Il segretario del Papa, Padre Georg Gänswein, torna sul discorso di Ratisbona
In un’intervista alla Sueddeutsche Zeitung riapre il caso: Ratzinger profetico
"L’Islam rischio per l’Europa
un errore non contrastarlo"
di MARCO POLITI *
ROMA - Guai a ignorare per ingenuità i tentativi di islamizzare l’Europa! L’intervento sull’Islam di papa Ratzinger a Ratisbona è stato "profetico". Parola di don Georg Gaenswein, segretario di Benedetto XVI che in un’intervista a tutto campo al biografo ratzingeriano Peter Seewald rilancia l’allarme nei confronti dell’espansione musulmana. "I tentativi di islamizzare l’Occidente non si possono negare - afferma don Georg sul magazine della Sueddeutsche Zeitung di Monaco di Baviera - ed un falso rispetto non deve far ignorare il pericolo connesso per l’identità dell’Europa". Secondo il prelato, di cui in Italia si dimentica spesso che è stato docente negli atenei pontifici, e che riflette fedelmente le idee del pontefice, "la parte cattolica vede molto chiaramente (questo pericolo) e lo dice anche". Il discorso di Ratisbona, aggiunge, "dovrebbe servire a contrastare una certa ingenuità".
A Ratisbona nel settembre 2006 papa Ratzinger sollevò una tempesta internazionale perché aprì il suo discorso con una citazione di un imperatore medievale bizantino, secondo cui Maometto non aveva portato nulla di "buono e umano" perché esortava a diffondere la fede con la spada. Ratzinger pronunciò la citazione senza distanziarsi e ci vollero scuse vaticane a ripetizione e un’edizione aggiornata del discorso per ristabilire rapporti normali con il mondo islamico. In parecchi ambienti l’intervento però piacque. Kissinger ha confessato a Repubblica di apprezzarlo molto.
Don Georg sottolinea che non esiste "un" Islam e nemmeno un’"istanza impegnativa e vincolante per tutti i musulmani". Sotto il concetto di Islam, spiega, ci sono molte correnti, anche nemiche tra di loro, che arrivano "fino agli estremisti che si richiamano nella loro azione al Corano e scendono in campo con il fucile". In ogni caso la Santa Sede cerca di tessere contatti e colloqui attraverso il Consiglio per il dialogo interreligioso.
L’intervista descrive l’agenda principale di Benedetto XVI: rafforzare la fede, rilanciare la "questione Dio", il confronto con le forme diverse di relativismo, il dialogo con l’Islam, il rafforzamento dell’identità cristiana. "L’Europa non può vivere se le si tagliano le radici cristiane, perché così le si toglie l’anima".
Egualmente all’ordine del giorno è la conduzione del dialogo con le Chiese ortodosse specialmente perché hanno la "successione apostolica" e quindi i loro ministeri episcopali e sacerdotali sono validi, mentre hanno anche i sette sacramenti come la Chiesa cattolica. Non mancano nel colloquio annotazioni più personali. Nel suo appartamento c’è a sua disposizione una cyclette. Quando in conclave apprese che era stato eletto - rivela don Georg - "diventò bianco com’è ora la sua veste". Esposto ai media per il suo bel fisico, don Georg non respinge nemmeno la domanda più impertinente. Riceve lettere d’amore? "Di tanto in tanto".
* la Repubblica, 27 luglio 2007
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
di Massimo Faggioli (“L’Huffington Post”, 18 gennaio 2013)
Il volto del segretario del papa, il neo arcivescovo Georg Gänswein, che sorride dalla copertina di Vanity Fair, è diventato istantaneamente (e, si spera, inconsapevolmente) una delle maschere del cattolicesimo patinato, quello che piace alla gente che piace: ordinato perché d’ordine, piccoloborghese e benpensante ma anche libertino, che vota per i valori della famiglia tradizionale ma lontanissimo dal social gospel, e vede nella modernità una minaccia costante al cristianesimo più come cultura europea che come fede.
A questa maschera si oppone quella dell’anti-cattolicesimo militante, o di quel cattolicesimo anti-cattolico che anche in Italia inizia ad avere un suo mercato editoriale: i volti sono diversi, e le copertine sono diverse perché le riviste sono diverse. Ma il perbenismo è simile, quanto ad omologazione nelle critiche ad una chiesa accusata di essere sempre inadeguata, sempre uguale a se stessa, mai abbastanza moderna e liberale.
Le facce che invece non si vedono mai, né su Vanity Fair né sulla stampa cattolica ufficiale né sui breviari dell’anticattolicesimo, sono quelle di quanti tentano di costruire ponti tra un mondo moderno che non è ormai neanche più convinto di poter fare a meno di un dio, e una chiesa che rischia ben più che il blocco dei bancomat all’interno delle mura vaticane: rischia la bancarotta morale.
Tra le tante diaspore in corso nel mondo occidentale, la diaspora cattolica parla forse più di altre. Parla dell’esistenza di un universo di cattolici per i quali il “voto cattolico” è solo l’ultima, e nemmeno la più importante, delle mediazioni a cui devono fare ricorso quotidianamente per tentare di essere fedeli alle loro quotidiane responsabilità di cittadini del mondo e di cristiani. Tra queste mediazioni, sempre più difficile è quella dei cristiani che osano ancora essere “cattolici pubblici”: che di fronte al mondo non si vergognano della loro chiesa (che sanno essere ben più del Vaticano), e che di fronte ad una chiesa che si illude sempre più della propria autosufficienza non si vergognano di vivere il proprio cattolicesimo in una realtà sempre più plurale, lontana dagli idealtipi, esattrice di compromessi.
C’è da chiedersi quanti di questi cattolici della terra di nessuno siano candidati alle prossime elezioni. La loro presenza o assenza nelle liste elettorali parla di una politica italiana che ha voluto o non ha voluto farsi carico della diaspora di quel tipo di cattolicesimo politico, e parla di un cattolicesimo che crede o non crede più nella politica italiana. Quella dei “cattolici pubblici” è una solitudine particolarmente invisibile in tempi di campagna elettorale: essi dovrebbero combattere contro l’anticattolicesimo e simultaneamente contro un cattolicesimo ufficiale sempre più impomatato e vanesio, politicante e impolitico al tempo stesso. Quando si tratta di prendere la parola sulle questioni del matrimonio gay o dell’eutanasia, molti “cattolici pubblici” diffidano tanto degli oracoli dell’anticattolicesimo quanto dei principi ereditari di una chiesa ancien régime.
Le facce di questi cattolici si trovano di fronte alla solitudine politica e culturale. In questo deserto, questo cattolicesimo pubblico cerca di offrire una sapienza che oggi non ha diritto di udienza, né in Vaticano, né su Vanity Fair.
E Gesù disse: «Siate allegri!»
intervista a Massimo Cacciari
a cura di Francesco Dal Mas (Avvenire, 25 settembre 2012)
«Il cristianesimo è lieto e deve far ridere. Guai, dunque, a una predicazione triste. Chi annuncia non può che avere il sorriso, anzi il riso di Beatrice che percorre tutta l’ultima cantica: «Tu la vedrai sulla vetta di questo monte ridere felice». Se tu non fai capire che il Paradiso è riso, come ha dimostrato Dante con Beatrice, la tua evangelizzazione sarà nebulosa e quindi non sarà un’evangelizzazione perché annunci un Vangelo triste, quindi non un eu-angelion , una ’buona notizia’ ». S’infervora il filosofo Massimo Cacciari intorno al tema «Davvero Gesù non ride?» che gli è stato affidato nell’ambito dell’ottava edizione di «Torino Spiritualità» e che svilupperà nell’appuntamento di giovedì.
Professore, lei è solito approcciarsi a Gesù in termini drammatici...
«Un momento. Come insegnava Platone, un dramma e una commedia hanno la stessa origine e non possono essere trattati in modo disgiunto. Quindi dire drammatico non significa dire incapace o impotente a ridere ».
È pur vero che quello di Gesù è stato letto da molti come un annuncio triste...
«Sì, ma è tutto da discutere. Nel Vangelo la dimensione del ridere è praticamente assente perché quando incontriamo un riso è quello degli stolti che deridono Gesù quando risorge la bambina».
E nell’Antico Testamento?
«È presente solo nell’accezione della stoltezza umana. Dio ride per schernire dall’alto la stoltezza dell’uomo. Ma sono letture affrettate».
Affrettate perché?
«Come si può non sentire un timbro del riso nel Cantico dei cantici? Più difficile si fa la ricerca nel Nuovo Testamento, perché qui sembra che il riso manchi. Ma è proprio così? Vediamo di ascoltare con orecchi non particolarmente ottusi. E allora scopriamo che nel Nuovo Testamento Gesù non ride con scherno nei confronti della nostra miseria e stoltezza. Certo, manca il riso sguaiato. Ma come si fa a non sentire una luce ilaros, come avrebbero detto i Padri orientali, quella luce del cielo quando è sgombro da ogni pesantezza, da ogni nebbia? Come si fa a non sentire nelle parole di Gesù questa ilaritas che mai giudica, mai condanna? Anche se non è nominato espressamente come si fa a non ascoltarlo?».
Si è soliti, in effetti, definire spiritosa una persona che ci fa ridere intelligentemente.
«Una battuta di spirito è una battuta che alleggerisce, che solleva, che assolve. Come si fa a non sentire questo timbro nelle parole di Gesù? Ma direi ancora di più: non è piena di ironia tutta la parola di Gesù?».
Gesù ironico? Ma come? L’ironia non sembra molto evangelica.
«Ironia nel senso letterale del termine, di gusto del paradosso. Il paradosso che invita alla ricerca. La parabola che timbro ha se non questo? Non è forse profondamente ironica in questo senso? Come hanno spiegato grandi interpreti, la parabola non ha nulla a che fare con l’allegoria perché l’allegoria è una similitudine che immediatamente si scopre. La parabola, invece, è un invito a pensare pieno di ironia. E che invita al sorriso. Le parabole del Regno hanno paragoni che sembrano assurdi. Il Regno dei cieli è un grano di senape. Non mette in evidenza un’immensa distanza? Non è un paradosso? Come si fa a non sorridere per la parabola delle vergini stolte che si precipitano ad acquistare l’olio e poi vengono cacciate? Oppure quell’immagine al limite della blasfemia: il Signore è come quel re che tutto concede per non essere più infastidito da scocciatori che gli chiedono di tutto? Questa parabola è piena di elementi ironici. Come lo è quella del samaritano e del figliol prodigo. Io credo che l’unico che abbia capito fino in fondo lo spirito della parabola di Gesù sia Kafka».
Kafka? Perché mai Kafka?
«Le sue sono parabole che non danno soluzione, rimangono enigmi. Non sono facili similitudini, non sono allegorie. Non permettono un allegorismo a differenza delle favole antiche e, nello stesso tempo, fanno sorridere. Fanno sorridere continuamente. Kafka secondo me rideva quando scriveva i suoi racconti. È tutta questa dimensione che bisogna scoprire se si vuole leggere con orecchi aperti il messaggio di Gesù. E poi un tema a me caro: l’ilaritas del più perfetto imitatore di Gesù che è Francesco».
In tempi di crisi come quelli che viviamo, c’è spazio per un annuncio che non sia triste?
«Quanto ho detto vale soprattutto per tempi di crisi come i nostri. Se tu, invece di annunciare una lieta novella, annunci una novella ancora più triste, è chiaro che fallisce l’evangelizzazione. Citavo Francesco. Forse che lui, ai suoi tempi, non considerava tutti i problemi? Nella sofferenza lui ’rideva’, cantava e aveva il volto del riso e non della tristezza. L’unico comando che ha dato Francesco ai suoi è stato: andate e non siate mai nebulosi ».
Ma bisogna distinguere riso da riso. Non le pare? Oggi la risata è spesso sguaiata...
«Non c’entra nulla. Questo non è riso, è derisione, è scherno, è sarcasmo. L’etimo di sarcasmo è fare a pezzi la carne. Questo è il riso che insegnava Leopardi. Gli italiani sono capaci solo di scherno. Questo è il riso tipico dell’italiano».
È il rischio anche della satira?
«Certo. Quando la satira non è ironica (perché può essere ironica ed esprimere un sano riso che solleva), ma quando è impietosa, sarcastica, è nichilistica, fa a pezzi e basta. Ma si può fare a pezzi e basta anche tradendo il Vangelo come qualcosa di triste o semplicemente spirituale. La Beatrice di Dante non è solo spirituale, è spirito, cioè respiro che solleva, respiro che libera».
di Aldo Maria Valli (Europa, 10 agosto 2012)
Titolo a tutta pagina: “Eroi per la pace”. La pagina è quella dedicata alle inchieste più importanti e il giornale è Avvenire, quotidiano dei vescovi italiani. Si parla «missioni di pace» dei militari italiani nel mondo e di un’associazione che sta per nascere, per raccogliere i reduci e le famiglie dei caduti, dall’Afghanistan all’Iraq, dal Libano alla Somalia. C’è anche un’intervista a monsignor Vincenzo Pelvi, arcivescovo e ordinario militare, in pratica la guida dei cappellani militari. Il paginone è corredato da una grande foto di soldati italiani con il mitragliatore in pugno, sullo sfondo un mezzo blindato.
Poi c’è anche la foto di un soldato che agita un tricolore. Il tono generale pagina è dato da due frasi dell’arcivescovo: «Chi avvicina i reduci avverte la serenità di chi ha seminato giustizia». E poi quella ripresa nel titolo: «Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti, ma convergenti, perché la condizione militare trova il suo fondamento morale nella logica della carità».
Passano ventiquattro ore e il paginone di Avvenire provoca una dura reazione di Pax Christi, il movimento cattolico internazionale alla cui presidenza c’è l’attuale vescovo di Pavia, monsignor Giovanni Giudici. «Eroi per la pace o vittime della guerra?» si chiede l’associazione in un documento, firmato per ora da trenta parroci di tutta Italia, che stigmatizza «l’insopportabile retorica» del servizio e giudica inaccettabile l’idea circa la convergenza dell’essere cristiano e soldato. «Da sempre l’esperienza cristiana ci ha impegnato nella cura della missione e ci scandalizziamo ogni volta che un cristiano infanga questo valore confondendolo con le guerre, chiamate appunto missioni di pace ma in realtà avventure senza ritorno».
La sola «missione» in Afghanistan, nota Pax Christi, costa due milioni di euro al giorno. Non sarebbe stato meglio investirli in ospedali, scuole e acquedotti? Parliamo tanto delle vittime italiane, ma dei morti afghani o iracheni chi si occupa? «Chiediamo di aprire un confronto serio e schietto sul tema della guerra, del servizio militare e della presenza dei cappellani tra i militari». Di questo, dicono i firmatari, dovrebbe occuparsi il giornale cattolico. Magari ricordando quei cattolici (come il tedesco Franz Jägerstätter, ucciso dai nazisti) che sacrificarono la propria vita pur di ribadire il no all’uso delle armi.
Appello di alcuni preti da tutta Italia
Eroi per la pace o vittime della guerra?
Eroi per la pace o vittime della guerra?
Davanti ad ogni vita umana stroncata è doveroso un rispetto profondo. Ma proprio in nome di tutte le vittime delle guerre, chissà quanti lettori di Avvenire sono rimasti scossi per quell’intera pagina dedicata agli “eroi per la pace”, e a quella realtà così “convergente” di soldati e cristiani. (8 agosto 2012, pag.3).
Ecco, lo diciamo forte: è davvero insopportabile questa retorica sulla guerra sempre più incombente e asfissiante.
Da sempre l’esperienza cristiana ci ha impegnato nella cura della “missione” e ci scandalizziamo ogni volta che un cristiano infanga questo valore confondendolo con le guerre -chiamate appunto “missioni di pace”- ma in realtà “avventura senza ritorno”. Da sempre abbiamo presentato ai cristiani gli eroi della fede e ci scandalizziamo se ora volete rappresentarli con le armi in mano e, per nascondere le responsabilità di tanto sangue versato in questa “inutile strage”, fate diventare “eroi per la pace” questi giovani strappati alla loro vita, vittime della guerra.
Ci colpisce non veder affiorare nemmeno uno degli interrogativi che gli italiani e i cristiani si pongono ormai da anni, assistendo alla fallimentare carneficina afgana: La nostra presenza militare in Afghanistan costa 2 milioni di euro al giorno, e quali sono i risultati? Se li avessimo investiti in aiuto alla popolazione con ospedali, scuole, acquedotti non avremmo forse tolto consenso ai talebani e ai signori della guerra? E delle vittime in ‘campo nemico’ chi se ne occupa? Abbiamo i numeri esatti dei morti e feriti italiani! E quante sono le vittime irachene o afghane? Forse dobbiamo rassegnarci a considerare le migliaia di esseri umani uccise in questa assurda guerra solo “effetti collaterali”?
Ci colpisce molto leggere che anche l’Ordinario militare si allinea a questa retorica della guerra dichiarando, per esempio che fare il militare è “una professione aperta al bene comune e allo sviluppo della famiglia umana” oppure sostenendo che “i cappellani militari sono parroci senza frontiere, impegnati in una pastorale specifica sul fronte della pace”. Ce ne vuole davvero a descrivere “l’aeroporto di Ciampino dove arrivano le salme dei nostri soldati uccisi” come “una scuola di fede”. E ancora “Essere cristiani ed essere militari non sono dimensioni divergenti”. Come cristiani e come sacerdoti restiamo stupiti per questo assai strano insegnamento magisteriale e, alla luce del Vangelo, siamo sconcertati.
Siamo certi che anche il Direttore di Avvenire, oltre che ovviamente il Vescovo Pelvi, ben conosca la sapienza ecclesiale, supportata dal Magistero della Santa Sede, che ci ha insegnato a discernere i diversi modi di affrontare i conflitti internazionali, a partire dalle testimonianze dei primi martiri cristiani, che rifiutavano il servizio militare e non bruciavano il grano d’incenso all’Imperatore considerato una divinità. Come non ricordare il martirio di S. Massimiliano (295 d.C.) condannato a morte “poiché, con animo irrispettoso, hai rifiutato il servizio militare” “quia in devoto animo militia recusasti”) E quante testimonianze di martiri dei nostri giorni abbiamo ancora da raccontare.
Proprio oggi, 9 agosto la Chiesa ricorda il Beato Franz Jagerstatter, obiettore di coscienza contro il servizio militare nel III Reich di Hitler (mentre la maggior parte dei cattolici combattevano) e per questo ghigliottinato il 9 agosto 1943. E’ stato Papa Benedetto XVI, nel 2007, a proclamarlo beato e martire nel suo opporsi al servizio militare e alla guerra!
Chiediamo di aprire un confronto serio e schietto sul tema della guerra, del servizio militare, oggi non più legato all’obbligo della leva, e della presenza dei Cappellani tra i militari, magari proprio con il Direttore di Avvenire e l’Ordinario militare. L’unica occasione di confronto risale al lontano 1997, in un convegno a Firenze promosso da Pax Christi, con un rappresentante dell’Ordinario Militare. Come era stato detto allora ribadiamo l’esigenza che “ si ritorni a discutere sul ruolo dei Cappellani Militari, non per togliere valore alla presenza e all’annuncio cristiano tra quanti, soprattutto giovani, stanno vivendo la vita militare, ma per essere più liberi, senza privilegi e senza stellette”.
A 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II crediamo doveroso riaprire un riflessione seria sulla condanna della guerra e sulle strade che sono chiamati a percorrere gli operatori di pace.
Don Andrea Bigalli, Firenze
Don Antonio Uderzo, Vicenza
Don Carmine Miccoli, Lanciano
Don Claudio Mainini, Milano
Don Diego Fognini, Morbegno
Don Fabio Corazzina, Brescia
Don Francesco De Lucia, Molfetta
Don Franco De Pieri, Mestre
Don Gabriele Scalmana, Brescia
Don Gianluca Grandi, Imola
P. Giovanni Notari, Catania
Don Mario Costalunga, Vicenza
Don Maurizio Mazzetto, Vicenza
Don Nandino Capovilla, Venezia
Don Paolo Quatrini, Fiano Romano
Don Pierluigi Di Piazza, Udine
Don Renato Sacco, Verbania
Don Dino Campiotti, Novara
Don Roberto Geroldi, Ortona
Don Albino Bizzotto, Padova
Don Giacomo Tolot, Pordenone
Don Salvatore Resca, Catania
Don Salvatore Leopizzi, Gallipoli
Don Tonio Dell’Olio, Assisi
Don Luigi Fontanot, Udine
Don Flavio Luciano, Cuneo
Don Gianni Gambin, Padova
Don Piergiorgio Rigolo, Pordenone
PER ADERIRE:
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con il proprio Nome, Cognome e Città a drenato@tin.it oppure a nandyno@libero.it
PER CONTATTI:
Don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale Pax Christi Italia nandyno@libero.it 3473176588
Don Renato Sacco, Cesara - Vb drenato@tin.it 348- 3035658
Vedi anche il sito: http://www.paxchristi.it/
Padre Georg, l’unica chiave che porta al papa
È il nuovo obiettivo dei dissidenti per indebolire il pontificato
di Marco Politi (il Fatto, 05.06.2012)
I dissidenti vaticani alzano il tiro e puntano al segretario papale, don Georg Gaenswein. È bastato che Benedetto XVI mercoledì scorso riconfermasse pubblicamente la fiducia ai suoi “più stretti collaboratori” ed ecco che la rete clandestina, che combatte il cardinale Bertone, attacca l’uomo più di tutti vicino al pontefice e che ne costituisce la “voce” nei rapporti con le massime gerarchie della Curia.
PER IL LORO nuovo colpo i guerriglieri clandestini dei Vatileaks hanno scelto Repubblica, rivelando una lettera - diplomaticamente arrabbiata - del cardinale statunitense Burke al Segretario di Stato Bertone e inoltre ben due lettere firmate da don Georg. Con una raffinatezza: si vede la data, ma non il contenuto sbianchettato.
Nel testo di accompagnamento l’anonimo dissidente esibisce la volontà di non “offendere il Santo Padre”. Però minaccia di rendere note vicende vaticane “incresciose e vergognose”, forse legate al caso Williamson, il vescovo anti-semita lefebvriano cui Benedetto XVI (non sapendolo) tolse la scomunica. L’anonimo aggiunge un insulto: “Cacciate i veri responsabili di questo scandalo: mons. Gaenswein e il card. Bertone”.
In Vaticano il nervosismo è altissimo. Lo testimonia la dichiarazione di Bertone al Tg1, che invoca unità spiegando che il Papa non si lascia intimorire di fronte ad “attacchi feroci e dilanianti”. L’aggressione a Gaenswein equivale a un attacco al pontefice. Tradizionalmente i segretari sono le eminenze grigie, che operano dietro il trono papale. Gaenswein, oggi cinquantaseienne, non è stato fino a pochi anni fa un segretario eminentemente politico come Capovilla, Macchi, Dziwisz, i potenti prelati che operavano da agenti onnipresenti di Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.
Ma oggi, con il procedere dell’età di papa Ratzinger, il suo ruolo è divenuto essenziale. Una sua parola viene intesa come emanazione della volontà papale. Bavarese come Ratzinger, nato in un villaggio della Foresta Nera, esperto di diritto canonico, diventato poi docente di tale materia all’ateneo romano dell’Opus Dei, decisamente ratzingeriano dal punto di vista dottrinale, don Giorgio - come ama farsi chiamare dai vecchi amici romani - era approdato alla Congregazione per la Dottrina della fede nel 1996, ma è diventato segretario papale per un colpo di fortuna.
Il segretario precedente Joseph Clemens voleva far carriera in Vaticano e infatti interrompe la collaborazione con il cardinale Ratzinger nel 2003 e dopo un paio di mesi viene nominato - con l’aiuto dell’allora cardinale Segretario di Stato Sodano - segretario del pontificio Consiglio per i Laici. Una scommessa sbagliata sul destino. Don Georg, subentratogli in corsa, sarà due anni dopo il segretario di papa Benedetto XVI. Un segretario osannato dai media per il suo fascino e la sua prestanza.
UN SEGRETARIO sportivo che i primi tempi si fa vedere vedere all’interno del Palazzo apostolico, reduce da partite di tennis in t-shirt e calzoncini corti. Un segretario che ha incendiato le fantasie della stampa femminile: memorabile il suo incedere accanto a Carla Bruni all’Eliseo durante la visita di Benedetto XVI a Parigi nel 2008.
Benché impolitico e caratterialmente poco amante delle manovre curiali e dell’involuto linguaggio clericale, Gaenswein è stato costretto giocoforza ad assumere negli ultimi tre anni un ruolo più attivo di consigliere papale e di silenzioso organizzatore della sua agenda. Nelle sue mani stanno le chiavi che aprono e chiudono i contatti diretti con il pontefice: udienze, lettere, incontri, telefonate. Può frenare o incoraggiare il papa esitante. Suo è il compito di comunicare in Vaticano la “mente” del papa (dicono così, in tono solenne, i monsignori di Curia). Quanto più fragile, affaticato e concentrato sul libro su Gesù - il terzo - diviene papa Ratzinger tanto più delicato e importante si è fatto il ruolo di Gaenswein come anello di congiunzione con la Segreteria di Stato e la Curia.
Al suo carteggio con Bertone - con divergenze e convergenze - allude in tono ricattatorio l’ultimo messaggio anonimo uscito dal Vaticano. Sembra, ad esempio, che Gaenswein avesse dubbi sulla rimozione di mons. Viganò, il prelato che aveva denunciato la corruzione in Vaticano. Sempre Gaenswein è il depositario delle reazioni di stupore e disorientamento di Benedetto XVI per la rimozione del presidente dello Ior, Gotti Tedeschi. È lui, infine, ad aver affrontato il maggiordomo Paolo Gabriele due giorni prima del suo arresto, mettendolo con le spalle al muro e chiedendogli di assumersi le sue responsabilità.
L’ATTACCO portato a Gaenswein rivela che la rete anti-Bertone ha scelto la strategia del caos. Sono pronte altre pubblicazioni micidiali. Minacciare rivelazioni sul segretario papale è un avviso sinistro rivolto a Ratzinger per fargli capire che l’opposizione sotterranea è intenzionata a fare terra bruciata finché non sarà cambiato il vertice della Curia. Vista la fedeltà a prova di bomba di don Georg e la sua serietà nel trasmettere i desiderata di Benedetto XVI, l’operazione mira a una destabilizzazione in grande stile della stessa leadership di papa Ratzinger.
A mostrare lo stato di disgregazione della Curia contribuisce anche la lettera del cardinale Burke a Bertone. Burke è un cardinale onestamente conservatore, ha marciato recentemente contro la legge sull’aborto per le strade di Roma, è ultra-ratzingeriano. Eppure denuncia che siano state sancite dal pontefice le pratiche liturgiche dei neo-catecumenali, millantando un’approvazione della Congregazione per il Culto che non c’è mai stata.
Il regalo di padre Georg al Papa
"Un libro per dire chi è davvero"
I cardini del pensiero. Nel giorno dell’85esimo compleanno, esce in Germania il volume che raccoglie venti pareri sul Pontefice
A curarlo è stato il segretario di Benedetto XVI. Che racconta a Repubblica com’è nata l’idea
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 16.04.2012)
UN PONTEFICE che ha «coraggio». Che non ha paura di affrontare «questioni delicate». E la cui immagine invece, già da cardinale, come quella di un «poliziotto», ma anche dopo, è stata presentata spesso «in modo deformato e distorto». Perché Joseph Ratzinger è, piuttosto, un «Papa delle parole». Più un «teologo che un uomo di grandi gesti». Forse non c’è persona, oggi, che conosce meglio il Pontefice tedesco del suo segretario personale.
Non solo per motivi di ufficio, quanto di vicinanza spirituale e conoscenza della figura e del magistero di Benedetto XVI. E monsignor Georg Gaenswein, tedesco del sud, amante dei Pink Floyd e dello sci, ma dottore in teologia e docente di diritto canonico, rimarca la propria devozione al vescovo di Roma con un regalo speciale.
Oggi Joseph Ratzinger compie 85 anni. E don Georg ha voluto festeggiare il tondo anniversario con una sorpresa: un libro pubblicato in Germania che raccoglie gli scritti di 20 vip di lingua tedesca, 20 personaggi prominenti (da qui il titolo "Benedikt XVI. Prominente ueber den Papst"), sul Papa. Ha lavorato in silenzio per mesi, tirando le fila di questo lavoro di 191 pagine, riunendo contributi diversi: dall’ex calciatore Franz Beckenbauer, ai politici Schaueble e Stoiber, al cardinale svizzero Koch, scrivendo infine un suo ritratto personale del Pontefice e l’introduzione all’intero testo.
Visto da vicino Gaenswein, 56 anni portati gagliardamente, un ciuffo brizzolato che fatica a uscire in maniera composta dall’elegante abito talare, non smentisce l’allure che lo circonda. Eppure l’aspetto sportivo non è disgiunto da un afflato spirituale solido e da un’intelligenza pragmatica.
Non sempre l’assistente del Papa - lo si vede costantemente al suo fianco, un inchino e un passo indietro - ha goduto della considerazione degli osservatori vaticani che all’inizio lo giudicavano con cautela. Ma ora, alla vigilia il 19 aprile prossimo dei sette anni del pontificato di Benedetto, l’immagine di don Georg si è rafforzata. La sua perseveranza, l’operare discreto dentro l’Appartamento, l’intesa consolidata con il Papa, hanno fatto sì che l’assistente tedesco oggi non solo sia il custode fidatissimo di tanti segreti della Casa. Ma un sostegno concreto, con un apporto apprezzato da Ratzinger che vede nel proprio segretario particolare ben più che un’ombra attenta: un consigliere influente e ascoltato.
Monsignor Gaenswein, com’è nata l’idea di questo omaggio? «E’ molto semplice: sono stato invitato dalla casa editrice, la Media Maria Verlag, a scrivere un contributo per un libro che sarebbe diventato un regalo per l’85° compleanno del Santo Padre. Ci ho pensato su».
E che cosa ne è venuto fuori? «Dato che si sarebbe trattato di un regalo per il compleanno del Papa ho detto di sì, lo scriverò! E comunicata la risposta positiva, mi hanno immediatamente invitato a occuparmi anche dell’aspetto editoriale dell’opera. Ho riflettuto pure su questo e alla fine ho accettato».
Venti grandi personaggi di lingua tedesca: come sono stati scelti? «Lo scopo era di dare voce a personalità provenienti da ambiti diversi della società tedesca - chiesa, politica, cultura, economia, sport - che conoscono personalmente il Santo Padre. Abbiamo presentato loro l’idea, e poi invitati a collaborare. Ecco il risultato! ».
E qual è l’idea che emerge dai loro scritti? «E’ importante sottolineare che non sono state poste condizioni di scrivere "pro Papa". Cioè il libro non è per niente, per così dire, "un lavoro ricevuto dall’alto da svolgere per pura cortesia". Non c’era un diktat sul politically correct. Ciascuno di loro, uomo o donna, poteva, anzi doveva scrivere come avrebbe "dettato" il cuore e il cervello. L’idea di fondo era di offrire una visione personale e sincera sulla persona e sull’operare di Papa Benedetto, scritta da persone note in Germania». Dall’immagine di "poliziotto del Papa", come lei scrive nel testo, quando sotto il precedente pontificato Ratzinger era a capo della Congregazione della Dottrina della Fede (l’ex Sant’Uffizio), a "Papa delle parole". Più un "teologo che un uomo di grandi gesti".
Lei oggi è forse la persona che lo conosce più da vicino. Ma chi è davvero quest’uomo? «Ho cercato di dare una rispostaa questa domanda proprio nel mio contributo. L’immagine del Santo Padre, già l’immagine del Cardinale Ratzinger, spesso è stata presentata in modo deformato e distorto. Mi dovrei dilungare troppo se dovessi esporne ora i motivi. Propongo di prendere in mano il libro e di leggerlo. Qui si troveranno le risposte».
Sono comunque passati sette anni dall’ascesa di Ratzinger al Soglio petrino. Non un tempo troppo lungo per un pontificato, però sufficiente per trarne un bilancio. Quale, dal suo punto di vista? «Un fatto che segna chiaramente il pontificato di Benedetto XVI è il coraggio. Il Papa tedesco non teme questioni delicate e neanche confronti ad bonum fidei et Ecclesiae! ».
Dunque che cosa davvero gli sta a cuore? «La questione del rapporto tra fede e ragione, tra religione e rinuncia alla violenza. Dalla sua prospettiva, la ri-cristianizzazione innanzitutto dell’Europa sarà possibile quando gli uomini comprenderanno che fede e ragione non sono in contrasto ma in relazione tra loro».
Ma c’è un segno programmatico? «Il Papa, in fondo, vuole riaffermare, con forza e chiarezza, il nocciolo della fede cattolica: l’amore di Dio per l’uomo, che trova nella morte in croce di Gesù e nella sua resurrezione l’espressione insuperabile. Questo amore è l’immutabile centro sul quale si fonda la fiducia cristiana nel mondo, ma anche l’impegno alla carità, alla misericordia, alla rinuncia alla violenza. Non per caso la prima Enciclica del Papa è intitolata "Deus caritas est - Dio è amore". È un segno programmatico del suo pontificato. Benedetto XVI vuol far risplendere la gioia e la bellezza del messaggio evangelico».
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Tempo di riforma
di Pierluigi Di Piazza (Adista - Segni Nuovi - n. 6 del 28 gennaio 2012)
Una sintonia anche cronologica, ma ben più profonda di sensibilità, di rivissuti, di idealità, di progetti, di sofferenze e di speranze è stata evidenziata di recente da tre lettere di cui Adista ha dato significativa comunicazione: una indirizzata alle teologhe e ai teologi italiani firmata da alcuni parroci, preti e religiosi (v. Adista n. 1/12); l’altra inviata da un gruppo di laici e preti delle diocesi di Treviso e Vicenza ai delegati che parteciperanno al secondo convegno ecclesiale delle Chiese del nord-est che si svolgerà ad Aquileia-Grado dal 13 al 15 aprile 2012 (v. Adista n. 2/12); la terza rivolta a tutta la comunità regionale del Friuli Venezia Giulia da un gruppo di preti che rilanciano questa loro proposta di riflessione da nove anni (v. Adista n. 1/12) e che assumono anche altre iniziative pubbliche con scritti e segni, fra cui la Via Crucis Pordenone-base Usaf di Aviano che sarà vissuta domenica 25 marzo 2012 nel suo 16.mo itinerario.
I contenuti di questi tre documenti, ma anche l’accoglienza e le reazioni positive di tante persone al libro a mia firma, Fuori dal tempio, la Chiesa a servizio dell’umanità (Laterza, 2011; v. Adista n. 49/11), mi inducono ad alcune constatazioni e considerazioni.
Una parte del popolo di Dio che si trova in Italia vive la fede con sincerità e ricerca, si riferisce con continuità al Vangelo di Gesù di Nazareth, partecipa alla propria comunità parrocchiale anche in modo attivo; nello stesso tempo avverte disagio nei confronti dei pronunciamenti del Magistero, in particolare di quelli che riguardano le dimensioni e le esperienze più profonde e delicate della vita stessa.
Probabilmente il disagio tante volte non viene manifestato pubblicamente ma, appena se ne presenta la possibilità, viene comunicato e condiviso. Pare di percepire che spesso le persone continuano a vivere l’esperienza ecclesiale, valorizzando le dimensioni positive e coltivando il desiderio di una Chiesa diversa, profetica nell’annuncio e coerente nella fedeltà di una testimonianza riconoscibile, che parli direttamente all’umanità. E quali sono queste qualità evangeliche che desiderano, dal profondo del cuore e della coscienza, tanti giovani, tante donne e uomini che vivono nelle comunità parrocchiali della nostra Italia?
Una Chiesa che annunci il Vangelo in rapporto continuo e diretto con la storia, con le storie delle persone, nelle loro diverse condizioni esistenziali.
Una Chiesa profetica, coraggiosa nell’annuncio e nella denuncia, nella proposta e nella condivisione: rispetto alla giustizia e alla legalità; alla nonviolenza attiva e alla pace; all’accoglienza di ogni “altro”, degli immigrati; attenta alla salvaguardia di tutti gli esseri viventi.
Una Chiesa che pratichi la democrazia per vivere una comunione che non può mai coprire decisioni non condivise. Una Chiesa che si liberi dal clericalismo, dagli apparati, dal lusso, dai privilegi, dai titoli onorifici e dai vestiti d’altri tempi. Semplice, diretta, coinvolta.
Una Chiesa che valorizzi la diversità di compiti e ministeri, con attenzione particolare alle donne e alla ricchezza della loro diversità di genere anche nel diaconato e nel sacerdozio. Una Chiesa che si liberi dal maschilismo, in cui il celibato libero sia un dono, come il matrimonio dei preti, con attenzione a quelli già sposati e costretti ad abbandonare il ministero.
Una Chiesa che accolga le persone con le loro storie; che non si permetta di definire gli omosessuali «contro natura», ma che ne sostenga le vicende umane; che non usi più i termini valori «non negoziabili», offensivi per milioni di persone che vivono quelle situazioni; che invece accolga, dialoghi, si confronti, esprima il suo orientamento etico, comunichi serenità e pace. Una Chiesa povera, in cammino con i poveri, non confondibile con le strutture di potere - politico, economico, militare - di questo mondo.
Una Chiesa che celebri l’Eucaristia, che preghi e operi per la giustizia. La Chiesa di Gesù diNazareth; la Chiesa dei profeti, dei martiri, dei testimoni. La Chiesa di papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II.
A questa Chiesa, giovani, uomini, donne, preti e, speriamo, vescovi, cardinali, papa, vogliamo appartenere; questa Chiesa vogliamo testimoniare; questa Chiesa è un seme e un segno buono, lievito nella pasta della storia dell’umanità.
* Del Centro Balducci di Zugliano (Udine), autore del libro “Fuori dal tempio,la Chiesa a servizio dell’umanità” (Laterza, 2011; v. Adista n. 49/11)
Il papa vota repubblicano?
di Massimo Faggioli (Europa, 20 gennaio 2012)
Nella fase cruciale delle primarie, con il front-runner mormone Romney tallonato dai social conservatives spaccati tra i due candidati cattolici Gingrich e Santorum, papa Benedetto XVI ha rivolto un discorso di rara durezza ai vescovi statunitensi in visita ad limina. Il papa ha ricordato la specificità del ruolo della religione e della libertà religiosa in America, fondato su un «consenso morale» attorno al riconoscimento del valore della «legge naturale». Questa legge naturale ha sempre garantito in America non solo la libertà religiosa, ma anche la libertà di coscienza, in un ambiente storico-culturale che si muoveva nel quadro di quelli che il papa definisce «i valori ebraico-cristiani».
Tutto questo è sotto attacco, afferma il papa, a causa di forze culturali che mirano a seppellire non solo quel consenso morale e i valori ebraico-cristiani, ma anche la stessa libertà religiosa e la libertà di coscienza. «Il secolarismo radicale» e «l’individualismo estremo» tendono a stravolgere quel consenso sulla legge naturale tentando di avvocare nuovi diritti, come quelli all’aborto e al matrimonio omosessuale, che il papa contrappone agli «autentici diritti umani».
Il discorso del papa è stato scritto da chi conosce molto bene la situazione del cattolicesimo statunitense, tanto da usare parole-chiave che risalgono al vocabolario del “costituzionalismo cattolico americano” del gesuita John Courtney Murray (quello che contribuì a sdoganare politicamente il cattolicesimo americano, a far eleggere John F. Kennedy, e che per questo si guadagnò la celebre foto sulla copertina di Time del 12 dicembre 1960).
Le questioni di fondo che agitano il rapporto tra chiesa americana e cultura politica all’inizio del secolo XXI sono più ampie e complesse dell’eterna questione del diritto all’aborto. La chiesa americana si sente sotto attacco - tanto da aver creato recentemente una task force episcopale per la difesa della libertà religiosa - per nuovi problemi come quello del matrimonio omosessuale, che è ormai accettato dalla gran parte degli americani, anche dai cattolici delle giovani generazioni. Ma altre questioni sono più intricate, come la recente decisione dell’amministrazione federale americana e di alcuni stati di negare alle carità cattoliche fondi statali fino a quando le carità cattoliche non accettino di mettere in pratica integralmente le linee-guida del governo, che comprendono anche le pratiche contraccettive e abortive.
Su questo si inserisce la messa in pratica della riforma del sistema sanitario, che metterebbe fine ad alcune esenzioni di cui finora i datori di lavoro cattolici potevano godere: ad esempio, escludere dalle polizze di assicurazione sanitaria per i lavoratori delle università cattoliche i rimborsi per pratiche mediche «contrarie alla morale cattolica» ufficiale.
Nei recenti dibattiti i candidati repubblicani religiosi e social-conservatori (Gingrich, Santorum, e Perry) hanno accusato l’amministrazione Obama di aver «dichiarato guerra alla religione» in America e alla chiesa cattolica in particolare. Propaganda a parte, i cattolici liberal che votarono Obama e appoggiarono la sua riforma sanitaria ora chiedono alla Casa Bianca di ripristinare quelle tutele per la libertà di coscienza. Ma i cattolici americani sanno che l’idea del carattere “ebraicocristiano” dell’America nacque nella guerra fredda e che oggi è diventata, nel paese culturalmente e religiosamente più pluralista del mondo, una reliquia.
Gli americani non esiteranno a vedere nel discorso del papa un attacco all’amministrazione Obama, all’inizio di un anno elettorale in cui i cattolici saranno ancora una volta il voto in bilico tra repubblicani e democratici.
Lettera del Vaticano sullo spettacolo di Castellucci
IL CONTROVERSO SPETTACOLO DI CASTELLUCCI
La Segreteria di Stato risponde all’appello di padre Cavalcoli: «Il Papa auspica che ogni mancanza di rispetto incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana»
di ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 19/01/2012)
CITTÀ DEL VATICANO
Il Papa, « auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi pastori». Lo scrive la Segreteria di Stato in una lettera indirizzata al domenicano padre Giovanni Cavalcoli, del convento bolognese di San Domenico, che l’8 gennaio aveva inviato al Pontefice una missiva parlando dello spettacolo «Il concetto del volto del Figlio di Dio» di Romeo Castellucci, in programma al Teatro Parenti di Milano la prossima settimana. La lettera vaticana, datata 16 gennaio, è firmata dall’assessore della Segreteria di Stato, lo statunitense Brian B. Wells.
Padre Calavalcoli, nella lettera inviata a Benedetto XVI, scriveva a nome di un gruppo di fedeli definendo «indegno e blasfemo» lo spettacolo di Castellucci, un’opera «gravemente offensiva della persona del nostro Divin Salvatore Gesù Cristo». «Ci addolora inoltre in modo particolare - continuava il teologo domenicano - la consapevolezza che questo inqualificabile atto di empietà colpisca pure, benché indirettamente, la venerabile e da noi amata persona di vostra Santità», in quanto vicario di Cristo. Padre Cavalcoli osservava che l’avvenimento non rappresenta «un fenomeno casuale, isolato e senza radici», ma si inserisce in «una crescente ostilità nei confronti del cristianesimo che si sta diffondendo nel mondo, nonché di un sintomo ed effetto di un disagio e di una crisi spirituali profondi e diffusi ormai da decenni anche in Italia, in parte anche per una mancata o malintesa applicazione del Concilio Vaticano II».
Dopo aver citato le forze che dentro la Chiesa «remano contro» il Papa, Cavalcoli afferma che episodi come quello del controverso spettacolo di Castellucci «sono resi possibili non solo dagli attacchi della cosiddetta “cristianofobia”, ma anche da gravi vuoti e carenze dottrinali ed educative non dovutamente eliminati da parte di chi di dovere. Pensiamo in modo particolare - scrive il domenicano, riferendosi ai casi di pedofilia del clero - allo scandalo subito dai bambini, nei confronti del quale il Signore ha parole di estrema severità». «Siamo preoccupati - conclude Cavalcoli - per coloro che, come il Castellucci, cercano di trarre vantaggio da una situazione nella quale si fa desiderare una maggiore vigilanza da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche».
Otto giorni dopo l’invio, dunque a stretto giro di posta, ecco la risposta della Segreteria di Stato, nella quale, citando la lettera del frate domenicano, si parla dell’opera teatrale «che risulta offensiva nei confronti del Signore nostro Gesù Cristo e dei cristiani». «Sua Santità - continua la missiva vaticana firmata dall’assessore Wells - ringrazia vivamente per questo segno di spirituale vicinanza e, mentre auspica che ogni mancanza di rispetto verso Dio, i santi e i simboli religiosi incontri la reazione ferma e composta della comunità cristiana, illuminata e guidata dai suoi pastori, le augura ogni bene per il ministero e invia di cuore l’implorata benedizione apostolica». La riproduzione originale della lettera della Segreteria di Stato è messa online da padre Cavalcoli sul sito Riscossa Cristiana e dal comitato San Carlo Borromeo.
Il libro dell’Apocalisse e la storia
Segni dei tempi
di PROSPER GRECH *
Il bellissimo Instrumentum laboris per il sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione, oltre a offrire una buona analisi della situazione odierna, formula l’augurio che nel dibattito si sviluppi un documento che possa dare un impulso decisivo a un risveglio della fede in Cristo. La Chiesa è lumen gentium e ha una missione profetica cui non può rinunciare. Qual è questa missione profetica? Nell’Antico Testamento i profeti avevano, tra l’altro, la funzione di interpretare i segni dei loro tempi; esortavano, in nome di Dio, sia Israele sia Giuda alla fedeltà all’Alleanza, minacciavano sia gli israeliti sia le nazioni straniere con il castigo divino; sviluppavano il senso morale del popolo e predicevano avvenimenti salvifici, perché consideravano il Dio di Israele come Signore della storia. Il popolo di Dio non doveva fidarsi né dell’Egitto né di Babilonia, ma seguire una politica ex fide, perché la storia della salvezza non ha come protagonisti Israele o il popolo ebreo ma Dio stesso. È lui che conduce le vicende della storia, sempre mirando alla salvezza del genere umano.
Nel Nuovo Testamento il Signore della storia è il Cristo risorto: è lui che cammina sulle onde del caos delle vicende umane e salva la barca di Pietro dalle tempeste. Ma è anche lui a predire che nella rete della Chiesa si troveranno pesci buoni e cattivi (Matteo, 13, 47-50) e nel campo ci saranno grano e zizzania (Matteo, 13, 24-43). Egli ci apre gli occhi, ci invita a non scandalizzarci quando vediamo carestie, guerre, rivoluzioni, terremoti e altre disgrazie, perché tali cose devono accadere (Marco, 13, 5-13). La storia è una parabola: la intende chi ha orecchi per intendere. Ma perché queste cose devono avvenire? Il percorso della storia della salvezza nei nostri tempi è sulla stessa linea di quello dell’Antico Testamento.
Il libro dell’Apocalisse è dominato dal Cristo Pantocrator come in un’abside bizantina; ammonisce prima di tutto le sette Chiese, che rappresentano la Chiesa universale, con promesse e minacce. Il rinnovamento della storia ha inizio "a partire dalla casa di Dio" (1 Pietro, 4, 17), come sottolinea anche il documento preparatorio del sinodo. Il messaggio non riguarda però soltanto le singole Nazioni ma anche le strutture economiche, politiche e sociali che assoggettano il mondo alle diverse idolatrie. I terribili mostri e le minacce dell’Apocalisse ripugnano alla mentalità odierna e preferiamo tacerli, forse perché abbiamo ammansito troppo la nostra immagine di Dio secondo i modelli del buonismo e del permissivismo dei tempi nostri.
Il libro dell’Apocalisse parla poco della fine del mondo e il suo messaggio non è altro che una chiave per leggere i segni dei tempi in cui viviamo nella luce della storia della salvezza universale con al centro la Chiesa. Dipinge con simboli paurosi ciò che già aveva predetto Gesù e ne dà le ragioni. Adesso è compito della Chiesa leggere e interpretare questi segni, senza cadere in tendenze apocalittiche e nei fondamentalismi pericolosi di certe sette. L’Apocalisse è essenzialmente un libro di speranza indirizzato a una comunità perseguitata, assicurando che l’ultima vittoria non sarà quella del male e del Maligno ma del Pantocrator che domina la storia.
Quali sono oggi i segni dei tempi? Basta vedere un telegiornale o sfogliare un qualsiasi quotidiano perché saltino immediatamente agli occhi: carestie, attentati, persecuzioni, guerre, crisi economiche, attacchi alla famiglia, ingiustizie e disordini sociali, crollo di imperi e nascita di altri nuovi, droga, aborto, mafie di tutti i generi; questo elenco potrebbe continuare a lungo. Non dimentichiamo, però, che i giornali spesso chiudono gli occhi di fronte al bene che c’è nel mondo perché non fa cronaca, quel bene nascosto conosciuto soltanto dallo Spirito che lo produce. Sono questi "giusti", a qualsiasi popolo appartengano, a tenere la storia in piedi, perché essa possa alla fine essere chiamata storia della salvezza. Non voglio certamente essere un laudator temporis acti; questi mali sono esistiti, in un modo o nell’altro, da Adamo in avanti. Ciò che forse distingue quelli presenti è che, in un occidente laico e agnostico, con la relativizzazione di valori di cui parla spesso Benedetto XVI, oggi ci manca un metro per valutare ciò che è bene o ciò che è male, il vero e il falso, rischiando addirittura di invertirli.
Dobbiamo allora concludere, da quanto abbiamo detto, che Dio sta punendo il mondo? Una tale espressione non troverebbe oggi tanto favore, anche fra i teologi. Dio non punisce il mondo nel senso che è una divinità con la frusta in mano, intenta a scagliare fulmini e tuoni per ogni male che si commette. Dio lascia che il male si punisca da sé. Egli è fonte dell’essere, è Logos, ragione, ordine. L’opposto è il caos. Più il cosmo si distacca da Dio più si sgretola e cade nel caos, con i dolori che esso causa al singolo individuo e alla società.
I segni dei tempi si leggono tenendo il giornale in una mano e la Sacra Scrittura nell’altra, in uno spirito di preghiera. La Chiesa non può sottrarsi dal leggere questi segni e dall’interpretarli, nel modo giusto, per il mondo, per i credenti e per i non credenti, perché essa serve ogni uomo. Questo è il suo munus propheticum. Certamente un tale annuncio troverà ogni sorta di resistenza, ma quale profeta non fu rigettato e perseguitato anche "nella sua patria"? Sono convinto che il prossimo sinodo dei vescovi troverà il coraggio, con l’aiuto di quello Spirito che ha sempre riempito la Chiesa di "profonda convinzione" (plerophorìa, in I Tessalonicesi, 1, 5) e continuerà a dimostrare - come si legge nel vangelo di Giovanni (16, 8) - "la colpa del mondo riguardo al peccato, alla giustizia e al giudizio".
(©L’Osservatore Romano 7-8 gennaio 2012)
Di fronte alle ombre che si allungano sul mondo il Papa indica in Cristo la via da seguire e nei giovani i protagonisti del futuro
La pace pane per l’umanità
È la storia che lo dimostra: il mondo ha bisogno della pace "come e più del pane". Benedetto XVI lo ripete nella solennità di Maria Santissima Madre di Dio, alla quale anche quest’anno, per la quarantacinquesima volta, il Papa affida la sua invocazione per la Giornata mondiale della pace.
Ma questo bene prezioso e indispensabile "come e più del pane" il mondo non può darselo da solo, perché è un dono di Dio, ricevuto tramite Maria. Gesù. È lui la vera "via della pace". Una via "praticabile e aperta a tutti". Ma proprio per questo, avverte il Papa, è urgente che tutti, ciascuno secondo il proprio ruolo, assumano finalmente la responsabilità di andarla a cercare questa pace; di proteggerla e di insegnare alle nuove generazioni a fare altrettanto. Solo così si potrà "guardare al futuro con speranza".
È continua l’invocazione del Papa per l’avvento di un’umanità riconciliata, pacificata, capace di vivere nella giustizia e nella solidarietà. Si fa, se mai possibile, più intensa in questi giorni che segnano il passaggio dal vecchio al nuovo anno. Benedetto XVI vede all’orizzonte ombre che oscurano un mondo divenuto sempre "più piccolo" per le immense possibilità di incontro tra culture e tradizioni diverse, offerte dai progressi tecnologici. Un terreno congeniale alle nuove generazioni, aperte come sono verso gli altri, disponibili alla conoscenza reciproca, al dialogo e alla comprensione. Tuttavia, avverte il Papa, "la realtà sociale in cui crescono" può portare i giovani a pensare e ad agire "in modo opposto, persino intollerante e violento". Per metterli al riparo da questi rischi e renderli capaci di lottare "sempre e soltanto contando sulla forza della verità e del bene" c’è bisogno di una solida "educazione della loro coscienza". Di qui l’urgente necessità di avviare i giovani "alla conoscenza della verità, ai valori fondamentali dell’esistenza, alle virtù intellettuali, teologali e morali" affinché imparino soprattutto "il valore e il metodo della convivenza pacifica" e la capacità di affrontare i conflitti "senza prepotenza", ma con la forza "della testimonianza del bene, del perdono e della riconciliazione".
Anche sabato pomeriggio, 31 dicembre, presiedendo il Te Deum il Papa aveva fatto riferimento alle nuove generazioni "che avvertono maggiormente il disorientamento" causato non solo dalla crisi attuale, ma anche dalle tante ingiustizie, cattiverie e violenze che continuano a essere perpetrate nei confronti dell’umanità. Ma nel tessuto di quest’umanità lacerata "irrompe la novità gioiosa e liberatrice di Cristo Salvatore" e "non c’è più spazio per l’angoscia". Anzi è giunto il momento di mettersi nuovamente "con pazienza e costanza", come ha esortato il Papa i fedeli durante l’Angelus del 1° gennaio, alla ricerca della giustizia e della pace e a "coltivare il gusto per ciò che è retto e vero".
(©L’Osservatore Romano 2-3 gennaio 2012)
“L’Italia deve fare un po’ di pulizia” Parola di padre Georg
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2011)
La prima sortita politica di don Georg, segretario del Papa, si conclude con un bacio accademico dell’aristocratica rettore Stefania Giannini. Università degli Stranieri di Perugia: laurea honoris causa a mons. Gaenswein, mitico assistente di Benedetto XVI, che riceve toga e berretto dopo una lezione sui rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, dal concordato del 1929 all’accordo del 1984. Il prorettore Marco Impagliazzo (della Comunità di Sant’Egidio) lo saluta come ex alunno di un paesino del Baden, in Germania, arrivato “tirando la cinghia” agli esordi fino ad assistere papa Ratzinger.
Gaenswein è docente di Diritto canonico, sa misurare le parole, parla di un rapporto in cui la Chiesa non è “funzionale” allo Stato e lo Stato non è “braccio secolare” della Chiesa. Entrambi, così recita l’accordo Craxi-Casaroli che ha riformato il concordato, hanno come obiettivo la collaborazione per il bene dell’uomo e del Paese.
Lancia l’idea di uno statuto speciale per Roma perché meglio possa rispondere al triplice compito di capitale, città internazionale, sede del papato e centro della cattolicità. Con particolare riguardo al turismo religioso e la valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici, ma anche ai trasporti e i servizi sanitari e sociali per cittadini e non cittadini, extracomunitari compresi. Ma non vuole essere invasivo: tra la proposta e la realizzazione, dice, c’è un bel pezzo di strada da fare. E non tocca a lui fare proposte tecniche.
Gaenswein ha un modo di fare diretto, sobrio, privo dei machiavellismi di un certo ambiente curiale e (nella sua fisicità che ricorda il giovane Wojtyla nei Tatra) non si circonda nemmeno degli incensi di una spiritualità ostentata. Il prorettore Impagliazzo ricorda le sue pene giovanili, quando - sono parole di don Georg - era costretto a rinchiudersi per studiare “in un posto polveroso, dove non c’è birra”.
Adesso, diventato “don Giorgio”, si caratterizza per assoluta lealtà al Papa e discrezione, senza ambizioni di giocare all’eminenza grigia. La sua uscita su un tema politico si svolge secondo uno stile di un autocontrollo massimo. Sa bene che la testa di Berlusconi è in gioco, ma dribbla le domande immediate dei reporter sulla manifestazione delle donne: “Non parlo di attualità politica italiana, non parlo di politica della Santa Sede”. Ma un messaggio agli italiani lo lancia. “Per ritrovare la sua identità cristiana l’Italia deve fare un po’ di pulizia. C’è un po’ di polvere e un po’ di ombre da togliere”. L’augurio è di un Paese che ritrovi una “vera unità interna ed esterna”, senza litigi su cose secondarie.
Qualche ora dopo il cardinale Bagnasco, presidente della Cei - consapevole della tempesta giudiziaria che si addensa su Berlusconi, anche l’Osservatore la riporta - dichiarava: “La trasparenza è un bene da perseguire sempre a tutti i livelli per il bene del Paese... è un valore che tutti desiderano e che fa parte di una cultura dignitosa”. Anche Bagnasco non vuole fare politica, ma si avverte che i vertici ecclesiastici si stanno sganciando da Berlusconi.
Lunedì, quando gli esponenti della maggioranza si affannavano a denigrare le manifestazioni di domenica, l’Osservatore Romano ha titolato seccamente “Un milione di persone in piazza”, ricordando che anche all’estero si erano svolte dimostrazioni “a difesa della dignità della donna”. Soltanto chi conosce la fattura dei giornali coglie la crudeltà delle poche righe che l’Osservatore ha attaccato in coda alla notizia. “... Dal canto suo il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha dichiarato di essere al lavoro per la stabilità del governo”.
Ma soprattutto, sull’Avvenire, il direttore Marco Tarquinio torna sulla manifestazione per sbugiardare gli incauti commenti della ministra Mariastella Gelmini. “Una piazza che è impossibile liquidare come radical-chic”, afferma il direttore del giornale dei vescovi. Aggiungendo: “Siamo erestiamo tra coloro che sanno che una morale fondata su pilastri essenziali c’è”. E suona come un de profundis per il partito delle mutande di Ferrara.
I cinque anni di pontificato di Benedetto XVI: cinque anni di polemiche e
di interventi maldestri
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” del 18 aprile 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Da una crisi all’altra. Così sembra procedere il pontificato di Benedetto XVI, eletto papa il 19 aprile 2005. In capo a cinque anni, colui che veniva presentato come un papa di transizione appare sempre più il rappresentante di un pontificato tormentato. Molte delle sue decisioni e delle sue dichiarazioni hanno avuto un’eco che la personalità riservata, se non timida, di questo “vecchio” papa dal carisma incerto - ha festeggiato gli 83 anni venerdì 16 aprile - non lasciava presagire.
Già l’anno scorso l’anniversario della sua elezione era stato oscurato da una valanga di polemiche. Revoca della scomunica di vescovi integralisti, affermazioni controverse sull’aids, silenzio dopo la scomunica di medici che avevano proceduto ad un aborto su una ragazzina brasiliana violentata: in poche settimane, questi scandali avevano indebolito la Chiesa, turbato i credenti e sottolineato la difficoltà del Vaticano a tenere in considerazione le realtà politiche ed umane.
Anche quest’anno, il periodo è caratterizzato dalla confusione in cui si trova la Chiesa dopo la rivelazione a cascata di scandali di pedofilia e a causa della sua comunicazione inadeguata rispetto a questi eventi. “È un pontificato tragico”, è il giudizio dello storico Philippe Levillain.
Le crisi che si susseguono appartengono a diversi ordini. Alcune sono rivelatrici di un ripiegamento della Chiesa su se stessa, staccata dal mondo: ad esempio la mano tesa ai vescovi integralisti, nemici giurati della Chiesa “moderna” uscita dal Concilio Vaticano II, non è stata capita neppure da una parte del mondo cattolico europeo. Preoccupato di riassorbire l’ultimo scisma nella storia del cattolicesimo e di fare tutto il possibile per restaurare “l’unità della Chiesa”, il papa non ha adeguatamente valutato il rifiuto di questa decisione.
Le dichiarazioni negazioniste di uno dei vescovi implicati, Mons. Williamson, condannato venerdì 16 aprile a 10 000 euro di ammenda da un tribunale tedesco, hanno finito per pregiudicare la legittimità di tale iniziativa. Allo stesso modo, l’insistenza di Benedetto XVI per promuovere la beatificazione di Pio XII, il papa discusso per il suo atteggiamento durante la Shoah, ha trovato pochi difensori.
Altre controversie rientrano invece in quello che i suoi sostenitori chiamano “il rigore” intellettuale di Benedetto XVI. Il suo discorso a Ratisbona, nel settembre 2006, che sembrava stabilire un legame intrinseco tra islam e violenza, fa parte di quelle crisi provocate dal papa stesso. Un papa teologo, professorale, un papa del testo scritto, poco uso agli abituali modi di comunicazione. Più a suo agio nella lunghezza e nella complessità che nel gesto mediatico, Benedetto XVI ha pubblicato tre encicliche, di cui l’ultima, sulla dottrina sociale, non ha certo avuto l’eco che si riprometteva.
Altre crisi (aids, pedofilia) hanno mostrato la propensione dell’istituzione a gridare al “complotto” o all’“anticristianesimo” quando il messaggio della Chiesa non passa. Il fatto è che il discorso insistente dell’istituzione sulla morale sessuale è diventato, col passare delle generazioni, sempre meno udibile; e gli scandali di pedofilia indeboliranno la sua credibilità su questi temi.
Tali episodi mettono in discussione un sistema di governo ipercentralizzato, non adeguato ai tempi in un mondo globalizzato e reattivo, e le cui disfunzioni sono simboleggiate dai ricorrenti problemi di comunicazione.
Benedetto XVI, come i suoi predecessori, non ha realizzato la riforma della curia, i cui principali responsabili sono uomini di più di 75 anni. Vedono il papa ad intervalli irregolari, lavorano a compartimenti stagni, e spesso non hanno lo stesso punto di vista sui problemi. Questo modo di governare dà spesso luogo a dichiarazioni contraddittorie, che costringono poi a scuse o sconfessioni. La mano tesa agli integralisti e la gestione degli scandali di pedofilia sono due esempi dei conflitti ai vertici della gerarchia cattolica.
L’assenza di promiscuità sociale, generazionale e sessuale tra i responsabili di una Chiesa composta di un miliardo di persone accentua il fossato che sembra scavarsi tra la Chiesa incarnata da Benedetto XVI e le società secolarizzate. Tanto più che le polemiche a ripetizione hanno oscurato dei viaggi politici piuttosto ben riusciti in Africa e in Terra Santa, così come il discorso, sempre ben percepito, della Chiesa sulla pace e sul sostegno ai più poveri e agli immigrati.
“La sua volontà di tornare ad un pontificato più modesto, centrato sui fondamentali dell’insegnamento della Chiesa si scontra con questi scandali che si susseguono”, constata lo storico Jean-Dominique Durand. “Cercando di porre le basi di una Chiesa più sana, solleva più problemi di quanti non ne risolva”, deplora anche Philippe Levillain.
La bufera legata alla pedofilia lascerà della tracce che ora è difficile valutare. Toccherà al successore di Benedetto XVI trarre le conseguenze di questo trauma e aprire la riflessione su dei temi (fine del celibato obbligatorio per i preti, ridefinizione del posto dei laici e delle donne nella Chiesa, collegialità e trasparenza, nuovo concilio...) che il papa non ha senza dubbio né la voglia né il tempo di affrontare.
Ma nel mondo questo papa sta perdendo la voce morale
di Robert Mickens (Liberazione, 16 aprile 2010)*
Papa Benedetto XVI siede sul Trono di Pietro da cinque anni, tra pochi giorni, e, mentre coloro che vivono all’interno del Gra (Grande Raccordo Anulare) sono troppo vicini alla corte papale per notarlo, molte persone nel mondo pensano che questo pontificato si stia avviando rapidamente al disastro.
Dopo una lunga serie di decisioni controverse prese "motu proprio" (di propria iniziativa) e senza un’estesa o seria consultazione (es.: la ripresa della Messa Tridentina, il riavvicinamento agli scismatici e antisemiti seguaci di Marcel Lefebvre, l’istituzione di quasi-diocesi per Anglicani ultraconservatori che si convertono in massa al cattolicesimo Romano, ecc.), la credibilità del papa è stata seriamente compromessa, più recentemente, dallo scandalo di abusi sessuali su minori da parte di religiosi e che, con effetto domino, si sta abbattendo sull’Europa continentale.
Ancor più offensivo è stato il rifiuto di papa Ratzinger di rispondere ad una serie di accuse che lo indicano colpevole al pari di ogni altro vescovo nel mondo che ha cercato di tenere nascosto alla stampa e alle autorità civili il fenomeno degli abusi sessuali. Documenti che risalgono all’epoca in cui era cardinale-arcivescovo di Monaco (1977-1982) e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (1981-2005), suggeriscono che, nella migliore delle ipotesi, egli abbia delegato troppa della sua responsabilità a dei subalterni nel trattare i casi di abusi sessuali commessi dal clero; in quella peggiore, questi incartamenti rivelano che non abbia agito nella "rigorosa, trasparente e rapida" maniera, che i suoi sostenitori, invece, dicono abbia usato.
Trasparenza e rapidità non sono termini che una persona seria userebbe in riferimento all’operato di Joseph Ratzinger. Forse il contrario. Ma questo non ha impedito a gran parte dei giornali italiani di utilizzarli in quella che sembra a molti non-italiani come una difesa papalina del "troppo offeso" pontefice. I difensori del papa, che indossino la berretta rossa o che per essi scrivano, vorrebbero dipingerlo come vittima di un complotto preparato dai media internazionali e dai laicisti "nemici della chiesa". Alcuni vaticanisti includono anche dei "dissidenti cattolici".
Ma per molti che non vivono nel Bel Paese, la situazione appare diversa. Negli Stati Uniti, in Canada, Australia, Inghilterra, Irlanda e negli altri paesi che sono già stati costretti a gestire lo scandalo degli abusi sessuali fatti dal clero - Austria inclusa -, i cattolici sono sconcertati dal silenzio di papa Benedetto e arrabbiati per come i suoi fedeli alleati con la mitria lo abbiano difeso gridando al complotto.
Il deferente peana fatto dal cardinal Angelo Sodano la domenica di Pasqua in piazza San Pietro ha imbarazzato molti cattolici nel mondo ed ha soltanto dato maggior rilievo al silenzio del Papa ed ha totalmente oscurato il messaggio pasquale facendo sembrare lui e la Chiesa intera eccessivamente difensivi piuttosto che trasparenti e veritieri.
In molti paesi, i cattolici - sia conservatori sia progressisti - stanno semplicemente chiedendo al loro papa, un uomo che conoscono come fortemente dedito alla difesa della Verità, di farsi avanti e di dire la verità. Vogliono che ammetta cosa sapeva e quando lo ha saputo; cosa ha fatto e perché lo ha fatto. E se ha commesso degli errori si aspettano che, come ogni altra persona, lo ammetta e si prenda la responsabilità. Questo includerebbe un vero chiedere scusa, un vero "mea culpa", e non soltanto una calcolata espressione di dispiacere, che è quello che molti hanno avvertito nella sua inadeguata lettera di dieci pagine indirizzata ai cattolici in Irlanda.
Essi sanno perfettamente che gli ufficiali della Chiesa, inclusi quelli di Roma, hanno appena iniziato a trattare questi "crimini" perché le vittime hanno trovato il coraggio di denunciare i preti alle autorità civili (cosa che i capi della Chiesa non hanno fatto) e, in alcuni paesi, i tribunali hanno imposto alle diocesi e agli ordini religiosi il pagamento di somme ingenti come risarcimento alle vittime. La cattiva pubblicità sulla stampa ha giocato un ruolo non secondario nel costringere la svogliata gerarchia cattolica a prendere finalmente dei provvedimenti con riluttanza e inadeguatamente.
Quello che servirebbe ora per ristabilire la fiducia e la credibilità è qualcosa di più radicale che pubblicare le contorte norme procedurali della Congregazione per la dottrina, a lungo secretate, sul sito del Vaticano - dopo quasi cinque anni di pontificato.
Lo scandalo degli abusi e il suo insabbiamento secondo quasi tutti i vescovi del mondo sono diventati una crisi istituzionale - una crisi di autorità e di credibilità. Questo perché lo scandalo degli abusi sessuali (o forse il modo in cui il Vaticano lo ha malgestito) è diventato un parafulmine per altre profonde preoccupazioni che sono state a lungo ignorate da Roma. Ci sono crescenti tensioni sin dal pontificato di Giovanni Paolo II, quando lui e l’allora cardinal Ratzinger hanno risolutamente fermato il dibattito interecclesiale e la discussione su vitali e irrisolti problemi dopo il Concilio Vaticano II, come la collegialità episcopale, l’obbligatorietà del celibato sacerdotale, il ruolo della donna nella chiesa, e l’insegnamento di Roma sulla sessualità, solo per citarne alcuni.
Poi c’è una serie di iniziative nell’attuale pontificato - specie il ritorno al rito Tridentino, - che ha creato ancora più forte disagio e preoccupazione fra i "cattolici del concilio". Ciò che lega questi temi all’attuale crisi degli abusi sessuali è la dolorosa presa di coscienza tra fedeli, che siano ordinati o non-ordinati, che c’è un velenoso clericalismo che sta diventando un cancro nel corpo di Cristo; che nuove strutture siano necessarie affinché la lobby clericalista, che a lungo ha favorito l’insabbiamento ed ha incoraggiato l’ossessiva segretezza all’interno di questa piccola casta, debba essere radicalmente riformata e sostituita da una vera "communio" ecclesiale che faccia spazio ai non-ordinati nella dirigenza della chiesa.
Tutte queste tensioni, e l’inabilità della Santa Sede a gestirle, stanno generando una implosione. Ma pare che il papa e i suoi collaboratori non se ne rendano conto. Ancora. E pensano che sia una breve crisi che tra poco passerà. Probabilmente sono sostenuti in questo dalla lettura della stampa italiana che, in gran parte, è deferente al potere della gerarchia ecclesiastica e difende quello che sembrerebbe il più grande tesoro nazionale italiano, il papato. Mentre si avvicina l’anniversario di questo controverso pontificato, diventa dolorosamente chiaro anche ai più fedeli sostenitori che papa Benedetto XVI sta perdendo la sua voce morale. E quando la recupererà - se la recupererà - saranno pochi quelli disposti ad ascoltarla ancora.
* vaticanista americano
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
Circondato dai suoi principali collaboratori, il pontefice ha dettato la linea: basta imbarazzi, combattiamo
Rispondere ai dossier, colpo su colpo e la Chiesa decide: muro intorno al Papa
Schierati anche i due giornali cattolici con editoriali a difesa della Santa Sede
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 28.03.2010)
CITTÀ DEL VATICANO - Il concetto chiave viene citato più volte: «guerra». Sta in questa parola, a volte pronunciata espressamente, persino da alcuni vescovi, ma soprattutto nel contrastare quel che significa, affrontando adesso l’attacco come una «sfida» e una «battaglia», il cambio di strategia del Vaticano sul caso pedofilia. Perché, come ha scritto ieri sul sito Internet della sua diocesi il cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster e primate inglese, «il Papa non è un osservatore ozioso: le sue azioni parlano quanto le sue parole». Così Benedetto XVI, dopo un consulto con i suoi principali collaboratori, tra cui il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, all’ombra della presenza discreta ma solida del suo segretario particolare, monsignor Georg Gaenswein, ha guardato con benevolenza un approccio mediaticamente più combattivo.
In Vaticano il primo momento di shock è ormai passato. I giorni dell’imbarazzo e della difficoltà a replicare alle accuse con sufficiente credibilità sembrano alle spalle. Il portavoce papale Federico Lombardi continua la sua linea tranquilla di rispondere ai dossier pubblicati dai giornali americani, tedeschi, italiani, attraverso comunicati di chiarimento e spiegazione. Ma adesso è il contorno a cambiare. E oltre alla forza d’urto dei due quotidiani vaticani, L’Osservatore Romano espressione della Santa Sede («contro gli abusi sui minori nessuno ha fatto quanto Benedetto XVI», si leggeva sul numero di ieri), e Avvenire il giornale dei vescovi («la posta in gioco rischia di non essere più soltanto la tutela delle vittime ma lo statuto stesso della Chiesa»), sono gli stessi cardinali a fare blocco attorno al pontefice. Le ultime prese di posizione svelano il nuovo approccio con evidenza.
Già aveva cominciato venerdì scorso padre Raniero Cantalamessa, il predicatore pontificio, parlando di «accanimento mediatico» contro il Vaticano e di una «guerra» dalla quale la Chiesa «uscirà più splendente che mai». È stata poi la volta di monsignor Antonio Riboldi, vescovo emerito di Acerra, nel sostenere che gli attacchi al Papa dimostrano che «è in atto una guerra, una guerra tra la Chiesa e il mondo, tra Satana e Dio», dove gli strali contro il pontificato sarebbero rivelatori «dell’indice di odio che si respira».
Quindi è stato il fuoco di fila della classe politica amica a barricare la Santa Sede dietro una cortina spessa di difesa, con l’aiuto, giunto ieri, di focolarini e altri movimenti, come il Rinnovamento nello Spirito, che assicurano a Benedetto XVI «vicinanza e preghiera in questo momento in cui assistiamo al moltiplicarsi di attacchi alla sua persona». Senza la necessità di aspettare reazioni da parte del cardinale Bertone o del presidente della Cei, Angelo Bagnasco, sono infine arrivati i contributi di due pezzi da novanta, il cardinale americano William Levada, attuale prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, e il cardinale Angelo Comastri, vicario per la Città del Vaticano. Il primo, sulla linea della recente Lettera pastorale inviata dal pontefice ai cattolici irlandesi, ha detto con molta nettezza che «nel trattare i casi di abusi di minori da parte del clero, cerchiamo di essere il più compassionevoli possibile, ma anche fermi e chiari quando necessario». Il secondo ha anche invitato i fedeli a «offrire tutte le preghiere personali e comunitarie, la recita del rosario e dell’ufficio divino per Benedetto XVI in questo difficile momento, affinché la grazia di Dio lo sostenga».
Una difesa a tutto campo, insomma, e una reazione alla «guerra». Con il doppio obiettivo sia di rintuzzare quelli che vengono considerati come veri e propri «attacchi al Papa e alla Chiesa», sia di smontare le accuse di copertura del fenomeno fatte a Joseph Ratzinger per gli anni in cui guidava l’Arcidiocesi di Monaco di Baviera e l’ex Sant’Uffizio, e alle alte gerarchie ecclesiastiche
Oggi, Domenica di Pentecoste, il Papa - senza grazia ("charis") e senza amore ("charitas") - ricorda ’’Hiroshima e Nagasaki ". E’ proprio vero: ’’L’inquinamento dell’ambiente e quello del cuore avvelenano l’esistenza’’. VENI, CREATOR SPIRITUS ...
’’L’uomo non vuole piu’ essere immagine di Dio’’
Papa: ’’Hiroshima e Nagasaki restano a monito dei rischi dell’atomo per l’uomo’’
Il Santo Padre nella solenne messa della Domenica di Pentecoste: ’"L’energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite"
Citta’ del Vaticano, 31 mag. (Adnkronos) - "A perenne monito rimangono le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, dove l’energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite". E’ quanto ha detto il Papa che oggi, Domenica di Pentecoste, ha presieduto la solenne messa nella Basilica Vaticana. "Impossessatosi delle energie del cosmo, il ’fuoco’, l’essere umano sembra oggi affermare se stesso come dio e voler trasformare il mondo escludendo, mettendo da parte o addirittura rifiutando il creatore dell’universo - ha spiegato il Papa - L’uomo non vuole piu’ essere immagine di Dio, ma di se stesso; si dichiara autonomo, libero, adulto.
Evidentemente tale atteggiamento rivela un rapporto non autentico con Dio, conseguenza di una falsa immagine che di lui si e’ costruita, come il figlio prodigo della parabola evangelica che crede di realizzare se stesso allontanandosi dalla casa del padre". "Nelle mani di un uomo cosi’, il ’fuoco’ e le sue enormi potenzialita’ diventano pericolosi: possono ritorcersi contro la vita e l’umanita’ stessa, come dimostra purtroppo la storia - ha ricordato - A perenne monito rimangono le tragedie di Hiroshima e Nagasaki, dove l’energia atomica, utilizzata per scopi bellici, ha finito per seminare morte in proporzioni inaudite.
Si potrebbero in verita’ trovare molti esempi, meno gravi eppure altrettanto sintomatici, nella realta’ di ogni giorno". "La Sacra Scrittura ci rivela che l’energia capace di muovere il mondo non e’ una forza anonima e cieca, ma e’ l’azione dello ’spirito di Dio che aleggiava sulle acque’ - ha detto il Papa - all’inizio della creazione. E Gesu’ Cristo ha ’portato sulla terra’ non la forza vitale, che gia’ vi abitava, ma lo Spirito Santo, cioe’ l’amore di Dio che ’rinnova la faccia della terra’ purificandola dal male e liberandola dal dominio della morte". "Questo ’fuoco’ puro, essenziale e personale, il fuoco dell’amore, e’ disceso sugli Apostoli, riuniti in preghiera con Maria nel Cenacolo, per fare della Chiesa il prolungamento dell’opera rinnovatrice di Cristo", ha concluso.
Benedetto XVI: ’’L’inquinamento dell’ambiente e quello del cuore avvelenano l’esistenza’’
Il Santo Padre nella solenne messa della Domenica di Pentecoste: ’’Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell’aria, e per questo l’impegno ecologico rappresenta oggi una priorità, altrettanto si dovrebbe fare per ciò che corrompe lo spirito’’. Sono troppe le ’’immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna, a questo sembra che ci si abitui senza difficoltà’’
Citta’ del Vaticano, 31 mag. (Adnkronos) - "Nel mondo antico la tempesta era vista come segno della potenza divina, al cui cospetto l’uomo si sentiva soggiogato e atterrito. Ma vorrei sottolineare anche un altro aspetto: la tempesta e’ descritta come ’vento impetuoso’, e questo fa pensare all’aria, che distingue il nostro pianeta dagli altri astri e ci permette di vivere su di esso. Quello che l’aria e’ per la vita biologica, lo e’ lo Spirito Santo per la vita spirituale; e come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi, cosi’ esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale". Ad affermarlo e’ stato il Papa che oggi, nella Domenica di Pentecoste, ha presieduto nella Basilica Vaticana la solenne messa.
"Allo stesso modo in cui non bisogna assuefarsi ai veleni dell’aria, e per questo l’impegno ecologico rappresenta oggi una priorita’, altrettanto si dovrebbe fare per cio’ che corrompe lo spirito - ha proseguito il Papa - sembra invece che a tanti prodotti inquinanti la mente e il cuore che circolano nelle nostre societa’, ad esempio immagini che spettacolarizzano il piacere, la violenza o il disprezzo per l’uomo e la donna, a questo sembra che ci si abitui senza difficolta’".
"Anche questo e’ liberta’, si dice, senza riconoscere che tutto cio’ inquina, intossica l’animo soprattutto delle nuove generazioni, e finisce poi per condizionarne la stessa liberta’ - ha sottolineato - La metafora del vento impetuoso di Pentecoste fa pensare a quanto invece sia prezioso respirare aria pulita, sia con i polmoni, quella fisica, sia con il cuore, quella spirituale, l’aria salubre dello spirito che e’ l’amore".
Dopo lo scontro sui lefebvriani Ratzinger scrive una lettera in cui parla di "odio senza timore"
E a 4 anni dall’elezione alza il velo su una crisi cruciale all’interno della Curia
Il Papa e la guerra del Vaticano
"Ostilità pronte all’attacco"
di MARCO POLITI *
CITTA DEL VATICANO - Una Curia allo sbando, un Papa chiuso nel suo palazzo e costretto a fronteggiare una bufera che l’Osservatore Romano definisce senza esempi in tempi recenti. E fughe di notizie che l’organo vaticano bolla come "miserande". Quattro anni dopo la sua elezione Benedetto XVI sperimenta una crisi cruciale del suo pontificato. Ferito e solo, ha scritto parole amare ed aspre ai vescovi di tutto il mondo, lamentando che - per la vicenda della scomunica condonata ai quattro vescovi lefebvriani e specie per il caso Williamson - proprio ambienti cattolici gli abbiano mostrato un’"ostilità pronta all’attacco". Persino arrivando a trattarlo, lui dice, con "odio senza timore e riserbo".
C’è qualcosa che traballa nella gestione della Curia. Se ne avevano segnali da tempo, ma la rivolta di alcuni grandi episcopati - in Germania, Austria, Francia e Svizzera - contro la decisione papale di graziare i vescovi lefebvriani scomunicati senza ottenere preventivamente una loro leale adesione al concilio Vaticano II, ha messo in luce una disfunzione più generale. Per due volte decisioni papali, che attendevano di essere rese note attraverso la sala stampa, sono state fatte filtrare all’esterno in anticipo causando clamore e polemiche. È successo con il decreto di revoca delle scomuniche, è capitato di nuovo con le indiscrezioni sulla lettera papale ai vescovi. Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore, fustiga in un corsivo le "manipolazioni e strumentalizzazioni" anche all’interno della Curia romana, ammonendo che la Curia è "organismo storicamente collegiale e che nella Chiesa ha un dovere di esemplarità".
Sferzata inedita e dura a chi nel palazzo apostolico non si è attenuto alla linea del riserbo e dell’obbedienza. Ma l’impaccio e le disfunzioni della macchina curiale vanno al di là della vicenda lefebvriana.
Benedetto XVI è solo. Ma non perché ci sia un partito che gli rema contro. Bensì per il suo di governo solitario, che non fa leva sulla consultazione e non presta attenzione ai segnali che vengono dall’esterno. Meno che mai quando provengono dal mondo dei media, considerato a priori con sospetto. "Benché sia stato più di un ventennio in Vaticano al tempo in cui era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede - spiega off record un monsignore - Ratzinger non conosce affatto la Curia. Era chiuso ieri nella sua stanza nell’ex Sant’Uffizio ed è chiuso oggi nel suo studio da papa. Lui è un teologo, non è un uomo di governo. Passa metà della giornata a occuparsi dei problemi della Chiesa e l’altra metà concentrato sui suoi scritti: sul secondo volume dedicato a Gesù". Monsignore si ferma e soggiunge: "Non è detto che un grande teologo abbia con precisione il polso della realtà così come è".
Certo, esiste in Curia un pugno di fedelissimi. Il cardinale Bertone in primis. O il suo successore alla Congregazione per la Dottrina della fede, Levada. O il nuovo responsabile del dicastero del Culto divino, lo spagnolo Canizares. Parlano il suo stesso linguaggio i cardinali Grocholewski, responsabile del dicastero dell’Educazione cattolica, o Rodè, titolare della Congregazione dei religiosi. E fra i presidenti delle conferenze episcopali è in prima a linea a solidarizzare con il pontefice il cardinale Bagnasco, che prontamente ieri ha espresso "gratitudine" per le chiarificazioni del Papa. Ma la fedeltà non basta. "Ciò che si avverte - spiega un altro frequentatore dei sacri palazzi - è l’assenza di una guida lineare della macchina curiale". Macchina complessa, che va condotta con mano ferma dal Papa, dai suoi segretari di Stato e qualche volta da alcuni segretari particolari molto attivi dietro le quinte: come Capovilla per Giovanni XXIII, Macchi per Paolo VI, Dziwisz per Giovanni Paolo II.
Mons. Gaenswein, ed è un suo pregio caratteriale, non ama giocare a fare il braccio destro (occulto) del Papa. Ma contemporaneamente pesa il fatto che larga parte della macchina curiale non riconosce il Segretario di Stato Bertone come "uno dei suoi". Bertone non viene dalla diplomazia pontificia. Non ha fatto la trafila dei monsignori che hanno cominciato da minutanti in un ufficio della Curia e poi sono saliti crescendo nella rete di contatti, passando magari attraverso l’esperienza di un paio di nunziature all’estero. Bertone è un outsider. Scelto da Ratzinger perché suo primo collaboratore al Sant’Uffizio e perché di provata sintonia e fedeltà. Ma alla fin fine il mondo curiale non si sente sulla stessa lunghezza d’onda con il "salesiano".
Non è una posizione facile la sua. Da un lato finisce per essere in qualche modo separato dalla macchina curiale, dall’altro non può influire sulla direzione di marcia che di volta in volta Benedetto XVI intraprende. Abile nel controllare e riparare i danni, quando si verificano, il Segretario di Stato può tuttavia intervenire soltanto dopo. Perché in ultima analisi Ratzinger si esercita in uno stile di monarca solitario. Nella lettera ai vescovi il Papa riconosce che portata e limiti del suo decreto sui vescovi lefebvriani non siano stati "illustrati in modo sufficientemente chiaro" al momento della pubblicazione. Adesso finalmente la commissione Ecclesia Dei, guidata dal cardinale Castrillon Hoyos (fino a ieri titolare esclusivo dei negoziati con la Fraternità Pio X), verrà inquadrata nel lavoro della Congregazione per la Dottrina della fede e in tal modo - garantisce il Papa - nelle decisioni da prendere sulle trattative con i lefebvriani verranno coinvolti i cardinali capi-dicastero vaticani e i rappresentanti dell’episcopato mondiale partecipanti alle riunioni plenarie dell’ex Sant’Uffizio.
Il rimedio adottato ora rappresenta la confessione che Benedetto XVI nella vicenda non ha coinvolto nessuno, non ha informato nessuno e ha lasciato mano libera al cardinale Castrillon Hoyos, che non lo ha nemmeno informato esaurientemente sui trascorsi negazionisti di Williams, noti da più di un anno per la loro impudenza. I filo-lefebvriani di Curia in questa partita hanno giocato spregiudicatamente la carta delle indiscrezioni per dare per scontato un riavvicinamento ancora tutto da costruire. "Papa Ratzinger - confida un vescovo che ben conosce il sacro palazzo - è stato in fondo generoso nell’assumersi ogni responsabilità senza dare la colpa a nessun collaboratore. Ma nel suo modo di governare c’è un problema: parte sempre dall’assunto che quando è stabilita la verità di una linea, allora si deve andare avanti e basta. Non mette in conto le conseguenze esterne del suo ruolino di marcia e nella sua psicologia non crede nemmeno che gli uomini di Curia siano all’altezza di dargli veri consigli".
Non è casuale allora che siano stati i grandi episcopati d’Europa e del Canada a ribellarsi all’idea che con l’improvvisa mano tesa ai lefebvriani apparisse annacquata l’indispensabile fedeltà della Chiesa contemporanea ai principi del Vaticano II. Persino un intimo di Ratzinger come il cardinale di Vienna Schoenborn è stato costretto a denunciare le "insufficienti procedure di comunicazione nel Vaticano". Un modo elegante per evitare di criticare direttamente il Papa. Ma proprio in Austria si è giocato un altro evento senza precedenti nella storia dei pontificati moderni. Un vescovo ausiliare scelto dal pontefice è stato respinto dall’episcopato intero di una nazione, costringendo Benedetto XVI a un’ennesima marcia indietro.
Questo gli uomini di Curia non l’avevano mai visto.
* la Repubblica, 13 marzo 2009
Nessuno tocchi il Concilio Vaticano II
Appello ai cattolici contro la revoca della scomunica ai lefebvriani
di Paolo Farinella - Genova
Come cattolico che rappresenta solo se stesso, ed eventualmente anche chi volesse firmare questa dichiarazione, desidero esprimere tutta la mia preoccupazione e il mio sconcerto per le scelte che papa Benedetto XVI sta mettendo in atto per riportare la chiesa al tempo prima del concilio e anche oltre. L’autorizzazione generalizzata della Messa preconciliare, sottratta all’autorità dei vescovi, costituì, come oggi appare evidente, la premessa per giungere all’abolizione della scomunica ai quattro vescovi consacrati da mons. Marcel Lefebvre senza mandato apostolico.
E’ buona cosa ristabilire l’unità della e nella Chiesa, ma nessun papa può togliere una scomunica se non vengono rimossi i motivi per cui un altro papa l’ha dichiarata. Dalle dichiarazioni pubbliche degli interessati e dei loro seguaci risulta che essi leggono il gesto unilaterale del papa come un’ammissione della validità delle loro posizioni e quindi come un risarcimento dovuto. Dichiarano, inoltre, che nessuna condizione gli è stata posta, tanto meno una dichiarazione di accettazione del concilio Vaticano II che ritengono non compatibile con la tradizione. I lefebvriani, infatti, affermano di essere disposti a dare il sangue per la Chiesa, ma di non potere accettare il concilio Vaticano II «diverso dagli altri» (leggi: eretico) per cui la loro fedeltà si ferma al Vaticano I.
Togliere la scomunica senza porre la condizione della previa adesione al magistero del concilio Vaticano II, è un atto immorale, causa di scandalo per tutti coloro che per fedeltà ad esso hanno sofferto, sono stati emarginati, ridotti al silenzio, perseguitati, privati dell’insegnamento, ridotti allo stato laicale. Senza una previa accettazione del concilio Vaticano II, togliere la scomunica appare ai semplici come complicità con gli scismatici, facendo apparire il papa come papa di parte e non papa cattolico.
Il caso del vescovo lefebvriano, Richard Williamson, che nega l’Olocausto, non può suscitare sdegno o meraviglia, perché l’antisemitismo è parte integrante della teologia lefebvriana che è quella della chiesa preconciliare ed è uno dei motivi per cui essi non accettano il concilio di papa Giovanni XXIII. La loro teologia giudica gli Ebrei colpevoli di «deicidio» e quindi reprobi dell’umanità. Il papa sapeva e sa qual è la posta in gioco: i lefebvriani negano l’ecumenismo, la libertà di coscienza, la libertà religiosa come è sancita nei documenti conciliari, firmati da un papa e da oltre due mila vescovi di tutto il mondo. Tutti i tentativi per ridurre il danno delle dichiarazioni blasfeme e ignobili di Williamson sono patetici e portano in grembo conseguenze che ancora non possiamo immaginare. Il papa ha sbagliato e diffonde confusione tra i fedeli, incrinando la credibilità dei cattolici nel mondo, mettendo a rischio l’ortodossia stessa che tanto gli sta a cuore.
Se il papa è giusto deve applicare stessa «compassione» e lo stesso trattamento di accoglienza privilegiato e senza condizioni, riservato ai lefebvriani; e con le stesse modalità e la stessa tempistica lo deve estendere alle teologhe e teologi della teologia della liberazione dell’America Latina, dell’Asia, dell’Africa, dell’India, ai teologi degli Usa e dell’Europa; ai laici e religiosi allontanati dall’insegnamento o dalle attività pastorali; a coloro che sono stati umiliati, angariati e costretti al silenzio; a tutti quelli che hanno la colpa di avere lavorato per una Chiesa più evangelica, alla luce degli insegnamenti della Pentecoste del concilio ecumenico Vaticano II; a tutte le comunità di base del continente latinoamericano, rigogliosissimo frutto della Pentecoste conciliare, che sono state considerate scismatiche, mentre erano solo fedeli al vangelo e al Vaticano II.
Nessuno tocchi il concilio Vaticano II! Chiediamo che i vescovi gridino con la forza del sacramento davanti al papa, in ginocchio ma con la schiena dritta il loro «non possumus». Noi li seguiremo, altrimenti saremo costretti anche andare da soli, come stiamo già facendo. Per il bene della Chiesa sarebbe opportuno che il papa Benedetto XVI rassegnasse le sue dimissioni.
Genova 04 febbraio 2009
Paolo Farinella - Genova
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Il pentimento indispensabile
di Marek Halter (la Repubblica, 30.1.09)
In Polonia, nella grande sala dell’Università Cattolica di Lublino, la folla è numerosa. Il clero occupa le prime file per la Giornata del giudaismo istituita dalla Chiesa polacca. Io sono l’ospite d’onore ed è la prima volta che torno nel mio Paese natale. Emozione. Ritrovo la lingua. Parlo della storia che accomuna ebrei e polacchi da mille anni, da quando nacque il regno di Polonia.
Racconto la vita di questa minoranza ebraica che prima della guerra rappresentava l’11 per cento della popolazione, una percentuale comparabile a quella dei neri negli Stati Uniti odierni. Chiedo di immaginare New York, Los Angeles, Chicago o Baltimora senza afroamericani. Quel grande Paese non sarebbe più lo stesso: e nemmeno il suo cinema, la sua musica, la sua letteratura, i suoi balli, il ritmo delle sue strade. La Polonia senza ebrei mi fa lo stesso effetto. Noi siamo, dico, come una coppia molto anziana. Una coppia che si amava, si odiava, si affascinava, arrivava addirittura ad augurarsi che l’altro scomparisse, ma quando l’altro non c’è più chi resta si ritrova vedovo.
Lublino non aveva mai sentito un discorso simile. Io sognavo di fare di questa Giornata del giudaismo una Giornata del pentimento. Tre milioni e mezzo di ebrei assassinati lo giustificavano ampiamente. Certo, non sono stati propriamente i polacchi ad ucciderli, ma la maggioranza tra loro, come ricordava il polacco Czeslaw Milosz, premio Nobel della letteratura 1980, non li ha nemmeno granché aiutati. Il pentimento mi sembra assolutamente indispensabile: come potrebbero altrimenti i polacchi riappropriarsi finalmente della loro storia, di tutta la loro storia, compresa la parte ebraica del loro passato?
Come una saracinesca è caduto un silenzio sulle mie ultime parole. Neanche un applauso: la freddezza del metallo. Quando l’arcivescovo di Lublino, monsignor Jozef Zycinski, ha chiesto se c’erano domande, si è alzato un uomo. Mi ha fatto cortesemente le sue congratulazioni. Poi mi ha chiesto perché non avevo invitato i russi a dare mostra di pentimento. Precisando: quei russi che hanno massacrato centinaia di migliaia di polacchi «con la complicità dei comunisti ebrei». Allora, soltanto allora, la sala, unanimemente, si è alzata in piedi applaudendo entusiasticamente. È andata avanti per dieci minuti buoni. L’arcivescovo, visibilmente imbarazzato, ha alzato le braccia al cielo: «Smettetela! Offendete il vostro pastore!». La sua collera era sincera. La reazione della folla anche.
Sotto l’influenza di Giovanni Paolo II, il papa polacco che ho avuto l’onore di conoscere bene, la gerarchia cattolica si era riavvicinata agli ebrei. Non erano, citando le sue stesse parole, i «fratelli maggiori della Chiesa»? Le accuse di "popolo deicida" cominciarono a scomparire dalla liturgia e l’espressione "perfidi giudei" sparì dalla preghiera del Venerdì Santo. Giovanni Paolo II era un papa di resistenza. Per cominciare, si era opposto al totalitarismo sovietico. Questa resistenza l’aveva portata avanti, già prima della guerra, al fianco degli ebrei di Wodowice, il paesino dov’era nato; dopo la guerra contro il comunismo importato che soffocava il suo Paese.
Il cardinale Ratzinger, il suo successore col nome di Benedetto XVI, è, invece, un papa di guerra. Il ritorno della religione, fenomeno che avrebbe segnato il nuovo secolo secondo le tesi da lui stesso sostenute, non va solo a vantaggio della Chiesa, tutt’altro. Altre religioni, in particolare l’Islam, ne traggono profitto. Ieri era il comunismo che si ergeva contro il cristianesimo, oggi è la moschea che si erge contro la chiesa. In questi ultimi anni, i cristiani sono stati scacciati dall’Iraq. In Egitto, in Indonesia e in India sono perseguitati, a volte assassinati. Ecco perché, in un discorso a Ratisbona il 12 settembre del 2006, Benedetto XVI ha appellato l’Islam alla Ragione. Ha ripetuto queste affermazioni due mesi fa di fronte a dei responsabili musulmani invitati in Vaticano.
Più vicino a Urbano II, che lanciò la prima crociata nel 1095, che a Giulio II, che commissionò gli affreschi della Cappella Sistina a Michelangelo nel 1512, Benedetto XVI sa che per opporsi all’Islam ha bisogno di tutte le forze della Chiesa, comprese le più dure e reazionarie fra di esse. Ed ecco che ha tolto la scomunica che colpiva, dai tempi di Giovanni Paolo II i vescovi integralisti, tra cui il negazionista monsignor Williamson. Aprendo le porte della Chiesa ai vescovi ordinati illegalmente da monsignor Marcel Lefebvre, contestatore delle decisioni del concilio Vaticano II (1962-1965), Benedetto XVI tenta di adunare gli estremisti della Fraternità sacerdotale San Pio X, valutati in centocinquantamila fedeli in tutto il mondo.
Nella sua strategia figura anche la riabilitazione di Pio XII, quel papa che i suoi avversari chiamavano "il papa di Hitler". Eletto il 2 marzo 1939, l’anno in cui le truppe naziste entrarono a Varsavia, Pio XII inviò una lettera personale al Führer: «Desideriamo restare legati al popolo tedesco affidato alle vostre cure, attraverso un’intima benevolenza».
Dopo la guerra, il suo silenzio in quegli anni di morte fu abbondantemente commentato e criticato. L’Osservatore Romano, di cui suo nonno Marcantonio Pacelli fu uno dei fondatori, prese le sue difese: «Di fronte all’Olocausto, il papa Pio XII non è stato né silenzioso né antisemita, ma prudente». Che sarebbe successo il papa fosse stato meno prudente, se avesse chiamato tutti i cristiani, e innanzitutto i suoi, i cattolici, a salvare gli ebrei? La Shoah avrebbe preso un’altra piega? Il drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth pose questa domanda con clamore nella sua opera Il vicario, realizzata a Berlino Ovest il 20 agosto 1963: la pièce fece scalpore in tutto il mondo. Nel 2002 Costa Gavras ne ricavò un film, Amen.
La storica italiana Emma Fattorini torna sull’argomento in un libro di recente pubblicazione, Pio XII, Hitler e Mussolini. Basandosi su un documento trovato negli archivi del Vaticano, la Fattorini assicura che Pio XI, predecessore di Pio XII, aveva convocato l’11 febbraio 1939 l’insieme dei vescovi italiani per il decimo anniversario degli accordi del Laterano tra la Chiesa e Mussolini. In quell’occasione avrebbe condannato il regime fascista e quello nazista. Ma Pio XI morì la notte del 10 febbraio 1939. C’è chi sostiene, senza poterlo dimostrare, che sarebbe morto per avvelenamento.
Il papa all’epoca aveva ottantadue anni. Invece, secondo il documento citato dalla Fattorini, il suo segretario di Stato, il cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, si mostrò fautore di un atteggiamento più diplomatico verso i fascisti e avrebbe fatto distruggere sia le bozze che i piombi di quel discorso mai pronunciato.
I difensori di Pio XII, soprattutto quelli che si battono per la sua beatificazione, come il tedesco Gumpel e un’ampia fascia conservatrice della Chiesa, negano il suo antigiudaismo. Per l’attuale pontefice, Joseph Ratzinger, «la causa della beatificazione del servitore di Dio proseguirà felicemente».
Il ritorno del fantasma di Pio XII ha provocato commozione e collera in Israele e nelle comunità ebraiche di tutto il mondo: era veramente antisemita? Non necessariamente. Se non rispose alla lettera del 14 giugno 1942 dell’arcivescovo di Friburgo, monsignor Conrad Gröber, che lo allertava sulla determinazione del regime nazista a distruggere il giudaismo, è perché quell’argomento, ahimé, non lo interessava affatto. Per Pio XII, il pericolo principale non era il fascismo, ma la Russia comunista, regime ateo. Preferì dunque tenersi buona la Germania, perfino quando invase la Polonia, condannando invece la Russia quando questa attaccò la Finlandia. La crociata contro il comunismo lo condurrà a sostenere Franco contro la Repubblica spagnola e a rallegrarsi con l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede per i successi militari della Wehrmacht sul fronte russo.
Il destino dell’uomo è tragico: unico tra gli esseri viventi a essere a conoscenza del limite della sua esistenza. Esistenza difficile, che sopravvive solo grazie alla speranza. In Francia, i laici sono riusciti a imporre, con Aristide Briand, il 9 dicembre 1905, la legge sulla separazione tra le Chiese e lo Stato, perché erano in grado di offrire ai francesi speranze universali diverse da quelle delle religioni. Di fronte alle confessioni allora rappresentate, la cattolica, la protestante, la luterana, la riformata e l’israelita, la Storia ha schierato il socialismo, il comunismo, il fascismo e il liberalismo, ideologie che hanno poi fallito. Da allora, sempre incapaci di vivere senza speranza, gli uomini tornano alla religione. Insomma, con Nietzsche abbiamo creduto che Dio era morto, ma ci siamo sbagliati. Un giorno su un muro di Berlino ho visto una scritta: «Nietzsche è morto»; era firmata Dio. Ma le vie del Signore, sempre impenetrabili, sono veramente quelle di Ratzinger?
Traduzione di Fabio Galimberti
Gay in piazza contro il Vaticano: appoggia le peggiori dittature *
Sono scesi in piazza per protestare contro le dichiarazioni del Vaticano che non ha firmato i documento dell’Onu in cui si chiedeva agli 80 paesi che ancora considerano l’omosessualità un reato, di depenalizzarlo. Sono i gay, trans, lesbiche e bisessuali italiani che non ci stanno ad essere considerati dei criminali. A capitanarli, c’è l’ex deputato di Rifondazione Comunista Vladimir Luxuria: porta il cappio al collo, per ricordare tutte quelle persone che, a causa del proprio orientamento sessuale, vengono uccise e torturate. «Il Vaticano - spiegano gli organizzatori del sit-in - non firmando il documento che la Francia ha proposto all’Onu per chiedere la depenalizzazione dell’omosessualità, di fatto sostiene gli oltre 80 paesi del mondo che perseguitano gli omosessuali, in 9 dei quali è prevista la pena di morte».
Alla manifestazione, promossa dalle associazioni Certi Diritti, Arcigay e Arcilesbica, hanno aderito Radicali Italiani e, tra le altre, le associazioni lgbt Mario Mieli, DjGayProject, GayLib, Libellula, Rosa Arcobaleno, oltre alle Associazioni Luca Coscioni e Nessuno Tocchi Caino. In piazza c’è anche l’ex deputato socialista Franco Grillino: «Con il rifiuto di sottoscrivere la mozione europea all’Onu - dice - il Vaticano getta la maschera del suo presunto buonismo schierandosi con le peggiori dittature islamiche comprese quelle dove governi islamo-fascisti comminano la pena di morte agli omosessuali: Iran, Mauritania, Sudan, Emirati arabi uniti, Yemen, Arabia Saudita, Nigeria».
Secondo Luxuria, quella del Vaticano contro i gay è una vera e propria crociata: «Ormai hanno un’ossessione di odio nei nostri confronti da rimanerne accecati - dice - non c’è nulla di evangelico nè di cristiano contro la depenalizzazione gay e la difesa della vita - conclude - non può essere fatta solo per gli embrioni o per Eluana Englaro».
* l’Unità, 06 Dic 2008
Il Papa e Bush uniti negli errori
di HANS KÜNG (La Stampa, 22/7/2008)
In aprile Benedetto XVI festeggiò i suoi 81 anni con George W. Bush alla Casa Bianca. Curioso: il Papa, ambasciatore di pace e verità, che brinda con un presidente di guerra che, anche agli occhi di molti americani, con le bugie e la propaganda ha trascinato una grande democrazia in una guerra brutale, senza apparenti strategie per uscirne.
Secondo un sondaggio recente, l’80 per cento degli americani è convinto che gli Stati Uniti sono «sulla strada sbagliata». Di qui lo slogan di questa campagna elettorale per la Casa Bianca: «Cambiamento». E il Papa? A parte una tardiva ammissione di colpa per gli innumerevoli casi di pedofilia tra il clero cattolico, non ha praticamente detto una sola parola di cambiamento nella chiesa e nella società.
George W. Bush e Joseph Ratzinger sono diversi per carattere, istruzione e modo di parlare come possono esserlo un cowboy del Texas e un prelato romano. Bush non ha mai mascherato il suo atteggiamento anti-intellettuale. La sua conoscenza della storia è limitata tanto quanto la sua conoscenza della geografia, della lingue straniere e della filosofia. Una raccolta delle sue famigerate gaffe linguistiche e logiche («Bushism») ha prodotto molte risate. La sua visione del mondo è racchiusa nel modello manicheo dell’opposizione tra bene («noi») e male («loro»). All’opposto, Benedetto XVI ha goduto di un’eccellente istruzione classica e ha imparato alcune lingue straniere. Il suo pensiero è sottile, il linguaggio raffinato, le azioni prudenti. Per un quarto di secolo ha osservato attentamente le cose del mondo dalle finestre del Vaticano. Nel decidere si lascia guidare dalle usanze centenarie della Curia romana, il corpo amministrativo della Chiesa cattolica romana.
I due però hanno anche molto in comune. Entrambi amano le apparizioni pompose, siano esse su un aereo o davanti alle masse in piazza San Pietro. In occasione della visita del Papa, il Presidente tentò di competere con il cerimoniale imperiale del pontefice romano ricorrendo a una guardia d’onore e una salva con 21 cannoni. Sia il Presidente sia il Papa condividono un atteggiamento conservatore, soprattutto quando si tratta di controllo delle nascite, morale familiare, esibita devozione cristiana. Nel caso del presidente, questo atteggiamento sembra piuttosto fondamentalista; nel caso del Papa, sovraccarico di tradizione. Ovviamente, entrambi ritenevano che tutta questa ostentazione di fondamenta morali condivise avrebbe fatto guadagnare punti con il pubblico americano.
Nel suo recente viaggio di commiato nelle capitali europee, era evidente che il Presidente, che ha incontrato solo fiacca indifferenza anziché dimostrazioni ostili, è stato cancellato come un’anatra zoppa. Imperterrito, ha ripetuto il suo discorso sulla lotta per la libertà e la democrazia, per la «sicurezza» e la pace. In questo modo ha mostrato la sua personale versione di infallibilità, che lo rende incapace di imparare alcunché e gli impedisce di cogliere una qualunque occasione per ammettere la sua colpa di fronte all’immenso disastro che le sue azioni hanno creato nel mondo.
Il Papa, invece, non è un’anatra zoppa. E anche se lui, secondo una più recente dottrina romana, ha ancora una certa «infallibilità nelle questioni di fede e morale», è però capace di imparare. Dopo tutto ha concesso a me, suo critico, un’amichevole conversazione di quattro ore nella residenza estiva di Castel Gandolfo, nel corso della quale ha mostrato una sorprendente capacità di fare passi avanti nelle sue riflessioni. E nel viaggio in Turchia del 2006 ha corretto - con una visita fuori programma a una moschea e una chiara espressione di alta considerazione per l’Islam - le controverse osservazioni sull’Islam come religione di violenza, fatte qualche mese prima in Germania, all’Università di Ratisbona.
Il Papa è in carica da soli tre anni. Non potrebbe imparare, mi chiedo, dai fallimenti del presidente Bush? Alla sua grande intelligenza e alla sua sensibilità storica non possono sfuggire i segnali ammonitori per il futuro del suo pontificato.
Ne segnalo cinque:
1. Con la reintroduzione del tradizionale rito latino nella Messa, abolito dal Concilio Vaticano II e da Paolo VI in favore di una liturgia più accessibile nella lingua vernacolare, si è attirato molte critiche nell’episcopato e tra i pastori.
2. Nell’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, a Istanbul, il Papa non ha dato segni di compromesso sui diritti legali romani medievali sulle chiese ortodosse e così non ha fatto nemmeno un passo avanti verso la riunificazione tra Est e Ovest.
3. Con le apparizioni pubbliche in sontuose vesti liturgiche nello stile di Leone X, che voleva gustare il pontificato in tutti i suoi agi e che porta la responsabilità principale per il «no» di Roma alle richieste di riforma di Lutero, Benedetto XVI ha confermato l’idea di molti protestanti che il Papa non conosce in profondità la Riforma.
4. Mantenendo rigidamente la legge medievale del celibato per il clero occidentale, porta la principale responsabilità del declino del sacerdozio cattolico in molti Paesi e del crollo delle tradizionali strutture della cura pastorale nelle sempre più numerose comunità rimaste senza prete.
5. Insistendo sulla perniciosa enciclica Humanae vitae contro qualunque forma di controllo delle nascite, il Papa condivide la responsabilità della sovrappopolazione, soprattutto nei Paesi più poveri, e dell’ulteriore diffusione dell’Aids.
Quella che il giornalista Jacob Weisberg chiama «la tragedia di Bush» non dovrebbe indurre Benedetto XVI a pensare più attentamente alle sue azioni? Mal consigliato dai neoconservatori e tenacemente appoggiato da media compiacenti, Bush voleva portare il suo Paese in una «nuova era americana». Ora finisce la sua carriera da fallito, a stento rispettato dal suo stesso partito.
«Sapienti sat» - «questo basta a chi capisce» - solevano dire gli antichi romani. Chi conosce la situazione della Chiesa non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.
La Pasqua politica
di Furio Colombo *
Il giorno di Pasqua del 2008 resterà memorabile per una svolta della Chiesa cattolica sotto la guida di Papa Ratzinger. Una terminologia politica sarebbe forse più adatta di quella religiosa per definire la svolta di cui stiamo parlando. Accostare fatti diversi avvenuti nello stesso giorno, e tutti legati al capo della Chiesa di Roma, servirà a far capire di che cosa stiamo parlando. Prima, ma solo il giorno prima di Pasqua, viene il discorso d’addio di Mon. Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme, dunque inviato e rappresentante del Papa, in Medio Oriente, già militante di Al Fatah e amico personale di Arafat, da sempre nemico di Israele.
Vescovo o non vescovo, è naturale che Sabbah sia legato prima di tutto alla sua parte. Ma nell’occasione esclusivamente religiosa del suo addio al patriarcato, ha avuto questo da dire ai suoi fedeli palestinesi, divisi nella violenza, nella repressione e nel sangue fra la fazione Hamas di Gaza e ciò che resta di Al Fatah intorno ad Abu Mazen in Ramallah. Ha detto: «Il Medio Oriente ha bisogno di uomini di pace. Israele non ne ha. Da Israele non può venire la pace».
Sarebbe facile interpretare queste parole incaute e potenzialmente dannose (un implicito invito a continuare il conflitto) se l’evento restasse chiuso nella cornice stretta della esasperazione di un palestinese. Ma Mons. Sabbah rappresenta tutta la Chiesa, e non c’è stato alcun cenno di correzione. Al contrario. Il giorno dopo gli fa eco il capo della Chiesa cattolica. Nella benedizione pasquale invoca (nell’ordine) Iraq, Darfur, Libano, Medio Oriente, Terra Santa.
Come nelle carte geografiche arabe, il nome di Israele non compare, caduto nella fenditura fra Medio Oriente (che definisce l’intera area del conflitto) e Terra Santa, che è il nome della presenza cristiana in alcuni luoghi e territori del Medio Oriente, molti dentro i confini dello stato di Israele, proclamato dalle Nazioni Unite nel 1948.
Si sa che Joseph Ratzinger è uomo attento ai dettagli e - da buon docente di teologia - meticoloso nelle definizioni. Se Israele non viene nominato vuol dire che non esiste, secondo le regole vigorose di una tradizione di insegnamento che - ormai lo abbiamo imparato - calcola e soppesa ogni frammento di evento e di parola.
Ma le decisioni politiche espresse in modo chiaro, addirittura drammatico, nel giorno della Pasqua cristiana non si fermano qui. Accade che un notissimo giornalista e scrittore di origine egiziana e di religione islamica, Magdi Allam, abbia deciso di convertirsi, di diventare cattolico.
A tanti secoli di distanza dai tempi in cui la conversione di un imperatore doveva essere solenne e pubblica perché significava la conversione di un intero popolo, chiunque avrebbe pensato che la luce della fede secondo il Vangelo avrebbe raggiunto uno scrittore-giornalista nell’intimo della sua vita privata. Invece è accaduto qualcosa di sorprendente e di stravagante: Magdi Allam si è convertito in mondovisione. Il suo battesimo è stato somministrato personalmente dal Papa.
Il Papa - lo abbiamo detto e lo ricordiamo - è allo stesso tempo il capo di una grande religione e di un piccolo potentissimo Stato. Le conseguenze di ogni gesto, in entrambi i ruoli, hanno, come tutti sanno, un peso molto grande. E’ un peso che cade due volte sulla delicata e instabile condizione internazionale. In un primo senso una delle tre grandi religioni monoteiste celebra se stessa come la sola unica e vera, e presenta Magdi Allam come qualcuno che ha visto la luce e si è elevato molto al di sopra della sua condizione ("di religione islamica") precedente.
In un secondo senso una implicita ma evidente dichiarazione di superiorità è stata resa pubblica, solennemente, in un modo che non ha niente a che fare con l’intima avventura di una conversione. Lo ha fatto personalmente il capo della Chiesa cattolica dedicandola a tutti i Paesi consegnati allo stato di inferiorità detto "islamismo".
Per evitare incertezze su questa interpretazione, la clamorosa pubblicità del gesto diffuso in mondovisione è diventato il messaggio: Allam è salvo perché non è più islamico. E’ finalmente ospite della grande religione che è il cuore della civiltà occidentale.
Da parte sua Magdi Allam ha voluto offrire un commento chiarificatore. Ha spiegato che l’islamismo - moderato o estremista che sia - ha al suo centro il nodo oscuro della violenza. Ha sanzionato l’idea di una religione inferiore e di una superiore.
Comprensibile, anche se insolita per eccesso, l’illuminazione che Magdi Allam ha voluto dare al suo gesto per ragioni personali. Un giornalista, già noto, battezzato personalmente dal Papa in mondovisione lascia certo una traccia. Ma provate ad accostare il gesto di governo religioso di Papa Ratzinger, che accoglie personalmente un personaggio in fuga dall’inferno islamico e lo congiunge al rifiuto di nominare, nel corso di un altro evento altamente simbolico (la benedizione Urbi et Orbi), il nome di Israele, un Paese la cui sopravvivenza è in pericolo.
Senza dubbio si tratta di due eventi diversi, opposti e straordinari. Ma i due gesti si equivalgono, quasi si rispecchiano per un tratto in comune. Una delle tre grandi religioni monoteiste sceglie, al livello della sua massima rappresentanza, di essere conflittuale verso le altre. Alla patria degli ebrei e alla sensibilità religiosa degli islamici non viene dedicata alcuna attenzione. Non è strano?
Forse no, visto alcuni precedenti di papa Ratzinger. Uno è il discorso di Bratislava, che ha creato, come si ricorderà, una lunga situazione di imbarazzo. Un altro è l’esitazione e il ritardo, e di nuovo l’esitazione, nel porre il Tibet e la sua libertà, prima di tutto religiosa, al centro dell’attenzione.
E poi ci sono precedenti omissioni o disattenzioni di Joseph Ratzinger nei confronti di Israele, che hanno richiesto correzioni e provocato fasi di gelo che non si ricordano sotto la guida dei suoi predecessori.
Questo è il caso di un Papa-governante che è noto per essere un minuzioso tessitore della propria politica e che - a quanto si dice - non ricade mai nei giochi "di curia" o comunque nei giochi di altri.
Dunque è inevitabile la domanda. Mentre tace su Israele e battezza con la massima risonanza mondiale qualcuno che ha abiurato l’islamismo, mentre, intanto si tiene prudentemente alla larga dal Tibet, dove sta andando il Papa, dove sta portando la Chiesa di cui è governante e docente?
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 25.03.08, Modificato il: 25.03.08 alle ore 11.13
DISCORSO DI PAPA GIOVANNI XXIII PER L’APERTURA DEL CONCILIO VATICANO II
" Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo.
Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa."
Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962
Alla cerimonia in San Pietro ha partecipato anche una delegazione del governo di Madrid
Il cardinale Saraiva ammonisce: "Non accontentiamoci di un cristianesimo vissuto timidamente"
Beatificati 498 martiri spagnoli
"Difendiamo la nostra identità"
I nuovi beati sono stati uccisi tra il 1934 e il ’37. Il Papa: "Il loro numero dimostra
che la suprema testimonianza del sangue non è un’eccezione riservata soltanto ad alcuni"
CITTA’ DEL VATICANO - Circa 40.000 persone hanno seguito in piazza San Pietro la cerimonia per la beatificazione di 498 martiri spagnoli uccisi negli anni 1934, ’36 e ’37. A presiedere il rito il cardinale Josè Saraiva Martins, delegato dal Papa, che ha celebrato in spagnolo. In Piazza San Pietro anche una delegazione del governo guidata dal ministro degli Esteri Miguel Angel Moratinos accompagnato dall’ambasciatore di Madrid presso la Santa Sede, Francisco Vazquez e dal direttore generale degli Affari religiosi, Mercedes Rico.
Ancora, tra i presenti i rappresentati di alcuni governi autonomi della Spagna in base alla provenienza dei martiri, tra gli altri quello di Catalogna: 146 dei martiri infatti sono stati uccisi nell’arcidiocesi di Barcellona.
I martiri caduti durante la Guerra civile spagnola dal 1934 al 1937, ha detto il cardinale Saraiva, si sono "comportati da buoni cristiani e hanno offerto la loro vita gridando: viva Cristo re". Tra i martiri elevati oggi alla gloria degli altari ci sono persone che vanno dai 16 ai 78 anni; si tratta di preti, monache e religiose ma anche di laici. "Tutti - ha ricordato il Prefetto della Congregazione per le cause dei santi - sono chiamati alla santità, tutti senza eccezioni come ha dichiarato il Concilio Vaticano II".
Ma il cardinale ha anche fatto qualche riferimento all’attualità spiegando che "non possiamo accontentarci di un cristianesimo vissuto timidamente". Nel discorso, il cardinale ha citato più volte l’insegnamento di Benedetto XVI e in particolare ha ricordato che "essere cristiani coerenti impone di non inibirsi di fronte al dovere di dare il proprio contributo mal bene comune e di modellare la società sempre secondo giustizia, difendendo, in un dialogo forgiato dalla carità, le nostre convinzioni sulla dignità della persona, sulla vita, dal concepimento fino alla morte naturale, sulla famiglia fondata sull’unione matrimoniale unice e indissolubile tra un uomo e una donna e sul dovere primario dei genitori all’educazione dei figli".
I nuovi beati spagnoli sono stati ricordati successivamente anche dal Papa durante la celebrazione dell’Angelus: "I 498 martiri uccisi in Spagna negli anni ’30 del secolo scorso sono uomini e donne diversi per età vocazione e condizione sociale, che hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa", ha detto Benedetto XVI.
"La contemporanea iscrizione nell’albo dei beati di un così gran numero di martiri - ha affermato ancora il Pontefice - dimostra che la suprema testimonianza del sangue non è un’eccezione riservata soltanto ad alcuni individui, ma un’eventualità realistica per l’intero Popolo cristiano".
* la Repubblica, 28 ottobre 2007.
Benedetto XVI non si ferma: beatificazione per 498 franchisti *
Come preannunciato e nonostante le polemiche, domenica la Chiesa Cattolica beatifica tutti insieme 498 martiri franchisti.
La cerimonia, che si terrà domenica in piazza San Pietro, farà salire a 977 i martiri spagnoli riconosciuti dalla Chiesa, dei quali 11 sono già santi. «Di altri 2 mila sono in corso i processi di beatificazione e altri se ne apriranno, perchè furono circa 10 mila i martiri della Spagna in quell’epoca», ha affermato padre Juan Antonio Martinez Camino, segretario dell’Episcopato spagnolo.
* l’Unità, Pubblicato il: 27.10.07, Modificato il: 27.10.07 alle ore 21.05
Benedetto XVI beatificherà 500 franchisti *
La chiesa spagnola ha nostalgia del fascismo, e il Vaticano le dà corda, accogliendo la decisione di beatificare quasi 500 fascisti spagnoli. Sono religiosi e laici che secondo i vescovi sono stati perseguitati durante la Repubblica e che vengono ora beatificati per rispondere ai tentativi del governo Zapatero di rifare i conti con il passato spagnolo. È una vera e propria battaglia a colpi di memoria, quella tra il Governo e la Chiesa spagnola. Da una lato, quindi, l’esecutivo guidato da Zapatero che si prepara a varare una legge in cui il franchismo venga finalmente condannato e in cui si dichiari l’illegittimità di ogni suo “strascico”, come ad esempio le sentenze emesse dai tribunali duranti il regime. Dall’altra invece la Chiesa spagnola che si prepara al 28 ottobre data in cui ha deciso di beatificare 498, tra religiosi e civili, «martiri della Repubblica». Racconta la vicenda El Pais, quotidiano progressista iberico.
Tra venti giorni, dunque, papa Benedetto XVI celebrerà la funzione in piazza San Pietro: mai prima d’ora si era verificata una beatificazione così numerosa, e il numero dei beati potrebbe anche salire. La Conferenza episcopale spagnola calcola che il numero di religiosi e laici, che sarebbero stati perseguitati e uccisi durante la guerra civile (1936-1939) che portò alla fine della Repubblica e all’avvento della dittatura del generale Francisco Franco, potrebbe oscillare tra i duemila e i diecimila. Numerosissimo anche il pubblico di pellegrini che la Chiesa prevede parteciperà alla funzione. «Piazza San Pietro - dicono dalla Cei iberica - non sembrerà vuota. Sarà una grande festa, perché grande è la pagina di storia che rappresenta». Non c’è dubbio.
«Nessuna megalomania» ribadiscono dal Vaticano, ma una risposta alla legge sulla Memoria Storica voluta dal governo. Il portavoce dei vescovi spagnoli, Martínez Camino, ci tiene a sottolineare la «persecuzione religiosa durante la Repubblica» subita dai futuri beati: «Non un caso isolato - insiste Camino - ma rientra nella grande persecuzione subita nel corso del XX secolo in Europa dai cristiani di tutte le confessioni». La cerimonia a Roma, conclude il portavoce «aiuterà l’opinione pubblica italiana conoscere una pagina incompresa della storia della Chiesa spagnola».
L’iniziativa dei vescovi iberici, è un nuovo capitolo della «memoria è rimasta in frigorifero» come l’ha definita su Le Monde Diplomatique lo scrittore Josè Manuel Fajardo: la democrazia spagnola rinata con la fine del franchismo «per evitare atti di violenza e di vendetta» avrebbe scartato «qualsiasi ipotesi di messa sotto accusa di coloro che avevano partecipato alla dittatura e ai suoi crimini». In questo senso, la legge sulla memoria servirà a «ridare dignità alle vittime tramite iniziative come la dichiarazione di nullità dei processi franchisti e l’esumazione dei cadaveri dei repubblicani sotterrati anonimamente in fosse comuni». Ma sta scatenando accese polemiche nella politica spagnola: per la sinistra è troppo timida, mentre la destra continua a boicottarla.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.10.07, Modificato il: 08.10.07 alle ore 13.54
Il carisma e le paure
Perché papa Ratzinger è così popolare
di Sergio Romano *
A coloro che appaiono sorpresi dall’aumento del turismo religioso a Roma dopo l’elezione al papato di un uomo molto meno esuberante e carismatico del suo predecessore, (come riferisce oggi il Corriere a pagina 23) suggerisco alcuni esempi tratti da vicende recenti. A Mosca, in occasione dei funerali di Boris Eltsin, Vladimir Putin, ex colonnello del Kgb, ha seppellito il suo predecessore con la solenne liturgia della tradizione ortodossa nella cattedrale di Cristo Salvatore. A Rangoon, già capitale di uno Stato governato da un’oligarchia militare, la protesta contro il regime è esplosa quando alcune migliaia di monaci buddhisti hanno cominciato a manifestare silenziosamente nelle vie della città.
A Washington, durante una grande assemblea di evangelici, alcuni potenziali candidati repubblicani alla presidenza (fra cui Rudolph Giuliani, divorziato e abortista) si sono avvicendati sul podio per dimostrare alla platea che non sarebbero stati insensibili alla domanda di «valori » gridata, secondo i sociologi americani, da 70 milioni di elettori «rinati» ( born again). A Istanbul e ad Ankara, prima della questione armena e della crisi curda, il problema maggiormente dibattuto era il velo che copre i capelli della moglie del nuovo presidente turco. E nel cuore dell’Europa laica, infine, alcuni milioni di musulmani hanno scrupolosamente osservato le prescrizioni dietetiche del Ramadan. Esiste un revival religioso che si manifesta in forme diverse ma investe molte società contemporanee.
L’integralismo musulmano è soltanto la sua manifestazione più estrema e radicale. Questo fenomeno è probabilmente il risultato di molte paure. La prima è economica e sociale. Per i giovani e per molti ceti, la globalizzazione e la crisi dello Stato assistenziale hanno reso il futuro assai più incerto e preoccupante di quanto non fosse negli anni in cui gli impieghi erano stabili, le cure sanitarie più o meno garantite e i trattamenti previdenziali sicuri. La seconda paura è «ambientalista». Il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, gli tsunami, le alluvioni e i grandi incendi, sino a quelli degli scorsi giorni in California, hanno risvegliato il timore di un nuovo «anno Mille». La terza paura investe l’area delle certezze e delle consuetudini morali. Le antiche leggi che hanno governato per molti secoli i momenti fondamentali della vita- la nascita, la procreazione e la morte - hanno lasciato il posto a una più larga gamma di opzioni, dalla fecondazione artificiale all’eutanasia, dalle unioni di fatto ai matrimoni fra omosessuali.
Ciò che può sembrare progresso, rappresenta per molti un fattore di smarrimento e di confusione. Mentre gli uomini politici vivono alla giornata e cercano di accontentare tutti i loro elettori, le religioni danno risposte nette e offrono ai fedeli disorientati l’ancora della certezza. Benedetto XVI è molto diverso da Giovanni Paolo II. Mentre il Papa polacco era un apostolo moderno, un pastore continuamente alla ricerca di nuove greggi, il Papa tedesco è anzitutto un dottore della Chiesa, una cattedra di principi irrinunciabili e di solenni silenzi. Ma la fermezza con cui difende l’ortodossia e rivendica il primato del Cattolicesimo lo rende, ancora più del suo predecessore, l’uomo del momento. In un’intervista pubblicata dal Corriere il 20 ottobre ha ricordato le sue esitazioni e incertezze all’epoca del Concilio. Quel mea culpa («Io stesso ero, in quel contesto, quasi troppo timoroso rispetto a quanto avrei dovuto osare...»), tranquillizza i fedeli e li attira verso il Soglio di Pietro. E’ necessario che i laici, se vogliono difendere i loro valori, si preparino a farlo con altrettanto zelo e altrettanto rigore.
* Corriere della Sera, 26 ottobre 2007
Gli Usa decretano: le Guardie iraniane sono «terroristi»
Nuove sanzioni all’Iran
di Ma.Fo. (il manifesto, 26.10.2007)
Gli Stati uniti hanno annunciato ieri nuove sanzioni contro l’Iran, con un gesto che sembra più un preludio a un attacco militare che un semplice inasprimento delle misure già in vigore.
Le sanzioni annunciate ieri infatti riguardano le Guardie della rivoluzione (Sepah-e-pasdaran). La segretaria di stato Condoleezza Rice, insieme al segretario al tesoro Henry Paulson, ha accusato la divisione al-Quds delle Guardie (le truppe di élite) di «sostenere il terrorismo», e l’intero corpo delle Guardie della Rivoluzione di «proliferare armi di distruzione di massa». Ha quindi annunciato sanzioni contro oltre 20 aziende iraniane, banche e individui, nonché contro il ministero della difesa di Tehran. Misure, ha detto Rice, pensate per «aumentare per l’Iran il costo del suo comportamento irresponsabile», e costringere Tehran a mettere fine al suo programma di arricchimento dell’uranio e alle sue «attività terroriste». L’effetto pratico di tali sanzioni non è evidente: il Sepah-e-pasdaran non è certo in rapporti d’affari con le banche americane, e anche le banche iraniane colpite (Bank Melli, Bank Mellat e Bank Saderat) erano comunque già tagliate fuori da ogni transazione con istituti di credito americani.
L’effetto è soprattutto politico. E’ infatti la prima volta che gli Stati uniti adottano sanzioni contro le forze armate di uno stato sovrano. Washington ha più volte accusato negli ultimi mesi l’Iran (anzi, le Guardie della Rivoluzione) di armare e sostenere milizie in Iraq: ora, dichiarando le Guardie organizzazione «terrorista», Washington si dà un appiglio per giustificare eventuali operazioni militari contro Tehran.
La decisione statunitense ha avuto l’immediato sostegno di Londra e Gerusalemme, e questo non sorprende. «Sosteniamo le ulteriori pressioni americane sul regime iraniano», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri britannico. Contraria è invece la Russia. Il presidente Vladimir Putin ieri sera ha obiettato all’annuncio americano, dicendo che così si mette Tehran alle strette: «Perché dovremmo peggiorare la situazione, metterli all’angolo, minacciando nuove sanzioni?», ha detto durante una visita a Lisbona. Mosca ha già chiarito che non appoggerà una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza con nuove sanzioni a Tehran». In serata è giunta anche la prima reazione di Tehran. L’Iran condanna il gesto degli Stati uniti: «Le politiche ostili dell’America contro la nazione iraniana e le nostre organizzazioni legali sono contrarie alle norme internazionali e non hanno alcun valore», ha detto il portavoce del ministero degli esteri alla tv di stato.
Spagna, nostalgia franchista. La Chiesa beatifica 500 fascisti
Zapatero: legge di condanna del regime
La chiesa spagnola ha nostalgia del fascismo, e il Vaticano le dà corda, accogliendo la decisione di beatificare quasi 500 fascisti spagnoli. Sono religiosi e laici che secondo i vescovi sono stati perseguitati durante la Repubblica e che vengono ora beatificati per rispondere ai tentativi del governo Zapatero di rifare i conti con il passato spagnolo. È una vera e propria battaglia a colpi di memoria, quella tra il Governo e la Chiesa spagnola. Da una lato, quindi, l’esecutivo guidato da Zapatero che si prepara a varare una legge in cui il franchismo venga finalmente condannato e in cui si dichiari l’illegittimità di ogni suo “strascico”, come ad esempio le sentenze emesse dai tribunali duranti il regime. Dall’altra invece la Chiesa spagnola che si prepara al 28 ottobre data in cui ha deciso di beatificare 498, tra religiosi e civili, «martiri della Repubblica». Racconta la vicenda El Pais, quotidiano progressista iberico.
Tra venti giorni, dunque, papa Benedetto XVI celebrerà la funzione in piazza San Pietro: mai prima d’ora si era verificata una beatificazione così numerosa, e il numero dei beati potrebbe anche salire. La Conferenza episcopale spagnola calcola che il numero di religiosi e laici, che sarebbero stati perseguitati e uccisi durante la guerra civile (1936-1939) che portò alla fine della Repubblica e all’avvento della dittatura del generale Francisco Franco, potrebbe oscillare tra i duemila e i diecimila. Numerosissimo anche il pubblico di pellegrini che la Chiesa prevede parteciperà alla funzione. «Piazza San Pietro - dicono dalla Cei iberica - non sembrerà vuota. Sarà una grande festa, perché grande è la pagina di storia che rappresenta». Non c’è dubbio.
«Nessuna megalomania» ribadiscono dal Vaticano, ma una risposta alla legge sulla Memoria Storica voluta dal governo. Il portavoce dei vescovi spagnoli, Martínez Camino, ci tiene a sottolineare la «persecuzione religiosa durante la Repubblica» subita dai futuri beati: «Non un caso isolato - insiste Camino - ma rientra nella grande persecuzione subita nel corso del XX secolo in Europa dai cristiani di tutte le confessioni». La cerimonia a Roma, conclude il portavoce «aiuterà l’opinione pubblica italiana conoscere una pagina incompresa della storia della Chiesa spagnola».
L’iniziativa dei vescovi iberici, è un nuovo capitolo della «memoria è rimasta in frigorifero» come l’ha definita su Le Monde Diplomatique lo scrittore Josè Manuel Fajardo: la democrazia spagnola rinata con la fine del franchismo «per evitare atti di violenza e di vendetta» avrebbe scartato «qualsiasi ipotesi di messa sotto accusa di coloro che avevano partecipato alla dittatura e ai suoi crimini». In questo senso, la legge sulla memoria servirà a «ridare dignità alle vittime tramite iniziative come la dichiarazione di nullità dei processi franchisti e l’esumazione dei cadaveri dei repubblicani sotterrati anonimamente in fosse comuni». Ma sta scatenando accese polemiche nella politica spagnola: per la sinistra è troppo timida, mentre la destra continua a boicottarla.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.10.07, Modificato il: 06.10.07 alle ore 15.52
Ratzinger lo ha incontrato domenica in udienza privata a Castel Gandolfo
Per gli ebrei europei l’emittente diretta da Rydzyk è "antisemita e ultraconservatrice"
Il Congresso ebraico attacca il Papa
"Ha ricevuto il direttore di Radio Maria"
Ma un anno fa Benedetto XVI la accusava di essere "antisemita" *
ROMA - Ha tutta l’aria di un incidente diplomatico quello scoppiato tra la Santa Sede e il Congresso ebraico. Colpa dell’udienza privata che Benedetto XVI ha concesso domenica scorsa a Castel Gandolfo a Tadeusz Rydzyk, direttore di Radio Maria.
"Il Congresso ebraico europeo - è scritto in una nota dell’Associazione che riunisce le comunità ebraiche di tutta Europa - è scioccato di apprendere che Papa Benedetto XVI ha ricevuto in udienza privata e nella sua residenza estiva Tadeusz Rydzyk, il direttore dell’antisemita Radio Maryja". Ejc, acronimo del Congresso ebraico, si dice "attonito del fatto che il Papa ha concesso un’udienza privata e la benedizione a un uomo e a un’istituzione che ha appannato l’immagine della Chiesa Polacca".
Radio Maria, infatti, avrebbe "largamente trasmesso le affermazioni antisemitiche di Rydzyk". La nota del Congresso ebraico arriva dopo due giorni di polemiche in Polonia tra chi accusa il sacerdote di Radio Maria di essere un antisemita e i suoi sostenitori che hanno inteso il colloquio col Pontefice come la sua benedizione alla linea ultraconservatrice della radio.
In realtà non più tardi di un anno fa proprio Benedetto XVI prendeva le distanze dall’emittente accusandola di essere "antisemita".
Domenica scorsa a Castel Gandolfo, padre Rydzyk è stato ammesso al baciamo con il Papa al termine dell’Angelus insieme ad un folto gruppo di fedeli polacchi. Recentemente, in vista delle prossima elezioni presidenziali in Polonia, gli stessi gemelli Kaczynski sono tornati a chiedere pubblicamente l’aiuto e il sostegno dell’emittente radiofonica dei cattolici ultraconservatori e del suo controverso direttore.
* la Repubblica, 8 agosto 2007
Nota della Santa Sede dopo le proteste del Congresso europeo
Il direttore di Radio Maryja attaccato per le posizioni antisemite
"Con Rydzyk solo un baciamano
Non cambiano i rapporti con gli ebrei" *
ROMA - Nessuna udienza privata. Il Papa ha concesso solo un "baciamano" al fondatore di Radio Maryja Tadeusz Rydzyk ma questo "non implica alcun mutamento nella ben nota posizione della Santa Sede sui rapporti tra Cattolici ed Ebrei". Un comunicato della sala stampa della Santa Sede cerca di smorzare la polemica dopo che Radio Maryja aveva diffuso in Polonia la notizia di una "udienza privata" concessa da Benedetto XVI al sacerdote attaccato per le sue posizioni antisemite, e dopo le dure prese di posizione delle organizzazioni ebraiche, che avevano interpretato la presunta udienza come un passo indietro nelle relazioni ebraico-cristiane.
La visita di Rydzyk domenica scorsa a Castel Gandolfo ha già suscitato molte polemiche in Polonia, tra chi accusa il sacerdote di Radio Maryja di essere un antisemita e i suoi sostenitori, che hanno interpretato l’accoglienza ricevuta da Rydzyk come un sostegno del Papa alla linea ultraconservatrice della sua emittente.
Poi il baciamano di domenica scorsa e la protesta delle comunità ebraiche di tutta Europa che avevano sottolineato come "le affermazioni antisemitiche di Rydzyk" siano state largamente trasmesse attraverso la sua radio. Proprio per questo il Congresso ebraico si era detto stupito "dal fatto che Papa Benedetto XVI abbia concesso udienza privata e la benedizione ad un uomo e a un’istituzione che hanno macchiato l’immagine della Chiesa polacca".
* la Repubblica, 9 agosto 2007
Carlo Taormina ci vuole cacciare dall’Italia..
" Hic manebimus optime"*
Incredibili e offensive affermazioni dell’ex sottosegretario alla giustizia *
Un appello ad una querela di massa di islam-online
*Hic manebimus optime (qui staremo benissimo)
Gianfranco Fini è riuscito farsi dare qualche pagina di giornale, in questo fine luglio svagato e vacanziero, con l’affermazione che “gli imam devono predicare in italiano” (e ne possiamo parlare serenamente e trovare soluzioni che tranquillizzino tutti).
Sfruttando la scia, ma alla maniera sua, sguaiata e sopra le righe, Carlo Taormina, già sottosegretario alla giustizia di un governo Berlusconi, come Borghezio del resto, se n’è uscito con l’incredibile affermazione che riguarda le “diecimila sale di moschee presenti in Italia che sono TUTTE covi di terroristi” e quanto ai loro frequentatori o non frequentatori, in quanto nella categoria “musulmani” ci stanno entrambi i tipi “dovrebbero essere cacciati dall’Italia”.
Ne ha parlato ad Ascoli Piceno il leguleio, iniziando con una bugia clamorosa: diecimila sale di preghiera? Magari! Ne abbiamo trecento ai conti nostri, seicento a quelli degli Interni che sono certamente più informati di noi, anche se talvolta censiscono come luogo di culto islamico il retrobottega di un call center o di un negozio di alimentari dove il proprietario o i dipendenti, e talvolta qualche cliente, si prosternano su un tappetino direzione della Mecca. Vorrebbe dire che ce n’è una ogni 100/120 musulmani e non mediamente una ogni 4 mila come risulta noi.
Si tratta evidentemente di gonfiare a dismisura una realtà che si vuole presentare come minacciosa e tale comportamento configura il reato di diffusione di notizie false e tendenziose tendenti a turbare l’ordine pubblico come previsto dall’art. 656 del Codice Penale.
Prosegue poi dicendo che "sono TUTTI covi terroristici", quando è certo che seppure alcuni comportamenti potenzialmente devianti siano stati ravvisati dalle forze dell’ordine, da parte di qualche (pochi) frequentatori di luoghi di culto (pochissimi) nessuna sentenza passata in giudicato ha mai sancito la reale pregnanza dell’elemento terroristico in relazione al luogo di culto in sé, alla sua direzione e gestione e, grazie a Dio e ai musulmani d’Italia (vedi http://www.islam-ucoii.it/NOTERRORISMO.htm) il nostro Paese non ha mai dovuto subire alcuna sorta di attentati da quella pseudo valenza. Anche la vicenda di Ponte Felcino, con tutto il rispetto delle attività inquirenti, non ci convince siamo curiosi di conoscere le risultanze delle analisi sulle sostanze rinvenute e le traduzioni dei materiali cartacei, audio e video sequestrati.
Ma la cosa peggiore che fa Taormina, è quella proposta di cacciare fuori dall’Italia i musulmani, proposta che ricorda sinistramente quel JUDEN RAUS cha tanti dolori e lutti e strascichi infami ha causato e causa.
Siamo musulmani e siamo italiani e hic manebimus optime, come ebbe a dire Cicerone, e nessuno ci sposterà tanto facilmente.
I nostri fratelli e le nostre sorelle stranieri/e sono tutelate da una Costitituzione e da una legge che Taormina sembra ignorare e, che pertanto cercheremo di ricordargli, dando ai nostri legali mandato di denunciarlo per tutti i reati che la loro competenza professionale saprà individuare in quelle aberranti dichiarazioni, e invitando i responsabili dei luoghi di culto islamico a fare altrettanto, insieme a noi o singolarmente.
E chiediamo ai nostri amici e amiche, cristiani o laici che tanto spesso ci ricordano i valori della civiltà occidentale, nella quale peraltro ci riconosciamo in buona parte, di farsi anche loro parte responsabile e manifestare la loro contrarietà e la loro condanna.
La notizia
ISLAM: TAORMINA, 10 MILA SALE PREGHIERA COVI TERRORISMO
"Non solo le moschee grandi e piccole, ma tutte le diecimila sale di preghiera musulmane presenti in Italia, sono focolai di cellule terroristiche". Lo ha sostenuto ad Ascoli l’avvocato Carlo Taormina, ex sottosegretario all’interno, commentando la dichiarazione del presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, il quale ha chiesto che in tutte le moschee "si parli italiano, perche’ tutti hanno il diritto di sapere se in quei luoghi si prega Allah o si incita alla violenza". La posizione di Taormina e’ piu’ drastica sulla questione, e per lui, oltre al fatto che "le sale di preghiera sono covi terroristici", tutti i musulmani "dovrebbero essere cacciati dall’Italia". La responsabilita’ della situazione attuale, e i rischi che il nostro paese corre per la propria sicurezza, sono pero’ per il noto penalista anche da addebitare "ai nostri imprenditori, che hanno abbassato il prezzo dei salari agli italiani e favorito cosi’ l’ingresso sul nostro territorio di migliaia di extracomunitari, con tutti i pericoli connessi".
leggi la notizia su: >> REPUBBLICA.IT
http://news.kataweb.it/item/338288/islam-taormina-10-mila-sale-preghiera-covi-terrorismo
* Il dialogo, Mercoledì, 01 agosto 2007
* Riprendiamo dal sito www.islam-online.it questo appello che condividiamo. Oramai il livello di guardia contro il razzismo xenofobo è stato abbondanetmente superato ed occorre una mobilitazione generale dei cittadini onesti per ricacciare indietro nella pattumiera della storia tutte le forme di odio razziale ed i loro sostenitori.
IPOCRITA MALVAGITA’. ESATTAMENTE: BRAVO!!!
Caro Nicola
"con la sapienza che viene da Cristo e con la prudenza"?! Ma dove vivi - in Vaticano, ancora sotto la gonna di "mammona" ?!
Quanti anni hai?! Sei cristiano? E, allora, di chi credi di essere figlio?! Io sono figlio di "Maria" e "Giuseppe" ..... e non di "Giuseppe" e "Giorgio"!!!
Apri gli occhi - tutti e due: sveglia!!!
Grazie per il tuo intervento e la tua attenzione e
M. cordiali saluti.
Per la Redazione
Federico La Sala
Un appello contro le liste di proscrizione di Magdi Allam
Appello publicato dalla rivista Reset
Senza entrare nel merito delle accuse specifiche rivolte nell’ultimo libro di Magdi Allam a singoli colleghi noti a chiunque si interessi di questioni relative al Medio Oriente e all’islam non solo come ricercatori seri e qualificati, ma persino come persone coinvolte in svariate forme di impegno civile, intendiamo pro testare fermamente davanti alla sfrontatezza di chi afferma che le università italiane «pullulano» di docenti «collusi con un’ideologia di morte profondamente ostile ai valori e ai principi della civiltà occidentale e all’essenza stessa della nostra umanità».
Ci pare davvero eccessivo che quanti, in sede di dibattito scientifico e civico, esprimono posizioni differenti da una pretesa unica «verità interpretativa» divengano automaticamente estranei a universali valori di civiltà o, addirittura, alieni dalla comune umanità. Una tale impostazione non solo è lontanissima dallo spirito e dai valori di una democrazia costituzionale - e molto più in linea con ideologie totalitarie - ma si pone anche a siderale distanza dal senso critico che sta alla base della ricerca storica e scientifica e dalla stessa, difficile ma essenziale, missione dell’informazione giornalistica in una società plurale. Tutto ciò rischia di contribuire, purtroppo, al preoccupante imbarbarimento dell’informazione in un paese come il nostro che già si trova a pagare un prezzo troppo alto alle varie forme di partigianeria che lo travagliano. Già abbiamo visto sentenze discutibili coinvolgere colleghi noti per la loro serietà ed equilibrio nell’affrontare il tema dell’islam, con addirittura condanne penali che prevedono la pena detentiva.
Il giornalismo rischia di cadere in una logica da tifo calcistico piuttosto che analitica e razionale, soprattutto quando si toccano temi delicati e sensibili come quelli religiosi e, in particolare, relativi all’islam ed alle questioni legate all’ area medio-orientale. La libertà di ricerca ne paga il prezzo, schiacciata tra opposti estremismi interpretativi, e non solo. Ci auguriamo che tali tendenze trovino presto voci più equilibrate e meno partigiane a contrastarle, e che queste trovino a loro volta ascolto nel mondo dell’informazione, in quello politico, in quello culturale e in quello religioso.
Le adesioni
Paolo Branca
David Bidussa
Giancarlo Bosetti
Enzo Bianchi
Gadi Luzzatto Voghera
Angelo d’Orsi
Paolo De Benedetti
Nasr Hamid Abu Zayd
Nina zu Fürstenberg
Giovanni Miccoli
Marco Varvello
Alberto Melloni
Agostino Giovagnoli
Ombretta Fumagalli Carulli
Patrizia Valduga
Michelguglielmo Torri
Pippo Ranci Ortigosa
Anna Bozzo
Dario Miccoli
Isabella Camera D’Aff l i t t o
Francesca Corrao
Ugo Fabietti
Brunello Mantelli
Sumaya Abdel Qader
Diego Abenante
Giorgio Acquaviva
Roberta Adesso
Claudia Alberico
Marco Allegra
Massimo Alone
Daniela Amaldi
Maurizio Ambrosini
Sara Amighetti
Lubna Ammoune
Michael Andenna
Giancarlo Andenna
Carlo Annoni
Caterina Arcidiacono
Barbara Armani
Monica Bacis
Pier Luigi Baldi
Anna Baldinetti
Giorgio Banti
Gianpaolo Barbetta
Roberto Baroni
Elena Lea Bartolini
Annalisa Belloni
Giovanni Bensi
Michele Bernardini
Giovanni Bernardini
Francesca Biancani
Giovanna Biffino Galimbert i
Valentino Bobbio
Giuliana Borello
Franco Brambilla
Daniela Bredi
Alberto Burgio
Paola Busnelli
Maria Agostina Cabiddu
Fabio Caiani
Alfredo Canavero
Paolo Cantù
Fanny Cappello
Franco Cardini
Paola Caridi
Lorenzo Casini
Fabrizio Cassinelli
Paolo Ceriani
Maria Vittoria Cerutti
Francesco Cesarini
Michelangelo Chasseur
Antonio Chizzoniti
Franca Ciccolo
Cornelia Cogrossi
Chiara Colombo
Annamaria Colombo
Silvia Maria Colombo
Alessandra Consolaro
Giancarlo Costadoni
Antonio Cuciniello
Giovanni Curatola
Irene Cusmà
Cinzia Dal Maso
Monia D’Amico
Laura Davì
Francesco D’Ayala
Fulvia De Feo
Fulvio De Giorgi
Paolo di Giannatonio
Miriam Di Paola
Rosita Di Peri
Maria Donzelli
Camille Eid
Fabrizio Eva
Guido Federzoni
Alessandro Ferrari
Valeria Ferraro
Nicola Fiorita
Francesca Flores d’Arcais
Filippo Focardi
Daniele Foraboschi
Guido Formigoni
Ersilia Francesca
Annalisa Frisina
Carlo Galimberti
Enrico Galoppini
Laura Galuppo
Antonella Ghersetti
Mauro Giani
Aldo Giannuli
Manuela Giolfo
Fabio Giomi
Emanuele Giordana
Demetrio Giordani
Gianfranco Girando
Elisa Giunghi
Carlo Giunipero
Anna Granata
Francesco Grande
Fabio Grassi
Maria Grazia Grillo
Laura Guazzone
Rachida Hamdi
Abdelkarim Hannachi
Ali Hassoun
Alexander Hobel
Giuseppina Igonetti
Virgilio Ilari
Massimo Jevolella
Massimo Khairallah
Chiara Lainati
Giuliano Lancioni
Filippo Landi
Angela Lano
Clemente Lanzetti
Paolo La Spisa
Raffaele Liucci
Claudio Lojacono
Silvia Lusuardi Siena
Monica Macchi
Paolo Maria Maggiolini
Paolo Magnone
Roberto Maiocchi
Diego Maiorano
Gabriele Mandel Khan
Patrizia Manduchi
Ermete Mariani
Annamaria Martelli
Paola Martino
Elisabetta Matelli
Vincenzo Matera
Gabriella Mazzola Nangeroni
Carlo Maria Mazzucchi
Alessandro Mengozzi
Alvise Merini
Saber Mhadhbi
Ferruccio Milanesi
Stefano Minetti
Marco Mozzati
Vincenzo Mungo
Beniamino Natale
Enrica Neri
Sergio Paiardi
Francesco Pallante
Monica Palmeri
Simona Palmeri
Maria Elena Paniconi
Irene Panozzo
Michele Papasso
Daniela Fernanda Parisi
Antonio Pe
Fausto Pellegrini
Claudia Perassi
Alessio Persic
Marta Petricioli
Martino Pillitteri
Daniela Pioppi
Paola Pizzo
Alessandro Politi
Paola Pontani
Antonietta Porro
Gianluca Potestà
Rossella Prandi
Elena Raponi
Savina Raynaud
Riccardo Redaelli
Giuseppe Restifo
Michele Riccardi
Franco Riva
Marco Rizzi
Maria Adele Roggero
Maria Pia Rossignani
Ornella Rota
Monica Ruocco
Rassmeya Salah
Ruba Salih
Brunetto Salvarani
Giovanni Sambo
Marco Sannazaro
Paolo Santachiara
Milena Santerini
Maria Elena Santomauro
Cinzia Santomauro
Giovanni Sarubbi
Federico Ali Schuetz
Giovanni Scirocco
Deborah Scolart
Lucia Sgueglia
Ritvan Shehi
Rita Sidoli
Stefano Simonetta
Piergiorgio Simonetta
Lucia Sorbera
Carlo Spagnolo
Salvatore Speziale
Stefania Stafutti
Oriella Stamerra
Giovanna Stasolla
Piero Stefani
Alessandra Tarabochia
Dario Tarantini
Maurizio Tarocchi
Andrea Teti
Massimiliano Trentin
Emanuela Trevisan Semi
Lorenzo Trombetta
Michele Vallaro
Marisa Verna
Marco Francesco Veronesi
Fabrizio Vielmini
Edoardo Villata
Franco Zallio
Patrizia Zanelli
Francesco Zappa
Luciano Zappella
Boghhos Levon Zekiyan
Ida Zilio Grandi
Raffaello Zini
Crolla sostegno terrorismo nei paesi islamici *
2007-07-26 13:33
ROMA - Sempre meno musulmani in Medio Oriente e negli altri Paesi islamici sostengono il terrorismo, e tanto meno giustificano gli attentati suicidi o altre forme di violenza contro i civili compiuti in nome dell’Islam. A rivelarlo è un sondaggio effettuato dal gruppo di analisi statunitense ’Pew Research Center’ secondo cui la percentuale di musulmani che appoggia gli attacchi kamikaze è calata di oltre la metà rispetto al 2002. In Libano, per esempio, solo il 34% della popolazione islamica ritiene ancora che gli attentati suicidi a difesa dell’Islam siano spesso o qualche volta giustificabili. Cinque anni fa, la percentuale era pari al 74%. Dati simili vengono rilevati anche in Bangladesh, Pakistan, Giordania e Indonesia, dove la maggior parte dei musulmani ritiene che gli attentati siano tutt’al più raramente accettabili.
L’unica eccezione, fra i Paesi in cui i dati sono disponibili, è data dai Territori palestinesi, in cui ben il 70% della popolazione è ancora convinta che gli attacchi contro i civili possano essere spesso o qualche volta giustificati. Nei Territori rimane sostanzialmente elevata anche la fiducia in Osama bin Laden che, seppur in calo rispetto al 2003, viene accordata dal 57% degli abitanti. Negli altri Paesi musulmani il supporto al leader di al Qaida é crollato di pari passo con il sostegno all’estremismo. La Giordania è il Paese in cui questo trend è maggiore, con un calo del 56%: solo un giordano su cinque sembra appoggiare ancora il terrorista, ricercato numero uno degli Stati Uniti. Meno uniformi risultano invece, stando allo studio del Pew Research Center, le opinioni riguardo a Hezbollah e ad Hamas. Entrambi i gruppi sono visti in maniera fortemente positiva dai palestinesi e godono di buona considerazione anche nei Paesi a predominanza musulmana del Medio oriente e dell’Asia.
La condanna giunge invece dalla maggioranza degli islamici che risiede in Turchia. Secondo la ricerca, il problema che affligge e preoccupa sempre più pesantemente la popolazione musulmana risulta essere la tensione fra gli sciiti e i sunniti, complice il perdurare delle violenze settarie in territorio iracheno. L’88% dei libanesi, il 73% dei kuwaitiani e il 67% dei pachistani ritiene che il conflitto interreligioso sia sempre più grave e non sia affatto una questione limitata all’Iraq. Rimane altresì diffuso nel mondo islamico un forte sentimento anti-americano: gli Stati Uniti vengono considerati come una potenziale minaccia per il futuro dal 64% dei turchi e dei pachistani. Le percentuali sono ancora più alte in Bangladesh (93%), Marocco (92%) e Malaysia (81%). In un’ottica più globale, gli Usa sono stati citati come la maggior minaccia militare da 17 dei 47 Paesi mondiali complessivamente analizzati e si posizionano al primo posto in questa classifica, davanti all’Iran e anche ad al Qaida.
* Il dialogo, Venerdì, 27 luglio 2007