, mentre «molti» nella nostra lingua si oppone a «tutti» e suona quindi come escludente la totalità
Quell’Ultima Cena con le sedie vuote
di Bruno Forte (Corriere della Sera, 26 agosto 2012)
«Per tutti» o «per molti?». «Equivalenza dinamica» o «equivalenza formale» nell’esercizio della traduzione? «Corrispondenza letterale» o «corrispondenza strutturale» all’originale? Queste antitesi stanno animando il dibattito («la Lettura», 12 agosto) intorno all’opportunità di modificare la traduzione della formula della consacrazione eucaristica del vino, che nell’attuale versione suona: «Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me».
L’espressione dibattuta è quel «per tutti», che - se rende correttamente il senso generale del greco hypér pollôn e del latino pro multis - è tuttavia meno precisa sul piano strettamente esegetico e su quello teologico.
Sul piano esegetico, Papa Benedetto XVI, nella lettera inviata ai vescovi tedeschi sull’argomento (14 aprile), precisa: «Negli anni Sessanta, quando il messale romano, sotto la responsabilità dei vescovi, dovette essere tradotto in lingua tedesca, esisteva un consenso esegetico sul fatto che il termine "i molti", "molti", in Isaia 53,11, fosse una forma espressiva ebraica per indicare l’insieme, "tutti". La parola "molti" nei racconti dell’istituzione di Matteo e di Marco era pertanto considerata un semitismo e doveva essere tradotta con "tutti". Ciò venne esteso anche alla traduzione del testo latino, dove pro multis, attraverso i racconti evangelici, rimandava a Isaia 53 e quindi doveva essere tradotto con "per tutti". Tale consenso esegetico si è sgretolato; non esiste più. Nel racconto dell’Ultima Cena della traduzione unificata tedesca si legge: "Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti". Ciò rende evidente una cosa molto importante: la traduzione di pro multis con "per tutti" non è stata una traduzione pura, bensì un’interpretazione, che era, e tuttora è, ben motivata, ma è una spiegazione e dunque qualcosa di più di una traduzione».
A quest’affermazione viene da alcuni obiettato che «tradurre» è comunque sempre «interpretare»: «Anche laddove lessicalmente possibile, il calco linguistico può nascondere un profondo tradimento del senso» (Francesco Pieri, Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucaristiche, Dehonianna, Bologna 2012). Vale, tuttavia, specialmente per il testo sacro e per la lingua liturgica il principio che il linguaggio da usarsi nelle traduzioni ha e deve mantenere una sua alterità, che in certa misura lo sottrae ai gusti spesso effimeri del tempo e delle mode: «La sacra Parola - scrive ancora il Papa - deve emergere il più possibile per se stessa, anche con la sua estraneità e con le domande che reca in sé... La Parola deve essere presente per se stessa, nella sua forma propria, a noi forse estranea; l’interpretazione deve essere misurata in base alla sua fedeltà alla Parola, ma al tempo stesso deve renderla accessibile a chi l’ascolta oggi».
Da una parte, dunque, è bene rispettare l’«estraneità» dell’originale; dall’altra, bisogna cogliere la «coappartenenza» ad esso dell’uditore attuale: «Alla Chiesa è affidato il compito dell’interpretazione affinché - nei limiti della nostra rispettiva comprensione - ci giunga il messaggio che il Signore ci ha destinato... Anche la traduzione più accurata non può sostituire l’interpretazione: fa parte della struttura della Rivelazione il fatto che la Parola di Dio venga letta nella comunità interpretante della Chiesa, che la fedeltà e l’attualizzazione si leghino tra loro».
Ci si deve muovere, dunque, fra Scilla e Cariddi, anche se è evidente che tutte le soluzioni intermedie, per quanto apprezzabili, siano inevitabilmente compromissorie. Così quella preferita dai vescovi francesi - pour la multitude - o l’altra con l’articolo indeterminativo, sostenuta nel citato libro di Pieri: «per una moltitudine», così argomentata: «Moltitudine si oppone a pochi, ma non si oppone a tutti e lascia aperta l’interpretazione in tal senso». L’uso dell’articolo indeterminativo rimanderebbe anche alla traduzione italiana di Apocalisse 7,9, riferita ai salvati: «Ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani».
All’argomentazione esegetica va unita quella teologica, a mio avviso particolarmente chiarificatrice: mi riferisco alla distinzione comune nella tradizione teologica fra redemptio objectiva e redemptio subjectiva. La ripropone, ad esempio, un geniale tomista del secolo scorso, il canadese Bernard Lonergan: «È vero che Cristo è la causa efficiente necessaria a che noi compiamo opere salutari... ma non è vero che tutta l’opera di Cristo per noi si riduca alla ragione efficiente ed esemplare, in quanto la redenzione come mezzo o, come talvolta si dice, la redenzione oggettiva vuol dire più di questo» (traduzione del De bono et malo. Supplementum). Quale sia questo di più, lo si comprende dalla necessità del libero assenso della creatura all’opera del Redentore: se «la redenzione obiettiva si riferisce all’opera di Cristo compiuta per amore nostro», la redenzione soggettiva è il nostro appropriarci del dono gratuitamente offertoci dal Salvatore attraverso l’adesione ad esso.
Mi sembra allora corretto ragionare così: col «per tutti» si mette bene in luce la redenzione oggettiva, la destinazione universale del dono della salvezza offerta in Cristo; col «per molti», presupponendo ovviamente il dato oggettivo, si mette in luce la dignità e la necessità della libera scelta di ciascuno. Teologicamente, mi sembra insomma più rispettosa della libertà di ognuno la traduzione «per molti», che peraltro in nessun modo esclude l’offerta della salvezza a tutti fatta da Gesù in Croce. Per questo preferisco la traduzione "per molti" e ritengo che ben spiegata possa essere di aiuto e di stimolo a tanti.
I vescovi italiani preferiscono la vecchia formula
di Luigi Accattoli (Corriere della Sera, 26 agosto 2012)
Il dibattito sulla formula della consacrazione del vino nelle lingue moderne dura da quarant’anni. La questione è stata riproposta dal Papa l’aprile scorso sollecitando il passaggio dal «sangue sparso per tutti» al «sangue sparso per molti», perché si abbia una traduzione meno «interpretativa» e più letterale del latino pro vobis et pro multis.
Chi vuole mantenere «per tutti» esprime il timore che i fedeli non intendano correttamente il nuovo testo e lo interpretino nel senso di una «restrizione» del numero dei salvati. Sostiene inoltre che il polloi greco - che è all’origine del multis latino - non si oppone a «tutti» come il «molti» della nostra lingua e che dunque occorre tradurlo con una parola che resti «aperta» alla totalità.
Per primi si sono adeguati all’indicazione del Papa i vescovi ungheresi, seguiti da alcuni episcopati dell’America Latina e dagli anglofoni. Sono in arrivo - nel senso che si sono detti favorevoli al «molti» ma non è ancora pubblicato il nuovo Messale - tedeschi, spagnoli e portoghesi.
Gli italiani restano su una posizione di attaccamento al «tutti»: hanno votato a maggioranza per il suo mantenimento nel 2010. Ultimamente due studiosi hanno proposto una traduzione che echeggi quella francese, che in italiano verrebbe a suonare «per una moltitudine», o «per moltitudini immense»: sono Francesco Pieri, professore a Bologna di liturgia, e Silvio Barbaglia, professore di esegesi biblica a Novara. Il testo di Bruno Forte, vescovo e teologo, che pubblichiamo qui accanto e che invita ad accogliere l’indicazione papale, riequilibra le posizioni.
«SUL “PRO MULTIS” IL PAPA SBAGLIA». IL TEOLOGO SCRIVE, L’EDITORE CATTOLICO PUBBLICA, I VESCOVI LEGGONO
di Adista Notizie n. 29 del 28/07/2012
36800. BOLOGNA-ADISTA. Un libro pubblicato da una casa editrice cattolica che critica apertamente una decisione del papa è di per sé già una notizia. Lo è ancora di più se quel libro ha la prefazione di un noto teologo. Ma se, come in questo caso, il libro è stato addirittura inviato in copia saggio a tutti i vescovi italiani, la notizia allora è davvero sorprendente. Ma assolutamente vera.
Il caso è quello di un saggio già apparso in una versione più breve su Il Regno Attualità (10/2012), per essere poi pubblicato in volume, dopo essere stato riveduto ed ampliato. Si tratta di Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucaristiche, un libro scritto da Francesco Pieri, docente di Greco biblico e Patrologia alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna, presentato da Severino Dianich, già presidente dell’Associazione Teologica Italiana, e pubblicato dalla casa editrice Dehoniana Libri (che appartiene alla galassia editoriale dei religiosi dehoniani ma non va confusa con Edb, le Edizioni Dehoniane di Bologna).
Nel libro (Dehoniana Libri, 2012, pp. 48, 4,50), Pieri sostiene l’inopportunità della traduzione «il calice del mio sangue versato per molti» (invece che «per tutti»), voluta da Benedetto XVI attraverso la Pontificia Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (la quale a sua volta ne ha informato i presidenti delle diverse Conferenze episcopali nazionali in una lettera datata 17 ottobre 2006). La formula in latino, presente nel Missale Romanum, unico per tutte le nazioni e su cui si basano le traduzioni autorizzate nelle lingue nazionali, è: «Accipite et bibite ex eo omnes: / hic est enim calix sanguinis mei / novi et aeterni testamenti: / qui pro vobis et pro multis effundetur / in remissionem peccatorum. / Hoc facite in meam commemorationem». L’espressione pro multis dopo il Concilio fu tradotta in italiano con la formula “per tutti” e nella maggior parte delle altre lingue in modo analogo: in tedesco für alle, in inglese for all, in spagnolo por todos los hombres, in francese pour la multitude. Dietro le questioni linguistiche, quella, di enorme rilevanza teologica e pastorale, dell’universalità del messaggio e della testimonianza di Gesù. Per questa ragione, nel corso degli anni più recenti, molte sono state le resistenze delle Conferenze episcopali nazionali a recepire la decisione del Vaticano. E diversi vescovi e consigli presbiterali hanno contestato apertamente l’ordine di Roma. Evitando di conformarvisi. Anche in Italia, nonostante un episcopato molto moderato ed allineato ai vertici ecclesiastici, la Cei stenta ad adeguarsi e, come ha recentemente raccontato Sandro Magister sull’Espresso, nel novembre del 2010, nel corso della loro Assemblea Generale, soltanto 11 dei 187 vescovi presenti votarono in favore della formula «per molti». Inoltre, come spiega Pieri nel suo libro, la decisione di Ratzinger lascia perplessi anche nel metodo, oltre che nel merito. Il Concilio ha riconosciuto alle «autorità ecclesiastiche territoriali» la competenza circa la traduzione e l’adattamento dei testi liturgici, che la Santa Sede ha poi il compito di approvare e promuovere, dopo aver fatto eventuali osservazioni e correzioni. Questo papa ha invece scelto il percorso inverso, come del resto ha fatto su molte altre questioni (e Wojtyla prima di lui), quello che va dal centro alla periferia, minando così quella «reciprocità tra primato della sede romana e collegialità dei vescovi posti a capo delle Chiese» che pure era un assunto del Vaticano II.
Nel merito, l’autore rileva inoltre come non esista un testo biblico nel quale sia presente la formula «pro vobis et pro multis»: per questo, scrive, «le due espressioni sono da considerarsi come sostanzialmente equivalenti, nei rispettivi contesti, e non è esegeticamente corretto contrapporle».
Del resto, rileva ancora Pieri, è evidente che l’espressione «per molti» suona diversamente alle nostre orecchie rispetto all’intenzione di Marco e Matteo: «“Molti” si oppone in italiano sia a “pochi” che a “tutti”»; quindi in diverse frasi la parola “molti” può di fatto equivalere sia a “non pochi”, sia a “non tutti”. L’autore cita a supporto della sua tesi il biblista Albert Vanhoye, il quale spiega che «la parola ebraica rabbim significa soltanto che c’è di fatto “un grande numero”, senza specificare se esso corrisponda o meno alla totalità».
E allora, come tradurre efficacemente? Una soluzione secondo Pieri c’è, ed avrebbe il pregio di salvare “capra” (cioè una maggiore fedeltà nella traduzione), e “cavoli” (ossia cercare di non tradire il senso profondo delle parole di Gesù): «Essa è rappresentata dalla felicissima traduzione del Messale francese “pour la multitude”, che potrebbe senza molte difficoltà essere tradotta in italiano e probabilmente anche nelle altre lingue romanze con la formula “per la moltitudine” o “per una moltitudine”. Con il vantaggio evidente che, proprio come rabbim, “moltitudine” si oppone a “pochi”, ma non si oppone a “tutti”, e lascia aperta l’interpretazione in tal senso. Accogliere tale traduzione nella liturgia della Chiesa italiana offrirebbe un reale aiuto a una corretta comprensione del testo e insieme un esempio d’intelligente ricezione delle disposizioni vaticane, in grado di fungere da modello anche ad altre Chiese particolari». (valerio gigante)
LITURGIA
Il sangue di Gesù «per molti» e perché lo riconoscessero
di Mimmo Muolo (Avvenire, 07.08.2012)
La questione del pro multis, sulla quale il Papa si è pronunciato con la lettera del 14 aprile scorso ai vescovi tedeschi, continua a essere approfondita a livello accademico da teologi e liturgisti con contributi sensibili alla riflessione di Benedetto XVI. Tra questi quelli di Francesco Pieri, sacerdote bolognese e docente di liturgia, e di Silvio Barbaglia, presbitero novarese e docente di esegesi dell’Antico e Nuovo Testamento. Il primo ha dedicato all’argomento un libro in uscita per i tipi della Dehoniana Libri (Per una moltitudine. Sulla traduzione delle parole eucaristiche). Il secondo un saggio sulla rivista Fides et Ratio dell’Istituto Superiore di Scienze religiose "Romano Guardini" di Taranto.
In discussione non è in alcun modo l’indicazione pontificia di adottare il pro multis nella liturgia, ma il modo migliore di tradurre l’espressione latina in italiano, dove - come hanno evidenziato autorevoli studiosi e numerosi pastori - dire semplicemente «per molti», dopo decenni di «per tutti», potrebbe anche risultare disorientante. Problema che nella traduzione in tedesco non è stato ravvisato e, infatti, in Germania sta per essere adottata la formula «für viele» e anche in altre parti del mondo (America Latina, Spagna, Ungheria, Stati Uniti) si sta tornando all’uso del «per molti», mentre in Francia si è optato da tempo per l’espressione «per la moltitudine». Una scelta, questa, ritenuta valida sia da Pieri, sia da Barbaglia, il quale ultimo tra l’altro dichiara di essere partito dall’intenzione di dimostrare la maggiore plausibilità della traduzione «per tutti», ma di aver cambiato idea nel corso della sua ricerca.
Vediamo più da vicino la questione. Attualmente al momento della consacrazione del vino il sacerdote dice: «Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati». Questa traduzione, entrata in uso con il Messale di Paolo VI, come ricorda Pieri nel suo saggio, era imperniata su un’interpretazione - detta tecnicamente inclusiva e all’epoca unanimemente accolta dagli esegeti - secondo cui il «per molti» di fatto equivarrebbe al «per tutti». Ora, però, come ha ricordato il Papa nella sua lettera ai vescovi tedeschi, su questa tesi non c’è più il «consenso esegetico» di qualche decennio fa. E si impone, dunque, una maggiore fedeltà agli originali neotestamentari che fondano il testo liturgico. I quali originali sono in particolare due: Marco 14,24 e Matteo 26,28. Il pro multis ripreso dalla liturgia latina nelle parole sul calice deriva esattamente da qui.
Ed eccoci al problema della traduzione in italiano. Sia Pieri nel suo testo, sia il teologo Severino Dianich, nella prefazione, ricordano che nella lingua ebraica e nelle lingue antiche l’espressione «per molti» indica semplicemente un grande numero, senza specificare se esso corrisponde o meno alla totalità. Ecco perché Pieri conclude: «Nel caso del pro multis riteniamo che esista una soluzione per avvicinarsi alla lettera della formula senza tradirne il senso. Essa è rappresentata dalla felicissima traduzione del Messale francese, pour la multitude, che sarebbe senza difficoltà adottabile in italiano e probabilmente anche nelle altre lingue romanze: "per la moltitudine" o se si preferisce "per una moltitudine". Una tale traduzione, più vicina alla lettera del Messale romano di quella attualmente in uso, aiuterebbe a dischiudere a un maggior numero di fedeli il cuore stesso della preghiera eucaristica».
Anche per Barbaglia la parola «molti» è portatrice di una natura «indefinita», funzionale ad aprire in termini universali ex parte Dei la destinazione del dono salvifico». Solo Dio conosce l’identità e il numero dei molti. Per cui il biblista piemontese propone di tradurre «per voi e per moltitudini», eventualmente aggiungendo l’aggettivo «immense» , proprio per sottolineare la dimensione indefinita.
Sin qui il dibattito accademico. Resta il fatto che Gesù ha detto «per molti» e non «per tutti». Ma egli non è forse venuto a salvare tutti gli uomini? La risposta di Benedetto XVI è nella già ricordata lettera all’episcopato tedesco: «La ragione vera consiste nel fatto che Gesù in tal modo si è fatto riconoscere come il Servo di Dio di Isaia 53». Cioè, dice il Papa, in tal modo «egli si è rivelato con la figura annunciata dalla profezia».
Mimmo Muolo
A San Pietro niente crisi casse vaticane in salute
di Luca Kocci (il manifesto, 8 luglio 2012)
Niente spending rewiew in Vaticano. I conti del papa, nonostante qualche scivolone causato da investimenti finanziari infelici, godono di ottima salute. Inoltre lo Ior, benché assediato da «corvi», magistrati e funzionari europei, si rivela sempre ricco e generoso, e fedeli e diocesi di mezzo mondo provvedono a non lasciare mai vuote le casse di Oltretevere.
Non a caso, dalla santa Sede si esprime soddisfazione per la situazione economica. Compare anche qualche invito «al contenimento delle spese», ma padre Lombardi, direttore della sala stampa vaticana, rassicura: nessuno dei quasi 5mila dipendenti del Vaticano sarà tagliato o finirà «esodato». I bilanci del Vaticano del 2011 sono stati resi noti giovedì sera al termine della riunione del Consiglio dei cardinali per lo studio dei problemi organizzativi ed economici presieduto da Tarcisio Bertone.
La santa Sede, cioè il governo centrale della Chiesa cattolica mondiale - che comprende tutti gli organismi della Curia, l’Amministrazione del patrimonio della santa Sede e i mezzi di comunicazione - ha registrato entrate per poco meno di 249 milioni di euro ed uscite per quasi 264 milioni, con un saldo negativo di 14 milioni e 890mila euro (lo scorso anno invece c’era stato un utile di quasi 10 milioni).
Le spese più ingenti sono state quelle relative agli stipendi dei dipendenti e ai mezzi di comunicazione, Osservatore Romano e Radio Vaticana. In attivo invece il Ctv - il Centro televisivo vaticano che riprende in esclusiva le immagini del papa e degli eventi in Vaticano e le vende alle tv di tutto il mondo - e la Libreria editrice vaticana (Lev), proprietaria dei diritti d’autore sui discorsi e gli scritti di Ratzinger, dei papi dell’ultimo cinquantennio e dei vari dicasteri.
Ad incidere sul disavanzo, spiegano i cardinali, anche «l’andamento negativo dei mercati finanziari mondiali»: ovvero operazioni sui mercati azionari e monetari finite male.
Affari decisamente migliori per il Governatorato della Città del Vaticano, l’organo a cui il papa - che rimane il sovrano assoluto - ha affidato il potere esecutivo e la gestione del territorio: l’attivo è di quasi 22 milioni, grazie soprattutto ai musei vaticani, che hanno incassato 9 milioni in più del 2010. Complessivamente, quindi, c’è un risultato positivo di 7 milioni. Inferiore al +30 del 2010, ma in tempi di crisi lo stato del papa può ritenersi più che soddisfatto.
Anche perché ingenti iniezioni di liquidità arrivano da altre parti: lo Ior ha versato al papa 49 milioni «a sostegno del suo ministero apostolico»; le diocesi del mondo hanno versato 26 milioni «per il mantenimento» della Curia romana; e l’Obolo di San Pietro - le offerte dei fedeli al pontefice «per le necessità della Chiesa universale e per le opere di carità» - ha fruttato quasi 57 milioni di euro.
Qualche segnale di insofferenza si intravede, ma sembrano gocce nell’oceano, come quello di don Vitaliano Della Sala, amministratore parrocchiale a Mercogliano: «Dopo le recenti notizie riguardanti il Vaticano che, tra l’altro, sono una ulteriore prova dell’opaca gestione della sua banca e delle sue finanze, penso sia un dovere cristiano dare un segnale forte perché si metta mano subito ad una riforma seria dello Ior e della Curia», ha detto il prete pochi giorni fa, alla vigilia della raccolta dei fondi per l’Obolo del 2012. «Celebreremo la Giornata della carità devolvendo le offerte raccolte durante le messe al Fondo di solidarietà per le famiglie in difficoltà economica, da poco istituito a Mercogliano».
Se le finanze stanno bene, altrettanto non si può dire della situazione politica vaticana. Nonostante le rassicurazioni di Ratzinger - che prima di partire per Castel Gandolfo ha pubblicamente confermato, in ossequio al galateo, la fiducia a Bertone - il futuro del segretario di Stato, al centro del Vaticanleaks, pare segnato: a dicembre compirà 78 anni (3 in più del pensionamento canonico) e probabilmente intorno a quella data lascerà l’incarico. Ratzinger ha già avviato delle consultazioni informali con alcuni cardinali (fra cui Ruini, principale avversario di Bertone), per preparare la successione.
E intanto ha scelto un consulente per la comunicazione - il corrispondente da Roma di Fox news, Greg Burke, dell’Opus Dei, come era Navarro Valls ai tempi di Wojtyla - da affiancare a Bertone, per evitare le fughe di notizie e il caos mediatico delle scorse settimane.
Dopo l’estate verrà nominato anche il successore di Gotti Tedeschi alla presidenza dello Ior. E a giorni arriverà il responso degli ispettori di Strasburgo di Moneyval che dovranno decidere se inserire o no lo il Vaticano (e lo Ior) nella white list degli Stati giudicati affidabili in tema di riciclaggio.
La Corte Suprema degli Stati Uniti approva la Legge sanitaria
di Adam Liptak e John H. Cushman Jr
in “The New York Times” del 28 giugno 2012 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
La Corte Suprema ha approvato oggi, giovedì 28 giugno, l’estensione dell’assistenza sanitaria contenuta nella revisione alla Legge sanitaria proposta dal presidente Obama, affermando che è lecito affidare al Congresso il potere di alzare le tasse per garantirne la copertura finanziaria.
Il voto è stato di 5 favorevoli contro 4 contrari con il presidente della Corte Suprema, John G. Roberts Jr., che sì è schierato dalla parte dei membri liberal del tribunale.
La decisione rappresenta una vittoria per il presidente Obama e tutti i Democratici del Congresso, dal momento che è stata confermata la linea centrale dell’attuale presidenza. La sentenza della Corte ha riaffermato i cosiddetti diritti individuali secondo i quali sarà consentito alla stragrande maggioranza dei cittadini americani di poter usufruire d’ora in poi di un’assicurazione sanitaria, e in caso contrario sono previste sanzioni.
Paradossi di una fine di pontificato
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” del 16 giugno 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Furti, macchinazioni, complotti, tradimenti, minacce: il Vaticano ha forse fatto in queste ultime settimane un salto indietro di secoli? Sembra perfino che la morte si aggiri nei vicoli lastricati di Roma, se si deve credere all’ex presidente della banca del Vaticano: congedato in fretta dal suo incarico, il 23 maggio, Ettore Gotti Tedeschi ha assicurato poco dopo di “temere per la sua vita”. Nemmeno un anno, o quasi, di pontificato di Benedetto XVI, è stato risparmiato da scandali e rivelazioni che hanno dato una coloritura “noir” ai metodi di governo di alcuni gerarchi della “Chiesa universale”. Iniziato nel 2005 come regno di transizione di un papa anziano e poco intraprendente, questo pontificato sconfina, per certi aspetti, nel tragico.
Dopo gli scandali di pedofilia e i numerosi casi di incomprensione tra il papa e il mondo, ora i Vatileaks, queste pubblicazioni di lettere confidenziali sulla stampa, delineano dei contorni di una fine regno paradossale. Benedetto XVI sembra come superato dalla vastità dei cantieri che lui stesso ha dovuto aprire, suo malgrado. E non è certo che l’energia e il tempo che gli restano gli bastino per rimettere ordine nella curia, per ristabilire la fiducia e restaurare un’immagine appannata.
Eppure Benedetto XVI sapeva che cosa doveva aspettarsi. Poco prima della sua elezione, il cardinale Ratzinger aveva fatto una diagnosi terribile. “Spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli!”, aveva affermato durante la Via Crucis nel 2005. Ahimè! La politica di “trasparenza e di purificazione”, rivendicata da allora dal papa in materia finanziaria o sul problema della morale del clero, si scontra con le resistenze all’interno della curia e negli episcopati. Certo, affinché che “la barca” trovasse acque meno torbide, sarebbe stato necessario un papa politico, esperto nell’amministrazione degli uomini e in grado di sventare gli intrighi vaticani, un’arte italiana nella quale eccellono i membri della curia. Benedetto XVI è l’esatto contrario. Prima di tutto teologo, ha fatto una scelta diversa. Con una costanza che suscita l’ammirazione dei suoi sostenitori ma spiega in parte le disavventure del pontificato, l’ottuagenario ha preferito dedicare le sue forze alla restaurazione di una fede cattolica che considera in pericolo.
Costantemente, quindi, il papa invita i credenti a ritrovare “la lettura della parola di Dio”, a ritornare “al sacro”, a difendere posizioni “non negoziabili” in materia di morale, a mostrarsi fedeli alla “tradizione della Chiesa”, al punto da fare promesse agli integralisti contrari alla modernità... Questa strategia è adatta al “nocciolo duro” dei credenti. Ma non per una gestione politica e umana della Chiesa, tale da renderla più efficiente e seducente.
Così, dopo sette anni di pontificato, le riforme in materia di trasparenza e di governance, che il suo predecessore Giovanni Paolo II non aveva saputo né voluto intraprendere, restano incompiute. Dovendo affrontare scandali ricorrenti nel funzionamento dell’Istituto delle Opere di Religione (IOR), il Vaticano è stato spinto dagli organismi europei a mettere la sua banca in regola con le norme internazionali di lotta al riciclaggio di denaro sporco, per avere la possibilità di essere inserito nella “white list” dei paesi virtuosi. Le recenti fughe di documenti e la destituzione a sorpresa di Gotti Tedeschi fanno pensare che non tutti condividano l’opinione del papa e/o i metodi impiegati.
Lo scandalo Vatileaks ha messo in luce ciò che molti osservatori avevano già notato: una polarizzazione sulla persona del cardinal Bertone, numero due del Vaticano e fedele a Benedetto XVI, alimentata dall’importanza crescente dei suoi amici italiani negli affari della curia e nelle poste in gioco della successione. Se dovesse essere fatto oggi un conclave, gli italiani sarebbero presenti con 30 elettori su 125.
Questa situazione rende difficile per il Vaticano l’uscita dal suo italocentrismo, nel momento in cui la mondializzazione e le sfide che si presentano alla Chiesa (scristianizzazione da un lato, corruzione dall’altro, concorrenza, altrove, con il protestantesimo o con l’islam...) esigerebbero uno sguardo plurale, collegiale e nuovo sulle situazioni dell’istituzione. Ma la Chiesa resta segnata da un centralismo mortifero; il papa e le persone a lui vicine si muovono in un universo da “ancien régime”, in cui vige una “benevolenza fraterna”, dove i cattivi soggetti vengono spostati senza essere mai, o quasi mai, sanzionati. Al contempo, una parte dei fedeli e del clero hanno fatto proprie le esigenze di trasparenza, di individualismo, di democrazia, di concertazione delle società moderne e del loro funzionamento attraverso le reti.
Non avendo tenuto conto di queste nuove realtà, certe decisioni prese a Roma vengono contestate in Germania, negli Stati Uniti o in Giappone. Ci sono credenti fanno enormi sforzi per restare “cattolici”, ma il “cattolicesimo romano” verticale e onnipotente non sta più loro bene. Perfino dei preti arrivano a definirsi ufficialmente “disobbedienti”. Nel momento in cui occorrerà fare un bilancio, la “Chiesa universale” che sarà lasciata in eredità da Benedetto XVI al suo successore potrebbe rivelarsi addirittura più fragile e frammentata che non profondamente “purificata” e rinnovata.
«Eucaristia cuore pulsante della nostra vita»
di Benedetto XVI *
Cari fratelli e sorelle!
Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità. E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato.
Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento. E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine. Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II ha penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo. In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio. Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane naturalmente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. In effetti - come spesso avviene - per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro.
In questo caso, l’accentuazione posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare. Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana.
In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre.
A questo proposito, mi piace sottolineare l’esperienza che vivremo anche stasera insieme. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa, che abbiamo vissuto diverse volte nella Basilica di San Pietro, e anche nelle indimenticabili veglie con i giovani - ricordo ad esempio quelle di Colonia, Londra, Zagabria, Madrid.
E’ evidente a tutti che questi momenti di veglia eucaristica preparano la celebrazione della Santa Messa, preparano i cuori all’incontro, così che questo risulta anche più fruttuoso. Stare tutti in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento, è una delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, che si accompagna in modo complementare con quella di celebrare l’Eucaristia, ascoltando la Parola di Dio, cantando, accostandosi insieme alla mensa del Pane di vita.
Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale. Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).
Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia. Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato.
La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito. Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita.
Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo. Amen.
Bianchi e Cacciari rilanciano la sfida evangelica: ama il prossimo tuo
di Giuseppe Cantarano (l’Unità, 17.05.2012)
MA PERCHÉ DOVREMMO AMARE IL NOSTRO PROSSIMO? NON HA FORSE CESSATO DI ESISTERE - COME CI HA SPIEGATO LO PSICANALISTA LUIGI ZOJA ( LA MORTE DEL PROSSIMO, EINAUDI, PP. 128, EURO 10,00 ) dopo la novecentesca «morte di Dio»? E poi, chi mai sarebbe il prossimo che dovremmo amare? Nostro fratello? L’Abele di cui Caino si rifiutò di essere il custode? Oppure lo straniero? Quello che si presenta con il volto scavato del povero? O con i vestiti sudici del migrante che ci chiede ospitalità?
Il priore di Bose, Enzo Bianchi, e Massimo Cacciari hanno provato a rispondere a questi interrogativi. Commentando il mandatum novum ( Ama il prossimo tuo, il Mulino, pagine 141, euro 12,00 ). Che recita: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e tutta la tua anima e tutte le tue forze e tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27 ). Un comandamento la cui effettiva applicabilità risulta da sempre molto difficile.
Ebbene, il prossimo che dovremmo amare - ci ricordano Bianchi e Cacciari - non è solo colui che ci sta vicino. Il nostro fratello, l’amico. Ma l’altro, chi è lontano, lo straniero. È questo l’inaudito insegnamento evangelico. Ma c’è di più. Perché le «scandalose» parole di Gesù non ci invitano soltanto ad amare chi ci è vicino e lo straniero. Ma addirittura chi ci è ostile. Cioè il nostro nemico: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni» (Mt 5,44 ).
LA PARABOLA DEL SAMARITANO
Nel prossimo, insomma, dobbiamo sempre vedere anche il nemico. Non solo perché l’inimicizia abita dentro ciascuno di noi. Ma perché ciascuno di noi pur nella comune Paternità celeste è inassimilabile all’altro. Come nella parabola del samaritano. Che soccorre l’uomo che trova mezzo morto ai bordi della strada. Facendosi lui stesso prossimo a quel sofferente. Ma poi se ne va. Torna sui suoi passi. Procede verso la sua strada.
Enzo Bianchi e Massimo Cacciari proponendoci questa forma di prossimità che deve mantenersi sempre straniera ci rilanciano la «rivoluzionaria» sfida evangelica. La sola in grado di liberarci da ogni egoistico possesso. Anche dal possesso più geloso, quello della nostra psyché. Per diventare - come San Francesco - davvero poveri. Poiché la povertà francescana - l’Altissima pauperitas - non è soltanto svuotarsi di qualche bene materiale. Il vero povero - scrive Cacciari ( Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi, pp. 86, euro 7,00 ) non si svuota solo per accogliere il Signore. Ma per accogliere l’altro, in tutti i suoi volti: «Farsi poveri significa liberarsi per poter perfettamente amare».
AMA IL PROSSIMO TUO, Enzo Bianchi e Massimo Cacciari pagine 141 euro 12,00 Il Mulino
Monti e Papa ad Arezzo : contestazioni in arrivo.
Il Pontefice Ratzinger e il Premier Monti si troveranno ad Arezzo per una visita formale.
di Franca Corradini *
Per questa visita si stima (a parere di chi scrive in difetto.. ) un costo totale di :500.000 Euro dei cittadini italiani,di cui 120.000 dei cittadini della Regione Toscana e 90.000 dei cittadini di Arezzo. Un gruppo di cittadini si sta organizzando raccogliendo adesioni attraverso un appello di cui riportiamo una parte : "...siamo cittadini delle città di Arezzo e Firenze, studenti e lavoratori. Apprendiamo da poco tempo che il Pontefice Ratzinger e il Premier Monti si troveranno ad Arezzo per visite formali il 13 maggio p.v. Chiediamo la vostra partecipazione all’organizzazione di un presidio unitario di protesta contro le loro politiche e per una società più laica, giusta, civile e vivibile e per dimostrare che esiste un’Arezzo, una Toscana molto diversa da quanto vogliono farci credere che sia....".
In tempo di crisi economica questo spreco di denaro pubblico pare un’insulto ai giovani e non disoccupati, ai precari, ai tanti cassaintegrati che popolano la cittadina toscana.
* A SCUOLA DI BUGIE. Viaggio tra gli errori e gli orrori della scuola italiana, 3 maggio 2012
Dedicati al dono i «Dialoghi sull’uomo» di Pistoia
di Redazione (il manifesto, 3 maggio 2012)
«In un momento di crisi gravissima come quella che sta attraversando il nostro paese, e più in generale il cosiddetto “sistema occidentale”, sembra utile porsi da un’angolatura antropologica per analizzare il perché del primato dei rapporti economici nella nostra società. Diviene dunque importante ed urgente parlare del “dono” in una società in cui l’immaginario è totalmente condizionato dall’ideologia del mercato e in cui sembra impossibile uscire dagli schemi dominanti, dove i rapporti fra esseri umani sono subordinati ai rapporti fra uomini e cose, e dove i valori che orientano l’agire non sono più basati su legami sociali ed etici».
Così Giulia Cogoli, ideatrice e direttrice di «Dialoghi sull’uomo» (www.dialoghisulluomo.com) ha presentato il tema della terza edizione del festival di antropologia del contemporaneo, che si terrà dal 25 al 27 maggio a Pistoia. In programma tre giornate con una ventina di appuntamenti - incontri, dialoghi e letture - nel centro storico della città toscana.
Tra gli ospiti della manifestazione, gli antropologi Marco Aime, Mark Anspach, Fabio Dei e Marino Niola; il sociologo Zygmunt Bauman; Alessandro Bergonzoni; Padre Enzo Bianchi; la filosofa Laura Boella con Gherardo Colombo; Anna Bonaiuto con Stefano Bartezzaghi; gli economisti Luigino Bruni e Stefano Zamagni; i filosofi Maurizio Ferraris, Salvatore Natoli ed Elena Pulcini; la medievalista Chiara Frugoni; gli scrittori Daniel Pennac e Stefano Benni; lo storico dell’arte Salvatore Settis.
“Potare è sempre una fatica, ma finalizzata alla fioritura"
intervista al vescovo Giancarlo Bregantini
a cura di Maria Teresa Pontara Pederiva (“Vatican Insider”, 30 aprile 2012)
“Sono solito paragonare questa crisi ad una sorta di potatura: quando si pota solo un esperto conosce quali rami vanno tagliati, ed è un po’ la fatica di questi giorni. Quando si pota non si vede il frutto, si intravede soltanto”. E’ questa la chiave di volta per leggere la storia di oggi, secondo monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso-Bojano e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace e membro del comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei cattolici. Classe 1948, appartenente alla congregazione degli Stimmatini, ordinato prete a Crotone, è stato vescovo di Locri-Gerace dal 1994 al 2007, come dire in prima linea per difendere la libertà delle persone dal laccio opprimente della mafia.
“E’ sempre possibile trasformare, rinnovare, rifiorire. Mai lasciarsi annientare dalla crisi, ma affrontarla con speranza e saper guardare lontano. Le foglie ingiallite possono cadere, ma le radici restano e, se sono solide, permetteranno sempre una rifioritura in primavera. Tutto è possibile, perché Dio è più grande di noi”.
Parole pronunciate sulla collina di Trento, presso la facoltà di scienze, nel corso di uno dei suoi rientri nella terra natale. E dalle sue origini contadine, legate alla terra della sua valle di Non - ma è stato anche prete-operaio in Veneto - mons. Bregantini (o padre Giancarlo, come preferisce essere chiamato) trae spesso le immagini per comunicare in maniera più immediata il suo pensiero. Ma esiste un’altra costante nei suoi interventi: l’ambiente contadino s’intreccia con il racconto biblico e raggiunge il cuore della gente, quasi una “teologia narrativa” per l’uomo di oggi, soprattutto giovani, come quei tanti giovani calabresi che lui ha letteralmente strappato dalle sgrinfie della malavita per avviarli ad un futuro di dignità, la dignità che hanno raggiunto con i tanti progetti avviati in collaborazione con il “suo” Trentino, terra della cooperazione avviata un secolo e mezzo fa da un altro prete, Lorenzo Guetti, per mitigare la povertà delle terre di montagna.
E per spiegare il problema del lavoro ai giovani, cui si prospetta un futuro oltremodo incerto, sceglie di frequente la storia di Rut, narrata nell’omonimo libro: Noemi, la suocera, rimasta vedova (e sono morti anche i due figli) è sfiduciata a tal punto che vorrebbe cambiare il suo nome da “gioia mia” (il significato di Noemi) a Mara (amara). Orpa, la prima nuora le volta le spalle, ma l’altra - Rut (“amica fedele”) - resta invece con lei mostrando una solidarietà effettiva, un aiuto concreto, una mano che accompagna e allevia la fatica. Insieme tornano a Betlemme nel “tempo dell’orzo”, segno delle risorse della terra da non sottovalutare, come pure dei talenti di ciascuno, giovani compresi e lì, per guadagnarsi da vivere per lei e la suocera, comincia a spigolare, a raccattare quanto è rimasto in terra dopo la mietitura, che è ben di più della precarietà. Ma Rut, nonostante la povertà, ha la dignità di una regina e il vescovo conclude “la dignità di una persona non dipende dal lavoro come insegna la Laborem Exercens (n. 6).
E ancora “la crisi non ci deve riempire di paura, ma di solidarietà e dignità. Abituiamo i nostri giovani ad usare le mani, a vangare l’orto ... oggi il nemico non è la disoccupazione, ma il vuoto che ha creato e che va riempito con dei valori, con l’orzo e la dignità dello spigolare”. A loro dico “tu solo puoi farcela, ma non puoi farcela da solo”.
Lei si era espresso sulla modifica dell’articolo 18, ma altri avevano pareri differenti, come lo spiega?
L’art. 18 non è stato deciso dal Concilio di Nicea: nel merito possono benissimo convivere pareri differenti e completarsi. La storia della Chiesa ha registrato tante opinioni sul tema della povertà lungo i secoli, pensiamo solo ad un ordine come quello dei francescani che ne hanno discusso allo spasimo.
I vescovi europei hanno pubblicato il documento per un’Europa di responsabilità e solidarietà, come lo declinerebbe per il nostro Paese?
La situazione che stiamo vivendo richiede innanzitutto un esserne consapevoli, ma senza paura. Occorre coltivare sempre nel cuore la speranza e fornire esperienze di sostegno alla speranza accompagnando le persone. Se poi pensiamo in termini di potatura, questo significa meno cose e più valori, meno meriti e più dono. E questa potrebbe essere anche l’ottica con cui si potrebbe vivere il prossimo Convegno delle famiglie a Milano.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
I tempi in cui i ladri erano appesi alle croci
di Mario Pirani (la Repubblica. 30.04.2012)
Negli ultimi tempi le tangenti non soddisfano più. Vi si aggiunge la richiesta di lingotti d’oro, pietre preziose, qualche appartamento d’incerta origine, o anche beni "minori" ma egualmente fruibili per parenti di scarsa volontà, figli svogliati e altro, aspiranti a tesi di laurea rilasciate da università fasulle, meglio se fornite di qualche timbro internazionale. È così accaduto che un giudice dell’Alta Corte, nel corso del recente provvedimento sull’illecito appalto del palazzo dei Marescialli di Firenze, si sia imbattuto in una subdola richiesta di un funzionario che ambiva ricevere una croce di cavalierato quale riconoscimento aggiuntivo per i suoi servigi sottobanco. Il magistrato, colto e spiritoso, ne fu molto divertito, ricordando una sarcastica quartina ottocentesca dello sfortunato giornalista Felice Cavallotti che, polemizzando con gli artefici del fallimento della Banca Romana, scrisse:
In tempi men leggiadri e più feroci,
i ladri li appendevano alle croci,
in tempi men feroci e più leggiadri,
si appendono le croci in petto ai ladri.
Le battute di spirito non furono però di buon auspicio. Qualche tempo dopo Cavallotti, infatti, cadde trafitto al 33° duello della sua vita. Peccato. Se questi scontri cavallereschi, ancorché perigliosi, fossero ancora in uso tutt’oggi, potrebbe anche darsi che molti inutili processi ci sarebbero risparmiati a vantaggio di qualche sentenza eseguita di mano propria e più rapidamente.
Allontanandoci dal paradosso per affrontare le caratteristiche proprie della corruzione, val la pena ripercorrere le vicende in proposito degli Stati americani, ristampate sovente in questo periodo. Lo storico C.Hove scrive in proposito: «Il Wisconsin era un vassallo degli interessi ferroviari, forestali ed elettorali che attraverso il complesso dei funzionari federali nominava ed eleggeva governatori, senatori e rappresentanti al Congresso, questi a loro volta usavano il potere per arricchire i loro sostenitori».
Una visione meno drastica della lotta alla criminalità la si evince dall’andamento da questa assunto negli Stati Uniti dell’ultimo decennio dell’Ottocento e del primo decennio del Novecento. L’argomento è stato ampiamente trattato in un convegno dell’Ambrosianeum, dove è stato approfondito il tema delle grandi ricchezze accumulate (poderosi trust, ferrovie, petrolio, ma anche grandi ineguaglianze, grandi miserie, grandi abusi di potere). Su tutto questo dominava una enorme rete corruttiva (v. Storia degli Stati Uniti di Nevisi e Comminger, Einaudi, Torino 1961). «È difficile stabilire se fossero più corrotte le amministrazioni statali o quelle municipali. Parlamenti statali e Consigli municipali potevano concedere preziose franchigie in servizi di pubblica autorità, aggiudicare ricchi contratti, il pagamento non sempre prendeva la forma di corruzione esplicita, esso poteva manifestarsi sotto veste di carriera nel campo politico».
Gli interventi al convegno a cura di M.Vitale ed M. Garzonio sono avvincenti come uno sceneggiato televisivo, sia che affrontino le sconfitte che le vittorie: «La politica era un commercio per privilegiati, pochi stimavano possibile un altro sistema e nessuno sfidava il governo dell’oligarchia che distribuiva le cariche, la stampa era indifferente e controllata». Un vigoroso movimento riformista divenne finalmente efficace quando si saldò con l’azione politica di giovani e brillanti leader, da Wilson a T. Roosevelt, che puntarono sul piano locale prima che occuparsi di Washington. Molte azioni si riferivano alla democratizzazione della macchina politica, (voto segreto, referendum, leggi contro la corruzione e per il suffragio femminile.) Fu un periodo di riforme e rivolte in quasi tutti i domini della vita americana.
Il discorso può essere non del tutto lontano dal caso italiano. In proposito vorremmo concludere queste osservazioni sulla corruzione citando un recente discorso di Piero Grasso, Procuratore generale antimafia: «Il metodo mafioso, anche quando non c’è la mafia, è diventato purtroppo un metodo diffuso nella nostra società. C’è un sistema basato su un principio di amicizie strumentali, relazioni informali che lasciano poco spazio a forme democratiche di libero mercato. Alla luce di rapporti amicali si prendono decisioni, si fanno affari, s’intrecciano conoscenze che sono funzionali a questo sistema».
L’ultima decisione papale non faciliterà i rapporti tra Roma e le chiese locali
di Klaus Nientiedt
“www.konradsblatt-online.de” del 25 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
“Andremo tutti tutti tutti in paradiso, perché siamo tanto tanto bravi...” Questa ritornello carnevalesco lo si poteva sentir cantare già negli anni ’70 dai critici del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica postconciliare. L’annuncio di salvezza del racconto dell’ultima cena “Questo è il mio sangue, il sangue dell’Alleanza, sparso per tutti”, lo vedevano sprecato in una redenzione generale, di tutti senza eccezione. Già allora volevano ritornare all’espressione “per molti”: “sparso per molti”, tutto il resto è, secondo loro, “grazia a buon mercato”, incompatibile con il testo biblico originale.
Papa Benedetto ha ora accondisceso anche a questo desiderio e ha dichiarato che l’unica traduzione esatta è “per molti”. Precedentemente aveva già tolto la scomunica ai quattro vescovi tradizionalisti rimasti e aveva ridato normalità al rito tridentino preconciliare nella forma straordinaria del rito romano. Ma c’è una differenza: questa volta la decisione papale non riguarda solo i tradizionalisti, ma tutti i fedeli. Al posto dell’espressione interpretativa - come la chiama il papa - “per tutti”, secondo il desiderio del papa ora può essere usata la “semplice trascrizione” “per molti”. . Il papa stesso si muove nella sua argomentazione con una certa tensione: la “restituzione” di “pro multis” con “per tutti”, la definisce un’interpretazione che “era e rimane ben fondata”. Gli interessa però anche, innanzitutto, una traduzione “contenutisticamente” fondata e non necessariamente una “traduzione letterale”. E tuttavia: secondo un decreto del Vaticano del 2001 deve essere non tanto interpretazione quanto piuttosto traduzione: solo traduzione. E quindi “per molti”, e non “per tutti”.
Che il papa annunzi proprio adesso questo cambiamento, è in relazione ad una certa fretta. I vescovi stanno preparando un nuovo innario ed un nuovo messale. L’alternativa sarebbe stata mantenere la traduzione che c’era finora. Molti vescovi tedeschi avrebbero volentieri evitato il cambiamento. Uno dei motivi: indipendentemente dalla problematica della traduzione, che ai loro occhi non appare teologicamente cogente, questo modo di procedere provoca agitazione tra il clero. I vescovi vorrebbero evitare di far sorgere l’impressione che l’universalità della salvezza iniziata in Cristo debba essere relativizzata secondo un’interpretazione ecclesiale. Il presidente della conferenza episcopale tedesca, arcivescovo di Friburgo Robert Zollitsch, considererà il fatto di non aver potuto impedire questo come una personale sconfitta. Eppure nella sua penultima visita a Roma aveva anche un mandato in questo senso da parte delle conferenze episcopali svizzera ed austriaca.
Quest’ultimo passo della politica liturgica vaticana si inserisce nel modo di procedere “da chiesa universale” della Santa Sede. Solo pochi mesi fa è entrato in uso nei paesi di lingua inglese un nuovo rito della messa, che prescrive rispetto ad alcuni cambiamenti postconciliari il ritorno alle traduzioni precedenti - cosa che ha suscitato notevoli proteste tra il clero, il popolo dei fedeli e i teologi.
Non illudiamoci: questa decisione non renderà più facili i rapporti tra il papa e la curia da una parte, e le chiese locali dall’altra. In questo modo, né i ricordi di una solare visita papale in Germania, né quelli degli scampanii bavaresi al compleanno del papa o all’anniversario della sua elezione incideranno favorevolmente. In questo contesto, molti sono molto preoccupati di come potranno evolvere i rapporti tra la Fraternità Sacerdotale San Pio X di Lefebvre e la Congregazione per la Dottrina della Fede. Alcuni già temono il canto trionfante di coloro che già da tempo si permettevano toni di scherno, cantando “Andremo tutti tutti tutti in paradiso, perché siamo tanto bravi...”
Il primato del lavoro e la centralità dell’uomo
di Angelo Scola, cardinale arcivescovo di Milano (Corriere della Sera, 26 aprile 2012)
Oggi, alle 21, presso la Basilica di Sant’Ambrogio, l’Arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, presiederà la Veglia di preghiera per il mondo del lavoro in occasione della Festa del Lavoro del 1° maggio prossimo. Nel corso della veglia verrà annunciata la partenza della fase due del Fondo Famiglia Lavoro della Diocesi di Milano, che metterà a disposizione un milione di euro per borse lavoro, formazione, microcredito e aiuto a chi ha perso l’occupazione. Lanciato nel Natale 2008 il Fondo ha raccolto finora 14 milioni di euro e ha aiutato economicamente oltre 7 mila famiglie nel territorio della Diocesi di Milano.
Alla fine del secolo scorso molti economisti si posero la domanda: «Nell’attuale mutato quadro di riferimento ha ancora senso parlare di priorità del lavoro sul capitale?". La sostenne con forza nel 1981 la Laborem exercens (LE nn. 13-14) e la ribadì, dieci anni dopo, all’interno di una più articolata visione del sistema economico, la Centesimus annus.
Oggi, nel pieno della crisi economico-finanziaria, e ben consapevoli delle conseguenze sociali che tale tesi comporta, possiamo ancora proporla? Non è mio compito, né ho la competenza per esprimere giudizi sugli odierni cambiamenti strutturali e sui gravi contraccolpi negativi per l’occupazione. Men che meno sono in grado di entrare nel merito della riforma del lavoro in atto e delle varie misure proposte e contestate da diverse parti sociali e politiche.
Resto tuttavia convinto che ci sono buone ragioni per sostenere, anche oggi, il principio del primato del lavoro.
Credo di poter dire che è l’economia stessa, nei suoi elementi costitutivi e nelle sue complesse articolazioni, ad esigere, dal suo interno, un solido nesso con l’aspetto antropologico ed etico del lavoro umano. Con felice intuizione Benedetto XVI nella Caritas in veritate ha parlato della necessità di allargare la "ragione economica" (CV nn. 32 e 36), evidenziando il carattere eminentemente umano di ogni attività economica. Solo su queste basi essa coopera alla vita buona. Altrimenti non riesce ad evitare pesanti contraddizioni e malesseri. Lo abbiamo visto con la grave crisi della finanza cui per altro, a giudizio di molti esperti, non si stanno apportando i necessari correttivi. Ha scelto la strada dell’«anonimato» invece del «personalizzato», dell’effimero invece del durevole, dell’«individualistico» invece del «comunitario», dell’immediato presente a scapito del futuro.
Non si esce da questa Scilla - Cariddi se non si riafferma con forza che il lavoro, in quanto attività propria dell’uomo - e, quindi, a prescindere da ogni sua ulteriore qualificazione (manuale, intellettuale...) - non è solo il motore di ogni attività economica, ma ne è il movente. Il lavoro apre ad essenziali relazioni interpersonali e ai rapporti di scambio che costituiscono la trama dell’economia. Questa implica sempre un insieme di scelte e di decisioni, ultimamente basate sulla fiducia, che si ripercuotono sugli altri.
Che cosa comportano queste considerazioni, solo apparentemente di carattere generale, per l’attuale congiuntura economica? E che cosa hanno da dire in merito alla riforma del lavoro?
Coraggiosamente Caritas in veritate parla di «gratuità», senza la quale «il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica» (CV, 35). La parola gratuità però va capita bene: non significa "gratis", ma indica un’altra unità di misura del valore del lavoro e della dignità di chi lavora, come acutamente afferma Péguy nell’opera «Il Denaro»: «Un tempo gli operai non erano servi... La gamba di una sedia doveva essere ben fatta, non per il salario... per il padrone, né per i clienti. ... Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto».
In che modo dare spazio al fattore gratuità nel complesso mondo del lavoro di oggi? Perché espressioni come «qualità del lavoro», «lavoro dignitoso» non restino parole vuote, occorre il coraggio di ripartire dalla persona, dalla priorità data allo sviluppo del "capitale umano e sociale". Le misure e i modelli di adeguate politiche per il lavoro dovrebbero, pertanto, essere incentrati principalmente sulla ricerca di nuove forme di responsabilità personale e comunitaria, sia dei lavoratori sia degli imprenditori. Su questa base saranno poi necessari nuovi servizi che favoriscano, soprattutto per i giovani, la crescita professionale abbinando a percorsi di formazione e riqualificazione un sostegno economico. Inoltre, perché escludere una partecipazione diretta del lavoratore, come già scrisse Maritain, alla gestione economica di ogni intrapresa lavorativa? Riaffermare, con nuove modalità, il primato del lavoro e, soprattutto, del soggetto che lavora, è sicura garanzia di crescita, oltre che importante giustificazione dei massicci sacrifici oggi richiesti.