La chiesa senza pastori
di FILIPPO DI GIACOMO (La Stampa, 11/8/2007)
Nessuno deve essere considerato colpevole prima di una sentenza passata in giudicato, insegna la nostra Costituzione. E le vicende che coinvolgono sacerdoti a Terni e a Torino sembrano fatte per ricordarci, come ogni volta che le forche mediatiche iniziano di nuovo a penzolare dai teleschermi, che è per vera profezia sociale che la legge ci impone di chiamare «giustizia» solo gli atti e le sentenze dei giudici. E ai magistrati bisogna sempre affidarsi, come ha detto don Luigi Ciotti, per vedere rispettati i diritti di tutte le parti in causa, degli accusati e degli accusatori.
Sui giudici di Terni che lo hanno interrogato, don Pierino Gelmini ha fatto correre il sospetto di anticlericalismo. E sui magistrati che in molti Paesi hanno dovuto dirimere sui guasti esistenziali causati da un gruppuscolo di pedofili con la tonaca, lasciati liberi di infierire per anni e a volte persino cooptati per alte responsabilità, ha lanciato l’accusa di congrega radical-massonica-filoebraica. Su questa esilarante interpretazione della libertà di parola e della libertà della Chiesa, il cattolico normale, dopo aver smaltito la sua sacrosanta rabbia, ha cristianamente riflettuto. Partendo da un sano esame di coscienza, così come insegna il catechismo. Da questa pia pratica, nascono diverse domande.
La prima: a quale Chiesa appartengono i preti che in questi giorni si sono dati persino dell’imbecille sui giornali? Nella struttura dell’agire ecclesiale, un battezzato, anche quando è un ministro ordinato, interagisce con una comunità, ha una guida, un pastore, qualcuno che lo consiglia e lo indirizza. E, se necessario, gli fa anche da superiore. La Chiesa «fai da te» non esiste. Erano tutti impegnati altrove i superiori dei sacerdoti che urlano e piangono, in questi giorni, con i giornalisti? Don Gelmini, salvo errore, è stato ordinato sacerdote nella Chiesa cattolica latina. Da anni, lo vediamo con gli abiti del corepiscopo (l’equivalente del nostro monsignore) della Chiesa greco-melchita. Ama apparire sull’altare, per celebrare la messa secondo il rito latino, con la corona, il bastone e la croce pettorale. Spesso, sull’altare, vescovi e cardinali gli fanno da accompagnatori. Nessuno di questi sa che un prete cattolico-latino non può essere un dignitario di un altro rito? Quando è in clergymen, ha la croce pettorale come i nostri vescovi latini: tra i tanti prelati suoi amici, nessuno sa che il Codice di diritto canonico proibisce, e punisce, il chierico che esibisce i segni di una dignità ecclesiastica che non possiede?
Un suo assistente, battezzato cattolico latino, ha persino annunciato che sta per essere ordinato diacono secondo il rito greco-melchita, probabilmente sotto la guida di don Gelmini: tra i tanti frequentatori delle Comunità Incontro, nessun canonista ha mai avuto modo di dirgli che questo non è permesso dal Codice di diritto canonico? Essendo sacerdote, e qualunque sia lo status giuridico delle sue comunità, ogni opera fondata da don Gelmini è sottoposta al controllo dell’autorità ecclesiastica locale. Oltretutto, senza la sua autorizzazione don Gelmini non potrebbe celebrare né messa né sacramenti all’interno dei suoi centri.
Quanti parroci, quanti vescovi hanno esercitato il loro diritto-dovere di visita? E se hanno visitate le sue case, trovandovi solo cose ottime, perché ora tacciono? Nella stanza di uno degli indagati di Torino sono stati trovati dei fogli di carta che dimostrano che il taglieggio subito durava da mesi e mesi: un calvario esistenziale facilmente immaginabile. Vissuto in disperata, e spaventata, solitudine.
Mentre questo accadeva, nessun confratello aveva occhi per vedere, orecchie per sentire e un po’ di fiato, mettendosi a fianco di chi era in difficoltà, per lanciare almeno due improperi contro il ricattatore? Mentre le risposte tardano, al cattolico serio non resta che tifare forte per la partita giocata da Benedetto XVI e dai pochi che, a quanto si dice, lo stanno sinceramente aiutando. Con fatica, papa Ratzinger sta riuscendo a far giungere all’episcopato «umili lavoratori nella vigna del Signore», secondo la visione pastorale da lui desiderata per l’episcopato cattolico. Ancora un paio d’anni, e anche l’Italia riavrà pastori costruttori di comunità. Nel frattempo, speriamo che la nottata non sia troppo buia.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
"Deus caritas est": la verità recintata!!!
SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA...
FLS
Pedofilia, il clero non denuncia
I vescovi non vogliono indagare
di Marco Politi (il Fatto, 23.05.2012)
Molte parole, ottime intenzioni, nessun meccanismo concreto per portare alla luce i crimini di pedofilia commessi dal clero attraverso i decenni. Le Linee-guida “per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici”, emesse ieri dalla Conferenza episcopale italiana, deludono quanti dentro e fuori la Chiesa cattolica si aspettavano che anche in Italia l’istituzione ecclesiastica si attrezzasse per rendere efficacemente giustizia alle vittime e scoprire i criminali nascosti al proprio interno. Si fa prima a elencare quello che non c’è nel documento che indicare le novità. Positivo è certamente l’incitamento ai vescovi a essere sollecitamente disponibili ad ascoltare le vittime e i familiari, ad offrire sostegno spirituale e psicologico, a proteggere i minori e a procedere immediatamente ad una “accurata ponderazione” della notizia del crimine per aprire altrettanto rapidamente un’indagine ecclesiastica. Poi, se del caso, si passa al processo diocesano, allontanando nel frattempo il prete da ogni contatto con minori per evitare il “rischio che i fatti delittuosi si ripetano”.
DOPO DUE anni di riflessione e un anno di elaborazione del testo, la Conferenza episcopale si ferma qui. Chiudendo ostinatamente gli occhi di fronte alle esperienze più avanzate realizzate in altri paesi come gli Stati Uniti, la Germania, l’Austria, il Belgio, l’Inghilterra. In Belgio e in Austria hanno formato commissioni di inchiesta nazionali, guidate da personalità laiche indipendenti? Pollice verso dei vescovi italiani. In Germania esiste un vescovo incaricato a livello federale di monitorare il dossier pedofilia e di intervenire nelle diocesi - diciamo così - poco attente? In Italia non se ne parla nemmeno. In Inghilterra operano gruppi di vigilanza nelle parrocchie? La Cei si guarda bene dal suggerirlo. Nella diocesi di Bressanone era stato istituito un indirizzo mail e un referente per le vittime? La Cei non istituisce neanche questo piccolo strumento operativo.
Don Fortunato Di Noto, il prete siciliano impegnato nel contrasto alla pedofilia, aveva proposto che in tutte le diocesi venisse istituito un “vicario per i bambini”, una sorte di angelo custode per prevenire e vigilare. Proposta cestinata. Spira in tutto il documento un vento difensivo, concentrato nel respingere interventi energici delle autorità giudiziarie. “Eventuali informazioni o atti concernenti un procedimento giudiziario canonico possono essere richiesti dall’autorità giudiziaria dello Stato, ma non possono costituire oggetto di un ordine di esibizione o di sequestro”. È la paura che - come è accaduto in America - i tribunali possano ottenere la documentazione delle manovre che hanno portato a insabbiamenti. Impedito anche l’accesso agli archivi vescovili.
Altrove nel mondo gli episcopati si preoccupano di approntare anche un equo risarcimento per le vittime. Le Linee-guida si preoccupano di proclamare che “nessuna responsabilità, diretta o indiretta, per gli eventuali abusi sussiste in capo alla Santa Sede o alla Conferenza episcopale italiana”. Il culmine del documento si raggiunge nell’affermazione lapidaria che nell’ordinamento italiano il vescovo non riveste la qualifica di pubblico ufficiale e perciò “non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti”.
È vero, in Italia l’obbligo non c’è. (Lo potrebbe introdurre il Parlamento!) Ma come dimenticare le migliaia di vittime soffocate dal silenzio. Sarebbe stato un gesto di responsabilità se la Cei, liberamente, avesse impegnato tutti i vescovi a denunciare i criminali. Non accadrà. Nonostante episodi vergognosi di inrzia verificatisi in passato. Si chiama - lo si legge nelle Linee - “rispetto della libertà della vittima di intraprendere le iniziative giudiziarie che riterrà più opportune”. Dice mons. Crociata, segretario della Cei, che non va dimenticato che gli abusi del clero sono un “delitto”. Aggiunge che la pedofilia è un fenomeno che “purtroppo ha un’estensione enorme e richiede uno sforzo collettivo per combatterlo” e che la cooperazione tra autorità ecclesiastiche e civili è prassi.
MA QUANDO gli si chiede perché i vescovi non sentono il dovere della denuncia, risponde: “Non possiamo chiedere al vescovo di diventare un pubblico ufficiale”. Una spiegazione razionale, giuridica o evangelica non c’è. C’è solo la grande paura dell’episcopato italiano di affrontare un bagno di verità. Dopo due anni (due anni!) la Cei ha fornito qualche cifra: 135 casi di abusi di chierici avvenuti tra il 2000 e il 2011 e portati alla Congregazione per la Dottrina della fede. “53 condanne, 4 assolti e gli altri casi in istruttoria”, spiega Crociata. E ancora: delle settantasette denunce alla magistratura: 2 condanne in primo grado, 17 in secondo, 21 patteggiamenti, 5 assolti e 12 casi archiviati.
Il rapporto tra la maggioranza dei colpevoli e la piccola percentuale di innocenti è palese. La grande paura di scavare nella realtà nasce da qui.
Il Papa e l’assedio mediatico
di Filippo Di Giacomo (l’Unità, 14 marzo 2012)
Non è vero, però....Nel 1993, mentre Giovanni Paolo II pellegrinava in Polonia, e un quotidiano italiano annunziava perentorio: «la fine del pontificato di Wojtyla è ormai questione di mesi e di settimane», per tanti sarebbe stato meglio chiedere un’opportuna benedizione a don Gabriele Amorth, lo scaccia diavoli più gettonato dai gazzettieri. Successe infatti che tutti coloro, più o meno direttamente, indicati come futuri papabili ebbero il privilegio di avere le esequie celebrate proprio dal Pontefice che avrebbero dovuto rimpiazzare. Dopo diciannove anni, il giochino del «Papa dimesso» viene rilanciato, mescolando un paio di trite nozioni chiesastiche ad un paio di ancor più triti criteri di pratica mediatica e, contrabbandando il tutto come auspicabili capisaldi dell’ecclesiologia giuridica moderna.
Ai tempi di Giovanni Paolo II un ricovero in ospedale era sufficiente per servire all’orbe mediatico un argomento inoppugnabile per poter invocare, a cicli alterni dal 1993 al 2005, una «guida forte» per la Chiesa. Quando questa è arrivata, in discreta salute e sufficienti forze, per contrastare con coraggio l’allegra eutanasia che i cattolici di mezza Europa stanno da decenni disinvoltamente infliggendosi, il tiro è stato spostato sui suoi collaboratori, per dichiarare fallito il pontificato e anche, tanto per gradire, l’ormai quasi inesistente «centralismo romano».
Il Papa si dimette e tutti pensano al «gran rifiuto» di Celestino V. Invece, Pietro da Morrone, che il buon padre Dante classificò «lapso», cioè vile, per il suo gesto, fu solo il terzo pontefice che ricorse ad una decisione già ammessa dalle consuetudini della Chiesa dei primordi. Clemente I, nel 97, e Ponziano nel 235, mandati in esilio dall’autorità imperiale, furono sostituiti come vescovi di Roma. Benedetto IX, diciottenne indegno e immorale posto sul soglio di Pietro grazie agli intrighi materni, accettò (nel 1045) di ridiventare semplice cardinale quando gli vennero promesse le rendite dell’obolo di San Pietro.
Questi quindi i precedenti ai quali, nel 1294, Celestino V poté ricorrere per ridiventare semplice monaco. Dopo di lui, nel 1415, anche Gregorio XII tornò all’umiltà di un’abbazia benedettina perché il Concilio di Costanza fosse libero, scegliendo un altro Papa, di sanare il grande scisma d’Occidente: per decenni, il Papa di Roma doveva convivere con due antipapa. Frugando ancora nelle pieghe della storia della Chiesa, altre dodici volte il Soglio Pontificio ha cambiato titolare mentre il legittimo occupante era ancora vivo. Non è dunque per disattenzione se, almeno secondo l’attuale codice di diritto canonico, è più facile far dimettere il Papa che rimuovere un parroco.
Infatti, mentre alle dimissioni del pontefice il codice dedica solo il secondo paragrafo del canone 332, il procedimento di rimozione di un parroco abbraccia tutto il capitolo primo della seconda sezione del VII libro. Dunque, per restare solo al codice di diritto canonico, per i cattolici dei nostri tempi il Pontefice Romano è, per sua stessa natura, un pastore condiviso e non un governante più o meno imposto. Come ogni vescovo, realizza la pienezza del suo sacerdozio esercitando tre «munera», tre compiti: santifica, insegna, regge la sua Chiesa.
Le discussioni di questi giorni riguardano sostanzialmente solo il terzo munus del Papa, quello che gli attribuisce la piena potestà ecclesiale. Questo però, per la base cattolica, è certo l’aspetto meno interessante della funzione pontificia perché, quando si tratta di «comandare», è facile comprendere come il Papa sia inserito in un puzzle istituzionale costruito nei secoli per escludere qualunque regime e qualunque colpo di scena, secondo la logica semplificante e tutta ecclesiastica, del «né troppo, né poco», valida in ogni circostanza, nella salute e nella malattia.
A leggere le dissertazioni di questi giorni sulla presunta volontà di Benedetto XVI di dimettersi, in fondo, si ha solo la solita impressione: un Papa in pieno assedio massmediatico; perché gridare «dimissioni, dimissioni», non costituisce forse, in un’epoca in cui la comunicazione ha la forza e l’importanza che le riconosciamo, un tentativo di privare il Pontefice romano della libertà di insegnare e santificare il suo popolo?
E non è strano che siano anche uomini e donne di Chiesa, per presunte ragioni imposte da meccanismi di successione e di governo, a cadere in questa tentazione? Allora, prima di teorizzare realtà che nella Chiesa equivalgono a poco più di uno starnuto, e interessano solo i «soliti ambienti» delle sacrestie romane, meglio porsi per un attimo dalla parte dei fedeli: è con loro, e non con la Curia, che Benedetto XVI deve continuare a spiegare la razionalità di un modello di vita cattolica che, nella Babele di questa modernità, rappresenta per molti un orizzonte possibile.
Natale val bene un presepe
di Filippo Di Giacomo (l’Unità, 10 dicembre 2011)
Siete in procinto di realizzare il vostro presepe? Altro che astrologia: saper «leggere» i segni natalizi che ognuno di noi ha in casa, può aiutarci a comprendere ciò che siamo. Se avete scelto di situare il Mistero della nascita in una grotta, avete una fervida immaginazione mediterranea. L’antro è assente dai Vangeli, ma è dato per certo in un Dialogo di Giustino, Padre del IV secolo, che la desume da una profezia biblica applicata al Cristo: «Abiterà in una grotta alta, di pietra dura» (Issata, 33,16).
Nel linguaggio dei simboli, spiega San Paolino da Norcia, la grotta è un chiaro riferimento a questa nostra Madre Terra, considerata dalla Bibbia il «cuore del Creato». Da bravo orientale però prima di entrarvi, San Giuseppe ha riflettuto più di mille anni seduto in disparte. «Questo bambino, come può essere figlio di Dio?», si interroga infatti nella Storia di Giuseppe il falegname, uno dei testi apocrifi più antichi. Ma nel 1223 Francesco di Assisi inventa il presepe vivente, trasforma i contadini di Greccio in personaggi della Natività e lo aiuta a risolvere i suoi dubbi: collocato accanto alla mangiatoia, accetta la natura divina del Bambinello e diventa custode esemplare del Mistero Divino.
Eppure San Giuseppe non è il solo ad aver sofferto lunghe vicissitudini: i testi evangelici raccontano unicamente la nascita di Gesù, l’annuncio ai pastori e l’adorazione dei magi. San Luca, che più si sofferma sulla Natività, si limita a riferire: «Maria partorì suo figlio, lo avvolse in fasce e lo pose a giacere in una mangiatoia, perché non c’era posto nell’albergo» (2,6-7). A partire dalla fine del primo secolo, numerosi testi apocrifi rivendicheranno maggiore conoscenza dell’Incarnazione e tenteranno di completarla o di trasformarla. Così, la stella che, secondo il racconto di Matteo (2,2) guidò i Magi fino a Betlemme, diventa lo Spirito Santo, per il Vangelo degli Ebrei, testo sacro usato nelle adunanze dei cristiani di ceppo israelita.
Le due lavandaie, i più antichi personaggi profani citati, sono per l’Ascensione di Isaia due ostetriche che lavano i panni dopo aver aiutato Maria a partorire. Il bue e l’asinello, che in placida adorazione del Salvatore confermano una profezia di Isaia ed una di Abakuk, compaiono la prima volta nel Protovangelo di Giacomo, testo del secondo secolo ampiamente diffuso nel mondo cristiano antico. Il bue e l’asinello, dice San Paolino da Nola, ci ricordano il nostro ruolo nella creazione: quello di liberarci da ogni schiavitù. La Vergine è ogni buon seme che fiorisce e dona frutto, colei che ci rappresenta tutti; poiché, assicura la liturgia natalizia «ha dato alla luce il primogenito di molti fratelli».
Non trovando posto nel Protovangelo, i Magi apprendono di essere tre per decreto papale e solo nel quinto secolo dopo Cristo. Leone Magno infatti lo stabilì in una delle sue poderose omelie. Per conoscere i loro nomi però, si dovrà attendere l’anno Mille quando i crociati di ritorno dalla Terra Santa, rivelarono i nomi dei primi convertiti al cristianesimo: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. E, continuando il viaggio nel linguaggio dei simboli, è «sapienza che accoglie la sapienza», ammonisce Leone Magno, «comportarsi come i Magi e cercare di riunire l’umanità intera nella fratellanza e nella pace».
Perché questa è la forza di quei poveri e di quei semplici, continua ad insegnare San Paolino da Nola, simboleggiati dai pastori. E perché questa è la giovinezza di quel Mondo che ancora si meraviglia ed esclama con il poeta induista Tagore: «Quando nasce un bimbo, è segno che Dio non si è ancora stancato dell’uomo».
Dopo il secolo Ottavo, le foreste druidiche posero la natività all’ombra del vischio, arbusto sacro del solstizio d’inverno. E l’albero di Natale, spesso giudicato emblema paganeggiante, giunge daquei paesi nordici con un’origine cristiana esplicativa: con i frutti simbolici appesi ai suoi rami, è l’albero del nuovo paradiso terrestre. Nel 1700, Sarchiapone, Razzullo, i redicolosi, i pacchiani e tutti i personaggi del presepe napoletano migrano dal Vesuvio a Bethlemme per comporre l’ultimo, grande racconto della Natività. Grazie a loro, si riscrive un vero Vangelo dei Poveri: essi si moltiplicano ed evocano il mondo nella sua totalità, il fiabesco si mescola al reale per esplorare la vastità e la complessità dell’ Incarnazione.
Il Natale di Gesù Cristo comunque è da sempre una «festa di idea», il mezzo per trasmettere un messaggio universale, ed anche per i non credenti, l’utopia natalizia tramanda nel tempo i bisogni culturali e sociali di popoli. È giusto quindi, che questa «tradizione» faccia ricorso a riti capaci di tradurre la realtà significata in linguaggio simbolico accessibile a tutti. Dunque, se siete tentati di accontentarvi di Babbo Natale, inventato nel 1946 dalla Coca Cola come testimonial pubblicitario, guardate al Bambinello, pensate al futuro e sperate: nonostante i guai passati, presenti e futuri, la vita continua ad essere meravigliosa.
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
di Filippo Di Giacomo (l’Unità, 15.09.2010)
Da ieri è in libreria, per Einaudi, L’economia giusta di Edmondo Berselli. L’autore ha licenziato l’ultima stesura del libro nella mattinata del venerdì santo scorso, il due aprile 2010, poche ore prima che l’ultimo chiodo lo fissasse alla croce che trascinava da un anno. Chi scrive è testimone che il sottotitolo dell’opera («Dopo l’imbroglio liberista, il ritorno di un mercato orientato alla società. Una via cristiana per uscire dalla grande crisi») è tutto della mano di Edmondo.
Eppure qualcuno, fra gli autori delle belle recensioni che hanno anticipato l’uscita di quest’ultima fatica del saggista scomparso l’11 aprile, ha ritenuto che esso fosse una sorta di “scommessa”, una forzatura dell’editore. Come se per un intellettuale libero, come il carissimo e indimenticabile Eddy, qualunque ipotesi d’analisi socio-economica cristianamente orientata fosse proibita per regolamento.
Noi invece ne abbiamo già consigliato la lettura a molti amici di “circoli giovanili”, di diverso orientamento confessionale o politico. Perché, come scrive Ilvo Diamanti nella quarta di copertina, con un approccio ibrido, diretto e suggestivo Berselli ripercorre in pochi e densi capitoli (il libro conta 99 pagine) i contributi teorici, le esperienze politiche e di governo più significative, così come le abbiamo conosciute dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri. Ed è un libro, che sembra proprio scritto per animare discussioni profonde e ben diverse da quelle pervase dal nulla venduto dai nostri politici in carica.
Conoscendo il piacere che Edmondo aveva nell’interloquire con i giovani se, almeno nelle sezioni giovanili del Partito democratico, L’economia giusta venisse usata per riprendere il cammino del confronto e decongestionare gli spiriti dalle omeriche fesserie prodotte dalla politica di quest’estate, il risultato rischierebbe solo di essere benefico.
Attento lettore anche del magistero sociale della Chiesa, egli era convinto (con Giovanni Paolo II) che la Chiesa, in quanto forza integratrice e apportatrice di senso, può costituire un tetto per l’umanità tutta. Per nulla distratto dalle querelles mediatiche, Berselli infatti riconosce la tenacia con la quale il magistero cattolico ha tentato di rafforzare la resistenza contro il potere della superstizione monetaristica (quella dittatura che impone di far soldi con i soldi) e, di conseguenza, anche contro un sistema sociale, quello capitalistico, i cui eccessi devastanti sono palesi a tutti.
La società aperta (in teoria il sogno “cattolico” della Chiesa di Roma) attualmente viene lasciata troppo a se stessa, con una sovrabbondanza di possibilità che finiscono per causare decisioni forzate, producendo libertà spesso inutili, dannose e poco gestibili. E proprio per preservare la società aperta dal pericolo della caduta in sistemi dittatoriali più subdoli, ma non meno dannosi di quelli brutali di inizio Novecento, la Chiesa insiste nel suggerire il consolidamento della democrazia, mediante sottosistemi ben definiti e autonomi che la rendano più sicura, modelli cioè la cui durata e capacità di giudizio non siano basate su opinioni del momento o su scelte e accomodamenti legati a circostanze contingenti. E se il richiamo di Benedetto XVI ai pericoli del relativismo, si chiede Berselli, fossero soprattutto un avvertimento in favore di una democrazia bisognosa di realtà capaci di integrarla, di dare senso a meccanismi da verificare continuamente in modo che siano costituiti per corrispondere alla loro funzione intrinseca?
Ciò che è mancato nelle agende dei vari G8, raduni svoltisi sempre nelle migliori località e nelle più lussuose residenze dell’Occidente, è lo sforzo di comprendere con quali slanci e su quali categorie, presupporre un nuovo inizio, un progetto capace di liberare, in Occidente e altrove, quelle forze grazie alle quali le società umane apprendono a porsi dei limiti. «Occorre accingerci a costruire una cultura, forse non della povertà, bensì della minore ricchezza», scrive Berselli.
E nella ratzingeriana nuova sintesi umanistica (teorizzata nell’enciclica Caritas in veritate ) le ultime pagine di L’economia giusta intravedono le luci per salvare i pochi valori ancora significativi sopravvissuti alla corrosione morale operata dai due secoli di vigenza di un capitalismo che propone una visione del mondo puramente scientifica, razionalistica e mercantile.
E già che ciò che è antiumano è anticristiano, credere che l’ottanta per cento dell’umanità debba restare esclusa da ciò che invece, di umano e di umanizzante ancora esiste in questo nostro tragico mondo, i quesiti posti dal cristianesimo restano - scrive Berselli - attualmente i più seri. Basta meditarli - e provare a metterli in pratica - «con un po’ di storia alle spalle, con un po’ di intelligenza e d’umanità davanti».
Wojtyla beato, ottobre 2010 Via libera dei cardinali e dei vescovi della Congregazione per le Cause dei Santi alla beatificazione di papa Wojtyla. Si attende il decreto di Benedetto XVI.
di MARCO TOSATTI (La Stampa /San Pietro e dintorni, 17/11/2009)
Cardinali e vescovi della Congregazione per le cause dei Santi hanno dato la loro approvazione (anche se forse alcuni di loro obtorto collo) e di conseguenza è definitivamente spianata la via agli onori deli altari per Giovanni Paolo II. I porporati e i vescovi si sono riuniti ieri mattina,e la discussione sulla "Positio" si prolungata fino al primo pomeriggio, e si è conclusa positivamente. Adesso il risultato della votazione, e di quella dei teologi, che già si erano espressi favorevolmente, sarà portata all’attenzione del Papa che dovrà proclamare l’eroicità delle virtù di Karol Wojtyla e dichiararlo "venerabile". Una volta che sia promulgato ufficialmente il decreto pontificio, si dovrà completare il processo sul miracolo attribuito all’intercessione di Giovanni Paolo II, la guarigione di una suora francese dal morbo di Parkinson: il caso sarà vagliato prima dalla consulta medica della Congregazione delle cause dei santi, quindi dai teologi e infine dai cardinali. Soltanto allora, dopo un’ulteriore e definitiva conferma di Benedetto XVI, Wojtyla potrà essere beatificato.
I tempi tecnici (il decreto di Benedetto XVI non è prevedibile prima della metà di dicembre) fanno ipotizzare la conclusione dell’intero iter verso marzo 2010. Troppo tardi perché sia possibile fissare la data della cerimonia di beatificazione a San Pietro per l’aprile, a cinque anni dalla morte, come avrebbe desiderato qualcuno. La data più probabile per quello che sarà di sicuro un evento mediatico di grandissimo rilievo è domenica 17 ottobre 2010. A favore di quella data, dicono in Vaticano giocano due fattori: Karol Wojtyla fu scelto dai cardinali il 16 ottobre, e quindi la cerimonia si svolgerebbe in concomitanza con il ricordo della sua elezione. Inoltre in quei giorni avrà luogo in Vaticano il Sinodo per il Medio Oriente, indetto da Benedetto XVI, e la presenza di cardinali, vescovi e patriarchi di quell’area geografica a cui papa Wojtyla ha dedicato tanta attenzione avrà un significato particolare.
P.S.: A quanto ci dicono, la votazione si è conclusa con un voto all’unanimità dei presenti.
Destò scalpore la scomunica dei mafiosi e dei violenti da lui pronunciata
Via da Locri Bregantini, il vescovo antimafia
Benedetto XVI lo ha nominato nuovo arcivescovo di Campobasso. L’annunciato trasferimento dalla diocesi calabrese dopo 13 anni ha provocato reazioni negative e proteste in tutta la regione. Il presule: ’’Per obbedienza sono venuto e per obbedienza parto’’
Città del Vaticano, 8 nov. (Adnkronos) - Benedetto XVI ha nominato questa mattina come nuovo arcivescovo metropolita di Campobasso-Boiano mons. Giancarlo Maria Bregantini (nella foto). Lo spostamento, annunciato ufficiosamente già da qualche giorno, è stato confermato oggi ufficialmente dalla Sala Stampa vaticana. Bregantini, che è stato anche nominato amministratore diocesano in attesa di prendere ufficialmente possesso della nuova sede entro il prossimo mese di gennaio, lascia dopo 13 anni la diocesi di Locri prendendo il posto di mons. Armando Dini
Lo spostamento di Bregantini da Locri ha provocato reazioni negative e proteste in tutta la Calabria per il noto impegno del presule contro la criminalità organizzata e la ’ndrangheta calabrese in particolare. Fu lui ad animare un movimento di contestazione dell’oppressione mafiosa e a dar vita, insieme alla Conferenza episcopale italiana, a diverse iniziative sociali in favore dei giovani per combattere concretamente il disagio, la povertà di lavoro, l’arretratezza economica della regione. In particolare destò scalpore la scomunica dei mafiosi e dei violenti pronunciata latae sententiae, cioè immediatamente, dal vescovo. Ancora forte è stata la sua presa di posizione dopo il gravissimo episodio di sangue e di mafia di Duisburg in Germania.
’’Accolgo questa nomina con ogni obbedienza: per obbedienza sono venuto e per obbedienza parto’’. Con queste parole mons. Giancarlo Maria Bregantini ha accolto la sua nomina. All’obbedienza che oggi mi chiede il Papa, spiega l’ex vescovo di Locri in un’intervista a ’Radio vaticana’ anticipata oggi dalla Sala stampa vaticana, ’’rispondo con questa disponibilità e, anche se con tanta sofferenza nel cuore, saluto la mia diocesi e mi avvio a un’altra’’. ’’Voglio però dire, cercando di rasserenare gli animi, che molto di quello che ho insegnato loro è stato maturato insieme, con i giovani e con i collaboratori, cresciuti orami fisicamente e spiritualmente’’. ’’Tocca ora a loro raccogliere il testimone e so che sono in grado di farlo. Io sono certo che il Signore li accompagnerà e renderà forti, anche se in questo momento sono in lacrime’’, ha aggiunto.
Il presule fa inoltre il punto su quanto ancora resta da fare in Calabria per combattere in modo sempre più convincente la ’ndrangheta. ’’Mancano tre cose - ha spiegato Bregantini - Anzitutto, che tutte le istituzioni facciano al loro parte, in maniera piena e leale, qualitativa e quantitativa. Manca poi, in secondo luogo, il collegamento fra tutte le realtà positive e, quindi, una coordinazione attuata in miglior modo. E, infine, la Calabria è trattata ancora come terra dimenticata, basta vedere la questione dei treni, dei trasporti. Soltanto con fatica si riuscirà a innestare un processo di consapevolezza reale e visibile sul piano sociale, politico ed economico’’.
E’ fra l’altro probabile che nei prossimi mesi l’arcivescovo di Campobasso entri a far parte del Consiglio permanente della Cei, l’organo di governo dei vescovi italiani. Un modo, questo, per valorizzare da parte della Conferenza episcopale italiana, la sua esperienza e il suo ruolo. Fra l’altro nei mesi scorsi il presidente dei vescovi italiani, mons. Angelo Bagnasco, ha annunciato che la Cei pubblicherà un documento sulla situazione del Mezzogiorno con riferimenti espliciti ai problemi legati alla criminalità organizzata.
Il presidente della Regione Calabria Agazio Loiero non nasconde il proprio ’’sconcerto’’ spiegando tra l’altro che ’’la sua permanenza nella nostra terra era vitale". "Chiederemo al Vaticano di ripensare la scelta di trasferire mons. Giancarlo Maria Bregantini ad altra sede. Egli sicuramente è stato e rimane un punto fermo di riferimento per tutte le comunità della locride", ha detto il sindaco di Locri Francesco Macrì.
IL RITRATTO/ Bregantini trasferito a Campobasso
Il vescovo che voleva
svuotare la ’ndrangheta
di GIUSEPPE BALDESSARRO *
REGGIO CALABRIA - "La ’ndrangheta è una società apparentemente forte, ma all’interno è fragilissima per cui la si deve svuotare agendo tra la gente in maniera da dimostrare quanto è ridicola e stupida". Giancarlo Maria Bregantini, vescovo di Locri , da oggi nuovo "pastore" di Campobasso, conosce bene le dinamiche del fenomeno mafioso calabrese.
Le ha imparate nei 13 anni passati nella provincia di Reggio Calabria. In uno dei territori più violenti e depressi d’Italia. Le ha studiate a fondo e capite, nella loro essenza. Comprendere e operare è stato per oltre un decennio un tutt’uno, su ogni fronte. "Facendo quello che c’era da fare e dicendo quello che c’era da dire. Quotidianamente". E più il "vescovo operaio" della Locride andava avanti, più diventava punto di riferimento di tanti, tantissimi. Per questo alla notizia del suo trasferimento in Calabria è scoppiata la rivolta. Un moto istintivo di gente comune soprattutto, a cui si sono accodati parlamentari, rappresentanti istituzionali, sindaci, intellettuali e associazioni.
Oggi, a Santa Maria del Mastro, sede della Curia vescovile di Locri-Gerace sono arrivati in tanti a salutare il prete "anti ’ndrangheta". Una raccolta di firme "per attestare la gratitudine dei calabresi" e tante lacrime di commozione. Perché ora, dice un cartello, "i locresi si sentono ancora più soli". Vorrebbero che restasse, che la decisione fosse rivista, revocata. Ma sanno che non sarà possibile e che "Bregantini quella promozione a vescovo metropolita la merita". Il religioso obbedirà al Vaticano, "anche se a volte è faticoso", e lo stesso faranno i fedeli che lo hanno ascoltato e seguito nel suo percorso ti uomo del Trentino capace di parlare al sud.
Un uomo di Chiesa che ha saputo "sporcarsi le mani", parlando di lotta alla mafia in maniera concreta. Lo si incontrava spesso in giro per la Diocesi. Amava partecipare alla vita delle parrocchie, sapere e conoscere. I familiari delle vittime della mafia erano di casa nei suoi uffici, come pure lo erano le tante madri e sorelle di mafiosi. "Nessun escluso mai", amava dire.
E lo diceva con i fatti. Partendo dai bisogni della gente, aveva dato vita alle cooperative di lavoro in Aspromonte. Nelle Serre della cooperativa del Bomanico, a pochi chilometri da San Luca, lavoravano anche alcuni ragazzi parenti di mafiosi, e quando qualcuno glielo faceva notare, a fronte dei tanti disoccupati calabresi con lo stesso bisogno di un impiego, lui replicava duramente: "E’ così che si combatte la ’ndrangheta, levandogli la terra attorno". Prete tosto Bregantini, aveva invitato i parroci a non cresimare le persone che si presentavano all’altare con un padrino mafioso. E dopo la strage di Duisburg era stato nelle case di San Luca a dire alle donne di ribellarsi "perché quelli che finiscono ammazzati sono i vostri figli, mariti e fratelli"
Dopo l’eccidio di Ferragosto in Germania chiese ed ottenne per quelle sei vittime della faida i funerali pubblici. Poi un mese dopo è andato a Duisburg e si è inginocchiato davanti la pizzeria teatro della strage. Senza clamori. Parlava alla gente della pochezza e della miseria della mafia. Parlava pubblicamente della "massoneria e dei colletti bianchi che nutrono e si nutrono di ’ndrangheta". Ed erano frustate anche contro i governi ed i politici: "Inadeguati a rappresentare i bisogni della gente". Prete fastidioso Giancarlo Maria Bregantini. Scomodo per i pochi forti, indispensabile per i molti deboli.
* la Repubblica, 8 novembre 2007
Trasferito dal Papa il vescovo anti-clan di Locri, Bregantini: «Obbedisco»*
«È certamente una promozione che non volevo. Ma non siamo nella logica del potere bensì in quella del servizio». Così si è espresso davanti ai giornalisti monsignor Giancarlo Bregantini, subito dopo la lettura in cattedrale della Bolla papale che ha ufficializzato il suo trasferimento in Molise. Bregantini -prete molto impegnato nella lotta alla criminalità nella Locride - si è ufficialmente congedato giovedì dalla diocesi di Locri-Gerace, in attesa, come egli stesso ha annunciato, di prendere possesso il 15 gennaio del 2008 della sua nuova destinazione, l’arcidiocesi di Campobasso-Poiano. «Non è facile parlarvi - ha proseguito Bregantini- membro della Cei - rivolto ai numerosi fedeli presenti in cattedrale, ai sacerdoti e alle Consacrate - voi che siete il profumo della Locride. Sappiate - ha sottolineato -che chi semina nelle lacrime raccoglierà nella gioia». Bregantini - un trentino che però ha finora sempre esercitato la sua missione in Calabria - non ha comunque voluto opporsi al trasferimento papale. «La vita è cammino - ha spiegato - non è stasi, ed è doloroso che vi lasci. Ma se non avessi obbedito, cosa mi avrebbero potuto dire i tantissimi parroci che ho trasferito in questi 13 anni di mia permanenza nella diocesi di Locri-Gerace?. Chi obbedisce si santifica. L’obbedienza è principio di ogni virtù e crea sempre la pace».Bregantini è stato per 13 anni a Locri .
Il presidente della Regione Calabria Agazio Loiero che per primo si era detto allarmato, non nasconde il proprio sconcerto per la decisione di trasferire Bregantini da Locri a Campobasso. «Avevamo chiesto un ripensamento da parte della Chiesa», ricorda Loiero, per il quale «il nome di Bregantini, infatti, è troppo legato al cammino verso una Calabria diversa, quella che vogliamo costruire sottraendola ai bisogni sociali e ai ricatti criminali. Il vescovo si è dovuto trasformare in imprenditore per supplire alla miopia di tanti imprenditori che si tengono alla larga da aree problematiche come la Locride. Prima di trasferire il vescovo qualcuno avrebbe dovuto farle queste riflessioni. Avrebbe capito che la sua permanenza nella nostra terra era vitale». Stupore, dubbi ed interrogativi sul suo trasferimento erano stati espressi anche da don Luigi Ciotti.
* l’Unità, Pubblicato il: 08.11.07, Modificato il: 08.11.07 alle ore 14.48
Quando il gallo annunciava la speranza
di ENZO BIANCHI (La Stampa, 12/8/2007)
Quando oggi parliamo dell’udito e di ciò che esso recepisce, pensiamo subito al rumore, alla mancanza di silenzio e non a caso l’inquinamento sonoro è ormai percepito come un problema ecologico. Del resto, l’udito è un senso sempre in funzione perché le nostre orecchie sono sempre aperte: a differenza degli occhi e della bocca, non possiamo chiuderle e quindi questo doppio orifizio, nonostante la sua apparente passività - non si muove, né morde, né penetra, né cattura... - è in realtà l’unico a essere sempre in funzione, giorno e notte. Sempre aperte sul mondo, le orecchie non sanno opporre nessuna chiusura: possiamo solo tendere l’orecchio oppure fare i sordi, ma non possiamo impedire al suono di raggiungerci. Così, se l’occhio cattura la visione e può fermarsi a contemplarla, se la mano può stringere e continuare a palpare e sentire, se la bocca può continuare a gustare, l’udito può solo ascoltare nella fugacità del suono e non può nulla trattenere né contemplare. Diciamo «porgere l’orecchio» ed è un atto provvisorio perché il suono, una volta ascoltato nella sua forza, non è più, è già passato.
Forse anche per questo il passare del tempo - quel tempo così «fugace» - è stato espresso più con il suono che con la vista: nell’antichità in città giravano le sentinelle che «gridavano» le ore oppure erano gli squilli di tromba a segnare il tempo.
Più tardi, in città e nei villaggi, si sono diffuse le campane. Sì, le campane, quelle che oggi non sono più tollerate in quei rari casi in cui il silenzio circostante le rende ancora udibili, quelle campane che al mattino disturbano pacifici cittadini che desiderano dormire, magari dopo aver schiamazzato per l’intera notte. Così, mentre da turisti nei paesi musulmani si ascolta il grido del muezzin - peraltro sovente affidato a dischi collegati all’altoparlante - come una simpatica novità, tornati a casa si è infastiditi dalle vecchie campane nostrane.
Dimenticate o vituperate, le campane tendono a non suonare più e comunque quando rintoccano nessuno riesce nemmeno ad ascoltarle, soffocate come sono dal frastuono del traffico e dell’attivismo incalzante. Ma il ricordo della mia generazione va con gratitudine al suono delle campane che scandiva la vita nei paesi di campagna, ed era ascoltato come monito quotidiano. Erano le campane, infatti, a interrompere il grande silenzio della notte: al mattino, a un’ora che variava con il variare dell’alba, suonava l’Ave Maria e la gente si alzava - in inverno era ancora buio - per iniziare i lavori della stalla. Poi suonavano nuovamente a mezzogiorno, per segnare la pausa dal lavoro nei campi e il tempo del pasto frugale e infine rintoccavano ancora a sera, per richiamare ciascuno attorno al focolare, assieme ai suoi cari.
Così le campane ritmavano il passare del tempo e avvolgevano la vita delle comunità, aiutandole nella loro identità e fornendo loro un vero linguaggio di comunicazione a distanza. Strumenti capaci di essere interpretati da tutti, parlavano una lingua universale che narrava le gioie e i dolori e scandiva l’esistenza della gente. Il loro suono aveva soprattutto la capacità di radunare l’intero paese, di chiamarlo a raccolta a qualsiasi ora. Infatti, oltre al regolare scorrere dei giorni, le campane erano erano annunciatrici di gioia e di dolore, di morte e di pericolo incombente: tutti nel medesimo istante potevano essere avvertiti che era accaduto qualcosa, che un evento aveva toccato la collettività, e ai rintocchi inattesi tutti si affrettavano in piazza per conoscere il motivo di quel ritrovarsi insieme. Ma qualcosa lo si poteva già intuire dal semplice suono perché le campane rintoccavano in modo diverso a seconda delle circostanze e la combinazione dei loro suoni esprimeva sentimenti diversi: timbro, ritmo, numero dei colpi, durata del suono chiedevano ascolto e discernimento.
Per chi e per cosa suonava la campana? Di notte, per esempio, tacevano e il loro improvviso rintocco a martello annunciava un incendio in qualche cascina e richiamava tutti ad accorrere per spegnere il fuoco... Di giorno, invece, suonavano per annunciare che qualcuno stava per morire, «suonavano l’agonia» e con il numero diverso dei rintocchi avvisavano se era un uomo o una donna, sicché ciascuno poteva immaginare un nome e un volto dietro quel suono: allora ci si affacciava sulla soglia di casa per vedere la direzione presa dal prete che, accompagnato da un chierichetto che reggeva un ombrello bianco, portava il viatico al moribondo. Poi, con un suono diverso, le campane ne annunciavano la morte e si univano alla tristezza dei funerali, indicando con il rintocco della campana più grossa - chiamata appunto campanone - l’ «andan-na», l’arrivo della salma: rintoccando mesta e solenne sembrava accompagnare con il suo timbro profondo i passi della processione. Sì, allora nessuno moriva solo!
Ma anche i momenti di festa e di gioia erano segnati dalle campane: simpatici carillon annunciavano la domenica, mentre uno scampanio ancor più solenne e armonioso si distendeva ad aprire le grandi feste e la festa del paese. Sì, le campane erano una presenza eloquente al cuore della società contadina, anche se oggi è impensabile di poter sperimentare le sensazioni che esse suscitavano. Ogni campana aveva addirittura un nome diverso e molte recavano iscritte preghiere, soprattutto contro la grandine, la tempesta, i fulmini... Così, quando sul campanile veniva issata una nuova campana era un evento di grande festa: la campana veniva benedetta, unta con il crisma e si chiedeva a Dio che essa fosse capace di fugare i mali atmosferici come i mali sociali che minacciavano la gente del paese.
Ma che fine ha fatto oggi questo oggetto così amato e popolare? Povere campane: da linguaggio comune, da strumento di comunicazione eccezionale, da «difensori civici», quando non sono scomparse del tutto o ridotte al silenzio, vengono trascinate sul banco degli imputati per inquinamento acustico! Io mi rallegro che nella valle in cui abito, adombrata da boschi e abitata solo da noi monaci e da qualche anziano, le campane sono ancora libere di suonare, già al mattino alle 5,30 e poi durante il giorno, a ritmare come un tempo l’ordinario e lo straordinario delle nostre vite: le ore del lavoro e del riposo, il ritrovarsi per la preghiera e per i pasti, ma anche l’arrivo imprevisto di un amico attorno al quale stringersi con affetto, l’annuncio pasquale al cuore della notte, la trepida invocazione perché la grandine risparmi il frutto della fatica dei campi... Ma quando la nostra memoria corre verso il campanile, un’altra immagine emerge dall’oblio, anch’essa legata a un suono ormai in via di estinzione: il gallo, banderuola che segnava il vento come la campana segnava il tempo. Ma quella sagoma di ferro rimandava a una realtà in carne e ossa, dotata soprattutto di un canto così caratteristico, il canto del gallo, un canto che da «banditore» del giorno è stato bandito dalle nostre esistenze: confesso che per me è sempre stato ed è il suono quotidiano più straordinario, più desiderato, più amato. Dopo una prima avvisaglia incerta nel cuore della notte, ecco che non appena appare all’orizzonte un po’ di chiarore, foriero dell’alba e dell’aurora, risuona sicuro il canto del gallo. È il gallo che ha da tempo immemorabile l’incarico di annunciare la luce alle cose, quasi che il suo canto imperioso ingiunga: «Fuori la luce!». Simbolo della vigilanza, già negli inni scritti da sant’Ambrogio - detti appunto «ad galli cantu» - è chiamato «notturna luce ai viandanti» perché «separa la notte dalla notte»: così «il gallo sveglia chi dorme e incita i sonnolenti». Ma è il versetto di un altro inno che ancora oggi mi torna alla mente ogni mattino: Gallo canente spes redit, «con il canto del gallo ritorna la speranza». La speranza di un nuovo giorno, la speranza che la notte sia vinta dalla luce, la speranza che i fantasmi notturni fuggano per cedere il posto alla realtà della vita, sempre più bella di ciò che sogniamo, una speranza di cui tutti abbiamo così bisogno...
E del resto il gallo, lo sappiamo, è significativamente presente nei momenti più tragici di vicende umane fortemente evocatrici: Socrate, bevuta la cicuta e ormai morente, mandò Critone a portare un gallo a Esculapio; nei Vangeli è il canto del gallo che scandisce il tradimento di Pietro... E’ questa una figura dai tratti a volte inquietanti che ritroviamo sovente nei dipinti di Chagall, dove il gallo sembra accompagnare deportazioni e crocifissioni.
Di certo, assieme alle campane, il canto del gallo era uno dei suoni più presenti nella vita di campagna, dove nella notte il silenzio sembrava covare la terra, mentre di giorno l’unico suono era il muggito dei buoi, il rumore dei carri che attraversavano lenti le strade del paese e qualche raro abbaiare dei cani. Di tanto in tanto si poteva udire la voce ritmata e incalzante degli ambulanti come l’acciugaio e l’arrotino che percorrevano il paese gridando, oppure quella delle «lingere», poveri viandanti che vendevano «carta da lettere» oppure compravano pelli di coniglio, stracci e ferri vecchi... Campane, galli, venditori: suoni, rumori e figure oggi smarriti, che rendevano ancor più parlante un silenzio che non ritroviamo più e che non riusciamo nemmeno a immaginare. Viene da chiedersi se, assieme a questo silenzio, non abbiamo smarrito anche la segreta sapienza di una quotidianità più rappacificata con la natura e con gli altri e l’ascolto di suoni destinati a tutti.
DAL BLOG di papa Ratzinger, ufficioso ma benedetto dal Santo Padre, si legge: "Nell’era del low cost, l’Opera Romana Pellegrinaggi si adegua". La ricerca di Dio si affida a voli rigorosamente a basso costo. Il Boeing 707-200 della flotta Mistral, fondata nel 1981 dall’attore Bud Spencer, e ora targato Orp, è decollato il 27 agosto da Roma con destinazione Lourdes. I pellegrini, 148 fra i quali l’invitato Luciano Moggi, hanno intrapreso il viaggio spirituale supportati da una guida d’eccellenza: il cardinale Camillo Ruini. Il rettore della Pontificia Università Lateranense ha elargito la sua benedizione ai devoti. All’ingresso, le hostess in completo giallo e blu, spilla del Vaticano e fazzoletto giallo al collo, accolgono i passeggeri e li accompagno al posto. Sul poggiatesta si legge: "Cerco il tuo volto Signore".
È nato insomma con un lancio pubblicitario in grande stile l’accordo fra il Vaticano e la Mistral nel settore del turismo della fede. Per una "ricerca di Dio con voli rigorosamente a basso costo", la Chiesa si affida al testimonial Luciano Moggi, all’epoca già rinviato a giudizio, e alla chiacchierata compagnia delle Poste Italiane. La Mistral, fondata da Bud Spencer e salvata durante il governo Berlusconi con un’operazione giudicata fuori mercato perfino da alcuni parlamentari della destra e ancora oggi avvolta nel mistero. [...]
* la Repubblica, 10.11.2007 - ripresa parziale.