PREMESSA
LA PREGHIERA AL "PADRE NOSTRO" E IL "NON CI INDURRE IN TENTAZIONE". MA CHI E’ IL "PADRE NOSTRO": DIO ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
NONOSTANTE TUTTA LA CHIAREZZA LOGICA ED EVANGELICA DELL’APOSTOLO GIACOMO SULLA TENTAZIONE, LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA ANCORA OGGI CONTINUA A INSEGNARE E A CHIEDERE AL "PADRE NOSTRO" DI "NON CI INDURRE IN TENTAZIONE"!!!
NON C’E’ DA MERAVIGLIARSI: BENEDETTO XVI HA APPENA SCRITTO CHE DIO E’ "MAMMONA" ("CARITAS"): "DEUS CARITAS EST" (2006)... E PAPA FRANCESCO HA SUBITO SOTTOSCRITTO (SENZA PENSARCI DUE VOLTE) LA "LUMEN FIDEI" GIA’ PREPARATA DAL SUO COLLEGA EMERITO...
SUL TEMA, SI VEDANO NEL SITO LE NOTE IN QUESTI TITOLI SEGUENTI:
"ECCLESIA DE EUCHARISTIA" (Giovanni Paolo II, 2003)
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
(Federico La Sala, 10 novembre 2013)
“Padre Nostro”: ci sono voluti 50 anni perché il Vaticano non bestemmiasse più Dio
di Henri Tincq
in “www.slate.fr” del 30 ottobre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Rivoluzione nelle fila cattoliche. Ad una scadenza ancora incerta - 2014? 2015? - i fedeli francofoni non reciteranno più la loro preghiera quotidiana favorita, il Padre Nostro, secondo la formulazione in uso da subito dopo il Concilio Vaticano II, quasi cinquanta anni fa (1966). La sesta “domanda” di questa celebre preghiera in forma di suppliche successive fatte a Dio - “Et ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione) - sarà soppressa e sostituita da “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Non si tratta di un dettaglio o di una disputa bizantina. È l’epilogo di una battaglia di esperti che dura da mezzo secolo.
La Chiesa pensa di avere l’eternità davanti a sé. Le sono stati necessari 17 anni di lavoro e la collaborazione di 70 traduttori - esegeti, biblisti, innografi - per giungere a questo risultato. 17 anni, è il tempo che è stato necessario per la nuova traduzione integrale della Bibbia liturgica, che, per la Francia, sarà adottata l’8 novembre dai vescovi e che sarà in vendita nelle librerie a partire dal 22 novembre.
Quegli eminenti traduttori sono partiti dai testi originali in aramaico, in greco, in ebraico, e non più dalle traduzioni già esistenti. Ed è questo aggiornamento radicale che ha permesso a questi studiosi, con l’accordo del Vaticano, di giungere alla redazione di un nuovo Padre Nostro, più soddisfacente e più corretto teologicamente.
Il Padre Nostro è la preghiera di base di tutti i cristiani, indipendentemente dalla loro confessione, cattolica, protestante, ortodossa o anglicana. Essa è tanto più sacra in quanto, secondo i vangeli di Luca e di Matteo, è stata insegnata direttamente da Cristo stesso. “Signore, insegnaci a pregare”, gli chiedevano gli apostoli. La risposta di Gesù si trova nelle parole del Padre Nostro, preziosamente riprodotte - “Padre Nostro che sei nei cieli...” - che risalgono così a due millenni fa. Ritrascritta dal greco al latino, è stata poi tradotta nelle lingue parlate del mondo intero.
Questa preghiera, la più comune dei cristiani, può essere recitata o cantata in qualsiasi momento della giornata. Non è codificata come la preghiera dell’islam (cinque volte al giorno e ad ore fisse). Compare in ogni celebrazione della messa dopo la preghiera eucaristica. È anche recitata in tutte le assemblee ecumeniche. È il segno di una volontà di riconciliazione e di unità di tutte le confessioni cristiane, nate dallo stesso vangelo, ma separate dalle loro istituzioni.
Ma perché cambiare oggi un simile monumento della spiritualità cristiana, sul punto preciso della tentazione? Un punto centrale nell’antropologia cristiana. Secondo i vangeli, Cristo ha trascorso quaranta giorni nel deserto ed è stato tentato da Satana: tentazione dell’orgoglio, del potere, del possesso (Matteo 4,11). Gesù stesso ha detto ai suoi apostoli nel giardino del Getzemani, la sera della sua passione, proprio prima del suo processo e della sua morte in croce: “Pregate per non entrare in tentazione”.
Precisamente, cinquant’anni fa, un errore di traduzione è stato commesso a partire dal verbo greco eisphérô che significa letteralmente “portar dentro”, “far entrare”.Questo verbo avrebbe dovuto essere tradotto con: “Ne nous induis pas en tentation” (non indurci in tentazione) o con “Ne nous fais pas entrer en tentation” (non farci entrare in tentazione). I traduttori del 1966 hanno preferito la formula “Ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione).
Formula contestata. Controsenso, se non addirittura bestemmia, si protesta in seguito. Come è possibile che Dio, che nell’immaginario cristiano è “infinitamente buono”, possa “sottoporre” l’uomo alla tentazione del peccato e del male? È insostenibile.
Tale forma equivoca è stata tuttavia letta dal pulpito in tutte le chiese del mondo francofono, pregata pubblicamente o intimamente da milioni e milioni di cristiani, inducendo, in menti non competenti, l’idea di una sorta di perversità di Dio, che chiede ai suoi sudditi di supplicarlo per sfuggire al male che lui stesso susciterebbe!
Oggi si torna quindi ad una formulazione più corretta: “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Così il ruolo di Dio è compreso meglio, riabilitato. Dio non può tentare l’uomo. La tentazione è opera del diavolo. È Dio, invece, che può impedire all’uomo di soccombere alla tentazione.
Ora occorre che i protestanti, gli ortodossi, gli anglicani si allineino su questa nuova formulazione cattolica. Nel 1966, i teologi cattolici, protestanti, ortodossi si erano alleati per riflettere su una traduzione veramente ecumenica (con gli stessi termini) del Padre Nostro, che non esisteva prima della rivoluzione del Concilio Vaticano II. Avevano proposto un testo comune alle loro Chiese, che lo avevano adottato. Senza dubbio oggi si metteranno nuovamente d’accordo per ratificare la nuova preghiera nei termini già definiti dai cattolici. Anche solo per smentire coloro che si lamentano dello stato di avvicinamento ecumenico che avrebbe perso vigore e si preoccupano del risveglio di riflessi comunitari.
ALCUNI APPUNTI SULLA "LETTERA DI GIACOMO", RIPRESE DA ... *
[...] Agapan è il verso dell’amore gratuito, oblativo e fedele capace di porre l’amato al di sopra di tutto, anche di se stessi e di ogni proprio interesse. È la prima indicazione dello shema’ Israel: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze» (Dt 6,4-5; Mt 22,34-40).
1,13-15: Riprendendo una riflessione del Siracide (Sir 15,11-17: «Non dire: Mi sono sviato per colpa del Signore, perché Egli non fa ciò che detesta»), Giacomo ribadisce che la tentazione non viene da Dio, che detesta il male e non spinge nessuno al male. Essa viene piuttosto dal cuore dell’uomo, da cui si producono pensieri desideri e azioni cattive, che contaminano l’uomo (Mt 15,15-20).
Si descrive poi la genesi del peccato a partire dal cuore: la concupiscenza (epithymia), desiderio smodato e possessivo, che pretende l’afferrare immediato dell’oggetto del proprio godimento, trascina (exelkomenos) e seduce (deleazomenos), portando a concepire (syllabousa) il peccato già nell’intimo del cuore, sino a partorirlo (tiktei amartian). Una volta portato a compimento (apotelestheisa), il peccato procura la morte (apokyei thanaton). La seduzione da parte della concupiscenza è descritta al pari del fascino perverso della donna sfacciata, della maritata in veste di prostituta che compare nei Proverbi (Pr 7,6-27): essa si fa strada con dolce lusinga, sino a far cadere in trappola. Analoga descrizione quasi psicologica del generarsi del peccato dal desiderio la si trova nei Salmi: «Ecco, l’empio produce ingiustizia, concepisce malizia, partorisce menzogna» (Sal 7,15).
Il processo verso il peccato, sotto il pungolo lusinghiero della tentazione è descritto in Gen 3: la donna fa spazio nel suo cuore alla parola del tentatore che fa concepire al suo cuore il desiderio, sino alla consumazione dell’atto trasgressivo, che tende a propagarsi, procurando divisione e morte. Giacomo descrive in modo paradossale un processo generativo interno al cuore, pari a quello che accade nel grembo di una donna, il quale, tuttavia, anziché produrre vita genera morte.
Non si tratta qui con buona probabilità della morte in senso escatologico, quale pena eterna dei dannati; si tratta piuttosto di una situazione esistenziale e spirituale ormai incapace di produrre frutti di opere buone. Più avanti, nella terza parte, l’apostolo riprende la riflessione sui desideri smodati del soggetto che procurano guerre e divisioni, diventando peccati sociali, generatori di una cultura di morte (4,1-2).
b) 1,16-17: Il secondo passo, descrive un movimento contrapposto al primo: l’uomo, cogliendo la sua fragilità apre il suo cuore verso l’alto, implorando il dono buono e perfetto (pasa dosis agathe kai pan dorema teleion) della Sapienza, che proviene dal Padre della luce. Questi è descritto ancora nei suoi tratti essenziali di chi non ha alterazione (parallaghe), né ombra di mutazione (tropes aposkiasma), tratti che rafforzano l’idea già sopra espressa di una generosità tutta luminosa, senza ombre né pentimento [...]
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http://www.diocesilucca.it/documenti/sussidio_lettera_giacomo.pdf
COMUNE PATERNITÀ DI DIO E QUESTIONE ANTROPOLOGICA: IL PROBLEMA DEI "TRE ANELLI" E I "FRATELLI TUTTI". A che gioco giochiamo?... *
La fraternità come principio di ordine sociale
di Stefano Zamagni ("Bene comune", 31 dicembre 2020)
Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale è una autentica ispiera - il raggio di luce che, penetrando da una fessura in un ambiente in ombra, lo illumina rendendo visibile ciò che in esso staziona. Duplice la mira che la terza enciclica (dopo Lumen fidei, 2013 e Laudato sì, 2015) di papa Francesco persegue. Per un verso, risvegliare in tutti, credenti e non credenti o diversamente credenti, la passione per il bene comune, sollecitando tutti a trarne le conseguenze dirette. Per l’altro verso, fare chiarezza su concetti che troppo superficialmente vengono presi come sinonimi o quasi. La confusione di pensiero che ne deriva non giova né al dialogo né alla prospettazione delle necessarie linee di azione. Vedo di precisare.
Fraternità non ha lo stesso significato di fratellanza e ancor meno di solidarietà. Mentre quello di fratellanza è un concetto immanente che dice dell’appartenenza delle persone alla stessa specie o a una data comunità di destino, la fraternità è un concetto trascendente che pone il suo fondamento nel riconoscimento della comune paternità di Dio. La fratellanza unisce gli amici, ma li separa dai non amici; rende soci (socio è “colui che è associato per determinati interessi” (102) ) e quindi chiude gli uniti nei confronti degli altri.
La fraternità, invece, proprio in quanto viene dall’alto (la paternità di Dio) è universale e crea fratelli, non soci, e dunque tende a cancellare i confini naturali e storici che separano. Il terzo termine che appare nella bandiera della Rivoluzione Francese (Liberté, egalité, fraternité) scaturisce dall’eguaglianza della specie e della natura di tutti gli uomini. Ma, come si legge nella Lumen fidei, 54, qualsiasi fraternità che sia priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento, non riesce a sussistere.
Altrettanto diversa è la fraternità dalla solidarietà. È merito grande della cultura cristiana quello di aver saputo declinare, in termini sia istituzionali sia economici, il principio di fraternità facendolo diventare un asse portante dell’ordine sociale. È stata la scuola di pensiero francescana a dare a questo termine il significato che essa ha conservato nel corso del tempo. Ci sono pagine della Regola di Francesco che aiutano bene a comprendere il senso proprio del principio di fraternità. Che è quello di costituire, ad un tempo, il complemento e il superamento del principio di solidarietà. Infatti, mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, quello di fraternità è il principio che consente ai già eguali di esser diversi - si badi, non differenti.
La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma, cioè la loro singolarità. Questa compresenza di uguaglianza e singolarità è ciò che caratterizza in modo unico il principio di fraternità. Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e soprattutto il ‘900, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Ma la buona società in cui vivere non può accontentarsi dell’orizzonte della solidarietà, perché mentre la società fraterna è anche una società solidale, il viceversa non è vero.
Cosa fa la differenza? La gratuità. Dove essa manca non può esserci fraternità. La gratuità, non è una virtù etica, come è la giustizia. Essa riguarda la dimensione sovraetica dell’agire umano; la sua logica è quella della sovrabbondanza. La logica della giustizia, invece, è quella dell’equivalenza, come già Aristotele insegnava. Capiamo allora perché la fraternità va oltre la giustizia. In una società, solo perfettamente giusta - posto che ciò sia realizzabile - non vi sarebbe spazio per la speranza. Cosa potrebbero mai sperare per l’avvenire i suoi cittadini? Non così in una società dove il principio di fraternità fosse riuscito a mettere radici profonde, proprio perché la speranza si nutre di sovrabbondanza.
Sorge spontanea la domanda: perché papa Francesco ha scelto la parabola del buon Samaritano come fondamento del suo approccio alla fraternità? La domanda ha senso perché il testo evangelico nulla dice (né lascia intendere) a proposito della relazione di reciprocità che, come sappiamo, è necessaria per conservare nel tempo il legame di fraternità. I rapporti tra fratelli sono di reciprocità, non di scambio e tanto meno di comando. La reciprocità è un dare senza perdere e un prendere senza togliere. Tra il Samaritano e la vittima che giace distesa a terra non sorge alcuna reciprocità. La parabola, dunque, è più icona della solidarietà o della fratellanza che non della fraternità in senso proprio. E allora? Il fatto è che papa Francesco con questa sua scelta ha voluto che comprendessimo appieno la differenza tra prossimità e vicinanza. Il levita e il sacerdote erano certamente vicini della vittima (tutti e tre giudei), ma non si sono fatti prossimo della stessa. Alla fratellanza basta la vicinanza; la fraternità postula la prossimità.
Dove ci portano, sul piano della pratica, le sottolineature di cui sopra? Per ragioni di spazio, soffermo qui l’attenzione su alcune soltanto delle implicazioni rilevanti quelle che reputo più urgenti per il tempo presente. Primo, occorre, una volta per tutte, rendersi conto dei guasti seri che la matrice culturale dell’individualismo libertario va producendo. L’individualismo è la posizione filosofica secondo cui è l’individuo che attribuisce valore alle cose e perfino alle relazioni interpersonali. Ed è sempre l’individuo il solo a decidere cosa è bene e cosa è male; quel che è lecito e illecito. In altro modo, è bene tutto ciò cui l’individuo attribuisce valore. Non esistono valori oggettivi per l’individualismo, ma solo valori soggettivi ovvero preferenze legittime. Di qui l’implicazione secondo cui si deve agire “etsi communitas non daretur” (come se la comunità non esistesse).
D’altro canto, il libertarismo è la tesi secondo cui per fondare la libertà e la responsabilità individuale è necessario ricorrere all’idea di autocausazione, per la quale pienamente libero è solamente l’agente auto-causato, quasi fosse Dio. Si può ora capire perché dal connubio tra individualismo e libertarismo, cioè dall’individualismo libertario, sia potuta scaturire la parola d’ordine di questa epoca: “volo ergo sum”, cioè, “io sono quel che voglio”. La radicalizzazione dell’individualismo in termini libertari, e quindi antisociali, ha portato a concludere che ogni individuo ha “diritto” di espandersi fin dove la sua potenza glielo consente. E’ la libertà come scioglimento dai legami l’idea oggi dominante nelle nostre società. Poiché limiterebbero la libertà, i legami sono ciò che deve essere sciolto. Equiparando erroneamente il concetto di legame a quello di vincolo si confondono i condizionamenti della libertà - i vincoli - con le condizioni della libertà - i legami, appunto. E questo perché l’individualismo libertario non riesce a concettualizzare la libertà di soggetti “quae sine invicem esse non possunt” (che senza reciprocità non possono essere). Se si ammette che la persona è un ente in relazione di prossimità con l’altro, il libertarismo non ha ragione d’essere.
Un secondo potente invito che ci viene dall’incalzante magistero di papa Francesco è quello di affrettare i tempi del passaggio dal modello tradizionale (e ormai obsoleto) di responsabilità ad un modello più ricco, all’altezza delle sfide in atto. L’interpretazione tradizionale di responsabilità la identifica infatti con il dare conto, rendere ragione (accountability) di ciò che un soggetto, autonomo e libero, produce o pone in essere. Tale nozione, postula dunque la capacità di un agente di essere causa dei suoi atti e in quanto tale di essere tenuto a “pagare” per le conseguenze negative che ne derivano. Questa, ancora prevalente, concezione della responsabilità lascia però in ombra il cosa significhi essere responsabili.
Da qualche tempo a questa parte, però, ha iniziato a prendere forma un’accezione di responsabilità che la colloca al di là del principio del libero arbitrio e della sola sfera della soggettività, per porla in funzione della vita, per fondare un impegno che vincoli nel mondo. Dal latino res-pondus, responsabilità significa essenzialmente portare il peso delle cose, prendersi cura dell’altro - come l’ “I care” di Lorenzo Milani (nella foto) ci ha insegnato. Non solamente si risponde “a” ma anche “di”. Da una parte, la responsabilità richiede, oggi, di porsi il problema dei vincoli cui le decisioni che assumiamo saranno esposte nel tempo per continuare ad essere efficaci. Dall’altra, la capacità di risposta non può essere solo riferita all’immediatezza delle circostanze presenti, ma deve includere quelle dimensioni temporali che assicurano una qualche continuità della risposta stessa. Ecco perché l’esperienza della responsabilità non può esaurirsi nella semplice imputabilità.
E’ rimasta giustamente celebre l’affermazione di M.L. King secondo cui “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”. Si è responsabili non solo e non tanto per quel che si fa, quanto piuttosto per quel che non si fa, pur potendolo fare. L’azione omissiva è sempre più grave di quella commissiva.
Di una terza implicazione pratica del discorso sviluppato in Fratelli tutti giova dire. Se si vuole avere ragione dell’indegno fenomeno delle crescenti ingiustizie sociali e della diffusione a macchia d’olio di atteggiamenti aporofobici - l’aporofobia nel senso di A. Cortina è il disprezzo del povero e del diverso - occorre pensare seriamente ad un modello credibile di governance a livello globale. Qual è la difficoltà a tale riguardo? Quella di come conciliare le regole della governance interna dei singoli paesi, ognuno dei quali ha la sua storia specifica, le sue norme sociali di comportamento, la sua matrice culturale con l’uniformità delle regole che inevitabilmente caratterizzano la governance globale. Mai dimenticare, infatti, che i vincoli esterni al paese, quando questo deve dare forma alle proprie politiche domestiche, comportano sempre un costo in termini di legittimità democratica - costo che, come in questo tempo sta accadendo, finisce col rafforzare le spinte irrazionali verso il populismo sovranista. Si tratta allora di scegliere tra due concezioni alternative di governance economica globale, note come “globalization enhancing global governance” e “democracy-enhancing global governance”.
L’idea di fondo della seconda opzione è che quando si mette mano al disegno delle regole a livello transnazionale occorre inserire tra gli obiettivi da perseguire non solamente l’aumento dell’efficienza nell’allocazione delle risorse, e quindi del reddito, ma anche l’allargamento della base democratica. Per dirla in altro modo, è bensì vero che la globalizzazione accresce lo spazio dei diritti umani negativi (cioè la libertà da), ma restringe lo spazio, se non corretta da clausole di salvaguardia sociale, dei diritti umani positivi (cioè la libertà di). Papa Francesco non esita a prendere posizione a favore della seconda opzione. (Cfr. n.154 e segg.).
Una novità di non poco conto di questa enciclica, che non è passata inosservata e che continuerà a lungo a far discutere, è costituita dal cap. V, significativamente e provocatoriamente intitolato “La migliore politica”. Vi sono due modi errati - ci dice papa Francesco - di porsi di fronte alle sfide di questo momento. Da un lato, quello di chi cede alla tentazione di restare al di sopra della realtà con l’utopia; dall’altro, quello di chi si colloca al di sotto della realtà con la distopia, con la rassegnazione. Non possiamo cadere in trappole del genere. Non possiamo vagare tra l’ottimismo spensierato di chi vede il processo storico come una marcia trionfale dell’umanità verso la sua completa realizzazione e il cinismo disperante di chi pensa, con Kafka, che “esiste un punto di arrivo, ma nessuna via”.
Accogliere lo sguardo della fraternità significa oggi, questo: non considerarsi né come il mero risultato di processi che cadono fuori del nostro controllo, né come una realtà autosufficiente senza bisogno di rapporti con l’altro. Significa, in altri termini, pensare che ciò che ci aspetta non è mai del tutto determinato da quanto ci precede. Se si vuole che l’ordine sociale che chiamiamo capitalismo possa rispettare pienamente il diritto di ciascun individuo a decidere da sé come dare valore alla propria vita e, al tempo stesso, possa dimostrare uguale considerazione per il destino di ciascuna persona, non c’è altra via che quella della politica, ma che sia migliore! Prendere atto che il capitalismo rischia oggi la paralisi, o, peggio, il collasso, perché sta diventando più capitalistico di quanto gli sia utile, è il primo passo per avviare un progetto credibile di trasformazione dell’esistente ordine sociale.
Un passo famoso di William Blake - poeta e artista nutrito delle Sacre Scritture - ci aiuta ad afferrare la potenza del principio di fraternità: “Ho cercato la mia anima e non l’ho trovata. Ho cercato Dio e non l’ho trovato. Ho cercato mio fratello e li ho trovati tutti e tre”. Invero, è nella pratica del dono come gratuità che la persona incontra congiuntamente il proprio io, l’altro e Dio. Viviamo in un’epoca desertica del pensiero, che stenta a concepire la complessità della condizione umana. E’ un pensiero sbriciolato che fatica a vedere i rapporti fra le tante dimensioni della nostra crisi. Fraternità e amicizia sociale, al modo di vaccino sociale, ci indicano allora la via pervia di uscita dalla cupa situazione dell’esistente.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO". NATHAN IL SAGGIO: CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA ’CATTOLICA’!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù il figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
Papa Francesco indica l’ultima carta per cambiare il paradigma dell’umano
Fratelli tutti. Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in un unico codice
di Raniero La Valle (il manifesto, 07.10.2020)
È una lettera sconcertante e potente questa che papa Francesco, facendosi “trasformare” dal dolore del mondo nei lunghi giorni della pandemia, ha scritto a una società che invece mira a costruirsi “voltando le spalle al dolore”.
Per questo la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, prima ancora che quella di Francesco d’Assisi, è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito (e oggi sempre di più ci sono persone ferite, tutti i popoli sono feriti) ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva.
Ci si poteva chiedere che cosa avesse ancora da dire papa Francesco dopo sette anni di così eloquenti gesti e parole, cominciati a Lampedusa e culminati ad Abu Dhabi nell’incontro in cui si è proclamato con l’Islam che “se è uccisa una persona è uccisa l’umanità intera”, ragione per cui non sono più possibili né guerre né pena di morte.
E per Francesco neanche l’ergastolo, che “è una pena di morte nascosta”, e tanto meno le esecuzioni extragiudiziarie degli squadroni della morte e dei servizi segreti. Ebbene, la risposta sul perché dell’enciclica è che ormai non si tratta di operare qualche ritocco qua e là, ma si tratta di cambiare il paradigma dell’umano, che regge tutte le nostre culture e i nostri ordinamenti: si tratta di passare da una società di soci a una comunità di fratelli.
Perciò questa seconda lettera (l’altra è stata la Laudato sì, mentre la prima era in realtà di Ratzinger) non è un’enciclica sociale; solo una volta il papa si fa sfuggire di aver scritto un’”enciclica sociale”; in realtà essa non ha nessuna somiglianza con il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa” fatto pubblicare nel 2004 da papa Wojtyla, in cui si pretendeva di definire per filo e per segno tutto ciò che si doveva fare nella società.
Questa invece è un’enciclica sull’amore perché passare da soci a figli vuol dire passare dalla ricerca dell’utile all’amore senza ragione: i migranti non si devono accogliere perché possono essere utili, ma perché sono persone, e i disabili e gli anziani non si devono scartare perché una società dello scarto è essa stessa inumana.
Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, anzi di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in una sola proposta, in un unico codice. È impressionante come papa Francesco lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante.
Ci vuole fantasia per costruire la società fraterna e non è facile passare dal “legame di coppia e di amicizia” all’accoglienza verso tutti e all’”amicizia sociale”. Alle volte sembra di leggere una lezione di laicità al mondo, alle culture fissiste, come il liberismo, che fa della proprietà privata, che è “un diritto secondario”, un valore primario e assoluto, mentre originario e prioritario è il diritto all’uso comune dei beni creati per tutti; come c’è una lezione al populismo e al nazionalismo, incapaci di farsi interpellare da ciò che è diverso, di aprirsi all’universalità, chiusi come sono nei loro angusti recinti come in “un museo folkloristico di eremiti localisti”; il male è che così si perdono proprio beni irrinunciabili come la libertà o la nazione: l’economia che si sostituisce alla politica non ha messo fine alla storia ma ruba la libertà; e con la demagogia il rischio è che si perda il concetto di popolo, “mito” e istituzione insieme, a cui non si può rinunziare perché altrimenti si rinunzia alla stessa democrazia.
La stessa fraternità, dice Francesco, va strutturata in un’organizzazione mondiale garantista e efficiente, sotto “il dominio incontrastato del diritto”, anche se un progetto per lo sviluppo di tutta l’umanità “oggi suona come un delirio”.
Mentre l’enciclica si distribuiva in piazza san Pietro ed era tolto l’embargo, nelle chiese si leggeva, tra le letture del giorno, questa frase del profeta Isaia: “Egli (il Signore) si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Sembrava un giudizio scritto per l’oggi, mentre Francesco è assediato, fin dentro al tempio, da mercanti e falsi difensori della fede.
È forse questo il segreto di questa enciclica: c’è, per un mondo malato, dove “tutto sembra dissolversi e perdere consistenza”, da giocare l’ultima carta, cambiare i soci in fratelli. Si potrà poi essere anche cattivi fratelli, incapaci di memoria, di pietà, di perdono, però tutti si riconosceranno investiti della infinita dignità dell’umano, questa verità che non muta, accessibile a tutti e obbligante per tutti.
Ma per essere fratelli ci vuole un padre. Perciò tutto il ministero di papa Francesco è volto a “narrare” al mondo la misericordia del Padre; lui che è il primo pastore della religione del Figlio, si mette nei panni del Figlio (com’è del resto suo compito) per recuperare la religione del Padre, per dare agli uomini un Padre in cui si riconoscano finalmente fratelli. Una cosa così “religiosa” che la voleva perfino la Rivoluzione francese; solo che, dice ora papa Francesco, se la fraternità non si esercita veramente anche la libertà e l’uguaglianza sono perdute. E il mondo, ora, sarebbe perduto con loro.
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Quale il "carattere" (Charaktèr: gr. Χαρακτήρ) di Gesù?!
Abitare le parole
Impronta.
SEGNAVIA DELLA NOSTRA STORIA
di Nunzio Galantino *
Per coprire il campo semantico della parola “impronta”, oltre al contributo che viene dalla derivazione etimologica, è opportuno porre attenzione al significato del termine χαρακτήρ che rende, in greco, la parola impronta e identificare gli attributi che, di volta in volta, l’accompagnano.
Sul piano etimologico, la parola impronta deriva dal latino imprĭmere (premere sopra, calcare). Χαρακτήρ - dal verbo χαράσσω (incidere, scolpire) - nella cultura greca è un nomen agentis: è cioè più di una traccia lasciata. È invece una persona che ritrae qualcuno o qualcosa. Come nella Bibbia (Ebr 1,3), dove Gesù è χαρακτὴρ τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ, è impronta - nel senso di piena ed esatta rappresentazione - della sostanza di Dio.
A proposito, poi, dell’impronta e degli attributi che l’accompagnano, si parla di impronta fisica lasciata da una parte del corpo o da uno strumento fisico, di impronta digitale cellulare e di impronta genetica. Sempre più spesso sentiamo, inoltre, rivolto a tutti l’invito a ridurre l’impronta ecologica; una sorta di indicatore che misura la quantità e la qualità del consumo delle risorse naturali prodotte dal pianeta Terra.
In senso generico, l’impronta è un segno tracciato con una pressione su una superficie. In senso figurato, la parola impronta indica una caratteristica che permette di identificare una persona o una sua produzione artistica, letteraria ecc. È vero che, almeno dal punto di vista fisico, non si può non lasciare un’impronta. Ma è anche vero che l’impronta non è solo il frutto inconsapevole di un gesto, di una presenza o di un passaggio.
Il più delle volte, proprio perché espressione di una identità, l’impronta è frutto di una scelta consapevole, attraverso la quale io, di fatto, racconto la mia vita, le priorità che mi guidano e la qualità che scelgo di far ricadere in modo incisivo sulle mie relazioni.
E, proprio perché contengono pezzi di noi e della nostra interiorità, le impronte possono trasmettere un’immagine positiva di noi o comunicarne una negativa. Sono lì, come segnavia della nostra storia personale.
Bisogna avere, di tanto in tanto, il coraggio di prenderle in mano e di fermarci per verificare cosa le impronte di cui disseminiamo la nostra presenza e le nostre relazioni stanno raccontando di noi.
Uno sguardo attento e onesto sulle impronte ci permetterebbe di verificare se, quelle lasciate nel cuore e nella storia delle persone incontrate sul nostro cammino, sono impronte che generano e tramettono vita o piuttosto dolorose cicatrici.
La storia personale e quella relazionale in genere vive di impronte lasciate e di impronte subìte, attraverso uno sguardo, una parola, una carezza o un’emozione provocata. Ma essa è esposta anche a impronte che assomigliano molto di più a ferite. Quelle provocate da rifiuti, sguardi indifferenti o evidenti strumentalizzazioni. Se le prime hanno la capacità di ricomporre pezzi di vita andati in frantumi, le altre, più che impronte, sono cicatrici che rendono sempre più insopportabile la vita.
*Rubrica de Il Sole 24ore, 28/09/2020.
Sul tema, nel sito, si cfr. :
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA ? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA !!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
Federico La Sala
Liturgia.
Dal «Gloria» al «Padre Nostro»: così cambia il Messale. Prima copia al Papa
Donata dal presidente della Cei Bassetti al Pontefice stamani. Il nuovo libro sarà obbligatorio da Pasqua 2021, ma i parroci potranno usarlo fin da subito. Modificate le Preghiere eucaristiche
di Giacomo Gambassi (Avvenire, venerdì 28 agosto 2020)
Non è il numero “zero” del nuovo Messale in italiano ma idealmente è come se lo fosse. La prima copia del libro liturgico, frutto della nuova tradizione della Messale Romano di Paolo VI promossa dai vescovi italiani, è stata consegnata questa mattina a papa Francesco al termine dell’udienza concessa in Vaticano al presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti. Un incontro “a porte chiuse”, come avviene di solito, ma arricchito stavolta dal “dono” del Messale Romano rinnovato che al Pontefice è stato presentato da una delegazione della Cei composta, oltre che dal cardinale presidente, anche dal segretario generale, il vescovo Stefano Russo, dal presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia, il vescovo Claudio Maniago (a lungo impegnato in questo complesso servizio), dal direttore uscente e da quello entrante dell’Ufficio liturgico nazionale della Cei, rispettivamente don Franco Magnani (coordinatore di tutta l’opera) e don Mario Castellano. E ancora da suor Elena Massimi, collaboratrice per la sezione musicale dell’Ufficio liturgico della Cei, da due addetti di segreteria, dall’artista Mimmo Paladino che ha realizzato le illustrazioni del Messale, dallo stampatore Maggioni e da una rappresentante dello studio grafico.
Papa Francesco ha ringraziato per il dono ricevuto, sottolineando l’importanza del lavoro svolto e la continuità nell’applicazione del Concilio di cui il Messale Romano di Paolo VI è un frutto. Il cardinale Bassetti, salutando Bergoglio, ha ricordato l’impegno profuso da tanti nel migliorare il testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico.
L’utilizzo del nuovo Messale diventerà obbligato nelle parrocchie della Penisola a partire dalla prossima Pasqua, ossia dal 4 aprile 2021, ma potrà essere utilizzato immediatamente, cioè non appena il libro pubblicato giungerà nelle comunità, anche se ciascun vescovo potrà stabilire nella propria diocesi da quando impiegarlo.
Si tratta della nuova traduzione in italiano della terza edizione tipica - in latino - del Messale Romano scaturito dal Concilio Vaticano II nella quale cambiano alcune formule con cui viene celebrata l’Eucaristia nella nostra lingua.
Il nuovo volume è edito dalla Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena in un unico formato e viene distribuito dalla Libreria Editrice Vaticana che lo farà arrivare nelle librerie e nelle parrocchie che lo stanno prenotando a partire dalla fine di settembre. Il costo è di 110 euro.
Papa Francesco aveva autorizzato la promulgazione della terza edizione in italiano del Messale Romano un anno fa. Il testo italiano era passato al vaglio della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti per la necessaria confirmatio. La nuova traduzione era stata approvata nel novembre 2018 dall’Assemblea generale della Cei.
Fra le novità introdotte quelle sul Padre Nostro: non diremo più «e non ci indurre in tentazione», ma «non abbandonarci alla tentazione». Inoltre, sempre nella stessa preghiera, è previsto l’inserimento di un «anche» («come anche noi li rimettiamo»). In questo modo il testo del Padre Nostro contenuto nella versione italiana della Bibbia, approvata dalla Cei nel 2008, e già recepito nella rinnovata edizione italiana del Lezionario, entrerà anche nell’ordinamento della Messa.
Altra modifica riguarda il Gloria dove il classico «pace in terra agli uomini di buona volontà» è sostituito con il nuovo «pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Se queste sono le principali variazioni che riguardano il popolo e quindi dovranno essere “imparate” da tutti, si annunciano anche altre modifiche in ciò che viene pronunciato dal sacerdote, anche ad esempio nelle Preghiere eucaristiche, vale a dire quelle della consacrazione del pane e del vino.
Oltre ai ritocchi e agli arricchimenti della terza edizione tipica latina, il volume propone altri testi facoltativi di nuova composizione, maggiormente rispondenti al linguaggio e alle situazioni pastorali delle comunità e in gran parte già utilizzati a partire dalla seconda edizione in lingua italiana del 1983.
«Il libro del Messale - spiega il cardinale Bassetti - non è soltanto uno strumento liturgico, ma un riferimento puntuale e normativo che custodisce la ricchezza della tradizione vivente della Chiesa, il suo desiderio di entrare nel mistero pasquale, di attuarlo nella celebrazione e di tradurlo nella vita. La riconsegna del Messale diventa così un’occasione preziosa di formazione per tutti i battezzati, invitati a riscoprire la grazia e la forza del celebrare, il suo linguaggio - fatto di gesti e parole - e il suo essere nutrimento per una piena conversione del cuore». Le variazioni giungono al termine di un percorso durato oltre 17 anni. Un arco temporale in cui «vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della presentazione del Messale», aveva spiegato la Cei in una nota.
La nuova traduzione italiana è quella della terza edizione tipica del Missale Romanum, edizione in latino che risale al 2002. La prima editio typica, che recepiva la riforma liturgica del Vaticano II e seguiva le indicazioni della Sacrosanctum Concilium, è stata pubblicata nel 1970 ed era stata tradotta in italiano nel 1973. La seconda edizione tipica latina porta la data del 1975. E proprio la traduzione italiana dell’edizione del 1975 - traduzione che risale al 1983 - è quella ancora in uso per qualche mese.
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
TEOLOGIA ED ESTETICA. I volti della Grazia... *
La preghiera.
Il nuovo «Padre Nostro» arriva in Avvento
La preghiera con la formula: "Non abbandonarci alla tentazione" anziché "Non indurci in tentazione" sarà recitata durante le Messe a partire dal 29 novembre
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 28 gennaio 2020)
Per il “nuovo” Padre Nostro ci vuole ancora un po’ di pazienza. La traduzione rinnovata della più popolare delle preghiere, insegnata direttamente da Gesù, sarà inserita nel Messale che verrà consegnato subito dopo Pasqua, quest’anno il 12 aprile.
Come noto il Padre Nostro nella nuova versione prevede che l’invocazione “Non indurci in tentazione” lasci al posto alla più corretta formulazione “Non abbandonarci alla tentazione”. Versione, ha aggiunto monsignor Forte, che verrà recitata durante le Messe nella chiese italiane a partire dal 29 novembre, prima Domenica d’Avvento.
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Federico La Sala
Bruno Forte: “Nuova versione Cei del Padre Nostro in uso dal 29 novembre"
L’arcivescovo di Chieti-Vasto e teologo annuncia le date dell’uscita del nuovo messale con la preghiera modificata e spiega le motivazioni che hanno spinto i vescovi italiani a cambiare il ‘non indurci in tentazione’: “Dio ci ama, non ci tende trappole per cadere nel peccato”
Federico Piana - Città del Vaticano *
E’ monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, presidente della Conferenza abruzzese-molisana e noto teologo, ad annunciare in anteprima che “il Messale con la nuova versione del Padre Nostro voluta dalla Conferenza Episcopale Italiana uscirà qualche giorno dopo la prossima Pasqua”. Nella preghiera, l’invocazione a Dio ‘non indurci in tentazione’ è stata modificata con una traduzione ritenuta più appropriata: ‘non abbandonarci alla tentazione’. “L’uso liturgico sarà introdotto a partire dalle Messe del 29 novembre di quest’anno, prima domenica d’Avvento”.
Monsignor Forte, perché i vescovi italiani hanno deciso la modifica di una delle più antiche e conosciute preghiere cristiane?
R. - Per una fedeltà alle intenzioni espresse dalla preghiera di Gesù e all’originale greco. In realtà l’originale greco usa un verbo che significa letteralmente ‘portarci, condurci’. La traduzione latina ‘inducere’ poteva richiamare l’omologo greco. Però, in italiano ‘indurre’ vuol dire ‘spingere a..’ in sostanza, far sì che ciò avvenga. E risulta strano che si possa dire a Dio ‘non spingerci a cadere in tentazione’. Insomma, la traduzione con ‘non indurci in...’ non risultava fedele.
E allora i vescovi italiani hanno pensato di trovare una traduzione migliore...
R. - Un interrogativo che si sono posti anche episcopati di tutto il mondo. Ad esempio, in spagnolo, lingua più parlata dai cattolici nel pianeta, si dice ‘fa che noi non cadiamo nella tentazione’. In francese, dopo molti travagli, si è passati da una traduzione che era ‘non sottometterci alla tentazione’ alla formula attuale che è ‘non lasciarci entrare in tentazione’. Dunque, l’idea da esprimere è questa: il nostro Dio, che è un Dio buono e grande nell’amore, fa in modo che noi non cadiamo in tentazione. La mia personale proposta è stata che si traducesse in ‘fa che non cadiamo in tentazione’ però dato che nella bibbia Cei la traduzione scelta è stata ‘non abbandonarci alla tentazione’ alla fine i vescovi per rispettare la corrispondenza tra il testo biblico ufficiale e la liturgia hanno preferito quest’ultima versione.
Molti teologi e pastori hanno fatto notare che la vecchia espressione ‘non ci indurre in tentazione’ facesse riferimento alle prove che Dio permette nella nostra vita...
R. - Una cosa è la prova, in generale, ma il termine che si trova nella preghiera del Padre Nostro è lo stesso che viene usato nel Vangelo di Luca nel riferimento alle tentazioni di Gesù, che sono vere tentazioni. Allora, non si tratta semplicemente di una qualunque prova della vita ma di vere tentazioni. Qualcosa o qualcuno che ci induce a fare il male o ci vuole separare dalla comunione con Dio. Ecco perché l’espressione ‘tentazione’ è corretta ed il verbo che le corrisponde deve essere un verbo che faccia comprendere che il nostro è un Dio che ci soccorre, che ci aiuta a non cadere in tentazione. Non un Dio che in qualunque modo ci tende una trappola. Questa è un’idea assolutamente inaccettabile.
Questo cambiamento provocherà qualche problema ai fedeli abituati alla vecchia versione?
R. - Sostanzialmente, la modifica è molto limitata. Non credo che dovrebbero esserci grossi problemi. Dobbiamo aiutare le persone a capire che non si tratta di voler un cambiamento fine a se stesso ma di cambiare per pregare in maniera ancora più consapevole e vicina a quelle che sono state le intenzioni di Gesù.
* Fonte: Vatican News, 28.01.2020.
SE LA "CARISSIMA" EU-CARESTIA è figlia DELLA CARITA’ ("CARITAS") è e resta SEMPRE una ELEMOSINA, E L’EU-CHARIS-TIA è e resta sempre una CARITA’ ("Caritas") senza GRAZIA ("CHARItaS"):
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
Sulla divinità di Gesù. il Vaticano corregge Scalfari
Nota della Sala Stampa vaticana: dal fondatore di Repubblica libera e personale interpretazione. La precisazione dopo le sconcertanti e irreali frasi attribuite al Papa sulla divinità di Gesù Cristo
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 9 ottobre 2019)
Qualcuno stamattina leggendo “La Repubblica” avrà fatto un balzo sulla sedia. Nel suo commento al Sinodo intitolato “Francesco e lo spirito dell’Amazzonia” il fondatore del quotidiano Eugenio Scalfari attribuisce infatti al Papa riflessioni e opinioni quanto meno sconcertanti.
In particolare Scalfari scrive: «Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d’incontrarlo e di parlargli con la massima confidenza culturale, sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo».
E a conferma di quanto appena detto, il giornalista e filosofo, passa in rassegna, modificandola anche un po’, la Passione di Gesù, soffermandosi in particolare sul grido di Cristo in croce, tratto dal Vangelo di Marco che riprende il Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un’invocazione che Scalfari riassume in “Signore mi hai abbandonato”. «Quando mi è capitato di discutere queste frasi - aggiunge Scalfari - papa Francesco mi disse: “Sono la prova provata che Gesù di Nazareth una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio”». Davvero, quella di Scalfari, un’interpretazione troppo libera e palesemente irreale, al punto da meritarsi una “correzione”.
Arrivata con una nota del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni: «Come già affermato in altre occasioni, le parole che il dottor Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato, come appare del tutto evidente da quanto scritto oggi in merito alla divinità di Gesù Cristo».
Del resto per capire che le espressioni attribuite al Pontefice non potevano essere reali sarebbe bastato recuperare le parole del Papa, ripetute in più occasioni. Poteva essere sufficiente anche solo riprendere pochi passaggi dell’udienza generale del 18 dicembre 2013: «Dio ha voluto condividere la nostra condizione umana al punto da farsi una cosa sola con noi nella persona di Gesù, che è vero uomo e vero Dio. Ma c’è qualcosa di ancora più sorprendente. La presenza di Dio in mezzo all’umanità non si è attuata in un mondo ideale, idilliaco, ma in questo mondo reale, segnato da tante cose buone e cattive, segnato da divisioni, malvagità, povertà, prepotenze e guerre. Egli ha scelto di abitare la nostra storia così com’è, con tutto il peso dei suoi limiti e dei suoi drammi. Così facendo ha dimostrato in modo insuperabile la sua inclinazione misericordiosa e ricolma di amore verso le creature umane».
Concetti ribaditi a Caserta il 28 luglio 2014: «L’Apostolo Giovanni è chiaro: “Colui che dice che il Verbo non è venuto nella carne, non è da Dio! È dal diavolo”. Non è nostro, è nemico! Perché c’era la prima eresia - diciamo la parola fra di noi - ed è stata questa, che l’Apostolo condanna: che il Verbo non sia venuto nella carne. No! L’incarnazione del Verbo è alla base: è Gesù Cristo! Dio e uomo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, vero Dio e vero uomo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 3. «Lingue come di fuoco» (At 2,3). La Pentecoste e la dynamis dello Spirito che infiamma la parola umana e la rende Vangelo *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Cinquanta giorni dopo la Pasqua, in quel cenacolo che è ormai la loro casa e dove la presenza di Maria, madre del Signore, è l’elemento di coesione, gli Apostoli vivono un evento che supera le loro aspettative. Riuniti in preghiera - la preghiera è il “polmone” che dà respiro ai discepoli di tutti i tempi; senza preghiera non si può essere discepolo di Gesù; senza preghiera noi non possiamo essere cristiani! È l’aria, è il polmone della vita cristiana -, vengono sorpresi dall’irruzione di Dio. Si tratta di un’irruzione che non tollera il chiuso: spalanca le porte attraverso la forza di un vento che ricorda la ruah, il soffio primordiale, e compie la promessa della “forza” fatta dal Risorto prima del suo congedo (cfr At 1,8). Giunge all’improvviso, dall’alto, «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).
Al vento poi si aggiunge il fuoco che richiama il roveto ardente e il Sinai col dono delle dieci parole (cfr Es 19,16-19). Nella tradizione biblica il fuoco accompagna la manifestazione di Dio. Nel fuoco Dio consegna la sua parola viva ed energica (cfr Eb 4,12) che apre al futuro; il fuoco esprime simbolicamente la sua opera di scaldare, illuminare e saggiare i cuori, la sua cura nel provare la resistenza delle opere umane, nel purificarle e rivitalizzarle. Mentre al Sinai si ode la voce di Dio, a Gerusalemme, nella festa di Pentecoste, a parlare è Pietro, la roccia su cui Cristo ha scelto di edificare la sua Chiesa. La sua parola, debole e capace persino di rinnegare il Signore, attraversata dal fuoco dello Spirito acquista forza, diventa capace di trafiggere i cuori e di muovere alla conversione. Dio infatti sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cfr 1Cor 1,27).
La Chiesa nasce quindi dal fuoco dell’amore e da un “incendio” che divampa a Pentecoste e che manifesta la forza della Parola del Risorto intrisa di Spirito Santo. L’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio che fa nuove tutte le cose e si incide in cuori di carne.
La parola degli Apostoli si impregna dello Spirito del Risorto e diventa una parola nuova, diversa, che però si può comprendere, quasi fosse tradotta simultaneamente in tutte le lingue: infatti «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,6). Si tratta del linguaggio della verità e dell’amore, che è la lingua universale: anche gli analfabeti possono capirla. Il linguaggio della verità e dell’amore lo capiscono tutti. Se tu vai con la verità del tuo cuore, con la sincerità, e vai con amore, tutti ti capiranno. Anche se non puoi parlare, ma con una carezza, che sia veritiera e amorevole.
Lo Spirito Santo non solo si manifesta mediante una sinfonia di suoni che unisce e compone armonicamente le diversità ma si presenta come il direttore d’orchestra che fa suonare le partiture delle lodi per le «grandi opere» di Dio. Lo Spirito santo è l’artefice della comunione, è l’artista della riconciliazione che sa rimuovere le barriere tra giudei e greci, tra schiavi e liberi, per farne un solo corpo. Egli edifica la comunità dei credenti armonizzando l’unità del corpo e la molteplicità delle membra. Fa crescere la Chiesa aiutandola ad andare al di là dei limiti umani, dei peccati e di qualsiasi scandalo.
La meraviglia è tanta, e qualcuno si chiede se quegli uomini siano ubriachi. Allora Pietro interviene a nome di tutti gli Apostoli e rilegge quell’evento alla luce di Gioele 3, dove si annuncia una nuova effusione dello Spirito Santo. I seguaci di Gesù non sono ubriachi, ma vivono quella che Sant’Ambrogio definisce «la sobria ebbrezza dello Spirito», che accende in mezzo al popolo di Dio la profezia attraverso sogni e visioni. Questo dono profetico non è riservato solo ad alcuni, ma a tutti coloro che invocano il nome del Signore.
D’ora innanzi, da quel momento, lo Spirito di Dio muove i cuori ad accogliere la salvezza che passa attraverso una Persona, Gesù Cristo, Colui che gli uomini hanno inchiodato al legno della croce e che Dio ha risuscitato dai morti «liberandolo dai dolori della morte (At 2,24). È Lui che ha effuso quello Spirito che orchestra la polifonia di lodi e che tutti possono ascoltare. Come diceva Benedetto XVI, «la Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé» (Omelia, 3 giugno 2006). Lo Spirito opera l’attrazione divina: Dio ci seduce con il suo Amore e così ci coinvolge, per muovere la storia e avviare processi attraverso i quali filtra la vita nuova. Solo lo Spirito di Dio infatti ha il potere di umanizzare e fraternizzare ogni contesto, a partire da coloro che lo accolgono.
Chiediamo al Signore di farci sperimentare una nuova Pentecoste, che dilati i nostri cuori e sintonizzi i nostri sentimenti con quelli di Cristo, così che annunciamo senza vergogna la sua parola trasformante e testimoniamo la potenza dell’amore che richiama alla vita tutto ciò che incontra.
* PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 giugno 2019 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Luca 12:54-59). Una nota di Antonio Thellung, da"mosaico di pace"
Federico La Sala
Udienza generale.
Papa Francesco: dove c’è il Vangelo c’è rivoluzione
Nella prima catechesi del 2019 Francesco ritorna sulla preghiera del Padre Nostro: «Pregare Dio come un figlio, non come un pappagallo che parla, parla, parla»
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 2 gennaio 2019)
"Dove c’è il Vangelo c’è rivoluzione. Il Vangelo non lascia quieti, ci spinge: è rivoluzionario". Così si è espresso il Papa nella prima udienza generale del 2019, ricordando che il Vangelo di Matteo pone il testo del Padre nostro "in un punto strategico, al centro del discorso della montagna", Francesco ha osservato che con le Beatitudini "Gesù incorona di felicità una serie di categorie di persone che nel suo tempo - ma anche nel nostro! - non erano molto considerate. Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, le persone umili di cuore... È la rivoluzione del Vangelo".
"Il grande segreto che sta alla base di tutto il discorso della montagna” è questo, ha aggiunto Francesco, nel corso dell’udienza generale, in aula Paolo VI: "Siate figli del Padre vostro che è nei cieli. Apparentemente questi capitoli del Vangelo di Matteo sembrano essere un discorso morale, sembrano evocare un’etica così esigente da apparire impraticabile, e invece scopriamo che sono soprattutto un discorso teologico".
È UNO SCANDALO ANDARE IN CHIESA MA ODIARE GLI ALTRI
Il cristiano, ha osservato il Pontefice, “non è uno che si impegna a essere più buono degli altri: sa di essere peccatore come tutti. Il cristiano semplicemente è l’uomo che sosta davanti al nuovo Roveto Ardente, alla rivelazione di un Dio che non porta l’enigma di un nome impronunciabile, ma che chiede ai suoi figli di invocarlo con il nome di ‘Padre’, di lasciarsi rinnovare dalla sua potenza e di riflettere un raggio della sua bontà per questo mondo così assetato di bene, così in attesa di belle notizie". Ecco dunque come Gesù introduce l’insegnamento della preghiera del “Padre nostro”: "Lo fa prendendo le distanze da due gruppi del suo tempo. Anzitutto gli ipocriti: ‘Non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente’. C’è gente che è capace di tessere preghiere atee, senza Dio: lo fanno per essere ammirati dagli uomini". "Quante volte - ha detto a braccio - noi vediamo lo scandalo di quelle persone che vanno in chiesa e stanno tutta la giornata lì e poi vivono odiando gli altri o parlando male della gente. Ma allora è meglio non andare in chiesa". "Se vai in Chiesa devi vivere come figlio e dare buona testimonianza, non una contro testimonianza".
PREGARE NON È PARLARE COME UN PAPPAGALLO, MA RIVOLGERSI A DIO COME UN FIGLIO AL PADRE
La preghiera cristiana, invece, "non ha altro testimone credibile che la propria coscienza, dove si intreccia intensissimo un continuo dialogo con il Padre: ‘Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto’".
"I pagani pensano - ha aggiunto il Papa - che parlando, parlando parlando Dio ascolta”, ma “io penso - ha aggiunto a tanti cristiani che credono che pregare è parlare a Dio come un pappagallo, no pregare si fa dal cuore, da dentro", ha osservato a braccio. "Tu invece - dice Gesù -, quando preghi, rivolgiti a Dio come un figlio a suo padre, il quale sa di quali cose ha bisogno prima ancora che gliele chieda. Potrebbe essere anche una preghiera silenziosa, il ‘Padre nostro’: basta in fondo mettersi sotto lo sguardo di Dio, ricordarsi del suo amore di Padre, e questo è sufficiente per essere esauditi".
"È bello pensare - ha concluso - che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi. E Lui ci ama tanto".
Dopo i saluti ai pellegrini polacchi, una ventata di musica e colore in aula Paolo VI: si sono esibiti, infatti, davanti a un divertito papa Francesco, artisti del circo di Cuba, con danze ed esercizi acrobatici. "Con il loro spettacolo portano bellezza, una bellezza che ci vuole tanto sforzo, allenamento per farlo. La bellezza sempre eleva il cuore, ci fa più buoni a tutti, ci porta alla bontà, ci porta a Dio. Grazie tante" così li ha salutati il Pontefice.
Il mio regno non è di qui
di Piero Stefani ("Il Regno", 22/11/2018)
«Universo» è parola sconosciuta alla Bibbia. Per dire «il tutto», il primo versetto della Scrittura impiega l’espressione «il cielo e la terra» (Gen 1,1; cf. Ef 1,10). Il posto privilegiato che questo modo di dire riserva a ciò che noi definiamo «nostro pianeta» indica una distanza incolmabile tra l’immagine biblica del cosmo e quella attuale. Non ha senso logico definire un campo come fosse costituito da 100 ettari di terreno e da un granello di polvere. I tentativi di intrecciare teologicamente tra loro la visione cosmica biblica con quella odierna non portano da nessuna parte.
Meglio domandarsi allora perché il Nuovo Testamento, e in particolare Giovanni, precludono l’eventualità di qualificare la solennità odierna ricorrendo all’espressione «re del mondo».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: «Il mio regno non è di qui (enteuthen)» (Gv 18,36). Le due espressioni kosmos («mondo») ed enteuthen («qui») gravitano dalla stessa parte.
Kosmos è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27). Il mondo è amato da Dio (cf. Gv 1,29; 4,42) eppure odia Gesù, «perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14).
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna...); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine (cf. Gv 2,16; 7,3; 14,31).
Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che «il mio regno non è di qui» perché è «altrove», come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: «Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra (enteuthen kai enteuthen, una specie di «uno di qui e uno di qua»), e Gesù in mezzo» (Gv 19,18).
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto (cf. Gv 18,36); il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: «“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re» (Gv 18,37). Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22) è una specie di definitivo sigillo posto al «Tu lo dici» (Gv 18,37) rivolto da Gesù a Pilato. È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA.
IL "PADRE NOSTRO" E IL "CRISTO RE": IL REGNO DI DIO-MAMMONA ("CARITAS") O DI DIO-AMORE ("CHARITAS")!? *
"LE VIE DELLA VERITÀ. [...] per la verifica rinascimentale, analizzare la letteratura dei cristiani offesi, a partire dal Contra hypocritas di Poggio Bracciolini fino all’Isola dei papòmani nel Gargantua di Rabelais. In una lettera del 2 luglio 1497 Savonarola esortò un monaco «all’animosa libertà» contro le parole abbiette, ossia agli ordini ipocriti, pur indorate dalla potestà papale, detta suprema o delle Chiavi. Chi passava dalla collera etica contro la menzogna delle parole [...] alla satira beffarda, si soffermava soprattutto sull’evoluzione del titolo papale di servo dei servi di Dio, per dimostrare che avesse preso senso di signore dei signori, «dominus dominantium»: si legga l’Eremita di Antonio de’ Ferraris detto il Galateo. Anzi era pensiero di Michelangelo che servo dei servi si diviene in croce e perciò quel titolo compete solo a Cristo (Rime, n. 298). Per parte mia sono convinto dell’ironia di Raffaello quando nelle Stanze Vaticane figura Pietro scalzo e i papi Giulio II e Leone X nella pompa della gloria" (cfr. Romeo De Maio, Rinascimento senza toga, Alfredo Guida Editore, Napoli, 1999, p. 18).
Il Vangelo
Un nuovo regno, dove il più potente è colui che serve
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 22 novembre 2018)
Gesù Cristo Re dell’Universo
Osserviamo la scena: due poteri uno di fronte all’altro; Pilato e il potere inesorabile dell’impero; Gesù, un giovane uomo disarmato e prigioniero. Pilato, onnipotente in Gerusalemme, ha paura; ed è per paura che consegnerà Gesù alla morte, contro la sua stessa convinzione: non trovo in lui motivo di condanna.
Con Gesù invece arriva un’aria di libertà e di fierezza, lui non si è mai fatto comprare da nessuno, mai condizionare. Chi dei due è più potente? Chi è più libero, chi è più uomo?
Per due volte Pilato domanda: sei tu il re dei Giudei? Tu sei re?
Cerca di capire chi ha davanti, quel Galileo che non lascia indifferente nessuno in città, che il sinedrio odia con tutte le sue forze e che vuole eliminare. Possibile che sia un pericolo per Roma?
Gesù risponde con una domanda: è il tuo pensiero o il pensiero di altri? Come se gli dicesse: guardati dentro, Pilato. Sei un uomo libero o sei manipolato?
E cerca di portare Pilato su di un’altra sfera: il mio regno non è di questo mondo. Ci sono due mondi, io sono dell’altro. Che è differente, è ad un’altra latitudine del cuore. Il tuo palazzo è circondato di soldati, il tuo potere ha un’anima di violenza e di guerra, perché i regni di quaggiù, si combattono. Il potere di quaggiù si nutre di violenza e produce morte. Il mio mondo è quello dell’amore e del servizio che producono vita. Per i regni di quaggiù, per il cuore di quaggiù, l’essenziale è vincere, nel mio Regno il più grande è colui che serve.
Gesù non ha mai assoldato mercenari o arruolato eserciti, non è mai entrato nei palazzi dei potenti, se non da prigioniero. Metti via la spada ha detto a Pietro, altrimenti avrà ragione sempre il più forte, il più violento, il più armato, il più crudele. La parola di Gesù è vera proprio perché disarmata, non ha altra forza che la sua luce. La potenza di Gesù è di essere privo di potenza, nudo, povero.
La sua regalità è di essere il più umano, il più ricco in umanità, il volto alto dell’uomo, che è un amore diventato visibile.
Sono venuto per rendere testimonianza alla verità. Gli dice Pilato: che cos’è la verità? La verità non è qualcosa che si ha, ma qualcosa che si è.
Pilato avrebbe dovuto formulare in altro modo la domanda: chi è la verità? È lì davanti, la verità, è quell’uomo in cui le parole più belle del mondo sono diventate carne e sangue, per questo sono vere.
Venga il tuo Regno, noi preghiamo. Eppure il Regno è già venuto, è già qui come stella del mattino, ma verrà come un meriggio pieno di sole; è già venuto come granello di senapa e verrà come albero forte, colmo di nidi. È venuto come piccola luce sepolta, che io devo liberare perché diventi il mio destino.
(Letture: Deuteronomio 7,13-14; Salmo 92; Apocalisse 1,5-8; Giovanni 18,33-37)
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA ...
iL "PADRE NOSTRO"?! Alcune pagine dalla "Querela pacis" (1517)
di Erasmo *
Pochi anni fa, quando il mondo era travolto a prendere le armi da non so quale peste esiziale, alcuni araldi del Vangelo, frati Minori e Predicatori, dal sacro pulpito davano fiato ai corni di guerra e ancor piú infervoravano chi già propendeva per quella follia. In Inghilterra aizzavano contro i Francesi, in Francia animavano contro gli Inglesi, ovunque spronavano alla guerra. Alla pace non incitava nessuno tranne uno o due, a cui costò quasi la vita l’aver soltanto pronunciato il mio nome.
Prelati consacrati scorrazzavano un po’ dovunque dimentichi della loro dignità e dei loro voti, e inasprivano con la loro opera il morbo universale, istigando ora il pontefice romano Giulio, ora i monarchi ad affrettare la guerra, quasi che non fossero già abbastanza folli per conto loro. Eppure questa patente pazzia noi l’avvolgemmo in splendidi titoli.
A tal fine sono da noi distorte con somma impudenza - dovrei dire con sacrilegio - le leggi dei padri, gli scritti di uomini santi, le parole della Sacra Scrittura. Le cose sono giunte a tal punto che risulta sciocco e sacrilego pronunciarsi contro la guerra ed elogiare l’unica cosa elogiata dalla bocca di Cristo. Appare poco sollecito del bene del popolo e tiepido sostenitore del sovrano chi consiglia il massimo dei benefici e scoraggia dalla massima delle pestilenze.
Ormai i sacerdoti seguono perfino le armate, i vescovi le comandano, abbandonando le loro chiese per occuparsi degli affari di Bellona. Ormai la guerra produce addirittura sacerdoti, prelati, cardinali ai quali il titolo di legato al campo sembra onorifico e degno dei successori degli Apostoli. Per cui non fa meraviglia se hanno spirito marziale coloro che Marte ha generato. Per rendere poi il male insanabile, coprono un tale sacrilegio col sacro nome della religione. Sugli stendardi sventola la croce.
Armigeri spietati e ingaggiati per poche monete a compiere macelli spaventosi innalzano l’insegna della croce, e simboleggia la guerra il solo simbolo che dalla guerra poteva dissuadere.
Che hai a che fare con la croce, scellerato armigero? I tuoi sentimenti, i tuoi misfatti convenivano ai draghi, alle tigri, ai lupi. -Quel simbolo appartiene a Colui che non combattendo ma morendo colse la vittoria, salvò e non distrusse; da lí soprattutto potevi imparare quali sono i tuoi nemici, se appena sei cristiano, e con quale tattica devi vincere.
Tu innalzi l’insegna della salvezza mentre corri alla perdizione del fratello, e fai perire con la croce chi dalla croce fu salvato?
Ma che! Dai sacri e adorabili misteri trascinati anch’essi per gli accampamenti, da queste somme raffigurazioni della concordia cristiana si corre alla mischia, si avventa il ferro spietato nelle viscere del fratello e sotto gli occhi di Cristo si dà spettacolo della piú scellerata delle azioni, la piú gradita ai cuori empi: se pure Cristo si degni di essere là. Colmo poi dell’assurdo, in entrambe le armate, in entrambi gli schieramenti brilla il segno della croce, in entrambe si celebra il sacrificio. -Quale mostruosità è questa? La croce in conflitto con la croce, Cristo in guerra con Cristo. È un simbolo fatto per atterrire i nemici della cristianità: perché adesso combattono quello che adorano? Uomini degni non di quest’unica croce, ma della croce patibolare.
Ditemi, come il soldato può recitare il “Padre nostro” durante queste messe? Bocca insensibile, osi invocare il Padre mentre miri alla gola del tuo fratello? “Sia santificato il tuo nome”: come si potrebbe sfregiare il nome di Dio piú che con queste vostre risse? “Venga il tuo regno”: cosí preghi tu che su tanto sangue erigi la tua tirannide? “Sia fatta la tua volontà, come in cielo, cosí anche in terra”: Egli vuole la pace, tu prepari la guerra.
“Il pane quotidiano” chiedi al Padre comune mentre abbruci le messi del fratello e preferisci che vadano perse anche per te piuttosto che giovare a lui?
Infine come puoi pronunciare con la lingua le parole “e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” mentre ti lanci a un fratricidio? Scongiuri il rischio della tentazione mentre con tuo rischio getti nel rischio il fratello. “Dal male” chiedi di essere liberato mentre ti proponi di causare il massimo male al fratello?
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Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Einaudi, Torino, 1990, pagg. 51-55.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E "LATINORUM" ...
Assemblea dei vescovi.
La Cei approva la nuova traduzione di Padre nostro e Gloria
Il documento finale dell’Assemblea generale straordinaria. Lotta alla pedofilia, nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 15 novembre 2018)
L’Assemblea generale della Cei ha approvato la traduzione italiana della terza edizione del Messale Romano, a conclusione di un percorso durato oltre 16 anni. In tale arco di tempo, si legge nel comunicato finale dell’Assemblea generale straordinaria della Cei (12-15 novembre), vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della Presentazione del Messale, che aiuterà non solo a una sua proficua recezione, ma anche a sostenere la pastorale liturgica nel suo insieme.
Il testo della nuova edizione sarà ora sottoposto alla Santa Sede per i provvedimenti di competenza, ottenuti i quali andrà in vigore anche la nuova versione del Padre nostro («non abbandonarci alla tentazione») e dell’inizio del Gloria («pace in terra agli uomini, amati dal Signore»).
Riconsegnare ai fedeli il Messale Romano con un sussidio
Nell’intento dei vescovi, la pubblicazione della nuova edizione costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica. Di qui la sottolineatura, emersa nei lavori assembleari, relativa alla necessità di un grande impegno formativo. In quest’ottica «si coglie la stonatura di ogni protagonismo individuale, di una creatività che sconfina nell’improvvisazione, come pure di un freddo ritualismo, improntato a un estetismo fine a se stesso». La liturgia, hanno evidenziato i vescovi, coinvolge l’intera assemblea nell’atto di rivolgersi al Signore: «Richiede un’arte celebrativa capace di far emergere il valore sacramentale della Parola di Dio, attingere e alimentare il senso della comunità, promuovendo anche la realtà dei ministeri. Tutta la vita, con i suoi linguaggi, è coinvolta nell’incontro con il Mistero: in modo particolare, si suggerisce di curare la qualità del canto e della musica per le liturgie». Per dare sostanza a questi temi, si è evidenziata l’opportunità di preparare una sorta di «riconsegna al popolo di Dio del Messale Romano» con un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
Nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
Riguardo alla lotta alla pedofilia, dall’Assemblea generale emerge che le Linee guida che la Commissione della Cei per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili sta formulando «chiederanno di rafforzare la promozione della trasparenza e anche una comunicazione attenta a rispondere alle legittime domande di informazioni». La Commissione - che sottoporrà il risultato del suo lavoro alla valutazione della Commissione per la Tutela dei minori della Santa Sede e soprattutto della Congregazione per la dottrina della fede - ha l’impegno di portare le Linee guida all’approvazione del Consiglio permanente, per arrivare a presentarle alla prossima Assemblea generale.
Si intende, quindi, portarle sul territorio, anche negli incontri delle Conferenze episcopali regionali per facilitare un’assimilazione diffusa di una mentalità nuova, nonché di un pensiero e una prassi comuni.
I vescovi hanno approvato due proposte, che consentono di dare concretezza al cammino. È stata condivisa, innanzitutto, la creazione presso la Cei di un Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, con un proprio Statuto, un regolamento e una segreteria stabile, in cui laiche e laici, presbiteri e religiosi esperti saranno a disposizione dei vescovi diocesani. Il Servizio sosterrà nel compito di avviare i percorsi e le realtà diocesani - o inter-diocesani o regionali - di formazione e prevenzione. Inoltre, «potrà offrire consulenza alle diocesi, supportandole nei procedimenti processuali canonici e civili, secondo lo spirito delle norme e degli orientamenti che saranno contenuti nelle nuove Linee guida».
La seconda proposta approvata riguarda le Conferenze episcopali regionali. Si tratta di individuare, diocesi per diocesi, uno o più referenti, da avviare a un percorso di formazione specifica a livello regionale o interregionale, con l’aiuto del Centro per la tutela dei minori dell’Università Gregoriana.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO.
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
Federico La Sala
“Siamo sotto attacco di Satana”
L’appello del Papa
di Andrea Tornielli (La Stampa, 30.09.2018)
Con un appello che non ha precedenti Papa Francesco chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare il rosario nel mese di ottobre per «proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Lo fa rimettendo in auge due antiche preghiere, una alla Madonna e una allo stesso San Michele.
È un’iniziativa che indica quanta sia la preoccupazione del Vescovo di Roma per la piaga degli abusi sui minori, ma anche per l’innalzarsi del livello degli attacchi contro lo stesso Papa e i vescovi, usando in modo strumentale lo scandalo pedofilia per combattere battaglie di potere nella Chiesa e mettere in stato d’accusa il Pontefice, come ha fatto un mese fa, con la sua clamorosa richiesta delle dimissioni papali, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti.
«Il Santo Padre - ha scritto la Sala Stampa vaticana in un comunicato diffuso a mezzogiorno di ieri - ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi».
Papa Francesco invita tutti i fedeli «a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione “Sub Tuum Praesidium”, e con la preghiera a San Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male». La preghiera - aveva affermato Bergoglio lo scorso 11 settembre, in un’omelia a Santa Marta - «è l’arma contro il Grande accusatore che gira per il mondo cercando come accusare».
«Con questa richiesta di intercessione - spiega ancora la Sala Stampa - il Santo Padre chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Santa Madre di Dio, ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga». Il Papa ha chiesto anche che la recita del rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII: «San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio».
Lo scandalo degli ipocriti
· Messa a Santa Marta · *
«Nelle letture di oggi ci sono tre gruppi di persone: Gesù e i suoi discepoli; la donna e Paolo; e i dottori della legge». Riferendosi al passo evangelico di Luca (7, 36-50) «Gesù è invitato ma ricevuto senza tante cortesie - le cortesie abituali del suo tempo - ma lui fa finta di non accorgersene e va avanti. E appare questa donna. Il Vangelo dice una “peccatrice” - così la qualificavano - una di quelle il cui destino era o essere visitate di nascosto, anche da questi, i farisei, o essere lapidate». Ma «questa donna - ha fatto presente il Pontefice - si fa vedere con amore, con tanto amore verso Gesù, e non nasconde l’essere peccatrice, perché tutti la conoscevano, anche tanti lì a tavola l’avevano visitata».
Accennando poi al brano della prima lettera ai Corinzi (15, 1-11), il Papa ha fatto notare che «Paolo dopo aver parlato di tante cose, anche dei carismi, della Chiesa, va al nocciolo della salvezza: “A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati [...] Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”».
Dunque, ha rilanciato Francesco, «ambedue cercavano Dio con amore, ma amore “a metà”». Paolo «perché pensava che l’amore fosse una legge e aveva il cuore chiuso alla rivelazione di Gesù Cristo: perseguitava i cristiani, ma per lo zelo della legge, per questo amore non maturo». E «questa donna - ha proseguito il Papa - cercava l’amore, come quell’altra, la samaritana: poverina, tanti mariti e non trovava l’amore, e lo cercava. Il piccolo amore. E Gesù dice: “A questa le è stato perdonato tanto perché ha amato molto”».
«Ma come amare? Queste non sanno amare. Cercano l’amore» ha affermato il Pontefice. E «Gesù, parlando di queste, dice - una volta ha detto - che saranno davanti a noi nel regno dei cieli. “Ma quale scandalo...” - i farisei - “ma questa gente!”». Invece «Gesù guarda il piccolo gesto di amore, il piccolo gesto di buona volontà, e lo prende e lo porta avanti. Questa è la misericordia di Gesù: sempre perdona, sempre riceve».
«Un altro gruppo» ha spiegato Francesco riferendosi al brano odierno del Vangelo, è quello composto da «dottori della legge che guardavano Gesù per vedere se potevano trovarlo in errore tendendogli un tranello». Queste persone, ha aggiunto, «hanno un atteggiamento che soltanto gli ipocriti usano spesso: si scandalizzano. “Ma guarda, quale scandalo! Non si può vivere così! Abbiamo perduto i valori... Adesso tutti hanno il diritto di entrare in chiesa, anche i divorziati, tutti. Ma dove stiamo?”». E questo è «lo scandalo degli ipocriti».
«Questo è il dialogo - ha insistito il Pontefice - tra l’amore grande che perdona tutto, di Gesù, l’amore “a metà” di Paolo e di questa signora, e anche il nostro, che è un amore incompleto perché nessuno di noi è santo canonizzato. Diciamo la verità». E «l’ipocrisia: l’ipocrisia dei “giusti”, dei “puri”, di coloro che si credono salvati per i propri meriti esterni». Ma «Gesù a loro dice - agli ipocriti - “sepolcri imbiancati”. Tutto bello, cimiteri belli, ma dentro putredine e un marciume». Proprio «così è l’anima degli ipocriti».
«La Chiesa, quando cammina nella storia, è perseguitata dagli ipocriti: ipocriti da dentro e da fuori» ha affermato il Papa. «Il diavolo non ha niente da fare con i peccatori pentiti, perché guardano Dio e dicono: “Signore sono peccatore, aiutami”». E se «il diavolo è impotente» con i peccatori pentiti, «è forte con gli ipocriti. È forte, e li usa per distruggere, distruggere la gente, distruggere la società, distruggere la Chiesa». E «il cavallo di battaglia del diavolo è l’ipocrisia, perché lui è un bugiardo: si fa vedere come principe potente, bellissimo, e da dietro è un assassino».
La liturgia, dunque, oggi propone questi «tre gruppi di persone» ha riaffermato Francesco: «Gesù, che perdona, riceve, che è misericordioso, parola tante volte dimenticata quando sparliamo degli altri. Pensate a questo: dobbiamo essere misericordiosi, come Gesù, e non condannare gli altri. Gesù al centro». Poi ci sono «Paolo, peccatore, persecutore, ma con un amore “a metà”» e «questa signora, peccatrice, anch’essa con un amore “incompleto”». Ma «Gesù perdona tutti e due. E incontrano il vero amore: Gesù». Infine ci sono «gli ipocriti, che sono incapaci di incontrare l’amore perché hanno il cuore chiuso, nelle proprie idee, nelle proprie dottrine, nella propria legalità».
«Chiediamo a Gesù - è l’invito di Francesco a conclusione dell’omelia - che protegga sempre la nostra Chiesa, che come madre è santa ma piena di figli peccatori come noi. E che la protegga con la sua misericordia e il suo perdono ognuno di noi».
La risposta è già chiara.
La Chiesa, il Papa, la Parola di Dio
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 12 settembre 2018)
Un anno prima della sua elezione, l’allora patriarca di Venezia, Albino Luciani, citava il cardinale Ratzinger in un’omelia nella quale parlava della vera comunione della Chiesa nella carità: «Pochi giorni fa mi sono congratulato con il cardinale Ratzinger, egli ha avuto il coraggio di proclamare alto che "il Signore va cercato là dov’è Pietro". Ratzinger m’è parso in quell’occasione profeta giusto - affermava il futuro Giovanni Paolo I -, non tutti quelli che scrivono e parlano oggi hanno lo stesso coraggio; per voler andare dove vanno gli altri, alcuni di essi accettano solo con tagli e restrizioni il Credo pronunciato da Paolo VI alla chiusura dell’Anno della fede; criticano i documenti papali; parlano continuamente di comunione ecclesiale, mai però del Papa come punto necessario di riferimento per chi vuole essere nella comunione vera e santa della Chiesa. Altri, più che profeti - continuava Luciani - sembrano dei contrabbandieri; approfittano del posto che occupano, per lanciare calunnie e smerciare come dottrina della Chiesa quello che è, invece, loro pura opinione personale».
Queste mirate osservazioni che scaturiscono dalla saggezza antica di pensare cum Ecclesia e nella Chiesa hanno il pregio della cristallina lucidità che fa leggere il presente, seppure siano trascorsi da allora quarant’anni. Sono i corsi e ricorsi della storia che ci danno la cornice e la misura di quel che oggi accade nella Chiesa di Cristo. Con la differenza che mentre allora Luciani si riferiva perlopiù a fronde del dissenso che consapevolmente si collocavano ai margini dell’istituzione, oggi quei «contrabbandieri» ambiscono all’identificazione con l’ufficio dell’istituzione stessa e con l’aggravante che, rispetto ad allora, dispongono di ingenti risorse da investire anche nei mezzi di comunicazione impiegati nel seno stesso della Chiesa.
Da qui la confusione generata da coloro che pretendono di parlare a nome della Chiesa, ma intanto la mettono al loro servizio, come un dominio privato, un parco giochi per altri interessi. Spacciano come dogmi e Tradizione opinioni, pseudo-teologie e atteggiamenti ideologici, e pretendono di conferire alle loro arbitrarie parzialità il carattere di fede universale, mirando così a disorientare e avvelenare i pozzi del sensus fidei del popolo di Dio minando l’unità e la comunione nella Chiesa.
Ma essa tuttavia non potrà mai corrompersi e inaridire completamente a causa di costoro perché la sorgente della sua forza santificatrice non risiede nei suoi membri e di conseguenza non è schiava di nessuna epoca storica né si configura in nessuna realtà temporale e politica. Perché, come insegna il Catechismo, essa è il corpo di una realtà sacramentale fondata su un’unica roccia: la fede di Pietro, che è fede in Gesù Cristo vivente e operante. E nell’autorità di Pietro vede perciò il custode e il sostegno della propria fede, il centro dell’unità e il pegno della propria comunione, così che la sua fedeltà alla fede si concretizza in fedeltà a Pietro.
«Ubi Petrus, ibi Ecclesia» ripeteva sant’Ambrogio, e forse conviene ricordarlo anche oggi davanti alle contraffazioni fabbricate nelle fornaci di tempi inselvatichiti nei quali in tanti, nelle nostre antiche società cristiane, hanno perso la memoria di che cos’è la Chiesa e di quale sia la sua natura, mentre si moltiplicano i sintomi di un male che sembrano diffondersi come una crisi di nevrastenia collettiva, dove tutto diventa materia di denigrazione e riceve un’interpretazione sinistra arrivando persino a ritenere normale e lecito chiedere le dimissioni del Papa come fosse il capo di un’azienda o di un partito.
Si attende ora che «la Santa Sede» formuli «gli eventuali e necessari chiarimenti» a «fronte di quanto accaduto nelle ultime settimane », come annunciato lunedì dalla dichiarazione del Consiglio dei cardinali. Ma quel che rimane sempre salutare per non rimanere disorientati dai falsari della parola che assediano l’attuale stagione ecclesiale è seguire il magistero ordinario del Successore di Pietro. Il Papa non è un personaggio. Nella sua predicazione ordinaria non parla di sé. È Cristo che indica, a lui si conforma, e come lui, appunto, «non parla di se stesso: usa la Parola di Dio», sempre, «anche quando vuol vincere il diavolo». Colui che trama per dividere e perdere. Perché in ultimo, nel mirino, sta proprio la Parola di Dio da mettere a tacere.
Santa Sede.
Lotta agli abusi, il Papa convoca i capi dei vescovi di tutto il mondo
L’annuncio al termine della riunione dei 9 Cardinali. L’incontro sarà in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019. Sul tavolo il tema della protezione dei minori e della prevenzione degli abusi
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 12 settembre 2018)
Una decisione forte, che esprime la volontà fermissima di fare verità su una piaga che va sanata al più presto. Papa Francesco sentito il Consiglio di cardinali, ha deciso di convocare una riunione con i presidenti delle Conferenze episcopali della Chiesa cattolica sul tema della protezione dei minori e degli adulti vulnerabili.
L’annuncio è contenuto nel comunicato che conclude la XXVI riunione del cosiddetto C9, il gruppo di porporati cui lo stesso Pontefice ha affidato il compito di aiutarlo nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa universale. Un tema quello degli abusi, rilanciato dal recente dossier sulla diocesi della Pennsylvania e dal caso McCarrick, ampiamente trattato, come recita la nota finale, nella riunione di cardinali, iniziata lunedì per concludersi stamani.
Il vertice con i tutti i leader degli episcopati rilancia una volta di più la volontà di adottare misure idonee alla prevenzione e alla tutela delle vittime e, allo stesso tempo rappresenta una presa d’atto di come il problema si ancora drammaticamente caldo. Il tutto si svolgerà nella linea della tolleranza zero, che Bergoglio ha adottato sin dall’inizio del suo pontificato, proseguendo la rotta indicata da papa Ratzinger.
Domani l’incontro con i vertici dell’Episcopato Usa
Un anticipo dell’appuntamento di febbraio si avrà comunque già domani, giovedì. quando saranno ricevuti in Vaticano i vertici della Conferenza episcopale statunitense. In particolare il Papa incontrerà il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e presidente dei vescovi Usa, il cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston e presidente della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, monsignor José Horacio Gomez arcivescovo di Los Angeles, vicepresidente dell’episcopato e il segretario generale monsignor Brian Bransfield.
Non imminente un ricambio nel C9
Naturalmente il C9 ha affrontato ha anche gli argomenti per cui è nato. Come ha sottolineato la vicedirettrice della Sala Stampa vaticana, Paloma Garcia Ovejero, «gran parte dei lavori del Consiglio e stata dedicata agli ultimi aggiustamenti della bozza della nuova Costituzione Apostolica della Curia romana, il cui titolo provvisorio e “Praedicate evangelium”. Il Consiglio di cardinali ha già consegnato, in proposito, il testo provvisorio che, comunque, e destinato ad una revisione stilistica e ad una rilettura canonistica».
Inoltre come comunicato lunedì scorso, durante la prima sessione di questa XXVI riunione, il C9 «ha chiesto al Papa una riflessione sul lavoro, la struttura e la composizione dello stesso Consiglio, tenendo anche conto dell’età avanzata di alcuni membri». In proposito la vicedirettrice della Sala Stampa ha detto che «per dicembre non ci saranno nuovi membri del C9» aggiungendo che «se ci saranno cambiamenti, vedremo». Procedendo nei lavori per la riforma della Curia romana infine il Consiglio che «ancora una volta ha espresso piena solidarietà a papa Francesco per quando accaduto nelle ultime settimane», vedi dossier Viganò, «si è concluso con la rilettura dei testi già preparati facendo motivo di attenzione la cura pastorale per il personale che vi lavora». Dei 9 porporati che costituiscono il C9 mancavano il cardinale australiano George Pell, l’85 enne cardinale cileno Francisco Javier Errazuriz e il quasi 79enne cardinale africano Laurent Monsengwo Pasinya.
«Il Santo Padre, come di consueto, informa il comunicato finale del C9, ha partecipato ai lavori, anche se e stato assente in tre momenti: lunedì in fine mattinata, per l’udienza al cardinale Beniamino Stella; martedì mattina, per la visita ad limina apostolorum della Conferenza episcopale Venezuela e questa mattina per l’Udienza generale».
La Cei: non per fermarsi all’abuso
E sempre in tema di abusi, il sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per la comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana cita l’incontro, annunciato nei giorni scorsi dal C9 e svoltosi ieri. «Ascolto delle vittime, impegno di educazione, formazione e comunicazione, stesura di Linee guida e di norme per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili. Sono questi - scrive don Ivan Maffeis - i temi approfonditi nell’incontro che ieri - martedì 11 settembre - ha visto insieme la Pontificia Commissione per la tutela dei minori con la corrispondente Commissione della Cei. Una collaborazione fattiva, che mira soprattutto all’elaborazione di proposte, iniziative e strumenti di prevenzione da offrire alle diocesi. Per non fermarsi a condannare l’abuso e promuovere una cultura della persona e della sua dignità».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! .... *
Pregare, questione di umiltà. Il modello? È il Padre Nostro
Castellucci: Il Signore ci insegna la logica del "noi".
L’arcivescovo di Modena-Nonantola: «La preghiera di domanda, con le formule imparate a memoria, non è di serie B rispetto a espressioni più alte della vita dello Spirito»
Intervista di Riccardo Maccioni (Avvenire, domenica 3 giugno 2018)
La preghiera come dialogo d’amore, che non ha bisogno di frasi mirabolanti o immagini di alta poesia, perché cresce nel rapporto cuore a cuore. L’umiltà e la disponibilità come condizioni necessarie per aprirsi all’azione della grazia, per accettare la logica della salvezza che viene da Dio. E si realizza, per così dire è resa possibile, dal rapporto con gli altri. Un atteggiamento di fiducia, di legame filiale tra la creatura e il Creatore che trova semplice e al tempo stesso profonda sintesi nel libretto ”Chi prega si salva”, in cui sono raccolte le preghiere più note della tradizione cristiana. A partire dalla famosa espressione, di sant’Alfonso Maria de’ Liguori scelta come titolo. E che nella sua formulazione completa suona un tantino inquietante: chi prega si salva, chi non prega si danna.
«Credo che sant’Alfonso non intenda proporre, con questa espressione, una “teoria universale” riguardante la salvezza o la condanna, ma muoversi dentro all’orizzonte del credente - spiega monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola e neo presidente della Commissione episcopale Cei per la dottrina della fede, la catechesi e l’annuncio -. In altre parole, il suo interesse è concentrato sul cristiano: in questo senso chi prega si salva e chi non prega si danna. Chi prega, cioè, mantiene quell’apertura umile e disponibile al Signore che è il requisito fondamentale per lasciare entrare nel cuore la grazia. Chi non prega, si illude di tenere in mano la propria vita da solo, si chiude ermeticamente all’amore di Dio, crede di salvarsi da solo. Papa Francesco direbbe che cade nel pelagianesimo ».
Nel libretto sono raccolte le preghiere più semplici della vita cristiana, quelle che impariamo da bambini, in famiglia i più fortunati o al catechismo. Perché è importante “frequentarle” anche da adulti?
La memoria orante, come quella liturgica, rappresenta per l’essere umano un punto di riferimento costante nella vita. Tante persone, che poi nemmeno proseguono nella pratica della fede cristiana, continuano quotidianamente a recitare almeno in qualche circostanza le preghiere imparate da bambini. È come il recupero costante di quella dimensione fanciullesca che abita sempre dentro di noi, anche a ottant’anni; e che mantiene viva la condizione posta da Gesù per «entrare nel regno dei cieli»: diventare come bambini. Di nuovo è questione di umiltà e disponibilità.
Quindi la preghiera di domanda, con le formule imparate a memoria, non è di serie B rispetto a espressioni più alte della vita dello Spirito, come l’adorazione o la preghiera del cuore.
Nella preghiera non ci sono le categorie, come nel calcio. Niente serie A, B o C. Piuttosto c’è un modello, al quale ogni preghiera si riconduce: il Padre Nostro, che i padri della Chiesa chiamavano oratio dominica, la preghiera del Signore. In quella breve preghiera, che tutti conoscono a memoria, Gesù suggerisce ben quattro domande: il pane quotidiano, il perdono dei peccati, la custodia dalle tentazioni e la liberazione dal male. Richieste per il corpo, la mente e lo spirito. Queste richieste sono precedute dalla lode, per mettere in evidenza che non sono richieste fatte dagli schiavi al padrone o dai clienti al negoziante, ma dai figli al Padre. Chiedere, quindi, è da figli: purché avvenga nel rispetto della grandezza del Padre. Se siamo figli, dobbiamo chiedere umilmente.
Nella prefazione alla nuova edizione del libro il Papa cita anche una buona preparazione al sacramento della Confessione. Troppe volte abbiamo quasi paura di essere perdonati.
È vero. Forse la difficoltà di prepararci dipende anche dalla sensazione sgradevole che ciascuno di noi prova di fronte ai propri limiti e peccati. Prepararsi significa riflettere, concen-trarsi, calarsi nella propria condizione fragile: e questo dà fastidio. Ma è necessario, se vogliamo sperimentare la misericordia di Dio e correggere i nostri difetti.
Come preparazione al confessionale, che cosa consiglia?
Prima di tutto di ripetere lentamente il “Padre Nostro”, che rappresenta quasi un esame di coscienza: non è infatti la preghiera dell’io, ma la preghiera del noi. «Dacci», «rimetti i nostri debiti », «non ci indurre», «liberaci». È la preghiera di una comunità: mentre dunque chiedo per me, chiedo per noi. E mi interrogo su come io mi rapporto agli altri. Se domando il perdono dei miei debiti, so poi rimetterli ai miei debitori? Se domando il pane per me, so poi condividerlo con gli altri, con quelli che insieme a me formano il “noi” e hanno diritto come me al pane quotidiano?
E per imparare a pregare da dove si comincia?
Si comincia dal cuore, non dalla carta. O meglio, la preghiera scritta e imparata a memoria deve diventare preghiera del cuore, relazione con il Signore. Quando uno si innamora, non si preoccupa di andare a cercare su Internet le frasi giuste da dire. Sarà la relazione a suggerirle. Bastano poche formule - ripeto, Gesù ce ne ha data una esemplare e la Chiesa ce ne offre alcune essenziali - ma occorre molto affetto. Le preghiere stesse incentivano l’affetto, perché l’espressione dell’amore aumenta il grado stesso dell’amore. Se io voglio bene a una persona, ma non glielo dico mai, non scatta la relazione e facilmente quell’amore si raffredda. Così con Dio: non resiste e serve a poco una fede “intellettuale”, fredda, che non si rivolga mai a lui.
Se posso permettermi... c’è una preghiera che lei sente particolarmente “sua’” che la accompagna da sempre?
A questo punto è chiaro che la mia preferita è il Padre Nostro. Dico spesso anche l’Ave Maria. Fin da piccolo ho imparato la preghiera del Rosario, che recito ogni giorno. È come una ripetuta professione d’amore verso la Madre. Quando, insomma, ci si rivolge a Dio come Padre e a Maria come Madre, ci si sente ben custoditi e spronati ad essere paterni e materni verso i fratelli.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?! Un resoconto dell’incontro, con note
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
Pedofilia, tutta la Chiesa ha i problemi del Cile
Linea dura - Il Papa ha ammesso di aver sottovalutato il caso e ha fatto dimettere i vescovi. Ma le omertà in diocesi e nei seminari sono la norma
di Marco Marzano (Il Fatto, 20.05.2018)
La decisione dei vescovi cileni di rassegnare in blocco le dimissioni dai loro incarichi al papa è clamorosa. Segnala la consapevolezza di una responsabilità collettiva dell’episcopato cileno per i gravi crimini commessi da membri della Chiesa in quel Paese. Il gesto giunge dopo decenni di insabbiamenti ed è la conseguenza di un drastico cambiamento di linea di Francesco nel contrasto alla pedofilia clericale in Cile.
Sino al gennaio di quest’anno e cioè al suo viaggio nel Paese andino, Francesco non sembrava scontento di come andavano le cose nella chiesa cilena. Nel 2015, aveva promosso, nominandolo vescovo, Juan Barros, un “allievo” e amico del pedofilo abusatore Don Fernando Karadima. Quando Francesco lo ha nominato vescovo sul capo di Barros pendeva già l’accusa di aver assistito impassibile alle violenze che Karadima infliggeva ai minori.
Proprio durante quel viaggio, Francesco aveva reagito con fastidio alla domanda di chi gli aveva chiesto conto del suo sostegno a Barros rispondendo che della complicità di quel vescovo con i crimini di don Karadima non c’erano riscontri certi e quindi, fino a prova contraria, quelle contro di lui erano calunnie. Quelle parole parvero l’ennesima manifestazione della complicità vaticana con gli abusatori e suscitarono la reazione indignata di molta parte dell’opinione pubblica, non solo cilena.
È a quel punto che il papa fece mostra di esser pronto a cambiar linea, ammise di essersi sbagliato nel giudicare la situazione cilena, dichiarò di essere stato male informato e di voler andare finalmente a fondo della questione. Mandò un Cile un suo investigatore che acquisì nuove informazioni, poi convocò i dirigenti cileni a Roma e ottenne le loro dimissioni. Adesso gli toccherà procedere alle necessarie epurazioni, cioè al licenziamento di massa dei vescovi cileni. Se ciò non avvenisse, se il papa prendesse tempo e nel frattempo la vicenda venisse dimenticata dai media, ci troveremmo dinanzi a una sceneggiata sulla pelle delle vittime.
In una lettera indirizzata ai vescovi cileni che doveva rimanere riservata (e di cui alcuni giornali hanno pubblicato stralci) Francesco ammette che i problemi in Cile vanno ben al di là del caso Karadima-Barros, che nella chiesa cilena si sono verificati nel tempo abusi e mancanze di tutti i generi, che sono stati distrutti documenti che compromettevano alcuni preti, coperti e protetti o trasferiti precipitosamente da una parrocchia all’altra e subito incaricati di occuparsi di altri minori. Le accuse hanno riguardato anche le istituzioni formative, i seminari, colpevoli di non aver arrestato la carriera di preti che già da studenti mostravano chiari segni di un comportamento patologico nella sfera sessuale e affettiva. Il problema è “il sistema” ha concluso il papa.
Ed è verissimo. Il punto è: quale sistema? A meno di non voler credere che la chiesa cilena abbia sviluppato patologie tutte peculiari, che fosse una sorta di associazione a delinquere fuori controllo e a meno di negare che fenomeni identici a quelli descritti dal papa nella sua lettera si sono verificati ovunque nel mondo bisogna ammettere che il sistema è la chiesa stessa nella sua attuale forma organizzativa. Il problema è cioè un’organizzazione strutturata intorno alla supremazia di una casta clericale tutta maschile e celibe formata intorno ai valori della fedeltà assoluta e della disciplina di corpo all’interno di istituzioni totali e claustrofobiche come i seminari e poi investita del monopolio assoluto nella gestione del sacro, della competenza esclusiva di tutti gli aspetti cruciali della vita dell’istituzione.
Se il pontefice vuole davvero combattere fino in fondo il sistema e debellarlo, perché non prende tutti in contropiede e assume l’iniziativa di avviare una grande riflessione collettiva e pubblica, eventualmente attraverso un sinodo straordinario, sul tema della responsabilità dei funzionari e delle istituzioni cattoliche nei tantissimi casi di abusi sui minori commessi dai membri della Chiesa nella sua storia recente? E perché non invita a farne parte anche quegli studiosi che da anni sostengono che il problema degli abusi sessuali da parte del clero cattolico va affrontato mettendo in conto l’eventualità di dover smantellare la tradizionale strutturale clericale che da secoli, e senza alcuna discontinuità sino al presente, governa la Chiesa ai quattro angoli della terra? Questo sì che sarebbe l’inizio della rivoluzione.
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO. ..
"È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della ammirabile carità ...": "Mirae caritatis. De sanctissima eucharistia", della "Ammirabile Carità. La santa eucarestia", così è intitolata e così è tradotta la "Lettera enciclica" di Leone XIII, del 1902:
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’,.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
I piccoli orfani di Ceausescu il dittatore che volle farsi Dio
di Andrea Bajani (la Repubblica, 14.02.2018)
I dittatori hanno sempre preso spunto da Dio, per decidere come comportarsi con i propri sudditi. I Vangeli, più ancora che l’Antico Testamento, sono stati per loro l’implicito manuale di condotta. E i Vangeli ci hanno fatto capire - tra le altre cose - la stretta correlazione che esiste tra la divinità e la nascita. Una delle prerogativa di Dio è quella di presiedere alla nascita. È da Lui che dipende il venire a questo mondo di Gesù. È per questo che i dittatori tradizionalmente mettono bocca sulle gravidanze delle loro cittadine. Al pari di Dio sono loro e solo loro che ne sono responsabili.
Il sottotesto di Figli del diavolo della scrittrice romena Liliana Lazar (66than2nd, traduzione di Camilla Diez), è proprio questa equivalenza. «Costringeva il piccolo a voltarsi verso il ritratto del presidente che era affisso al muro e continuava: “Lui è tuo padre! È grazie a lui che hai un tetto sopra la testa, è lui che ti dà da mangiare!”». “Lui” è Nicolae Ceausescu, il Conducator della Romania comunista, dal 1967 all’89. Lei - la protagonista - si chiama Elena Cosma ed è un’ostetrica: è lei che si occupa di far nascere i figli della Romania, di mostrarli al Padre.
“Lui”, il Padre, è diventato divino per decreto, il Decreto 770, del 1966, chiamato Decreto sull’aborto e la contraccezione. È il grimaldello legislativo attraverso cui la Romania vuole ingrossare le file del Partito. I metodi contraccettivi sono riservati alle donne con almeno quattro figli, recita il primo degli articoli. Tra gli altri: «Tutti i cittadini che sono a conoscenza di un aborto sono tenuti a denunciarlo alle autorità». «Le donne ferite in seguito a un aborto clandestino» non potranno essere curate finché non avranno denunciato la persona che ha procurato l’aborto. A Elena Cosma, dunque, è fatto divieto assoluto di interrompere delle gravidanze. A meno che le donne incinte non siano mogli dei quadri del Partito.
Il ritratto di Ceausescu è appeso nel suo ambulatorio. È lì davanti che le donne si spogliano, perché di Dio è l’anima e anche il corpo: «Mettersi nude davanti al ritratto di Ceausescu rappresentava già di per sé una prova durissima. Poche erano le donne che posavano gli indumenti su una sedia, quasi tutte preferivano tenerli in mano, per tentare di nascondere la propria nudità. Quando si stendevano sul lettino, con le gambe sulle staffe, sentivano lo sguardo del presidente affondare tra le loro cosce».
Elena Cosma è la mano del Conducator. I bambini nascono e vanno consegnati a lui, per i ritratti ufficiali e il sol dell’avvenire. Quelli di cui ci si vuole sbarazzare, viceversa, sono figli del diavolo: appena nati, finiscono diretti in orfanotrofio, un affollato inferno di bambini disconosciuti appena nati.
Liliana Lazar, che conoscevano già per Terra di uomini liberi (Marco Tropea, 2011), ha scritto un romanzo che è difficile dimenticare. Attraverso la vicenda di una donna sola, che in fondo vorrebbe soltanto esser madre senza averne la possibilità, racconta come pochi altri libri hanno fatto i limiti estremi del culto della personalità. Elena decide di sottrarre un bambino destinato all’orfanotrofio pur di averne uno, mentre dal suo ambulatorio passano ogni giorno donne pronte a consegnare al Socialismo un altro soldato che si batterà per la Rivoluzione. Certi spettri sembrano continuare a parlare da dentro gli armadi, e l’arte gli dà voce, perché sono rovelli che interrogano ogni Tempo.
Nel 2007 il regista romeno Cristian Mungiu vinse a Cannes con il film 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni: era un film di finzione ma con la potenza visiva di un documento, e raccontava, da una prospettiva diversa, lo stesso problema affrontato da Lazar. La desolazione di ogni inquadratura rendeva agghiacciante un gesto antico, inquadrato nel contesto di un mondo cosiddetto progressista.
Questo romanzo torna a raccontarlo, ma con lo sguardo di una donna: lo squallore si fa compartecipazione, la violenza resta tale, ma si tinge di una malinconia che resta addosso a chi legge, si spalma sul giudizio della Storia, che però torna a ripetersi ogni giorno sui giornali. E anche quando il 1989 finalmente arriva, nel giorno di Natale, resta l’impressione - leggendo Lazar - che il mondo non cambi per davvero. «Il tiranno è morto!», legge Elena Cosma su uno striscione. Eppure quei bambini dati via continuano a parlare, anche dopo l’ultima pagina del libro.
PAPA FRANCESCO, IL "PADRE NOSTRO", E INTERI MILLENNI DI LABIRINTO
DIVENTÒ UN DIO, IL "PADRE NOSTRO", IL CAPITALE ... *
A FURIA DI MERCANTEGGIARE SU TUTTO abbiamo PERSO LA TESTA, fatto del CAPITALE un DIO, il "Padre nostro", e ci siamo fatti allegramente tradurre e "indurre in tentazione"! PER MILLENNI.
CHE BELLO!!! TUTTO è diventato "carissimo", non solo ciò che si produce e si vende (il feticismo delle merci) ma anche noi, gli animali, e l’intera terra con il suo cielo più alto: la CARESTIA si è diffusa su tutta la terra ed è diventa terribile e, come, al solito, i MERCANTI hanno fatto I loro affari e ancora oggi continuano ad accumulare TESORI per i loro "carissimi" eredi, dappertutto, non solo nelle loro case, ma anche nelle Banche e nei Templi (sul tema, cfr. i miei commenti all’art. di Marcello Gaballo, "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò", Fondazione Terra d’Otranto, 38.08.2017). E, ogni giorno, celebrano la LORO benedetta carissima "EU-carestia", la loro "BUONA-carestia" - per conservarla, per tutti i secoli dei secoli.
PER tutti i POVERI "CRISTI", che c’è da augurare?! Che il Natale "sia meno commerciale" e l’anno che viene "meno dozzinale"?!
Dopo duemila anni Papa Francesco finalmente ne ha preso atto:"Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione".
Era ora!
BUON NATALE, BUON ANNO, BUON 2018
Federico La Sala
* Cfr. Armando Polito, "Natale e Capodanno: che non siano solo belle parole", "Fondazione Terra d’Otranto", 24,12,2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IL PADRE NOSTRO E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" ...
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO...
Francia.
Con l’Avvento arriva il «nuovo» Padre Nostro
Nella traduzione approvata dai presuli francesi «non indurci» diventa «non lasciare che entriamo in tentazione»
di Andrea Galli (Avvenire, giovedì 16 novembre 2017)
«Non lasciare che entriamo in tentazione» al posto di «non indurci in tentazione»: è questa la nuova formulazione della sesta richiesta del Padre nostro che i cattolici francesi sono invitati a usare nelle celebrazioni pubbliche a partire dal 3 dicembre prossimo, prima domenica di Avvento, inizio del nuovo anno liturgico. In un incontro con la stampa ieri mattina a Parigi - riporta l’agenzia Sir - il vescovo di Grenoble Guy de Kerimel, che è anche presidente della Commissione episcopale per la liturgia e la pastorale sacramentale, ha spiegato il significato di questa modifica, là dove si chiede a Dio di «essere liberati dalla tentazione che conduce al peccato e a una forma di schiavitù».
La traduzione precedente non era sbagliata dal punto di vista esegetico, ha detto il vescovo, ma rischiava di essere «mal compresa dai fedeli». La modifica sarebbe quindi «un’occasione per i cristiani di riappropriarsi della preghiera che Gesù ha insegnato loro». Per questo i vescovi francesi hanno voluto accompagnare questo passaggio con un volume, «Preghiera del Padre nostro, uno sguardo rinnovato». La nuova formulazione, che è già stata introdotta nella Pentecoste scorsa in alcuni Paesi francofoni come il Belgio e il Benin, sarà utilizzata anche in tutte le celebrazioni ecumeniche, come raccomandato dal Consiglio delle Chiese cristiane in Francia.
Intanto, sempre Oltralpe, continua fra i vescovi la discussione su un tema che ha percorso i lavori della loro assemblea plenaria autunnale si è tenuta a Lourdes dal 3 all’8 novembre. Nell’occasione don Jean-Luc Garin, rettore del Seminario di Lille e responsabile del Consiglio nazionale dei grandi Seminari, ha fornito un quadro aggiornato della situazione vocazionale: in sedici anni, dal 2000 al 2016, i seminaristi in Francia sono passati da 976 a 662: un calo del 30% che non sembra destinato ad arrestarsi, per ora. L’arcivescovo messicano Jorge Carlos Patrón Wong, segretario della Congregazione per il clero, intervenuto nel secondo giorno dei lavori illustrando all’assemblea la «Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis», ovvero le linee guida sulla formazione sacerdotale pubblicate dal dicastero vaticano nel dicembre 2016, ha ricordato che stando al documenti i Seminari, per sussistere o essere aperti, devono avere un numero di vocazioni sufficienti. Un minimo che va «da 17 a 20 persone» ha specificato Wong. Attualmente su 32 Seminari e case di formazione presenti in Francia solo 15 superano la soglia dei 17 seminaristi, per cui dopo l’assemblea plenaria il tema della possibile chiusura di circa la metà degli odierni Seminari è ufficialmente sul tavolo.
Per quanto riguarda i seminaristi diocesani, oggi la metà risiede in soli cinque Seminari: Fréjus-Tolone, Tolosa, Issy-les-Moulineaux, Rennes e Parigi. Un caso non diocesano in forte controtendenza vocazionale - di cui i vescovi hanno discusso, tra coloro che invitano a studiarne l’esempio e altri che manifestano diffidenza - è quello della Comunità di San Martino, associazione di diritto pontificio fondata nel 1976 da monsignor Jean-François Guérin e che ebbe la sua prima approvazione nel 1979 nell’arcidiocesi di Genova, dal cardinale Giuseppe Siri: oggi un seminarista su sei in Francia appartiene a tale comunità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa
DAL "DEUS CARITAS EST" AL "DEUS CHARITAS EST"?
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
Federico La Sala
Dubbi sul Padre Nostro
Alcuni lettori ci scrivono.
"Non ci indurre in tentazione", il vero significato
Risponde il teologo Giuseppe Pulcinelli (Avvenire, 13.09.2017)
Nell’originale greco c’è il verbo eisenenkes che significa “immettere”, “introdurre”. Ma si vuol forse dire che Dio spinge l’uomo verso il male (la tentazione) e quindi gli si chiede di non farlo?
In realtà, alla luce di altri passi della Scrittura (cfr. Gc 1,13: «Dio non tenta nessuno»), si può e si deve dare un’altra spiegazione. Il verbo greco probabilmente traduce - in modo approssimativo - un originale semitico che va compreso in base a testi come il Salmo 140 (141),4: «Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori».
Il senso dell’invocazione è dunque: «Non ci lasciare entrare e soccombere nella tentazione». Speriamo che presto venga adottata anche nella liturgia la versione ufficiale della Cei (2008), che ha corretto con «non abbandonarci alla tentazione».
Dio è amore ("charitas") e il cristianesimo non è un cattolicismo!!!
Chiedi al teologo
Non abbandonarci «alla» o «nella» tentazione?
di Luigi Lorenzetti (Famiglia Cristiana, 02/06/2017)
Nella nuova traduzione della Bibbia Cei (2008) la dizione «Non c’indurre in tentazione», è cambiata in «Non abbandonarci alla tentazione». La tentazione mette la libertà-responsabilità della persona di fronte a un bivio: il bene e il male. Ad esempio, aiutare il prossimo o lasciarlo perdere? Per scegliere il bene, è necessario l’aiuto di Dio che, d’altra parte, non lo impone a nessuno. Da qui la consapevolezza d’averne bisogno e di chiederlo fiduciosi nella preghiera. Il significato della nuova dizione è tutto nell’invocazione «Non abbandonarci» alla (traduzione ufficiale) o (il che è lo stesso) nella tentazione. Nell’una come nell’altra versione, è chiara la distinzione tra «essere tentati» e «consentire ». È consolante pensare e credere che Dio è sempre presente alla (o nella) tentazione, così da vincerla, anzi, trasformarla in conferma nella scelta del bene.
Né con Roma né con Lutero
L’amore di Erasmo per Cicerone non gli impedì di stilare un pamphlet contro la retorica della curia con la quale fu persino più duro dei protestanti
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.12.2016)
Il dialogo Ciceronianus di Erasmo fu pubblicato a Basilea nel marzo del 1528; l’anno dopo ne comparvero altre due edizioni e una quarta nel ’30. Un immediato successo, come in genere accadeva a tutti gli scritti del grande umanista olandese, maestro delle bonae litterae in ogni angolo d’Europa. Lo era da tempo, del resto, almeno dalla pubblicazione degli Adagia (1500), la raccolta di proverbi antichi più volte arricchita e ristampata, come molti dei suoi scritti, cui erano poi seguiti l’ Enchridion militis christiani (1503), l’Elogio della Follia (1511), il testo critico del nuovo Testamento in greco e l’ Institutio principis christiani (1516), i Colloquia (1517), la Querela pacis (1521), i commenti biblici, le monumentali edizioni dei Padri della Chiesa, le antologie di lettere, per citare solo le opere più celebri.
Tutto era cambiato però negli ultimi dieci anni, dopo che nel 1517 Martin Lutero aveva affisso sulla porta del castello di Wittenberg le sue 95 tesi. L’unità della respublica christiana, vale a dire lo stesso spazio fisico, storico, culturale e religioso del magistero erasmiano, si veniva infatti disgregando in un crescendo di polemiche, di controversie, di odii inestinguibili, di condanne, di persecuzioni. Lo stesso Erasmo aveva finito con il trovarsi nell’occhio del ciclone, accusato dagli uni di essere stato la gallina che aveva deposto le uova poi covate da Lutero, e dagli altri di aver vilmente rinunciato al suo impegno per la riforma della Chiesa e di essersi alla fin fine schierato a fianco di quei monaci corrotti, di quei frati ignoranti, di quel papato simoniaco che in passato non aveva perso occasione di mettere alla gogna.
In realtà, dopo la comparsa in scena di quel monaco sassone sempre più irruento e tonante, lontanissimo dal suo modo di essere e di pensare, Erasmo aveva taciuto, aveva lasciato correre, aveva fatto finta di non vedere, consapevole che contribuire a spegnerne gli ardori avrebbe anche comportato la fine di ogni speranza di riforma della Chiesa. Per questo non aveva preso posizione quando Lutero aveva pubblicato i suoi grandi trattati del 1520, anche quando aveva denunciato nel pontefice di Roma la bestia dell’Apocalisse, né quando aveva dato alle fiamme la bolla di condanna di Leone X e il Corpus iuris canonici nel ’21, né quando - sempre in quell’anno - aveva rifiutato di piegarsi e ritrattare le sue dottrine di fronte a Carlo V.
Aveva aspettato sino al ’24, senza intervenire sulle questioni che più infervoravano gli animi da ambo le parti, sulle indulgenze, sul ruolo dei preti, sul purgatorio, sui sacramenti. Per sfidare Lutero aveva scelto la questione tutta umanistica del libero arbitrio, e con essa della dignità dell’uomo: una questione cruciale che investiva il modo stesso di essere cristiani, contrapponendo a una fede tutta teologica, fondata sulla parola di Dio e i suoi insondabili misteri, una fede tutta morale, fondata invece sulla capacità del vangelo di ispirare carità, giustizia, concordia. Fu Lutero stesso, che pure detestava con tutte le sue forze quel raffinato letterato, incapace di capire e accettare lo scandalo della fede, a riconoscerne la grandezza, dandogli atto di essere stato il solo capace di morderlo alla gola.
Tutto ciò, naturalmente resta tra le righe del Ciceronianus, ma ne costituisce al tempo stesso una cornice imprescindibile. Contribuisce cioè a far capire come Erasmo, grande ammiratore di Cicerone, decidesse poi di prenderne le distanze. Non perché avesse cambiato idea, tutt’altro, anzi proprio per essere fedele al modello autentico di Cicerone, alla sua capacità di mettere l’eloquenza al servizio degli obiettivi che perseguiva, e dunque di adattarsi alle circostanze, di mirare all’utile e all’efficace, tutt’altro che bloccata in un algido purismo che ne tradiva profondamente lo spirito.
Non era Cicerone, insomma, l’obiettivo polemico di questo libro, ma i ciceroniani, e in particolare i letterati romani che quello stile avevano eretto a modello esclusivo non solo delle esercitazioni retoriche con cui celebravano la Roma papale quale erede della Roma imperiale e la esaltavano come Geusalemme eterna in cui si era realizzata una sorta di suprema sintesi tra civiltà classica e cristianesimo di cui essi erano i rappresentanti e i sacerdoti.
Una cultura sterile e vacua, tanto compiaciuta di se stessa da ignorare la torbida decadenza in capite et in membris che infettava la Chiesa a partire dalla curia papale, insensibile a ogni proposta di rinnovamento e sorda alle istanze religiose che trovavano in Erasmo e Lutero due pur diversi rappresentanti. Una cultura tutta letteraria, ridotta a pedissequa imitazione e quindi incapace di rinnovamento, intrisa di neopaganesimo, che presumeva di aver raggiunto il culmine nel riprodurre nella lingua di Cicerone la stessa dottrina cristiana, i suoi misteri, le sue liturgie, dando vita a quella che è stata definita come una «teologia retorica», intessuta di citazioni classiche, come nel Liber sententiarum di Paolo Cortesi (1504), per esempio, in cui i santi diventavano heroes, Tommaso d’Aquino l’Apollo christianorum, i sacerdoti flamines, l’inferno Orcus e così via.
Primo volume di una collana Corona Patrum Erasmiana (di cui altri sono imminenti) promossa dal Centro europeo di studi umanistici «Erasmo da Rotterdam», questa eccellente traduzione con testo latino a fronte e un dotto commento in apparato si apre con un’introduzione che contestualizza finemente lo scritto erasmiano sia negli sviluppi del suo pensiero e del suo modo di intendere valore e significato della cultura sia nella specifica tradizione umanistica cui faceva riferimento (Ermolao Barbaro, Lorenzo Valla, Angelo Poliziano, Giovan Francesco Pico) e quindi delle polemiche che investivano il presente.
Se proprio in quegli anni il grande successo della stampa, l’affermarsi degli Stati assoluti, la frattura religiosa in atto contribuivano all’inarrestabile affermazione delle lingue volgari, Erasmo rimaneva fedele a quel latino che era e restava lo strumento linguistico di una comunicazione europea; ma lungi dall’imbalsamarlo in un vacuo perfezionismo formale, lo riproponeva come una lingua viva e vitale, talora anche frettolosa proprio in quanto funzionale anzitutto ai contenuti che trasmetteva, ai principi che difendeva, agli scopi che si proponeva, all’azione concreta che stimolava nei termini propriamente politici di una appassionata militanza culturale e religiosa. Di qui i continui interventi di Erasmo sulle nuove edizioni dei suoi scritti, per migliorarli e correggerli laddove necessario, e soprattutto per riproporne un continuo aggiornamento in funzione delle esigenze del presente.
Per capire il Ciceronianus, del resto, occorre tener presente che esso fu scritto all’indomani del terribile sacco di Roma del 1527, quando i lanzi imperiali avevano fatto scempio della città papale in un indicibile crescendo di violenze, saccheggi, sopraffazioni, atrocità d’ogni genere. Segnò la fine della grande stagione rinascimentale dei pontificati borgiani, rovereschi e medicei, delle Stanze di Raffaello e della Sistina di Michelangelo. L’Europa tutta ne restò sconvolta, e dovunque si volle vedere in quella tragedia una giusta punizione di Dio per la corruzione della curia papale.
Ma tra i letterati si diffuse anche lo sgomento per i danni incalcolabili che quei soldatacci avrebbero potuto arrecare all’ineguagliabile patrimonio culturale di cui Roma era erede. Lo stesso braccio destro di Lutero a Wittenberg, Filippo Melantone, si disse preoccupatissimo per le biblioteche romane, custodi di un sapere e di una civiltà cui la Germania stessa era debitrice.
Al contrario il mite Erasmo da Rotterdam, anziché deprecare quanto era accaduto volle pubblicare quel Ciceronianus che condannava senza appello i letterati romani, «più ricchi di letteratura che di pietà». Non proprio un Erasmo moderato, insomma, un Erasmo convinto apologeta del cattolicesimo romano, un Erasmo opportunista e infingardo, «anguilla», «vir duplex», come lo definì Lutero e come ancora molti lo presentano; ma un Erasmo tanto coraggioso da combattere le sue battaglie culturali e religiose sull’uno e sull’altro fronte in difesa di un cristianesimo serio, operoso, moralmente responsabile, avverso al fasto mondanizzato della gerarchia ecclesiastica così come alle inutili dispute teologiche, utili solo a creare divisioni e conflitti. «Summa nostrae religionis est pax et unanimitas», scriveva nel ’23. Si capisce benissimo, quindi, perché i luterani lo detestassero cordialmente e i cattolici si affrettassero a inserire nell’Indice dei libri proibiti i suoi Opera omnia.
DA DOVE VIENE IL MALE?
Questa domanda, assilla tutte le religioni che prendono le mosse dalla indiscussa bontà di Dio, E trova risposta solo ammettendo, come i greci e ora in parte anche la teologia cattolica, che Dio, oltre il bene, ospita il suo opposto
risponde Umberto Galimberti *
Sì! Dio ha bisogno delle nostre sollecitazioni perché, accanto al lato buono che tutti i credenti conoscono, c’è in Dio anche un lato oscuro a cui potrebbe cedere, se non lo trattenessero le nostre preghiere. Questa concezione di Dio, che accanto al bene ospita il male, nell’antichità è stata espressa dalla Gnosi e tuttora è sottesa alla psicoanalisi freudiana e soprattutto junghiana. Ma sta facendo breccia anche nella teologia cattolica, se è vero che il teologo Paolo De Benedetti, già docente di Giudaismo alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e di Antico Testamento agli Istituti di Scienze Religiose delle Università di Urbino e Trento, in un bellissimo breve saggio dal titolo Ma liberaci dal male si chiede: perché nel Padre Nostro dobbiamo chiedere a Dio: «Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male»?
Da dove viene la tentazione? Se rispondiamo "da Satana", dobbiamo poi chiederci: chi ha convertito un angelo buono in diavolo, dato che all’origine c’era solo un Dio creatore buono in ogni suo aspetto? E come venire a capo delle tentazioni di Abramo, di Giobbe, di Gesù? Quando Dio tenta Abramo, sa già o non sa quale sarà la sua risposta? Se la sa, allora la tentazione è una messinscena, nel caso opposto Dio non è onnisciente. Lo stesso si può dire della tentazione di Giobbe, che se si fosse ribellato a Dio avrebbe dato ragione a Satana che puntava sul fallimento di Giobbe e quindi anche di Dio, che sulla sua fedeltà aveva fatto affidamento.
Osserva De Benedetti a questo punto: «La tentazione risponde a un bisogno di Dio di rassicurarsi che noi siamo con lui». Lo stesso motivo torna con Gesù che nell’orto del Getsemani chiede: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice». Dicendo "se vuoi", non "se puoi", riconosce l’onnipotenza del Padre, ma dubita della sua volontà di evitargli la sofferenza della croce. Conclude De Benedetti: «Il lato oscuro di Dio è la sua debolezza, che fa di lui "il nascosto" (Isaia, 45, 15), colui che cerca l’uomo ("Uomo, dove sei?", Genesi, 3, 9). Perché se l’uomo mancasse Dio perderebbe tutti i suoi attributi. Dio può qualcosa solo se noi glielo chiediamo: la petizione finale del Pater noster paradossalmente è un aiuto a Dio perché sia Dio, sia più Dio. Perché il suo lato destro vinca il suo lato sinistro». Quest’ipotesi è condivisa anche dal filosofo cattolico Paul Ricœur, che non si lascia persuadere dal racconto biblico sull’origine del male nel peccato di Adamo: «Il male è già là, prima di ogni iniziativa malvagia imputabile a qualche intenzione deliberata».
Eppure, scrive Freud: «I bambini non ascoltano volentieri quando si parla dell’innata tendenza al male, all’aggressione, alla distruzione e perciò anche alla crudeltà dell’uomo. Dio li ha creati a sua immagine e somiglianza, così che a nessuno piace sentirsi ricordare com’è difficile far coincidere l’innegabile esistenza del male con la sua onnipotenza e suprema bontà. Il diavolo sarebbe un’ottima scappatoia per scagionare Dio, ma poi? Dio può essere chiamato a rispondere tanto dell’esistenza del diavolo quanto del male che questi incarna. Visto che le cose sono così difficili, è consigliabile per chiunque, al momento debito, fare un profondo inchino di fronte alla natura profondamente morale dell’uomo: gli gioverà per ottenere il favore popolare e molto gli sarà perdonato».
In effetti, sapere che Dio non è contaminato dal male offre sicurezza, infonde speranza, bandisce la dimensione tragica che caratterizzava la cultura greca e probabilmente è alla base dell’ottimismo infuso nella cultura occidentale dal cristianesimo. È forse per questo che Freud parla della religione come dell’«avvenire di un’illusione».
Ma quando le illusioni cadono e compare il «nichilismo europeo» annunciato da Nietzsche, giunge il momento in cui bisogna fare i conti con la verità che l’illusione ha mascherato.
* la Repubblica D, 1o.09.2016.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PENSARE UN ALTRO ABRAMO: GUARIRE LA NOSTRA TERRA.
Come si spiega l’ origine del male
di UMBERTO GALIMBERTI *
"Se Dio è sceso in terra, certo non è venuto per starci vicino" così si esprime Plotino a proposito dell’ ipotesi cristiana di un Dio incarnato per redimere dal male. La risposta di Agostino di Tagaste è nota: il male non è una realtà, ma il congedarsi della volontà umana da Dio. Ma chi è Dio? Dio, dice Agostino, è l’ essere stesso (idipsum esse) rispetto a cui il creato è essere depotenziato (minus esse) che partecipa all’ essere di Dio, ma non è Dio. Chi nel creato si allontana da questa partecipazione all’ essere divino e si avvia verso i sentieri del male incontra il nulla come disgregazione dell’ essere, suo vuoto.
La risposta, come ognuno può avvertire, non è soddisfacente perché, come scrive il teologo protestante Giovanni Miegge: "è difficile, per non dire impossibile, conciliare l’ idea di un Dio perfettissimo, onnipotente, onniscente e buono, con lo stato presente del mondo, o meglio con lo stato del mondo come lo conosciamo fin dalle sue origini: quella massa di esseri che si sviluppano nello spazio e nel tempo senza significato accertabile, quell’ enorme spreco di energie e di tentativi sbagliati nella produzione di specie mostruose, nella lotta di tutti contro tutti, nella carneficina universale che sembra essere la legge dell’ evoluzione su questa nostra terra".
Ma anche a questa obiezione Agostino potrebbe rispondere che Dio non vede come vede l’ uomo. Ed estendere a Dio il giudizio dell’ uomo è forse la prima forma di ateismo. Su questo genere di problemi si intrattengono teologi, filosofi, giuristi, medici e psicoanalisti in un bel libro pubblicato da Raffaello Cortina che ha per titolo Il male (pagg. 245, lire 37 mila).
A promuoverlo è il Centro Italiano di Psicologia Analitica, a testimonianza che forse anche gli psicoanalisti, soprattutto quelli a orientamento junghiano, si sono accorti che il male, la sofferenza, la malattia individuale sono solo il riflesso del male universale. A differenza di Agostino, infatti, per Jung il male non è solo un’ assenza di bene (privatio boni), ma ha una sua realtà, una sua sostanza: "Il male esiste - scrive Jung - la natura umana è capace di malvagità infinita, e le cattive azioni sono altrettanto reali di quelle buone".
Agostino e Jung rappresentano emblematicamente le due risposte che l’ Occidente ha dato al problema del male. La posizione di Agostino, secondo cui il male, come ci ricorda Maria Bettettini nel suo bel saggio L’attrazione del nulla, non ha una sua realtà, ma è solo una mancanza di bene, è la posizione assunta e difesa dalla religione cristiana che non accetta un Dio limitato da un suo antagonista perché questo, come ben sottolinea Franco Michelini Tocci nel suo saggio Male e libertà, equivarrebbe a dire che Dio è buono ma non è onnipotente.
Jung conferendo realtà al male riprende l’ antico motivo gnostico di un Dio buono ma non onnipotente, perché limitato da un potere antagonista. Questa concezione dualistica è presente anche in Freud nell’antagonismo tra principio di piacere e principio di realtà che sfocerà più tardi nel dualismo più radicale tra pulsione di vita e pulsione di morte. La psicoanalisi quindi è una derivazione del pensiero gnostico, che pone all’ origine non un solo principio: il Bene, Dio, ma l’ antagonismo di due principi: il Bene e il Male, Dio e la sua ombra.
Rifiutando l’ impostazione dualistica espressa dalla gnosi e sottesa alla psicoanalisi, come fa il monoteismo cristiano a esonerare il Dio buono dal ruolo di tentatore? Se nel Padre nostro il cristiano chiede a Dio di non tentarlo ("non indurci in tentazione, ma liberaci dal male"), da dove viene la tentazione? Se si risponde: da Satana, la domanda si ripropone: da dove viene Satana? Se Satana divenne diavolo, da angelo buono che era, da dove origina questa volontà perversa che trasforma gli angeli in diavoli, se si ammette, come fa il cristianesimo, che all’ origine c’è solo un Dio creatore in ogni suo aspetto buono?
Paolo De Benedetti, nel suo saggio Ma liberaci dal male moltiplica queste domande nel tentativo di venire a capo della tentazione di Abramo, di Giobbe e di Gesù. Quando Dio tenta Abramo sapeva o non sapeva la risposta di Abramo? Perché se la sapeva, allora la tentazione è una sceneggiata. Se invece non la sapeva (come sembra supporre il Genesi 22,12&: "Ora so che tu mi temi"), allora, oltre a compromettere la sua onniscenza, Dio, con Abramo, rischia. Così come rischia con Giobbe, perché se Giobbe avesse ceduto, Dio, a sua volta, avrebbe dovuto cedere il suo posto a Satana, o comunque dichiararsi perdente al cospetto della corte celeste.
In entrambi i casi Dio si fida di Abramo e di Giobbe, e ciò significa che ha fede in loro, e quindi non sa, ma spera. Che la tentazione risponda allora a un bisogno di Dio di rassicurarsi, che noi siamo con lui? Nell’ orto del Getsemani Gesù chiede: "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà" (Luca 22,42). Gesù riconosce l’ onnipotenza del Padre, ma dubita della sua volontà di evitare il dolore, la sofferenza, il male. Non dice infatti "se puoi", ma "se vuoi". Quasi che Dio possa volere qualcosa solo se noi glielo chiediamo, solo se lo aiutiamo ad essere un Dio buono, in grado di vincere il suo lato oscuro e la debolezza che fa di lui "il nascosto" (Isaia, 45,15), colui che cerca l’ uomo: "Uomo, dove sei?" (Genesi, 3,9) perché forse, senza l’ uomo, anche Dio perderebbe tutti i suoi attributi. E allora, nella metafora di Dio, di cui si nutre ogni teodicea, noi in realtà stiamo parlando dell’ uomo e della sua coscienza che, come fa osservare Luigi Aversa nel suo saggio Il male e la coscienza, è poi la sola a incontrare il male.
Scrive in proposito Jung: "Senza coscienza umana in cui riflettersi, bene e male accadrebbero semplicemente, o piuttosto non ci sarebbero il bene e il male, ma solo una sequenza di eventi naturali, o ciò che i buddisti chiamano Nidhanachain, l’ ininterrotta casuale concatenazione che porta alla sofferenza, alla vecchiaia, alla malattia, alla morte".
Il problema del male è quindi strettamente legato a quello della coscienza, perché la coscienza è strettamente legata al problema del conoscere. Forse per questo Socrate riteneva che il male poteva essere fatto solo da chi sa. E forse per la stessa ragione Gesù perdona i suoi crocefissori: "Perdona loro perché non sanno quello che fanno".
La coscienza è dunque con-scienza del bene e del male, capacità di tenere insieme (in greco syn-ballein) i poli dell’ antinomia. La loro divisione (in greco dia-ballein), porta infatti alla scissione della personalità dell’ individuo che, in ambito clinico è la metafora del male. Qui, infatti, la coscienza perde la propria capacità simbolica nell’ esperienza diabolica della frattura originaria e arcaica che, nella parola "schizofrenia", evoca fantasie di inguaribilità e irriducibilità a un’integrazione come ripristino della con-scienza (si legga in proposito il bellissimo saggio di Concetto Gullotta Ciò che si dà come incurabile).
Non è casuale che la cultura occidentale abbia assunto il diavolo come metafora del male, il diavolo (in greco dia-ballein) è separazione, parte scissa e in ognuno di noi rimossa, che forse, proprio per effetto della rimozione, come dice Freud, è sempre sul punto di irrompere: "Il diavolo non è altro che la personificazione della vita pulsionale inconscia rimossa". Se per Freud l’inconscio è la fonte del male, per Jung è anche il luogo della guarigione, ma per questo occorre aprire un dialogo, che può essere anche rischioso, con la parte tenebrosa dell’ inconscio (e a questo proposito consiglio la lettura dello splendido saggio di Mario Trevi, Ombra: metafora e simbolo, contenuto nel libro sul male).
Ma soprattutto, siccome l’ inconscio non è un’ ipostasi metafisica, ma è carico di storia e di cultura, occorre rivisitare la cultura e la storia cristiana che, avendo cacciato il diavolo in inferno, e avendo definitivamente chiuso il confronto del diavolo con Dio, crea il terreno idoneo alla disgiunzione, alla scissione, alla frattura arcaica e originaria che oggi in sede clinica chiamiamo schizofrenia, dove la coscienza non sa più tenere insieme l’ antinomia del bene e del male, e perciò cede all’ irruzione spaventosa del male che è il prevalere di parti dissociate sull’ unitaria armonia del tutto.
Nel saggio su L’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, e precisamente nel capitolo dedicato al "problema del quarto" Jung scrive: "Il diavolo non ha un giusto posto nel cosmo trinitario. Come avversario di Cristo dovrebbe assumere una posizione antitetica equivalente ed essere parimenti un figlio di Dio. Ciò potrebbe condurre direttamente a certe vedute gnostiche, secondo le quali il diavolo come Satana era il primo figlio di Dio, Cristo il secondo. Un’ altra conseguenza logica sarebbe l’ abolizione della formula trinitaria e la sua sostituzione con una quaternità. Certo allora non è più dubbio che di vita comune non respirano solo il Padre e il Figlio luminoso, ma anche il Padre e la creatura tenebrosa".
Questo bellissimo libro sul male, che si chiude con un’ intervista a Eugen Drewermann, è aperto da un’ intervista a Paul Ricoeur che, pur essendo un filosofo cristiano, non si lascia persuadere dal racconto biblico che indica nel peccato di Adamo l’origine del male, ma pensa che "il male è già là, prima di ogni iniziativa malvagia imputabile a qualche intenzione deliberata".
Sarebbe bene, allora, che il cristianesimo incominciasse a ripensare il problema del male e a reimpostarlo in modo meno negatorio. Rimuovere ciò che esiste, ciò che è sotto gli occhi di tutti non riesce sempre neanche agli occhi della fede. Ma soprattutto, ce lo ricorda Freud, il rimosso ritorna, e la negazione, che dice che non c’ è ciò che c’ è, è un tratto tipico della psicosi dove, come si segnala nell’ ottimo saggio dello psichiatra Vittorio Lingiardi: si è già gettato il cattivo seme per l’ uccisione del Sé.
Come osi dire "Padre"? Ma CHI è il "Padre" tuo?
di Erasmo da Rotterdam *
Quale preghiera, vorrei sapere, recitano i soldati durante [le] messe? Il Pater noster?
Faccia di bronzo! Osi chiamarlo "padre", tu che vuoi tagliare la gola al tuo fratello?
"Sia santificato il tuo nome". Che cosa c’è che disonori il nome di Dio più che queste vostre risse?
"Venga il tuo Regno". Preghi così tu, che con tanto sangue hai edificato la tua tirannide?
"Sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra". Lui vuole la pace e tu prepari la guerra?
"Dacci il nostro pane quotidiano". Chiedi al Padre comune il pane quotidiano tu, che incendi le messi del fratello e preferisci morire di fame tu stesso, piuttosto che egli se ne giovi? Con che fronte pronunci queste parole:
"E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori", tu, che ti appresti alla strage fraterna?
"E non ci indurre in tentazione". Scongiuri il pericolo della tentazione tu, che con tuo rischio provochi il rischio del tuo fratello?
"Ma liberaci dal male". Chiedi di essere liberato dal male tu, che dal male sei ispirato a ordire il male estremo del tuo fratello?
* Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 1509
Una “tentazione” teologicamente corretta
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” del 17 ottobre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ci sono voluti cinquant’anni alla Chiesa cattolica e ai suoi esegeti per, in un certo senso, “sdemonizzare” Dio. Dal 22 novembre prossimo, una nuova traduzione [in francese] del Padre Nostro ridarà al Dio cristiano il posto che gli spetta. E i milioni di cattolici francofoni che recitavano, pur senza saperlo, un testo erroneo, torneranno sulla retta via.
Quindi, alla sesta richiesta di tale preghiera basilare per i cristiani, non bisognerà supplicare “ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione), ma “ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciare che entriamo in tentazione). Una formula certo meno felice dal punto di vista della fluidità lessicale, ma teologicamente più corretta, secondo i numerosi specialisti che hanno studiato da decenni questa frase controversa.
La traduzione del 1966, basata su un compromesso ecumenico tra cattolici, protestanti riformati e ortodossi, era stata considerata “blasfema” da alcuni teologi fin dalla fine degli anni ’60 e rifiutata dalle correnti più tradizionaliste. La formulazione faceva infatti pensare che Dio stesso incitasse i fedeli a soccombere alla tentazione. “Quella traduzione presuppone una certa responsabilità di Dio nella tentazione che porta al peccato, al male. Ma in tutto il Nuovo Testamento, non si dice che Dio tenta la creatura umana”, ricordava nel 2011 Mons. Hervé Giraud, vescovo di Soissons e autore di un testo che riassume gli annessi e i connessi di questo tema spinoso. “Normalmente è il diavolo che si incarica di questa operazione”, insisteva.
Fin dal 1969, l’abate Jean Carmignace sottolineava nella sua tesi “Ricerche sul Padre Nostro”, le difficoltà di interpretazione sollevate dal passaggio dall’ebraico al greco e dal greco al francese. Il religioso proponeva ai fedeli una formula meno compromettente: “Fais que nous n’entrons pas dans la tentation”(Fa’ che non entriamo in tentazione). Nel corso degli anni, alcuni, tra i protestanti, hanno preferito l’espressione “ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione), un’espressione adottata nel 2000 dalla Bibbia di Gerusalemme.
Altri hanno proposto “ne nous induis pas en tentation” (non indurci in tentazione) o anche “ne nous introduis pas en tentation” (non introdurci in tentazione), opzioni tutte giudicate inadatte. I più anziani ricordano la formula anteriore al Vaticano II (1962-1965), in cui si dava rigorosamente del “voi” a Dio: “Ne nous laissez pas succomber à la tentation” (Non lasciateci soccombere alla tentazione).
La modifica apportata ora alla preghiera che, secondo la tradizione, sarebbe stata trasmessa da Gesù stesso agli apostoli, è il risultato di un lungo lavoro iniziato diciassette anni fa da decine di traduttori. È la parte più visibile, quella di cui il grande pubblico si accorge, di un impegno molto più vasto che mira a proporre una nuova versione della Bibbia per la liturgia francofona. Si annunciano ad esempio cambiamenti nel testo delle Beatitudini.
Verosimilmente ci vorranno anni prima che le chiese risuonino del frutto di questo lavoro, convalidato in luglio dal Vaticano. In Francia, questa versione sarà presentata ai vescovi nella loro assemblea plenaria di inizio novembre a Lourdes. Poi la “Bibbia ufficiale di 2.928 pagine” sarà venduta al “prezzo di lancio di 59.90 euro”, secondo la rivista Famille chrétienne, che annunciava questo “evento importante per la Chiesa” fin dal 5 settembre.
Esce una nuova traduzione a cura dei vescovi francofoni
La Bibbia nella liturgia parla il linguaggio dell’uomo di oggi *
Se ne è parlato solo per il cambiamento di una frase del Padre nostro (da ne nous soumets pas à la tentation a et ne nous laisse pas entrer en tentation), che deve fra l’altro ancora ricevere la recognitio vaticana, facendo quasi passare in secondo piano l’intera opera, frutto di diciassette anni di complesso lavoro. La Bible. Traduction officielle liturgique, che per le edizioni Mame uscirà nelle librerie francesi il prossimo 22 novembre, rappresenta un’opera eminentemente ecclesiale in virtù della molteplicità degli esperti che vi hanno partecipato, tra esegeti, linguisti, innografi, liturgisti, vescovi.
Cinquant’anni dopo l’apertura del concilio Vaticano ii, la traduzione ufficiale liturgica della Bibbia pubblicata dall’Associazione episcopale liturgica per i Paesi francofoni è, per padre Jacques Rideau, direttore del Servizio nazionale della pastorale liturgica e sacramentale, «un frutto della Sacrosanctum Concilium e della Dei Verbum; essa segna questo legame intimo che la Scrittura e la liturgia mantengono l’una con l’altra». Sempre in Francia, intanto, si è aperta l’assemblea plenaria della Conferenza episcopale, per la prima volta presieduta dall’arcivescovo Georges Pontier.
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©L’Osservatore Romano 4-5 novembre 2013
[Il "Padre nostro", nella versione di] Giovanni Vannucci*:
Il tentativo forse più riuscito è quello di padre Giovanni Vannucci (1913-1984), il quale era solito dire che «nella Chiesa cattolica il più grande martire è il Padre nostro», a motivo della trascuratezza con cui viene recitato e... vissuto. Padre Giovanni, dell’ordine dei Servi di Maria, fu valente esegeta, e in spirito sinceramente ecumenico visse e operò nell’eremo della Stinche (Firenze).
Egli faceva notare che nell’ebraico ci sono due lingue: quella delle comunicazioni ordinarie e quella sacra che, diceva, «va riscoperta pazientemente, tenacemente, attentamente, ma soprattutto nel silenzio e nell’ascesa del nostro essere. Ora, la lingua sacra ebraica conosce soltanto due tempi: lo stato di perfezione e lo stato di imperfezione».
Questo, secondo padre Vannucci, si applica anche al Padre nostro, le cui espressioni non indicano un puro desiderio condizionato alla fallibile volontà dell’uomo, ma contengono un’affermazione di fede nella quale si riflettono gli immutabili disegni divini.
Tenendo conto di questo, dovremmo tradurre - precisa padre Vannucci - non "sia santificato il tuo nome", ma santo è il tuo nome; non "venga il tuo regno", ma il tuo regno viene; non "sia fatta la tua volontà...", ma la tua volontà si compie nella terra come nel cielo; non "dacci oggi il nostro pane quotidiano", ma tu doni a noi il pane di oggi e di domani ("quotidiano" traduce un termine che ha il doppio significato di pane terreno e pane celeste). E ancora: tu perdoni i nostri debiti nell’istante in cui li perdoniamo ai nostri debitori; tu non ci induci in tentazione, ma nella tentazione tu ci liberi dal male.
Anche per padre Vannucci, come per santa Teresa d’Avila, questa fu una vera e propria scoperta. «Dovete scusarmi, ma prima d’ora non me ne ero accorto», furono le parole pronunciate sommessamente, e con un accenno di sorriso che chiedeva comprensione, alcuni mesi prima della morte.
Secondo padre Giovanni Vannucci, questa versione nel nostro idioma della preghiera di Gesù, così diversa da quella che solitamente siamo abituati a recitare, era più fedele all’autentico senso originario della lingua parlata da Cristo ed era coerente con altre parole di lui riportate nei racconti evangelici: «Padre nostro che sei nei cieli, / santo è il Tuo Nome, / il Tuo Regno viene, / la Tua volontà si compie / nella terra come nel cielo. / Tu doni a noi il pane di oggi / e di domani. / Tu perdoni i nostri debiti / nell’istante in cui / li perdoniamo ai nostri debitori. / Tu non ci induci in tentazione, / ma nella tentazione / tu ci liberi dal male».
* Cfr.: Antonio Gentili, Il Vangelo in una sola preghiera (Jesus, n. 8, 1999 - http://www.stpauls.it/jesus00/0899je/0899je70.htm)