MA QUANTI EQUIVOCI SULLA LINGUA PERDUTA
di Raffaele Simone (la Repubblica/Diario, 03.07.2007)
Il cardinal Bertone ha assicurato (la Repubblica del 29 giugno) che la Chiesa non intende egemonizzare l’Italia ma solo evangelizzarla. In quest’inedito piano di reconquista il Vaticano usa i suoi argomenti di sempre, a partire dal rilancio del latino come lingua di tradizione.
L’operazione si sta sviluppando su più fronti. Qualche settimana fa l’insolita coppia formata dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche e dal Cnr ha tenuto a Roma un convegno dal titolo Futuro Latino, con l’obiettivo di inquadrare il latino come “fondamento per la costruzione e l’identità dell’Europa” e verificare (pensate!) le sue potenzialità per la scienza. Non so che risultati il convegno abbia avuto, ma il segnale è eloquente.
Se può esser difficile convincere gli scienziati che il latino serva loro a qualcosa, agire sui fedeli (sinceri o fittizi) è più agevole. Oggi tocca infatti agli aspetti liturgici.
Un motu proprio papale di prossima pubblicazione prevede che, se almeno trenta fedeli lo chiedono, il sacerdote è tenuto a dire messa in latino senza obbligo di avvertire il vescovo. Così si chiuderebbe per sempre la riforma “popolare” di Giovanni XXIII, che introdusse nella liturgia l’uso delle lingue nazionali come segno di accostamento alla sensibilità della gente.
Ma perché mai i fedeli dovrebbero chiedere una messa in latino? Cosa significa questa lingua per chi ne rivendica il restauro, quasi si trattasse di un vessillo mortificato? Il latino è abituato a essere coinvolto in rivendicazioni e nella storia gli è toccato prestarsi alle maschere più diverse.
Per lo più è stato usato come bandiera del ritorno a un’origine imprecisata e ai presunti valori che questa rappresenta. Insomma come simbolo di conservazione o di reazione. Non a caso in una delle sue rivendicazioni l’arcivescovo Lefebvre richiedeva proprio il ripristino della messa in latino.
Ma rivendicando il latino come lingua liturgica non si aspira certo al piacere di ascoltare discorsi in una lingua che magari nessuno dei richiedenti è in grado di capire. Per molti di loro il latino è puro suono, cantilena o assonanza, fonte più di confusione che di raccoglimento. Le fantasie nate dall’incomprensione di formule liturgiche sono così numerose e frequenti che sul tema si sono scritti libri interi (come il bel Sicuterat. Il latino di chi non lo sa di Gian Luigi Beccaria).
Antonio Gramsci raccontava che per sua zia Grazia il da nobis hodie del Padrenostro era diventato il nome di una nobile Donna Bisodia, che veniva citata spesso come esempio.
Il fatto è che le religioni amano associarsi a lingue presunte “originarie” e dotate di un flavor esoterico e iniziatico, anche se nessuno le capisce: anzi esattamente per quello. Così assicurano la propria autenticità e continuità rispetto agli inizi: allora le formule rituali possono trasformarsi tranquillamente in mantra, in “Donne Bisodie” e in “sicuterat”. Non importa che si capisca, quel che conta è che ci si distingua dagli altri. La chiave in cui la Chiesa difende il latino è proprio questa.
Del resto, va notato che il latino cristiano, e più ancora quello della chiesa moderna, propriamente... non è latino. Il primo (come si vede nella traduzione delle Scritture e nella Patristica) è una metamorfosi semplificata e contaminata dell’idioma di un tempo. Il latino della Chiesa d’oggi è un’invenzione delle cancellerie, una sorta di esperanto per preti.
A questa visione fantastico iniziatica se ne salda un’altra, secondo cui nell’etimologia delle parole latine si celano segreti e rivelazioni. Sono stati in molti a ricercare (nelle parole latine e di altre lingue) queste radici arcane, secondo una linea che potremmo chiamare “Vico-Heidegger.”
Il meraviglioso Giovanbattista e l’oscuro Martin hanno infatti pescato a piene mani nella scomposizione etimologica (vera o fantasiosa), l’uno del latino l’altro del tedesco, alla ricerca di significati riposti. Il gioco mostra però la corda, perché a questa linea si sono associati anche autentici folli, come quel Jean-Pierre Brisset, “Prince des penseurs” amato da surrealisti e psicoanalisti, che, ai primi del Novecento, proprio scomponendo parole arrivò a dimostrare l’origine “batracica” del linguaggio, cioè la sua provenienza dal cracrà delle ranocchie.
Di segno opposto è la seconda maschera che il latino si trova spesso addosso: quella di lingua logica e razionale, studiando la quale ci si addestra a ragionare. I linguisti sanno bene che di lingue logiche non ne esistono, perché a esser logiche e ordinate (o il contrario) non sono le lingue ma semmai le teste di quelli che le usano. Ma questo semplice fatto non basta a convincere i fissati. Alcuni tratti della struttura del latino lo espongono davvero, del resto, al rischio di esser preso per una lingua-calcolatore: è ricco di casi e di flessioni complicate, ha una sintassi raffinata e mobile, tende a distanziare le parole che hanno a che fare tra loro e ha una forte propensione all’ellissi (il “sottinteso” che fa impazzire i lettori di Tacito e di Orazio). Per questo è stato facile spacciarlo come una lingua che richiede, per essere capita, un lavoro mentale particolarmente intenso.
Anche qui l’argomento è debole. Se si volesse davvero insistere su quelle forme di complessità, la scuola avrebbe a disposizione un’altra lingua più ricca e complicata, il greco: ancora più folto di flessioni e di forme, ancora più drastico nelle “parole mancanti”, ancora più ricco di problemi da risolvere prima di cominciare a capire qualcosa.
Pure Gramsci era cascato in questa trappola: «Il latino non si studia per imparare il latino», scriveva in un passo dei Quaderni del carcere dedicato a questo tema. La sua formula svela l’inganno di tutte queste operazioni: i difensori spuri del latino (dal clero tradizionalista e i fedeli lefebvriani ai supposti educatori del ragionamento) non hanno alcun interesse per il latino, ma solo per ciò che presumono che si possa ottenere usandolo.
Chi volesse davvero far qualcosa per il latino nella cultura della modernità dovrebbe invece promuoverlo come tale, cioè come una lingua dalla magnifica struttura, come la porta di una formidabile letteratura e il vessillo di una civiltà che ancora ci intriga.
Sui temi, nel sito, si cfr.:
Bruno Forte: “Nuova versione Cei del Padre Nostro in uso dal 29 novembre"
L’arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo annuncia le date dell’uscita del nuovo messale con la preghiera modificata e spiega le motivazioni che hanno spinto i vescovi italiani a cambiare il ‘non indurci in tentazione’: “Dio ci ama, non ci tende trappole per cadere nel peccato”
Federico Piana - Città del Vaticano *
E’ monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, presidente della Conferenza abruzzese-molisana e noto teologo, ad annunciare in anteprima che “il Messale con la nuova versione del Padre Nostro voluta dalla Conferenza Episcopale Italiana uscirà qualche giorno dopo la prossima Pasqua”. Nella preghiera, l’invocazione a Dio ‘non indurci in tentazione’ è stata modificata con una traduzione ritenuta più appropriata: ‘non abbandonarci alla tentazione’. “L’uso liturgico sarà introdotto a partire dalle Messe del 29 novembre di quest’anno, prima domenica d’Avvento”.
Monsignor Forte, perché i vescovi italiani hanno deciso la modifica di una delle più antiche e conosciute preghiere cristiane?
R. - Per una fedeltà alle intenzioni espresse dalla preghiera di Gesù e all’originale greco. In realtà l’originale greco usa un verbo che significa letteralmente ‘portarci, condurci’. La traduzione latina ‘inducere’ poteva richiamare l’omologo greco. Però, in italiano ‘indurre’ vuol dire ‘spingere a..’ in sostanza, far sì che ciò avvenga. E risulta strano che si possa dire a Dio ‘non spingerci a cadere in tentazione’. Insomma, la traduzione con ‘non indurci in...’ non risultava fedele.
E allora i vescovi italiani hanno pensato di trovare una traduzione migliore...
R. - Un interrogativo che si sono posti anche episcopati di tutto il mondo. Ad esempio, in spagnolo, lingua più parlata dai cattolici nel pianeta, si dice ‘fa che noi non cadiamo nella tentazione’. In francese, dopo molti travagli, si è passati da una traduzione che era ‘non sottometterci alla tentazione’ alla formula attuale che è ‘non lasciarci entrare in tentazione’. Dunque, l’idea da esprimere è questa: il nostro Dio, che è un Dio buono e grande nell’amore, fa in modo che noi non cadiamo in tentazione. La mia personale proposta è stata che si traducesse in ‘fa che non cadiamo in tentazione’ però dato che nella bibbia Cei la traduzione scelta è stata ‘non abbandonarci alla tentazione’ alla fine i vescovi per rispettare la corrispondenza tra il testo biblico ufficiale e la liturgia hanno preferito quest’ultima versione.
Molti teologi e pastori hanno fatto notare che la vecchia espressione ‘non ci indurre in tentazione’ facesse riferimento alle prove che Dio permette nella nostra vita...
R. - Una cosa è la prova, in generale, ma il termine che si trova nella preghiera del Padre Nostro è lo stesso che viene usato nel Vangelo di Luca nel riferimento alle tentazioni di Gesù, che sono vere tentazioni. Allora, non si tratta semplicemente di una qualunque prova della vita ma di vere tentazioni. Qualcosa o qualcuno che ci induce a fare il male o ci vuole separare dalla comunione con Dio. Ecco perché l’espressione ‘tentazione’ è corretta ed il verbo che le corrisponde deve essere un verbo che faccia comprendere che il nostro è un Dio che ci soccorre, che ci aiuta a non cadere in tentazione. Non un Dio che in qualunque modo ci tende una trappola. Questa è un’idea assolutamente inaccettabile.
Questo cambiamento provocherà qualche problema ai fedeli abituati alla vecchia versione?
R. - Sostanzialmente, la modifica è molto limitata. Non credo che dovrebbero esserci grossi problemi. Dobbiamo aiutare le persone a capire che non si tratta di voler un cambiamento fine a se stesso ma di cambiare per pregare in maniera ancora più consapevole e vicina a quelle che sono state le intenzioni di Gesù.
* Fonte: Vatican News, 28.01.2020.
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E "LATINORUM" ...
Assemblea dei vescovi.
La Cei approva la nuova traduzione di Padre nostro e Gloria
Il documento finale dell’Assemblea generale straordinaria. Lotta alla pedofilia, nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 15 novembre 2018)
L’Assemblea generale della Cei ha approvato la traduzione italiana della terza edizione del Messale Romano, a conclusione di un percorso durato oltre 16 anni. In tale arco di tempo, si legge nel comunicato finale dell’Assemblea generale straordinaria della Cei (12-15 novembre), vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della Presentazione del Messale, che aiuterà non solo a una sua proficua recezione, ma anche a sostenere la pastorale liturgica nel suo insieme.
Il testo della nuova edizione sarà ora sottoposto alla Santa Sede per i provvedimenti di competenza, ottenuti i quali andrà in vigore anche la nuova versione del Padre nostro («non abbandonarci alla tentazione») e dell’inizio del Gloria («pace in terra agli uomini, amati dal Signore»).
Riconsegnare ai fedeli il Messale Romano con un sussidio
Nell’intento dei vescovi, la pubblicazione della nuova edizione costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica. Di qui la sottolineatura, emersa nei lavori assembleari, relativa alla necessità di un grande impegno formativo. In quest’ottica «si coglie la stonatura di ogni protagonismo individuale, di una creatività che sconfina nell’improvvisazione, come pure di un freddo ritualismo, improntato a un estetismo fine a se stesso». La liturgia, hanno evidenziato i vescovi, coinvolge l’intera assemblea nell’atto di rivolgersi al Signore: «Richiede un’arte celebrativa capace di far emergere il valore sacramentale della Parola di Dio, attingere e alimentare il senso della comunità, promuovendo anche la realtà dei ministeri. Tutta la vita, con i suoi linguaggi, è coinvolta nell’incontro con il Mistero: in modo particolare, si suggerisce di curare la qualità del canto e della musica per le liturgie». Per dare sostanza a questi temi, si è evidenziata l’opportunità di preparare una sorta di «riconsegna al popolo di Dio del Messale Romano» con un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
Nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
Riguardo alla lotta alla pedofilia, dall’Assemblea generale emerge che le Linee guida che la Commissione della Cei per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili sta formulando «chiederanno di rafforzare la promozione della trasparenza e anche una comunicazione attenta a rispondere alle legittime domande di informazioni». La Commissione - che sottoporrà il risultato del suo lavoro alla valutazione della Commissione per la Tutela dei minori della Santa Sede e soprattutto della Congregazione per la dottrina della fede - ha l’impegno di portare le Linee guida all’approvazione del Consiglio permanente, per arrivare a presentarle alla prossima Assemblea generale.
Si intende, quindi, portarle sul territorio, anche negli incontri delle Conferenze episcopali regionali per facilitare un’assimilazione diffusa di una mentalità nuova, nonché di un pensiero e una prassi comuni.
I vescovi hanno approvato due proposte, che consentono di dare concretezza al cammino. È stata condivisa, innanzitutto, la creazione presso la Cei di un Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, con un proprio Statuto, un regolamento e una segreteria stabile, in cui laiche e laici, presbiteri e religiosi esperti saranno a disposizione dei vescovi diocesani. Il Servizio sosterrà nel compito di avviare i percorsi e le realtà diocesani - o inter-diocesani o regionali - di formazione e prevenzione. Inoltre, «potrà offrire consulenza alle diocesi, supportandole nei procedimenti processuali canonici e civili, secondo lo spirito delle norme e degli orientamenti che saranno contenuti nelle nuove Linee guida».
La seconda proposta approvata riguarda le Conferenze episcopali regionali. Si tratta di individuare, diocesi per diocesi, uno o più referenti, da avviare a un percorso di formazione specifica a livello regionale o interregionale, con l’aiuto del Centro per la tutela dei minori dell’Università Gregoriana.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO.
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
Federico La Sala
(...) Hic est enim calix sanguinis mei, novi et aeterni testamenti: mysterium fidei: qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum. Haec quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis.
(Questo infatti è il calice del mio sangue, del nuovo ed eterno testamento: Mistero della fede: che per voi e per molti sarà sparso in remissione dei peccati. Tutte le volte che farete questo, lo farete in memoria di me)
(...) Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.
(....) Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Diede loro anche questo comando: ogni volta che farete questo lo farete in memoria di me: predicherete la mia morte, annunzierete la mia risurrezione, attenderete con fiducia il mio ritorno finché di nuovo verrò a voi dal cielo.
Il nuovo Messale in inglese e l’eredità del Concilio
di Massimo Faggioli
in “popoli” dell’ottobre 2011
Nella prima domenica di Avvento (27 novembre) la Chiesa cattolica degli Stati uniti - al pari di quelle di Gran Bretagna, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda - inizierà a usare la nuova traduzione inglese del Messale romano.
Il cambiamento avviene dopo un lungo iter in cui non sono mancate tensioni tra Roma e la Chiesa statunitense, né divisioni all’interno di quest’ultima. È utile dunque ricostruire brevemente le tappe di una vicenda che, seppure estremamente importante per il mondo cattolico, ha avuto scarsa eco in Italia. Dopo l’approvazione, durante il Concilio Vaticano II, della Costituzione sulla Sacra liturgia Sacrosanctum Concilium (1963), avvenuta anche grazie all’appoggio decisivo dei vescovi americani, nel 1973 fu approvata da Roma e iniziò a essere usata nelle chiese statunitensi la prima traduzione del Messale dal latino all’inglese realizzata da Icel (International Commission on English in the Liturgy), commissione fondata proprio durante il Concilio dalle Conferenze episcopali anglofone.
Tra 1994 e 1998 la Congregazione per il culto divino iniziò a manifestare obiezioni nei confronti delle nuove traduzioni in lingua inglese dei testi liturgici fatte secondo il principio della «equivalenza dinamica».
Nel 1999 il cardinale Medina escluse l’«equivalenza dinamica» come metodo accettabile. Il passo successivo fu l’istruzione vaticana Liturgiam authenticam del 2001, tuttora in vigore e valida per tutte le Chiese, secondo la quale le nuove traduzioni devono seguire il principio di «equivalenza formale»: ogni parola latina deve avere un corrispondente nella traduzione, e sintassi, punteggiatura e vocabolario della lingua latina devono essere riprodotti fedelmente.
Nel 2002 iniziò l’emarginazione di Icel come luogo di elaborazione dei testi liturgici in lingua inglese, a favore di un nuovo organismo di creazione vaticana, Vox Clara, che dipende dalla Congregazione per il culto divino; Icel fu riorganizzata in modo da non rispondere più ai vescovi ma al Vaticano. Iniziò in quel periodo il lavoro per una nuova traduzione inglese del Messale.
Nel 2008 la nuova traduzione preparata da Icel fu presentata e subito subissata di critiche da parte di molti teologi e liturgisti anglofoni quanto alla qualità della traduzione; il testo fu comunque inviato a Roma per l’approvazione. Vox Clara introdusse a questo testo circa 10mila modifiche, il Vaticano approvò e inviò il nuovo Messale ai vescovi perché venisse introdotto all’inizio dell’anno liturgico 2011-2012.
Nel corso degli ultimi due anni il dibattito si è acceso in ogni Paese anglofono toccato dalla nuova traduzione del Messale. Negli Stati Uniti esso è stato particolarmente intenso non solo per la consistenza numerica della Chiesa cattolica (67 milioni di fedeli, circa il 23% dei cittadini adulti), ma anche per il ruolo decisivo giocato, tra Icel e Vox Clara, dal cardinale Francis George, arcivescovo di Chicago e fino alla fine del 2010 presidente della Conferenza episcopale Usa (Usccb), la quale è stata teatro di numerose e palesi irregolarità procedurali finalizzate a far passare il testo «romano» senza possibilità di intervento da parte dei vescovi.
Dall’assemblea della Usccb del novembre 2009 buona parte dei liturgisti americani ha cercato di rimettere in discussione il nuovo Messale. Fino all’inizio del 2011 i vescovi e teologi americani erano ancora divisi sulla sua accettabilità; negli ultimi mesi, però, i critici hanno pubblicamente rinunciato a portare avanti la loro «resistenza» in nome dell’unità della Chiesa americana. Noti liturgisti che avevano contestato la qualità linguistica e teologica del nuovo Messale si sono messi a disposizione dei vescovi, al fine di limitare i danni nel corso del delicato processo di recezione.
Anche tra il laicato statunitense le critiche sono proseguite (si veda, per esempio, il sito www.whatifwejustsaidwait.org) fino all’inizio del 2011, quando anche i più convinti oppositorihanno dichiarato la loro disponibilità a lavorare per una migliore recezione del nuovo Messale, al fine di non lacerare la comunione ecclesiale.
Ma quali sono le principali critiche rivolte al nuovo Messale? C’è anzitutto un problema di chiarezza del testo: la nuova traduzione, che ha dovuto mantenere la struttura della frase latina, è ricca di espressioni complesse non facilmente comprensibili da un anglofono medio.
C’è poi un problema di lunghezza delle frasi: per esempio, la lunghezza delle frasi delle preghiere eucaristiche del nuovo Messale (aumentate mediamente del 78% rispetto al precedente) fa diventare quei testi totalmente estranei al ritmo della lingua inglese.
Infine, ci sono rilevanti cambiamenti di formule ormai entrate a far parte della lingua liturgica dopo il Concilio. Un esempio: quando il sacerdote dice «Il Signore sia con voi», ora anche gli anglofoni, come facciamo noi italiani, risponderanno «And with your spirit» («E con il tuo spirito»), formula certo più aderente al latino, ma ben diversa dall’espressione colloquiale, «And also with you» («E anche con te»), a cui erano abituati. Ancora: durante la consacrazione del vino, al posto di «cup» ci sarà l’arcaico «chalice».
E l’espressione «For you and for all» («Per voi e per tutti») sarà sostituita da «For you and for many» («Per voi e per molti»): in quest’ultimo caso, tra l’altro, è evidente che con la nuova traduzione si è voluto trasmettere un contenuto teologico particolare, una questione che va al di là della maggiore o minore vicinanza ai testi latini.
Del resto tutta la vicenda dell’elaborazione del nuovo Messale ha significati più profondi di una semplice controversia linguistica. Colpiscono due aspetti, collegati tra loro. In primo luogo, chi vive in America sa che la qualità liturgica nelle chiese cattoliche è notoriamente molto alta: dal punto di vista della solennità, della musica, della cura delle letture e degli arredi sacri, ecc.
I motivi sono molti, specialmente per quanto riguarda la musica (tra cui un interessante fenomeno di migrazione verso la cultura cattolica di una tradizione liturgica congregazionale-protestante), ma in particolare vi è il successo del processo di recezione della riforma liturgica del Concilio negli Usa, come ha evidenziato il recente studio di Mark Massa, The American Catholic Revolution: How the ’60s Changed the Church Forever (New York, Oxford University Press, 2010).
Al contrario di altri casi additati dai nostalgici, la riforma liturgica conciliare in America non ha dato luogo ad «abusi» né alla distruzione di un patrimonio rituale - molto cattolico e molto americano - che è ancora forte e sentito. Dunque, delle tante riforme di cui gli anti-conciliari o i cattolici conservatori americani potrebbero sentire il bisogno, quella della liturgia è percepita come la meno urgente.
In secondo luogo, è evidente che al cuore delle tensioni tra Roma e le Chiese anglofone, e all’interno di queste, vi è la consapevolezza che la riforma liturgica del Concilio è «il» simbolo del Vaticano II e in qualche modo il custode della sua ecclesiologia. Quanti attaccano la riforma liturgica sanno bene che il Vaticano II è ancora sulla strada di una sua «canonizzazione», ovvero di una sua stabilizzazione culturale come nuova forma espressiva della fede cattolica.
Modificare la liturgia del Concilio (e in questo caso, latinizzarne la lingua) può essere letto come un sottinteso appello a rimettere in discussione tutto il resto del Vaticano II.
La nuova traduzione in inglese del Messale appare dunque un terreno di confronto circa l’interpretazione del Concilio: un confronto particolarmente delicato e dall’esito incerto per un cattolicesimo, come quello anglofono, culturalmente poco attaccato alle nostalgie dell’età tridentina.
Una mancanza di stile. Cattolico. (Una breve replica a P. Sequeri)
di Andrea Grillo
in “http://grilloroma.blogspot.com/” del 16 maggio 2011
Caro Pierangelo,
questa volta non posso proprio seguirti. Non che non ritrovi, in molti passaggi del tuo breve commento, il tono lucido e costruttivo che ti contraddistingue. Su questi auspici di fondo concordo pienamente con te. Ma sono gli argomenti portanti che utilizzi come argomentazione, e che condividi con il documento appena pubblicato, che mi lasciano molto perplesso e un poco preoccupato. La tua sensibilità per gli "affetti", evidentemente, ha lavorato in profondità, facendoti aderire a quella logica degli "attachements" che già un altro teologo di valore, Cassingena-Trevedy, ha utilizzato per giustificare questo clamoroso pasticcio istituzionale, giuridico e liturgico. Come puoi pensare, in buona sostanza, che un principio affettivo e nostalgico - che protesta la "non ripudiabilità di ogni fase dello sviluppo del rito romano" (cosa di per sé incontestabile), possa essere tradotto nel principio giuridico e liturgico della vigenza parallela e contemporanea di diversi stadi di questo sviluppo?
Come puoi non riconoscere, in questa traduzione istituzionale, non una prova di saggezza e di pacatezza, ma il principio di una erosione modernistica e anarchica - assunta non dal basso, ma dall’alto, come ha ben detto G. Zizola - che mina alla base la irreversibilità delle scelte pastorali? Il parallelismo ufficiale di due diverse forme del medesimo rito - di cui la più recente è sorta per emendare e superare le distorsioni e le lacune della precedente - non ti pare che di fatto relativizzi e metta come "sotto embargo" la condivisione universale della scelta della "riforma liturgica"? E se questo viene dal punto più alto della piramide gerarchica, come puoi pensare che non accadrà - come già è cominciato ad accadere - che qualunque intenzione possa ripararsi sotto questo "ombrello" per far la guerra ad ogni cambiamento serio delle prassi rituali cattoliche? Come si potrà, domani, "adeguare" lo spazio liturgico, se la logica dello spazio attuale corrisponde a un rito "vigente"? Me lo sai dire?
Voglio precisare che anch’io sono consapevole che le logiche della Riforma Liturgica non sono sufficienti e che in questo abbiamo ancora molto da imparare e da precisare nel nostro "adeguamento". Ma, vedi, la insufficienza confessata non può coincidere con il dubbio sulla necessità. La Riforma è e rimane assolutamente necessaria, perché i riti possano riformare la Chiesa. Se si mette in dubbio questa necessità, se la si riduce anche solo a "possibilità", ci si può illudere che, anche senza Riforma, tutto sarebbe uguale, se non migliore. Questo so bene che tu non lo condividi. Ma come fai a non considerare che le affermazioni della Istruzione contribuiscano ad aprire il varco proprio alla "indifferenza" verso la Riforma liturgica, verso la chiesa comunione, verso la articolazione ministeriale della liturgia e della Chiesa, verso il canto come patrimonio comune, verso la partecipazione attiva, verso la iniziazione cristiana degli adulti, verso la corresponsabilità laicale nella offerta...
Qui, caro Pierangelo, vedo una questione che chiede a tutti la massima responsabilità. Anche i teologi debbono fare la loro parte, con schiettezza e parresia e senza perdere il contatto con la realtà effettuale. Non dobbiamo trascurare come, attraverso i provvedimenti che dal 2007 sono stati adottati in questo ambito, venga introdotta nel corpo ecclesiale una tensione sempre maggiore tra due forme di esperienza del rito che, come tali, non sono affatto compatibili, ma rispondono a diversi paradigmi ecclesiali, affettivi e testimoniali.
Resto convinto che questo testo della Istruzione - come già il Motu Proprio e la lettere che lo accompagnava - non sia né istruttivo, né tanto meno possa essere una testimonianza di stile. A me pare, francamente, che se si deve lamentare una carenza grave in tutta questa vicenda è proprio una mancanza di stile. Precisamente di quello cattolico. Di quel grande stile cattolico che abbiamo re-imparato dalla grande stagione conciliare, della quale ora sembra opportuno doversi quasi vergognare. Non mi vergogno del Concilio Vaticano II, caro Pierangelo e anzi posso esserne orgoglioso grazie a quella sensibilità che ho imparato anchedai tuoi libri sapienti e dalle tue parole profonde. E per questo non posso dire affatto che questa Istruzione sia una testimonianza di stile cattolico. Se lo facessi, mi vedresti arrossire.
Con la consueta amicizia
Andrea
Una lezione di stile. Cattolico
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, 14 maggio 2011)
Potrà un gesto di pacata saggezza magisteriale restituirci al senso della fede che ci è comune? E anche, se mi è consentito, ricondurci al senso delle proporzioni, nelle discussioni in materia di liturgia e tradizione?
L’Istruzione diffusa ieri dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei, puntualizza dettagliatamente, con toni fermi e sereni la questione relativa alla teoria e alla pratica della forma liturgica precedente, e costituisce ora, a questo scopo, un autorevolissimo punto di riferimento.
Nell’evidenza di un eccesso di drammatizzazione dell’adeguamento liturgico ufficiale, il Papa Benedetto XVI (come del resto già il beato Giovanni Paolo II) ha giustamente difeso, a più riprese, la sua piena legittimità: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Messale Romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura». Il giudizio, naturalmente, vale dai due lati. Non esiste alcuna ragione per qualificare pregiudizialmente come una deviazione il giusto adeguamento liturgico che la Chiesa autorevolmente procura alla tradizione vivente della fede (la liturgia sarà finalmente perfetta solo in cielo). Così come non esiste alcun motivo per lasciar intendere che un tale sviluppo comporti necessariamente una sorta di ripudio per ciò che nella tradizione liturgica è stato "sacro e grande". E tale rimane.
La comprensione per la venerazione della forma precedente, e la regolata accoglienza del suo esercizio nella Chiesa odierna, confermano esattamente il principio ermeneutico confermato da Benedetto XVI.
L’effettiva percezione di una diffusa sensibilità, fra sacerdoti e fedeli, per il sostegno spirituale loro offerto dalla pratica dell’antico rito, lascia però intuire che quella sensibilità può essere gravemente manipolata (già è avvenuto, come si sa): persino in termini cattolicamente inaccettabili.
Quella sensibilità, infatti, può essere pretestuosamente forzata a intendersi come baluardo della dottrina liturgica autentica contro una forma liturgica - di per sé altrettanto ufficiale e in continuità con la tradizione apostolica - che ne rappresenterebbe la corruzione e la distruzione. O peggio, la sua rivendicazione, in termini a sua volta materialmente esclusivi di ogni vitale adeguamento delle forme, potrebbe essere persino esaltata come simbolo per una linea di resistenza e di lotta al Magistero recente, che reagisce a un processo di generale corruzione della dottrina e della prassi della Chiesa cattolica. Corruzione alla quale gli stessi Sommi Pontefici non sarebbero in grado - o addirittura non avrebbero l’intenzione - di opporsi con la necessaria efficacia.
La continuità dell’affezione nei confronti di una forma rituale venerabile e sacra, che innumerevoli generazioni hanno abitato come espressione dell’immutabile tradizione apostolica, è dunque autorevolmente riconosciuta, in base a princìpi sempre condivisi e mai revocati in dubbio, come espressione legittima di una vera sensibilità cattolica. Il criterio ultimo della sua legittima "ospitalità ecclesiale", raccomandata al saggio discernimento dei vescovi, appare in tutta evidenza nel prologo del documento. Nulla deve ferire la concordia di ogni Chiesa particolare con la Chiesa universale: nella dottrina della fede, nei segni sacramentali, e «negli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica». Interesse rigorosamente comune e principio sicuro di pace ecclesiale.
Di qui in avanti, unire le forze per restituire alla liturgia l’incanto possente della fede che sta al cospetto dell’unico Signore deve apparirci, in questi tempi difficili, l’unica cosa veramente necessaria allo splendore della tradizione della fede. E se fosse proprio questo ciò che ci fa difetto? Da dove viene - e dove ci porta - questa assuefazione all’investitura fai-da-te, che impanca chiunque a salvatore del cristianesimo, e guida sicura delle sue guide insicure? Umiltà e obbedienza non sono virtù essenziali alla tradizione della fede? Se ce ne fossimo dimenticati, antichi o moderni quanti siamo, questo testo non ci istruisce soltanto. Ci dà una lezione di stile. Cattolico.
Perché non dire: “Aspettate”?
Per una revisione dalla base del nuovo Messale Romano
di Michael G. Ryan ("America” del 14 dicembre 2009 - traduzione: www.finesettimana.org)
Sono ora 45 anni da quando il Concilio Vaticano Secondo promulgò l’innovativo e liberante documento sulla sacra liturgia, Sacrosantum Concilium. A quel tempo, da zelante ed entusiasta seminarista del Pontificio Collegio Americano del Nord, ero in Piazza S. Pietro nel giorno di dicembre del 1963 in cui Papa Paolo VI, con i vescovi del mondo, presentò quella grande Magna Carta alla chiesa. Il documento conciliare trascendeva le politiche ecclesiali. Non era solo il progetto favorito di una parte, ma lo schiacciante consenso dei vescovi del mondo. La sua adozione passò con una maggioranza schiacciante: 2147 a 4.
Mai avrei pensato, nemmeno nei miei sogni più folli, di arrivare nella mia vita ad assistere a ciò che appare sempre di più come il sistematico smantellamento della grande visione del decreto conciliare. Ma ci sono arrivato. Noi cattolici ci siamo arrivati.
A dimostrazione di ciò, è sufficiente guardare alle recenti istruzioni della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che hanno elevato il rubricismo a una forma d’arte, oppure il sostegno, persino l’incoraggiamento, alla cosiddetta Messa Tridentina. È divenuto dolorosamente chiaro che la liturgia, la preghiera del popolo, viene usata come uno strumento - qualcuno direbbe persino come un’arma - per portare avanti determinate agende. Ed ora all’orizzonte sono le nuove traduzioni del Messale Romano che presto raggiungeranno gli stadi finali di approvazione da parte della Santa Sede. Fra non molto ai preti di questa nazione sarà detto di portare le nuove traduzioni alla loro gente per mezzo di un programma di formazione attentamente orchestrato che tenterà di dare un’apparenza positiva a qualcosa che chiaramente non la merita.
Ai veterani, che da giovani preti nei passati anni Sessanta hanno entusiasticamente dedicato le proprie migliori energie creative per far accettare le riforme del concilio ai parrocchiani, sarà chiesto di fare lo stesso riguardo alle nuove traduzioni. Tuttavia saremo in difficoltà nel fare questo. Alcuni colleghi nel ministero potranno forse apprezzare l’opportunità, ma non quelli di noi che furono catturati dalla grande visione del Vaticano II, che conoscevano di prima mano la Messa Tridentina ed la amavano per quello che era, ma che accolsero positivamente il suo tramontare per ciò che una piena, consapevole e attiva partecipazione avrebbe significato per il nostro popolo. Possiamo vedere il momento presente solo come un ulteriore assalto al concilio e, tristemente, un ulteriore colpo alla collegialità episcopale. È stato infatti il concilio a dare alle conferenze episcopali l’autorità di di produrre le proprie traduzioni (S.C., n° 36, 40), che devono essere approvate, certamente, dalla Santa Sede, ma su cui essa, presumibilmente, non dovrebbe avere l’iniziativa né il controllo fin nei minimi dettagli. Inoltre, il concilio ha saggiamente previsto tempi di sperimentazione e valutazione (S.C., n° 40) - qualcosa che è evidentemente mancato nel presente caso.
Questo mi porta a porre una domanda ai miei fratelli preti: perché non aprire gli occhi sul fatto che questi testi non sono né pastorali né pronti per le nostre parrocchie? Perché non dire semplicemente: “Aspettate”?
Preghiera e buon senso
So che parlare in questo modo potrebbe apparire come insubordinazione, ma potrebbe essere anche una manifestazione di lealtà e semplice buon senso - lealtà non ad un’agenda ideologica, ma al nostro popolo, la cui preghiera le nuove traduzioni si proporrebbero di migliorare, e buon senso per chiunque si fermi a riflettere su qual è la posta in gioco qui.
Quello che è in gioco, mi sembra, è nientemeno che la credibilità della chiesa. È vero che la chiesa potrebbe guadagnare in credibilità fornendoci traduzioni più belle, ma goffo non equivale a bello, e ricercato non significa adatto alla preghiera. Durante una recente conversazione a cena con amici, la questione delle nuove traduzioni è venuta fuori. Due dei commensali erano ben consapevoli - e piuttosto indignati - delle imminenti modifiche; due non lo erano. Quando i non informati hanno sentito qualche esempio1, la loro reazione è stata fra l’incredulità e l’indignazione.
Uno dei convitati ha azzardato l’opinione che con tutto quello che la chiesa ha sul suo piatto oggi - sfide globali rispetto alla giustizia, la pace, l’ambiente; continui scandali; una grave mancanza di preti; la crescente disillusione di molte donne; una seria diminuzione della frequenza ai riti - sembra quasi assurdo continuare a portare avanti un’agenda che sembra nel migliore dei casi insignificante e nel peggiore completamente scollegata dalla realtà.
La reazione dei miei amici non dovrebbe sorprendere chiunque abbia avuto l’opportunità di esaminare le nuove traduzioni. Alcune di esse hanno dei pregi, ma molte, troppe, non ne hanno. Recentemente l’Arcidiocesi di Seattle ha promosso un seminario sulle nuove traduzioni rivolto agli incaricati laici e al clero. Sia il prete che conduceva il seminario (un valido teologo liturgista) sia i partecipanti si erano ivi riuniti in buona fede. Quando alcuni passaggi dalle nuove proposte traduzioni sono stati letti ad alta voce, con tono serio, dall’oratore (ricordo in particolare la frase dalla prima preghiera eucaristica che attualmente dice “Giuseppe, suo marito”, ma che nella nuova traduzione diventa “Giuseppe, coniuge della stessa vergine”2), si è sentito chiaramente ridere nella stanza. Mi sono trovato a pensare che l’idea che questo avvenga durante la sacra liturgia non è un problema di riso, ma qualcosa che dovrebbe farci tutti tremare.
C’è di più: l’agghiacciante accoglienza che il popolo delle diocesi del Sud Africa ha dato alle nuove traduzioni. Con una straordinaria svista, i vescovi di quella nazione hanno mal interpretato le istruzioni da Roma e, dopo un attento programma di catechesi nelle parrocchie, hanno presentato le nuove traduzioni alla loro gente alcuni mesi fa. Le traduzioni hanno incontrato quasi ovunque un’opposizione al limite dell’oltraggio.
Non è mia intenzione qui discutere in dettaglio gli scorretti principi di traduzione che stanno dietro a questa operazione o le traduzioni deboli e inconsistenti che ne sono risultate. Altri lo hanno già fatto abilmente. Né voglio insistere sul fatto che coloro che hanno predisposto le traduzioni sembrano essere più versati in latino che in inglese. No, la mia preoccupazione è per il passo che sta davanti a noi: la prospettiva di rendere effettive le nuove traduzioni. Questo mi riporta alla mia domanda: perché non dire semplicemente: “Aspettate”?
Perché noi, i parroci di questa nazione che avranno l’onere della messa in pratica, non ritroviamo la nostra voce e diciamo ai nostri vescovi che vogliamo aiutarli ad evitare un fallimento quasi certo? Perché non diciamo loro che pensiamo che non sia saggio rendere effettive queste modifiche fino a quando i membri del nostro popolo non siano stati consultati in una maniera adulta che veramente onori la loro intelligenza e il loro essere battezzati? Perché non dire semplicemente: “Aspettate, non fino a quando il nostro popolo sia pronto per le nuove traduzioni, ma fino a quando le traduzioni non siano pronte per il nostro popolo”?
Ascoltare i nostri istinti pastorali
I vescovi hanno fatto del loro meglio, ma fino ad ora non hanno avuto successo. Alcuni di essi, guidati dal coraggioso e franco ex-presidente della Commissione Episcopale sulla Liturgia, il vescovo Donald Trautman di Erie, Pennsylvania, hanno provato a fermare il treno delle nuove traduzioni, ma inutilmente. La conferenza episcopale, messa ai margini e sfiancata dalle battaglie, ha permesso a se stessa lentamente ma stabilmente di essere logorata. Dopo un po’ la voglia di
combattere semplicemente non c’era più. L’acquiescenza ha preso piede fino al punto che minuscoli miglioramenti (una parola qui, una virgola là) fossero visti come importanti vittorie. Senza nemmeno volerlo, i vescovi hanno abbandonato i loro migliori istinti pastorali e così facendo hanno rinunciato ai migliori interessi del loro popolo. Così sorge la domanda: anche noi preti abbiamo intenzione di rinunciare? Anche noi abbiamo intenzione di adeguarci? Certamente noi dobbiamo ai nostri vescovi l’obbedienza e il rispetto a cui ci siamo impegnati il giorno della nostra ordinazione, ma obbedienza significa complicità con qualcosa che percepiamo come sbagliato - o, nel migliore dei casi, irrazionale? Obbedienza significa andare contro i nostri migliori istinti pastorali al fine di promuovere qualcosa che crediamo, alla fine, porterà discredito alla chiesa e ulteriore disillusione al popolo? Penso di no. E il rispetto implica un’adesione solo formale a qualcosa verso cui la nostra reazione più istintiva è di definirla temeraria? Di nuovo, penso di no.
Ecco le mie modeste proposte.
Perché i pastori, i consigli pastorali, le commissioni liturgiche e i consigli presbiterali non si appellano ai loro vescovi chiedendo un tempo di riflessione e consultazione sulle traduzioni e sul processo attraverso il quale saranno date al popolo? È ironico, a dire il meno, che impieghiamo ore per la consultazione quando si progetta di ristrutturare una chiesa o una sala parrocchiale, ma poco o nessun tempo quando si vuole “ristrutturare” la stessa lingua della liturgia.
Perché, prima di rendere effettive le nuove traduzioni, non facciamo alcuni “esperimenti di mercato”? Perché in ciascuna regione ecclesiastica non si scelgono alcuni posti per sperimentare le nuove traduzioni: parrocchie urbane e parrocchie rurali, parrocchie ricche e parrocchie povere, parrocchie grandi e multiculturali e parrocchie piccole, comunità religiose e campus universitari? Perché non utilizzare in queste prescelte comunità, per il tempo di un intero anno liturgico, le nuove traduzioni, con una catechesi attentamente progettata e una valutazione approfondita e onesta? Un tale esperimento non fornirebbe preziose informazioni sia per i traduttori che per i vescovi? E un tale esperimento non renderebbe molto più facile la messa in opera delle nuove traduzioni una volta pronte?
In breve, perché non dovremmo fidarci dei nostri migliori istinti e difendere il nostro popolo da questo mal concepito sconvolgimento della sua vita di preghiera? Perché la collegialità, il dialogo e una realistica consapevolezza dei bisogni pastorali del nostro popolo non dovrebbero essere introdotti in questa fase finale della partita? È impossibile pensare che potremmo aiutare la chiesa che amiamo a evitare un fallimento o persino un disastro? Ed è impossibile pensare che le voci nella chiesa che hanno deciso che la latinità è più importante della lucidità potrebbero finire per ascoltare il popolo e rivedere la loro posizione, e che le frasi prolisse, sgraziate e goffe potrebbero essere ridotte, lasciando posto a traduzioni nobili, persino poetiche di testi bellissimi e antichi che sarebbero veramente degni della nostra più grande preghiera, degni della nostra lingua e degni del santo popolo di Dio di cui questa preghiera è? (Se pensate che la precedente frase sia sgraziata, aspettate di vedere alcune delle nuove traduzioni del Messale. Potrebbero essere leggibili, ma al limite dell’impronunciabile!)
“Perché non dire semplicemente di no?” era il mio titolo di lavoro per questo articolo. “Perché non
dire semplicemente: “Aspettate”?” sembra preferibile. Il dialogo è meglio della diatriba, come il
Concilio Vaticano Secondo ha ampiamente dimostrato. Che dunque il dialogo cominci. Perché non
permettere ai preti che sono in prima linea e ai laici che pagano i conti (compresi i salari di preti e
vescovi) di esprimersi su come dovrebbero pregare? Se pensate che questa idea abbia valore, vi
invito a visitare il sito www.whatifwejustsaidwait.org e a far sentire la vostra voce. Se i nostri vescovi
conosceranno la profondità della nostra preoccupazione, forse non si sentiranno così soli.
—
Il rev. Michael G. Ryan è pastore della Cattedrale di S. Giacomo a Seattle dal 1988 e membro del comitato direttivo della Conferenza nazionale dei Ministri di Cattedrali
1 N.d.t.: qui il testo originale inserisce fra parentesi alcuni esempi (“and with your spirit”; “consubstantial with the
Father”; “incarnate of the Virgin Mary”; “oblation of our service”; “send down your Spirit like the dewfall”; “He took
the precious chalice”; “serene and kindly countenance”) che non traduciamo.
2 N.d.t.: letteralmente, “Joseph, her husband” e “Joseph, spouse of the same virgin”.
“Non posso promuovere in coscienza la nuova traduzione inglese del Messale romano”
di Fr. Antony Ruff osb
in “The Tablet online” del 7 febbraio 2011 (traduzione: Maria Teresa Pontara Pederiva) *
Vostre Eminenze, vostre Eccellenze,
è con il cuore pesante che recentemente ho assunto una decisione difficile riguardo alla Nuova traduzione inglese del Messale romano. Nello specifico ho deciso di annullare tutti i miei interventi di presentazione del nuovo Messale che erano programmati in giro per gli Stati Uniti. Dopo essermi consultato col mio direttore spirituale e dopo grande preghiera, sono giunto alla conclusione di non essere in grado di promuovere in coscienza la nuova traduzione. Sono sicuro che i vescovi chiedano un oratore che metta in luce gli aspetti positivi del Messale, ma ciò richiederebbe fare delle affermazioni in cui non credo.
Amo la Chiesa, amo la sacra liturgia, amo il canto in lingua latina e quello in lingua inglese, ed è stata per me una grande ricchezza l’essere coinvolto in tutto questo, come monaco e come prete. Come è stato per me un onore prestare il mio servizio fino a poco tempo fa come presidente della sezione per la musica della Commissione internazionale per la Liturgia in lingua inglese (ICEL) che ha predisposto tutti i canti per il nuovo Messale. Tuttavia il mio coinvolgimento in questo processo, come pure la mia riflessione sui motivi di scandalo della Santa Sede, mi hanno progressivamente aperto gli occhi sui problemi profondi all’interno delle strutture di potere della nostra chiesa.
Il Nuovo Messale è ormai imminente, ma anch’esso fa parte di uno schema più ampio di imposizioni calate dall’alto da parte di un’autorità centrale che non si ritiene responsabile di una chiesa più grande. Quando penso a come sia stato tenuto segreto tutto il lavoro di traduzione, a quanto sia stata quasi inesistente la consultazione di preti e laici, a come la Santa Sede abbia permesso ad un gruppo estremamente ristretto di persone di condurne in porto la stesura finale, a come sia insoddisfacente il testo licenziato, a come il testo sia stato imposto ancora una volta dall’alto alle conferenze episcopali nazionali in violazione della loro legittima autorità, e a quanti errori hanno caratterizzato questo processo, e di rimando penso agli insegnamenti di nostro Signore in termini di servizio, amore e unità ... mi viene da piangere.
Registro una certa disillusione nei confronti della chiesa cattolica tra i miei amici e conoscenti. Alcuni li vedo lasciarla con convinzione, altri si allontanano gradualmente, alcuni aderiscono ad altre confessioni, alcuni rimangono cattolici non senza difficoltà. Il mio proposito è quello di restare in questa chiesa e fare del mio meglio per servirla. Questa è la mia speranza, a patto di esprimere ciò che penso, sempre con carità e rispetto. Assicuro la mia disponibilità a partecipare a futuri progetti in ambito liturgico, ma solo in presenza di condizioni più favorevoli.
Mi dispiace per le difficoltà che sto arrecando ad altri con il mio ritiro, ma sono convinto che questa per me sia la cosa giusta da fare. Pregherò per voi e per tutti i responsabili della nostra chiesa
Pace in Cristo.
Fr. Antony Ruff osb
Monaco benedettino dell’abbazia di Saint John a Collegeville in Minnesota (Stati Uniti) e docente
di liturgia e canto gregoriano.
Ha fatto parte del Comitato che ha elaborato il documento del 2007
della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti “Cantate al Signore: la musica nella sacra liturgia”. E’
fondatore del National Catholic Youth Choir e responsabile del blog Pray Tell.
La lettera è stata pubblicata in data 7 febbraio su “America” online, la rivista dei Gesuiti Americani
e su The Tablet online, rivista cattolica inglese.
(Trad. di Maria Teresa Pontara Pederiva)
* http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201102/110208ruff.pdf
I preti irlandesi boicottano la Nuova Traduzione del Messale Romano
di Sarah Mc Donald
in “The Tablet” del 12 marzo 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
La stragrande maggioranza dei preti cattolici d’Irlanda ha riferito di essere in consultazione reciproca per decidere in merito al boicottaggio della Nuova traduzione del Messale Romano. In particolare p. Sean Mc Donald dell’Associazione Preti Cattolici (ACP) riferisce che il gruppo sta esaminando la proposta a seguito dell’annuncio di questa settimana da parte del primate della Chiesa d’Irlanda, il card. Sean Brady, secondo il quale l’introduzione del Nuovo Messale nelle chiese d’Irlanda sarebbe previsto per la prossima 1° Domenica d’Avvento.
In riferimento alla decisione annunciata da parte di alcuni preti d’Australia e degli Stati Uniti di boicottare il Nuovo Messale, p. Mc Donald afferma che, se alcuni membri della Chiesa sono stati autorizzati ad utilizzare il Messale di Pio V perché non avrebbero potuto in coscienza usare il Novus Ordo, non si comprende perché Roma non potrebbe autorizzare altre persone che in coscienza non si sentono in grado di utilizzare questo Nuovo Messale per ragioni di natura teologica.
P. Ma Donald aggiunge: “Sto per andare in pensione e ritirarmi in una casa di riposo, ho passato da
un pezzo gli ottant’anni e quando dico durante la messa
Il mese scorso l’associazione ACP ha avuto un incontro con i vescovi irlandesi dove ha richiesto una sospensione dell’introduzione del Nuovo Messale affinché i preti e i fedeli potessero essere consultati in merito. Un membro della gerarchia aveva promesso una risposta in merito a tale richiesta. Ciononostante, il card. Brady ha dato invece l’annuncio dell’introduzione ufficiale e generalizzata del Nuovo Messale proprio lunedì scorso in occasione del lancio dei diversi progetti in vista del 50° Congresso Eucaristico Internazionale che si terrà a Dublino nel mese di giugno 2012.
Ci sono state anche delle illazioni circa la possibilità di una visita del papa per questa celebrazione, sebbene l’arcivescovo Martin Diarmuid abbia smentito sul nascere ogni cosa. “Al momento non esiste alcun progetto riguardo ad una visita papale - ha affermato - il papa è stato invitato, ma non è stato ancora deciso niente al riguardo”. E poi ha aggiunto: “Il papa è ovviamente impegnato e coinvolto nel percorso di rinnovamento che la Chiesa irlandese ha intrapreso per affrontare con decisione i gravi problemi degli ultimi anni. Se lui deciderà di venire in Irlanda, la visita si collocherà nel contesto di quel cammino di rinnovamento”.
P. Mc Donald, a nome dell’ACP, si mostra anche molto critico nei confronti della decisione di istituire una tassa di partecipazione in occasione del Congresso Eucaristico di € 80,00 (£ 69) a carico di ogni fedele. A suo dire questo vorrebbe dire essere certi che “quanti non potranno pagare non potranno neppure essere presenti”. Ad ogni buon conto il direttore generale del Congresso, Anne Griffin, ha replicato che, quando l’evento si è svolto a Quebec (Canada), la tassa di partecipazione era stata di € 240 (£ 204) e che sia lei che tutti gli organizzatori hanno cercato con ogni mezzo di mantenere basso il costo di questa edizione irlandese. “Non è nostra intenzione che il costo di partecipazione diventi proibitivo per nessuno”. Il Congresso Eucaristico Internazionale si svolgerà a Dublino dal 10 al 17 giugno 2012 e si prevede la partecipazione di almeno 80.000 persone.
FONTE: www.finesettimana.org
Visto che lei difende a spada tratta il SACROSANCTUM CONCILIUM, le vorrei ricordare, qualora non lo avesse ancora letto, alcuni stralci:
36. (1) L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.
54. Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua nazionale, specialmente nelle letture e nella « orazione comune » e, secondo le condizioni dei vari luoghi, anche nelle parti spettanti al popolo, a norma dell’art. 36 di questa costituzione. Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della messa che spettano ad essi.
91. Affinché l’ordinamento dell’ufficio proposto nell’articolo 89 possa essere veramente attuato, il salterio sia distribuito non più in una settimana, ma per uno spazio di tempo più lungo. L’opera di revisione del salterio, felicemente incominciata, venga condotta a termine al più presto, tenendo presente il latino usato dai cristiani, l’uso che ne fa la liturgia e le esigenze del canto, come pure tutta la tradizione della Chiesa latina.
101. (1) Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell’ufficio divino la lingua latina. L’ordinario tuttavia potrà concedere l’uso della versione in lingua nazionale, composta a norma dell’art. 36, in casi singoli, a quei chierici per i quali l’uso della lingua latina costituisce un grave impedimento alla recita dell’ufficio nel modo dovuto.
Cordialmente, FS.
Il Latino, nuova lingua d’America
In dieci anni aumentato del 30% il numero di chi supera l’esame
Sorpresa, nei licei americani è di moda studiare latino
Raggiunto il record degli ultimi trent’anni di ragazzi che traducono Orazio e Cicerone
Il preside di una scuola di Brooklyn: "È lo studio che distingue le persone di successo"
di Marina Cavallieri (la Repubblica, 8.10.2008)
ROMA. Sarà responsabile la crisi economica e dei valori o semplicemente colpa dei film dai grandi incassi, dal "Gladiatore" a "Troy" fino alle formule magiche di "Harry Potter", ma il paese più moderno e più avanzato del mondo torna all’antico e sui banchi di scuola sceglie di studiare il rigore, il passato ovvero il latino. Nelle scuole di New York ma anche in Nuovo Messico e Alaska, sempre più studenti si applicano alla lingua di Cicerone.
Si cimentano con i futuri e i participi, abituati ad un idioma sintetico e globale guardano indietro e scelgono di declinare rosa, rosae. Un articolo del New York Times illustra una tendenza che forse è qualcosa di più di un episodio e qualcosa di diverso da una moda scolastica, è una ventata di classicismo che si diffonde nelle aule dove gli studenti navigano su Internet e comunicano con sms e chat. Crescono infatti i corsi di latino, fa proseliti la cultura dei "padri europei", un mondo non più noioso, obsoleto o snob, ma per i ragazzi semplicemente cool.
Le cifre sono sufficienti a far parlare di un fenomeno e a spingere ad indagare: negli ultimi due anni sono stati più di 134 mila gli studenti americani che si sono presentati all’Esame nazionale di latino, erano stati 124 mila del 2003 e i 101 mila del 1998. Gli studenti che superano l’Advanced Placement Test sono raddoppiati in dieci anni, più di 8 mila nel 2007. Non solo corsi di studio ma anche scuole come la Brooklyn latin school, sorta nel 2006, dove il preside Jason Griffiths spiega solennemente che il latino è «la lingua delle persone di successo». Non ci sono però solo i libri per studenti secchioni ma anche spettacoli per nuovi fans come quello che mette su il liceo di Scarsdale, nello stato di New York, che organizza ogni anno un banchetto per le Idi di marzo dove bisogna presentarsi vestiti con la toga. Gli studenti invece di inorridire sono aumentati del 14 per cento. È così che dopo il francese e lo spagnolo la lingua di Cicerone potrebbe raggiungere il tedesco nella classifica delle più studiate lasciando indietro il cinese, troppo lontano e oscuro anche se emergente.
«Non mi stupisce questo interesse, mi stupisce che arrivi adesso», dice in Italia Filippo Tarantino, preside e protagonista di una rete europea di scuole e insegnanti che promuove la cultura classica e i valori umanisti, si chiama Ewhum ed è attiva in nove paesi, dalla Spagna alla Romania. «Gian Battista Vico diceva che quando una nazione vuole nobilitarsi deve cercare le radici. Le nazioni più avanzate hanno capito che se vogliono radicarsi, devono andare al passato. Dal latino c’è molto da imparare, la sua logica è la cosa più istruttiva che ci sia, ma tutta la storia è ancora ricca d’insegnamenti: gli antichi romani sono riusciti a costruire un impero grandissimo e far parlare tanti popoli lo stesso linguaggio».
«Futuro latino» recitava un convegno recente che proponeva uno sguardo al passato per affrontare i rischi e le incognite della globalizzazione. «Credo che questo interesse si possa leggere anche come un antidoto alla modernità e ai suoi eccessi», spiega Michele Cortellazzo, docente di linguistica. «In Italia siamo ancora dentro ad un discorso di distacco e abbandono ma i paesi più avanzati possono volgersi al passato senza complessi». Il latino ha confini chiusi, «monolitici, è una lingua ancora governabile», nel mondo che cambia la lingua dei Cesari può essere anche rassicurante.
C L E
„CENTRUM LATINITATIS EUROPAE“
Associazione per la Valorizzazione delle Culture Classiche
Sede in Aquileia (UD)
Il CLE è inserito nell’ elenco definitivo dei soggetti qualificati dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per la formazione del personale docente (Decreto del 6.12.2004 Prot. n. 4349/C/3, ai sensi del D.M. 177 del 10.7.2000)
26-27 ottobre 2007
Convegno Internazionale
Quale latino per l’Europa?
Aquileia (UD) 27 ottobre 2007
Ore 9.00 - 13.00
l’Associazione Centrum Latinitatis Europae ha organizzato, per il decennale della sua costituzione, un Convegno Internazionale “Quale latino per l’Europa?”, che si terrà ad Aquileia (UD) nei giorni 26-27 ottobre 2007 .
Il Convegno costituisce occasione di incontro fra Autorità politiche a tutti i livelli, dal Comune alla Provincia, alla Regione a Enti Sopranazionali, e Personalità del mondo della Scuola, rappresentanti del Ministero, dell’Ufficio Regionale, dei docenti, dei sindacati, delle Associazioni, degli Editori.
Al Convegno partecipano Autorità ecclesiastiche, in quanto la Chiesa, realtà sopranazionale, ha avuto il merito di aver mantenuto l’uso della lingua latina e conservato il patrimonio di valori e di saperi di due millenni.
L’incontro allargato a tutte le componenti della società conferisce valore all’apprendimento di questa disciplina rigorosa, formativa e pluridisciplinare, che non può rimanere circoscritta agli anni del Liceo, ma deve costituire la base della formazione del cittadino europeo nei vari ambiti in cui si troverà ad operare: il Diritto, gli Studi storici, gli Studi scientifici, gli Studi di Archivistica, l’Archeologia, l’Epigrafia e la Paleografia.
Il momento attuale, infatti, richiede particolare attenzione all’impegno civile, alla cittadinanza responsabile, al senso di appartenenza ad una realtà geopolitica che abbraccia l’Europa ed i Paesi dell’Area Mediterranea.
In questo contesto il latino rappresenta un denominatore comune fra le culture degli Stati, un elemento di unione, un legame tra passato e presente, tra studi specialistici e bisogni culturali del territorio.
Senza la conoscenza, ma una conoscenza forte, sostenuta dalla comunità, il passato diventa muto, e non sarà più in grado di parlare alle generazioni future. Tutto il patrimonio di immagini, simboli, metafore, valori trasmessi dal mondo culturale latino deve non solo essere tramandato, ma anche diffuso fra coloro che non lo hanno studiato direttamente.
Solo così l’Umanesimo del XXI secolo può ricongiungersi idealmente all’Humanitas romana, per attingervi nuova linfa, nuovo entusiasmo, nuova forza, nuovi significati e proseguire nel cammino di piena realizzazione delle capacità razionali e di affermazione della giustizia e della ricerca del bene pubblico.
Le nostre convinzioni ci portano alla richiesta, da inoltrare al Parlamento Europeo, del riconoscimento del latino quale lingua ufficiale dell’Europa, lingua di sostrato culturale. Crediamo che un fenomeno mondiale come la lingua latina possa costituire un forte elemento di coesione ed un fattore di propulsione scientifico-culturale per il nostro Paese.
Ci adoperiamo perché non muoia il valore della cultura, perché dall’antichità si possano leggere tracce significative per sostenerci nell’azione quotidiana e nella costruzione di una nuova, ragionevole fiducia nell’uomo.
Aquileia 19 settembre 2007
Loredana Marano
Coordinatore Generale
Centrum Latinitatis Europae
0431-30431
347-9821990
Libro sulla restaurazione del Messale tridentino
di Paolo Farinella *
Care Amiche e Amici,
Vi chiedo scusa per l’invadenza e anche a quelli che ricevono in doppio o triplo.
Vi comunico che è in libreria il mio ultimo libretto (Paolo Farinella, Ritorno all’antica Messa. Nuovi problemi e interrogativi, Prefazione di P. Rinaldo Falsini, Il Segno dei Gabrielli Editori, pp. 80, euro 10,00), scritto di getto e pubblicato contro ogni criterio economico in piena estate.
Il libro si compone di 80 pagine, appassionato e a tratti veemente è un grido di opposizione al tentativo di restaurazione della Chiesa che questo papato persegue. Restaurando il vecchio messale del 1570 per venire incontro ad un gruppo di irriducibili nostalgici, il papa non esita a sconfessare il concilio, nonostante le sue intenzioni.
Per la prima volta un prete si dichiara "obiettore di coscienza" a fronte di un documento papale che cerca di riportare la chiesa indietro di cinque secoli.
Il libro ha valore anche per la straordinaria prefazione di P. Rinaldo Falsini, straordinario liturgista e vivente testimone della commissione conciliare della Liturgia di cui fu il verbalista ufficiale.
Paolo Farinella, prete
A tutti coloro che sono interessati a proseguire e sviluppare le riforme e le intuizioni del concilio Vaticano II e a contrastare l’involuzione della chiesa, rivolgo l’invito di scrivere una lettera personale al proprio vescovo di questo tenore:
Al vescovo ________________
Via/Piazza ________________
Cap. Città ________________
Sig. Vescovo,
Ripristinando il messale preconciliare, il Papa riporta la chiesa indietro di 5 secoli, sconfessando così il concilio Vaticano II. Desidero fare giungere al papa il mio atto di fedeltà al concilio che il papa stesso dovrebbe chiedere a quanti ne denigrano lo spirito e le riforme, usando la Messa preconciliare come arma di ricatto. Pertanto non condivido né posso accogliere il motu proprio del papa come vincolante la mia coscienza.
Chi vuole può aggiungere, se ha letto e condiviso:
Condivido gli argomenti contrari al documento pontificio descritti nel libro "Ritorno all’antica Messa. Nuovi problemi e interrogativi" di Paolo Farinella, Il Segno dei Gabrielli Editore, 2007 e ne partecipo l’obiezione di coscienza.
Cordiali saluti
Data
Firma
L’invito è rivolto anche ai non credenti perché il ritorno alll’indietro è una tragedia che tocca tutti: dietro questa restaurazione che una visione fondamentalista del cristianesimo che ha ripercussioni sulla politica, sullo Stato di diritto e sul rapporto chiesa-mondo. Questo documento è il primo passo nella direzione di una "santa alleanza" tra fondamentalismo cattolico/cristiano e islamico: dicono le proiezioni che fra 30 anni saranno le due religioni dominanti in Europa e alleate insieme sapranno imporre agli Stati politiche generali e sociali, creando uno Stato sottomesso, nelle forme formali della democrazia, al potere delle religioni. Altro che Stato etico!!!!!!. Questo, a mio parere è l’obiettivo finale di Benedetto XVI e il ritorno alla Messa del Concilio di Trento ne è solo il primo gradino o tassello.
Quei cattolici e non credenti che riducono la questione ad un fatto interno alla Chiesa o peggio ad una questione di Messa in latino o in italiano, non colgono la dimensione drammatica della strategia religiosa che dominerà ogni questione per i il prossimo.
Cordialmente
Paolo prete
* Il dialogo, Lunedì, 30 luglio 2007
LA MESSA DI PIO V
Come precisa bene l’amico Paolo Farinella, il problema non è la "Messa in Latino" come volgermente la stampa di corte la vuole far passare, ma l’ecclesiologia che c’è dietro, la considerazione del "Mondo" e i rapporti "Chiesa/Mondo" che vi sottendono.
Le parole me le ha rubate don Paolo, per cui vi incollo semplicemente la lettera da lui scritta e che io sottoscrivo a quattro mani.
Aldo [don Antonelli]
di Paolo Farinella
Dispiace che una delle «teste ordinate e ben fatte» come don Balletto abbia fatto cilecca d’un colpo, scrivendo dotte considerazioni filosofiche sul «Messa in latino» e sull’estetica della lingua latina. Questo modo di presentare il documento pontificio « Summorum Pontificum» è deformante, falso e purtroppo ci cascano tutti forse perché è un modo innocuo per far passare scelte destabilizzanti, mistificatorie e sbagliate.
No, caro don Antonio Balletto! Io non ci sto a questo irenismo di un colpo al cerchio e uno alla botte proposto alla fine dell’articolo. Il motu proprio di Benedetto XVI non restaura la «messa in latino», ma autorizza i fedeli a chiedere la celebrazione della «Messa tridentina», detta di Pio V, ritoccato più volte da Clemente VIII, Urbano VIII, Pio X, Benedetto XV e Pio XII.
E’ una questione totalmente differente. Che la Messa di Pio V sia in latino o in greco o in siriano o in genovese è ininfluente perché puramente accidentale, ciò che invece è tragico, antistorico e dubbio da un punto di vista dottrinale, riguarda la restaurazione pura e semplice della teologia e della ecclesiologia che sottostanno al rito tridentino. Teologia ed ecclesiologia che configgono con il magistero successivo (potrei portare in qualsiasi sede ampia facoltà di prova) e specialmente con il magistero di Giovanni XXIII, Paolo VI e del Concilio, la cui Messa riformata da sempre si può dire in latino, se occorre la necessità. Io stesso l’ho utilizzata con amici polacchi.
I nostalgici lefebvriani hanno fatto della Messa la loro bandiera, ma dietro c’è un esercito di motivi teologici che essi contestano. Essi rifiutano a piè di lista il concilio ecumenico Vaticano II, definiscono Paolo VI papa demoniaco, i papi da Paolo VI a Giovanni Paolo II papi scismatici e senza autorità. Hanno formulato negli anni ’80 la tesi teologica detta di «Cassiaciacum» con cui dimostrano che questi papi pur essendo stati eletti legittimamente, non hanno ricevuto la potestà apostolica per cui non hanno autorità sulla chiesa. I fedeli non sono tenuti ad ubbidirgli, altro che latino!
Il papa non si limita a concedere «la Messa in latino», ma concede il «messale di Pio V», contrabbandato come «messale di Giovanni XXIII» che è un falso storico, dal momento che questi si è limitato ad aggiungere il nome di San Giuseppe nel canone e a togliere l’espressione «pro perfidis Iudaeis», editando il messale precedente in tutto e per tutto perché ancora non era giunta la riforma conciliare. Accanto al messale tridentino concede l’uso del «sacramentario» cioè la celebrazione dei sacramenti (battesimo, cresima, matrimonio, ecc.) secondo i riti preconciliari. Addirittura a chi ne ha l’obbligo concede l’uso dell’antico breviario, azzerando in un solo colpo la riforma di Paolo VI che parlava di «Novum Messale» e di «Liturgia delle Ore».
Non è una questione banale di lingua che non interessa nessuno, è uno scontro titanico di culture e di teologie. Dietro Pio V c’è la teologia della Chiesa senza popolo: attore del culto divino è solo il prete che parla da solo come e scandisce in forma magica le parole consacratorie; c’è l’antigiudaismo viscerale, c’è la visione del mondo come «cristinairìtà», ecc.. Dietro Paolo VI c’è la chiesa popolo di Dio che è il soggetto celebrante, c’è la Chiesa «nel mondo»; c’è il popolo ebraico «fratello maggiore»; c’è la coscienza come termine ultimo di decisione, ecc.
Dietro a tutto vi sono due ecclesiologie, due modi di concepire il mondo, l’uomo, le relazioni con gli Stati, la libertà religiosa e di coscienza. Altro che latino, lingua bella e formatrice di teste pensanti! Se questi sono i risultati, significa che il latino ha costruito teste fragili e pensieri deboli e sensibilità bambine
Don Balletto vuole la prova? Il Capo degli scismatici lefebvriani: Bernard Fellay ha già dichiarato che questo è solo l’inizio perché ora si tratta di affrontare tutti i problemi che stanno dietro la Messa di Pio V e cioè i problemi dottrinali incompatibili con il Vaticano II.
Questo motu proprio, un vero blitz del papa tedesco contro il parere della quasi totalità dei vescovi e dei cardinali, è solo l’inizio di una valanga. Infatti, coerentemente, ad esso è seguito l’ultimo documento della Congregazione della fede che ancora una volta sconfessa Paolo VI e il Concilio e chiude definitivamente il dialogo ecumenico. Non mi meraviglia questo secondo documento perché è in pieno nella logica della teologia e dell’ecclesiologia tridentina espressa nel messale di Pio V, sia che sia in latino sia che sia in genovese.
Il papa è ossessionato dal concilio e intende metterlo in soffitta. Non ci riuscirà perché anche i papi sbagliano e questo cammino antistorico all’indietro gli si ritorcerà contro, come sta già avvenendo.
La Lega di Bossi ha già mobilitato i suoi xenofobi a pretendere dai parroci la «Messa del passato» e il ritorno alla teologia di ieri, l’abolizione del concilio e il ripristino del magistero di sempre. Don Balletto è servito anche in lingua padana.
Per quanto mi riguarda in quanto prete io mi dichiaro obiettore di coscienza in nome e per conto di Paolo VI e per fedeltà al Concilio ecumenico vaticano II.
"Plaudo toto corde alla reintroduzione del rito tridentino, dono affettuoso del nostro Pontefice regnante : questa è la mia lex orandi e spero che i Vescovi non ostacolino i desiderata del Papa, come spesso successo in tante occasioni. Voglio pregare "una voce" e bere alle sorgenti. Non mi turba il fatto che si tratti di un latino manipolato, come riferisce qualcuno: seguirò ogni prassi pur di raggiungere lo scopo." Spero che la Carità dei Vescivi mi conceda questa possibilità promessami da PIETRO.
fedele autilio
PLAUTO TOTO CALCIO REINTRO, RIDO ET RIDENTINO ... PILATO NON TURBA LATINO MANI POLATO.
SPERO, CARI TADEI, VES o CIVI, MESSA MIDA. PIETRO, FEDELE aut ILIO.
Il dibattito sulla messa in latino
Concilium Vaticanum IIum, vale!
di FRANK K. FLINN
(Traduzione di Stefania Salomone) *
Così non si tratta semplicemente di usare il Latino nella Messa al posto del vernacolare. Si tratta di ritornare al rito del 1570. Questo significa:
L’altare rivolto di nuovo verso la parete del santuario.
L’eliminazione della messa vespertina del Sabato per la Domenica
Re-installazione delle ringhiere per la fila per la comunione
Le donne indosseranno il copricapo a Messa
La comunione solo per via orale (n.d.r. nel senso che non si potrà più prendere l’ostia con le mani ma sarà il solo sacerdote a imboccare i fedeli)
Eliminazione della comunione sotto e due specie
L’attuale repertorio di canti sostituito da quello in gregoriano
Servizio femminile all’altare eliminato
Digiuno dalla mezzanotte per la comunione della domenica
Liturgia per i bambini in latino
Diletto dei latinisti
I seminari saranno di nuovo pieni di leggi/norme/regolamenti che imporranno ai giovani di indossare la tonaca
I preti, religiosi, laici nel mondo che hanno portato avanti le lotte per i diritti umani, la giustizia sociale saranno fermati e soffocati
La chiesa accelererà il suo declino e divverà ancor più irrilevante in questi tempi cruciali di tumulti sociali nel mondo.
Jay Leno farà un intero monologo inLatino. L’indice di ascolto di ETWN salirà alle stelle.
Don Campbell
il vostro corrispondente canadese
L’articolo che segue è del Boston Globe di oggi.
Boston Globe
FRANK K. FLINN
Concilium Vaticanum IIum, vale!
10 luglio 2007
I cattolici nel mondo non devono farsi illusioni. La recente decisione di Papa Benedetto XVI di incoraggiare un più largo uso della messa Tridentina in Latino è l’ultima mossa della sua campagna per bloccare la riforma liberale nelle pratiche religiose dei cattolici dal 1960.
La mossa potrà facilmente dare l’avvio ad uno scisma liturgico in tutto il mondo.
Il vecchio rito della Messa fu promulgato da Papa Paolo V col Messale Romano nel 1570. In questo rito il prete celebra da un altare rialzato, di spalle alla assemblea e balbettando le parti principali della liturgia in Latino.
La Messa Tridentina rimase fino alla nuova formula promulgata nel 1969 da Papa Paolo VI al Concilio Vaticano II (1962-65). Tornando alle antiche tradizioni di culto, la nuova Eucarestia fu tradotta nelle lingue locali. Il prete ora celebrava di fronte all’assemblea. Con l’espandersi del canto liturgico nel mondo venne inclusa anche la musica gospel, canti africani e tamburi, le band mariachi messicane, la musica fold e perfino dei ritmi pop. Immediatamente i cattolici conservatori attaccarono il nuovo rito, ma Paolo VI replicò che il vangelo sarebbe andato perduto se la gente non avesse conservato il proprio linguaggio e i propri costumi.
Le critiche continuarono da parte di una minoranza tradizionalista. Nel 1968 l’ex arcivescovo francese Marcel LeFebvre condusse una piccola minoranza di cattolici attraverso uno scisma col quale egli e i suoi seguaci dichiararono eretica la "Messa di Paolo VI". I lefebvriani non solo rifiutarono la nuova liturgia, ma rigettarono la dottrina chiave del Vaticano II in materia di ecumenismo, libertà religiosa e collegialità. La collegialità era il concetto fondamentale che ha mosso il Vaticano II. La durezza dell’opposizione dei tradizionalisti nei confronti delle novità del Vaticano II era e rimane sbalorditiva.
Dall’altra parte nella chiesa, i progressisti volevano portare avanti le aperture iniziate col Vaticano II, non solo in ambito liturgico, ma sull’ecumenismo, il coinvolgimento dei laici, le attività cristiane a sfondo sociale (teologia della liberazione, femminismo, ecologia) e argomenti etici (celibato, controllo delle nascite). Paolo VI iniziò a porre le basi, ma Papa Giovanni Paolo II e il Cardinale Joseph Ratzinger, il suo nuovo Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, continuarono verso una completa opera di ostruzionismo.
Hanno voluto sempre contrastare la parte progressista della chiesa. Negli anni ’80 hanno messo a tacere il teologo della liberazione Leonardo Boff, hanno rimosso lo svizzero Hans Küng e l’americano Charles Curran dalle loro cattedre, e senza scrupoli hanno arbitrariamente scomunicato l’indiano Tissa Balasuriya. (Tale atto fu annullato). Proprio quest’anno il papa ha censurato il teologo della liberazione salvadoregno Jon Sobrino usando la vecchia tattica vaticana del mettere insieme le sue citazioni tacciandole di essere fuori da ogni contesto.
In contrasto, il papato rimane inspiegabilmente indulgente verso gli scismatici lefebvriani nonostante essi continuassero a disprezzare lo stesso Vaticano. Infatti negli anni ’80 il Cardinale Ratzinger riservo loro delle ammonizioni. Nella prefazione di un trattato liturgico egli accusò la Messa moderna di essere uno modello capriccioso e di cattiva fabbricazione. Continuò a tenere a esempio i riti dell’Est, ortodossi, indicandoli come "liturgia eterna". Si potrebbe parlare di pregiudizio eurocentrico nelle sue valutazioni.
Il papa non ha mai delegato aspetti della gestione dele varie branche della chiesa cattolica. Ha semplicemente capitolato sui lefebvriani, che continuano a guardare in dall’alto in basso i parrocchiani cattolici che gradiscono in rito nella propria lingua col prete di fronte. Il fascino della "liturgia eterna" è falso. Le liturgie delle chiese antiche era sia multiforme che multilingue, nella prima generazione spaziava dall’aramaico, al greco, al siriano. La prima chiesa conosciuta, ritrovata recentemente a Megiddo in Israele, non ha un altare elevato e separato dal cuore della comunità. Un vero tradizionalista abbraccerebbe con gioia i molti llinguaggi e culture del mondo come accadeva nelle prime comunità.
Perché dico addio al Vaticano II? Una delle basi del concilio era il movimento liturgico che durò fino alla metà del secolo. I riformisti della liturgia erano convinti che la liturgia era del popolo, dal popolo e per il popolo di Dio, a prescindere se laico o religioso. La parola "liturgia" in greco significa "il lavoro del popolo". Questa nozione racchiude il principio della collegialità, la chiave teologica promulgata nel Vaticano II. La Messa Tridentina è lavoro del prete. Rimettendo indietro l’orologio liturgico a distanza dalla creativa molteplicità delle prime comunità cristiane, ma verso l’età d’oro dell’Inquisizione, della monarchia papale di Trento, Papa Benedetto XVI sta abbandonando il principio di collegialità che abbraccia tutti i vescovi, tutti i preti, tutti i diaconi e i laici intesi come comunità di fedeli. Questo dice "addio" al Vaticano II!.
Frank K. Flinn,
professore ausiliario di studi religiosi alla Washington University di St. Louis,
autore della "Enciclopedia del Cattolicesimo"
© Copyright 2007 The New York Times Company
*Il Dialogo, Venerdì, 13 luglio 2007 (ripresa parziale - senza il testo originale)
Emanato il "motu proprio" che entrerà in vigore il 14 settembre
Benedetto XVI: "Non intaccherà l’Autorità del Concilio Vaticano II"
Il Papa difende la messa in latino
"Per ritrovare l’unità della Chiesa"
I lefebvriani: "Clima migliore, ma siamo ancora sotto scomunica" *
CITTA’ DEL VATICANO - La messa in latino piace ai fedeli e unisce la Chiesa. Lo afferma Benedetto XVI nella lettera ai vescovi con cui accompagna il motu proprio "Summorum Pontificum" pubblicato oggi, che stabilisce nuove regole sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970.
Più che di un ritorno alla messa in latino, il Papa preferisce parlare di "un uso duplice dell’unico medesimo rito", visto che il Messale del ’62 non fu mai giuridicamente abrogato e di conseguenza e in linea di principio, restò sempre permesso".
"Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962." Così si stabilisce nell’articolo 5 del motu proprio.
Il motu proprio entrerà in vigore il 14 settembre e da quel giorno il parroco potrà autorizzare la messa in latino mentre ai vescovi resterà il compito di vigilare sull’applicazione, di segnalare eventuali difficoltà alla commissione vaticana "Ecclesia Dei" e, tra tre anni, di fare rapporto alla Santa Sede sull’applicazione di queste norme. Secondo le nuove norme il parroco che lo riterrà necessario potrà organizzare una "parrocchia personale" per le messe con rito straordinario, se ci sia un numero consistente di fedeli che lo desiderino.
Negli anni successivi alla riforma del 1970, "non furono pochi i casi di celebrazione" - rileva Benedetto XVI - "legati a questo uso del rito romano", e accenna qui al movimento di mons. Marcel Lefebvre. "Nel movimento guidato dall’arcivescovo Lefebvre, la fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di questa spaccatura, che qui nasceva, si trovavano però più in profondità".
Il tentativo è quello di recuperare lo scisma dei tradizionalisti. E monsignor Bernard Fellay, Superiore generale dei lefebvriani, sottolinea insieme alla gratitudine a Ratzinger anche il fatto che la lettera che accompagna il Motu Proprio "non nasconde tuttavia le difficoltà che ancora sussistono". E ora la Fraternità San Pio X "auspica che il clima favorevole instaurato dalle nuove disposizioni della Santa Sede permetta - dopo il ritiro della scomunica che colpisce ancora i suoi vescovi - di affrontare con più serenità i punti dottrinali in questione"
Benedetto XVI in ogni caso ritiene infondato "il timore" che con il motu proprio che liberalizza la messa in latino "venga intaccata l’Autorità del Concilio Vaticano II e che una delle sue decisioni essenziali, la riforma liturgica, venga messa in dubbio".
* la Repubblica, 7 luglio 2007
TRE ANNI DI PROVA PER LA MESSA IN LATINO
CITTA’ DEL VATICANO - Vinte le perplessità di molti episcopati nazionali e singoli vescovi, dato ascolto ai molti dubbi e obiezioni del suo gregge, dopo mille indiscrezioni e annunci smentiti, il Papa pubblicherà il motu proprio che liberalizza la messa in latino secondo il rito tridentino. Dal Concilio per celebrarla era necessario uno speciale "indulto" del vescovo, che Benedetto XVI abolisce, venendo incontro in questo modo alle aspirazioni dei cattolici più tradizionalisti. L’abbandono della messa in latino è stato, infatti, uno dei motivi di allontanamento dalla Chiesa cattolica di mons. Marcel Lefebvre e dei suoi seguaci, dichiarati scismatici da Roma. Il motu proprio "Summorum Pontificum cura", secondo indiscrezioni, dovrebbe entrare in vigore il 14 settembre per dare ai vescovi il tempo di organizzarsi per rispondere alle eventuali richieste dei fedeli di celebrazioni in latino, e sembra che, dopo tre anni, sarà chiesto ai vescovi di far giungere a Roma un resoconto sull’esperienza, indicando eventuali difficoltà. La pubblicazione dell’atteso documento è stata annunciata per domani da una nota della sala stampa vaticana.
La messa in latino secondo il rito tridentino, disposto dal papa san Pio V a seguito del Concilio di Trento (1542-1563), è rimasta in uso - con i successivi aggiornamenti - sino al 1970, anno in cui Paolo VI, dopo alcuni anni di sperimentazione, codificò nel nuovo messale la messa (in latino e nelle lingue moderne) secondo le indicazioni scaturite dalla costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. L’ultimo messale romano aggiornato del rito tridentino fu pubblicato per disposizione di Giovanni XXIII nel 1962, lo stesso anno che si aprì il Concilio Vaticano II. Con il motu proprio - che in questi mesi è stato ampiamente modificato e rimaneggiato, per la reazione fortemente negativa di alcuni episcopati, in particolare quello francese -, papa Ratzinger pubblicherà anche una lettera esplicativa in cui presumibilmente cercherà di chiarire le perplessità di quanti temono che queste disposizioni significhino un ritorno al passato e una negazione del Concilio. E per favorire la ricezione positiva di questo testo la scorsa settimana ha convocato una riunione di cardinali e vescovi di tutto il mondo per illustrarne contenuti e obiettivi. Alcuni episcopati temono infatti di essere scavalcati, non essendo più necessario l’"indulto" del vescovo per celebrare secondo il rito tridentino. Intanto la agenzia vaticana Fides ha ammonito che il motu proprio "andrebbe accolto in maniera molto favorevole da tutti poiché si tratta non di un provvedimento restrittivo, ma di un vero "allargamento delle possibilità, secondo l’ormai nota linea ratzingeriana dell"allargamento della ragioné".
"A nessuno - rimarca Fides - sarà impedito alcunché, al limite verrà impedito di impedire la celebrazione secondo il rito antico". "Non si comprende - aggiunge l’agenzia - perché molti, talora forieri delle più libertarie teorie in molti campi, oggi temano una maggiore libertà nella scelta del rito in cui celebrare la divina Eucaristia. Impressione, fondata, è che siano essi i medesimi forieri di quella perniciosa creatività liturgica che troppo spesso stravolge i riti impedendo ad essi di parlare realmente al Popolo di Dio. Chi ha paura della libertà? Speriamo nessuno". "Il Motu proprio - è la conclusione - è un atto della responsabilità personale del Papa che allarga la libertà nella Chiesa".
* Ansa» 2007-07-06 20:10
GB: cattolici divisi, la messa in latino e’ antisemita
Fonte: http://www.repubblica.it/news/ired/ultimora/2006/rep_nazionale_n_2354458.html?ref=hpsbdx2 *
La decisione di Benedetto XVI di autorizzare l’ampio ricorso alla celebrazione della Messa in latino sta provocando serie perplessita’ tra i cattolici del Regno Unito, impegnati da anni in un cammino di riconciliazione e comprensione reciproca con gli anglicani e la comunita’ ebraica. Al centro dei dubbi l’espressione usata dalla liturgia preconciliare, il rito Tridentino, nei confronti del popolo ebraico, bollato nelle celebrazioni del Venerdi’ Santo come "i perfidi giudei". E’ dal 1969, anno in cui divenne effettiva la disposizione del Concilio Vaticano II sulla celebrazione della messa nelle lingue nazionali e sulla revisione di parte della liturgia, che un’espressione del genere non rimbomba piu’ tra le navate di una chiesa cattolica britannica.
La questione ha spinto il cardinal Cormac Murphy-O’Connor, primate della chiesa di Inghilterra e Galles, ad inviare gia’ la settimana scorsa una lettera in Vaticano per sottolineare come il cambiamento sia da considerarsi superfluo. Una presa di posizione che rispecchia l’andamento di un dibattito interno alla comunita’ cattolica britannica che dura da mesi, da quando cioe’ venne fatta trapelare per la prima volta l’intenzione papale di dare nuova legittimazione al rito tridentino.
* Il Dialogo, Giovedì, 05 luglio 2007
LIBRI
esegesi
Geovisti «falsari» della Bibbia
di MAURIZIO SCHOEPFLIN (Avvenire, 20.10.2007)
Dei Testimoni di Geova - 250.000 in Italia, poco più di sei milioni nel mondo - colpisce in particolare la facilità con cui penetrano negli ambienti cristiani. Tale facilità, come nota padre Tarcisio Stramare nella presentazione del nuovo libro di Valerio Polidori, «è dovuta in gran parte al massiccio utilizzo degli strumenti cristiani - Bibbia e vocabolario - di cui essi si servono in modo equivoco come propri, creando nelle persone non preparate quella confusione che fa di ogni erba un fascio». Dunque, il primo impegno di chiunque voglia confrontarsi con i geovisti consiste nello smascherare la tendenziosità della traduzione del testo biblico di cui si essi si servono. E Polidori fa proprio questo: non a caso il suo lavoro si conclude con un indice dei principali brani biblici citati in modo alterato dalla «Traduzione del Nuovo Mondo» (il testo che i Testimoni di Geova pongono a fondamento delle loro interpretazioni), brani peraltro presi direttamente in considerazione nelle dense pagine del volume, ove vengono sviluppate analisi e comparazioni molto precise che indicano gli errori che stanno alla base della lettura geovista della Sacra Scrittura. Tali errori - sostiene Polidori - assumono una particolare gravità nell’ambito, ovviamente decisivo, della cristologia. I Testimoni di Geova, per esempio, affermano che Cristo non è coeterno al Padre e lo considerano la prima delle sue creature. Per suffragare questa dottrina, essi leggono l’inizio del Vangelo di San Giovanni nel modo seguente: «In principio era la Parola, e la Parola era con Dio, e la Parola era un dio». Come è facile osservare, tale traduzione del testo giovanneo è frutto di un evidente travisamento, e Polidori è bravo nel mostrare con dovizia di particolari e mediante dotti approfondimenti linguistici in quale modo si sia concretizzata una simile erronea interpretazione. Particolarmente interessante è la parte del libro dedicata all’escatologia geovista, al centro della quale sta la negazione dell’immortalità dell’anima, sostenuta a partire dalla convinzione che il concetto di anima immortale sia totalmente extrabiblico, frutto di contaminazioni greche che influenzarono il pensiero giudaico. Altre fini puntualizzazioni sono riservate alla questione del significato che i Testimoni di Geova attribuiscono al termine parousia. Il primo capitolo del libro, in cui viene ricostruita la storia del geovismo, risulta utilissimo per comprendere il contesto nel quale si è realizzata la falsificazione della Bibbia, che Polidori contesta con nitida sicurezza.
Valerio Polidori
I TESTIMONI DI GEOVA E LA FALSIFICAZIONE DELLA BIBBIA
Edb. Pagine 164. Euro 14,00.