[...] Controcorrente don Di Piazza lo è sempre stato. E lo dice. «Credo in una Chiesa pluralista formata da uomini e donne con pari possibilità ministeriali: dal sacerdozio al diaconato. Credo in una Chiesa che si liberi una volta per sempre dei titoli nobiliari, di abiti che appartengono ad altre epoche, in cui il papa, i cardinali, i vescovi, i preti, le donne e gli uomini appartenenti agli ordini religiosi abitino case dignitose ma modeste ed essenziali. Credo in una Chiesa che anche quando celebra l’eucaristia non esibisce una solennità fine a se stessa. Credo nella Chiesa dei profeti e dei martiri, non dei funzionari. Credo in una Chiesa povera, essenziale, sobria. Credo in una Chiesa umile e forte della forza dello spirito. Credo nella Chiesa cattolica, cioè universale, che si esprime nelle diverse situazioni con la pluralità e l’autonomia delle teologie, delle liturgie. L’unità dovrebbe essere data non dalla gerarchia, non dalla disciplina, bensì dall’unica fede in Gesù e nel suo Vangelo, dalla coerente testimonianza che la rende credibile» [...]
Che bella la Chiesa senza titoli nobiliari
di Aldo Maria Valli (Europa, 12 novembre 2011)
«Spesso rifletto con inquietudine e sofferenza, interrogandomi su come sia stato possibile a partire da Gesù di Nazaret costruire nella storia un apparato religioso di potere e di sacralità che solo in modo vago, intermittente, sfuocato e distorto si riferisce a lui, di fatto oscurando e tradendo la sua persona e il suo messaggio rivoluzionario, nel senso più profondo e concreto della parola».
Scrive così Pierluigi Di Piazza, prete e parroco di Udine, nel suo libro Fuori dal tempio. La Chiesa al servizio dell’umanità (Laterza, 128 pagine, 12 euro), libro volutamente scomodo, urticante, a tratti dolente, ma animato anche da una grande speranza cristiana nel trionfo del bene evangelico sulle miserie umane che tanto spesso si manifestano anche nella Chiesa deturpandone il volto.
«Mi chiedo spesso - scrive Di Piazza - dove sia Gesù di Nazaret, cosa c’entri lui non solo con l’apparato del potere, ma anche con le solennità delle celebrazioni liturgiche che per i paramenti, l’ostentazione, il ritmo, le parole, i gesti sono separati dalla vita, dalle storie delle persone. Cosa c’entri lui con i titoli di Sua Santità, Eminenza, Eccellenza, Monsignore; lui che ha vissuto in modo semplice e diretto, ha incontrato le persone, ha parlato con loro in modo completamente differente. Cosa c’entri lui con residenze di lusso, con tante proprietà immobiliari finalizzate non certo ai poveri, con le frequentazioni con i ricchi, i potenti, i diplomatici del potere. Ancora, cosa c’entri lui con una dottrina confezionata e sigillata, con un insegnamento che più volte non accoglie e non conforta, ma umilia e allontana».
Controcorrente don Di Piazza lo è sempre stato. E lo dice. «Credo in una Chiesa pluralista formata da uomini e donne con pari possibilità ministeriali: dal sacerdozio al diaconato. Credo in una Chiesa che si liberi una volta per sempre dei titoli nobiliari, di abiti che appartengono ad altre epoche, in cui il papa, i cardinali, i vescovi, i preti, le donne e gli uomini appartenenti agli ordini religiosi abitino case dignitose ma modeste ed essenziali. Credo in una Chiesa che anche quando celebra l’eucaristia non esibisce una solennità fine a se stessa. Credo nella Chiesa dei profeti e dei martiri, non dei funzionari. Credo in una Chiesa povera, essenziale, sobria. Credo in una Chiesa umile e forte della forza dello spirito. Credo nella Chiesa cattolica, cioè universale, che si esprime nelle diverse situazioni con la pluralità e l’autonomia delle teologie, delle liturgie. L’unità dovrebbe essere data non dalla gerarchia, non dalla disciplina, bensì dall’unica fede in Gesù e nel suo Vangelo, dalla coerente testimonianza che la rende credibile».
Rispetto a tanti libri che denigrano la Chiesa, questo ha il sapore della verità perché l’autore parla per amore e per costruire, non per odio e per distruggere. Parla stando dentro la Chiesa, non fuori. Uno star dentro che fin dall’inizio non è stato facile. «In realtà, il seminario era un’istituzione totale per forgiare funzionari della religione: dunque, molta ideologia sacrale, un continuo insinuare l’esemplarità della vita sacerdotale come separatezza; di conseguenza una sottile, continua violenza repressiva rispetto all’affettività e alla sessualità, con l’ossessivo allontanamento della donna, considerata un pericolo per il sacerdote separato dagli altri».
Dov’era Gesù? La risposta è netta e terribile: «Non poteva esserci, perché lui stesso si sarebbe allontanato, come in effetti fece, dalla religione del tempio».
L’aria nuova entra nei polmoni del giovane prete attraverso i testimoni credibili del Vangelo: «Mi riferisco a persone semplici, umili, nascoste e ad altre conosciute; certamente ad alcuni preti profeti come don Lorenzo Milani, padre Turoldo, padre Balducci, don Tonino bello. E poi a martiri come il vescovo Romero, per riassumere in lui tante donne e tanti uomini semplici che hanno dato la loro vita».
Purtroppo, annota Di Piazza, «mi sembra di ritrovare sempre meno Gesù di Nazaret nel nostro paese, in particolare nelle nostre regioni del nord est. Sempre più spesso si parla di religione a sproposito, per rinsaldare pezzi di identità frantumate dall’accelerazione delle trasformazioni sociali, etiche e culturali». In tutto questo «la fede non c’entra proprio» e «Gesù di Nazaretnemmeno». E tuttavia, proprio oggi, stupisce e affascina ancora di più la “laicità” di Dio, il suo venire al mondo nella povertà, senza pretendere luoghi speciali, da una ragazza qualunque e da un padre lavoratore.
Un Dio che fin dall’inizio sta in mezzo, è coinvolto, partecipe, mai lontano, impassibile e neutrale. «Mi affascinano e mi commuovono gli incontri di Gesù di Nazaret con le persone considerate peccatrici, scomunicate dalla legge, dal tempio e dalla sinagoga, anche condannate a morte, come la donna adultera». E chi è questo Gesù? «È un laico, non un sacerdote; non è un rabbino diplomato a una qualche scuola, ma il suo insegnamento è autorevole perché gli proviene dalla sua profondità interiore. Sta in mezzo alla gente e insegna. Il suo atteggiamento non è discendente, ma circolare. Rivela che Dio non è un padrone e un tiranno, ma è un padre a cui rivolgersi con semplicità, affetto, confidenza e fiducia».
Tra le pagine più problematiche quelle in cui don Di Piazza si occupa delle questioni bioetiche e della fine della vita. Con un giudizio netto, fra l’altro, sulla decisione del cardinale Ruini di non concedere il funerale religioso a Piergiorgio Welby perché per la Chiesa, come spiegò l’allora vicario di Roma, «il suicidio è intrinsecamente negativo». All’epoca il cardinale disse di sperare che Dio abbia accolto comunque Welby per sempre. Al che Di Piazza parla di posizione molto contraddittoria: «Se il cardinale spera che Dio lo abbia accolto, perché non accoglierlo in chiesa in nome di questa speranza? Personalmente lo avrei fatto».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Se il vento della crisi arriva al vertice della Chiesa cattolica
di Lorenzo Scheggi Merlini (l’Unità, 15 novembre 2011)
Un Papa che suscita «tenerezza». Da ammirare per la tenacia con cui affronta le fatiche del pesante ministero petrino; decisamente morigerato nei costumi e quasi ascetico nello stile di vita; uno studioso appassionato; un intellettuale che raggiunge mirabili vette di pensiero e che, come tale, fa breccia negli ambienti intellettuali soprattutto europei. Un ottantaquattrenne coerente che ha già fatto sapere, in caso di impedimento per motivi di salute fisica o mentale, che non esiterà a dimettersi.
Ma anche intransigente nel riaffermare il corpus tradizionale della dottrina cattolica, incurante (o impermeabile) dei segnali che vengono dall’interno dalla Chiesa stessa in materia di morale sessuale, bioetica, sacerdozio femminile, celibato, e che gridano ormai come sia tempo di aprire una discussione senza pregiudizi su tutti questi fronti. E ancora: un uomo che pur essendo stato un protagonista da posizioni innovatrici del Concilio, si colloca ora alla testa di tutti coloro che caparbiamente negano la portata rivoluzionaria che ebbe.
Un Papa eurocentrico, terrorizzato dagli «ismi» che vive come una minaccia mortale per la Chiesa e mai come una occasione. E per questo fu in fondo eletto. Un Papa, ed è il motivo ricorrente di ogni capitolo, incapace e forse anche disinteressato al governo concreto di una comunità mondiale di un miliardo e duecento milioni di fedeli sparsi in tutto il mondo, che per di più si è circondato di collaboratori non all’altezza del compito e non lo aiutano nemmeno ad evitare errori diplomatici. L’ultima fatica di MarcoPoliti - forse il più acuto, informato e colto fra i vaticanisti italiani - giunta da pochi giorni in libreria (Joseph Ratzinger Crisi di un papato, Edizioni Laterza, pagine 328, €18) è un libro che merita tutta l’attenzione richiesta dalla sua complessa, anche se scorrevolissima e appassionante, lettura.
Si presenta con un titolo netto ma non gridato, parla di un papato in «crisi». Ma a ben vedere, nel ripercorrere gli episodi più salienti del settennio ratzingheriano, tutti documentati in maniera certosina, con una messe di materiali davvero imponente, degna di uno storico più che di un giornalista, viene fuori un affresco impietoso che fa spesso pensare ad un vero e proprio fallimento. Sfilano capitolo dopo capitolo la crisi col mondo islamico, quella, ricorrente, con gli ebrei, la revoca della scomunica comminata agli ultraconservatori - negazionisti - anticonciliari di Marcel Lefebvre, nomine inopportune di vescovi indegni e, il cancro della pedofilia, tollerato, occultato per tanti, troppi anni.
Politi dà atto ovviamente a Benedetto XVI delle ultime, durissime posizioni e dei provvedimenti conseguentemente adottati contro la pedofilia e i preti pedofili ma constata, suffragando l’affermazione con moltissimi documenti, con colpevole ritardo. Ecco, questi aspetti negativi hanno ormai caratterizzato il papato e prevalgono, sostiene il vaticanista, su quelli, pure importanti, positivi. Una tesi certamente opinabile che ovviamente non è da tutti condivisa. Da parte soprattutto di chi pensa che debba prevalere, nel giudizio, il ruolo di denuncia del Papa contro il capitalismo finanziario impazzito, contro il liberismo che produce miseria e povertà, contro la deriva di un mondo che sembra avere smarrito i valori forti e che si muove senza bussola. Ma certamente le argomentazioni e i fatti sciorinati da Politi, sono macigni che non possono assolutamente essere elusi.
La sinistra di papa Ratzinger
risponde Furio Colombo
Caro Colombo,
che cosa pensi dei marxisti che si sono schierati con Ratzinger teologo e docente della verità unica e rivelata e nemico assoluto del relativismo?
Severino
PENSO che la solitudine sia uno dei problemi più gravi della nostra epoca, non tanto e non solo nella vita di tutti giorni ma, in particolare, dentro ogni schieramento o gruppo detto, per una ragione o per l’altra, “di sinistra”. Mi pare di capire che coloro che si sentono o si dichiarano ancora “marxisti” siano ancora più soli. E poiché il marxismo, di cui non puoi parlare più con nessuno, non era una filosofia della discussione, ma la definizione di principi ritenuti scientifici, dunque ovviamente predicati per essere creduti, non per aprire il dibattito, si può capire il percorso. Questo potrebbe essere un modo un po’ banale, ma utile, per spiegare i pensatori marxisti e ratzingeriani.
Però le persone in questione - Barcellona, Tronti, Sorbi e Vacca - non sono seconda fila e non si possono immaginare come parte di un pacchetto di viaggio in gruppo. Detto questo, il problema è di più difficile, non di più facile soluzione. Infatti, niente è più assoluto dell’assolutismo di Ratzinger. Nel suo insegnamento non c’è spazio per la minima flessione di principi rigidi e al di sopra di ogni negoziazione. Al punto che tutti devono credere e obbedire e far diventare legge dello Stato o proibizione assoluta il suo insegnamento (di Ratzinger, non della Chiesa, o almeno non della storia della Chiesa) oppure sono fuori.
Ecco, credo che il timore di questo “fuori” e, più ancora, il senso di solitudine che si respira in aree che furono di sinistra, siano la grande spinta, più caratteriale che teologica, verso l’affollato vascello del Papa. Certo, molti si imbarcano solo per convenienza. Qui credo che la parola giusta, dopo tanto gelo nel “day after” del post-marxismo, sia consolazione. La consolazione, comprensibile e umana, di essere parte, con qualcuno, di qualcosa. Era da tanto tempo che un marxista non poteva concedersi questa consolazione. Così tanto che si può spiegare (o almeno capire) l’inspiegabile.
* il Fatto, 13.11.2011
Quei pozzi avvelenati, dalla giustizia alla Rai
di Francesco Merlo (la Repubblica, 13.11.2011)
È certo che anche se Berlusconi andasse via, per molto tempo rimarrà tra noi come categoria dello spirito. Durante questo ventennio ha terremotato l’apparato statale infilandovi dentro la Lega antistatale e secessionista. Dalle abitudini al linguaggio, ha "smontato" lo Stato È la normalità, la tanto attesa normalità, che ha reso storica la lunga giornata di ieri anche se ci vorrebbe un governo Monti delle anime e dei sentimenti e dei valori per liberare l’Italia dal berlusconismo. Nessuno dunque si illuda che sia davvero scaduto il tempo. Certo, alla Camera lo hanno giubilato, gli hanno fatto un applauso da sipario: è così che si chiude e si dimentica, con l’applauso più forte e più fragoroso che è sempre il definitivo.
Poi Napolitano è riuscito a dare solennità anche all’addio di Berlusconi che sino all’altro ieri si era comportato da genio dell’impunità inventando le dimissioni a rate. Che lui nascondesse una fregatura sotto forma di sorpresa è stato il brivido di ieri, e difatti, inconsapevolmente, nessuno si è lasciato troppo andare e la festa, sino all’annuncio ufficiale delle dimissioni, più che sobria è stata cauta. Di sicuro Berlusconi non ha avuto il lieto fine. Entrato in scena cantando My Way ne è uscito con lo Zarathustra che premia "il folgorante destino di chi tramonta".
Dunque non c’è stato il 25 luglio, non la fuga dei Savoia né la fine della Dc, né tanto meno la tragedia craxiana, nessuno ha mangiato mortadella in Parlamento come avvenne quando cadde Prodi, non c’è stato neppure l’addio ai monti di Renzo anche se nessuno sa cosa farà Berlusconi, se rimarrà in Italia o invece andrà in uno dei degli ospedali che dice di avere regalato nei luoghi del Terzo Mondo. Tutti parlano, probabilmente a vanvera, di una trattativa parallela e coperta sui processi, di un salvacondotto e di un’amnistia che non hanno mai riguardato in Italia reati come la corruzione e lo sfruttamento della prostituzione. In un Paese normale la rimozione di un capo non produce mai sconquassi e siamo sicuri che il pedaggio che paghiamo alla normalità non sarà l’enorme anormalità di un pasticcio giuridico.
È comunque certo che, anche se Berlusconi si rifugiasse ad Antigua, per molto tempo rimarrà tra noi come categoria dello spirito. Ecco perché ci vorrebbe una banca centrale della civiltà per commissariare il Paese dove Berlusconi "ha tolto l’aureola a tutte le attività fino a quel momento rispettate e piamente considerate. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo di scienza in salariati da lui dipendenti".
Dunque neppure nello storico giorno in cui è stato accompagnato fuori con il suo grumo di rancore invincibile e lo sguardo per sempre livido, è stato possibile accorarsi e simpatizzare. Non c’è da intonare il requiem di Mozart o di Brahms per l’uomo più ricco d’Italia che ha comprato metà del Parlamento e ha ordinato di approvare almeno 25 leggi ad personam. E ha terremotato lo Stato infilandovi dentro la Lega antistatale e secessionista. E mentre i suoi ministri leghisti attaccavano la bandiera e l’unità dello Stato, Berlusconi organizzava la piazza contro i tribunali di Stato, la Corte costituzionale, il capo dello Stato. Anche il federalismo non ha preso, come negli Usa e in Germania, la forma dello Stato ma dell’attacco al cuore dello Stato. Avevamo avuto di tutto nella storia: mai lo statista che lavorava per demolire lo Stato. Quanto tempo ci vorrà per rilegittimare i servitori dello Stato, dai magistrati ai partiti politici, dagli insegnanti ai bidelli ai poliziotti senza soldi e con le volanti a secco?
E quante generazioni ci vorranno per restituire un po’ di valore all’università, alla scuola e alla cultura che Berlusconi ha depresso e umiliato: contro i maestri, contro gli insegnanti, contro tutti i dipendenti pubblici considerati la base elettorale del centrosinistra, e contro la scuola pubblica, contro il liceo classico visto come fucina di comunisti. E ha degradato la più grande casa editrice del Paese a strumento di propaganda (escono in questi giorni i saggi di Alfano, Sacconi, Bondi, Lupi....). Ha corrotto una grande quantità di giornalisti come mai era avvenuto. Ha definitivamente distrutto la Rai affidata ad una gang di male intenzionati che hanno manipolato, cacciato via i dissidenti, lavorando in combutta con i concorrenti di Mediaset. E con i suoi giornali e le sue televisioni ha sfigurato il giornalismo di destra che aveva avuto campioni del calibro di Longanesi e Montanelli. Con lui la faziosità militante è diventata macchina del fango. Testate storiche sono state ridotte a rotocalchi agiografici. E ha smoderato i moderati, ha liberato i mascalzoni dando dignità allo spavaldo malandrino, ai Previti e ai Verdini, ai pregiudicati, e c’è un po’ di Lavitola, di Lele Mora e di Tarantini in tutti quelli che gli stanno intorno, anche se ora li chiama traditori.
Berlusconi, che fu il primo a circondarsi di creativi, di geniacci come Freccero e Gori ha umiliato la modernità dei nuovi mestieri, della sua stessa comitiva, l’idea di squadra che all’esordio schierava a simbolo Lucio Colletti e alla fine ha schierato a capibranco Tarantini, Ponzellini, Anemone, Bisgnani, Papa, Scajola, Bertolaso, Dell’Utri, Verdini, Romani, Cosentino. Eroi dei giornali di destra sono stati Igor Marini e Pio Pompa. I campioni dell’informazione berlusconiana in tv sono Vespa, Fede e Minzolini. Persino il lessico è diventato molto più volgare, il berlusconismo ha introdotto nelle istituzioni lo slang lavitoilese, malavitoso e sbruffone. E’stato il governo del dito medio e del turpiloquio, è aumentato lo ’spread’tra la lingua italiana e la buona educazione.
E la corruzione è diventata sacco di Stato e basta pensare agli appalti per la ricostruzione dell’Aquila, assegnati tra le risate della cricca. Berlusconi ha dissolto "tutti i tradizionali e irrigiditi rapporti sociali, con il loro corollario di credenze e venerati pregiudizi. E tutto ciò che era solido e stabile è stato scosso, tutto ciò che era sacro è stato profanato". Persino la bestemmia è diventata simonia spicciola, ufficialmente perdonata dalla Chiesa in cambio di privilegi, scuole e mense. Toccò, nientemeno, a monsignor Rino Fisichella spiegare che, sì, la legge di Dio è legge di Dio, ma "in alcuni casi, occorre "contestualizzare" anche la bestemmia". E quanto ci vorrà per far dimenticare la diplomazia del cucù e delle corna, lo slittamento dal tradizionale atlantismo verso i paesi dell’ex Unione Sovietica, la speciale amicizia con i peggiori satrapi del mondo?
E mai c’era stata una classe dirigente maschile così in arretrato di femmina verrebbe da dire con il linguaggio dell’ex premier: femmina d’alcova, esibita e valutata come una giumenta, con il Tricolore sostituito con quella grottesca statuetta di Priapo in erezione che circolava - ricordate? - nelle notti di Arcore. Persino il mito maschile della donna perduta e nella quale perdersi, persino la malafemmina italiana è stata guastata da Berlusconi, ridotta a ragazza squillo della politica: l’utilitaria, il mutuo, seimila euro, l’appartamentino, un posto di deputato e forse di ministro per lucrare il compenso - "il regalino" - agli italiani.
Lo scandalo del berlusconismo non è stato comprare sesso in un mondo dove tutto è in vendita ma nel pagare con pezzi di Stato, nell’uso della prostituzione per formare il personale politico e selezionare la classe dirigente. E non è finita: se la prostituzione ha cambiato la politica, anche la politica ha cambiato la prostituzione. La Maddalena ha perso la densità morale che fu una forza della nostra civiltà, è diventata la scialba ragazzotta rifatta dal chirurgo ed educata dalla mamma-maitresse a darla via a tariffa.
Il berlusconismo è stato l’autobiografia della nazione per dirla con Croce, non un accidente della storia. Non basta certo una giornata solennemente normale per liberarcene. C’è bisogno di anni di giornate normali. E per la prima volta non saranno gli storici a mettere in ordine gli archivi di un’epoca. Ci vorranno gli antropologi per classificare il berlusconismo come involuzione della specie italiana, perché anche noi, che siamo stati contro, l’abbiamo avuto addosso: "Non temo il Berlusconi in sé - cantava Gaber - ma il Berlusconi in me".