L’intervento del filosofo domani ai "Classici" di Bologna
La logica del Denaro e l’esistenza di Dio
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 06.05.2009
Con questo testo di si inaugura domani a Bologna nell’Aula Magna di Santa Lucia l’ottava edizione della manifestazione "I Classici", dedicata quest’anno al tema del denaro col titolo "Regina pecunia"
L’impossibilità di stabilire il confine tra i consumi superflui e quelli necessari.
Regina pecunia... ma di quale "pecunia" parliamo? Di quella nel cui stesso nome risuona la relazione alla sostanzialità della cosa, al possesso del "pecus", del capo di bestiame, dell’animale domestico, che il "pastore" custodisce gelosamente? Questa "pecunia" è stata detronizzata da tempo. Tutte le proprietà della cosa in quanto valore di scambio si presentano nel denaro scisse dalla loro forma naturale. Il denaro rende ora omogeneo in quanto merce tutto ciò che per natura è differente. "La comune bagascia del genere umano" rende-uno il cuore di Antonio e i cani, gli asini, gli schiavi e i palazzi dei suoi zelanti amici. Shakespeare docet, Marx discit.
Ma il denaro si distingue radicalmente dall’antica pecunia non solo perché de-sostanzializza il mondo, ma anche perché esclude ogni avarizia. Se lo tieni fermo "evapora". L’avaro vorrebbe che il suo denaro non si "solidificasse" mai, lo vorrebbe "liquido" sempre, e che proprio in tale forma potesse moltiplicarsi. Ma ciò è impossibile. Il denaro, per riprodursi, ha bisogno di "sparire" di nuovo nel valore d’uso, trasformandosi in merce. Il denaro deve "morire" per "rinascere". La "mistica" di questo denaro è stata spiegata da Marx una volta per sempre.
Ma ciò che forse non è stato bene appreso dalla lezione marxiana è l’immanente e insuperabile contraddizione di tale dialettica. Se il denaro deve "gettare" sempre nuove merci fuori di sé "come combustibile nel fuoco" (Marx), e dunque creare e ri-creare bisogni, nulla assicura che tali merci possano di nuovo traformarsi in valori. Il soggetto che consumando la merce fa "rinascere" il denaro non è lo stesso che lo "arrischia" nella produzione. Da qui la tendenza o la "tentazione" insuperabile a non "solidificarlo", a tentare di moltiplicarlo senza farlo uscire dalla sua "astrazione". Ma non esiste alcuna "miniera" dove il denaro possa custodirsi senza annullarsi. Così come non vi è alcun "mercato" che garantisca il suo ritorno "a casa", più forte e più pronto a nuove avventure.
Il denaro è segno di crisi. Anche per l’individuo. Gli enti-merce di cui è l’universale equivalente sono tutti perituri. Lui solo appare come l’indistruttibile. E dunque il desiderio per lui non può placarsi nel possesso. Il denaro produce un illimitato desiderio, che nessuno dei prodotti in cui si incarna potrà mai soddisfare. Il pastore poteva "restar-contento" del suo pecus. Mai lo potrà chi possiede denaro ed è costretto a "gettarlo" nella circolazione, a "perderlo " per cercare di ritrovarlo, né lo potrà chi, grazie alla infinita potenza del denaro, non acquista che la "miseria" di queste effimere merci.
Tuttavia è necessario parlare dell’essenza metafisica del denaro senza alcun moralismo e lontani da ogni reazionario disprezzo. È vero che il processo di circolazione che il denaro genera produce la perenne insoddisfazione del consumo, ma è vero anche che in ciò si rappresenta la mia autonomia, la "libertà" della persona rispetto a ogni misura o legge universali di felicità o benessere. Soltanto io posso sapere quanto esso mi sia costato e soltanto io posso sapere quale grado di benessere mi dia l’acquisto e il consumo che esso consente. Non esistono misure obiettive di felicità, né esiste la possibilità di determinare in assoluto dove corra il discrimine tra bisogni necessari e superflui.
Certo, nulla di essenziale può esprimersi nel desiderio individuale, e perciò nulla di essenziale può essere perseguito attraverso la potenza universale del denaro. Ma lungi dal portare alla conclusione vetero-moralista: "il denaro non conta", "non può renderci felici", etc., ciò non rappresenta che quella "legge individuale", che Georg Simmel ha illustrato nel suo magnum opus La filosofia del denaro, pubblicato nel 1900, pietra miliare del contemporaneo: nulla può imporci la "misura" del nostro essere felici. Il denaro è universale proprio nel suo esprimere l’impossibilità di una tale "misura" e l’inessenzialità del nostro desiderio, "liberandoci" così dalla "superbia" di ergerlo in qualche modo a norma o modello. Sullo specchio del denaro si rivela soltanto l’infinità del desiderio. E questo soltanto ci è comune. Ma come il denaro, per divenire, deve "morire" nella individualità determinata della merce, così l’infinità del desiderio per vivere deve incarnarsi nella inessenzialità del mio essere felice o in-felice.
Questa paradossale onnipotenza del denaro mai risolvibile in atto, sempre incompiuta, può essere intesa come "mondanizzazione" del dio giudaico-cristiano? Ancora Simmel lo riteneva certo. Dovremmo oggi essere diventati tutti più cauti nell’applicare ovunque come passe-partout l’idea di secolarizzazione. L’onnipotenza infinita dell’immagine del denaro è quella di un poter tutto comprare. Ma questo è appunto actu irrealizzabile. E tutto ciò che è comprabile è inessenziale.
L’onnipotenza divina, invece, si "svuota" di sé per poter tutto qui-e-ora amare. Anche l’amare non è mai alla meta, mai "contento", ma non perché trapassi da consumo a consumo; all’opposto: perché il suo "amato" è oltre ogni logica del possesso e del consumo. Il suo scambio è puro dono, mentre il denaro "funziona" soltanto in quella relazione dove nulla di "gratuito" intervenga. "Ciò è qualcosa di gratuito", così parla il denaro - e intende: "ciò è qualcosa di insensato, di illogico, di inutile". Tuttavia la sua potenza deve alla fine riconoscere quella "legge individuale" che afferma l’inessenzialità del desiderio e del consumo che essa consente. E così, paradossalmente, per negativo, il denaro stesso fa cenno a quell’"inutile" della gratuità del dono dove si custodisce l’inconsumabile e indistruttibile, che continuiamo malgrado tutto ad avvertire in noi, "al cuore" stesso della nostra perenne ricerca e del suo continuo fallire.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FLS
Una riflessione sul testo "La carità che uccide" di Dambisa Moyo (Rizzoli, 2009)
di Habtè Weldemariam *
È noto che la civiltà Occidentale è permeata dalla cultura degli aiuti, cioè da quella cultura che muove dall’imperativo morale di donare a chi è svantaggiato. Questa cultura, che nei paesi occidentali ha radici cristiane, negli ultimi trent’anni si è incrociata con il mondo dell’intrattenimento: personalità mediatiche, "leggende" del rock, abbracciano con entusiasmo la filosofia degli aiuti, ne fanno propaganda e rimproverano i governi di non fare abbastanza.
Per bacchettare certi iniziative e le politiche di aiuto finora perseguite è uscito il libro-saggio dell’autorevole economista africana, Dambisa Moyo, con l’abrasivo titolo “La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo", una traduzione dal titolo peraltro non corretto rispetto a quello originale che voleva significare invece un certo modo di intendere gli aiuti: Dead Aid: Why aid is not working and how there is a better way for Africa (perchè l’aiuto non sta funzionando e qual è la strada migliore per l’Africa) .
Si tratta della storia del fallimento delle politiche allo sviluppo postbellico e postcoloniale dei Paesi occidentali nei confronti delle disastrate economie dell’Africa subsahariana. Il titolo originale "Dead Aid" richiama polemicamente il concerto di solidarietà di Geldof e Bono Live Aid del 1985, i quali "hanno solo contribuito alla diffusione di uno stato di perenne dipendenza alimentando corruzione, violenza", il cui obiettivo, sempre secondo l’autrice, non è aumentare la consapevolezza di ciò che provoca la fame e la povertà, ma "lisciare il pelo" all’emotività superficiale che porta all’elemosina. Ma la critica è anche per i miliardi di dollari trasferiti direttamente ai governi dei paesi poveri mediante accordi bilaterali o attraverso istituzioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.
Non è tanto il supporto di cifre, report e quant’altro a rendere il libro davvero assertivo; è la esposizione logica e piana di un ragionamento basato sull’osservazione di sessant’anni di politiche fallimentari che hanno inondato l’Africa di fiumi di denaro - in 50 anni più di un trilione di dollari - creando solo una classe politica inefficiente e priva del senso di responsabilità. Gli aiuti provenienti dai singoli stati occidentali o dalla longa manus del capitalismo occidentale hanno soffocato sul nascere la possibilità di favorire lo sviluppo agricolo o una classe di piccoli e medi imprenditori locali, diventando così gli aiuti stessi la principale causa della tragedia africana.
Infatti, «tra il 1970 e il 1998, quando il livello degli aiuti era al suo livello massimo, il tasso di povertà del continente è passato dal 11 % al 66%. Si tratta di circa 600 milioni di africani, più della metà della popolazione del Continente, costretta a vivere sotto la linea della povertà»(p.88).
Da qui la risposta diretta e tranchant dell’autrice: gli aiuti al "Terzo Mondo", così come li abbiamo sempre intesi, fanno male! E inoltre, un certo modo di intendere la solidarietà non solo rischia di alimentare la cultura dell’accattonaggio, ma anche crea un legame vizioso tra donatore e ricevente favorendo il perpetuarsi di una logica perversa dell’auto-consolazione del donatore e un senso di gratificazione del ricevente nella propria condizione di subordinazione ed inferiorità.
La Moyo mette in luce tutti i punti deboli delle tradizionali politiche di aiuto internazionale esponendo un ragionamento molto articolato: da quando l’Occidente ha iniziato a far confluire fiumi di denaro verso il Continente ha messo in moto un circolo vizioso fatto di dipendenza dagli aiuti, di demotivazione e di uccisione del mercato locale:
La Moyo, come tanti altri africani della sua generazione, si chiede allora senza giri di parole: perché, nonostante questi miliardi, l’Africa è incapace di posare il piede sulla scala economica in modo convincente e che cosa la trattiene dal rendersi capace di unirsi al resto del globo nel XXI secolo? Perché, caso unico al mondo, l’Africa è prigioniera di un ciclo di malfunzionamento? Cosa impedisce al continente di affrancarsi da una condizione di povertà cronica? Soprattutto la Moyo ritorna con insistenza sulla domanda: se gli altri paesi ce l’hanno fatta senza aiuti umanitari perché i paesi africani non possono farcela?
La risposta, secondo l’autrice, affonda le sue radici appunto negli aiuti: quelli umanitari o di emergenza, attivati e distribuiti in seguito a catastrofi e calamità; quelli distribuiti in loco da organizzazioni non governative (ONG) a istituzioni o persone (1);quelli sistematici, ossia pagamenti effettuati direttamente ai governi, sia tramite trasferimenti da governo a governo ("aiuti bilaterali") sia tramite enti quali la Banca Mondiale (noti come "aiuti multilaterali"). Si tratta della somma complessiva dei prestiti e delle sovvenzioni, che sono poi i miliardi "che hanno ostacolato, soffocato e ritardato lo sviluppo dell’Africa". Ed è di questi miliardi che si occupa il libro.
* RIPRESA PARZIALE. Per proseguire nella lettura integrale del testo, vedi: SCRITTI D’AFRICA, 26 MAGGIO 2011
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS" - "CARO-PREZZO")?! Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. "Così il Dio del denaro" inganna Papa Ratzinger, e Papa Ratzinger inganna gli uomini: un falso filologico e ... un falso teologico!!! - Federico La Sala
Così il Dio del denaro inganna gli uomini
di Enzo Bianchi *
«Pecunia, l’argent, il denaro: il motore dell’economia? Il mezzo di scambio per eccellenza che si è imposto come standard universale? Misura non solo per il mercato dei beni e dei servizi, ma anche misura sul mercato del lavoro?
Il denaro mi spinge a esprimere il valore economico mediante l’aggettivo “caro” (Questo prodotto è più o meno caro...), in parallelo all’affetto che induce a dire a un altro “caro” (Mio caro...). Caro, cher, dear: una stessa parola per misurare il denaro e per misurare l’affetto.
Ma il denaro è un mezzo o un fine? Dipende per chi. Non è certamente un fine per l’economia, che insegue la produzione e la distribuzione dei beni e dei servizi. Non è un fine neppure per l’impresa, la quale vuole creare una ricchezza, un utile. E per l’individuo? Il fine è la felicità che dipende dall’amare e dall’essere amato, dal senso trovato del vivere, da un certo benessere materiale, dunque anche dal denaro. Sì, per alcuni il denaro è percepito come la chiave per accedere alla felicità. [...]
Nel cristianesimo, inoltre, il rapporto con il denaro va letto nello spazio della possibile idolatria (“La cupidigia è idolatria”), e “l’idolo prima di essere un falso teologico è un falso antropologico” (Adolphe Gesché), un’alienazione dell’uomo. [...]
Il denaro, infatti, chiede fede-fiducia in sé e diventa sicurezza, falsa sicurezza contro la morte, saturazione dei bisogni più veri che abitano il cuore dell’uomo, presenza potente che induce a vedere solo lui, il denaro, e a non vedere gli altri, ad agire senza gli altri e, se necessario, anche contro gli altri. [...]
* la Repubblica, 28.05.2009 (ripresa parziale - alcuni passi).
Tornano i classici con "Regina Pecunia"
Aula Magna dal 7 al 28 maggio 2009
Al centro delle letture e delle lezioni denaro ed economia, affari ed etica, guadagno privato e bene comune. Leggono e commentano ospiti d’eccezione: da Vandana Shiva a Massimo Cacciari, da Luca Zingaretti a Lina Sastre. Si incomincia il 7 maggio.
"Trarre guadagno dal denaro stesso e non al fine per cui esso fu escogitato costituisce il più innaturale di tutti i modi di arricchire". Sembra la morale modernissima che si può trarre oggi dalla crisi economica mondiale, invece sono parole pensate a scritte quasi venticinque secoli fa, da Aristotele. L’economia e i grandi pensatori dell’antichità, "Regina Pecunia" ovvero "Sua Maestà il Denaro": questo il tema al centro dell’ottava edizione del ciclo di lezioni e letture classiche in Aula Magna, promossa dal Centro Studi "La permanenza del Classico".
Tutti i giovedì del mese di maggio, l’Aula Magna di Santa Lucia e la contigua Aula Absidale ospiteranno lezioni di intellettuali ed esperti accompagnate dai testi degli autori classici, greci, romani e del primo medioevo, letti da attori ed interpreti d’eccezione.
"Che cosa possono dirci gli autori della classicità sull’economia?", si chiede il direttore de La permanenza del Classico Ivano Dionigi. "Il tema economico nei classici differisce profondamente dall’impostazione odierna, per ragioni, storiche, sociali, ideologiche. Ci sono però passaggi e riflessioni che possono riguardarci da vicino". Il fatto che il termine greco "kerdos" significhi sia "denaro, guadagno" che "inganno" è ottimo indicatore di come esistesse già allora un pensiero preciso sul mondo dell’economia che ancora oggi può essere molto attuale. Protagonisti dei testi letti saranno soprattutto autori latini, ma sarà presente anche il pensiero della prima cristianità: un passaggio importante per l’evoluzione del tema economico.
"Mentre nell’etica classica - dice ancora Dionigi - al centro c’era la misura, il giusto, il canone e bisognava quindi essere virtuosi, con il cristianesimo si passa dalla morale individuale a quella sociale, alla giustizia, al pensare all’altro".
"Chrémata anér. L’uomo è denaro" è il tema dell’appuntamento iniziale, giovedì 7 maggio, insieme a Massimo Cacciari e allo stesso Ivano Dionigi, le letture affidate alla voce di Lina Sastri.
Seconda serata il 14 maggio sul tema "Auri sacra fames. La maledizione dei poveri" che avrà per protagonista Vandana Shiva: occasione per parlare di globalizzazione, disuguaglianza sociale, economia delle risorse, mercato planetario. I testi, tra Platone, Seneca, Omero ed Apuleio, saranno interpretati da Michele Placido.
Giovedì 21 il terzo appuntamento, con lo storico e intellettuale Luciano Canfora e l’economista e manager Franco Debenedetti. Titolo "Pecuniae imperare oportet. Governare la ricchezza", leggono i testi classici Umberto Orsini e Valentina Sperlì.
Infine, il 28 maggio chiusura con Enzo Bianchi e Guido Rossi parlando di "Verae divitiae. La vera ricchezza": mercato e finanza dal punto di vista laico e da quello religioso. Legge Luca Zingaretti.
Dal 7 al 28 maggio, l’Aula Magna di Santa Lucia ospiterà anche una mostra fotografica sulle opere di Canova e altri importanti scultori del neoclassicismo, come Thorvaldsen, Finelli, Bienaimé, Tenerani. Le fotografie sono opera di Salvatore Mirabella e prendono spunto dalla mostra in corso ai Musei di San Domenico di Forlì "Canova, l’ideale classico tra scultura e pittura".
L’ingresso alle serate è a inviti, da ritirare il martedì precedente a ogni appuntamento, dalle 17 alle 19, presso il Centro Studi "La permanenza del Classico" (via Zamboni, 32).
Per il personale. Per le serate è necessario ritirare gli inviti (per un massimo di due a persona, fino ad esaurimento) esibendo la lettera arrivata dal Magnifico Rettore per email all’Ufficio Relazioni con il pubblico - URP (Largo Trombetti, 1) martedì 5 maggio per gli spettacoli del 7 e del 14 maggio, e martedì 19 maggio per gli spettacoli del 21 e 28 maggio negli orari d’ufficio (9.00-12.30 e 14.30-16.30). È consentita una sola delega con firma autografa sulla lettera d’invito.
Gli incontri saranno trasmessi anche via web, in streaming video sul sito del Centro Studi.
* Fonte: UNIBO Magazine