LA CHIESA INCAPPUCCIATA
Dopo quarantanni di divieto è stata concessa, agli abitanti di Corleone, la "libertà" del cappuccio durante la processione del Venerdì Santo!
Strano che la richiesta sia venuta non dal comune ma dalla chiesa locale. Strano, o no?
Francesco Merlo, su La Repubblica di ieri, si chiede
"Perché la Chiesa sente il bisogno di restaurare questa pratica? La Chiesa, così attenta ai segni e ai significati, avrebbe dovuto approfittare di questi quaranta anni di processioni a viso aperto per liberarsi di un arcaismo devozionale che celebra l’inquisizione e i simboli penitenziali della sua storia peggiore: la controriforma e l’autodafè, le violenze contro gli eretici e le torture, ma anche l’impunità degli assassini, quelli con i mitra sotto il mantello raccontati nel Padrino di Marlon Brando. Il cappuccio è il berretto calato sul viso dei mafiosi pronti all’agguato, “picciotti amuninni”; è il passamontagna dei guerriglieri del subcomandante Marcos, è molto più aggressivo delle barbe, ben più spavaldo e arrogante degli stessi simboli militari....
Nel momento in cui in tutto il mondo occidentale si discute dell’opportunità di proibire i veli, lo chador, il burqa, insomma i simboli dell’oppressione islamista contro le donne, come fa la Chiesa a incappucciarsi e a farsi latitante?..... Per lo Stato rimettere il cappuccio ai devoti di Corleone è sì la fine di una discriminazione ai danni della religiosità di quel paese, ma è anche un atto di arroganza contro i cappucci di altre religioni. Per la Chiesa è un’altra confessione di debolezza. E’ ancora una prova della grandissima fragilità di un Vaticano che più si incappuccia e più si imprigiona, più si nasconde e più si rivela".
Qui di seguito e in allegato l’intero articolo....
e buon Venerdì Santo.
Aldo [don, Antonelli]
Il Questore toglie il veto "anti-mafia" per i riti della Pasqua
CORLEONE, DOPO QUARANT’ANNI IN PROCESSIONE COL CAPPUCCIO
di Francesco Merlo (La Repubblica, 5 Aprile 2007, pp. 1/23)
Nascondersi in latino si dice lateo, quindi latitare, quindi latitante. Adesso che Corleone non ha più i grandi latitanti di mafia, adesso che Riina e Provenzano non possono più nascondersi nelle botole, sottoterra e nelle campagne attorno al paese, dove vivevano protetti da fucili e crocefissi, da bombe a mano e da altarini alla Madonna, adesso è a tutti i devoti di Corleone che viene concesso di rimettersi il cappuccio, di nascondersi, di latitare.
Per Corleone, liberata dalla mafia, il cappuccio diventa dunque una libertà, un diritto restaurato. In questo senso ha fatto bene il questore di Palermo ad autorizzare la latitanza, a restituire il burqa maschile del venerdì santo dopo quaranta anni di illuminismo coatto.
E però secondo noi è la Chiesa che non avrebbe dovuto chiederlo. La Chiesa, così attenta ai segni e ai significati, avrebbe dovuto approfittare di questi quaranta anni di processioni a viso aperto per liberarsi di un arcaismo devozionale che celebra l’inquisizione e i simboli penitenziali della sua storia peggiore: la controriforma e l’autodafè, le violenze contro gli eretici e le torture, ma anche l’impunità degli assassini, quelli con i mitra sotto il mantello raccontati nel Padrino di Marlon Brando. Il cappuccio è il berretto calato sul viso dei mafiosi pronti all’agguato, “picciotti amuninni”; è il passamontagna dei guerriglieri del subcomandante Marcos, è molto più aggressivo delle barbe, ben più spavaldo e arrogante degli stessi simboli militari.
Perché la Chiesa sente il bisogno di restaurare questa pratica? Non c’è nulla di più pagano dei cappucci che, come notarono Leonardo Sciascia e Ferdinando Scianna in quel famoso libro del 1965 (Le feste religiose in Sicilia) hanno carattere espiatorio e dunque tolgono religiosità alla religione, danno alla rappresentazione un carattere strano, eliminano qualsiasi traccia di allegria, non solo dalla processione, ma dallo stesso Dio, reso cupo come gli umori dei preti inquisitori, controriformatori e in malafede, di cui la Chiesa giustamente si è vergognata e ancora si vergogna, al punto da avere chiesto scusa a tutti i martiri, alle vittime dei “cani del Signore”.
E’ inoltre difficile immaginare una richiesta più intempestiva di questa. Nel momento in cui in tutto il mondo occidentale si discute dell’opportunità di proibire i veli, lo chador, il burqa, insomma i simboli dell’oppressione islamista contro le donne, come fa la Chiesa a incappucciarsi e a farsi latitante?
E’ vero che sono feste popolari molto sentite, esplosioni collettive dell’anima antica e oscura per un tema liturgico, quello della Passione, che è fatto di infamie: il tradimento (Giuda), l’assassinio (Cristo), lo strazio della Madre Addolorata (la Madonna). Ed è vero che non esiste nulla di così affollato come le feste religiose della Sicilia spagnola. Si capisce insomma che la Chiesa, in crisi di vocazioni e di consenso, cerchi la folla. Ma le processioni degli incappucciati non sono i raduni di piazza dei Papa boys, dei ragazzi di Giovanni Paolo II che cantavano e ballavano, ma sono il loro contrario: sono le palestre del rancore popolare, un concentrato di antichissima ferocia pagana. Nel cappuccio sono infatti depositate tutte le pratiche più lugubri, prescristiane e anticristiane. E ci sono anche le astuzie del peccato, il nascondimento che permette di consumare l’adulterio narrato da Verga, il masochismo dei flagellanti, tutto un armamentario devozionale che è apparentato con le processioni sciite, con il peggio del fondamentalismo e del fanatismo di massa dell’Iran.
Evidentemente davvero la Chiesa pensa che restaurando tutte le vecchie pratiche, dal latino al diavolo, dalle fiamme dell’inferno al cilicio, dal cappuccio alla scomunica, ritorneranno anche i vecchi trionfi: la santità, le vocazioni, il consenso. Ma è un’idea meccanica che non ha nulla di civile. Non è certo così che il cattolicesimo può riconquistare la modernità, con l’armeria spirituale della più cieche rabbie collettive.
Per lo Stato rimettere il cappuccio ai devoti di Corleone è sì la fine di una discriminazione ai danni della religiosità di quel paese, ma è anche un atto di arroganza contro i cappucci di altre religioni. Per la Chiesa è un’altra confessione di debolezza. E’ ancora una prova della grandissima fragilità di un Vaticano che più si incappuccia e più si imprigiona, più si nasconde e più si rivela.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Al di là della Trinità "edipica" - e "della terra e del sangue": eu-angelo!!!
MUTAZIONE ANTROPOLOGICA E INCAPACITA’ CULTURALE DI AFFRONTARE LA "FRATTURA IMMENSA TRA LE GENERAZIONI". Un editoriale di Ernesto Galli della Loggia. "Addio ai padri"?! Ma chi li ha visti?! Siamo "una società senza padre" - da "sempre"!!! A cominciare da "Giuseppe", i nostri "padri" sono stati sempre "uccisi"!!! Un modello "sacro" di famiglia (che vede l’alleanza del Figlio e della Madre con il "loro dio" - e con un "padre" senza onore e senza gloria!!!) detta legge da duemila anni e rende ancor più grave la crisi!!!
Ahi Costantin
di quanto mal fu madre
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 05.08.2007)
Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c’è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l’arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l’Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell’America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L’"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d’una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d’ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell’opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall’Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l’emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall’Austria e da alcuni paesi cattolici dell’America meridionale. Le capacità finanziarie dell’episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l’esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest’offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d’intransigenza che sfiorano l’anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l’antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un’avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell’ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell’elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.
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Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".
L’obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l’hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un’altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
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Un elemento decisivo della questione cattolica e dell’anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l’articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un’organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d’un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c’è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d’un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun’altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell’impossibilità di realizzare l’unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all’interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell’episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l’atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l’otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all’episcopato italiano quell’otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
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Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell’opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l’"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
Gli investigatori hanno scoperto come comunicava che il boss mafioso
Utilizzava alcuni passi del Nuovo e del Vecchio Testamento
Usava la Bibbia per scrivere pizzini
Il codice segreto di Provenzano *
PALERMO - Poche ore dopo l’arresto, chiuso nel suo mutismo, aveva aperto bocca solo per chiedere agli investigatori la sua Bibbia. Non una qualsiasi, ma quella che Bernardo Provenzano aveva sempre accanto a sè. Quella con quelle note scritte di suo pugno con grafia incerta e minuta.
E oggi si capisce il perché di tanto interesse. Il boss mafioso utilizzava un codice nascosto tra le frasi della Bibbia, per ricordare chi fossero i propri interlocutori. E usava alcuni passi del Nuovo e del Vecchio Testamento della Bibbia per indicare alcuni dei suoi interlocutori con i ’pizzini’.Una scoperta fatta dopo l’operazione antimafia che la notte scorsa ha portato nel palermitano all’esecuzione di nove fermi.
In uno dei biglietti a sfondo vagamente religioso, Provenzano scrive: "Benedica il Signore e ti proteggi. Il Signore faccia risplendere su di... E ti conceda la sua". Una frase che sembra un’invocazione religiosa, seguita da una seria di numeri. Siglie che apparentemente sembrano indicare gli autori del Vecchio e del Nuovo Testamento. E invece si riferiscono ad altri boss mafiosi. P.bd 65 è Pietro Badagliacca. .N 25 è Nino Rotolo, NN 164 è Nino Cinà, Aless parente 121 è Matteo Messina Denaro, 30 gr, e pic. sono Salvatore Lo Piccolo e il figlio Sandro, entrambi latitanti come Messina Denaro. Tra loro c’è anche uno degli uomini finiti in carcere oggi, cioè ’Gius 76’, che dovrebbe essere Giuseppe Bisesi.
* la Repubblica, 23 giugno 2007
LA STORIA
Il bluff del codice Provenzano
Niente messaggi cifrati, il boss citava la Bibbia per sembrare colto
di FRANCESCO LA LICATA *
ROMA.Non esiste un codice segreto, il cosiddetto «Codice Provenzano», che - dietro nobili parole rubate alla Bibbia o ad altri Testi sacri - nasconda un cifrario assassino capace di impartire ordini all’intera organizzazione. Don Binu, dunque, non è quel gran sacerdote amanuense, un po’ ispirato, ascetico e parco fino a nutrirsi di miele e cicoria. No, il padrino - stando alle conclusioni cui sono giunti i tanti esperti chiamati ad «indagare» le bibbie sequestrate all’attempato capomafia - è solo un contadino descolarizzato che fa ricorso alla prosa del Vecchio Testamento per apprendere l’arte del carisma e imparare parole che lo facciano apparire al suo «popolo» un distillato di saggezza.
La favola del «Codice Provenzano» era nata quando a Montagna dei Cavalli, nel nascondiglio dove viveva in clandestinità il padrino, furono trovati i famigerati «pizzini», infarciti di abbondanti citazioni bibliche, e un numero esagerato (quattro o cinque) di «Libri» (cioè Bibbie) pieni di contrassegni, annotazioni e segni definiti criptici. L’equivoco fu alimentato anche dalla confusione di termini adoperati per descrivere il «sistema» con cui il boss regolava i suoi rapporti epistolari con l’esterno, e il cifrario numerico che copriva l’identità dei numerosi destinatari della sua fitta corrispondenza.
Certo, esistono un sistema e un codice Provenzano (correttamente illustrati in un buon libro scritto dal giornalista Salvo Palazzolo e dal magistrato Michele Prestipino) che riguardano le regole di Cosa nostra, ma non si tratta di nulla di criptato attraverso i versetti della Bibbia. Eppure per più di un anno i «Libri» sequestrati a Provenzano sono stati oggetto di studio di specialisti sparsi per il mondo: il Servizio centrale operativo della Polizia di Roma, un coltissimo sacerdote esperto di Testi sacri che vive in un convento di Ascoli e l’ufficio del Fbi di Washington. Dopo mesi e mesi sono arrivati i primi due responsi, quello dello Sco di Roma e una lapidaria conferma al lavoro della polizia italiana, affidata al portavoce del Fbi, Stephen Kodak, che - condividendo lo scetticismo italiano - afferma: «E’ corretto dire che non esiste alcun codice». Parola di esperti capaci di strappare, se ve ne sono, segreti protetti da collaudatissimi codici terroristici.
La spiegazione dell’atteggiamento negazionistico del Fbi arriverà quando gli americani ufficializzeranno con un rapporto. Per il momento bisogna fare riferimento all’analisi del Servizio centrale operativo di Roma. Il senso della conclusione, trasmessa alla magistratura, è che appare diff
DIRITTO
Se a Roma il «pater familias» era sovrano assoluto e i cristiani introdussero l’idea dei «doveri» del genitore, dal Medioevo in poi l’autorità sui figli è entrata in crisi. Un saggio di Marco Cavina spiega perché
Paternità, un declino durato mille anni
di Giulia Galeotti (Avvenire, 02.06.2007)
Che l’autorità paterna sia un concetto giuridico ormai superato è noto. Meno note sono però le profonde variazioni che essa ha vissuto nei secoli, variazioni oggetto del recente volume di Marco Cavina, Il padre spodestato. Se l’autorità paterna era assoluta per i potenti padri biblici e romani, una novità l’ha proposta il cristianesimo, introducendo due principi rivoluzionari: la rottura dei vincoli familiari in nome di valori più alti e, soprattutto, l’affiancare al concetto di potere quello di dovere del padre. Altri snodi cruciali saranno poi due momenti piuttosto vicini tra loro, la Rivoluzione francese e gli anni Sessanta del Novecento: dopo una longevità millenaria, infatti, in soli due secoli si è realizzato il definitivo affossamento dell’autorità paterna. Il volume, ricco d’informazioni (specie fino a tutta l’età moderna), mostra che il quadro è più complesso di quanto ci si aspetterebbe. Una riprova sono gli oltre venti punti in cui i trattatisti del tardo Medioevo individuavano le articolazioni dell’autorità paterna. Molti i diritti, come la vendita dei figli per necessità di fame, il diritto del padre di uccidere la figlia colta in adulterio, l’obbligo del figlio di seguire la religione paterna (salvo che per i figli di ebrei), il potere di far incarcerare o castigare dal giudice il figlio. Non mancavano però i doveri, come la perdita della patria potestà per induzione della figlia alla prostituzione o l’obbligo di riscattare il figlio prigioniero. Al godimento di vantaggi e privilegi pubblici per meriti paterni, corrispondeva specularmente l’imposizione di svantaggi per peccati o delitti del medesimo.
Secondo Cavina, docente di Storia del diritto medievale e moderno, il progressivo annientamento del potere paterno ha dei precisi responsabili: l’individualismo borghese, l’industrializzazione, lo statalismo, la trasformazione del mercato del lavoro e l’emancipazione femminile. Come per il giusnaturalismo lo Stato non è più un’autorità per diritto divino, ma per libero contratto tra gli individui, così la famiglia è fondata non più su un padre investito di potere naturale, ma su una pattuizione. Si parlava dunque di legittimazione gerarchica sulla base dell’atto di generazione; di legittimazione contrattualista in nome del tacito consenso dei figli; soprattutto, però, era seguita la spiegazione funzionale-utilitaria: il potere del padre sul figlio era dovuto all’incapacità di quest’ultimo di gestirsi autonomamente (da cui il venir meno della perpetuità della patria potestà del modello romano). La motivazione per sottrarre all’autorità paterna buona parte delle sue articolazioni sarebbe stata l’interesse del figlio: è in nome di costui che lo Stato entra nella famiglia. «Un puerocentrismo promosso dallo Stato divenne la parola d’ordine delle democrazie liberali», scrive Cavina. Tra l’altro, ciò è l’ennesima riprova dell’infondatezza dello stereotipo che vuole i totalitarismi particolarmente invasivi nelle relazioni domestiche, mentre si tratta di un’"invasione" condivisa in toto dalle politiche democratiche.
Cavina coglie due "capitolazioni" emblematiche per l’autorità paterna in età contemporanea. Il primo durissimo colpo le viene inferto nell’Ottocento quando istituti come la diseredazione o la libertà testamentaria vengono fortemente ridotti: riformare il sistema successorio in senso egualitario significa, infatti, sottrarre al padre qualsiasi possibilità di investire patrimonialmente il proprio successore. L’altro attacco, molto più recente, è quello al cognome paterno, simbolo della supremazia del padre e strumento per garantire l’unità domestica. Via via che nei vari Paesi si è diffusa la possibilità di scegliere il cognome per i figli, infatti, «il cuore stesso del patrimonio simbolico trasmesso dal padre è stato annientato, o quasi». Con quali conseguenze, è da vedere. Questo però il diritto non lo dice, potendo solo registrare i cambiamenti in atto.
Marco Cavina
Il padre spodestato
L’autorità paterna dall’antichità a oggi
Laterza. Pagine 360. Euro 20,00
Lettera al presidente della Cei, Mons. Angelo Bagnasco arcivescovo di Genova
di Paolo Farinella, prete
Riceviamo da don Paolo Farinella, prete genovese, questa lettera a mons. Bagnasco che molto volentieri pubblichiamo. Chi volesse esprimere il proprio parere può farlo usando gli appositi link in fondo a questa pagina.
Nell’inviare questa lettera don Paolo ha premesso la seguente spiegazione del perchè essa è stata resa pubblica che anche rendiamo noto ai nostri lettori. *
«Care Amiche e amici,
invio questa lettera spedita al mio vescovo, nonché Presidente della Cei prima privatamente e dando una settimana di tempo per un eventuale incontro di approfondimento. Non ho avuto alcun riscontro per cui mi sento libero di renderla pubblica. Molte altre cose avrei voluto dire, ma dovevo restare entro una pagina. Sarà per la prossima lettera d’amore.
Il giornale L’Unità mi aveva contattato per pubblicarla, ho aspettato due giorni, ma visto che non anche lì non ne fanno nulla (visti i tempi e le fascine di legna accatastate alla bisogna!!!!), la metto in rete. Lo scopo non è di discutere, ma solo di offrire una opinione personale. Può essere condivisa o no. Non attendo risposte, ma solo il rispetto che si deve alla buona fede.
Se volete divulgarla attraverso i vostri mezzi, fate pure. Io sono tranquillo con la mia coscienza e davanti a Dio, come si conviene ad un credente che non può tacere di fronte all’immondo mercimonio a cui è sottoposta la religione ai nostri giorni. Forse ad alcuni arriverà in doppio, forse ad altri non arriverà punto, forse qualcuno è finito nella mia rubrica per opera divina, insomma... chi vuole essere cancellato me lo dica.
Un abbraccio a tutte e a tutti
Paolo Farinella, prete Genova»
Lettera al presidente della Cei, Mons. Angelo Bagnasco arcivescovo di Genova
Sig. Presidente,
Il 12 maggio in piazza S. Giovanni a Roma al raduno organizzato dalla Presidenza della Cei attraverso le aggregazioni laicali cattoliche, è accaduto un fatto grave che come presidente dei Vescovi italiani non può lasciare senza risposta. Silvio Berlusconi, notoriamente divorziato e felicemente convivente, ha dichiarato che i cattolici coerenti non possono stare a sinistra, asserendo con questo che devono stare a destra, cioè con lui e con il suo liberismo che coincide sempre con i suoi interessi e mai col «bene comune».
Non è questa la sede per stabilire i confini di «destra» e «sinistra». Una sola annotazione: da tutta la letteratura documentale del magistero, da Leone XIII al «Compendio» pubblicato nel 2004 da Giovanni Paolo II, risalta che i programmi della «sinistra», presi nella loro globalità e alla luce della categoria dirimente del «bene comune o generale» sono molto più vicini alla «dottrina sociale della Chiesa» di quelli della «destra», che, al di là delle parole ossequiose e strumentali, sono la negazione di quella dottrina nei suoi principi essenziali (bene comune, democrazia, legalità, stato sociale, ecc.). Alcide De Gasperi, già negli anni ’50, definiva la DC «un partito di centro che guarda a sinistra».
Benedetto XVI ad Aparecida in Brasile ha detto che la scelta preferenziale dei poveri è costitutiva della Chiesa e ha dichiarato la fine del marxismo (forse intendeva dire del marxismo ideologico e storico come realizzato nel sovietismo) e il fallimento del capitalismo. Silvio Berlusconi è il rappresentante più retrivo del capitalismo speculativo e senza regole, appena condannato dal papa, perché egli adora un solo dio e ha una sola religione: il mercato. A condizione però che il mercato faccia gli interessi dei ricchi, i quali, si sa, sono capaci di sprazzi di «compassione» ed elargiscono elemosine ai poveri, magari davanti alla tv, conquistandosi anche il paradiso e risolvendo il rebus del cammello e della cruna dell’ago. Con le sue tv commerciali, egli guida e gestisce il degrado morale del nostro popolo, imponendo modelli e stili di vita che sono la negazione esplicita e totale di tutti i «valori» cristiani che il raduno del Family Day voleva affermare.
E’ notizia di oggi (14 maggio 2007) che Berlusconi ha comprato la società Endemol, la fabbrica del vacuo, dei grandi fratelli e del voyeurismo amorale e anti-famiglia che fornisce anche la tv di Stato che così viene ad essere, a livello di contenuti, totalmente nelle sue mani. Il conflitto di interessi ora è totale. La sua presenza ad un raduno di cattolici manifestanti a favore della famiglia è strutturalmente incompatibile. Egli non può stare nemmeno nei paraggi del cattolicesimo che di solito ossequia subdolamente e di cui si serve con qualsiasi strumento economico o di potere. Mi fa ottima compagnia P. Bartolomeo Sorge S.J. che ha dimostrato con ampia facoltà di prova sulla scorta del magistero ordinario nei memorabili editoriali di Aggiornamenti Sociali, l’incompatibilità del berlusconismo con la dottrina sociale della Chiesa e ancora di più con i principi esigenti del cristianesimo.
Un altro campione di famiglia cattolica, pontificante al raduno, fu il deputato Pierferdinando Casini. O tempora! O mores! Il 19 ottobre 2005, all’inaugurazione dell’anno accademico nella Università del Papa, la Lateranense, il Gran Cancelliere, Mons. Rino Fisichella, ebbe l’ardire di presentarlo come esempio di persona che «forte della sua esperienza trentennale di vita politica e sostenuto da una forte coscienza cristiana, può offrire a noi tutti un chiaro esempio di come la fede possa ispirare comportamenti politici liberi e coerenti nella ricerca del bene comune». Parole di un vescovo, Gran Cancelliere nell’Università del Papa, ad un cattolico praticante, divorziato e felicemente convivente con prole.
Tutto ciò crea disorientamento, scandalo e sconcerto nei cristiani che faticano ogni giorno a fare conciliare l’esigenza della fede con il peso delle situazioni della vita, a volte insopportabili. Ad un uomo divorziato che, di fronte a queste dichiarazioni, affermava il suo diritto di «fare la comunione», non ho potuto dare torto, perché non potevo contestare l’autorevolezza di un vescovo e Gran Cancelliere del Papa: ho dovuto dirgli che aveva ragione e che sulla coscienza e responsabilità di Mons. Fisichella, del deputato Pierferdinando Casini e di Silvio Berlusconi, divorziati e conviventi, paladini difensori della «famiglia tradizionale», dell’indissolubilità del matrimonio, poteva andare tranquillo. Rilevo di passaggio che sia Casini che Berlusconi, in quanto parlamentari, usufruiscono «già» per i loro conviventi di tutti i benefici che contestano al progetto di legge sui «DICO».
O la Chiesa è coerente fino allo spasimo, fino al martirio, sapendo distinguere i falsi profeti per difendere le pecorelle dal sopruso e dalla sudditanza di avventurieri senza scrupoli, o la Chiesa si riduce ad una lobby che intrallazza interessi materiali con chiunque può garantirglieli. E’ una questione «di verità» per usare un’espressione a lei cara. Sulla stampa (la Repubblica 14-05-2007, p. 9) all’interno di una intervista, mons. Giuseppe Anfossi, responsabile Cei per la famiglia, ha dichiarato che Berlusconi si assume la responsabilità di ciò che ha detto. Non parlava però a nome della Cei che, credo, abbia l’obbligo di fare chiarezza e prendere le distanze da simili individui che non fanno onore né alla chiesa, né alla politica (nella concezione espressa da Paolo VI), né al popolo italiano. Se non vi sarà una chiarificazione ufficiale da parte della presidenza della Cei resterà un «vulnus» che ne appannerà la credibilità.
Sulla stampa sono stati pubblicati i capitoli dell’8 per mille che hanno cofinanziato il raduno del Family Day, suscitando in larghi strati del popolo cattolico una reazione a devolvere altrove la quota della Chiesa, generando ancora una volta una scollatura più grande tra popolo di Dio e Gerarchia che ormai sembrano camminare su sentieri diversi. Mi auguro che lei abbia il coraggio necessario, adeguato alla situazione.
E’ mia intenzione nella giornata di lunedì 21 maggio 2007, rendere pubblica questa lettera di credente ferito che si dissocia dalle parole per nulla cristiane di Silvio Berlusconi e anche dal silenzio pesante della Presidenza della Cei. Nessuna pretesa, solo una testimonianza «nunc pro tunc».
Genova 14 maggio 2007
Paolo Farinella, prete
* IL DIALOGO, Venerdì, 25 maggio 2007