Il pensatore russo conduce in questo saggio una serrata polemica con la cultura occidentale dell’immagine sacra. Nell’iconostasi, che rappresenta le «porte regali» egli fonde i concetti teologici di santità, contemplazione e creaturalità con quelli estetici
Florenskij, il cielo in un’icona
Tradotto trent’anni fa da Elémire Zolla, ora questo testo fondamentale torna in una edizione verificata sulla versione russa del 1994 a partire dai manoscritti originali
di MICHELE DOLZ (Avvenire, 26.07.2008)
Siamo ben lungi dall’aver afferrato l’intera portata del pensiero di Pavel Florenskij. Intellettuale poliedrico come ben pochi nella storia, al punto che è diventato un luogo comune il paragone con Leonardo da Vinci, rappresenta forse la punta più alta della rinascita religioso-culturale russa che precedette la rivoluzione sovietica e che ad essa sopravvisse ancora per una manciata di anni in forma più o meno clandestina fino al brutale soffocamento. Dopo l’apertura degli archivi del Kgb si è appurato che Floresnkij venne fucilato l’8 dicembre 1937 dopo cinque anni d’internamento in vari lager siberiani.
Al mosaico Florenskij si aggiunge ora un’importante tessera con la nuova edizione del suo fondamentale saggio sull’icona. Più che aggiunta, questa tessera viene sostituita. Ben nota era, infatti, l’edizione di Adelphi del 1977, curata Elémire Zolla col titolo Le porte regali, libro che è stato di enorme importanza e che all’epoca fu tradotto a partire dai materiali disponibili.
Ora Giuseppina Giuliano appronta una nuova versione in base alla ricostruzione integrale del testo russo di Iconostasi pubblicato nel 1994. Sì, perché quest’opera, che l’autore non vide mai stampata, è un singolare puzzle di vari testi, a loro volta soggetti a una non facile storia critica. Per la prima volta in Italia, quindi, quel che si può ritenere il vero e completo scritto di Florenskij. Non solo: le ultime edizioni critiche russe delle altre opere del pensatore permettono di affinare la traduzione di alcuni termini, cosa di notevole importanza in un autore che ha impostato un suo sistema di pensiero con relativa, sottile terminologia.
Venendo ai contenuti, la prima avvertenza da fare è che conviene ricordare il contesto, quel movimento simbolista russo di rinascita all’alba del Novecento, che raggruppò artisti, poeti e filosofi ispirati al teorico della sofia, Vladimir Pavel Florenskij Solov’ëv, morto proprio nel 1900.
Sintesi assoluta di arte e religione, riscoperta dell’arte iconica antica, simbolismo di taglio mistico: ecco alcune chiavi per capire il pensiero di Florenskij sull’icona, come anche quello dei suoi compagni di avventura culturale che affrontarono lo stesso argomento. Iconostasi rimane ad ogni buon conto il pezzo forte.
Ora, è proprio questa vena simbolista a rendere ’difficile’ il discorso per una più pragmatica mentalità occidentale. E viceversa. Leggete questo passo: «La pittura sacra dell’Occidente, a iniziare dal Rinascimento, è stata una totale falsità artistica e, predicando a parole la somiglianza e la fedeltà alla realtà raffigurata, gli artisti, non avendo nessun rapporto con quella realtà che pretendevano e osavano raffigurare, non ritenevano necessario seguire nemmeno quelle scarse direttive della tradizione iconografica, cioè la conoscenza del mondo spirituale che aveva trasmesso loro la Chiesa cattolica».
Lo si direbbe mal informato e perfino ingiusto, se ci si fermasse qui. Continuiamo però a leggere: «La pittura d’icone è invece il fissarsi delle immagini celesti, l’addensarsi sulla tavola della viva nuvola di testimoni fumante attorno al trono».
Le icone, insomma, rendono accessibile il mondo celeste, specialmente ci permettono di vedere i santi, veri testimoni perché sono stati contemporaneamente nei due mondi, quello materiale e quello spirituale. L’iconostasi, che apparentemente nasconde l’altare, in realtà lo rivela attraverso l’immagine dei testimoni, altrimenti esso sarebbe invisibile per la troppa luce.
«L’icona è uguale alla visione celeste e non lo è: è la linea che contorna la visione». Ma c’è una reale identità di sostanza tra l’icona e la visione, come della finestra si può dire che è la stessa visione. Perciò Florenskij non fa alcuna fatica a maneggiare come cosa propria l’idealismo di uno Pseudo-Dionigi (per lui, san Dionigi Areopagita) e dei padri che scrissero intorno al Concilio di Nicea II. Il passaggio dall’immagine al prototipo è in questa visione qualcosa di talmente ovvio, per l’identità essenziale, da non meritare di soffermarsi più di tanto. E per ciò stesso il pittore d’icone deve partecipare alla ’visione’ con la santità di vita.
Ci vanno di mezzo concetti teologici come la santità, la creaturalità, la contemplazione, inscindibilmente intessuti con quelli estetici. Sarà complesso finché si vuole, ma non si può fare a meno di capirli se si desidera capire l’icona. E rincresce la banalità con la quale tante volte il nostro Occidente ha accolto le icone orientali. La loro stessa riproducibilità pone qualche domanda. Invece questa traduzione aiuta ad affinare: per esempio quando mette bene a fuoco la distinzione tra volto e sembiante («Abbiamo una quantità innumerevole di testimonianze della luminosità divina dei sembianti degli asceti»). C’è proprio da meditare, anche rimanendo entusiasticamente legati all’arte religiosa occidentale.
Pavel Florenskij
ICONOSTASI
Medusa. Pagine 160. Euro 14,80
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FLS
Pavel Florenskij. La prospettiva rovesciata
di Aurelio Andrighetto (Doppiozero, 12 maggio 2020)
A questo singolare e geniale personaggio, Avril Pyman ha dedicato una biografia (Pavel Florenskij. La prima biografia di un grande genio cristiano del XX secolo, Lindau, Torino 2019). Lo studio delle funzioni discontinue, ma ancor prima la conoscenza del sistema periodico di Mendeleev e le osservazioni dello spettro di Rowland, portarono l’attenzione del giovane matematico sul concetto di discontinuità, venuto a integrare “un modo interamente nuovo di osservare il mondo, un modo che solo allora si stava formando”. Il desiderio di spiegare l’esistenza di fenomeni che violano il principio deterministico e di verificare il principio di discontinuità in altre discipline, lo spinsero verso la filosofia, la linguistica, l’arte e la teologia. Nel 1904, dopo essersi laureato a pieni voti, rinunciò a un dottorato di ricerca in scienze matematiche e s’iscrisse a un corso di studi presso l’Accademia teologica di Mosca.
Nel 1908 divenne docente di Storia della Filosofia e Storia delle Idee presso la stessa Accademia. Nel corso delle sue lezioni utilizzava metafore e analogie inusuali associando le forze sprigionate da un magnete alla logica del sillogismo, la struttura della tragedia greca alla liturgia della Chiesa ortodossa. Uno dei suoi studenti ricorda l’aula piena fino all’inverosimile con gente in piedi tra i banchi, lungo i muri, seduta sulle finestre, accalcata attorno alle porte.
La prospettiva rovesciata (la nuova traduzione a cura di Adriano Dell’Asta è appena stata pubblicata da Adelphi) è uno dei suoi saggi più discussi sulla rappresentazione dello spazio nelle arti figurative. Scritto nel 1919 per il comitato che si occupava della conservazione dei beni storico-artistici del monastero della Santissima Trinità di San Sergio, il saggio costituirà un punto di riferimento per i corsi di Analisi dello Spazio nelle opere d’arte figurativa e di Analisi della prospettiva che Florenskij terrà fra il 1921 e il 1924 presso la Facoltà Poligrafica del VChUTEMAS di Mosca (un istituto superiore per la progettazione industriale analogo al Bauhaus in Germania). Florenskij applicò le teorie dello spazio non euclideo all’analisi della pittura di icone, dove gli oggetti e gli edifici, in alcuni casi anche i volti e i corpi umani, sono visti da più lati simultaneamente, sostenendo che “in quelle fasi storiche della creatività artistica in cui non si osserva l’utilizzo della prospettiva, i creatori delle arti figurative non è che non sapevano, ma non volevano utilizzarla o, più precisamente, volevano utilizzare un principio figurativo diverso da quello della prospettiva” (p. 42). Egli riferisce l’origine della prospettiva lineare alla skenographia sulla base di un’interpretazione di alcuni passi del De architettura di Vitruvio.
Il trattato ci è pervenuto attraverso numerose versioni a stampa di una copia manoscritta rinvenuta nel 1414 da Poggio Bracciolini. L’aver creduto che il circini centrum di Vitruvio fosse il punto di vista della prospettiva moderna, scoperta da Filippo Brunelleschi e codificata da Leon Battista Alberti, ha tratto in inganno alcuni traduttori e commentatori del De architectura. Il circini centrum è il centro di un cerchio tracciato con il compasso, nel contesto di un disegno icnografico e ortografico (non prospettico). Inoltre dobbiamo tenere conto che la skiagraphia (nell’edizione Gangemi de La prospettiva rovesciata curata da Nicoletta Misler nel 1990, la traduzione non riporta skenographia ma σκιαγραφία - skiagraphia, p. 81) è propriamente il disegno delle ombre, anche se in alcuni contesti assume il significato di pittura in prospettiva.
L’omofonia dei termini skiagraphia e skenographia rivela una problematicità interpretativa, tanto che, secondo alcuni studiosi, la scaenographia di Vitruvio altro non sarebbe che la skiagraphia, la rappresentazione delle ombre proprie, portate e autoportate, non la “resa illusionistica delle forme attraverso la prospettiva” (Agostino De Rosa, In obscurum coni... acumen. Sui termini skenographia e skiagraphia nel mondo classico. Engramma, 150, Ottobre 2017).
Per quanto riguarda il passo nel quale Vitruvio richiama le teorie di Democrito e Anassagora è accertato che queste si riferiscono alla geometria ottica e non alla rappresentazione pittorica dello spazio. In definitiva, nulla nel testo vitruviano autorizza a cogliere un riferimento alla prospettiva moderna, tanto più che “tra i dipinti antichi conservati nessuno rivela l’esistenza di un punto di fuga unico” (Erwin Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, Feltrinelli, Milano 1993, p. 47).
Florenskij s’impiglia nell’interpretazione dei passi di Vitruvio giungendo all’errata supposizione che la prospettiva “focalizzata” fosse nota nella Grecia del V secolo a.C., ma non sbaglia quando afferma che questa prospettiva è solo “uno dei possibili schemi di raffigurazione, che corrisponde non alla percezione del mondo nel suo insieme, ma semplicemente a una delle possibili interpretazioni del mondo” (p. 20). Non sbaglia neppure quando attribuisce alla prospettiva, sia essa “monocentrica” o “policentrica”, una funzione simbolica.
Egli nota che nella pittura di icone spesso sono rappresentati dei piani che, secondo le regole della prospettiva dotata di un unico punto di vista non possono essere visti simultaneamente: “pur guardando perpendicolarmente la facciata degli edifici rappresentati, di questi edifici ci vengono mostrati insieme entrambi i muri laterali; del Vangelo si vedono, simultaneamente tre o addirittura tutte e quattro le coste” (pp. 11-12), e che in queste rappresentazioni è assente un punto di fuga verso il quale far convergere le linee. La divergenza delle linee è interpretata da Florenskij come una trasgressione delle regole della prospettiva rinascimentale, come una prospettiva rovesciata o inversa nella quale le linee divergono anziché convergere verso il fondo.
Régis Debray ha scritto delle belle pagine sullo sguardo che s’irradia dall’immagine sacra verso il cittadino greco o romano, così come verso il fedele bizantino o medievale. Secondo l’autore, l’icona bizantina rigetta la profondità perché è corpo, volume, ombra, ma una terza dimensione è tuttavia risparmiata: “la distanza che attraversano i raggi portatori di energia divina per raggiungere il fedele. Le linee di fuga vanno verso l’occhio dello spettatore [convergono nel suo occhio anziché nel punto di fuga]” (Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Editrice Il Castoro, Milano 2001, pp.190-191).
Attraverso la prospettiva rovesciata Dio guarda l’uomo illuminandolo con i suoi raggi visivi e luminosi e l’uomo contempla abbassando lo sguardo per riceverli. La contemplazione di Dio attraverso le icone, secondo Debray, non sarebbe dunque la produzione ma la ricezione di uno sguardo che illumina il fedele.
Florenskij non fa riferimento all’inversione del punto d’irradiazione delle rette ma al moltiplicarsi dei punti di vista, che trasgredisce le regole della prospettiva rinascimentale: fissità e unicità del punto di vista, unicità dell’orizzonte e unicità della scala di grandezze.
Delle trasgressioni a queste regole si possono tuttavia rilevare nelle stesse opere considerate autorevoli esempi di prospettiva rinascimentale. Nel Miracolo del cuore dell’avaro di Donatello il secondo pilastro è portato avanti dalla mano del personaggio che vi si appoggia e nella Madonna con Bambino (Madonna Pazzi), scolpita dallo stesso Donatello, la prospettiva si rovescia portando fuori dalla stanza le figure che poco prima si trovavano dentro. Nell’opera del grande scultore la prospettiva rinascimentale convive con altre rappresentazioni dello spazio, prospettiva rovesciata o inversa compresa. Florenskij va a caccia di queste incoerenze nella pittura del Cinquecento rilevando, per esempio, che nella Scuola di Atene Raffaello vìola sia il principio di unicità dell’orizzonte, sia quello della scala di grandezze (p. 60). In effetti dal Cinquecento si assiste a un abbandono delle regole rinascimentali per soluzioni prospettiche complesse ed eccentriche, che nel Seicento raggiungono effetti decisamente vertiginosi.
Già la pittura antica utilizzava prospettive diverse per dar luogo a una rappresentazione “policentrica” dello spazio. È infatti ampiamente documentato l’uso della prospettiva dissociata, nella quale le linee sono orientate verso indipendenti centri di focalizzazione; della prospettiva inversa, nella quale le linee divergono verso il fondo anziché convergere; della prospettiva a lisca di pesce, dove le linee convergono verso punti situati a diverse altezze; della prospettiva parallela contrassegnata dall’obliquità delle linee parallele e anche di quella centrale, già dotata in età ellenistico-romana di una convergenza delle linee, ma non intesa come sistema unitario di rappresentazione dello spazio.
La “policentricità” di una rappresentazione dello spazio nella quale l’occhio sembra guardare le varie parti dell’oggetto cambiando posizione di volta in volta è posta da Florenskij in relazione alla varietà di vedute che compongono l’immagine visiva. A collegare tutte queste parti separate nel tempo in cui l’occhio esplora l’oggetto sarebbe un particolare atto della psiche. Questo avrebbe luogo anche quando l’occhio, guidato dalle linee del panneggio (intese da Florenskij come linee di forza di un campo percettivo gestaltico, isometrico a quello elettromagnetico), riproduce nello spirito “l’immagine già prolungata nel tempo” composta da quel “mosaico immobile” dei suoi singoli momenti più significativi che è l’icona (p.113). In queste rappresentazioni dello spazio a dominare è un’esperienza del tempo. “Un singolo momento strappato non ci mostra l’immagine intera di una cosa, come non ce la mostrano molti di questi momenti quando si prende ciascuno di essi singolarmente e non si coglie la forma del fenomeno secondo la quarta coordinata [il tempo]”, scrive in Lo spazio e il tempo nell’arte (Adelphi, Milano 1995, p. 146), un saggio composto fra il 1924 e il 1925, mentre la teoria di uno spazio-tempo quadridimensionale, che può essere deformato e incurvato in risposta alla presenza della massa, infiamma il dibattito scientifico.
Ad affascinarlo è l’aspetto quadridimensionale della realtà costituita dalla successione temporale di tutti i suoi momenti in una sintesi che avviene quando la coscienza si “solleva al di sopra del tempo”. Florenskij trova nelle nuove teorie scientifiche un riscontro di quella particolare esperienza del tempo, che già da piccolo lo affascinava. “La quarta coordinata - il tempo - era per me [...] viva [...] Ero abituato a vedere le radici delle cose. Tale abitudine visiva fecondò poi l’intero mio pensiero e ne determinò il tratto fondamentale: la tendenza a muoversi in verticale e lo scarso interesse per l’orizzontale” (Ai miei figli. Memorie di giorni passati, Mondadori, Milano 2009, p. 140).
In un altro testo precisa che questa sintesi “non è nel tempo o, per lo meno, non è nel tempo come l’intendiamo noi, ma in quella dimensione temporale che, paragonata con la nostra, si chiama eternità, sebbene questa non sia l’eternità in senso assoluto” (Il significato dell’idealismo, SE, Milano 2012, p. 112). Qui si avverte chiaramente come la sua formazione scientifica si sia saldata agli studi filosofici e teologici nello sforzo di associare l’utopia positiva e razionale della rivoluzione socialista a una rifondazione spirituale dell’uomo, uno sforzo che si rivela fallimentare: il marxismo-leninismo s’irrigidisce in un dogmatismo ideologico e il misticismo rivoluzionario viene confinato nei campi di lavoro. L’8 agosto 1933 Florenskij viene recluso nel gulag di Svobodnyj in Siberia e, dopo varie peripezie, condannato a morte l’8 dicembre 1937.
A seguito dell’ordinanza 00447 emessa da Stalin il 30 luglio 1937 inizia una vera e propria carneficina, nel corso della quale muoiono centinaia di migliaia di persone ingiustamente accusate di propaganda trockista controrivoluzionaria. Lo sterminio dura quindici mesi con una media di 1.600 esecuzioni al giorno. A capo di questa macelleria è posto Nikolaj Ivanovič Ežov detto “il nano sanguinario”, direttore dello stesso Commissariato del popolo per gli Affari interni (NKDV) che condannerà a morte Florenskij per le sue idee, certamente non trockiste, né controrivoluzionarie. Il pensare in verticale anziché in orizzontale e l’idea di una rivoluzione spirituale oltre che sociale dell’uomo costeranno la vita al nostro teologo, fisico, matematico, filosofo, poeta ed elettrotecnico (durante la sua prigionia nei campi di lavoro gli vengono riconosciuti ben 12 brevetti e 47 loro applicazioni).
La lettura di Florenskij ha l’indiscutibile merito di metterci a parte del suo singolare modo di pensare collegando la prospettiva aerea prodotta dalla sottile cortina azzurra dell’incenso alla musica di Skrjabin (Il rito ortodosso come sintesi delle arti, in La prospettiva rovesciata e altri scritti, p. 66), la forma grafica delle lettere alfabetiche allo spazio sonoro dell’intonazione nel contesto di una riflessione matematica che apre ad alcune considerazioni filosofiche (Spiegazione della copertina, in La prospettiva rovesciata e altri scritti, p. 138). Ha cioè il merito di portare l’attenzione sulle forme diverse che il pensiero può assumere, valorizzando anche quello infantile: “il pensiero infantile non è un pensiero ridotto, ma un tipo particolare di pensiero, che oltre tutto può raggiungere qualsiasi grado di perfezione sino alla genialità” (p. 44). Florenskij si lascia trasportare dal fumo dell’incenso e dal tremolio delle fiammelle che illuminano le icone nelle astratte regioni del pensiero matematico e in quelle della ricerca filosofica, per raggiungere una sintesi che avviene quando la coscienza si “solleva al di sopra del tempo”.
Pavel Florenskij, vedere l’Uno
di Antonina Nocera (Antinomie, 11/04/2021)
Tra i testi che nel vasto panorama della teoria d’arte novecentesca hanno affrontato il problema della rappresentazione dello spazio attraverso la prospettiva, due vanno annoverati per la loro importanza teorica: uno è il saggio di Erwin Panofsky La prospettiva come forma simbolica (1961) in cui l’autore inquadra la prospettiva come dispositivo simbolico del mondo materiale; l’altro è il saggio di Rudolph Arnheim, Arte e percezione visiva del 1962, che circoscrive la propria riflessione entro il campo della psicologia della Gestalt. Le posizioni dei due studiosi, pur provenendo da premesse teoriche differenti - Panofsky dalla concezione del simbolo di Cassirer, culminata nella Filosofia delle forme simboliche, Arnheim dalla rielaborazione di alcuni aspetti della fenomenologia husserliana -, convergono sostanzialmente nel considerare complessivamente l’invenzione della prospettiva come “sovrastruttura” simbolica. Nel caso di Panofsky un dispositivo che connette due mondi, che intercetta una forma di mediazione tra il mondo del visibile e dell’invisibile. Nel capitolo dedicato allo spazio Arnheim enuncia la sua teoria della prospettiva centrale: “è una deformazione così violenta e così semplificata della forma delle cose che dovette apparire come risultato finale di una lunga ricerca e una risposta a necessità culturali molto particolari”. Arnheim esemplifica i procedimenti percettivi alla base della creazione della prospettiva centrale; solo in un caso prende in considerazione le ancone medioevali, “del tutto al di fuori della prospettiva [che] creano una gerarchia religiosa mediante la disposizione dei contenuti”.
Entrambi i saggi, per certi versi complementari, non includono nella loro analisi una serie di opere che necessitano di un diverso ordine di rappresentazione o interpretazione simbolica: le icone. L’opera che ha inquadrato questo problema è La prospettiva rovesciata di Pavel Florenskij, pubblicata una prima volta da noi nel 1983 a cura di Nicoletta Misler e ora ripubblicata da Adelphi nella nuova traduzione di Adriano dell’Asta.
Prima di giungere all’analisi di questo saggio, che rappresenta un punto fondamentale del percorso intellettuale del filosofo russo, è necessario premettere che il pensiero di Florenskij, sebbene sia di difficile inquadramento - disorganico, multifocale, asistematico - è una sorta di spina nel fianco all’interno della teoria dell’arte occidentale, un’antiterra teorico-filosofica. Basti pensare che la ricezione italiana (coevo grosso modo alla riabilitazione in terra russa) risale agli anni Settanta, quando fu pubblicato La colonna e il fondamento della verità a cura di Elémire Zolla e nella traduzione di Pietro Modesto, cui tre anni dopo seguì l’edizione de Le porte regali, sempre a cura di Zolla.
Vediamo di capire le tappe e le ragioni di questa differente visione facendo ancora un rapido confronto tra Panofsky e Florenskij. La frattura tra arte e rinascimentale e pensiero medioevale per Panofsky si colloca all’interno del rapporto tra soggetto e oggetto, che non è più di ricezione passiva ma di attiva creazione di un sistema di rappresentazione, frutto di leggi matematiche. Questa prospettiva infonde alla teoria del bello classico una sfumatura soggettivista che, nell’epoca cui fa riferimento Panofsky, diviene norma teorica. Il Bello non dimora più metafisicamente nelle cose, ma è la natura stessa a essere passibile di modifiche e perfezionamenti, tramite la tèchne. Panofsky indaga insomma quella frattura tra eidos ed eidolon di origine platonica che era presente nel pensiero di Cassirer.
Florenskij, di contro, muove una critica marcata all’impostazione della perfettibilità del reale di matrice aristotelica già nel saggio Le porte regali:
L’impianto teorico che scaturisce dall’ampia riflessione del saggio, e che viene perfezionato nella Prospettiva rovesciata, è solo in parte riconducibile al concetto di metafisica concreta (konkretnaya metafizika), rivelazione dello spirituale nella materia, e più ampiamente alla cosiddetta “ermeneutica della rivelazione”: “sia la metafisica sia la pittura di icone poggiano su questo fatto intellettuale o intelletto effettuale: nella rivelazione dall’alto non c’è niente di semplicemente dato, di non compenetrato di un significato, come non c’è neanche nulla di astrattamente edificante, ma tutto è significato incarnato e visibilità intellegibile”.
Florenskij delinea un excursus sul filo della prospettiva, dalle scenografie greche fino all’arte rinascimentale. Con grande originalità di pensiero fa emergere come la violazione alle regole della pittura illusionista, o addirittura l’assenza della prospettiva, non possa essere “affatto considerata una semplice questione di abilità o non abilità dell’artista, ma ha le sue origini a un livello molto profondo, nelle decisioni di una volontà radicale che dà il suo impulso creativo in una direzione e in un’altra”. Le icone sono da lui considerate come un esempio di trasgressione della norma prospettica: incongruenze e difformità contribuiscono a determinare un’immagine inconsueta in cui le proporzioni i colori, i chiaroscuri, sono costruiti in maniera opposta rispetto alla pittura naturalista. La discesa gli inferi, icona russa del XV secolo
Tale deroga ai principi della rappresentazione classica viene denominata da Florenskij, appunto, prospettiva rovesciata. Questo tipo di prospettiva, tipica delle icone russe del XIV e XV secolo, è sporadicamente apparsa nel corso della storia: prima che fosse elaborata la teoria della prospettiva lineare, l’illusionismo era entrato in crisi a partire dal V secolo. Tutta la pittura tardo romana e bizantina produce un’arte considerata imperfetta, priva di proporzioni, in cui le figure apparivano piatte come sagome. Per Florenskij l’assoggettamento successivo alle regole canoniche della prospettiva risponde al bisogno di ridurre il materiale del visibile allo spazio del sistema euclideo kantiano omogeneo, infinito e illimitato. Facendo esempi celebri come L’ultima cena di Leonardo, Florenskij indica come nelle violazioni operate dall’artista nelle proporzioni della camera in cui si svolge la scena si manifestasse “in maniera evidente il dualismo dell’anima rinascimentale ma allo stesso tempo il quadro acquisiva una non meno evidente forza di persuasione estetica”. Leonardo da Vinci, Cenacolo, 1494-1498
Nella prima parte del testo emerge la verve critica nei confronti del processo di laicizzazione della cultura o allontanamento dalla visione mistico-teurgica che avrebbe portato i padri della pittura occidentale, in primis Giotto, ad allontanarsi dal primitivismo pittorico (secondo critici come Vasari) per abbracciare una versione razionalista e secolarizzata dell’arte sacra. Da quel momento in poi la teoria si affinò e furono i capolavori della manualistica a dettare le regole canoniche della prospettiva, da Leon Battista Alberti a Masaccio, da Filippo Lippi a Piero della Francesca.
Se la prospettiva è nata per rappresentare la complessità del reale, è finita paradossalmente per renderla più ridotta e parziale. A corollario dell’artificiosità di tale procedimento riduzionista, Florenskij cita Dürer che nelle Istruzioni sulle misurazioni indica la possibilità di riprodurre meccanicamente un oggetto senza necessità della sintesi visiva. Da lì, il passo alle camere ottiche di vedutisti come Canaletto e Vanvitelli fu relativamente breve: il processo fisiologico della visione venne obliterato a favore di marchingegni sempre più sofisticati. Le ricadute di tale atteggiamento tecnicista sono per Florenskij incompatibili con l’assunto teorico della prospettiva rovesciata: la raffigurazione di un oggetto in quanto raffigurazione è ben lungi da essere anch’essa un oggetto, non è una copia della cosa, non duplica un angolino di mondo ma rimanda all’originale come suo simbolo.
La domanda sottesa a tutta la riflessione intorno alla visione e alla rappresentazione, fino ad abbracciare l’intera cosmologia del simbolo, è: come rappresentare l’immateriale? Una domanda che innerva l’intera produzione di Florenskij, che spazia dalla teologia all’epistemologia, dalla matematica alla filosofia e che il pensatore snocciola nella seconda parte del saggio in un densissimo avvicendarsi di concetti.
Un contributo indispensabile, per affrontare i nodi di un côté così complesso e diversificato come quello florenskiano, è senza dubbio il saggio di Silvano Tagliagambe Come leggere Florenskij, pubblicato una prima volta da Bompiani nel 2006 e recentemente riproposto da Mimesis in una versione aggiornata e rivisitata.
Il saggio, oltre a inquadrare il pensiero di Florenskij entro un orizzonte culturale preciso quale quello della cultura russa, della religione ortodossa e della teosofia, è uno strumento propedeutico per comprendere i concetti nodali del complesso itinerario intellettuale e spirituale di Florenskij. Uno di questi risponde alla presunzione di potere rappresentare fedelmente il reale, obiettivo della prospettiva classica. Il pensiero del matematico Cantor fornisce a Florenskij un importante incentivo per proseguire sul piano della formulazione del simbolo:nella prospettiva rovesciata il matematico viene chiamato in causa per dimostrare che è possibile rappresentare uno spazio su un piano, ma non lo si può fare senza distruggere la forma di ciò che viene rappresentato. Questa riflessione innesca l’articolazione tra invisibile e visibile, maturata nel saggio Sui simboli dell’infinito. Studio delle idee di G. Cantor. Qui i due sistemi, filosofico e matematico, giungono a una compiuta armonizzazione: “Basta avere uno sguardo un po’ attento per scoprire in ogni momento in noi e tutto quello che ci circonda il transfinito. L’idea dell’infinito sta penetrando tutto, lo lega in un’unica immagine, a sua volta, presupponendo l’idea dell’infinito, rende possibile la conoscenza simbolica dell’Assoluto”.
Il lavoro di Tagliagambe mostra con grande chiarezza espositiva e rigore logico che questo principio, insieme ad altri come il concetto di infinità (besconecnost), costituiscono l’ossatura di tutto il pensiero di Florenskij con ricadute teoriche importanti anche in discipline come la linguistica, la teologia (nella cristologia cosmica di origine sofianica), l’estetica e la matematica.
Per quanto riguarda la teoria dell’arte, il saggio approfondisce il ruolo della prospettiva rovesciata per la definizione di uno spazio multifocale, multi-percettivo. Lo spazio per Florenskij è contraddistinto da tre livelli: quello astratto o geometrico, quello fisico, fisiologico; si aggiungano a ciò lo spazio visivo, tattile, uditivo, olfattivo, gustativo e lo spazio del senso organico.
Con un preciso rimando alla cultura russa, Tagliagambe circoscrive l’esperienza dello spazio rispetto a quella del tempo. Un’attitudine che ha precise radici nella cultura arcaica della Russia non europea, quando il nomadismo, come ricorda Čaadaev, era un’istanza dello spirito, applicabile solo ad uno spazio omogeneo e indifferenziato. Lo spazio “cosmico” identificato da Florenskij nel saggio sulle icone come elettivo, orizzonte di senso e di visione, è erede di questa temperie.
Anticipando di quasi quarant’anni la “trialettica” dello spazio di Henri Lefebvre nel saggio La produzione dello spazio, la tripartizione spaziale di Florenskij dimostra quanto il suo pensiero sia stato profetico e visionario nell’individuare la complessità di una realtà che solo a cominciare dallo spatial turn è stata oggetto di un sistematico approfondimento.
Particolarmente interessanti i passaggi che ricordano il ruolo della Sofia, vero campo di forze antinomiche all’interno del quale si dibatte la relazione tra la concezione della verità come assoluto e l’epistemologia del simbolo. La Sofia, identificabile generalmente con la saggezza di Dio (così la definisce Solov’ëv), dà un impulso vivacissimo alla creazione di una cristologia cosmica, e ha influenzato enormemente la cultura e la letteratura russa del tempo. Basti pensare a Blok, con la figura della Prekrasnaja dama, e a Dostoevskij, che di Solov’ëv fu amico e con il quale discusse del piano generale del romanzo I fratelli Karamazov: queste riflessioni furono da ispirazione a Tat’jana Kasatkina che nel saggio Dostoevskij: Il sacro nel profano, compie un’acutissima analisi della poetica dostoevskiana alla luce delle medesime suggestioni che troviamo in Florenskij e Solov’ëv: “L’icona è presenza e incontro. È una soglia e la soglia è qualcosa che non ha uno spazio suo, è il luogo d’incontro tra due spazi, tra l’interno e l’esterno, ad esempio. Che azione deve accadere su una soglia? Solo una, l’attraversamento. L’entrata e l’uscita. L’apparire da oltre un confine”. Non è un caso che l’icona della comunione degli apostoli ritorni nel finale dei Fratelli Karamazov, a rimarcare semanticamente e spiritualmente il valore resurrezionista dell’ultima scena: un consesso di uomini pronti a rinnovarsi davanti alla tomba di un bambino al grido di Urrà Karamazov. È qui, come chiosa Kasatkina, che si compie il sogno recondito di Dostoevskij: che gli uomini finalmente imparino a essere indistinti per potere amare, che imparino a essere indivisibili per non potere odiare; che insomma siano una sola cosa, come Noi.
Pavel Florenskij
La prospettiva rovesciata
a cura di Adriano Dell’Asta
Adelphi, 2020, pp. 152, € 14
Alessandro Tagliagambe
Come leggere Florenskij
Mimesis, 2021, pp. 302, € 22
Idee. L’icona russa e l’unità spirituale europea
In un saggio del 1931 lo storico Focillon delinea nell’arte un orizzonte cristiano che lega il Vecchio Continente dall’Atlantico agli Urali. Una coscienza oggi ferita dai venti di guerra
di Henri Focillon (Avvenire, martedì 29 marzo 2022)
Anche l’editoria può contribuire alla pace dell’Europa «dall’Atlantico agli Urali» con segni che facciano comprendere che una fratellanza spirituale, di antica matrice cristiana, lega l’Europa dell’Ovest a quella dell’Est, mentre infuriano venti di guerra che negano una storia plurisecolare tuttora viva. Per difendere questa unità contro ciò che la distrugge, le edizioni Medusa sul loro sito internet hanno reso disponibile il testo che nel 1931 lo storico dell’arte francese Henri Focillon firmò come prefazione a un importante volume sull’icona russa scritto da Paul Muratoff e intitolato Trentacinque Primitivi russi, che documentava la collezione di Jacques Zolotnitzky, mercante d’arte e gioielli russo, che ebbe gallerie a Kiev, Parigi e New York. Anticipiamo qui alcuni brani del testo di Focillon, che si può scaricare gratuitamente dal sito della casa editrice.
Può essere concesso a uno storico dell’arte occidentale esprimere il suo sentimento sulle belle icone della collezione Zolotnizky? Ci sembrano provenire da età lontane, da quei confini dell’Oriente e dell’Asia dove il movimento del pensiero obbedisce a cadenze misteriose, dove lo spirito interpreta lo spazio, il tempo, la forma, la fede, secondo misure che non sono le nostre. Appaiono come tesori di una religione d’altri tempi, nella quale riconosciamo scene e figure, mescolate a strani sogni trasposti in un universo favoloso. Subito le amiamo perché ci mostrano l’altra faccia dell’uomo e di Dio, e perché guidata da loro la nostra fantasticheria è trasportata in un altro clima della vita. Ma questo, potremmo dire, non è che un aspetto della loro qualità poetica. Rappresentano il passato di una grande arte estremamente importante da conoscere e che non possiamo studiare nei nostri musei. Senza di esso è impossibile conoscere tutto lo sviluppo dell’arte cristiana, con quella significativa molteplicità di aspetti che, da tutti i punti della sua espansione, l’associa con forza alla vita storica. Cominciamo a intravedere il senso che bisogna dare all’attività creatrice della cristianità d’Oriente. I risultati delle nostre prime osservazioni si sono naturalmente presentati sotto la forma che normalmente prendono gli studi comparativi: l’analisi delle influenze.
Quantomeno abbiamo imparato che l’Oriente e l’Occidente cristiani non erano due mondi simmetricamente opposti da ciascun lato dell’albero della vita o del pireo, ma uniti attraverso scambi in cui certi caratteri comuni delle loro arti potevano spiegarsi sia dal gioco delle relazioni reciproche, sia dalla comunità delle origini. (...) Ci fu un tempo nel quale la definizione dello stile bizantino s’imponeva attraverso una specie di unità massiccia, così come il termine Primitivismo comprendeva indistintamente le epoche e i maestri più diversi dell’antica pittura italiana. Non possiamo ignorare come, a Costantinopoli stessa, si avvicendano e si oppongano correnti contrarie e come, nelle regioni dell’Impero, si siano sviluppati, fin da un’epoca lontana, ambienti originari ai quali l’arte della capitale è debitrice di certe sfumature essenziali, secondo i tempi e le circostanze, e da dove alcune delle sue formule furono a loro volta importate. Così che, malgrado l’autorità del centro politico, non sarebbe corretto considerare l’arte bizantina come un blocco omogeneo, così come racchiudere tutte le varietà dell’arte occidentale medioevale attorno a un’unica definizione. Non diversamente per l’arte russa.
Dagli inizi, dall’epoca della vecchia Russia kieviana, si è posta la domanda di sapere se bisognasse cercarne le origini esclusivamente a Bisanzio, o se bisognasse far intervenire contributi caucasici, e, per il periodo successivo, dominato dallo splendore di Novgorod, se una scuola italo-cretese non vi avesse operato, come a Mistra, una fusione tra l’arte italiana e la tradizione bizantina. Ma, come ha sottolineato Louis Réau, nella sua bella Histoire de l’art russe, la qualità umana e la forza di espansione della pittura bizantina sotto i Paleologhi rendono inutile il ricorso a esempi veneziani o toscani. In tutto il bacino del Mediterraneo, così come nelle regioni sottomesse alla sua influenza, si produce nel XIV secolo, sotto forme diverse e unite tra loro, uno stesso movimento di rinascenza che interessa non solo Bisanzio, ma la Serbia, l’Italia, la Spagna orientale, di cui si trovano anche migliori testimonianze in Valachia così come nelle terre russe. In una forte città risparmiata dai Tartari, arricchita dai suoi commerci e dai suoi rapporti con l’Hanse, prosperava una scuola le cui opere già mostrano con chiarezza ciò che la Russia accoglie e ciò che essa crea dal suo proprio fondo.
La pittura novgorodiana subisce il dominio di questo ritorno alla tradizione ellenistica che costituisce, attraverso le sue variazioni, l’eterna nostalgia dell’arte bizantina. Ma concede a sé stessa un quadro inedito inventando l’iconostasi. Non è uno sfavillio d’oro, un mantello superfluo, è un ordine architettonico nel quale prendono posto le immagini, nel quale esse si piegano, almeno in una certa misura, a queste leggi di convenienza e di adattamento formale senza le quali sarebbe difficile definire il loro stile. (...) L’icona ridotta alla sua proiezione più pura, più spoglia, raggiunge una specie di arida bellezza. Queste grandi figure astratte sono come ritratti nell’eternità. Ma non ci s’inganni, hanno un valore di studio. L’unica prova di cui abbiamo bisogno sono questi lievi tratti d’inchiostro rosso che, su molte tra loro, suggeriscono con tanta sensibilità la modellazione della legatura delle dita e, più ancora, questo disegno di piega spigolosa in cui il drappeggio è ridotto con scienza secolare al suo schema geometrico, vestigia di una procedura che ha ossessionato il pensiero del medioevo, di cui troviamo altre tracce in Occidente e che sopravvive in terra russa al suo declino nei nostri paesi...
(traduzione di Riccardo De Benedetti)
Geometrie esistenziali.
Pavel Florenskij: la sottile linea russa
Torna in libreria uno dei testi più visionari e oscuri di Pavel Florenskij
Matematico, filosofo e religioso ha vissuto all’inizio del Novecento
di Chiara Valerio (la Repubblica, 27.10.2021)
Tutto quello di cui Euclide parla non esiste. Ciò nonostante, la geometria così come Euclide l’ha immaginata, è l’unica che si accorda alla nostra esperienza quotidiana e aggiungo - si capirà spero perché - un altro aggettivo: terrena. La geometria euclidea garantisce, per dirne una, che i corpi solidi non cambino forma durante il movimento - al netto delle palle lanciate nei cartoni animati giapponesi da Jenny la tennista, Holly e Benji e Mimì e le ragazze della pallavolo.
Se la geometria che descrive il nostro mondo nasce da ipotesi di misteriosa
esistenza («il punto è ciò
che non ha parti»), c’è da
chiedersi quale ulteriore
rarefazione di realtà stia in
un numero detto immaginario. Il nome lo inventa
Cartesio, ma è Leibniz che
in maniera formidabile (siamo a cavallo tra Seicento e
Settecento) ne svela essenza e specie:
«La natura, madre delle verità eterne, anzi lo spirito divino, è in realtà troppo gelosa della propria straordinaria varietà
per consentire che le cose
si addensino tutte in un
unico genere, ha perciò trovato un sottile e mirabile
espediente in quel prodigio dell’analisi, quel mostro del mondo delle idee,
quella specie di anfibio tra
essere e non essere, chiamata radice immaginaria».
Pensiero che potrebbe essere posto, tra l’altro, a monito e conclusione di tutte le discussioni riguardo l’identità di genere.
Ma torno sui numeri immaginari e sulla loro natura perché la casa editrice
Mimesis porta in libreria
uno dei testi più visionari e
oscuri di Pavel Florenskij,
matematico, filosofo e prete russo vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Il libro si intitola Gli immaginari in geometria (a cura di Andrea Oppo e
Massimiliano Spano, traduzione di
Anna Maiorova, A. Oppo e M. Spano, pagg.112, 12 euro) ed è stato pubblicato nel 1922 nonostante Florenskij abbia cominciato a scriverlo
venti anni prima mentre era studente alla facoltà di matematica. E
un libro che lo accompagna per
più di un terzo della vita.
I numeri immaginari o numeri complessi vengono introdotti (anche a scuola) come coppie di un piano cartesiano sulle cui ascisse il passo è scandito dall’unità reale, e sulle cui ordinate il passo è segnato da una unità immaginaria, il simbolo di quest’ultima è i.
Da qui prende l’abbrivo Florenskij per fornire una sua rappresentazione geometrica dei numeri immaginari. Immagina una superficie piana che su una faccia abbia i numeri reali e sull’altra i numeri complessi. Non numeri reali e immaginari sullo stesso piano, ma numeri reali e immaginari sopra e sotto lo stesso piano, opposti.
La geometria che ne deriva è ctonia, in senso proprio, perché le aree delle figure geometriche nella parte immaginaria hanno valore negativo. Esattamente il motivo per cui per quasi duemila anni l’equazione x2+1= O equivalente a x2= -1 non ha avuto soluzione, inconcepibile che un’area avesse misura negativa.
Ipotizza dunque Florenskji che esistano geometrie terrene governate da Euclide e geometrie immaginarie nelle quali è l’impensato a dominare.
Questo impensato matematico, aggiunge in un capitolo
successivo alla prima stesura, è stato però visto da Dante Alighieri. E
la geometria è ctonia perché Florenskij si mette nell’inferno di Dante e da lì, deducendo dai versi la
geometria tolemaico-dantesca della Commedia, ne evidenzia la natura ellittica concorde a quella della
relatività einsteniana:
«Il suo (di
Dante) viaggio è stato reale; ma se
anche qualcuno lo negasse, andrebbe comunque riconosciuto come una realtà poetica, cioè come
qualcosa che può essere immaginato e concepito e, come tale, contiene i dati necessari per comprenderne i presupposti geometrici».
A Floreskji interessa mostrare che lo spazio e il tempo sono finiti e chiusi in sé stessi e che il limite della velocità della luce - limite posto nel modello di Einstein - dice solo che oltre quella velocità cambia il modo di vita e cambia la geometria, e questa nuova geometria giace sulla faccia del piano opposta ai numeri reali, tra i numeri immaginari.
Qualche anno dopo, sia- mo nel 1927, è Mandelstam - che con ogni probabilità aveva letto Florenskij - a ragionare su quanto Dante e il suo poema non stiano dietro ma davanti alla scienza moderna. Mandelstam voca a sé e alla Commedia le scienze della terra, geologia e cristallografia.
La nuova edizione di Conversazione su Dante - fino al mese di maggio 2021 oscuro, oscurissimo testo in italiano e ora luminoso luminosissimo grazie alla cura di Serena Vitale - è stata pubblicata da Adelphi (pagg.116,13 euro).
«La sua poesia - scrive Mandelstam - conosce tutte le forme di energia note alla scienza dei nostri tempi. L’unità di luce, suono e materia ne costituisce l’intima natura».
E continua, qualche pagina dopo: «I versi di Dante rivelano, ap- punto, una formazione e una colorazione geologiche. La loro struttura materiale è di gran lunga più importante del loro decantato carattere scultoreo. (...) In altre parole, immaginate un monumento di granito eretto in onore del granito come per rivelarne l’essenza: avrete così un’idea abbastanza chiara del rapporto che Dante stabilisce tra forma e contenuto».
È di certo vero che Galileo Galiei, oltre a un grande scienziato, sia stato un grande scrittore, e, leggendo Florenskij e Mandelstam vie- ne da pensare che accade pure che i grandi poeti siano capaci di immaginazioni non metamorfiche, di immaginazioni scientifiche che non prendano l’abbrivo dal reale - tutto quello di cui Euclide parla, non esiste - ma lo chiariscano, viene da pensare, insomma, che i grandi poeti siano grandi scienziati.
La teologia geometrica (ma non euclidea) di Pavel Florenskij
Tradotto e pubblicato per la prima volta integralmente uno dei libri che hanno caratterizzato la parabola intellettuale del matematico e prete ortodosso russo
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 28 ottobre 2021)
«Mi permetto di disturbare la censura con quanto segue». Suonano così le parole, scritte il 13 settembre 1922, in apertura alla lettera indirizzata alla sezione politica per distoglierla dal proposito di censurare alcune parti di un testo di geometria. Sono trascorsi cinque anni dalla rivoluzione bolscevica e uno dalla proclamazione della nascita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche quando Pavel Florenskij si vede cassate talune riflessioni sulle geometrie non euclidee contenute nel testo Gli immaginari in geometria. Estensione del dominio delle immagini bidimensionali nella geometria (Esperimento per una nuova interpretazione dei numeri immaginari) (pagine 114, euro 12), tradotto per la prima volta integralmente ora dall’editore Mimesis con la curatela di Andrea Oppo e Massimiliano Spano.
Ma cosa di tanto eversivo e pericoloso per il neonato regime sovietico poteva adombrarsi tra le righe di un testo tecnico dedicato alla rappresentazione geometrica dei numeri complessi? Florenskij, che da molti è considerato il Leonardo da Vinci russo, è un autore dai poliedrici interessi. Matematico, filosofo, teologo consacratosi nel 1909 alla Chiesa ortodossa, ingegnere elettrotecnico, esperto di linguistica, estetica e simbolismo, matura, dall’intreccio delle sue competenze, una visione organica e unitaria del mondo. Una coerenza dottrinaria che non si incrina all’incontro con la vita. Le scelte di padre Pavel lo portano infatti all’arresto nel 1933 e alla fucilazione nel 1937 nei pressi di Leningrado dopo cinque anni trascorsi nel gulag delle isole Solovki. Matematica e teologia in Florenskij non sono due continenti separati ma si corrispondono senza requie.
Lo dimostra proprio l’anno 1922. Sono dodici mesi impegnativi in cui Florenskij consegna alle stampe sia Gli immaginari in geometria sia Iconostasi (anche conosciuto con il titolo Le porte regali) quasi a conferma che le due dimensioni si intrecciano indissolubilmente una con l’altra. Per il teologo russo la matematica non è un vezzo ma una «abitudine di pensiero » che «aiuta a vedere rapporti geometrici in tutta la realtà» e «lega in un unico modo la visione del mondo», scriverà dalla prigionia alla figlia Olga. E Gli immaginari in geometria, in particolare l’ultimo paragrafo aggiunto con vent’anni di ritardo, conferma questa concezione, dove le teorie più spinte della ricerca scientifica si fondono con la teologia mostrando la convivenza di reale e immaginario. Il raggiungimento di questi risultati non è però immediato.
Ci vogliono ben quattro lustri perché il testo giunga a un suo compimento. La gran parte di esso è redatta nel 1902 quando Florenskij è ancora un giovane studente di matematica e fisica all’università di Mosca. Poi, nella primavera del 1921, il pensatore russo decide di integrarlo con un capitolo generalizzando le considerazioni della prima parte. Ma ancora il testo non sembra maturo e così, l’anno seguente, padre Pavel aggiunge un ultimo capitolo in cui lega le sue considerazioni matematiche con la disamina di alcune concezioni cosmologiche e geometriche che fanno capolino tra le terzine della Divina Commedia di Dante. L’importanza del Fiorentino non deve stupire. Egli non solo gioca un ruolo non marginale nella cultura russa dei primi decenni del Novecento ma recita una parte non trascurabile pure nel pensiero di Florenskij come sottolinea anche un recente breve saggio di Natalino Valentini, Il Dante di Florenskij (Lindau), che insieme all’introduzione di Oppo e alla postfazione di Spano costituisce un importante trittico per muoversi tra le pagine non sempre agevoli di Gli immaginari in geometria.
Come Florenskij prova a illustrare anche nell’immagine di copertina composta dall’amico artista Vladimir Favorskij, il modello dello spazio e tempo previsto dalle teorie della relatività generale e ristretta di Albert Einstein, il piano della geometria ellittica di Rieman, la superficie di Felix Klein e la geometria complessa di August Möbius confermano la concezione cosmologica espressa da Dante e dalla fisica tolemaica come rappresentato dalla superficie ricurva (tipo il nastro di Möbius per capirsi) che sembra adombrarsi al passaggio di Dante e Virgilio dall’Inferno al Purgatorio.
Per Florenskij le avanguardie della ricerca matematica e fisica anziché iscriversi in continuità con la scienza moderna, che molto deve al prospettivismo rinascimentale contestato dal russo proprio nei saggi sull’icona, ne rappresentano una discontinuità e confermano la prospettiva aristotelico-tolemaica dantesca al punto che per Florenskij «attraversando il tempo, la Divina Commedia si trova inaspettatamente davanti, e non dietro la scienza moderna».
Lungo questo cammino, dove matematica e teologia sono come germani celesti che contribuiscono ad abbattere la concezione materialista del marxismo sovietico, «il collasso della figura geometrica non significa la sua eliminazione ma solo il suo passaggio all’altro lato della superficie, e di conseguenza la sua accessibilità agli esseri che lì si trovano, allo stesso modo deve essere inteso il carattere immaginario dei parametri di un corpo, non come un segno della sua irrealtà ma semplicemente come l’evidenza del suo passaggio a un’altra realtà».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PAVEL FLORENSKIJ. LE PORTE REGALI - ICONOSTASI.
FLS
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16. Il Natale secondo Fëdor
di Alessandro D’Avenia (Corriere della sera, 23 dicembre 2019)
San Pietroburgo, Natale 1875. Al club degli artisti è in corso una scintillante festa di Natale, durante la quale molti dei presenti cercano di mettersi in mostra e di sembrare più belli e intelligenti. Un uomo in disparte, guardando con attenzione la scena e i volti degli invitati, nota che tutti si divertono ma che in realtà nessuno è veramente contento, allora decide di smascherare il gioco: «La disgrazia è che voi ignorate quanto siete belli. Ognuno di voi potrebbe subito rendere felici tutti gli altri in questa sala e trascinare tutti con sé. E questo potere esiste in ognuno, ma così profondamente nascosto, che è diventato inverosimile. La vostra disgrazia è nel fatto che vi sembra inverosimile».
Chi ha parlato in modo così bruciante è Fëdor Dostoevskij che racconta l’episodio nel suo Diario di uno scrittore, che raccoglie gli scritti dell’omonima rubrica tenuta sul settimanale “Il cittadino”. Per Dostoevskij, osservatore acutissimo, l’episodio mostra che se l’uomo smette di credere nella presenza di qualcosa di trascendente dentro e fuori di sé, diventa insicuro e comincia a disprezzare sé e/o gli altri.
Al fatto di cronaca lo scrittore fa poi seguire un racconto. Alla vigilia di Natale, in un gelido scantinato, un bambino di sei anni, infreddolito e affamato, cerca di svegliare invano la madre. Allora esce per le strade innevate di Pietroburgo con indosso pochi stracci: chi lo incontra finge di non vederlo per non doversene occupare. Egli si rifugia in una casa piena di persone che festeggiano, ma viene cacciato con la magra elemosina di una moneta che gli cade di mano perché ha le dita congelate. Si rincuora osservando una vetrina piena di giocattoli ma viene colpito e inseguito da un ragazzaccio. Scappa e si nasconde dietro una catasta di legna. Dopo un po’ di tempo finalmente non ha più freddo e sente una voce misteriosa che gli dice: «Vieni alla mia festa di Natale, bambino». Così si ritrova in un luogo caldo, luminoso e pieno di bambini: ad accoglierlo c’è la madre sorridente. L’indomani, dietro la legna, i proprietari trovano il cadavere del bambino.
Finisce così il racconto Il bambino alla festa di Natale da Gesù, e la festa in cui il piccolo si ritrova è l’eternità. Dostoevskij dice di essersi ispirato a un fatto vero ma riguardo al finale aggiunge: «Quanto alla festa di Gesù poteva questo avvenire o no? Proprio per questo sono un romanziere, per inventare». Il racconto del bambino è la chiave per comprendere a cosa non credono più gli artisti della festa: in Dio e nel suo manifestarsi.
Lo scrittore era convinto che quella di Cristo fosse una storia che si ripete in tutte le vite umane, infatti in ogni suo capolavoro mette in scena un passo evangelico che ne è la chiave di lettura: senza Lazzaro non si comprende Delitto e Castigo, senza le nozze di Cana I Karamazov, senza l’indemoniato liberato I demoni... Ne era convinto perché aveva sperimentato più volte l’intervento di Dio nella concretezza della sua vita: la condanna a morte e la grazia all’ultimo istante; i lavori forzati in Siberia e la lettura a memoria dell’unico libro a disposizione, il Vangelo; la malattia, la crisi economica e creativa, e l’incontro salvifico con la futura moglie Anna. Per lui la presenza di Dio nella vita di ogni uomo, per quanto nascosta o rifiutata, è continua e inesauribile.
Il bambino dello scantinato, uno dei tanti che morivano di fame e freddo nella sua città, è infatti il Bambino di Betlemme: egli vaga con pochi stracci (le fasce) per le strade della città-mondo in cerca di uomini che vogliano accoglierlo, per loro muore (la catasta di legna) in croce, ma risorge nella festa eterna. Per Dostoevskij, Dio passa accanto a noi in infiniti modi ma soprattutto nelle creature fragili, come i bambini, dalla sofferenza dei quali era tormentato come mostrano pagine abissali dei suoi romanzi. La fragilità è la veste umana con cui Dio si fa vivo dentro e fuori di noi: non è mai un’evidenza schiacciante, ma un sussurro, un invito, un’occasione, una luce silenziosa... Non saremmo liberi se non fosse così, e chi non è libero non può amare.
Gli invitati alla festa «si divertono ma nessuno è contento» perché hanno smesso di credere al Padre che li ama senza riserve: chi non si sente amato, così com’è, fatica ad amare sé e gli altri. Lo vedo tutti i giorni: i ragazzi con genitori che li fanno sentire amati sono più sereni; affrontano la vita come un’avventura faticosa ma promettente; hanno le spalle e il cuore coperti. Dostoevskij crede fermamente che Dio passa vicino a ognuno di noi in vesti non appariscenti, chiedendoci di collaborare con lui. Vi auguro di riconoscerlo, cari lettori, con le parole che Dostoevskij scrisse a un uomo incerto se assistere o meno una donna colpevole di infanticidio: «Non fatevi sfuggire il momento in cui il Signore fa la sua mossa». Così il Natale accadrà in e attraverso di noi. Auguri!
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone". "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO. "La meditazione" di Marianne Williamson, nel discorso di insediamento (1994), con approfondimenti.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il libro.
Fermiamo il culto del capitalismo. Quando il denaro si sostituisce a Dio
L’autore del saggio lancia un grido di allarme: la cultura dominante del profitto e del consumismo è ormai diventata una forma di idolatria
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 20 novembre 2019)
Pochi anni dopo Marx, nel 1905 Max Weber pubblica i suoi lavori sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, dove una idea chiave è la de-sacralizzazione del mondo occidentale. Passano pochi anni e il 1921 diventa un anno decisivo per la cosiddetta “teologia economica”. Il filosofo tedesco Walter Benjamin scrive un breve e densissimo testo, oggi noto come Il Capitalismo come religione, e contemporaneamente il teologo e filosofo russo Pavel Florenskij, in un contesto culturale molto diverso, tiene tra l’agosto e l’ottobre del 1921 un corso di lezioni all’Accademia Teologica di Mosca sulla dimensione sacra del capitalismo.
Weber annunciava un mondo de-sacralizzato, Benjamin e a modo suo anche Florenskij dicono invece qualcosa di opposto: il capitalismo non ha eliminato il sacro dal mondo perché è diventato esso stesso un culto, una religione. Due autori vicini anche nella morte: Benjamin muore suicida nel 1940 mentre tenta di fuggire ai nazisti sui Pirenei, Florenskij viene fucilato nel 1937 in un gulag nei pressi di Stalingrado.
Il saggio di Benjamin è stato a lungo trascurato, sebbene contenga un’analisi ancora insuperata del rapporto tra l’economia capitalistica e la religione. Benjamin, anche per le sua cultura ebraica, aveva posto il tema del messianismo al centro della sua riflessione filosofica. Il capitalismo gli appare come una (falsa) risposta alla domanda di salvezza che nell’umanesimo ebraico-cristiano aveva fondato l’Europa. Per Benjamin, allora, «nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni».
Questo incipit di Benjamin è chiaro e potente: il capitalismo non nasce soltanto, come diceva Weber, da uno spirito religioso; per Benjamin il capitalismo è una religione: «non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso».
E quindi sintetizza: «In Occidente il capitalismo - come deve essere dimostrato non solo nel caso del calvinismo, ma anche degli altri orientamenti cristiani ortodossi - si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita, il capitalismo». E poco dopo aggiunge: «Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo».
Molto forte e particolarmente efficace è la metafora biologica del parassita: il capitalismo dal cristianesimo non ha preso solo lo spirito, ha la sostanza ed è cresciuto al punto da assorbirlo interamente. Il capitalismo è un cristianesimo fagocitato e trasformato, una metamorfosi del bruco in farfalla - e le farfalle non ricordano di essere state bruco.
Inoltre, Benjamin rettifica ancora Weber estendendo la metamorfosi dal protestantesimo all’intero cristianesimo, anticipando in questo di qualche anno Amintore Fanfani e le sue analisi sullo spirito “cattolico” e medioevale del capitalismo, un tema sviluppato anche da Giuseppe Toniolo, sebbene avanzando una tesi diversa da quella di Fanfani. È questa la grande e potente tesi di quel piccolo opuscolo del 1921, dove però troviamo molte altre intuizioni di grande valore. Vi è contenuta anche una sorta di profezia: «In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme».
Benjamin conosceva troppo bene Marx per usare la parola “struttura” in senso generico. Per lui la religione, il cristianesimo in particolare, è la struttura del capitalismo, e quindi l’economia capitalistica, che dovrebbe essere la struttura della società capitalistica, è a sua volta una sorta di sovrastruttura di una struttura religiosa più radicale. Noi vediamo economia, ma sotto, nascosta «dall’involucro delle cose », c’è la religione: quale religione? Quali sono i tratti della farfalla-capitalismo nata dal bruco-cristianesimo?
Scriveva Benjamin: «Tre tratti di questa struttura religiosa sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai sia stata data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce così la sua coloritura religiosa ».
Tesi forti e dense, e tutte ancora da esplorare, oggi più di ieri. Innanzitutto il capitalismo è definito dal filosofo tedesco come una «religione puramente cultuale», di puro culto, senza teologia, senza dogmi. Benjamin era ebreo, era filosofo, ed era tedesco - la Germania della sua generazione (Taubes, Buber, Bonhoeffer, Bloch, e molti altri) fu un luogo straordinario e ineguagliato per le riflessioni sull’anima collettiva dell’Europa, per il destino e “tramonto” dell’Occidente e del capitalismo.
Benjamin sapeva quindi che le religioni di puro culto, senza dogmi né teologia, avevano nella Bibbia un nome preciso: idolatrie. Quei culti contro i quali il popolo ebraico, in Caanan e in Babilonia e ancor prima in Egitto, aveva ingaggiato una lotta campale, la lotta più radicale e estesa di tutta la Bibbia.
E che cosa significa, oggi, una religione/idolatria di puro culto? Pavel Florenskij, il grande filosofo e teologo russo, ha scritto cose importanti sul capitalismo come religione/idolatria di puro culto. Sempre nel 1921, anche Florenskij dedicava una specifica attenzione al rapporto tra il capitalismo, il sacro e il culto. Il suo resta un testo di enorme interesse per le intuizioni che vi sono contenute sulla natura sacrale del capitalismo. Scriveva il teologo ortodosso: «La stessa teoria del sacro dice che all’origine dell’economia, così come dell’ideologia, c’è il culto».
Il culto, per Florenskij, è «una sorta di prius. Viene prima il culto, e in seguito gli strumenti e i concetti». E poi aggiunge: «Il punto di partenza della cultura è il culto», giocando anche sulla comune radice delle parole cultura e culto: «In suo favore si pone anche l’analisi filologica». Per questo aggiunge: «È sbagliato pensare che la teoria del sacro sia perduta per sempre. Essa è legata alla coscienza medioevale. Nella vita storica ci sono periodi di laicizzazione e, al contrario, periodi in cui tutta la vita è introdotta nell’alveo del culto».
Il capitalismo è dunque per Benjamin e Florenskij una religione di solo culto, di sola prassi - in realtà, oggi noi sappiamo che nel secolo che è passato dallo scritto di Benjamin la religione capitalistica si è sofisticata e ha prodotto alcuni dogmi e una sua teologia, offerta in buona parte dalla teoria economica e da quella manageriale. Ed è per la necessità di avere un culto per poter creare una cultura che il capitalismo è diventato la vera cultura (o religione) popolare di questo secolo.
La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere diventato una esperienza globale, olistica, onnicomprensiva e onniavvolgente - il primo populismo moderno lo ha inventato il capitalismo. È nella sua dimensione di sola prassi quotidiana che, novello Anteo, il capitalismo trae la sua forza.
Il capitalismo crea e rafforza la sua cultura alimentandosi nel culto feriale di miliardi di persone. Ecco perché è diventato il culto universale e globale, che può solo crescere e rafforzarsi nei prossimi decenni - finché altri culti e altre culture non ne prenderanno il posto: speriamo solo che non siano le antiche arti della guerra! Ma da qui deriva anche un corollario interessante: per superare l’idolatria capitalistica occorrono nuove prassi, nuove esperienze.
Non basta scrivere teorie, perché ogni cultura nasce dal culto e dal pane quotidiano. Siamo immersi in pratiche quotidiane, ripetute, reiterate di culti di acquisto, vendita, investimenti. Anche nelle imprese, che nel Novecento erano in genere pensate e vissute sul modello della comunità, sta crescendo la stessa cultura commerciale.
Dal modello comunitario tipico del XIX e XX secolo siamo passati progressivamente all’impresa-mercato, che oggi domina indisturbata la scena. Fino a pochi decenni fa, soprattutto (ma non solo) in Europa, il registro relazionale che fondava imprese e/o cooperative era quello del patto non quello del contratto; anche il “contratto” di lavoro era soprattutto un patto, dove il do-ut-des era solo una delle componenti di quel rapporto fondamentale che fondava il lavoratore e la sua famiglia (il lavoro non era una merce perché quel contratto era essenzialmente un patto).
E invece oggi la cultura che si respira nelle imprese, nei loro culti e nelle loro liturgie, è la stessa cultura che si respira nei grandi centri commerciali, nelle banche, e sempre più anche nei social media. Ed è in questi culti e in queste pratiche, molto più che nelle business school e nelle università, dove si alimenta la cultura-religione-idolatria del capitalismo.
Perché, sempre secondo Florenskij, «il contenuto mistico-religioso dei concetti non si rivela nel pensiero astratto ma nell’esperienza ». Per il pensatore russo, dunque, all’inizio c’è la prassi del culto e da questa prassi nascono i concetti astratti (la cultura): «Tutte le concezioni scientifiche - economiche e simili - si sviluppano attraverso la secolarizzazione: da una parte si definiscono i concetti utilitaristici, dall’altra quelli scientifici».
Per questa stessa ragione, «il mito nasce dal culto... Il mito è il tentativo teorico di spiegare un determinato culto». Infatti, la «realtà originaria, nella religione, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma il culto, ovvero una realtà concreta. Mito e dogma sono astrazioni, teorie».
L’analogia storica più vicina alla cultura capitalista è per Florenskij la christianitas medievale: «Può essere convincente per noi soltanto l’idea medioevale di unità ecclesiale, di penetrazione di tutta la cultura da parte del principio sacrale... Non c’era fenomeno che non abbia un chiaro aspetto ecclesiale. Tutti i fenomeni, in positivo o in negativo, sono orientati all’ecclesialità».
Prassi era il cristianesimo pre-moderno in Europa, prassi è il nostro capitalismo: qui la loro forza, qui la loro vicinanza. Queste di Florenskij sono parole importanti. Per questa sua natura pratico-cultuale, ad esempio, che i filosofi e i teologi fanno molta fatica a comprendere il capitalismo del nostro tempo. Il secondo tratto del capitalismo, legato al primo (religione di puro culto), è per W. Benjamin «la durata permanente del culto».
Cento anni fa non esistevano ancora i negozi 24h7d, né lo shopping online, ma il filosofo ebreo aveva, profeticamente (la grande filosofia ha una dimensione profetica intrinseca e spesso non intenzionale) intuito una dimensione che nel tempo ha mostrato tutta la sua forza: «Il capitalismo è la celebrazione di un culto “senza tregua e senza pietà”. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante».
Il conflitto tra il capitalismo e la domenica (possibile giorno dei negozi chiusi) non va infatti letto solo sul piano pragmatico del business ma su quello religioso dello scontro tra culti. Anche per questa ragione ha un suo senso, se ben inteso, rivendicare per i cristiani la domenica come giorno del Signore e quindi proteggerlo dal culto capitalistico, anche se la battaglia è troppo impari.
L’ebraismo potrà salvarsi da questo capitalismo (che in parte è suo figlio) se continuerà ad essere fedele allo shabbat. C’è poi quello che per Benjamin è il terzo tratto del capitalismo-culto, quello che ha ottenuto più attenzione dagli studiosi (da Giorgio Agamben in particolare): «Questo culto è colpevolizzante. Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa». Una tesi forte e sempre suggestiva, che apre discorsi appassionanti e rilevanti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
La domenica di Ratzinger e la "domenica della vita" di Hegel. Una nota di Gianni Vattimo
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LE IDEE. Il religioso nell’arte
L’ultimo segreto delle icone russe
Le opere di Rublèv restano custodi del mistero proprio mentre lo esprimono
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 22.06.2018)
Tra le vere opere di Elémire Zolla sta certamente quella di averci fatto scoprire l’opera di Pavel Florenskij, promuovendo prima l’edizione di La colonna e il fondamento della verità presso Rusconi nel 1974 (prima traduzione nel mondo) e poi, presso Adelphi nel 1977, di Le porte regali. Opere fondamentali per il pensiero teologico e filosofico del Novecento, scaturite dall’irripetibile humus della apocalisse russa a cavallo della Rivoluzione.
Non posso non ricordare con emozione anche il mio incontro con esse (e l’influenza determinante che ebbero per alcuni miei lavori, come Icone della legge e L’angelo necessario, precedenti il largo sviluppo di studi su Florenskij che negli ultimi trent’anni è maturato soprattutto in Italia, fino al recentissimo e importante volume collettivo curato da Silvano Tagliagambe, Il pensiero polifonico di Pavel Florenskij, presso l’University Press della Facoltà teologica della Sardegna).
La ristampa di Le porte regali, dopo molte adelphiane, avviene ora a cura e con una post-fazione di Grazia Marchianò, nell’ambito dell’edizione delle Opere Complete di Zolla, presso Marsilio. Occasione preziosa per approfondire ancora il valore epocale di questo saggio. Esso va ben oltre all’illuminare i fondamenti teologici dell’arte dell’icona russa del XV secolo, e del sommo Andrei Rublëv in particolare, a partire dai suoi modelli bizantini (chiarendo cosi, retrospettivamente, anche aspetti decisivi di tutta l’arte paleocristiana); Le porte regali impongono una drammatica comparazione tra forme di civiltà, sulla differenza che sembra avere per sempre deciso la spiritualità dell’Europa orientale da quella occidentale.
Una comparazione che in Florenskij diviene perentorio giudizio, quasi ad assumere la forma dell’aut-aut. Da una parte, l’opera che rivela, che apre il Velo e permette di intuire il Realissimo; dall’altra parte, l’Occhio sovrano del poietes, dell’artista-poeta, che dispone la sua materia secondo la sua prospettiva. Da una parte, l’opera che fa tutt’uno col culto; dall’altra, la creazione che si pretende “libera”, e che per Florenskij è invece incatenata, come i prigioni della Caverna platonica, alla rappresentazione delle apparenze, delle ombre del Reale. L’icona vive sulla soglia, trova il proprio luogo appunto sull’Iconostasi che distingue lo spazio dei fedeli dal Sacro in sé inaccessibile. -Nel mostrare la abissale differenza tra i Due, l’icona è segno a un tempo dell’Invisibile stesso. Custode del mistero nel momento in cui lo esprime. Il mondo della sua immagine è puramente metafisico; l’immagine dell’icona è mundus imaginalis in sé, non in relazione a quello dell’esperienza sensibile.
È questo un destino dell’immagine e dell’immaginare da cui l’Occidente sembra separarsi per sempre con la grande svolta segnata da San Francesco, Cimabue, Giotto, Dante: qui la Luce taborica dell’Icona si incarna nella sofferenza, nel dramma storico delle figure fino a esserne inghiottita. E tuttavia Florenskij, grande teorico anche dell’arte dell’avanguardia russa, sa bene quale poderosa nostalgia per l’icona, per il suo pathos anti-soggettivo, anti-romantico, rinasca proprio nel Novecento!
Le forme fondamentali in cui una civiltà si esprime difficilmente muoiono, scompaiono, piuttosto, e altrettanto imprevedibilmente possono in altri modi risorgere. Ciò fa di Le porte regali un testo imprescindibile anche per la filosofia dell’arte contemporanea.
Non si intenderebbe però l’importanza filosofica del grande saggio florenskijano se non lo si leggesse alla luce dell’idea di Verità svolta nel suo capolavoro La colonna e il fondamento. Non si conosce veramente se non divenendo uni-sostanziali all’altro, non semplicemente simili. Non vi è verità nella semplice corrispondenza tra forme dell’intelletto e l’apparire delle cose. Anzi, l’errore è già contenuto nel chiamare “cose”, e cosi reificare, gli essenti reali di cui facciamo esperienza.
Conosciamo vera-mente soltanto il vivente che amiamo, e di cui, amandolo, vogliamo partecipare in toto. La Verità integra, eterna, luminosa, sovra-luminosa si rivela soltanto quando, usciti dalla caverna dell’Io, amiamo il vivente amando Dio che è Amore. Questa idea di Verità, che ha origini neo-platoniche, e che Zolla pone giustamente in relazione con le grandi metafisiche dell’Iran, sembra essersi separata per sempre da quelle dominanti nell’Occidente, tutte, per Florenskij, nient’altro che rappresentazioni del nostro esserci storico (e perciò memoria o oblio di eventi temporalmente determinati). E tuttavia, di nuovo, come intendere nelle sue radici il nostro stesso destino se non comparandolo al paradigma che Florenskij gli oppone? Due civiltà, eppure entrambe appartenenti all’Europa o Cristianità. Un agon, una lotta nello stesso cuore? Questo mi sembra certo: che cessando tale lotta, cesserà di battere questo cuore. Evento che molti segni affermano già essersi compiuto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE -- Guida al nuovo occidente senza "utopia" e "profezia" (Cacciari e Paolo Prodi).
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
«La cattedrale sommersa» di Silvia Ronchey (Rizzoli)
Il sacro fa perdere le sue tracce e riappare nello sguardo che ti guarda
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 11.11.2017)
Qual è il libro che ti porteresti in un’isola deserta? A questa domanda, frequente nelle interviste, pare che Silvia Ronchey abbia risposto: «I 161 volumi di Jacques Paul Migne nei quali è raccolta tutta la patristica greca». Risposta provocatoria, se vogliamo, tuttavia assolutamente comprensibile per una bizantinista che sa come in quelle pagine scritte nella solitudine abbacinante dei deserti o nelle celle nascoste dei conventi, in Licia e in Siria, a Cesarea e Alessandria, non è testimoniata soltanto la gigantesca lotta condotta dai Padri della Chiesa, nei primi secoli dopo la morte del Salvatore, per interpretare e difendere il messaggio cristiano, ma sono riflessi il pensiero e la cultura greca, il mondo bizantino, il pensiero e le religioni del vicino Oriente. Del resto lei stessa - curiosa di tutto, ansiosa di confrontare le tradizioni con le tradizioni, la storia con la storia, il pensiero con il pensiero, e naturalmente il passato con il presente - è una studiosa irrequieta che non ama fermarsi nel suo orto.
Questo, da bizantinista quale è, le permette di spaziare nelle pagine del Cantico dei cantici come in quelle dei mistici islamici, di incrociare Gesù e Buddha, Dioniso e Agostino, Ildegarda di Bingen e Caterina da Siena, Bisanzio e l’Occidente, le eresie e i vangeli gnostici, l’iconoclastia e Florenskij, le icone e Andy Warhol, senza dimenticare Elémire Zolla e Montale. E il suo nuovo libro, La cattedrale sommersa (Rizzoli) - che giustamente, avendo l’immagine proustiana della cattedrale nel titolo, ha per sottotitolo Alla ricerca del sacro perduto - ne è la manifestazione immediata e affascinante.
Trasportato dalla medesima irrequietezza e dalla medesima curiosità di chi lo ha scritto, il lettore attraversa «la bellezza quasi intollerabile del Sinai» fino al convento di Santa Caterina, scoprendo come questa bellezza nasca dalla sacralità dei luoghi e, dunque, come il creato sia una «soglia di comunicazione tra umano e divino»; penetra nei sotterranei del culto di Mithra, «il dio emerso dalla profonda Persia mazdèa, che a sua volta lo importava dall’India vedica» per scoprire, insieme alle coincidenze delle date col calendario cristiano, che la forza del mitraismo consisteva non solo nella sopravvivenza dell’anima, ma nella resurrezione della carne; dalle mura di Costantinopoli, la città sacra alla dea Artemide che recava sulla fronte il segno della falce, contempla la falce di luna che il 24 maggio 1453, 5 notti prima che la città fosse conquistata dai turchi, apparve nell’aria «senza nubi, limpida e pura come il cristallo», e la confronta con la falce di luna che Giovanni, nel dodicesimo capitolo della Apocalissi pone sotto i piedi della Madonna; partecipa al rapimento dionisiaco, a quell’infrangersi improvviso delle leggi e delle abitudini che regolano la nostra vita, in cui si mescolano, nel furore, conscio e inconscio, dualità e cosmo; a Siena, nella cosiddetta Cappella della Testa della basilica di San Domenico, osserva la testa mummificata di Santa Caterina e capisce come siano vere le parole di Michel de Certeau, quando descrive il mistico come la persona che vuole «offrire un corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla verità».
Il tema del «confine», della soglia sottile, invalicabile, non rappresentabile - eppure rappresentabile - fra l’umano e il divino, è il filo conduttore presente in quasi tutti i capitoli de La cattedrale sommersa . Più che altrove, Silvia Ronchey lo approfondisce nel breve saggio contenuto nel volume e intitolato A mia immagine , nel quale parla del volto, e nel capitolo dedicato alle icone. Ogni rappresentazione del volto che voglia essere figurativa - dice in sintesi, e con una bellissima intuizione, la Ronchey - è falsa: perché «l’immagine vera non è quella che si guarda ma quella da cui si è guardati, il cui sguardo ci attrae verso un’altra dimensione, ci avvicina all’enigma dell’essere», insomma ci trasporta oltre. Come fanno le icone, che ci guardano, e guardandoci in quella fissità irreale, lentamente ci fanno comprendere come la linea del confine è all’interno di noi, nella nostra psiche, dove il visibile si alterna all’invisibile, la chiarezza all’enigma. E come - vorremmo aggiungere - accade nei Vangeli. Nei quali Gesù parla per enigmi. E dove non esiste neppure una riga, neppure una parola spesa per descrivere il suo volto.
La fede nei numeri
Dietro l’equilibrio di Piero della Francesca c’è una religione matematica che unisce le cose e lo spirito
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 13.12.2016)
Guardatela bene questa Madonna che occupa lo scomparto centrale del Polittico della Misericordia, dal 6 dicembre in esposizione a Palazzo Marino di Milano, ma abitualmente conservata alla Pinacoteca civica di Sansepolcro. Sembra un’icona che chiude un’epoca; invece, essa inaugura un nuovo modo di rappresentare.
Piero della Francesca, originario di un borgo nei pressi di Arezzo (1420-1492), si considerava anzitutto un matematico, capace di utilizzare figure e numeri per rendere visivamente la solenne armonia del divino personaggio. Si staglia sul fondo oro il corpo della madre di Gesù, che offre a chi la contempla una perfetta simmetria geometrica, degna di un appassionato lettore degli Elementi di Euclide - anche se l’autore greco non sembra ricorrere alla simmetria nello sviluppare le sue dimostrazioni!
Ma non è solo qui che possiamo cogliere l’intreccio tra matematica e arte che si riscontra in un personaggio eccezionale come Piero. Il quale è uno di quei «toscani» che hanno creato «la dolce prospettiva», come amava chiamarla un altro di loro, Paolo Uccello (1397-1475). In realtà, la creazione di questa disciplina era attribuita a un architetto come Filippo Brunelleschi (1377-1446) ed era diventata una delle tecniche preferite dagli artisti più coraggiosamente innovatori.
L’idea, in breve, consisteva nel considerare il piano ove va dipinta una qualche scena tridimensionale come uno schermo di vetro, attraverso cui si poteva osservare quel che deve essere raffigurato proprio come abitualmente possiamo osservarlo attraverso una finestra di casa. Dall’occhio dell’artista, che va tenuto fisso in una data posizione, si immaginava che uscissero raggi di luce che raggiungevano ogni punto della scena.
Questo insieme di linee rette era detto «proiezione»; e là dove ciascuna di esse intersecava lo schermo di vetro si segnava un punto sullo schermo. Questo insieme di punti, detto «sezione», creava sull’occhio la medesima impressione dello scenario osservato dal pittore! Questo sistema «della proiezione e della sezione» si doveva applicare a qualsiasi rappresentazione di qualcosa di reale, o anche di semplicemente immaginato.
C’erano delle regole. Se si supponeva che la tela fosse tenuta nella normale posizione verticale, la perpendicolare che va dall’occhio alla tela l’intersecava in un punto che sarebbe diventato noto come «punto di fuga»; e la retta orizzontale che passava per il punto di fuga era la linea d’orizzonte, in quanto, se lo spettatore guardava attraverso la tela verso lo spazio aperto, tale retta corrispondeva all’orizzonte reale.
Il vincolo più importante era che tutte le linee orizzontali nella scena che fossero perpendicolari al piano della tela dovessero venire tracciate sulla tela medesima in modo da incontrarsi nel punto di fuga.
Non è così strano: ci basta pensare all’esempio delle rotaie ferroviarie che apparentemente convergono in lontananza! Il punto di fuga non era altro che il punto, inesistente nella realtà, verso cui sembravano «fuggire» tutte le rette parallele della scena. Doveva poi diventar noto, grazie all’apporto di matematici come Johannes Kepler (1571-1630) e Girard Desargues (1591-1661), come «punto all’infinito».
Quanto a Piero, nei suoi scritti, tra cui spicca il De prospectiva pingendi , non esitava ad affrontare anche problemi che non sembravano facilmente applicabili alle tecniche pittoriche dell’epoca. Si sentiva, piuttosto, uno che oggi chiameremmo un matematico applicato, persino maniacale nel modo in cui presentava i suoi «teoremi» seguendo lo stile di Euclide.
Forse più di ogni altro artista del Rinascimento, persino più del grande Leonardo, doveva considerare questa scoperta matematica della realtà il modo per costruire un’arte della pittura che andasse oltre al semplice artigianato e diventasse una professione per autentici maestri.
Non paia scandaloso accostare a Piero una battuta di uno dei maggiori logici e filosofi del Novecento, Bertrand Russell: il lavoro del matematico crea via via «un cosmo ordinato dove il pensiero puro può abitare come nella sua dimora naturale e noi possiamo sfuggire al tetro esilio del mondo attuale».
Le due figure sono accomunate da una prospettiva della visione del mondo concessa solo a loro
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 10.09.2016)
Polifemo, figlio di Poseidone, viene sconfitto dall’eroe Odisseo con un gesto cruento: accecando il suo unico occhio. Tre millenni dopo un altro eroe ricorderà il Ciclope osservando la Terra, Gaia, in tutto il suo splendore attraverso l’occhio dell’oblò di una navicella spaziale. Due storie, un solo mitologema: l’essere dell’antichità mitologica ed il rappresentante della mitologia moderna si ritrovano accomunati nella visione del Mondo attraverso una prospettiva che solo a loro era concessa; Polifemo e Gagarin condividono lo stesso sguardo.
Ulisse e la sua Metis
Nessun altro all’infuori del politropos Ulisse, l’uomo della metis umana - l’intelligenza accorta ma anche l’inganno, la cui ipostasi sul piano divino è Atena - poteva concepire ed eseguire un atto così significativo del passaggio tra le vecchie Potenze telluriche femminili, generate dalla Grande Madre Gea, ed i nuovi dei olimpici dominati dal patriarca Zeus. Ciclope significa «dall’occhio circolare», come quello dell’obiettivo di una macchina fotografica, piantato nel bel mezzo della fronte a dargli una visione perspicua. Ciò che Ulisse vuole accecare è dunque proprio lo sguardo arcaico di Polifemo, la pupilla che coglie ancora la luce di un Mondo dominato dalle Potenze legate alla ciclicità dell’esistenza, nate dall’auctoritas di Gaia.
Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Metis era in origine una oceanina sposata da Zeus in prime nozze come potente alleata nella lotta che lo condusse al trono. Esiodo, nella Teogonia, ci narra a proposito di Metis come: «Zeus re degli dei per prima fece sua sposa Metis, che moltissime cose conosce tra gli dei e gli uomini mortali. Ma quando lei stava la dea Atena occhio azzurro per partorire, allora ingannatone il cuore con un tranello con parole insinuanti la pose giù nel ventre».
Il Cronide ha dunque assimilato la dea, cosi ci dice Esiodo, poiché senza la sua metis non avrebbe potuto vincere la lotta per il potere, né tantomeno mantenerlo. Sul piano umano la metis di Ulisse consentirà all’eroe di vincere la guerra di Troia e di fare infine ritorno ad Itaca, ma al prezzo, tra gli altri, di «incatenare» il suo tuffo verso la verità archetipiche espressa dalle Sirene, Potenze femminili legate ad un tempo anteriore all’ordine olimpico.
Si suol dire, come ci ricorda W. Otto, che il mutare dei bisogni dell’esistenza umana è ciò che si esprime nella formazione dell’immagine di Dio. Nella saga omerica le forme della fede e del loro culto presso i Greci sono già fissate, perché provengono da un’epoca ancora più lontana: quella che ci descrive il cantore cieco è allora l’essenza della grecità come anima dell’Occidente. Ulisse è, in questo quadro, l’eroe omerico per eccellenza, il protagonista di una epopea che descrive attraverso il racconto delle sue avventure la visione del mondo che si va affermando, di quell’agire politico e della filosofia che imprimeranno il loro sigillo sino alle Colonne d’Ercole.
Ben lo descrivono in questa sua funzione Adorno ed Horkheimer ne La dialettica dell’illuminismo in cui Odisseo è il prototipo dell’eroe colonialista e proprietario, un sovrano che deve raggiungere il suo regno e vendicarsi degli altri nobili per ristabilire il comando. Ed a questo scopo, che è poi l’essenza della missione che viene supportata attivamente da Atena - nata dalla testa del padre affinché la madre nulla potesse togliere al suo potere - bisogna non solo conquistare Troia e prendere così il comando sulle sue rotte commerciali ma, soprattutto, imporre una nuova prospettiva, un immaginario che sussuma il precedente.
A questo fine è necessario distruggere il vecchio mondo delle Potenze proteiformi legate agli elementi naturali, governato dalla immutabile legge della ciclicità, della nascita, della vita, della morte e della rinascita: il mondo della Grande Madre.
La nascita dell’Occidente è dunque legato alla Grecia antica, ai suoi dei, alla sua filosofia, alla sua politica, ma anche ad una visione imperialista e conquistatrice che poi Roma porterà a potenza. Ed alla base di questo grande esperimento, che l’uomo contemporaneo paga al duro prezzo del disincanto, del non comprendere più le ragioni del Mondo che lo circonda, troviamo la scissione tra mondo dentro e mondo fuori di noi; l’eroe omerico è un conquistatore che deve azzerare prima di tutto dentro di sé il potere delle antiche voci che lo richiamano all’essere tutt’uno con il Mondo perché, al contrario, lo deve dominare estraniandosene. Ecco che gli antichi poteri legati alla Terra divengono una congenere di mostri da uccidere o di ostacoli da superare, in ogni caso non da comprendere ma da dominare.
E allora, l’Odissea celebra questo passaggio tra le antiche divinità legate agli elementi, tutte innervate col cuore stesso delle realtà che rappresentano, impastate di terra e di sangue, custodi, come le Erinni nei confronti di Oreste di quelle regole inviolabili che sanciscono l’ordine naturale ed immutabile delle cose, e un «ordine nuovo» in cui è l’uomo a comandare su di esse, e gli dei sono distanti e distinti perché comunque immortali. Ed anche se il divino è a fondamento di ogni essere ed accadere, e se nessuna azione umana sarà compiuta senza di essi, gli dei al massimo potranno irritarsi perché gli umani vogliono andare al di là dei loro limiti - il terribile peccato della hybris - dato che è il regno olimpico quello che veramente conta per loro.
Walter Otto nel suo Gli dei dell’antica Grecia descrive benissimo questo passaggio generazionale tra una serie di Potenze ed un‘altra, quando chiarisce prima di tutto la natura degli Olimpici dichiarando che essi «sono ben lontani dal voler redimere il mondo ed attirare a loro gli uomini». L’antica fede, quella preomerica, è terrestre e attaccata all’elemento, come l’antica esistenza medesima. Terra, generazione, sangue e morte sono le grandi realtà che dominano tale fede. Le divinità che rappresentano questa concezione del Cosmo e della Vita sono una pluralità, ma convergono tutte verso la Terra, tutte partecipano della vita e della morte. Ciò, evidentemente, le contraddistingue radicalmente dalle divinità olimpiche che non appartengono alla Terra né tantomeno hanno a che fare con la morte, essendo immortali. Questo non significa che esse scompaiano, ma che vengono mantenute nello sfondo, la loro potenza viene lasciata sussistere «in secondo piano». Sono rispettate per quello che ancora rappresentano, ma vinte, come Prometeo nella tragedia di Eschilo: il coro delle Oceanine piange la sua sorte e poi cala con lui nell’abisso.
Ed è proprio dal limite dei limiti, quello della stessa vita umana condannata alla morte nell’ordine delle cose, che l’Occidente vorrà affrancarsi progressivamente. Nietzsche ci ricorda tutto questo ne La nascita della Tragedia quando descrive il passaggio della più sublime forma d’arte, la Tragedia, dal ciclo di Dioniso - l’archetipo della vita indistruttibile - alle vicende umane.
Ulisse e la prospettiva
E dunque su cosa si gioca il conflitto tra Ulisse ed il Ciclope? Sulla prospettiva. L’eroe omerico ha già una visione prospettica moderna del mondo, possiamo dire, mentre il Ciclope lo guarda ancora da una prospettiva arcaica. Che significa? Anche se la storia della pittura ci dice che la prospettiva è stata «scoperta» nel Rinascimento, sappiamo che anche nei tempi antichi gli artisti la conoscevano bene.
Sarebbero stati possibili i templi egizi o le scene che facevano da sfondo alle tragedie classiche se così non fosse? Avrebbe Tolomeo proiettato su una superfice piana la Terra se non l’avesse conosciuta? Solo che, come ci dice Pavel Florenskij nel suo La prospettiva rovesciata, «non la volevano usare». La spiegazione di Florenskij, alla quale rinviamo per mancanza di spazio e perché la sua chiarezza espositivo-argomentativa è da noi irraggiungibile è, in sintesi estrema e rozza, che la prospettiva rinascimentale è una delle tante modalità di visione del mondo, non certo l’unica e che, al contrario di ciò che si suole far credere, deforma la realtà imponendo un punto di vista falsamente realistico che, invece di chiarire la nostra relazione con la mutabile realtà delle cose, con la loro vera essenza, le cristallizza in una istantanea fasulla che le svuota del loro contenuto essenziale, numinoso.
Florenskij contrappone alla visione rinascimentale quella della pittura medioevale, in particolare delle icone bizantine, in cui l’apparente mancanza di prospettiva, o addirittura il suo rovesciamento - cioè dove le cose più lontane sono più grandi di quelle vicine - rende pienamente, secondo lui, a chi sa vedere, la realtà simbolica del divino, costruisce le porte attraverso le quali il credente può trovare la via per il sacro che emana da tutte le cose. E allora, chiosa l’autore de Le Porte regali, lo sfavillante saggio sull’iconostasi, la falsa prospettiva rinascimentale è uno dei dispositivi della modernità, cioè di quella Weltanschauung che scinde l’uomo da se stesso e lo riduce a falso osservatore di una realtà altrettanto artificiosa quanto lo è la sua relazione col Mondo.
E dunque la prospettiva rinascimentale o, meglio, la sua scelta tra le altre, serve per governare il mondo rendendolo artificialmente omogeneo allo sguardo, ne semplifica la complessità non per comprenderlo ed esserne compresi, ma per dominarlo.
Una vera prospettiva, totale, ci dice giustamente Florenskij, sarebbe possibile solo osservando il Mondo da un occhio solo, posto al centro della fronte, come il Ciclope appunto. Ed è per questo che Ulisse lo acceca, forgiando da una albero di ulivo, perché sacro ad Atena, un palo dritto ed acuminato, strumento tecnico che azzererà la visione di Polifemo dimostrando la superiorità della tecnè umana di fronte alle Potenze antiche, tecnè di cui i nuovi dei olimpici sono garanti.
Ogni verso del Canto IX dell’Odissea è un inno a questo sorpasso. Altre cose sono da notare: l’albero di ulivo è storto, come il «legno storto dell’umanità» di cui dice Isaiah Berlin nell’omonimo saggio. Eppure Ulisse ed i suoi uomini, con l’aiuto di Atena cui quel legno è comunque sacro, lo rendono diritto, affermando una capacità di ingegno che, invece, il Ciclope non ha; basti pensare al fatto che non riesce neanche a palpare le pecore sino al ventre per stanare i suoi aggressori in fuga. Altro particolare degno di nota è che solo in questo caso Ulisse va alla ricerca di un pericolo, mentre negli altri Canti è lui a dover salvare i compagni. Significa che questa avventura ha un significato preciso, il cui simbolismo appare chiaro nell’economia dell’opera.
E così, se leggiamo il presente ripercorrendo i significati simbolici del passato, possiamo ben dire che la nostra modernità non è che la continuazione dell’antichità classica con altri mezzi, ad esempio con la centralità del ruolo del danaro, il nuovo dio unico della nascente borghesia, figlia delle signorie rinascimentali. Non a caso il monumento simbolo della modernità borghese, come ci dice Franco Farinelli nella sua Geografia, è il Portico degli Innocenti, in cui per la prima volta il Brunelleschi costruisce un luogo attraverso il quale la prospettiva, la «falsa prospettiva» direbbe Florenskji, si afferma.
Firenze è la patria delle banche, del denaro che foraggia la guerra, ma soprattutto dell’esportazione di questa nuova prospettiva sul Mondo, di una visione proprietaria del globo che attraverso le «scoperte» di quegli anni, prima tra tutte l’America, diventerà il terreno di conquista per chi non solo ha la forza militare, ma disegnerà le carte che ne sanciranno i confini attraverso la geografia politica. Ma conquistatori non lo erano stati forse anche i Greci? E per dominare il Mondo non avevano dovuto anch’essi ridisegnarlo a loro immagine?
Lo sguardo di Gagarin
Ma nel secolo passato, in piena modernità, anzi forse all’inizio di questa sua ultima fase, c’è stato un uomo che ha visto con i suoi occhi ciò che nessun’altro aveva mai visto prima, che ha potuto fare una esperienza unica, irripetibile: la Terra osservata dallo spazio, finalmente tutta intera. Questo uomo è Jury Gagarin, il primo cosmonauta della storia. Lui ha colto Gaia nel suo insieme, nella sua forma reale, dal vivo, dall’alto, in tutto il suo incanto come solo gli dei avevano potuto fare sino a quel momento.
Anche Polifemo, dal suo punto di vista, è il caso di dirlo, vedeva la Terra dall’alto: Omero, infatti, ci dice che era «alto come una montagna», dunque il suo occhio osservava da un luogo elevato che gli consentiva uno sguardo sull’insieme poiché, a quei tempi, da una montagna si dominava tutto il Mondo raggiungibile.
Omero ci dice che l’occhio di Polifemo era tondo, come il Mondo, ma mai nessuno questo Mondo, questa Grande Madre resa splendente dal mantello del suo sposo Urano, come ci narra Ferecide di Siro, l’aveva guardata negli occhi. Gagarin la guarda dall’oblò della Sojuz, la navicella spaziale poco più grande di un bidone di petrolio, e vede ciò che tutti gli altri avevano solo immaginato, poetato, cantato, sognato.
Ulisse aveva addirittura accecato Polifemo per negargli questo sguardo e ridurre il Mondo alla sua dimensione umana. Astolfo si spinge sino alla Luna per recuperare il senno di Orlando, e da lassù guarda la Terra; prima e dopo di lui generazioni di visionari hanno immaginato ciò che Gagarin ha finalmente ammirato.
Dell’impresa del Sovietico si parla sempre in termini scientifico-politici: la corsa allo spazio, la competizione con gli Usa. Ma esiste un aspetto tutto immaginale, psichico, di quel primo viaggio in orbita che ci dice del suo significato simbolico, di quella Odissea nello spazio che cominciava 55 anni or sono, il 12 Aprile del 1961.
Ed infatti, la domanda più incognita era proprio: riuscirà Gagarin a sopportare la visione della Terra vista dallo spazio? La sua mente resisterà ad una immagine che nessun uomo ha mai visto, che non ha luogo se non nel Mundus Imaginalis dell’umanità ma non nella sue esperienza concreta? Ed il cosmonauta sovietico non tradisce le aspettative: da vero eroe fonda un nuovo mito, quello dell’uomo che riesce a comprendere dentro di sé la vastità del Mondo, la sua bellezza senza confini, il suo splendore senza padroni. Così lo descrive guardandolo dall’oblò della capsula, attraverso una prospettiva vera poiché il suo sguardo non solo era canalizzato da un unico punto di osservazione, ma soprattutto perché era come attirato dall’essenza luminosa di Gaia, focalizzato verso il suo invisibile centro simbolico. Nella visione di Gagarin Gaia riprende la sua podestas sullo sguardo degli uomini, il mondo delle Potenze che generarono Polifemo rinasce per un istante nella visione del cosmonauta. Esattamente il contrario di Ulisse.
La forza di queste suggestioni mitologiche è tanto forte che nei voli spaziali, più che in qualunque altra attività umana, ritroviamo i nomi delle antiche divinità: dai vettori come Atlas-Agena ai programmi come Mercurio e Apollo. Ma, anche qui, preponderanti sono le divinità olimpiche, quelle che abbiamo messo al posto di Gaia. La visione di Gagarin, cosmonauta e non astronauta, non conquistatore degli astri dunque ma vagabondo delle stelle, ha brillato forse per una sola orbita, ma grande quanto quella vastità cosmica che un tempo abbracciava l’occhio di Polifemo.
Florenskij, da Platone alla Trinità
di Armando Torno (Corriere della Sera, 04.03.2012)
Pavel A. Florenskij (1882-1937) si cominciò a conoscere in Italia allorché Alfredo Cattabiani, direttore della Rusconi, fece tradurre nel 1974 La colonna e il fondamento della verità, l’opera più fascinosa del pensatore russo. Da allora le versioni si sono moltiplicate e la figura di Florenskij - teologo oltre che filosofo, esperto di scienza e tecnica oltre che di iconologia - è diventata nota.
In questi giorni ritorna Il significato dell’idealismo (Se, pp. 175, 20) nella versione riveduta di Rossella Zugan, con una postfazione di Natalino Valentini (prima edizione italiana, Rusconi 1999). Pagine che contengono le riflessioni che Florenskij scrisse per il platonismo o il problema degli universali; tuttavia in esse le analisi toccano i temi dell’arte, della teologia e del misticismo. Particolarmente attuali sono le parti che trattano la «dissoluzione della personalità in Picasso» o quelle dedicate a «l’idea, il volto, lo sguardo». Ovviamente il punto di partenza è Platone. Quello di arrivo, invece, sono le «prefigurazioni della Trinità».
Un inedito sull’educazione
La lezione di una lunga passeggiata
di Pavel Florenskiy *
Nel 1910 giovane docente dell’Accademia teologica di Mosca, Florenskij iniziò un corso di lezioni sulla storia della filosofia. Quando le diede alle stampe, nel 1917, vi premise una breve introduzione metodologica, dove, esponendo la sua originale didattica, metteva in gioco i principi fondamentali del suo modo di concepire l’insegnamento. Queste brevi pagine, spesso citate ma fino a oggi inedite in italiano, saranno pubblicate nel prossimo numero della rivista "La Nuova Europa" che quest’anno compie cinquant’anni di attività, nell’articolo "Lezione e lectio", che riportiamo integralmente.
di Pavel Florenskij
Benché pòiema significhi esattamente "creazione", dovremmo rimanere giustamente perplessi se ci si mettesse a chiamare indifferentemente "poema" qualsiasi creazione. Ma c’è un genere particolare di opera letteraria che ha perso qualsiasi specificazione, al punto che la sua natura finisce per identificarsi col significato etimologico del suo nome. Si tratta appunto della lezione. Giustamente lectio significa lettura.
Ma attaccandosi a questo appiglio linguistico, capita spesso che si applichi il nome "lezione" a qualsivoglia opera letteraria, dissertazione scientifica, articolo di rivista o appendice di giornale, purché venga letta (o pronunciata) davanti a un pubblico; così facendo non si tiene però conto del fatto che, sebbene il nome lezione derivi da lectio, le due cose non sono affatto uguali. Sono concetti subordinati: da un lato non necessariamente una lectio è una lezione, e dall’altro non necessariamente una lezione dev’essere letta davanti a degli uditori, ossia essere una lectio, perché le lezioni possono venire alla luce anche direttamente in forma stampata.
Potrà sembrare che siano ragionamenti eccessivamente scolastici e che si tratti soltanto di una disquisizione sui termini. Sì; ma per colpa dell’imprecisione nell’uso delle parole, finisce che il genere stesso delle opere letterarie cui si può legittimamente attribuire il nome di "lezione" perde la sua fisionomia specifica; un nome nebuloso impedisce di riconoscere distintamente le prerogative che si richiedono a una lezione dal punto di vista della forma, e la lezione, senza che l’autore se ne renda conto, finisce per confondersi con altri generi letterari.
All’atto di dare alle stampe una serie di saggi - un ciclo di lezioni che aveva lo scopo di esaminare lo snodo del pensiero antico in cui la filosofia greca si salda organicamente con la religione greca, all’epoca del Rinascimento ellenistico del VI secolo - l’autore ritiene necessario indicare alcune caratteristiche, che definiscono la natura della lezione in quanto tale. E dunque, cos’è una lezione? È innanzitutto un genere particolare di opera letteraria di carattere didattico, ossia scolastico (non scientifico). E tuttavia un libro di testo, ancorché lo si legga dalla cattedra, non diventerà mai per questo una lezione né un corso di lezioni.
Il rapporto che c’è tra il libro di testo e il corso di lezioni è paragonabile al rapporto che c’è tra il meccanismo e l’organismo. I primi termini di questa proporzione (libro di testo, meccanismo) sono costruiti secondo un piano prestabilito, studiato fin nei minimi particolari ed esterno rispetto al materiale che realizza questo piano e quindi assolvono il loro compito proprio alla perfezione ("con la precisione di un meccanismo") anche se, a dire il vero, entro un cerchio già stabilito e con un diametro infinitesimale.
I secondi termini della proporzione (lezione, organismo) invece, si caratterizzano per la naturalezza e la libertà della costruzione, e proprio in forza di questo hanno un funzionamento multiforme, imprecisabile a priori; in compenso, però, non arrivano alla precisione assoluta nelle proprie azioni ("l’uomo vivo non è una macchina"); la loro crescita è un atto di creazione che si manifesta in ogni dettaglio della loro struttura, mentre il libro di testo e il meccanismo, a essere precisi, non crescono nemmeno ma semplicemente vengono messi insieme, costruiti con parti preconfezionate.
Al contrario, pur attenendosi rigidamente alla direzione generale, alla corrente generale, a un generale progetto di pensiero, in un corso di lezioni, la lezione non procede in linea retta, totalmente rinchiusa in una formula razionale ma, come l’essere vivente, sviluppa i propri organi, rispondendo ogni volta alle esigenze che si manifestano in corso d’opera. In tal senso non sarebbe fuori luogo definire la lezione ideale una sorta di colloquio, di conversazione tra persone spiritualmente prossime.
La lezione non è un tragitto su un tram che ti trascina avanti inesorabilmente su binari fissi e ti porta alla meta per la via più breve, ma è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale ben preciso, o meglio, su un cammino che ha una direzione generale ben precisa, senza avere l’unica esigenza dichiarata di arrivare fin lì, e di farlo per una strada precisa. Per chi passeggia è importante camminare e non solo arrivare; chi passeggia procede tranquillo senza affrettare il passo.
Se gli interessa una pietra, un albero o una farfalla, si ferma per guardarli più da vicino, con più attenzione. A volte si guarda indietro ammirando il paesaggio oppure (capita anche questo!) ritorna sui suoi passi, ricordando di non aver osservato per bene qualcosa di istruttivo. I sentieri secondari, persino l’assenza di strade nel fitto del bosco lo attirano col loro romantico mistero. In una parola, passeggia per respirare un po’ di aria pura e darsi alla contemplazione, e non per raggiungere più in fretta possibile la fine stabilita del viaggio, trafelato e coperto di polvere. Allo stesso modo, l’essenza della lezione è la vita scientifica in senso proprio, è riflettere insieme agli uditori sugli oggetti della scienza, e non consiste nel tirar fuori dai depositi di un’erudizione astratta delle conclusioni già pronte, in formule stereotipate.
La lezione è iniziare gli ascoltatori al processo del lavoro scientifico, è introdurli alla creazione scientifica, è un modo per insegnare attraverso l’evidenza e addirittura sperimentalmente un metodo di lavoro; non è la semplice trasmissione delle "verità" della scienza nella sua fase "attuale", "contemporanea".
Infatti che cos’è, in questo senso, la "verità" scientifica? Non è forse come il vento che non posa mai? Non è come l’onda che scivola via nell’instancabile risacca? Non è un processo inarrestabile? In una parola, non è un’energia viva, l’energèia, in contrapposizione alla cosa sclerotizzata, l’èrgon? Ma a parte questo, se la questione si riducesse esclusivamente alla trasmissione di "verità" già confezionate, la lezione diventerebbe assurda e priva di scopo.
Il libro di testo è sempre l’esito di un lavoro più ponderato della lezione; il libro di testo realizza questo compito infinitamente meglio di qualsiasi lezione. D’altra parte, leggere un libro di testo, anche il più brillante, a un intero uditorio in grado di leggere è un esercizio decisamente inutile dopo l’invenzione di Gutenberg. Sarebbe come se una cucitrice, messa da parte la macchina Singer, volesse cucire con una spina di pesce.
Ma se l’essenza della lezione è effettivamente tale, ne deriva un certo numero di segni particolari che differenziano fortemente la lezione da altri generi di opera letteraria. Innanzitutto, ha interesse per le minuzie, i particolari, i dettagli, le caratteristiche più infinitesimali che delineano il fenomeno studiato nella sua viva individualità e non solo "in generale", schematicamente. Sia l’oratore che l’ascoltatore si sentono nella situazione di un uomo che non è assolutamente obbligato a galoppare sui cavalli di posta, ma ha il diritto di perdere un po’ di tempo con il sassolino o il filo d’erba che, fuori programma, hanno attirato il suo interesse.
È pur vero che i dettagli di questo genere devono necessariamente essere concentrati lungo il filo rosso della trattazione, proprio come per il nostro viandante gli oggetti della sua attenzione si susseguono lungo il sentiero; ma non sempre questi dettagli discendono dal pensiero portante della lezione in modo logico-razionale: talvolta il loro legame con l’idea generale del corso è psicologico (per associazione), o estetico (perché ci vuole un po’ di varietà, per fare una pausa, o, diremmo, come fioritura), oppure, se non sbaglio usando questa espressione, didattico, suscitato da riflessioni del tipo: "Qui sarebbe il caso di comunicare il tal fatto istruttivo, o la tale teoria curiosa; lasciarli perdere sarebbe un peccato, e tornarvi sopra un’altra volta richiederebbe un giro troppo lungo".
Un buon libro di testo di solito è costruito in modo che eliminare questo o quel paragrafo vorrebbe dire rendere incomprensibili molte cose successive; mentre viceversa, tutto ciò che può essere eliminato senza compromettere la comprensione, diventa di per ciò stesso superfluo nel testo e deve essere eliminato.
Diversamente, in un corso di lezioni molti elementi che hanno realmente un legame organico col tutto e che vivono realmente della stessa vita del tutto, non derivano comunque dall’idea del tutto more geometrico, per necessità logica, e quindi possono anche essere respinti. Così, il getto secondario di una pianta, nella misura in cui si nutre della linfa dello stelo principale costituisce un corpo solo con questo; ma dall’idea della pianta intera non discende necessariamente che questo pollone collaterale debba crescere di sicuro. Talvolta un eccesso di steli secondari può danneggiare la pianta; allora è una questione di tatto individuale (e non di logica) decidere cosa, appunto, lasciar crescere e cosa recidere. Lo stesso avviene in un corso di lezioni.
Un’altra caratteristica specifica della lezione discende dal suo compito. La lezione, lo abbiamo già detto, non deve insegnare questo o quel genere di fatti, generalizzazioni o teorie, ma addestrare al lavoro, creare il gusto della scientificità, dare l’"innesco", il lievito all’attività intellettuale.
Non è tanto un principio nutritivo quanto essenzialmente fermentativo, cioè tale da portare la psiche dell’ascoltatore a uno stato di fermento. Questo effetto fermentante colloca la lezione, in quanto opera letteraria, all’estremo opposto dell’enciclopedia, del libro di testo, del vocabolario, il cui ruolo è esattamente quello di fornire materia per la fermentazione.
Quanto alla fermentazione della psiche, essa consiste nel gusto per il concreto acquisito per contagio; consiste nella scienza di saper accogliere con venerazione il concreto, nella contemplazione amorosa del concreto.
Del resto quest’ultimo, il concreto, è inteso qui nel senso dell’oggetto stesso della ricerca scientifica diretta, nel senso di fonte prima, che si tratti di una pietra e di una pianta o piuttosto di un simbolo religioso e di un monumento letterario. Questa gioia del concreto, questo realismo si manifesta in negativo come insoddisfazione interiore (non formale) per qualsiasi opinione intermedia sull’oggetto, che congeli l’oggetto e cerchi in ogni modo di spingere l’oggetto lontano dal centro dell’attenzione per mettersi al suo posto.
L’aspirazione a vedere con i propri occhi, a toccare con le proprie mani la fonte prima è ciò che fa nascere, appunto, l’atteggiamento scientifico, che è ben diverso dall’erudita dossografia, la descrizione delle opinioni altrui.
Così come sarebbe assurdo studiare botanica non sui vegetali vivi, o nemmeno sulle loro immagini fotografiche, ma in base alle loro descrizioni, allo stesso modo in qualsiasi attività scientifica cercare e vedere l’originale è l’impulso naturale di un pensiero autonomo. Il gusto del vino sincero è conoscibile solo da chi prende il vino dal produttore stesso, direttamente dalle sue mani o con la sua garanzia scritta; allo stesso modo anche gli oggetti naturali e autentici della ricerca mostrano il loro sapore solo quando li ricevi di prima mano dagli stessi creatori del pensiero geniale, con la loro garanzia scritta, oppure dalla contemplazione di alcune cose, fotografie eccetera, così come i fatti autentici delle scienze naturali si colgono soltanto attraverso l’osservazione diretta.
Viceversa, il commercio al dettaglio delle idee, sulle bancarelle o nei negozi, non meno della vendita al dettaglio del vino, porta sempre con sé delle adulterazioni e, soprattutto, aggiunte assolutamente inutili: è ben difficile che simili costruzioni si possano produrre da soli, a tavolino. Mentre il pensiero autentico, il fatto autentico sono aspri e talvolta acerbi, come il vino non adulterato.
Ecco perché al gusto della lezione, che indirizza l’attenzione degli uditori al concreto, alla fonte prima, bisogna prima abituarsi. Potrebbe sorgere la domanda: ma allora una lezione di cui si prendono appunti, e ancor meglio una lezione stampata e tanto più pubblicata, non è una contradictio in adiecto? Se la lezione è creazione immediata come si può fissarla sulla carta e, una volta fissata non perderà vigore, non si dissolverà la sua sostanza più vitale? Non perde così il diritto di esistere, una volta scritta? Direi di no.
Anche una cosa che permane nello scorrere del tempo (gli appunti) può avere come contenuto qualcosa di transitorio; anche una cosa mediata dalla scrittura può essere immediata; anche una cosa fissata può essere libera quanto al contenuto. Così il diario, una delle forme più libere e indisciplinate tra le opere letterarie, può essere trascritto e talvolta (raramente!) reso pubblico. Come il petalo di una rosa dipinta splenderà per sempre della rugiada mattutina sul punto di asciugarsi; come sul cilindro del fonografo una voce appena tremolante per l’incertezza viene afferrata per essere riprodotta innumerevoli volte con la stessa incrinatura momentanea; così nel diario e persino negli appunti di una lezione resta immobilizzato qualcosa che ha senso solo come creato "ora" e "immediatamente", e pur restando fissato, rimane per sempre creato "ora" e "immediatamente": questo foglietto ingiallito e sfatto, arde di oro eterno nel canto.
Quanto abbiamo detto finora vale per le lezioni perfette, che forse si danno raramente. È più un auspicio che non la descrizione dell’esistente. Quanto invece alle lezioni qui proposte, è necessaria una riserva. Naturalmente all’autore è difficile giudicare quanto gli sia riuscita la forma in cui sono esposte, ma il loro contenuto (e questo va affermato con ogni insistenza) non pretende di essere particolarmente originale, né d’essere rielaborato con particolare erudizione. Tutta la novità cui osa aspirare l’autore è costituita dall’idea generale, e da qualche soluzione originale di compiti specifici. E se alla fine si è deciso a rendere pubblica la propria fatica è perché ancora non esiste una simile sintesi fra i dati storico-culturali e religiosi e i dati storico-filosofici.
E faccio un’ulteriore riserva: la forma della lezione, che richiede per sua natura un certo dettaglio, una certa incisività, una certa stilizzazione dei giudizi, certe volte mi ha costretto a esprimermi con più decisione di quanto sarebbe ammesso in un’opera scientifica.
Ma non era possibile evitare le esagerazioni, perché l’assoluta cautela scientifica nel trarre conclusioni e fare valutazioni porterebbe con sé una miriade di distinguo e renderebbe il pensiero stesso poco persuasivo, gonfio e incolore. Tuttavia, questo è un fattore con cui ognuno deve fare i conti autonomamente.
Quanto all’autore, nel rivedere le lezioni per la stampa ha cercato di conservare il tono essenziale dell’esposizione, e si è permesso solamente qualche ritocco scientifico e letterario qua e là. Anche le "note" che seguono ogni lezione non possono restare senza una "nota". Il fatto è che attorno a ogni argomento trattato su queste pagine è cresciuta un’intera letteratura.
È possibile, ed è necessario prenderla in considerazione ogni volta per intero? Dirò di più: bisogna assolutamente dare delle indicazioni bibliografiche? Per l’autore la risposta è negativa: non importa quante opinioni ci siano o potrebbero esserci su un numero infinito di questioni.
Infatti non si può, perdendo ogni autostima, correre dietro a ogni parere, porgere l’orecchio a migliaia di voci! Tanto più che anche fra le voci erudite di solito i nove decimi sono pure chiacchiere. Al "piano inferiore" vengono riportate per lo più le opere in russo o i testi di carattere abbastanza generale. Mentre le indicazioni più specialistiche sarebbero state fuori posto in un’opera di divulgazione.
* © L’Osservatore Romano - 26 marzo 2010
Pavel Florenskij il sacerdote che sfidò la Chiesa e Stalin
di Vito Mancuso (la Repubblica, 29.05.2010
L’incontro con Pavel Florenskij ha segnato profondamente la mia vita e quindi questo articolo lo si deve intendere come una dichiarazione d’amore. L’occasione è la nuova edizione del capolavoro del 1914 La colonna e il fondamento della verità grazie al contributo encomiabile di Natalino Valentini, al quale si deve la cura di molti altri scritti, tra cui Bellezza e liturgia, l’epistolario dal gulag Non dimenticatemi e le memorie Ai miei figli.
Come ogni dichiarazione d’amore, anche questa si rivolge alla più intima umanità dell’interessato, a quel mistero personale non riassumibile nelle sue conoscenze. Dico questo per liberare Florenskij dall’incanto della sua genialità («il Leonardo da Vinci della Russia») per l’essere stato matematico, fisico, ingegnere, e, sull’altro versante, teologo, filosofo, storico dell’arte. Marito e padre di cinque figli, fu anche sacerdote ortodosso, status che gli costò la vita nel 1937. Essere sacerdote e insieme scienziato era una smentita vivente dell’ideologia comunista, per la quale la fede era solo ignoranza: la dittatura non poteva tollerarlo e non lo tollerò.
Da una lettera del 1917 emerge la sua inconfondibile personalità: «Nello spazio ampio della mia anima non vi sono leggi, non voglio la legalità, non riesco ad apprezzarla... Non mi turba nessun ostacolo costruito da mani d’uomo: lo brucio, lo spacco, diventando di nuovo libero, lasciandomi portare dal soffio del vento». Eccoci al cospetto di un nesso incandescente: dedizione assoluta per «la colonna e il fondamento della verità» e insieme vibrante ribellione a ogni legaccio della libertà.
Si comprende così come non solo per il regime ma anche per la Chiesa gerarchica il suo pensiero era ed è destabilizzante, tant’è che ancora oggi, nonostante il martirio, Florenskij non è stato beatificato. Durante la prigionia scriveva al figlio Kirill: «Ho cercato di comprendere la struttura del mondo con una continua dialettica del pensiero». Dialettica vuol dire movimento, pensiero vivo, perché «il pensiero vivo è per forza dialettico», mentre il pensiero che non si muove è quello morto dell’ideologia, che, nella versione religiosa, si chiama dogmatismo. Il pensiero si muove se è sostenuto da intelligenza, libertà interiore e soprattutto amore per la verità, qualità avverse a ogni assolutismo e abbastanza rare anche nella religiosità tradizionale.
Al riguardo Florenskij racconta che da bambino «il nome di Dio, quando me lo ponevano quale limite esterno, quale sminuimento del mio essere uomo, era in grado di farmi arrabbiare tantissimo». La sua lezione spirituale è piuttosto un’altra: la fede non è un assoluto, è relativa, relativa alla ricerca della verità. Quando la fede non si comprende più come via verso qualcosa di più grande ma si assolutizza, si fossilizza in dogmatismo e tradisce la verità. La dialettica elevata a chiave del reale si chiama antinomia, concetto decisivo per Florenskij che significa «scontro tra due leggi» entrambe legittime.
L’antinomia si ottiene guardando la vita, che ha motivi per dire che ha un senso e altri opposti. Di solito gli uomini scelgono una prospettiva perché tenerle entrambe è lacerante, ma così mutilano l’esperienza integrale della realtà. Ne viene che ciò che i più ritengono la verità, è solo un polo della verità integrale, per attingere la quale occorre il coraggio di muoversi andando dalla propria prospettiva verso il suo contrario. Conservando la propria verità, e insieme comprendendone il contrario, si entra nell’antinomia.
«La verità è antinomica e non può non essere tale», scrive Florenskij nello straordinario capitolo della Colonna dedicato alla contraddizione dove convengono Eraclito, Platone, Cusano, Fichte, Schelling, Hegel. Ma è per Kant l’elogio più alto: «Kant ebbe l’ardire di pronunciare la grande parola "antinomia", che distrusse il decoro della pretesa unità. Anche solo per questo egli meriterebbe gloria eterna».
In realtà questa celebrazione della vita aldilà del concetto è il trionfo dell’anima russa, quella di Puskin, Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Pasternak, e che pure traspare da molte pagine di Florenskij cariche di poesia. Per lui anche la Bibbia e la dottrina sono colme di antinomie, in particolare la Lettera ai Romani è «una bomba carica di antinomie».
Ma di ciò si deve preoccupare solo chi ha una concezione dottrinale del cristianesimo, non chi, come Florenskij, lo ritiene funzionale alla vita. Tra i due nomoi dell’antinomia non c’è però per Florenskij perfetta simmetria: operativamente egli privilegia il polo positivo. Pur sapendo bene che «la vita non è affatto una festa, ma ci sono molte cose mostruose, malvagie, tristi e sporche», non cede mai alla rassegnazione o al cinismo; al contrario insegna ai figli che «rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinnanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla».
Tale armonia non può venire dal mondo, dove regna l’antinomia, ma da una dimensione più profonda. La voglio illustrare con alcune righe del testamento spirituale, iniziato nel 1917, l’anno della rivoluzione, avendo subito intuito la minaccia che incombeva su di lui: «Osservate più spesso le stelle. Quando avrete un peso sull’animo, guardate le stelle o l’azzurro del cielo. Quando vi sentirete tristi, quando vi offenderanno, quando qualcosa non vi riuscirà, quando la tempesta si scatenerà nel vostro animo, uscite all’aria aperta e intrattenetevi, da soli, col cielo. Allora la vostra anima troverà la quiete».
Florenskij, missive dall’inferno sovietico
Il filosofo e teologo russo
di VITTORIO STRADA (Corriere della Sera, 04.05.2001)
Al di là della carneficina dei conflitti totali dello scorso secolo, che quasi nulla hanno più di comune con le guerre di una tradizione millenaria, sono gli stermini pianificati dei lager a dare un nuovo senso dell’orrore rispetto ad ogni altra manifestazione di violenza e ferocia collettiva, tanto più se si pensa che loro teatro sono state due nazioni europee di grande cultura come la Russia e la Germania. Le voci dirette di testimonianza delle vittime di questi eccidi spezzano la nostra relativa serenità di posteri di quell’orrore, anche quando di esso non rendono gli aspetti più atroci, ma registrano una prodigiosa sopravvivenza interiore di chi lo ha subito là dove tutto congiurava per spegnere ogni barlume di vita. In questo senso le lettere che Pavel Florenskij scrisse ai suoi cari da un lager sovietico negli anni Trenta fino alla vigilia della sua fucilazione nel 1937, ora pubblicate in un’organica scelta da Mondadori a cura di Natalino Valentini e Lubomir Zak col titolo Non dimenticatemi (pagine 419, lire 36.000), sono qualcosa di diverso e di più di un documento sul mondo concentrazionario comunista: sono la scoperta di una realtà superiore alla dura quotidianità carceraria e alla stessa asperrima realtà storica, della quale il lager era l’espressione.
L’autore delle lettere, presbitero della Chiesa ortodossa, è animato, anche in quelle condizioni estreme, da una forza spirituale, da un’energia intellettuale e da un vigore morale che è difficile trovare in altri epistolari del genere, qualità tanto più preziose in quanto non sostenute da un’effimera ideologia politica, ma ispirate da una certezza religiosa che si accompagnava a una mente critica genialmente esercitata nel sapere scientifico.
Chi già conosce Florenskij filosofo e teologo attraverso le sue opere maggiori (edite da Adelphi) La colonna e il fondamento della verità e Lo spazio e il tempo nell’arte (e altre pubblicate da Rusconi e Piemme) non si stupirà leggendo queste lettere, ricche di intuizioni culturali, ma soprattutto feconde di una luce dell’anima che, al di là di ogni astratta diatriba sul rapporto tra ragione e fede, sgorga da due fonti cristalline: quella del sapere e quella del credere, per rischiarare limpidamente il mondo umano nella sua insondabile molteplicità di forme, anche religiose.
Il cristianesimo di Florenskij era quello ortodosso, orientale e la sua posizione filosofico-teologica si apparentava, pur nella sua originalità, a certi momenti della riflessione slavofila, alla critica di un razionalismo, proprio della cultura europeo-occidentale, considerato incapace, nel suo rigido formalismo, di cogliere e accogliere la debordante complessità della vita nella sua dimensione spirituale. Da questo punto di vista il pensiero di Florenskij può essere accostato a certi aspetti della occidentale filosofia della crisi, con la quale tuttavia è impossibile identificarlo poiché la scepsi florenskiana perviene organicamente a una visione metafisica fondata sulla ricchezza spirituale e concettuale del cristianesimo di stampo bizantino e della sua intensa liturgia, della quale è parte essenziale l’icona, oggetto di una splendida riflessione da parte di Florenskij.
Senza percorrere questo terreno, estremamente complesso, nel quale Florenskij spicca come una delle figure più affascinanti ed enigmatiche, ma anche controverse, della ricerca filosofico-religiosa russa del primo Novecento, la sua fisionomia etico-intellettuale si delinea se si legge ciò che egli scrisse di sé, individuando il tema centrale delle sue concezioni storico-culturali in una visione "ritmica" di due tipi fondamentali di cultura, "medievale" l’una, "rinascimentale" l’altra: la prima caratterizzata da "organicità, oggettività, concretezza, concentrazione", la seconda da "frammentarietà, soggettività, astrezza e superficialità". Rispetto a questi due "tipi ideali" Florenskij dichiarava di appartenere al primo, quello "medievale" e riteneva che all’inizio del XX secolo il tipo "rinascimentale" fosse giunto ad un punto di crisi. Naturalmente, quando Florenskij definisce il suo stile di pensiero come affine a quello del Medioevo russo, non va preso alla lettera; il suo "medievismo" è chiaramente "postrinascimentale", penetrato da tutto il pensiero moderno kantiano e postkantiano e animato dal sapere scientifico, in vari campi del quale egli operò in modo altamente fruttuoso. La sua critica del razionalismo europeo-occidentale non sfocia in un cieco irrazionalismo, ma porta, per così dire, a un razionalismo ragionevole, consapevole delle molteplicità delle "ragioni" e aperto alla metarazionalità della fede.
Nell’inferno del lager, Pavel Florenskij mantenne così dentro di sé il suo paradiso spirituale, che non lo aveva reso cieco di fronte a una volontà di male, allora trionfante nella sua Russia, una malefica volontà che, pur facendo di lui una tra le più grandi delle sue innumerevoli vittime, non riuscì vincitrice, sconfitta già dalla superiore umanità di quell’inerme sacerdote.
POSTMODERNO
Il rischio della fede contro le illusioni dell’edonismo e dell’individualismo che oggi trovano terreno fertile specie tra i giovani.
Il cardinal Martini riflette sulle nuove sfide della Chiesa cattolica
Quale cristianesimo nel mondo
di Carlo Maria Martini *
Che cosa posso dire sulla realtà della Chiesa cattolica oggi? Mi lascio ispirare dalle parole di un grande pensatore ed uomo di scienza russo, Pavel Florenskij, morto nel 1937 da martire per la sua fede cristiana: «Solo con l’esperienza immediata è possibile percepire e valutare la ricchezza della Chiesa». Per percepire e valutare le ricchezze della Chiesa bisogna attraversare l’esperienza della fede.
Sarebbe facile redigere una raccolta di lamentele piena di cose che non vanno molto bene nella nostra Chiesa, ma questo significherebbe adottare una visione superficiale e deprimente, e non guardare con gli occhi della fede, che sono gli occhi dell’amore. Naturalmente non dobbiamo chiudere gli occhi sui problemi, dobbiamo tuttavia cercare anzitutto di comprendere il quadro generale nel quale essi si situano.
UN PERIODO STRAORDINARIO NELLA STORIA DELLA CHIESA
Se dunque considero la situazione presente della Chiesa con gli occhi della fede, io vedo soprattutto due cose.
Primo, non vi è mai stato nella storia della Chiesa un periodo così felice come il nostro. La nostra Chiesa conosce la sua più grande diffusione geografica e culturale e si trova sostanzialmente unita nella fede, con l’eccezione dei tradizionalisti di Lefebvre.
Secondo, nella storia della teologia non vi è mai stato un periodo più ricco di quest’ultimo. Persino nel IV secolo, il periodo dei grandi Padri della Cappadocia della Chiesa orientale e dei grandi Padri della Chiesa occidentale, come San Girolamo, Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, non vi era un’altrettanto grande fioritura teologica. È sufficiente ricordare i nomi di Henri de Lubac e Jean Daniélou, di Yves Congar, Hugo e Karl Rahner, di Hans Urs von Balthasar e del suo maestro Erich Przywara, di Oscar Cullmann, Martin Dibelius, Rudolf Bultmann, Karl Barth e dei grandi teologi americani come Reinhold Niebuhr - per non parlare dei teologi della liberazione (qualunque sia il giudizio che possiamo dare di loro, ora che ad essi viene prestata una nuova attenzione dalla Congregazione della Dottrina della fede) e molti altri ancora viventi. Ricordiamo anche i grandi teologi della Chiesa orientale dei quali conosciamo così poco, come Pavel Florenskij e Sergei Bulgakov.
Le opinioni su questi teologi possono essere molto diverse e variegate, ma essi certamente rappresentano un incredibile gruppo, come non è mai esistito nella Chiesa nei tempi passati. Tutto ciò è avvenuto in un mondo carico di problemi e di sfide, come la ingiusta distribuzione delle ricchezze e delle risorse, la povertà e la fame, i problemi della violenza diffusa e del mantenimento della pace. È poi particolarmente vivo il problema della difficoltà di comprendere con chiarezza i limiti della legge civile in rapporto alla legge morale. Questi sono problemi molto reali, soprattutto in alcuni Paesi, e sono spesso oggetto di differenti letture che generano una dialettica anche molto accesa.
A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del Concilio di Trento, altri in quello del Concilio Vaticano Primo. Alcuni hanno bene assimilato il Concilio Vaticano Secondo, altri molto meno; altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei, e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento.
Ma preferisco accantonare almeno per il momento questo genere di problemi e considerare piuttosto la nostra situazione pedagogica e culturale con le conseguenti questioni collegate all’educazione e all’insegnamento.
UNA MENTALITÀ POSTMODERNA
Per cercare un dialogo proficuo tra la gente di questo mondo ed il Vangelo e per rinnovare la nostra pedagogia alla luce dell’esempio di Gesù, è importante osservare attentamente il cosiddetto mondo postmoderno, che costituisce il contesto di fondo di molti di questi problemi e ne condiziona le soluzioni.
Una mentalità postmoderna potrebbe essere definita in termini di opposizioni: un’atmosfera e un movimento di pensiero che si oppone al mondo così come lo abbiamo finora conosciuto. È una mentalità che si distacca spontaneamente dalla metafisica, dall’aristotelismo, dalla tradizione agostiniana e da Roma, considerata come la sede della Chiesa, e da molte altre cose.
Il pensare postmoderno è lontano dal precedente mondo cristiano platonico in cui erano dati per scontati la supremazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell’intelligenza sulla volontà, dello spirito sulla carne, dell’unità sul pluralismo, dell’ascetismo sulla vitalità, dell’eternità sulla temporalità. Nel nostro mondo di oggi vi è infatti una istintiva preferenza per i sentimenti sulla volontà, per le impressioni sull’intelligenza, per una logica arbitraria e la ricerca del piacere su una moralità ascetica e coercitiva. Questo è un mondo in cui sono prioritari la sensibilità, l’emozione e l’attimo presente. L’esistenza umana diventa quindi un luogo in cui vi è libertà senza freni, in cui una persona esercita, o crede di poter esercitare, il suo personale arbitrio e la propria creatività.
Questo tempo è anche di reazione contro una mentalità eccessivamente razionale. La letteratura, l’arte, la musica e le nuove scienze umane (in particolare la psicoanalisi) rivelano come molte persone non credono più di vivere in un mondo guidato da leggi razionali, dove la civiltà occidentale è un modello da imitare nel mondo. Viene invece accettato che tutte le civiltà siano uguali, mentre prima si insisteva sulla cosiddetta tradizione classica. Oggi un po’ tutto viene posto sullo stesso piano, perché non esistono più criteri con cui verificare che cosa sia una civiltà vera e autentica.
Vi è opposizione alla razionalità vista anche come fonte di violenza perché le persone ritengono che la razionalità può essere imposta in quanto vera. Si preferisce ogni forma di dialogo e di scambio per il desiderio di essere sempre aperti agli altri e a ciò che è diverso, si è dubbiosi anche verso se stessi e non ci si fida di chi vuole affermare la propria identità con la forza. Questo è il motivo per cui il cristianesimo non viene accolto facilmente quando si presenta come la ’vera’ religione. Ricordo un giovane che recentemente mi diceva: «Soprattutto, non mi dica che il cristianesimo è verità. Questo mi dà fastidio, mi blocca. È diverso che dire che il cristianesimo è bello...». La bellezza è preferibile alla verità.
In questo clima, la tecnologia non è più considerata uno strumento al servizio dell’umanità, ma un ambiente in cui si danno le nuove regole per interpretare il mondo: non esiste più l’essenza delle cose, ma solo l’utilizzo di esse per un certo fine determinato dalla volontà e dal desiderio di ciascuno.
In questo clima, è conseguente il rifiuto del senso del peccato e della redenzione. Si dice: «Tutti sono uguali, ma ogni persona è unica». Esiste il diritto assoluto di essere unici e di affermare se stessi. Ogni regola morale è obsoleta. Non esiste più il peccato, né il perdono, né la redenzione e tanto meno il «rinnegare se stessi». La vita non può più essere vista come un sacrificio o una sofferenza.
Un’ultima caratteristica della postmodernità è il rifiuto di accettare qualunque cosa che sa di centralismo o di volontà di dirigere le cose dall’alto.
In questo modo di pensare vi è un «complesso anti-romano». Siamo ormai oltre il contesto in cui l’universale, ciò che era scritto, generale e senza tempo, contava di più; in cui ciò che era durevole e immutabile veniva preferito rispetto a ciò che era particolare, locale e datato. Oggi la preferenza è invece per una conoscenza più locale, pluralista, adattabile a circostanze e a tempi diversi.
Non voglio ora esprimere giudizi. Sarebbe necessario molto discernimento per distinguere il vero dal falso, che cosa viene detto con approssimazione da ciò che viene detto con precisione, che cosa è semplicemente una tendenza o una moda da ciò che è una dichiarazione importante e significativa. Ciò che mi preme sottolineare è che questa mentalità è ormai dappertutto, soprattutto presso i giovani, e bisogna tenerne conto.
Ma voglio aggiungere una cosa. Forse questa situazione è migliore di quella che esisteva prima. Perché il cristianesimo ha la possibilità di mostrare meglio il suo carattere di sfida, di oggettività, di realismo, di esercizio della vera libertà, di religione legata alla vita del corpo e non solo della mente. In un mondo come quello in cui viviamo oggi, il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo appare più bello, più vicino alla gente, più vero. Il mistero della Trinità appare come fonte di significato per la vita e un aiuto per comprendere il mistero dell’esistenza umana.
«ESAMINA TUTTO CON DISCERNIMENTO»
Insegnare la fede in questo mondo rappresenta nondimeno una sfida. Per essere preparati, bisogna fare proprie queste attitudini: Non essere sorpreso dalla diversità. Non avere paura di ciò che è diverso o nuovo, ma consideralo come un dono di Dio. Prova ad essere capace di ascoltare cose molto diverse da quelle che normalmente pensi, ma senza giudicare immediatamente chi parla. Cerca di capire che cosa ti viene detto e gli argomenti fondamentali presentati. I giovani sono molto sensibili ad un atteggiamento di ascolto senza giudizi. Questa attitudine dà loro il coraggio di parlare di ciò che realmente sentono e di iniziare a distinguere che cosa è veramente vero da ciò che lo è soltanto in apparenza. Come dice San Paolo: «Esamina tutto con discernimento; conserva ciò che è vero; astieniti da ogni specie di male» (1 Ts 5:21-22).
Corri dei rischi. La fede è il grande rischio della vita. «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt. 16,25). Tutto deve essere dato via per Cristo e il suo Vangelo.
Sii amico dei poveri. Metti i poveri al centro della tua vita perché essi sono gli amici di Gesù che ha fatto di se stesso uno di loro.
Alimentati con il Vangelo. Come Gesù ci dice nel suo discorso sul pane della vita: «Perché il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv. 6,33).
PREGHIERA, UMILTÀ E SILENZIO
Per aiutare a sviluppare queste attitudini, propongo quattro esercizi:
1. Lectio divina. È una raccomandazione di Giovanni Paolo II: «In particolare è necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza» ( Novo Millennio Ineunte, N. 39). «La Parola di Dio nutre la vita, la preghiera e il viaggio quotidiano, è il principio di unità della comunità in una unità di pensiero, l’ispirazione per il rinnovamento continuo e per la creatività apostolica» ( Ripartendo da Cristo, N. 24).
2. Autocontrollo. Dobbiamo imparare di nuovo che sapere opporsi alle proprie voglie è qualcosa di più gioioso delle concessioni continue che appaiono desiderabili ma che finiscono per generare noia e sazietà.
3. Silenzio. Dobbiamo allontanarci dalla insana schiavitù del rumore e delle chiacchiere senza fine, e trovare ogni giorno almeno mezz’ora di silenzio e mezza giornata ogni settimana per pensare a noi stessi, per riflettere e pregare. Questo potrebbe sembrare difficile, ma quando si riesce a dare un esempio di pace interiore e tranquillità che nasce da tale esercizio, anche i giovani prendono coraggio e trovano in ciò una fonte di vita e di gioia mai provata prima.
4. Umiltà. Non credere che spetti a noi risolvere i grandi problemi dei nostri tempi. Lascia spazio allo Spirito Santo che lavora meglio di noi e più profondamente. Non cercare di soffocare lo Spirito negli altri, è lo Spirito che soffia. Piuttosto, sii pronto a cogliere le sue manifestazioni più sottili. Per questo hai bisogno di silenzio.
* IL TESTO E L’AUTORE
Pubblichiamo a lato un articolo del cardinale Carlo Maria Martini, già ospitato nel maggio scorso su America, settimanale fondato e diretto dai gesuiti degli Stati Uniti. Il testo è stato adattato da un discorso fatto dal presule al quarantaquattresimo Capitolo generale dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Roma il 3 maggio 2007. Arcivescovo emerito di Milano, Martini è nato a Torino il 15 febbraio 1927.
Entrato nella Compagnia di Gesù a soli 17 anni, è stato ordinato sacerdote il 13 luglio 1952. Nel 1958 ha conseguito la laurea in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana . Il 29 dicembre 1979 Papa Giovanni Paolo II lo ha eletto Arcivescovo di Milano, diocesi che ha guidato per oltre vent’anni.
Grande risonanza ha avuto la «Cattedra dei non credenti», iniziativa in favore di persone in ricerca della fede. Dall’11 luglio 2002, il cardinal Martini ha ripreso gli studi biblici, vivendo prevalentemente a Gerusalemme.
A Modena un tema suggestivo affrontato da pensatori e artisti
Nei meandri della fantasia
Uno strumento di verità della terra che l’uomo imprigiona nel sentirsi mortale
Sulla forma originaria della fantasia si fondano religioni e miti, filosofia, arte, scienza: tutte opere morte dei mortali
di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 14.09.2008)
La fantasia è l’insieme delle «immagini originarie», delle «forme di rappresentazione più antiche e più generali dell’umanità»: gli «archetipi» (ad esempio il divino). «Diffusa dappertutto», la fantasia «appartiene ai misteri della storia dello spirito umano». Così scrive Carl Gustav Jung. Platone vede nelle «idee» le immagini originarie di tutte le cose, gli archetipi; così originarie da essere le stesse cose originarie. Ma per lui la conoscenza delle idee non appartiene ai «misteri» dello spirito umano, bensì alla scienza della «verità» a cui solo il filosofo è capace di sollevarsi e che dunque è l’opposto della «fantasia» intesa come evocazione misteriosa, e quindi da ultimo oscura e arbitraria, di mondi.
Eppure è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo a cui l’uomo si sia rivolto lungo la propria storia. Ci si imbatte nella forma originaria della fantasia, di cui tutti quegli archetipi sono derivazioni. Da tempo chiamo «terra» la storia dell’uomo e delle cose che gli si fanno incontro. Infatti si può pensare che la più antica origine di questa parola indichi il venire e l’andare, l’insieme di ciò che va e viene: il seno e la voce materna, la luce e la casa, uomini e dèi, il dolore e il piacere: cose terrestri e celesti, giacché anche il divino raggiunge i mortali a un certo punto della loro vita e poi da molti di essi si allontana. La terra: gli stormi delle cose che vengono e vanno.
Da che cosa è accolta la terra? Da che luogo si allontana? I mortali appartengono alla terra: nascono e muoiono. Ma l’uomo non è un mortale. Egli è il luogo eterno in cui appare ciò che da sempre la verità è destinata ad essere: il «destino della verità del Tutto»; essenzialmente diversa da ciò che i mortali hanno inteso con le parole «destino» e «verità». Nell’uomo sopraggiunge la terra. Ma insieme ad essa sopraggiunge e si fa dominante, la convinzione che l’uomo sia un mortale, e con lui tutte le cose; ed egli vive come se in verità lui e le cose lo fossero. Ma in verità ogni cosa è eterna. Non solo le «anime», come invece pensa Platone, ma anche i «corpi», e tutti gli stati delle une e degli altri. Anche la terra è eterna; e anche quella ingannevole convinzione che separa la terra dal destino della verità.
Com’è lontano questo discorso da tutto ciò di cui sono convinti i mortali! La sua inevitabilità non può essere, qui, neppure lontanamente indicata. Qui si tratta solo di mostrare, da lontano, in che senso è necessario risalire molto più indietro di ogni archetipo evocato dai mortali. Tanto indietro da poter scorgere che sia la «verità» dei mortali sia la loro «fantasia» hanno la stessa anima e che quest’anima è la forma originaria della fantasia.
In una delle sue accezioni più comuni, la fantasia è la capacità di portare alla luce mondi diversi da quello quotidiano o da quello che è ragionevole ritenere esistente. Ma questi due tipi di mondi, cioè di andirivieni, entrambi evocati dai mortali, appartengono alla terra. Essa è il fondamento non solo della sapienza di questo mondo e della sapienza di Dio, ma anche della fantasia. E la terra si inoltra nel luogo eterno del destino della verità. Ma non basta. La maggior parte di coloro che leggono queste righe stanno pensando che esse non abbiano nulla a che fare con la «realtà» e la «serietà della vita».
Fantasie, appunto. Ma anch’essi sanno infinitamente di più di quanto credono di sapere. Sono l’apparire del destino. L’autentica fantasia originaria è cioè la convinzione che la «realtà » con cui noi abbiamo sicuramente a che fare sia, appunto, le cose che vengono e vanno, terrestri o celesti, le cose della terra; e ormai si pensa che tutte le cose vengano dal nulla e vi vadano. Tutto è avvolto dalla morte. Chiudendosi in questa persuasione i mortali vivono nella terra separata dal destino della verità, nella terra che appare sfigurata, irretita, trascinata in basso. La terra dei morti. La fantasia originaria è la separazione della terra dal proprio destino. Una metafora può forse aiutare a comprendere queste affermazioni- purché non si dimentichi che la filosofia autentica non è metafora, ma il pensiero più radicale, essenzialmente più radicale e inevitabile di ogni altra forma di sapere, scienza compresa.
Quando i cacciatori vedono gli stormi di uccelli attraversare il cielo, non è che il cielo non lo vedano più. Non si produce in essi qualcosa come un «oblio» del cielo e del più alto dei cieli - quale invece secondo Platone si spalanca nelle anime che hanno perduto le ali e non riescono più a vedere gli archetipi che appaiono nella «pianura della verità». Quei cacciatori, il cielo, lo vedono ancora, ma son tutti presi dal volo degli uccelli e se qualcuno parlasse loro del cielo direbbero che le sue son fantasie e che sono gli uccelli le cose con cui essi hanno sicuramente a che fare. Son tutti presi dal volo degli uccelli perché non mirano ad altro che a prenderli, gli uccelli; ed effettivamente li prendono, e gettan loro addosso le reti e li sfigurano e, separandoli dal cielo, li trascinano giù in basso e li uccidono.
La fantasia originaria è il volo irretito degli uccelli. L’arte tenta di rievocare il libero volo, ma, per quanto splendente, rimane anch’essa all’interno della rete, mostrando il volto sfigurato della terra. Giacché ora si può capire che, nella metafora, il volo degli uccelli corrisponde alla pura terra, il cielo al destino della verità.
La rete dei cacciatori corrisponde dunque alla volontà di potenza che isola la terra dal destino della verità. Tale isolamento è la forma originaria della fantasia. Su di essa si fondano le forme derivate: religioni e miti, filosofia, arte, scienza: tutti i morti pensieri e le opere morte dei mortali.
Emanuele Severino: Storia, gioia
di Francesco Roat *
Le tematiche affrontate nell’ultima opera di Emanuele Severino ‒ “Storia, gioia” ‒ sono sempre le stesse su cui, fin dall’inizio della sua riflessione speculativa, s’incentra il pensiero del più noto filosofo italiano contemporaneo. A fondamento della sua teoresi permane dunque l’idea che il divenire non esista, stante il convincimento ‒ di derivazione parmenidea ‒ che: l’essere è e non può non essere; mentre il non essere non è, e non può essere. Da questa premessa, per Severino, gli essenti (ogni cosa, pensiero, animale o persona) risultano eterni, giacché non è possibile che quanto è ‒ divenendo ‒ si annichili: passando così dall’essere al non essere. All’obiezione dell’uomo della strada secondo il quale invece appare chiaro che ‒ ad esempio ‒ un ciocco di legna a cui è stato dato fuoco si trasforma in altro da sé, Severino risponderebbe che, coerentemente alla propria premessa di fondo (a suo dire indubitabile/ineccepibile), tale ciocco non si è davvero trasformato, bensì ha solo smesso di evidenziarsi nel “cerchio dell’apparire”. Ovvero è scomparso dal nostro scenario percettivo, pur rimanendo essente nel “cerchio originario del destino”.
In tale visione del mondo la “storia” risulta l’infinito e vasto apparire degli eterni immortali (ad onta dell’illusoria loro mortalità, vista qui come mera fuoriuscita dalle quinte del teatro mondano); non essendo costituita da res gestae: da cose che son fatte esistere e che poi escono dall’esistenza. Pertanto il ritenere che ciò che è possa trasformarsi in nulla ‒ ribadisce in ogni suo scritto Severino ‒ è quella che lui chiama la “follia estrema” dell’Occidente e l’errore che sta alla base della filosofia quale è oggi concepita nell’era del nichilismo e della tecnica. Follia che fa credere/temere la morte come “annientamento”, rispetto alla quale vanamente il sapere e l’operare tecnocratico cercano di opporsi tramite una pseudo-potenza che però “sa di essere estrema impotenza”.
Credo risulti evidente al lettore la tendenza severiniana alla rigida/astratta formulazione concettuale, che non gli consente di uscire dai formalismi della logica classica (aristotelica), tutta giocata sul principio di non contraddizione e del terzo escluso. Logica messa peraltro in crisi non solo da Nietzsche ma dalla fisica quantistica, laddove essa ritiene che un quanto può venire espresso da due rappresentazioni opposte che dicono d’una medesima realtà (onda e/o particella). Ma oltre Parmenide e Aristotele sembra proprio che Severino non intenda, né abbia mai inteso procedere. Persuade comunque assai poco la sua ipostatizzazione di ogni “essente”, cristallizzato in una forma immutabile. Questa visione appare davvero frutto di un’ottica filosofica che si auto-costringe in una teorizzazione concepita/concepibile appena tramite assiomi sedicenti incontestabili.
Dire, infatti, che un essente è e che non può mai tramutarsi in ciò che non è (negazione del divenire) significa definire o congelare in modo del tutto arbitrario un aspetto/fenomeno senza tener conto che tale operazione è possibile solo astraendolo dal suo contesto esistenziale. Si pensi solo ad un atomo qualsiasi, impossibile da immobilizzare, è la cui immagine statica dunque è virtuale, giammai reale. Il mutar configurazione da parte dell’atomo (e delle particelle subatomiche che lo compongono) è costante e, per dirla con Severino, la sua essenza sta giusto nel non avere una forma definibile una volta per tutte. Non parliamo poi d’un qualcosa denotato da maggiore complessità, tipo un organismo animale, che eguale a se stesso non è praticamente mai, cangiando di continuo la conformazione/interazione delle sue cellule.
Ben altro sarebbe il discorso di Severino se egli, dismessa la saccenza assertoria del logos, recuperasse la saggezza del mythos. Se egli si facesse filosofo-poeta, con altro sguardo coglieremmo questo suo ultimo scritto; magari finendo per apprezzarne la felice poiesis, la intuizione creativa d’un linguaggio avente il coraggio di parlarci della “storia autentica” di una terra non più isolata/destinata all’annichilazione, ma che ai suoi occhi risulta storia “infinita” ed è al contempo “il dispiegamento senza fine della Gloria”. Accompagnata dalla Gioia, intesa come “la manifestazione infinita del Tutto”.
Bello sarebbe il racconto del Nostro se egli concepisse il suo dire nel segno della metafora, dell’allusività e del simbolo; in una parola: all’insegna di un dire poetico. Allora forse apprezzeremmo l’estrema e misteriosa liricità di una frase come questa, altrimenti irricevibile: “nemmeno un filo d’erba può essere trasformato, fatto diventare altro”. O di quest’altra: “i cerchi del destino non hanno più da temere la morte e il dolore (...) Essi sono semplicemente aperti al sopraggiungere sempre più concreto della Gioia”.
Che nostalgia di assoluto, che fame di eternità, che sete di infinito, in tali espressioni! Sì, Severino ‒ nella seconda parte dell’opera ‒ talvolta dismette i panni sussiegosi del loico assumendo veste e toni mistico-poetici che destano stupore se non ammirazione; come quando descrive gli uomini odierni avvolti pur dalle tenebre, ma che “nella loro vera essenza essi sono innanzitutto eterne luci infinite. Ogni luce, un infinito. Una costellazione infinita di luci infinite”. O altrove, quando scrive: “L’essenza dell’uomo è la manifestazione finita del Tutto”. O, ancora, sembrando avere indossato le vesti d’un maestro Zen, egli nota, a mio parere condivisibilmente, “per quanto ampio e profondo, il dolore finito è pur sempre un «punto rispetto all’infinità della Gioia”. O infine, allorché trova la forza di ammettere: “il dolore è tale solo in quanto è rifiutato”. A quando un Severino mistico a tutto tondo?
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Le icone e le beatitudini
L’arte del cuore puro per il volto dell’invisibile
Nel pomeriggio di sabato 13 dicembre nella sede de "La Civiltà Cattolica" a Roma viene presentato il dodicesimo volume Il volto dei volti, Cristo (Gorle, Velar, 2008, pagine 328), atti del congresso internazionale tenutosi lo scorso ottobre a cura dell’Istituto internazionale di ricerca sul volto di Cristo. Pubblichiamo stralci di uno dei saggi contenuti nel volume.
di Heinrich Pfeiffer *
I maestri greci non solo sono coloro che hanno insegnato ai veneziani e ad altri artisti europei occidentali, ma hanno anche sviluppato l’arte delle icone. E in quest’arte furono i maestri dei popoli slavi. Presso di loro l’arte delle icone è diventata l’esercizio di una delle beatitudini, quella del cuore puro che vedrà Dio. Particolarmente i russi hanno capito che il compito del pittore delle icone è far vedere Dio e i santi nella loro gloria ai fedeli cristiani ortodossi. Si può definire l’arte delle icone come l’arte del cuore puro. Nel tempo classico delle icone russe, cioè tra il Trecento e il Cinquecento, sono stati soprattutto i monaci che hanno coltivato la pittura delle icone, e a questi monaci fu dato il compito di ricevere nel loro cuore l’immagine di Gesù Cristo per poterla restituire poi con il mezzo della pittura ai fedeli. Consapevole di ciò, il pittore delle icone deve rinunciare a tutta la propria fantasia e seguire i modelli canonici, senza imitarli solo dall’esterno, creando qualcosa che nell’arte occidentale è caratterizzato dal concetto della "copia fedele" di un originale. Non fa copie di altri originali, ma si sforza di esprimere le fattezze di persone non visibili anche se presenti nella loro gloria.
Il pittore di icone deve pregare molto e digiunare, e ogni passo sin dal momento in cui ha iscritto con la punta di un ferro le linee esterne nello sfondo di pozzolana bianca deve essere accompagnato da esercizi spirituali e ascetici. Inoltre, ogni livello di stesura dei colori deve rimanere trasparente come l’anima di chi ha il cuore puro. Deve dare vita e anima alle sue figure, sempre in trasparenza verso Dio.
Facciamo un esempio: l’icona del Mandilion del xiv secolo. Custodito nel Museo Tretjakov a Mosca, fu dipinto in un convento della città o dei suoi dintorni. La prima cosa che colpisce l’osservatore sono gli occhi penetranti in un volto delicatamente modellato su uno sfondo d’oro a strisce rosse. Questo Cristo ha un aspetto severo e misericordioso nel contempo. La bocca piccola, quasi totalmente chiusa, sottolinea l’enorme silenzio che esprime questo volto. "È colui che è" (Esodo, 3, 24), come sta scritto sul nimbo cruciforme. Il naso è dritto, lungo nel suo disegno, la fronte rotonda e circondata dai capelli scuri che creano quasi una seconda aureola dello stesso spessore del nimbo. Tutte queste forme hanno qualche cosa di assoluto, di definitivo e lontano dai volti umani comuni. Solo le guance sono trattate con estrema finezza vitale e tenera, e sottolineano così la natura umana di Cristo.
Le beatitudini non sono facilmente traducibili nella scrittura universalmente leggibile dell’arte figurativa. Queste frasi nella loro formulazione, sia in Matteo sia in Luca, sono troppo programmatiche: troppo lapidarie perché l’arte cristiana possa ispirarsi a esse. Abbiamo potuto trovare solo un’eccezione: tutta l’arte delle icone presuppone la beatitudine del cuore puro, esprime questa beatitudine. Fare di una delle beatitudini in quanto tali un soggetto artistico fu possibile solo tramite l’identificazione di ciascuna beatitudine con una virtù. Queste possono essere espresse nell’arte allegoricamente come persone umane, tramite personificazioni concrete di concetti astratti.
Perché l’arte cristiana non ha potuto ispirarsi quasi mai alle beatitudini? Non dobbiamo solamente porci questa domanda alla fine del nostro breve studio, ma dobbiamo anche cercare qualche risposta. Le beatitudini sono promesse per un tempo futuro, per un tempo in cui il regno dei cieli irromperà in questa terra. Le beatitudini si realizzano solo nell’aldilà nella loro pienezza. All’uomo manca la fantasia per rappresentarsi tali promesse già nell’oggi. Il fatto che l’arte non si sia occupata sufficientemente delle beatitudini indica che manca ancora qualcosa al cristianesimo, che non si è ancora realizzato, nonostante tanti personaggi veramente santi nel percorso della storia.
Come si può descrivere questa cosa? Non ha vissuto san Francesco la beatitudine della povertà in spirito? Perché l’arte non ha potuto esprimerla con tanti volti di san Francesco, con tante rappresentazioni delle vicende della sua vita? Le beatitudini non sono semplicemente delle virtù. Queste si possono trovare nelle vite dei santi, queste si possono raccontare ricordandosi degli eventi significativi. Le virtù non contengono una promessa imponderabile e definitiva come le beatitudini. Le promesse contenute nelle beatitudini evangeliche contrastano talmente con le consuetudini degli uomini, anche dei migliori, che difficilmente si trova un modello di beatitudine già realizzata.
Se uno ha vissuto una beatitudine. per esempio "Beati coloro che sono tristi. Perché saranno consolati", e racconta questa sua esperienza divina cui si riferisce un momento molto significativo della sua vita, come può trovare le parole adatte per un tale racconto? Io personalmente sono passato improvvisamente dalla tristezza alla gioia, magari davanti alla tomba di un mio caro. Quali colori e quali forme possono tradurre una tale esperienza veramente cristiana in un linguaggio di arte figurativa? Come si può mostrare questo messaggio, così da convincere molti che i miti possederanno la terra? Come si possono trovare i mezzi espressivi per una cosa tale che per l’uomo di tutti i tempi deve sembrare un’assurdità?
Mi pare che ci sia solo una soluzione dei nostro problema: la vita rinnovata di molti cristiani che faranno sempre più esperienze con le beatitudini. Solo in seguito, quando gli artisti avranno vissuto in contatto non solo con alcune persone sante, ma con gruppi che crescono sempre di più, gruppi che hanno fatto delle beatitudini il programma della loro vita, essi potranno forse esprimerle con i loro mezzi artistici.
Allora si deve definire l’arte che sappia ispirarsi alle beatitudini, l’arte cristiana del futuro, un’arte che non esiste ancora, perché le beatitudini sono vissute troppo sporadicamente, e senza che la loro diffusione possa cambiare la società. Davanti ai cristiani si apre così l’orizzonte di una vita continuamente rinnovata attraverso comuni esperienze di promesse contenute nelle beatitudini. L’arte avrà compito di diffondere tali esperienze, di convincere quante più persone possibili, con i mezzi della bellezza, del fatto che le beatitudini con le loro promesse sono l’unica verità che rimane per sempre.
*
(©L’Osservatore Romano - 14 dicembre 2008)
E il concilio disse sì all’icona sacra
di Vito Mancuso (la Repubblica, 28 marzo 2010)
Nella religiosità umana esistono due tendenze fondamentali che si possono descrivere in prima approssimazione come via dell’immanenza e via della trascendenza. La via dell’immanenza abbraccia le religioni classiche dei greci e dei romani, l’induismo, il buddhismo e le religioni di origine cinese e giapponese; la via della trascendenza abbraccia l’ebraismo e l’islam.
Naturalmente ho parlato di prima approssimazione perché sottolineature dell’una o dell’altra via si ritrovano poi all’interno delle singole religioni, ognuna delle quali, com’è noto, è caratterizzata da miriadi di correnti, ma quella descritta è comunque la prospettiva fondamentale da cui le singole religioni pensano il divino e il suo rapporto col mondo.
Per venire al tema delle immagini religiose dentro cui si inserisce l’immagine del volto di Cristo, le religioni dell’immanenza ritengono che la natura, in particolare nella forma del corpo umano, sia una via adatta a rappresentare il divino. Le religioni della trascendenza al contrario negano ogni pertinenza teologica alle immagini naturali, corpo umano compreso. Il motivo è logico: chi vede la divinità legata alle cose del mondo non potrà che assegnare ai frammenti di mondo la capacità di rimandare ad essa, mentre chi pone la divinità al di là di tutte le cose, come totalmente altra rispetto al mondo, non potrà che ritenere pericolosa idolatria la pretesa di qualsiasi realtà naturale di rappresentare anche solo simbolicamente il divino.
Il cristianesimo fin dalle origini è stato attraversato da questa tensione, manifestatasi in primo luogo in materia di cristologia con la dialettica tra una cristologia dal basso (sottolineatura dell’umanità di Cristo) e una cristologia dall’alto (sottolineatura della divinità di Cristo) e che, dopo un dibattito spesso polemico e non privo di acredine, sfociò nella sintesi dogmatica del concilio di Calcedonia del 451 secondo cui Cristo è insieme vero Dio e vero uomo nell’unità di una sola persona.
Ma che a risolvere i problemi non bastano i documenti apparve chiaro tre secoli dopo quando scoppiò una violenta controversia sulle immagini sacre che divise la cristianità tra iconoclasti e iconofili, tra negatori e difensori delle icone. Vinsero questi ultimi, anche grazie all’imperatrice Irene, e il secondo concilio di Nicea del 787 sancì la piena legittimità teologica e spirituale delle icone, in particolare quelle del volto di Cristo.
Il risultato non poteva che essere questo, perché il cristianesimo vive esattamente dell’idea che la perfetta divinità, cioè la più alta trascendenza, si rispecchia pienamente nella perfetta umanità, cioè nella più concreta immanenza. Che poi il volto di Cristo sia stato raffigurato nel primo millennio più all’insegna della trascendenza in quanto Pantocrator, e nel secondo millennio più all’insegna dell’immanenza in quanto Crocifisso, fa parte della dialettica teologica fondamentale evidenziata sopra. Come poi andranno le cose nel terzo millennio, se si giungerà a una sintesi matura oppure a una sorta di apofasi iconica, nessuno lo sa.