IL tempo del perdono e la logica del nemico
di Raimon Panikkar *
[...] E’ necessario rilevare che gli scontri di civiltà, storicamente, hanno a che fare con il problema della verità e del suo possesso esclusivo. Non si può negare, infatti, che in nome della verità si siano fatti crimini spaventosi e trovate giustificazioni orribili. Noi non siamo i padroni della Verità. Citando San Tommaso: «chi ha trovato la Verità è posseduto dalla verità, non ne è il padrone». La verità ci possiede. La verità è relazione, è sempre un essere con l’altro, altrimenti non è verità. La verità assoluta è una contraddizione, proprio perché la verità è relazione.
Il grande pericolo, e qui non vorrei scandalizzare nessuno, è il monoteismo. Il monoteismo pensa che Dio è la Verità, perché il monoteismo pensa un Dio isolato, un Dio solo. Non è così in tutti i monoteismi, la questione è molto complessa, ma vi è questo costante pericolo: benché io non possieda la Verità, c’è un Dio che la possiede e questo Dio ce l’ha rivelata. Non mi convince il monoteismo. Penso che il monoteismo non sia cristiano, perché il cristianesimo crede nella Trinità.
Ma anche per la mistica dell’Islam ci sono tre realtà: l’amore, l’amante e l’amato. Per la Cabala sono tre le cose in-create da Dio: la Torà, la Legge e il popolo. La Trinità è molto più estesa, anche nelle religioni cosiddette monoteiste, di quanto non si creda. Pur riconoscendo che in nome della verità assoluta si sono fatti tantissimi crimini, dico questo: quella non è la verità.
Una verità che io immagino come assoluta, togliendole quindi ogni relazione - che è l’essenza della verità - per definizione non è verità, nemmeno quella che viene presentata come divina. Quindi smascherare questa piaga dell’umanità è un progresso, che è necessario operare in questo momento storico. Dove il contrario non è l’indifferenza, non è affermare che la verità non esiste. La verità esiste, ma è relativa: a noi, ad una mente, a qualsiasi cosa..
A questo proposito devo dire subito ai puritani, non per consolarli ma per chiarificare, che la relatività che io difendo e di cui sono convinto, non è il relativismo, dove tutto è uguale. La relatività non è relativismo: la verità è relativa. Ma per superare il relativismo non si deve cadere nell’assolutismo. Il rimedio sarebbe peggio della malattia. Il relativismo non va bene, ma la relatività implica di non perdere la misura umana. Non si progetta su un punto omega infinito.
E’ la nostra vita quella che conta e la mia verità (per essere sincero direi la mia convinzione, e sono convinto pienamente di tutto quello che dico) non la assolutizzo perché può esserci un punto di vista diverso e un’angolatura differente. Quindi, pur riconoscendo che, in nome della verità, si sono commessi grandi crimini, io ancora difendo l’idea della verità come relazionalità e non come assolutismo. L’uomo isolato, solo - e la solitudine dell’uomo contemporaneo è una malattia dell’anima - non regge, non può respirare, non esiste. Ha bisogno dell’altro, l’altro come portatore di un messaggio. Come dice la tradizione musulmana: «lo sconosciuto può essere un angelo».
Dobbiamo aiutarci reciprocamente e essere consapevoli, proprio nel confronto tra culture e spiritualità diverse, che la verità non è possesso personale, io non sono l’unico essere buono di questo mondo, l’unico che capisce cos’è la verità. Abbiamo necessità di comprendere che la verità, forse, «quando cade dal cielo, sulla terra si rompe in cento pezzi, un pezzetto a disposizione di ciascuno».
*
Su Repubblica di oggi [09.10.2007, p. 23], anzi di ieri, visto che è già passata la mezzanotte, viene pubblicato un intervento di Raimond Panikkar, di cui, se vi ricordate, già altre volte ho avuto modo di proprovi qualche riflessione.
Vi propongo solo quella parte in cui si osa, in maniera alta e magistrale, porre il punto interrogativo sul tema della "Verità Assoluta" e del "monotesimo".
Buona lettura
Aldo [don Antonelli]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Deus caritas est": la verità recintata!!!
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
IL CIELO NON E’ VUOTO, MA NEMMENO E’ OCCUPATO DALL’IMPERATORE COSTANTINO E DAL SUO ESERCITO!!!
Il cattolicesimo-romano e i suoi scheletri nell’armadio.
La Fenomenologia dello Spirito ... dei "Due Soli". Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
Il disegno "intelligente" degli scienziati "cattolici" e la loro vecchia e "diabolica" alleanza.
fls
"QUIS UT DEUS?". UNA NOTA SUL TEMA TEOLOGICO-POLITICO DEI "DUE CORPI DEL RE" - E I DUE CORPI DELLA #REGINA...
PLAUDENDO ALL’INIZIATIVA ANNUNCIATA DAL PROF. AURELIO MUSI ,
FORSE, è da pensare che sia opportuno riprendere la riflessione a tutti i livelli "sulla sovranità femminile: i due corpi sono quello fisico e quello politico" (Aurelio Musi) e, al contempo, ricordare il "caso" di Elisabetta I d’Inghilterra (e della #Riforma anglicana), e, unitariamente, considerare il #cruciverba e l’#enigmistica della #hamletica #question (#Shakespeare) del "#corpomistico" sia del #re (E. H. #Kantorowicz) sia della #regina (#AurelioMusi), e, quindi, non solo del corpo fisico, ma anche il #corpo teologico-politico.
"CHI E’ COME DIO?". Il problema, come aveva già capito e indicato Kantorowicz, è riprendere a riflettere sulla "#regalità #antropocentrica: #Dante" (così il titolo di un capitolo conclusivo del libro "I due corpi del re") e, possibilmente, tentare di uscire dalla caverna platonica e dall’orizzonte della #cosmoteandria logico-filosofica e teologico-politica del PianetaTerra.
UNA VISIONE ANDROLOGICA DI DIO, "UNA GRANDE VICENDA COSMOTEANDRICA", E LA FILOLOGIA... *
Inedito.
Pareyson, la ricerca della verità smonta il relativismo
Mentre continua l’edizione dell’opera completa del grande pensatore italiano, nell’ultimo volume una riflessione che smonta le teorie del relativismo postmodernista
di Luigi Pareyson (Avvenire, sabato 9 ottobre 2021)
Fui tra gli introduttori dell’esistenzialismo in Italia nella seconda metà degli anni 30. Un mio articolo del ’38 per la prima volta in Italia accostava Heidegger e Jaspers. Il mio libro del ’40 su Jaspers era in realtà uno sguardo d’insieme su tutto l’esistenzialismo. Entravo nel vivo dell’attualità, non solo perché allora l’esistenzialismo era l’ultima voce della filosofia, ma anche perché alla fine della guerra, dopo la liberazione, entrava nella nostra cultura il marxismo, di cui l’esistenzialismo è l’alternativa naturale, storica. Infatti, esistenzialismo e marxismo sono le due possibilità tipiche della dissoluzione dell’hegelismo, che si erano presentate in alternativa cento anni prima sulla scena europea: da un lato la linea Feuerbach-Marx, dall’altro la linea Kierkegaard. Queste due possibilità riemergono a distanza di duecento anni sulla scena filosofica europea: entrambe legate alla filosofia hegeliana di cui erano la dissoluzione, e legate fra di loro in antitesi. La problematica era comune, le soluzioni erano opposte. Sì che ogni antitesi al marxismo doveva assumere necessariamente in qualche modo un aspetto esistenzialistico; e il marxismo rinasceva (neomarxismo) come necessariamente antiesistenzialista. E ciò sebbene, ripeto, la loro problematica fosse comune.
Ora, se l’attualità era contenuta nella dissoluzione dell’hegelismo, ciò attesta la centralità della filosofia hegeliana da centocinquanta anni ad oggi. Hegel è il culmine della filosofia moderna e come tale è da un secolo e mezzo un punto di riferimento obbligato. E se attuale e interessante era studiarne la dissoluzione, altrettanto interessante e attuale era studiarne la genesi nella filosofia europea, cioè studiare nei suoi predecessori quelle critiche ante litteram che dovevano poi agire come germi di dissolvimento. È dunque per una ragione squisitamente teoretica, speculativa, che ho studiato sia Fichte che Schelling, che prefigurano quella polemica antihegeliana ch’è ancor oggi il colmo dell’attualità, anche perché certe forme di neomarxismo si possono considerare in fondo come un recupero dell’hegelismo [...].
Ho detto che il marxismo è una forma di storicismo assoluto, e in ciò rientra o perlomeno s’incontra con un movimento più ampio, che interessa larghi strati della nostra cultura, che, educata dall’idealismo allo storicismo, lo ha poi proseguito in una forma di totale relativismo, che sopprime totalmente il concetto di verità. Tutti sono d’accordo oggi (meno forse i metafisici vecchio stile, che non hanno fatto la differenza tra metafisica e ontologia) nel ritenere che non c’è formulazione definitiva della verità, che il dovere morale è annunciato in maniera diversa a seconda dei tempi, che ogni epoca ha la sua concezione della bellezza, che ogni popolo ha una suaWelt-Anschauung, e così via. Da questa giusta constatazione il relativismo deriva la conclusione che non c’è nulla di fisso e di stabile, che i valori sono relativi al loro tempo e non contengono nulla di assoluto, che insomma le idee non sono se non espressione del tempo, e che la verità non esiste.
Ora questa conclusione, francamente, prova troppo: va molto oltre le premesse. Si formula un’antitesi che anche formalmente è falsa: o esiste una verità assoluta e definitiva, o non c’è nulla di vero perché tutto è relativo. Il fatto è che è ben vero che non c’è formulazione definitiva, assoluta, universale, della verità, ma ciò non toglie che ciascuno debba cercare la verità e possa trovarla a suo modo e considerarla come assoluta, beninteso assoluta per me che l’ho cercata e che ne sono convinto e magari tento di convincerne gli altri, ma sempre rispettando essi stessi e la loro verità, ed esponendo alla discussione e alla contestazione altrui pronto ad abbandonarla se me ne dimostrano l’insufficienza, ma a difenderla se ne sono in buona fede convinto. Insomma esiste una verità assoluta, ch’io debbo cercare con tutte le mie forze e tentare di formulare a modo mio. Certo, il cammino è accidentatissimo: la verità bisogna cercarla, ed ecco qui tutto il rischio della ricerca, il costante pericolo del fallimento, la serie continua degli insuccessi; poi bisogna trovarla, e darne una formulazione, ma anche qui il rischio è grandissimo, perché c’è il pericolo non solo di non saperla formulare, ma lasciarla nel vano e nell’indistinto, ma anche di irrigidire e assolutizzare per sempre, il che è non solo impossibile, ma anche illusorio ed erroneo e falsificante.
Tutto ciò io soglio esporlo dicendo che verità e persona sono inseparabili, che la formulazione della verità è sempre storica e personale, che la verità è unica ma la formulazione che se ne dà, cioè l’interpretazione che se ne propone, è sempre molteplice, e che l’unità cioè l’orizzonte del vero è il dialogo che attraverso il consenso o la discussione polemica si instaura fra queste molteplici e diverse interpretazioni della verità, che la verità non si offre se non all’interno dell’interpretazione che se ne dà, che l’interpretazione che si dà sempre singolarmente della verità non è una semplice approssimazione alla verità, non è un possesso della verità, anzi la verità stessa come personalmente posseduta, che il pensiero è sempre storico, personale, molteplice, mutevole, cioè espressivo, ma oltre a questo pensiero ch’è soltanto storico ed espressivo (che è quello che il relativismo considera come unico, cioè assolutizza) c’è anche un pensiero che, al tempo stesso ch’è storico, personale, espressivo, è anche rivelativo della verità (sempre da un angolo personale) che il relativismo non considera, ingannato dall’aspetto ch’è comune a entrambi, cioè la storicità, la mutevolezza, l’aspetto espressivo.
Il relativismo, sopprimendo la verità, è il padre di quello che si chiama crisi dei valori, dello scetticismo d’una parte della gioventù d’oggi e dell’irrazionalismo a cui per contraccolpo un’altra parte di essa si aggrappa, della totale incertezza della distinzione fra bene e male, anzi dell’indifferenza verso questa distinzione, con la conseguenza che tutto è egualmente lecito, donde lassismo, permissivismo, e, in fondo, disperazione e peggio. Ciò voleva dire Dostoevskij quando sosteneva: Se Dio non esiste, tutto è permesso. E soggiungeva: anche l’antropofagia. E infatti, se non c’è distinzione fra bene e male, perché escludere come male l’antropofagia? Per via consequenziale, ne potrebbe derivare, alla Jonathan Swift, una "modesta proposta": introduciamo l’antropofagia, che potrebbe essere la soluzione dei preoccupanti problemi della sovrappopolazione del globo e delle decrescenti risorse della terra.
La meditazione che ho così condotto mi ha portato ad affrontare il problema del male e della sofferenza, che con tanta intensità affliggono il genere umano, come s’è abbondantemente potuto constatare proprio in questo secolo. È a questo problema che mi sono dedicato negli ultimi anni e nel quale sono attualmente impegnato.
Qui si presenta una constatazione preliminare, ed è che la filosofia si è dimostrata generalmente incapace di affrontare validamente questo problema. È solo da Kant, attraverso Schelling, in parte Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, l’esistenzialismo, che si è cominciato ad approfondire questo problema. Esso si trova invece egregiamente affrontato in quello che si può chiamare mito, nel senso più intenso del termine, cioè nell’arte, specialmente nella tragedia, sia antica come quella greca sia moderna come Dostoevskij, e nella religione, specialmente nella religione biblica e cristiana. Anche i filosofi che meglio hanno trattato il problema vi sono riusciti più come cristiani che come filosofi: alludo, ad esempio, a S. Agostino e Pascal. Dostoevskij non è stato un filosofo, ma la filosofia ha molto da imparare da lui, perché nessuno scrittore ha meditato con tanta profondità come lui sulla tragica condizione dell’uomo, così inesauribile nel fare e subire il male e così facile preda della sofferenza.
E nessuna religione come la cristiana ha saputo interpretare l’uomo alla purissima luce del male e del dolore, al punto da coinvolgervi la stessa divinità. Già Hegel aveva messo la tragica vicenda del Dio sofferente e redentore al centro della stessa filosofia, ma per un paradossale capovolgimento ne era risultato un sistema che giustifica e quindi nega sia la sofferenza che il male.
L’idea profonda della presenza del male e del dolore in Dio stesso, cioè al centro della realtà, come una grande vicenda cosmoteandrica, sta al centro dell’esperienza religiosa cristiana: saper penetrare con la riflessione filosofica in quel mistero, e renderlo parlante per tutti gli uomini, credenti o non credenti, può essere il compito e l’ambizione d’una filosofia che sappia imparare dall’esperienza religiosa senza pretendere di tradurla in termini filosofici e senza asservirsi ad essa, ma parlando il proprio linguaggio e mantenendo la sua rigorosa autonomia.
NOTE:
Federico La Sala
LA "DOTTA IGNORANZA" E L’IMMAGINARIO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA.... *
Dio secondo Stefano Levi Della Torre
Dal nostro lato
di Sergio Massironi *
«Colonizzazione immaginaria dell’inspiegato». Così Stefano Levi Della Torre definisce la religione in un piccolo volume dal titolo lapidario: Dio (Torino, Bollati Boringhieri, 2020, pagine 160, euro 12). Voce di un ebraismo laico, culturalmente ricco e poliedrico, l’autore non va oltre le convinzioni di Feuerbach e, pur muovendosi a suo agio nel Novecento scientifico e filosofico, rimane fermo nell’idea ottocentesca per cui Dio non è che proiezione degli uomini. E solo per questo interessante: «Dio rappresenta una domanda, anche se si vorrebbe fosse una risposta». A chi non provi fastidio per un agnosticismo dogmatico - inconfessato quanto rigoroso - il volume sarà di nutrimento, dal momento che dell’idea di Dio consente un’ampia recensione, lontana dall’inaccessibilità linguistica di molta teologia. Pagine che si divorano, nel dinamismo multidisciplinare con cui attraversano la tradizione occidentale. All’insegna, certo, di un criterio di lettura fermo e coerente, elemento di forza e insieme di debolezza del libro: «Che il mistero esista è una constatazione di cui fa fede la nostra ignoranza. Non l’ignoranza di ciò che ancora non sappiamo, ma che un giorno sapremo, bensì l’ignoranza inamovibile. L’ignoranza del perché del tutto, essendo il perché un interrogativo che si agita ma entro i limiti umani della nostra mente, preoccupata di dare al tutto un senso, cioè un movente e un fine».
Bonhoeffer e con lui la migliore teologia del secolo scorso hanno mostrato lo scarto tra il “Dio tappabuchi”, a cui Levi Della Torre non rileva alternativa, e un Dio al centro del mondo conosciuto, delle cose sapute, della vita vissuta: il Dio che in Cristo sospende le proiezioni umane e dice altrimenti di sé. Non lasciare che Dio parli chiude, prima che inizi, il riflettere “teo-logico”, ma ciò nonostante il volume tocca i nodi della modernità. Quest’ultima ha incorporato, spesso inconsapevolmente, molti effetti della novità cristiana. Primo fra tutti il valore del soggetto, nella sua autonomia e maturità che, per quanto opposte in senso emancipativo a un’idea di legge e a un’esperienza di potere troppo spesso eteronome, hanno una radice biblica. Dove biblica significa trascendente, destabilizzante le proiezioni umane, figlie a loro volta di una cultura e di un immaginario tutt’altro che a noi connaturati. Si tratta, insomma, di spingere più a fondo le intuizioni che legano il nostro autore alla sua genealogia ebraica: «Il Dio della Bibbia sa benissimo che il suo popolo cade a ogni passo nell’idolatria, ingannato dalle varie forme di essa in cui non sa ogni volta riconoscerla, dal fondamentalismo al nazionalismo. Dio sa di essere lui stesso una tentazione idolatrica, per questo dice: non pronunciate il mio Nome». Questa coscienza, che ha statura di conoscenza, oppone alle facili soluzioni agnostiche una via difficile e non idolatrica di incontro con l’Altro. Presente nel libro come un seme nascosto, può dal lettore essere coltivata.
Levi Della Torre offre in tale direzione, quasi suo malgrado, non pochi squarci che motivano e rimettono in cammino. La stima per il Lògos è più decisiva, infatti, delle conclusioni che l’autore presume logiche. Così, chi rifiuti di veder relegata la propria religiosità nei territori dell’irrazionale, apprezzerà e sosterrà il “dia-logo”, almeno interiore, che il volume innesca.
In effetti, secondo il Salmo 62, «una parola ha detto Elohim, due ne ho ascoltate: l’una è la Parola di Dio, l’altra la parola umana, a reciproca testimonianza». Di qui la complessità di ogni via anti-idolatrica. «Dal “suo lato” (mitisidò, in ebraico), dal lato cioè della sua essenza imperscrutabile, Dio è unico e unitario; dal “nostro lato” (mitsidenu, in ebraico), ci si presenta secondo diversi aspetti, secondo quanto ciascuno sappia intuire e interpretare, mentalmente e in pratica. E quando la voce del Roveto in Esodo 3, 14 dice ehijé asher ehijé e ne cogliamo la forma al futuro, potremmo tradurre “sarò Colui che sarò”. Alla luce di Esodo 15, secondo cui il Dio unico è inteso “dal nostro lato” secondo l’intendimento di ciascuno, potremo allora interpretare: “Sarò quello che tu saprai farmi essere per te”».
Questo approccio, che rappresenta una vera e propria postura, un modo rivoluzionario di abitare la realtà, è più fedele al Lògos e alla sua luce di quanto non si sperimenti sul binario morto in cui il volume conclude la sua corsa. L’approccio positivista, infatti, si conferma impossibilitato a tenere insieme ciò che l’autore sino all’ultimo contrappone: i Lumi della conoscenza e il buio dell’ignoranza, i territori sicuri della scienza (e della democrazia) e il caotico abisso che sospingerebbe alla fede. «Il prevalere del paradigma della proporzione tra causa ed effetto ha animato la secolarizzazione moderna. La sua intelligibilità, non solo scientifica, ma anche empirica, ha favorito la democratizzazione del sapere e lo sviluppo della coscienza individuale. [...] Paradossalmente, il paradigma fluido, che sembra quello più attuale a livello scientifico e filosofico, ha risvolti affini al modo antico di percepire il mondo. L’indeterminato, lo smisurato, la sproporzione, ispiravano in antico il senso del sacro, e quindi la religione per sua interpretazione, contenimento e riduzione alla misura umana. Oggi il non sapere, o l’eccesso di informazione in cui l’arbitrio dell’opinione si sente legittimato a prevalere sul sapere, il senso di andar perdendo il controllo cognitivo degli eventi e della propria vita ripropone forse l’inquietudine del sacro e quindi forme religiose e di fede, nuove o tradizionali, a suo rimedio».
E invece la via di Israele è quella di un luminoso conoscere che sospinge alla fede, come emblematicamente colto da un autore (troppo poco) citato: quel Nicolò Cusano che da gigante dell’Umanesimo mise le basi di un’altra modernità, ancora da esplorare. Una modernità che non separa, ma connette, che coglie in Cristo la coincidenza degli opposti e la leggibilità di un universo dai forti tratti d’imponderabilità. La via intravista dal cardinal Cusano, troppo ardita per la sua stessa Chiesa, coltivando approcci multidisciplinari e persino contraddittori radica in Dio dignità e responsabilità di ogni soggetto umano.
D’altra parte, Stefano Levi Della Torre intuisce come sin dalla prima pagina della Genesi (in ebraico bereshit) il discorso biblico disponga della chiave smarrita dalla moderna illusione di un sapere oggettivo. Seconda lettera dell’alfabeto ebraico, «la beth di bereshit ci avverte che quell’“in principio” non è proprio l’inizio, ma piuttosto un cambiamento di stato. Sottotraccia, è l’esito di una grande battaglia tra l’informe e la forma, tra il disordine e l’ordine, tra il tohu vavohu (massa tenebrosa, vorticosa, caotica) e l’intelletto divino, e quindi di quello umano, che è “a sua immagine e somiglianza”. Una battaglia mai finita; anzi, è sempre in atto, vi siamo immersi». Ecco la chiave che riapre le conclusioni del libro e impedisce di leggerci su un binario morto. Il Dio biblico non sta sul lato della massa tenebrosa e chiama alla sua somiglianza.
La chiave sta in un pronome bistrattato, cui sono legate le sorti della modernità e della stessa rivelazione biblica. «Se la seconda lettera, la beth, non designa un inizio assoluto, la prima lettera, l’alef, in qualità iniziale compare a un certo punto, nel mezzo della narrazione biblica con la parola anokhì, “io”. Una prima volta lo dice Adam di sé in Gen 3, 10; un’altra volta lo dice Dio sul Sinai, in apertura delle “Dieci Parole” [...]. Questo anokhì in cui sia l’uomo sia Dio riconoscono se stessi come soggettività [...] non nasce dall’inerzia, ma dallo sforzo di un distacco e di una nascita della coscienza di se stessi, a confronto con l’altro e col tu». La via difficile implica che “Dio” e “io” vivano solo insieme. In modo ben più serio e vertiginoso dell’essere l’uno illusione o proiezione dell’altro.
* Fonte: L’ Osservatore Romano, 04 febbraio 2021
Nota:
L’IMMAGINARIO MITOLOGICO DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA:
AL DI LA’ DELLA "DOTTA IGNORANZA" DEL CARDINALE CUSANO E DELLA "TEORIA" DEL "TRITTICO DI MERODE":
#MENSCHWERDUNG. - #Come nascono i bambini: ripartendo dal #sapere di non sapere,
Niccolò Cusano ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440 la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427).
FLS
Verso Paradiso
Dante: dal ghiaccio infernale al «caldo amore»
di Gianni Vacchelli (Doppiozero, 28 Aprile 2021)
Dobbiamo ancora diventare contemporanei del Paradiso di Dante! Sembra paradossale, ma è così: infatti il Paradiso è complessivamente la cantica meno “ricevuta” e conosciuta a livello popolare, come anche scolastico, in una piuttosto standardizzata classifica che passa dall’entusiasmo per l’Inferno, alla tiepidezza per il Purgatorio fino ad un certo distacco dal viaggio paradisiaco. Ma anche nella ricezione di molti grandi scrittori, il Paradiso “latita”. Si pensi a Pasolini, a Primo Levi, a Edoardo Sanguineti, dove, pure in modi diversi, è il Dante infernale al centro, senza dimenticare il Dante “petroso” di molto Montale. Anche “dantisti” stranieri di altissima levatura come Joyce e Beckett privilegiano, per tante ragioni, soprattutto le prime due cantiche o un approccio soprattutto parodico alla Borges. Naturalmente ci sono eccezioni: certi passi eliotiani dei Quattro Quartetti, alcuni Cantos poundiani, la luce flagrante dell’ultimo Luzi, il cimento di Giovanni Giudici per mettere in scena la terza cantica. Al di là di questo del tutto incompleto censimento, la luce, l’ardore, la «mente innamorata» che intridono il Paradiso attendono ancora di essere pienamente gustati e vissuti. Anche per questo è preziosa la sfida di Marco Martinelli e di Ermanna Montanari, anime del Teatro delle Albe di Ravenna, di condurre a termine per l’anno prossimo la traversata teatrale della Commedia e di restituire «scintille» del genio paradisiaco a tutti, dotti e semplici, nello spirito che li ha guidati già con Inferno e Purgatorio: restando cioè fedeli a parti scelte del testo, ma dall’altra proponendo una lettura attualizzante e “militante”, come faceva il Poeta stesso, sempre teso ad interpellare i testi antichi, come ombra portata sulle domande e le esigenze del presente.
I motivi della difficile ricezione paradisiaca sono complessi e vari. Ne accenno qui solo alcuni “storici” e legati allo “spirito del nostro tempo”: non si entra nel Paradiso senza una qualche considerazione della mistica, che però è realtà misconosciuta e minoritaria, anche nella tradizione cristiana. In più la modernità secentesca ha costruito la sua antropologia sul cogito cartesiano e sulla matematizzazione della realtà. Sia chiaro: la mistica di Dante non è irrazionale, e mai svaluta il logos. L’uomo però non è solo Virgilio, ma anche Beatrice e Bernardo. Da ultimo il nostro tempo, nel suo mainstream, è lontanissimo da questa idea di un uomo capax Dei. Il capitalocene odierno lavora piuttosto su un tragico riduzionismo antropologico, quello di un homo miserabilis se non miserrimus, consumens, cosificato e mercificato. Marcuse parlava di uomo ad una dimensione. Forse sempre più dobbiamo denunciare gli esiti di fatto nichilistici e distruttivi di questa figurazione di mondo, che non è solo un sistema economico, ma un’intera rimappatura della vita all’insegna del denaro e del mercato totalizzato: vita che, non a caso, è appunto «smarrita».
Per arrivare a gustare qualcosa del Paradiso, partirò da due “immagini”, una infernale e una purgatoriale, per poi immergerci nel «gran mar de l’essere» del terzo regno.
Quando giungiamo nel fondo dell’abisso, nell’anus mundi, ci troviamo dentro un paesaggio spaventoso e insieme di incredibile potenza simbolica:
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte (If XXXIV, 10-15)
Il cuore dell’Inferno non è fuoco, ma ghiaccio, ghiaccio del Cocito e soprattutto ghiaccio dell’odio, dell’incompiutezza, della disumanizzazione, della morte relazionale, del desiderio spento, dell’uomo fallito come «compagnevole animale». Criogenato lì dentro, ecco ciò che resta dell’umano, ridotto a «festuca» (pagliuzza), a pezzo, a “impetrata” e muta insignificanza, mentre la grande macchina sacrificale luciferina tutto sussume e raggela, impersonalmente. L’immaginazione creatrice dantesca dice una deriva antropologica spesso realizzata in momenti bui della storia, specie in certi abissi del “secolo breve” e in alcuni scorci pure molto inquietanti del XXI secolo.
Ma usciamo «a riveder le stelle», ed entriamo nel sentire purgatoriale, che è un’altra figurazione dell’uomo, come di Dio e del cosmo:
Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’oriente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta (Pg I, 13-21)
Tutto rinasce e risorge qui, in un risveglio interiore, naturale e spirituale, che ridà «diletto» agli occhi, esodo dall’«aura morta» per un soffio di altra qualità. Si intravede la stella Venere che invita ad amare. Inizia il disgelo del cammino che permetterà il recupero di un «libero, dritto e sano [...] arbitrio» (Pg XXVII, 140). La sclerocardia infernale si sfa, come Dante canta splendidamente nel rincontro difficile ma intensissimo con Beatrice: «lo gel che m’era intorno al cor ristretto, / spirito e acqua fessi, e con angoscia /de la bocca e de li occhi uscì del petto» (Pg XXX, 97-99). L’uomo torna umano e lo diventa, in una relazione sempre più intensa con tutte le dimensioni della realtà.
Adesso forse possiamo meglio esperire “lo spirito del Paradiso” e alcune sue straordinarie immagini: la prima relativa alle vicissitudini di Traiano e la seconda con Piccarda protagonista.
L’ anima gloriosa [Traiano] onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potea aiutarla;
credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
degna di venire a questo gioco (Pd XX,112-117)
Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco (Pd III, 67-69).
(Corsivi di G. V.)
Ecco com’è nuova la poesia paradisiaca, ecco come è mutato lo stato di coscienza, non più infernale, petrosamente ghiacciato, non più neppure di purgatoriale disgelo “primaverile” e venusiano, ecco com’è diversa l’antropologia della terza cantica, e lo sguardo che pone su tutta la realtà. Questa energia danzante di ardore, di «caldo amor(e)» (Pd XII, 79; XX, 95), di luce, di bellezza, di gioco, di verità, questa «gloria di colui che tutto move», questo «amor che move il sole e l’altre stelle», pervade, in modi più o meno fulgenti, tutta l’atmosfera paradisiaca. Raggia dai beati, da Beatrice e avvolge Dante stesso, nel finale della cantica uomo di luce (Pd XXX, 46ss.).
Non solo la poesia del Paradiso non è esangue, statica, ma piuttosto fiammante, infuocata di eros e agape insieme, dove la carne è sì spiritualizzata, ma mai perduta, piuttosto assunta e portata a compimento, in trasfigurata ma possibile realtà: Traiano tutto «s’accese di tanto foco / di vero amor», Piccarda «arder parea d’amor nel primo foco», e puoi leggere il mirabile endecasillabo sentendo Piccarda rilucere nella potenza amante dello Spirito Santo, «primo foco» increato che tutto pervade, infondendo viriditas, direbbe Ildegarda di Bingen, ma anche nella bellezza e nell’emozione del primo innamoramento. Amore divino e umano nel Paradiso finalmente non si contrappongono più, ma sono interrelazionati: il primo alimenta il secondo, il secondo lo manifesta qui, nella compagnia degli uomini, delle donne e della creazione.
L’incompletezza raggelante dell’Inferno, il cammino di liberazione purgatoriale si compiono nell’eterno «gioco» paradisiaco, una esperienza piena della vita, traboccante e abbondante fin dai versi celeberrimi dell’incipit:
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove (Pd I, 1-3)
Quella cantata qui infatti è l’esperienza della Vita, della «nostra vita», della Vita grande, che non muore, di cui siamo «vasi», epifanie, diafanie, cristofanie, se ci accorgiamo, ci risvegliamo, ci mettiamo in viaggio, per ritornare alla nostra origine, alla nostra vera natura, che per il Poeta è cristica. Non solo al centro della croce luminosa del cielo di Marte, ma ovunque nel poema lampeggia il mistero divino-umano cristico, che tutti attira a sé, credenti e non credenti, cristiani e uomini di altre religioni (che non devono naturalmente chiamarlo con questo nome):
Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch’io non so trovare essempro degno (Pd XIV, 103-105)
Ancora, con il grande teologo indocatalano Raimon Panikkar, potremmo dire che esperiamo nel Paradiso la vita e la mistica cosmoteandrica, dove il mistero di infinitudine che alcuni chiamano Dio (theos), ma che pure ha altri nomi, la dimensione umana e di coscienza (anèr) e quella cosmica, materiale, della natura (kosmos) rifulgono intrecciati insieme, certo gerarchicamente, in ordine sacro, ma non l’uno senza l’altro. È anche questo il mistero triadico e trinitario che pervade tutta la Commedia e che nella terza cantica si rivela nel suo splendore vivente.
Quella del Paradiso non è «vita bestiale», «cieca vita», nè vita solo biologica, «nuda vita», per dirla con Agamben, ma è «vera vita» (Pd XXXII, 59), «intera vita» (Pd VII, 104), da cantare così:
Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d’amore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza! (Pd XXVII, 7-9).
Questa pienezza non è riservata a pochi gnostici ma, potenzialmente, all’umanità tutta, che Dante rappresenta in quanto everyman, fin dall’incipit del poema. Egli è sicuramente se stesso, ma pure tutti noi. Naturalmente tutto comincia per grazia, per dono, ma richiede pure impegno e sforzo, per discendere agli inferi personali e collettivi, risalire nella liberazione-trasformazione purgatoriale, e alla fine entrare in questo misterioso stato unitivo, aduale, di pienezza, dove la divinizzazione dell’uomo dice in primis la sua incarnazione umana feconda, amante, conoscente e virtuosa.
Per quanto il linguaggio di Dante sia maggioritariamente cristico (più che cristiano), ma pure aperto a tutte le sapienze a lui conosciute (quella pagana in primis), la mistica paradisaca non è appannaggio di una religione o di una confessione. «Le religioni non hanno il monopolio del religioso», ricordava spesso ancora Panikkar. Quello di Dante è soprattutto un magnifico invito al viaggio. Entra nel mistero che ti inabita e che tutto pervade. Coltiva la tua vita interiore, fai esperienza della sapienza. Questa mistica è una sorta di “diritto umano” di nuova generazione. E di essa abbiamo più che mai bisogno oggi, in tempi di evidente selva oscura, dove serve un «mi ritrovai» di cambiamento e di nuova immaginazione.
Dante sembra anche ricordarci che faville mistiche sono presenti in molte esperienze umane: nell’innamoramento, nell’estasi di fronte alla natura e al suo misterioso ordine, cantati in Paradiso I, e forse in certi istanti vissuti nell’infanzia, da ritrovare adesso con nuova e cosciente innocenza. Così anche il Poeta alla fine del viaggio diventa evangelicamente bambino ed entra nel regno, non solo dopo la morte, ma ora, in questo momento, sub specie tempiternitatis:
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella (Pd XXXIII, 106-108)
Questi attimi escronici, ma pure radicati nel tempo, queste epifanie, questi ricordi di sé, questi moments of being raccontano anche la gioia rara ma possibile dell’intimità profonda: «s’io m’intuassi, come tu t’inmii (Pd IX, 81), cioè se io fossi capace di entrare in te, di “intuarmi” come tu entri in me, ti “inmii”, dice il Poeta con continua invenzione neologistica.
Anche il rapporto d’amore uomo-donna, paradigma simbolico di ogni altra relazione innamorata, trova nel Paradiso il suo inveramento. La mistica dantesca non è celibataria, ma laica e secolare, e non a caso il trasumanar del Poeta è vissuto guardando negli occhi l’amata Beatrice, per poi levarsi con lei, tutta donna, tutta iniziatrice, tutta dea e tutta simbolo, di cielo in cielo, chagallianamente:
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba (Pd I, 64-72).
Impossibile commentare la ricchezza di questi versi, che si nutrono della Trasfigurazione taborica del Cristo, rivissuta in Beatrice, “crista personale” del Poeta, ma fanno ricorso pure al mito classico, vaso anch’esso di luccicanze del mistero. E necessaria è l’esperienza, vissuta nella grazia e nel cammino col corpo, che nella mistica dantesca è dimensione in trasformazione ma definitiva.
Ancora: mai la spiritualità dantesca è fuga mundi o intimismo, quanto piuttosto una mistica critico-politica in forma di poesia. Il nesso interiore e quello civile per noi sono infranti, sconnessi, ed è quasi un “nonpensabile” questa circolazione costitutiva invece della poesia dantesca. Il diventare sempre più reali, umani e pieni significa per Dante mai disperdere la dimensione del bene comune, della polis, della giustizia. La felicità dantesca riabita la natura umana nella sua rettitudine originaria, come racconta nei canti del Paradiso Terrestre, ma è sempre anche una felicità politica, che tiene insieme, per così dire, il Giardino e il Regno. Ecco perché, se la superbia apparentemente resta il peccato più grave, invero fin dal I canto dell’Inferno Dante, con grande acutezza e audacia, denuncia come più mortifero il regno della lupa, assato sulla cupiditas e sull’accumulo. E queste aspre invettive impazzano pure in molti canti del Paradiso:
Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte (Pd V, 79-80)
La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,
produce e spande il maladetto fiore
c’ha disviate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore (Pd IX, 127ss)
[...] La cieca / cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la
balia» (Pd XXX, 133-141)
La mala pianta della cupiditas-accumulo attecchisce ovunque, nell’animo umano in primis, e poi nelle istituzioni stesse: nella Chiesa, nell’Impero, nei comuni ecc. Ma Dante intravvede anche la nascita di un protocapitalismo finanziario e manifatturiero, l’affermarsi di un nuovo paradigma che andrà verso l’economicizzazione della realtà, il culto del denaro (il «maladetto fiore»), la cui devastante pericolosità - per i popoli, per l’equa distribuzione dei beni primi e necessari, per la natura, per l’anima e l’interiorità stessa - oggi vediamo dispiegata al suo concetto.
Anche per questo quindi facciamo fatica a comprendere la poesia del Paradiso, ma pure ne abbiamo sete e ci è più che mai necessaria. Proprio perché la spiritualità dantesca è piena di amore, di ardore e di desiderio forse essa aspetta idealmente soprattutto le nuove generazioni, più capaci di ripensare in modo inedito e meno iniquo il mondo.
Dopo che varcando il Teatro Rasi si era precipitati nella città dolente, dopo che si era imparato il “noi” nella cantica dell’ascendere insieme per le strade di Ravenna, e di Matera, ci sarebbe stata una nuova chiamata pubblica e, insieme, si sarebbe dovuti arrivare al Paradiso nel 2021. Come fare, costretti alla distanza? Come celebrare Dante nell’anno del settimo centenario della morte del poeta? Teatro delle Albe e doppiozero hanno immaginato lo spazio della scrittura come spazio di un’attesa condivisa, un racconto-diario scritto da Marco Martinelli e racconti-sapere di studiosi e amici del Sommo, fili differenti per “dialogare con l’ago” e tessere visioni. Oggi il primo di questi quattro contributi. Il Cantiere Dante di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.
L’anima e la cetra/7.
Non è bene che Dio sia solo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Alcune persone ricordano per tutta la vita il giorno in cui hanno visto per la prima volta il cielo stellato. Lo avevano "visto" altre volte, ma in una benedetta notte è successo qualcosa di speciale e lo hanno visto veramente. Hanno fatto l’esperienza metafisica dell’immensità e, simultaneamente, hanno avvertito tutta la propria piccolezza e fragilità. Si sono, ci siamo, visti infinitamente piccoli. E lì, sotto il firmamento, sono fiorite domande diverse, quelle che quando arrivano segnano una tappa nuova e decisiva della vita: dove sono e cosa sono i miei affari? e i miei problemi? cosa è la mia vita? cosa i miei amori, i miei dolori? E poi è arrivata la domanda più difficile: e io, che sono? È il giorno tremendo e bellissimo; per alcuni segna l’inizio della domanda religiosa, per altri la fine della prima fede e l’inizio dell’ateismo - per poi scoprire, ma solo alla fine, che le due esperienze erano simili, che magari c’era molto mistero nella risposta atea e molta illusione in quella religiosa, ma lì non potevamo saperlo. Non tutti fanno questa esperienza, ma se la desideriamo possiamo provare a uscire di casa in queste notti fatte più calme e nitide dai mesi sabbatici, cercare le stelle, fare silenzio, attendere le domande - che, mi hanno detto, qualche volta arrivano.
Per qualcuno, poi, c’è stato un altro giorno decisivo. Quando quell’infinitamente piccolo ha fatto l’esperienza che quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» si interessava di lui, di lei, lo cercava, gli parlava, la incontrava. Giorno altrettanto decisivo, perché non basta l’esperienza vera del giorno delle stelle perché inizi la vita religiosa. Ci sono molte persone che sentono veramente vibrare lo spirito di Dio nella natura, odono la sua voce risuonare nelle notti stellate e in molti altri luoghi, ma non si sono mai sentite chiamare per nome da quella stessa voce. Come ci sono altri che hanno fatto un autentico incontro personale con la voce dentro, ma che poi non l’hanno mai sentita vivere nell’universo intero, che non si sono mai commossi riconoscendola nell’immensità del cosmo. È l’incontro tra questi due giorni che segna l’inizio della vita spirituale matura, quando l’immensità che ci svela la nostra infinita piccolezza diventa un tu più intimo del nostro nome.
L’autore del Salmo 8 ha fatto, credo, l’esperienza di entrambi questi giorni. Ha riconosciuto la presenza di YHWH nel firmamento infinitamente grande e si è sentito infinitamente piccolo; e poi ha intuito che la voce che gli parlava tra le galassie era la stessa voce che gli parlava nel cuore: «Come splende, YHWH, il tuo nome su tutta la terra: la bellezza tua voglio cantare, essa riempie i cieli immensi... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, io mi chiedo davanti al creato: e l’uomo che cos’è? perché di lui ti ricordi? Che cosa è mai questo figlio d’uomo perché tu ne abbia una tale cura?» (8, 2-5). Versi meravigliosi. Dovremmo avere il cuore e le stigmate di Francesco per cantarli.
Assistiamo in presa diretta a una esperienza dell’assoluto. Quell’antico poeta ha avvertito l’immensità e la piccolezza, non si è sentito schiacciato, e ha iniziato un nuovo canto. Il canto dell’umiltà (humilitas) vera, perché l’humus ci dice chi siamo veramente solo se riusciamo per un attimo a guardarlo da distanza siderale; l’adamah (terra) svela l’Adam solo se vista dall’alto. È questa la gioia per la verità finalmente rivelatasi, per una nuova ignoranza che non umilia. L’umiltà è l’opposto dell’umiliazione. E si sperimenta una nuova infanzia, una sconfinata giovinezza: «Da fanciullo e lattante balbetto» (8,3).
Al centro del salmo una domanda: cosa è il figlio d’uomo (Ben Adam: espressione cara ai profeti e ai vangeli), di fronte a tanta immensità?! Splendida è la risposta: nonostante la sua insignificanza in rapporto alle stelle e la sua piccolezza nel tempo e nello spazio, tu ti prendi cura dell’uomo, tu ti ricordi di lui. Come a dire: se tu tenessi conto, o Dio, di quello che l’Adam è oggettivamente in rapporto all’universo sterminato, non dovresti occupartene; e invece ti prendi cura di lui, di lei. E quindi la domanda necessaria: ma questa voce che mi parla dentro è proprio la stessa che ha parlato tra le galassie? La risposta del primo giorno può essere soltanto un sì, altrimenti il cammino non incomincia! Col passare del tempo la risposta diventa: forse. Poi arrivano i lunghi anni quando la risposta è: no. Infine ritorna il sì, ma - se e quando ritorna - è un sì detto con un’altra profondità e un’altra umiltà. E qui nasce una nuova meraviglia, trabocca la gratitudine, riaffiora la preghiera degli ultimi tempi.
Sta in questa tensione tra le stelle e il cuore, abitati entrambi dalla stessa presenza, la dignità dell’Adam, dei suoi figli e delle sue figlie, la sua gloria e il suo onore. Ci si perde nelle varie ideologie quando si perde uno di questi due poli. Dobbiamo leggere il Salmo 8 in parallelo con i primi capitoli della Genesi: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il versetto della Bibbia che, forse, amo di più. L’Adam è posto da Elohim al centro del giardino della creazione perché ne fosse custode e responsabile. Il Salmo ce lo ridice: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7). L’Adam diventa il primo interlocutore di Dio, perché con la sua reciprocità potesse accompagnare anche la solitudine di Dio - «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) va letto insieme all’altra frase non scritta nella Bibbia ma altrettanto presente: non è bene che Dio sia solo.
Non mi stupirebbe se l’autore di quell’antico salmo mentre cantava avesse sottomano questi versi della Genesi. Forse stava meditando e contemplando "cosa è l’uomo" quando, ad un certo punto, non ha più retto l’emozione e ha composto uno dei versi più belli sull’uomo mai scritti da tutta la letteratura religiosa e laica. Dopo averlo visto sub specie aeternitatis, dopo essere andato con l’anima sulla luna e averlo perso di vista tanta era la sua piccolezza, tornato a quelle parole della Genesi ha rivisto un altro uomo. E ha pronunciato questo capolavoro, che va letto dopo qualche attimo di silenzio: -«Eppure l’hai fatto poco meno di Elohim, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Eppure: a volte la Bibbia sa racchiudere in una umile congiunzione tutta la sua profezia. Siamo effimeri, siamo come l’erba ... eppure... «Una voce dice: "Grida", e io rispondo: "Che cosa dovrò gridare?". Ogni uomo è come l’erba. Secca l’erba, il fiore appassisce ... Veramente il popolo è come l’erba» (Isaia 40,6-7).
Veramente ... eppure. Siamo stati pensati, cercati e amati tra un veramente e un eppure. Veramente effimeri come l’erba, veramente infinitamente piccoli, veramente infedeli e peccatori; eppure poco meno di Dio, eppure sua immagine e somiglianza, eppure amati, curati e attesi come figli.
Questa è l’immensa antropologia biblica. La letteratura antica conosceva la metafora dell’immagine di Dio applicata all’uomo. Ma era usata per il re, per il faraone. La Bibbia la usa per ciascuno di noi, per ogni uomo e per ogni donna, per te, per me. È l’Adam, ogni Adam, l’immagine e somiglianza di Elohim; e quindi lo siamo anche noi, tutti noi. È questa la magna carta di ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna, dei bambini, delle bambine, della dignità del creato. Il Salmo 8 è un inno a Dio e insieme un inno all’uomo. Esalta la persona dicendoci chi è quel Dio di cui egli è immagine, ed esalta Dio dicendoci chi sono l’uomo e la donna che lo riflettono. Perché se l’uno è immagine dell’altro, più l’Adam diventa bello più dice la bellezza del suo Creatore, e più lasciamo libero Dio di diventare migliore di noi, più abbelliamo noi stessi. Non capiamo l’antropologia biblica se usciamo dalla reciprocità intrinseca al simbolo dell’immagine.
Ma la bellezza e la forza di questo canto esplodono se immaginiamo il salmista cantare quel versetto 6 mentre leggeva anche i capitoli tre e quattro della Genesi: quelli della disobbedienza, della seduzione vincente del serpente, e poi Caino e il sangue di Abele, di cui il salmista sentiva ancora l’odore. È troppo semplice cantare la gloria e l’onore dell’uomo fermandosi al capitolo due. La sfida decisiva è riuscire a continuare il canto mentre i capitoli scorrono e si entra nelle pagine buie e buissime del no, quelle della rottura dell’armonia uomo-donna-creato-Dio, nelle pagine della cacciata da quel giardino meraviglioso, quelle della notte oscura del primo fratricidio della terra. E giunti lì, non smettere il canto. E poi continuarlo con l’urlo tremendo di Lamek l’uccisore di fanciulli, con la ribellione di Babele, con i peccati dei patriarchi, con le bugie e gli inganni di Giacobbe, con l’omicidio dei beniaminiti, fino all’omicidio di Davide, alle infedeltà di Salomone e di quasi tutti i re d’Israele. E non smettere mai di cantare: «Veramente ... Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio».
Tutta la forza dell’antropologia biblica si sprigiona quando riusciamo a vincere il dolore e la vergogna e ripetiamo "veramente ... eppure" non solo di fronte al firmamento ma anche nelle carceri, nelle meschinità, nelle violenze, nei bassifondi di Calcutta, nelle via crucis che portano al Golgota. Non c’è condizione umana che non sia racchiusa tra quel veramente e quell’eppure, nessuno resta fuori. La Bibbia non ha avuto paura di narrarci i peccati e le bassezze dei suoi uomini perché credeva veramente all’immagine di Elohim. E ogni volta che nascondiamo nelle nostre storie le pagine più buie abbiamo smesso di credere che siamo immagine.
Caino ha cancellato la sua fraternità e i suoi figli continuano a cancellarla uccidendo ogni giorno Abele. Ma non ha potuto cancellare l’immagine - e se il "segno di Caino" fosse proprio l’immagine di Elohim? «O Dio, Signore nostro, come splende il tuo nome su tutta la terra!» (8,10).
L’eterno nell’istante
di Aldo Nove (Avvenire, venerdì 8 maggio 2020).
In una celebre videointervista risalente a una ventina di anni fa, Ramon Panikkar (di cui, in Italia, è in corso di pubblicazione l’Opera Omnia presso Jaka Book), discutendo della nostra percezione del tempo e del suo senso in chiave universale con Franco Battiato, si sofferma su un neologismo da lui inventato, e che è «sempeternità».
L’eminente teologo e docente di religioni comparate, con il suo affabile, celeberrimo sorriso sulle labbra, propone di «gustare», come massima espressione sia della cultura giudeo-cristiana che di quella induista e anzi nella loro scaturigine unica, la presenza assoluta dell’eterno nell’istante. Ogni istante della nostra vita è eterno.
Alla richiesta di ulteriori delucidazioni da parte del noto musicista e ricercatore spirituale, Panikkar replica che il nostro passato è una proiezione attuale del futuro, così come il futuro è una previsione, ma più propriamente una fantasticheria, sul nostro futuro, che non conosciamo.
La sempiternità è invece innegabile, adesso c’è sempre e per sempre è stato o sarà nel tranello di un eterno umilmente e maestosamente attuale. Tale è ad esempio, al di là di tutta la sua potenza simbolica, l’esperienza liturgica, dove l’attuale abbandona le categorie del presente e del passato e si impone come liberatorio unitario assoluto, nella perpetuità di «adesso».
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Raimon, maestro di spirito
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2011)
L’abitare in territori di frontiera non custoditi da cortine di ferro comporta inevitabilmente sconfinamenti. E questo non vale solo per la topografia, ma anche per la teologia. Se vogliamo metterla in un’altra forma, possiamo dire che l’uso appassionato e reiterato del «para-dosso» conduce talora all’«etero-dosso», senza che però il pendolo non possa ritornare al punto di partenza. Vorrei proporre ora, in modo molto semplificato, due ritratti di uomini di frontiera, l’uno vicino a noi, tant’è vero che è morto nell’agosto di un anno fa in Spagna; l’altro remoto (eppur provocatoriamente inquietante anche oggi), contemporaneo di Dante, tant’è vero le sue date estreme sono vicine a quelle del grande poeta (1260-1327 ca.).
Partiamo, dunque, dal nostro contemporaneo, "meticcio" già nella sua genesi biologica, essendo figlio di madre catalana e di padre indiano, ma per tutta la vita cultore di un "meticciato" culturale e religioso dagli equilibri delicatissimi. Sto parlando di un originalissimo pensatore, Raimon Panikkar, del quale la Jaca Book ha da tempo avviato la sterminata raccolta dell’Opera omnia.
Confessava, infatti: «Non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e per aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte che si può chiamare Spirito». Egli ha condotto la sua esistenza e la sua ricerca lungo un vero e proprio incrocio di frontiere spirituali: la cattolica, l’induista, la buddhista e la secolare, costruendo ponti, scavando tunnel, aprendo strade, attestandosi su sentieri d’altura ove si possono contemplare tutti i panorami, ma inoltrandosi anche in valli dai confini incerti.
Lo stesso dipanarsi del suo pensiero era un’insonne oscillazione tra generi diversi: dalla
speculazione al simbolo, dall’analisi alla poetica, dalla documentazione all’intuizione, dalla filosofia
alla mistica. Analogo era il dispiegarsi del suo arcobaleno tematico che si reggeva su un asse
cristologico che, però, si ramificava lungo tutte le direzioni e i molteplici colori delle religioni
fondamentali, la cristiana, l’ebrea, l’hindu e la cosmica. Arduo era averlo come compagno di viaggio
teologico: era accaduto anche a me - che l’ho conosciuto e che mi ha considerato sempre con affetto
di trovarmi smarrito di fronte alla sequenza accelerata e febbrile dei suoi paesaggi teologici.
Indimenticabile fu per me un dialogo pubblico con lui attorno a un libro così "fluido" com’è quello
di Giobbe (san Girolamo lo comparava a un’anguilla o a una murena!) nel Duomo di Milano,
davanti a un’immensa folla affascinata e frastornata al tempo stesso.
È per questo che, se si vuole disegnare un ritratto di Panikkar, la via più pertinente è quella adottata da un giornalista di grande finezza umana, spirituale e intellettuale, Raffaele Luise, che ha optato per il genere narrativo con due protagonisti essenziali, il maestro e il discepolo. L’incandescenza del pensiero di Raimon, infatti, difficilmente poteva essere coagulata nello stampo freddo della critica teologica perché ne deborderebbe continuamente. Il divino, l’umano e il cosmico non avevano in lui protocolli codificati e rigidi; le frontiere erano appunto dissolte da un’ermeneutica che tendeva a intrecciare non solo le religioni tra loro, ma anche le culture e le spiritualità, in una cristologia totale ma non riconducibile alla coerenza di un sistema.
Con Luise emerge, così, l’uomo Panikkar, credente appassionato, amico dolce, maestro di una sapienza orientale trascritta e fusa con l’occidentale. Penso che molti "laici" allergici ai discorsi religiosi resteranno sorpresi nello scoprire quanto seria, feconda e originale sia la ricerca spirituale, così come affiora da questa "storia" biografica. Certo, i teologi e i filosofi troveranno da eccepire, come anch’io mi imbarazzai quella sera e in altre occasioni di fronte al flusso di un pensiero tanto epifanico e "sconfinato" o "illimitato". Ma la sua interculturalità e interreligiosità rimangono un terreno ove ora ci ritroviamo necessariamente, pur coi piedi piantati nei rispettivi territori nativi.
Passiamo ora all’altro personaggio che ci costringe a una lunga navigazione a ritroso nel fiume della storia. Il suo nome era Johannes Eckhart, ma per tutti è rimasto sempre il Meister Eckhart. Anch’egli fu uomo delle frontiere, anzi affetto dal gusto di fissare lo sguardo negli abissi più vertiginosi. Dei suoi scritti altotedeschi e latini è traduttore in Italia uno studioso anch’egli amante dei "para-dossi", ossia delle tesi borderline (basti leggere la finale dell’introduzione al testo che stiamo presentando), Marco Vannini. A lui dobbiamo la versione del Libro delle parabole della Genesi, che offrì alcuni (ma non gli unici) materiali ai censori ecclesiastici di Eckhart, a partire dall’arcivescovo di Colonia. È curioso notare che alla fine egli fu condannato per alcune sue proposizioni "para-dossali" e fin "etero-dosse" in contumacia, una contumacia particolare perché egli era migrato verso la patria eterna almeno da un paio d’anni.
L’interesse di queste pagine, che si affacciano sul testo biblico della Genesi per svellerne «la scorza letterale» così che brilli «il senso più recondito», è di indole ermeneutica. L’intelligenza è la chiave che apre le Scritture; la ragione è lo strumento indispensabile per attraversare la corteccia e far rifulgere la verità di Dio celata nelle Scritture. Le "parabole" della Bibbia, quindi, devono essere sviscerate con la conoscenza filosofica (soprattutto tomista) perché svelino il loro frutto di luce. E qui il curatore si insedia per coinvolgere l’antico maestro medievale nella tesi a lui cara del primato dell’elaborazione filosofica classica rispetto al testo sacro basilare.
Raffaele Luise, Raimon Panikkar. Profeta del dopodomani, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano),
pagg. 314, € 18,00
Meister Eckhart, Il libro delle parabole della Genesi, Morcelliana, Brescia, pagg. 256, € 18,00 .
Sono salita con Panikkar sulla montagna sacra
di Alessandra Iadicicco Milano (La Stampa, 7 marzo 2011)
S’incontrarono ventuno anni fa ad Assisi, dove lei visitava per la prima volta la più spirituale delle città e si aspettava, dice oggi, «di trovarvi, chissà, ancora un San Francesco». Si sono lasciati la scorsa estate sulle rive del Gange dove lui, sacerdote cattolico dotato dell’aura di un maestro orientale, ha toccato l’ultima tappa del suo cammino sulla terra e, con la benedizione di una santa induista e il viatico di un bramano buddhista, ha intrapreso il viaggio nell’aldilà già vissuto come una resurrezione nel corso della sua esistenza.
Lui era - è - Raimon Panikkar, il grande teologo ispano-indiano, teorico del dialogo interreligioso, ministro della chiesa cattolica disposto al più radicale confronto con le altre fedi. È scomparso lo scorso 26 agosto all’età di 91 anni a Tavertet, nella terra catalana della madre, e pochi giorni dopo restituiva le proprie ceneri al Gange secondo i riti del credo induista del padre.
Lei è Milena Carrara Pavan, la più stretta collaboratrice del maestro, compagna di un lungo tratto del suo cammino, traduttrice dei suoi scritti in italiano, responsabile della sua Opera Omnia. È lei a curare il grandioso progetto di raccogliere l’intero corpus della produzione di Panikkar in un’unica edizione italiana per la Jaca Book da tradurre poi nelle altre lingue.
Milena mi mostra il secondo di quelli che in tutto saranno una ventina di volumi. S’intitola Religione e religioni (Jaca Book, 486 pp., 58 €) e uscirà in libreria mercoledì. E : l’idea singolare, universale, unica di una religiosità intesa come confronto col mistero e la pluralità delle vie tracciate dalle diverse tradizioni per condurre l’uomo all’incontro col divino.
«È un’idea così semplice nella sua purezza ed essenzialità» afferma Milena, che l’ha colta ogni volta riformulata in tutte le pagine di Panikkar. «È come scorgere con rinnovata sorpresa la cima del monte sacro mentre si compie la pradakshina, la rituale camminata ai suoi piedi. “Miralo!”, esclamava Raimon con il suo leggendario stupore quando nel ’94 ci recammo insieme in pellegrinaggio alle pendici del Kailash, in Tibet. “Guardalo!” diceva ogni volta che le nubi si aprivano e, scorgendo la vetta, intravedeva “il tutto” o “il nulla” o “il vuoto” o “l’armonia”, come via via chiamava quell’arcano nei diari di cui alla fine dell’opera completa pubblicherò alcuni frammenti. Ciò che vedeva si doveva anche chiamare con il nome che la sua religione gli insegnava: era il Cristo di cui predicava i Vangeli, osservando con scrupolo estremo la liturgia, e riuscendo ogni volta a trascinare e sconvolgere chi assisteva alle sue funzioni. Ma era anche il Cristo sconosciuto dell’Induismo che ritrovò in età adulta dopo il ritorno nella terra del padre e cui dedicò uno dei suoi libri più noti. O il Buddha, di cui abbracciò il pensiero per approfondire e ribadire la propria identità cristiana».
La luminosità di quell’intuizione dovette insomma rifrangersi per Panikkar attraverso le diverse sfaccettature dei volti del divino. La vide schiudersi e farsi sempre più chiara attraverso un lungo percorso di studi e di meditazione, un’intensa esperienza spirituale e un grande lavoro intellettuale, un’impegnativa ricerca di conoscenza. A testimoniarne la grandezza concorrono insieme la vita e l’opera del grande pensatore religioso. E non è un caso che, alla fine della sua vita, Panikkar si sia deciso a riprendere in mano tutta la propria opera per restituirla al mondo con l’integrità di un testamento spirituale. «A questo abbiamo lavorato negli ultimi anni», racconta Milena Pavan. «All’inizio Raimon era titubante: lui che insisteva a sottolineare “io non vivo per scrivere, scrivo per vivere”.
Ma poi lo ha convinto il progetto editoriale di Sante Bagnoli, direttore di Jaca Book: far ricomporre il corpus di un autore allo stesso autore ancora vivente. Con estrema vitalità, lucido fino all’ultimo, Raimon si è dedicato all’impresa fino alla fine». Come? Dove? «Trincerati dietro colonne di volumi nella sua casa di Tavertet, li abbiamo divisi per argomenti: la mistica e la laicità sacra, il confronto tra le religioni e il dialogo interculturale, i Veda, il Buddha e la religione del Cristo che attraverso ogni confronto con l’altro Panikkar riconosceva sempre come il suo “Sat-Guru”, l’unica guida. Questi temi sono tutti intrecciati tra loro. E Raimon non cessava di rimaneggiare gli scritti, aggiungere note, articoli pubblicati in seguito, lettere, testi di lezioni universitarie...».
Scriveva per vivere ed è vissuto completando i suoi scritti fino a un attimo prima di morire. «Ancora a luglio - ricorda Milena - come da anni facevamo ogni estate, abbiamo trascorso due settimane insieme nella mia casa sul mare della Costa Brava. Lui non poteva rinunciarvi e, contravvenendo al divieto del medico preoccupato per il suo cuore fragile, è rimasto con me lavorando sodo per quindici giorni.
Poi è tornato in Catalogna, e verso Ferragosto Jorge, il boliviano che l’assisteva, mi avvertì che Raimon era ormai sempre più debole: stava per spegnersi. Andai a trovarlo per un fine settimana: gli ultimi tre giorni in cui fu cosciente. Leggemmo insieme il Vangelo tutte le mattine. E la domenica, dopo la recita dell’ Angelus , mi posò le mani sulla testa per darmi la sua benedizione. Poi ci guardammo, e seppi che non l’avrei più rivisto. “Adesso vai”, gli dissi sorridendo. “Sì, adesso sono pronto”, sapeva. Nei giorni successivi perse conoscenza, e in breve ci lasciò. Per dargli il mio saluto raggiunsi, come gli avevo promesso, la sponda del Gange.
Anni prima, navigando sul fiume sacro, aveva chiesto di essere cremato secondo il rito hindu. Così ho avuto io stessa l’onore di officiare le sue esequie. Ho fatto benedire le sue ceneri da Amma, la famosa santa indiana degli abbracci, e dal lama Monlam al cospetto di centinaia di monaci buddhisti. Poi le ho disperse sulle acque, certa di consegnarlo al suo ultimo viaggio verso la Sorgente».
Unire cielo e terra serve a ridare un senso al mondo
di Raimon Panikkar (Corriere della Sera, 28 agosto 2010)
Negli ultimi giorni Raimon Panikkar aveva sulla scrivania un saggio dal titolo «Religione e corpo», un contributo del 1996 per la «Revista de filosofía» di Barcellona. Stava elaborando tali pagine, non ancora tradotte in italiano, per le opere complete. Diamo un estratto di questo scritto a cui lavorava.
Nel corso dei millenni l’uomo è stato attratto, spesso ossessionato e talvolta affascinato, da due forze che i mistici chiamerebbero trascendenza e immanenza, i poeti cielo e terra, i filosofi spirito e materia. L’uomo si è dibattuto tra questi due poli attribuendo di volta in volta più importanza all’uno o all’altro, disprezzando, trascurando o magari negando realtà all’uno dei due (la materia è male, il corpo è schiavitù, il tempo è illusione) oppure viceversa (il cielo non esiste, lo spirito è mera proiezione, l’eternità un sogno).
La religione, intesa quale dimensione umana che potremmo chiamare religiosità, messa di fronte al problema del significato della vita ha oscillato tra questi due poli senza riuscire a dimenticare completamente l’altro. Carpe diem: la terra è troppo attraente per non godere dei suoi piaceri. Fuga mundi: il mondo è troppo fugace per riporvi la nostra fiducia.
Non v’è dubbio, tuttavia, che molte delle principali religioni ai nostri giorni hanno decisamente spostato la bilancia verso il trascendente, lo spirituale, l’ultraterreno. «Come andare in cielo» è il compito della religione; «come vanno i cieli» è l’incombenza della scienza: è stata questa la materia di discussione tra uno scienziato (Galileo Galilei) e un teologo (Roberto Bellarmino).
La dicotomia è stata letale per entrambi. La religione è bandita dagli affari umani e la scienza diventa una specialità astratta, avulsa dalla vita umana. La religione diventa un’ideologia e la scienza un’astrazione. In entrambi i casi il corpo è praticamente irrilevante. Compito della nostra generazione, se non vogliamo contribuire all’estinzione dell’homo sapiens, è di tornare a celebrare l’unione tra cielo e terra, quello hieros gamos o sacra unione di cui parlano tante tradizioni, non esclusa la cristiana.
Lo studio delle tradizioni religiose dell’umanità ci mostra che «scienza» (per non usare altri termini) ha voluto dire qualcosa più che descrizione empirica di comportamenti «religiosi» e delle loro interpretazioni «scientifiche» e che religione non è riducibile a pratiche o credenze definite «religiose» dal punto di vista della razionalità intesa nel senso in cui l’ha interpretata il cosiddetto illuminismo. Dicendo «scienze» non vogliamo escludere alcuna forma di coscienza né di saggezza.
Nel dire «religioni» non vogliamo cadere nel monopolio di questa parola da parte di istituzioni («religiose»); ci riferiamo invece a quel nucleo ultimo di ogni cultura, e anche di ogni vita umana, che si crede dia un certo senso alla vita.
È molto significativo che la parola polisemica «religione» sia stata ritenuta poco meno che sconveniente in alcuni ambienti e che si sia voluto sostituirla con «spiritualità». Ciò però dimostra che l’allergia alla parola «religione» è solo superficiale, dato che la parola «spirito» potrebbe farci cadere a sua volta in un altro «ghetto» esclusivo degli «spiritualisti». Se si critica la religione in quanto oasi chiusa che esclude i cosiddetti non-credenti, la spiritualità a sua volta potrebbe essere intesa come la confederazione di religioni in antitesi a coloro che negano ciò che è spirituale. Sin dai tempi di Confucio si sa che esiste una politica delle parole.
(traduzione di Milena Carrara Pavan)
Panikkar, ponte tra due mondi
di Francesco Comina (il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2010)
L’ultimo biglietto di Raimon Panikkar mi arrivò tre mesi fa. Si chiudeva con questa frase: “Si può ancora cantare perché siamo mortali...”. Il canto di uno dei più grandi pensatori contemporanei si è spento l’altro ieri nella sua casa di Tavertet, un paesino abbarbicato sui Pirenei, a cento chilometri da Barcellona. Da tempo Panikkar si era preparato all’evento. Aveva 92 anni. Venne ordinato sacerdote nel 1946. Ha vissuto una vita intensissima. Fino alla fine.
La settimana scorsa ha ricevuto la visita dell’amico filosofo Achille Rossi e di tre giovani. L’ultima sua presenza ad un evento pubblico si è avuta due anni fa a Venezia per l’omaggio che la città gli ha offerto per i suoi 90 anni.
Panikkar non amava le definizioni. Ogni volta che si tentava di catturarlo, sfuggiva sempre, sia sul piano teorico, sia sul piano esistenziale. Figlio di madre catalana cattolica e padre indiano induista, aveva il sangue fortemente impastato di pluralismo. Amava i ponti, odiava i muri. Immaginava il mondo come un reticolo di strade che si intersecano e si incrociano. Aveva una cultura vastissima.
Era laureato in chimica, filosofia e teologia. Conosceva sette lingue. Amava scavare per arrivare alle origini delle parole, perché per lui la parola non era soltanto uno strumento comunicativo ma un universo emotivo.
Storico delle religioni
HA INSEGNATO in varie università, in Europa, in India e negli Stati Uniti. A Santa Barbara ha chiuso la sua vita di docente di Storia delle religioni come professore emerito. Ha scritto una settantina di libri, quasi tutti tradotti in italiano. Negli anni Cinquanta e Sessanta era già conosciuto.
Teneva dialoghi con i grandi pensatori del tempo. Aveva avuto un importante ruolo durante il Concilio Vaticano II. Le sue tesi avevano influenzato teologi come Ives Congar, Hans Küng, Jürgen Moltmann, Leonardo Boff.
Era svincolato da letture dogmatiche o ideologiche. Parlava di un “Cristo sconosciuto dell’induismo”, di una realtà “cosmoteandrica” come connessione indissolubile delle tre dimensioni della realtà, quella cosmica, quella divina e quella umana. Sosteneva sempre che per conoscere le altre religioni fosse doveroso un atto di “conversione”, altrimenti non è possibile capire la sorgente divina che batte sulle strade di altri cammini spirituali.
In una espressione famosa Panikkar disse di sé: “Sono nato cristiano, mi sono scoperto indù e torno buddhista, senza avere mai perso di vista la mia matrice originaria”. Come dire che la fede non può essere una dimensione chiusa dell’esperienza di vita, ma deve necessariamente porsi come elemento di apertura agli altri fino al punto di ammettere la conversione per collocarsi nell’orizzonte dell’alterità. Amava ripetere riecheggiando il vangelo: “Chi ha paura di perdere la fede la perderà...”
Non sopportava parole come “multiculturalismo” o “civiltà planetaria” che gli sembravano dei tentativi di uniformare e omogeneizzare la storia.
In una discussione di qualche anno fa disse: “Viviamo da troppo tempo dentro una sindrome pericolosa, la stessa che presumeva che solo una religione fosse vera e che le altre fossero semplicemente dei cammini spirituali errati. Oggi si fa esattamente così quando si postula una democrazia mondiale, una scienza universale, una globalizzazione dell’economia e via dicendo. Il monoculturalismo, è molto pericoloso. Credo che il problema che dovremmo porci sia diametralmente opposto: come renderci conto che nessuna cultura è isolata e che nessuna religione può cavarsela da sola?”
Anche sul piano del progresso e dello sviluppo, Panikkar era fortemente critico: “Il sistema economico attuale è l’ultimo baluardo del colonialismo. Solo il 25 per cento gode del privilegio del progresso, ma il 75 ne porta il peso. Se tutto il mondo utilizzasse tanta carta quanta ne consuma il nord non ci sarebbero più alberi sulla terra. Il complesso tecnocratico oggi ha invaso il resto del mondo con molta più efficacia e incidenza rispetto all’impero politico e religioso”.
L’esperienza in India
È CONSIDERATO un grande maestro anche in India. Da giovane aveva incontrato Gandhi ma l’amicizia più importante la fece con un’altra grande anima: Henry Le Saux, il monaco benedettino francese conosciuto come Abhisiktànanda. Con lui fece un lungo pellegrinaggio alle sorgenti del Gange. E lo raccontò in un libro.
Oramai nella vecchiaia decise di fare un pellegrinaggio sul Kailasa, il monte sacro dell’India, per rispondere ad una promessa fatta a suo padre. Fece quell’impresa come fosse un “evento ultimo”. Quando tornò a casa scrisse questi versi, oggi più veri che mai: “Va’, come se non andassi / come se non riuscissi, rinuncia / Senza peregrinare sii pellegrino / pellegrino verso il Non-luogo / ora - qui”.
I funerali si terranno il 3 settembre nel monastero di Montserrat,vicino a Barcellona.
Panikkar Il «monaco» il cui verbo fu il dialogo tra le religioni
di Beppe Sebaste (l’Unità, 28 agosto 2010)
È morto ieri 26 agosto, a 91 anni, Raimon Panikkar, filosofo e teologo, uno dei miei «maestri». Ma non so se «morto» è la parola giusta. Avevo pochi giorni fa rivisto e corretto, per il libro di prossima uscita, ciò che di lui, con lui e per lui ho potuto testimoniare. Pensandolo di nuovo e intensamente.
Dal testo sul mio incontro con Raimon Panikkar (2001), di prossima pubblicazione nella nuova edizione del Libro dei maestri: «Raimon Panikkar, filosofo e teologo, fu professore emerito presso l’università della California di Santa Barbara, fondatore del Centro Studi Vivarium di Barcellona, promotore da tantissimi anni di un dialogo interreligioso e interculturale tra le religioni, in onore del quale gli fu conferito il Premio Nonino.
Conoscitore dell’induismo, del cristianesimo e del buddhismo, il Dalai Lama era un suo vecchio amico, da quando nel 1959, in fuga dai Cinesi, Panikkar lo accolse a Sarnath insieme a un monaco theravada (...). Monaco di svariate ordinazioni, figlio di un indiano e una spagnola, tra tutti i suoi numerosi libri resta fondamentale la rielaborazione delle sue lezioni tenute trent’anni fa sul tema del monachesimo: Santa semplicità, il monaco come archetipo universale, suonava il titolo inglese. La sfida di scoprirsi monaco - è invece il titolo forte della versione italiana. Panikkar vi espone la tesi rivoluzionaria di una priorità logica e storica del monachesimo rispetto alle religioni e alle chiese; vi descrive antropologicamente la vocazione e la vita del monaco come una dimensione e un archetipo dell’uomo, irriducibili a ogni tentativo di istituzionalizzarli. Al centro del discorso, il concetto vitale di "conversione". (...) «...Non occorre credere o sapere perché si ama. Alla domanda ‘perché mi ami?’, una risposta sarebbe una bestemmia».
È la conoscenza di quello che lui chiama «il cuore puro», l’unica che si coniughi con l’essere felici. «Un cuore puro è un cuore vuoto, un cuore che non ha paura di perdere la propria personalità. L’uomo non può stare in punta di piedi, e si stanca di indossare maschere. Il cuore puro non ha tecniche, non può essere classificato. È la vita che ci insegna, e il cuore puro si fa svuotare dalla vita. Il perdere libera. Per questo parlare di cuore puro è uguale che dire: Beati i poveri!... I poveri di spirito sono liberi. Chi non scopre la bellezza della povertà non sarà mai libero...».
Tra vacuità orientale e pienezza occidentale, la felicità è questa conversione - lasciarsi svuotare dalla vita. E la sera, nella prossimità del dialogo, ho chiesto a Raimond Panikkar se avevo capito bene, se questo lasciarsi svuotare significa che non si ha (più) paura della morte, perché si è già morti, da tempo, nella pienezza della vita. «Sì», sorride. «Chi non rinuncia a se stesso non sarà mai se stesso. Chi nega se stesso, resuscita. Vorrei togliere agli uomini l’angoscia della morte, la sofferenza che viene dal volersi conservare al di fuori del tempo. Noi siamo temporali, ma non solo temporali. Ho inventato la parola tempiternità, per dire il tempo e l’eternità insieme. L’eternità si vive adesso. È questa la mistica, la spiritualità vera che è felicità, beatitudo, ananda, gioia, e chi trova questa gioia è vicino al mistero divino...».
Un anno fa pronunciò queste parole nella chiesa di San Carlo a Milano: «Io vivo costantemente la morte. La morte è un problema per l’individuo, ma non per la persona. Ognuno di noi, nella propria individualità, è una goccia d’acqua. Cosa capita a questa goccia d’acqua quando, secondo una tradizione che è transculturale, cade nel mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? La goccia d’acqua sparisce, ma all’acqua della goccia non succede niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera natura. Ciò che sparisce, sono le difficoltà di comunicare, di abbracciarsi, di amarsi, che nascono grazie all’individualismo...». Tutto questo, concordiamo, è la vera politica.
Il dialogo tra religioni e culture perde Raimon Panikkar
di Paulo Barone (il manifesto, 28 agosto 2010)
Raimon Panikkar si è spento all’età di novantadue anni nella sua casa di Tavertet, in Catalogna, non lontano da Gerona e dal mare (e non lontano neppure da Port Bou, al confine con la Francia, dove, braccato dai nazisti, si tolse la vita Walter Benjamin), dopo una vita complessa, densa e in continuo movimento.
Figlio di madre spagnola e cattolica e di padre indiano e hindu, si può ben dire che
Panikkar sia stato un ’uomo di mondo’, come certi suoi dati biografici dimostrano in modo
innegabile. Negli anni della formazione - tra la guerra civile spagnola e la seconda guerra mondiale
studiò chimica, teologia e filosofia, nelle università di Spagna, Germania e Italia. Ordinato
giovanissimo sacerdote, fu trasferito nella diocesi di Varanasi (Benares), dove iniziò lo studio e la
traduzione dei Veda e delle Upanishad, nonché una fitta e lunga esplorazione della variegata realtà
dell’India.
L’apprezzamento oltreoceano di alcuni suoi articoli gli valse l’invito all’Università di Harvard - dove rimase cinque anni - e successivamente all’Università della California, dove insegnò per diciotto anni, in una spola costante, però, con l’Europa e l’Oriente. Alla fine non si contano le lingue praticate, i libri e gli articoli pubblicati - presso la Jaka Book , sotto la direzione di Milena Carrara, è in corso di pubblicazione l’opera omnia, allestita dallo stesso Panikkar e in uscita anche in catalano, spagnolo, francese e inglese -, le personalità conosciute - da Heidegger a Eliade, dal Dalai Lama a AnandamayMa, le influenze culturali ricevute e assimilate. La versatilità, l’erudizione, la curiosità e la mobilità, che senz’altro lo hanno caratterizzato, non sono tuttavia sufficienti a definirne il tratto più saliente. La formula, volentieri citata, «sono partito cristiano, mi sono scoperto hindu e sono tornato buddhista, senza cessare di essere cristiano», con cui Panikkar sintetizzava scherzosamente parte del suo itinerario, non va scambiata affatto con un inno al sincretismo religioso, alla raccolta antologica dei fiori più profumati e inoffensivi delle altre culture.
Al contrario, Panikkar percepì con nettezza, e ben prima di molti, la crisi irreversibile e il fallimento radicale, nei confronti della scena contemporanea, di tutte le visioni culturali e religiose tradizionali, a est come a ovest unilaterali e autosufficienti. E invece di auspicarne il semplice collage con dei ritagli in stile New Age, si spese instancabilmente a favore di una loro conversione interna. A favore di un dialogo, certo, che prima tuttavia di essere inter-religioso o inter-culturale, doveva essere intra-religioso, intra-culturale.
Se anche solo si sfogliano certi suoi testi come La pienezza dell’uomo, La realtà cosmoteandrica, o Pace e interculturalità, ci si accorgerà di come il ’dialogo’ panikkariano, per nulla convenzionale o ingenuamente confidante nella sua riuscita - sia stato sensibile agli interrogativi della filosofia novecentesca, alle questioni dei non credenti, degli anti-teisti (come lui definiva gli atei), ai problemi sollevati dal mondo secolare.
E in questo senso il suo dialogo ha certamente qualcosa di un esperimento senza rete: nessun problema a dichiarare insostenibile l’idea monoteistica del dio assoluto e onnisciente, nessuno nel dichiarare inammissibile l’idea di un modo unico di pensare, nessunissimo nel dichiarare fatiscenti certi miti sostitutivi come Storia, Progresso, Democrazia liberale, Mercato. Il suo dialogo lo rendeva felice perché non sapeva, letteralmente, dove lo avrebbe condotto, perché pensava che in realtà nessuno lo aveva mai saputo.
Un ricordo di Ramon Panikkar
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 26.09.2010)
A pochi giorni dalla sua scomparsa è giusto ricordare Ramon Panikkar, certamente uno dei maggiori teologi del nostro tempo. In grado di unire fede e ragione, oriente e occidente, il cristianesimo con le altre religioni. Prezioso, fra gli altri testi, il volumetto «L’esperienza di Dio» (Queriniana), esperienza che Panikkar riassume in nove tesi, molto significative. Le possiamo elencare, una dopo l’altra.
Non si può parlare di Dio senza un previo silenzio interiore.
Il discorso su Dio è un discorso
«sui generis».
È un discorso di tutto il nostro essere. Non è un discorso su nessuna chiesa, religione
o credenza.
È un discorso sempre mediato da qualche credenza.
È un discorso relativo ad un
simbolo e non a un concetto.
È un discorso polisemico, che non può essere nemmeno analogico. Dio non è l’unico simbolo del divino.
È un discorso che sfocia necessariamente in un nuovo
silenzio. Il silenzio è il crocevia fra il tempo e l’eternità.
L’esperienza di Dio specificamente cristiana Panikkar la riassume in tre testi biblici fondamentali: «In lui viviamo, ci muoviamo e siamo; Dio nessuno lo ha mai visto; perché Dio sia tutto in tutti». Nonché nell’esperienza di Gesù: «Io e il Padre siamo una cosa sola» e «Chi ha visto me ha visto il Padre».
Panikkar aggiunge alla sua riflessione alcuni luoghi «privilegiati» dell’esperienza di Dio. Sono: il male, la trasgressione, il silenzio, il tu. E si affida volentieri ai poeti.
Per tutti Giovanni della Croce: «Questo sapere non sapendo / è talmente potente / che i sapienti argomentando / non riescono mai a sconfiggerlo / perché il loro sapere non arriva / a non capire sapendo / ogni conoscenza trascendendo».
RAIMON PANIKKAR; un gigante del nostro tempo.
di Francesco Saverio Iacolare (07.09.2010)
Il 29 agosto scorso è morto uno dei più grandi maestri plurali della nostra epoca. Si era ritirato nella sua casa di Tavert,ai piedi dei Pirenei, dove ha continuato ad educare il suo pensiero fino alla fine del suo vivere sereno. Nacque il 3 novembre del 1918 da madre catalana e padre indiano.
Nel 1946 fu ordinato sacerdote dell’ordine dei gesuiti e aderì all’Opus Dei, che più tardi abbandonò definendola: “ un club per privilegiati".
Fu sposato civilmente "con un permesso speciale della congregazione del clero per vivere una esperienza all’interno della chiesa come ricerca di un’alternativa alla legge del celibato". Lo aveva sempre ritenuto ingiusto.
Ha insegnato in decine di università di tutto il mondo, disseminando il suo pensiero attraverso le venti lingue di sua conoscenza. La sua vita è stata dedicata all’impegno di una possibile pace tra i popoli mediante il dialogo tra le religioni. L’incontro tra le religioni rappresenta il momento cruciale della nostra epoca, Panikkar ha cercato il dialogo “interreligioso" che si realizza nello scambio di conoscenze e di esperienze tra credenti di diverse religioni, e quello "intrareligioso" che si attua nell’intimo di ogni singola persona che entra in contatto con altre realtà religiose diverse dalla sua.
Nel primo caso il dialogo di ricerca interreligioso diventa una preghiera aperta agli orizzonti più lontani degli spazi cardinali e convenzionali. Nel secondo caso, il dialogo intrareligioso, il più maturo, quello silenzioso, è quello che percorre le infinite praterie delle coscienze che serve a sviluppare la grande comunicazione umana. Ognuno di noi, nella dimensione del dialogo intrareligioso, deve imparare a scoprire “l’altro” in noi stessi. “Ama il prossimo tuo come te stesso” ha bisogno di una decodifica aggiuntiva che lo rende più vicino all’uomo, è una decodifica post-mediterranea. Per troppi secoli si è preferito “avanzare” la divinità di Cristo, nascondendo l’umanità di Gesù. La Sua umanità fa paura perché ci dice “ prendi la tua croce è seguimi”. Non conosciamo questa umanità perché ci è stata nascosta.
Gesù è stato fatto prigioniero nell’area mediterranea, relegato in un ambito ristretto e privato della parola, altri lo hanno usato per motivi coloniali e hanno parlato il linguaggio della violenza , un crocefisso usato come spada per colonizzare l’umanità e impedire la comunicazione umana. Oggi, forse, comprendiamo che è stata la violenza che ha impedito il divenire della conoscenza di un dialogo intrareligioso. ”Ama il prossimo tuo come te stesso”, oggi ci rendiamo conto che il vangelo va oltre il “mediterraneo”.
A questo proposito Panikkar ci ricorda :”Quando io avrò scoperto l’ateo in me, così come l’indù e il cristiano ecc.. ecc..,quando considererò il mio fratello come l’altro me stesso, e quando l’altro non si sentirà alienato da me, allora tutti ci avviciniamo al Regno”. Occorre smettere di costruire “torri” , “ mura”, barriere psicologiche, inseguendo il vano sogno di una umanità artificiosa. Il pluralismo è alla radice delle cose, pertanto nessuna ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull’uomo. Questo pensiero, Panikkar lo esprime nell’opera, “La grazia di Babele” ritenendo il dominio dell’uomo sull’uomo un atto di superbia; per questo Dio rese le lingue plurali. La diversità è la complessità dell’uomo nell’immenso mosaico dell’umanità.
La nascita dell’uomo è un singolo atto di amore, Dio è amore ma i miliardi atti di amore di ieri ,oggi e del futuro non saranno mai l’amore. L’Amore è la totalità che non è data dalla somma delle parti, è la diversità dell’umanità che rende gli uomini uguali. Anche in questo caso ci dice:” Sono partito come cristiano, mi sono scoperto indù e ritorno come buddista, senza cessare per questo di essere cristiano”. Questo è stato il suo manifesto. Purtroppo la superbia della modernità occidentale è stata sempre quella di “costruire” la grande torre di Babele in cui c’è posto per tutti, a patto che stiano zitti e buoni al posto che è stato loro assegnato. Una conseguenza di queste “costruzioni “ sono il villaggio globale e la globalizzazione neoliberista che ha provocato un drammatico ” culturicidio”.
La dimensione culturale dell’occidente ha distrutto gran parte della dimensione interiore dell’uomo, quella capace di una profonda discesa nei meandri dell’interiorità fino a scoprire i propri limiti. Sant’Agostino definiva questa esperienza della realtà “più intima di me a me stesso, più alta di ogni cosa più alta”. La cultura occidentale, volutamente, ha tenuto nascosto quella parte di umanità di Gesù che appartiene all’oriente,Sua patria natale. La superbia dell’occidente è stata quella di teorizzare e codificare che la filosofia è nata in Grecia evitando di spiegare che significa amore per il sapere e il sapere nasce nel cuore dell’uomo. Diversamente perché la filosofia indiana,egiziana, cinese,maia ecc.. ecc.. ? molte delle quali nate migliaia di anni prima di quella greca? A queste è stato impedito il dialogo così come ci hanno raccontato di un Cristo privo di Gesù. Forse che la morte del cristianesimo di cui parlano, Bellet, Molari e Cacciari può essere individuata nella prigionia di Gesù operata dal potere politico di Costantino e affini?
Il pensiero di Panikkar è nella dimensione di una totalità divenente e risiede nell’intuizione che chiama “Cosmoteandrica” che indica la interrelazione di tre dimensione: quella materiale, quella divina, quella umana. Egli ritiene che superando il metodo storico-critico e quello paternalistico è possibile ad ogni credente di immedesimarsi in Cristo attraverso l’umanità di Gesù per avere una “vera” conoscenza.
Ci rendiamo conto che la speranza è la complessità del pensiero di Panikkar non è ancorata nel futuro, ma nell’invisibile, L’uomo deve incarnare la povertà evangelica, infatti chi non scopre la bellezza della povertà non sarà mai libero. Una conversione questa che significa farsi svuotare dalla vita,il che significa essere una goccia d’acqua che, nel mare sparisce come goccia, ma all’acqua della goccia non succede niente, anzi si arricchisce perché si unisce al mare, al cosmo, al divino senza perdere la sua natura di sempre. La goccia ha conosciuto la sua totalità come sorgente della vita. Il grande maestro,Panikkar, è tornato alla sorgente della vita continuando a dialogare con sorella morte, la vera sorgente della vita.
* francescosaverioiacolare, 7 september 2010: http://francescosaverioiacolare.over-blog.it/article-raimon-panikkar-un-gigante-del-nostro-tempo-56668792.html
Spagna
Addio Panikkar, teologo «induista» del dialogo alla pari tra le fedi
Di origine catalana, ha scritto 80 libri e insegnato in varie università; aveva 91 anni Sacerdote dal 1946, le sue dottrine sincretistiche gli attirarono i moniti di Roma
di MARCO RONCALLI (Avvenire, 28.08.2010)
La doppia notizia non cessa di rimbalzare in ambienti tanto diversi: fra teologi e filosofi, politici ed ecologisti, fedeli di diverse religioni e non credenti (non a caso la sua era una spiritualità che incarnava totalmente la contemplazione e la risurrezione): Raimon Panikkar si è spento nella notte di giovedì a 91 anni nella sua casa traboccante di libri a Travertet, in Catalogna, dove viveva dopo aver lasciato l’ultima delle tante cattedre (Harvard, Santa Barbara, Madrid, Montréal, Varanasi...). I funerali si svolgeranno il 3 settembre; Panikkar sarà cremato: metà delle ceneri saranno sepolte nella tomba di famiglia, metà - secondo una tradizione indù - saranno affidate al Gange su una foglia. Forse in quest’ultimo gesto c’è coerenza con quanto il teologo aveva detto una volta: «La morte è un problema per l’individuo, ma non per la persona. Ognuno di noi, nella propria individualità, è una goccia d’acqua. Cosa càpita a questa goccia d’acqua quando, secondo una tradizione che è transculturale, cade nel mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? La goccia d’acqua sparisce, ma all’acqua della goccia non succede niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera natura».
Così 10 anni fa a Milano, nella chiesa di San Carlo. Ma forse Panikkar non ha completamente cessato di dare concretezza alle aspirazioni di tutta la sua vita: non difendere la sua verità, ma viverla; vedere la creazione come qualcosa che si ripete imprevedibilmente; essere cristiani scoprendo in sé Cristo. Panikkar s’era ritirato dalla vita pubblica all’inizio di quest’anno, dopo aver promesso agli amici di continuare a stare loro vicino «in forma più profonda, cioè nel silenzio e nella preghiera», ma - a lui che davvero credeva nelle relazioni, nella condivisione degli ideali, nella comunione - non erano mancate ulteriori occasioni di incontri nel segno di quel dialogo intrareligioso con cui ha marcato anche il suo sacerdozio. Figlio di diverse culture e prodotto accademico di parecchie discipline (per usare le parole di E. H. Cousins), partito cristiano dalla natìa Spagna dov’era nato il 3 novembre 1918 a Barcellona da padre indiano e hindu e madre catalana e cattolica, ordinato prete nel 1946 con l’Opus Dei (da cui poi si allontanò), scopertosi hindu in India (dove risiedette fra il 1955 e il ’60, poi tra il 1964 e il ’66, ritornandovi quindi spesso) e da lì tornato in Occidente come buddista, Panikkar giunse a comprendere profondamente anche il secolarismo; e tutto questo - a suo dire - senza aver mai cessato di essere e di considerarsi cristiano.
Il contestato teologo lascia in eredità un pensiero sviluppato in settant’anni e 80 libri che, come dimostrerà appieno l’opera omnia in 12 volumi già avviata da Jaca Book (è prossima l’uscita di Religione e religioni ),attingendo a differenti tradizioni religiose e filosofiche dai tesori incommensurabili e assai scandagliati, apre squarci di luce sulla relazione fra Dio, l’umanità, il cosmo, andando oltre la prospettiva dell’Uno così come al dualismo, in un approccio ermeneutico che, nel solco dell’intuizione advaita (né monista, né dualista e neppure panteista) cerca «l’invariante umano » senza distruggere le diversità, correlando la pluralità dei gradi della realtà. E anche della discussa teologia pluralista delle religioni, oltre che di quella asiatica post-conciliare - che per teorie considerate di tipo relativistico preoccuparono la Congregazione per la dottrina della fede già ai tempi del prefetto cardinale Joseph Ratzinger - Panikkar fu una figura non secondaria.
I fermi richiami dottrinali rivoltigli hanno denunciato un cantiere aperto e certo fa effetto rileggere alcune riserve lanciate anche in modo estemporaneo, non tanto sulle concezioni autoritarie del divino ridotto a «Ente supremo» o «Signore degli eserciti », quanto piuttosto sul monoteismo: «Il monoteismo pensa che Dio è la Verità, perché il monoteismo pensa un Dio isolato, un Dio solo», o sull’imperfezione delle grandi religioni: che «come l’uomo stesso sono itineranti, provvisorie, imperfette». Provocazioni? Riflessioni libere senza affondi teologici o ecclesiologici?
Anche il teologo Carlo Molari, fra apprezzamenti e alcune riserve, osservò che «Panikkar ha una levatura tale che non so se sono in grado di raccogliere tutta la ricchezza della sua dottrina»; non un giudizio definitivo, ma un impegno ad approfondire. Adesso che il pellegrinaggio di Panikkar assume altra direzione, ora che il suo «dialogo dialogico» parlerà con il silenzio, forse il suo profilo aperto all’Assoluto e al quale si è rinfacciato troppo eclettismo si staglierà a tutto tondo.
UN pensatore fuori dagli schemi convenzionali
Morto il sacerdote filosofo Panikkar
Un ponte tra la cultura occidentale cristiana e quella indiana induista e buddista
«Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano». Questa la frase che apre il sito internet di Raimon Panikkar, il filosofo sacerdote deceduto il 26 agosto in Spagna all’eta di 91 anni. Panikkar era nato il 3 novembre 1918 a Barcellona da padre indiano induista e da madre catalana cattolica. Panikkar non era un pensatore convenzionale e ha infranto molti schemi, convenzioni e pregiudizi.
PENSIERO - Secondo Panikkar il pellegrinaggio dev’essere considerato simbolo della vita e non come la vita stessa, perché il pellegrinaggio deve essere non solo esteriore, ma anche interiore. Il suo pensiero propone una visione dell’armonia, della concordia, che vuole scoprire «l’invariante umano» senza distruggere le diversità culturali che mirano tutte alla realizzazione della persona in continuo processo di creazione e di ricreazione. Il filosofo considerava il dialogo è importante, ma non come puramente meccanico o informativo, bensì quello che lui chiamava «dialogo dialogico» che porta a riconoscere le differenze ma anche quanto si ha in comune, che spinge alla fine a una mutua fecondazione. In particolare il dialogo religioso nel quale si cerca la collaborazione dell’altro per la mutua realizzazione, dal momento che la saggezza consiste nel sapere ascoltare.
ATTIVITÀ - Fu ordinato sacerdote nel 1946 anno in cui conseguì il dottorato in filosofia; nel 1958 ottenne la laurea in scienze all’Università di Madrid e nel 1961 la laurea in teologia all’Università Laterana di Roma. È vissuto in India, a Roma (dove è stato libero docente dell’Università), e negli Stati Uniti. Nel 1966 fu chiamato ad Harvard in qualità di visiting professor e per tutto il periodo dal 1966 al 1987 alternò la sua docenza negli Usa per un semestre con la sua ricerca in India.
Dal 1971 al 1987 ha coperto la cattedra di filosofia comparata delle religioni all’Università di California, a Santa Barbara, di cui era professore emerito. Nel 1987 è tornato in Catalogna dove ha continuato a tenere corsi, seminari e incontri su temi filosofici, religiosi, culturali e di approfondimento delle diverse tradizioni dell’umanità. Ha pubblicato una cinquantina di libri, per la maggior parte in catalano, castigliano italiano e inglese, e tradotti in varie lingue.
A sua volta, nel corso di circa dieci anni, ha tradotto un’antologia di mille pagine dei testi dei Veda. Panikkar ha tenuto corsi nelle università di tutto il mondo e conferenze prestigiose. Ha collaborato al progetto dell’opera Classics of Western Spirituality che ha pubblicato sino ad oggi 76 volumi e all’opera Western Spirituality, che consta di 25 volumi, i cui tre ultimi sono sotto la sua direzione. Era fondatore e direttore del Center for Cross-Cultural Religious Studies di Santa Barbara in California) e di Vivarium, Centre d’Estudis Intercultural di Tavertet in Catalogna.
Redazione online
* Corriere della Sera, 27 agosto 2010
Filosofi: e’ morto Panikkar, il pensatore del dialogo tra culture e religioni
Barcellona, 27 ago. - (Adnkronos) - Il filosofo e teologo spagnolo Raimon Panikkar, considerato uno dei massimi studiosi del dialogo tra culture e religioni del XX secolo, e’ morto ieri sera nella sua casa di Tavertet, vicino a Barcellona, all’eta’ di 91 anni. L’annuncio della scomparsa e’ stato dato dalla sua Fondazione Vivarium, un centro studi che riunisce personalita’ di varie parti del mondo, per approfondire insieme i grandi problemi della nostra epoca, in un vero dialogo interculturale.
Panikkar, una visione orientale del cattolicesimo
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 13 giugno 2010)
La discussione teologica cattolica è vivace. Ben al di là dei confini dei «palazzi». Non è facile renderne conto. Fra le voci più brillanti e originali bisogna annoverare certamente quella di Ramon Panikkar, forse il più noto e interessante. Di origine catalana, sacerdote cattolico, di tradizione insieme cattolica e indiana. Dopo avere insegnato teologia in Europa e in America ora, in vecchiaia, vive in una specie di eremo sulle montagne della Catalogna. La Jaka Book sta pubblicando in una serie di 16 volumi tutte le sue opere tradotte in italiano.
Alla loro base l’incontro fecondo tra le religioni asiatiche e il cristianesimo, quindi la condanna di ogni forma di esclusivismo e la concezione della verità come ricca, elastica, sempre nuova, sempre in crescita. «Non ci possiamo avvicinare alle altre religioni né intraprendere un dialogo religioso fecondo se non tralasciamo di assolutizzare le nostre categorie acquistando questa nuova innocenza che ci permette di entrare non in un nuovo paradiso, ma nei giardini di altre culture senza fare loro del male o utilizzarle per nostro vantaggio».
Nel panorama cristiano, Panikkar valorizza ed esalta soprattutto lo Spirito Santo e il Dio inteso direttamente e soprattutto come Trinità. Larghissimo lo spazio alla mistica: «Solo il mistico può sopravvivere nella società attuale, senza diventare terrorista violento o cinico menefreghista. Solo il mistico può conservare l’integrità del suo essere perché è in comunione con tutta la realtà». Vivissima in Panikkar la coscienza della unità di tutta la realtà. Una teologia, quella di Panikkar, non facile per le nostre abitudini occidentali, alla quale però è probabile che guarderemo con interesse crescente.
Raimond Panikkar. Felicità nell’istante
di Maria Bettetini (Il Sole 24 Ore, 16.05 2010)
Mistica non è una bella parola. Fa un po’ paura, sa di digiuni e anche di possibile delirio. La diffidenza si stempera, quando si incontra una "mistica", una persona, uomo o donna, che vive l’altro mondo. Perché se davvero costui o costei è in grado di entrare nel mysterium, che etimologicamente precede la mistica, allora non sarà un uomo triste. Così insegnano le grandi tradizioni religiose e così leggiamo anche nelle pagine di una figura insieme affascinante e schiva, un prete vicino ai novantadue anni che vive sui Pirenei a Tavertet, centocinquanta abitanti. Catalano di origini indiane ha scritto molto negli ultimi decenni, e molto ha raccolto dalle tradizioni familiari.
Molto è stato amato, e molto anche criticato per l’eccessiva - a parere di alcuni - morbidezza con cui avrebbe sposato le tradizioni cristiane e l’Oriente, Gesù e Buddha. «Non mi considero mezzo spagnolo e mezzo indiano, mezzo cattolico e mezzo hindù, ma totalmente occidentale e totalmente orientale», affermerà, concludendo «sono sempre stato attratto da quello che si suole chiamare il problema religioso».
Nel suo pensiero la contemplazione all’azione, la preghiera all’impegno politico. La sua filosofia è tesa all’integrazione delle diverse dimensioni della realtà, individuate nella triade umano-divinocosmico (o anche coscienza-libertà-materia). In questa sua visione (che ha denominato cosmoteandrica, o teantropocosmica) le tre dimensioni si coappartengono, rimanendo distinte pur senza essere separabili. Secondo Panikkar non esiste un Dio che non sia tale se non per degli uomini: insomma, le tre dimensioni - pur essendo distinguibili - sono inseparabili.
Raimon Panikkar è nato nel quartiere barcellonese di Sarrià con i geni di una mescolanza ora molto di moda, ma allora meno gradita. È fuggito da una Spagna che impiccava preti e suore, ha studiato in Germania, dopo un avventuroso viaggio in bicicletta è tornato nella sua Barcellona per laurearsi e per occuparsi degli affari di famiglia. Studia anche teologia, diventa prete nel 1946. Negli anni Cinquanta, non sempre in amoroso accordo con la gerarchia, Panikkar incomincia a scrivere e a interessarsi alla cultura religiosa di suo padre. Parte per l’India, dichiarerà poi: «Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindú e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano».
In India vive a Varanasi, la città santa dell’induismo, in una piccola stanza sopra un vecchio tempio di Shiva, accanto al Gange; vive felice, dedicandosi allo studio, alla scrittura, alla preghiera e alla meditazione. Lavora come ricercatore nelle università di Varanasi e di Mysore, approfondendo le radici dell’induismo e del buddhismo. Ha scritto molto, moltissimo, l’andamento del suo pensiero è a spirale: i temi sono costanti, ma ogni singolo testo - e ogni nuova edizione del medesimo - apporta una o più variazioni decisive. L’Italia, terra di grandi compromessi, è la sua patria culturale e infatti in italiano si sta pubblicando la sua Opera omnia, mancano pochi volumi. Vita e parola raccoglie le introduzioni ai primi dodici tomi, un semplice, chiaro invito a non temere la mistica, perché «senza il suo correttivo riduciamo l’uomo a un bipede razionale, quando non razionalista, e la vita umana alla supremazia della ragione». La mistica «non è un privilegio di pochi prescelti, ma la caratteristica umana per eccellenza», una «esperienza integrale della Vita», che riscatta l’umano «dal dominio, per non dire dalla tirannia, della dialettica, dato che non possiamo pensare alla sua negazione»: non possiamo essere coscienti della non vita, della morte. Questo susseguirsi di semplici e sereni - sì, molto sereni - pensieri incoraggia a godere in allegria del giorno presente: «Invece di lamentare le difficoltà di vivere, rimandando a un giorno che non arriva mai il momento di godere profondamente di questa vita», Panikkar invita a «trovare il senso in ogni istante».
Raimon Panikkar, «Vita e parola. La mia Opera», a cura di M. Carrera Pavan, Oca Book, Milano,
pagg.160, €16,00.
Attimi di contemplazione vivente insieme a Raimon Panikkar
Al pensiero di uno dei grandi maestri della nostra epoca, è dedicato il recente saggio di Paulo Barone «Spensierarsi». Inedite costellazioni, utili per orientarsi tra le destabilizzanti «formule» del filosofo
di Alberto Ghidini (il manifesto, 28.03.2008)
Educare lo sguardo a una nuova innocenza, sembra essere la sfida più urgente nell’illuminismo spettacolare e tecnoscientifico della postmodernità. Impresa non da poco se si pensa che oggi la rete globale dell’informazione «si incarna nell’occhio», come scriveva Ivan Illich, riducendo la visione, la stessa capacità di sentire, a una forma di scanning. La posta in gioco è una trasformazione radicale del nostro modo di vedere: agli occhi viene chiesto di assumere una «funzione ricettiva estrema», in grado di avviare un sistema di avvistamento auricolare della realtà materiale, umana e divina, in una parola sola cosmoteandrica. Questa espressione ci proietta direttamente nella filosofia di Raimon Panikkar, al quale Paulo Barone ha dedicato il suo saggio Spensierarsi. Raimon Panikkar e la macchina per cinguettare (Diabasis, pp. 117, euro 13), che prende il sottotitolo da Die Zwitscher Maschine, opera di Paul Klee degli anni ’20 in cui, su un fondale olio e acquerello di colori stinti, estenuati, «e perciò - osserva lo stesso Barone - continuamente variabile», appare un bizzarro congegno a manovella concepito per riprodurre il cinguettio degli uccelli.
Nel libro la minuscola e singolare macchina di Klee diventa un ritornello ispiratore, un talismano che Barone attiva per accompagnare il lettore nell’incontro con questo maestro della nostra epoca, «ponte vivente» tra Oriente e Occidente, tra diverse tradizioni di pensiero - cristianesimo, buddhismo, hinduismo - instancabile viaggiatore leggero, alla Langer, attraversatore di confini tra sapere scientifico e cultura umanistica. La complessa, lampeggiante, visione del mondo secondo Panikkar - del quale presso Jaca Book è in preparazione l’Opera Omnia - ci viene presentata da Barone attraverso un raffinato intreccio di riferimenti testuali relativi tanto alla sua vasta e poliedrica produzione, quanto a una piccola famiglia filosofica e letteraria di amici che ad essa offre l’ambientazione ideale: da Wittgenstein a Benjamin a Deleuze, ma anche Canetti, Kafka, Leopardi.
Il libro, del resto, è popolato di inedite costellazioni, utili per orientarsi tra le destabilizzanti, talvolta sconvolgenti, «formule» di Panikkar, itinerari tortuosi, interstiziali, da percorrere a zig-zag, come un taxi nel traffico urbano, su più ritmi e velocità, lungo linee d’attesa o di fuga, strade a senso unico, tra sterzate, frenate e ripartenze improvvise, rendendo evidente come mai la lettura di Panikkar necessiti di uno sfondo variabile. Per Panikkar «il compito del nostro tempo» è reintegrare il terzo occhio, il senso mistico, nell’essere dell’uomo. Nel quotidiano, nell’adesso, nell’angolo più minuto, concreto, umile, immediato e apparentemente insignificante della realtà - che sfugge a qualsivoglia indagine razionale - senza per questo banalizzarne la relazione diretta con il mistero, con l’impenetrabile. La mistica come dimensione antropologica, quindi, in risposta a qualunque specialismo intenda collocarla in una zona impervia, riservata a pochi prescelti - e allo stesso tempo, così distante dalla partecipazione massiva e allucinata agli improbabili sogni di felicità propagati dal misticismo new age.
«La mistica è l’esperienza integrale della realtà». È questo il primo sutra di Panikkar. Esperienza che si potrebbe definire in molti altri modi (completa, olistica, pleromatica, e via dicendo), ma Panikkar, attento alla lingua, non si lascia sedurre dall’idea di trovare una «parola giusta», dal significato univoco e stabilito una volta per tutte, e sceglie l’aggettivo intregrale come via polisemica per indicare un’esperienza diretta, non mediata, in comunione con la realtà intesa come un «tutto». Esperienza libera da pensieri (gedankenfreie Erlebnis), vicino alle cose di sempre, nella disposizione etica «dell’infinitamente accanto».
Leggendo il testo si ha l’impressione che l’atmosfera generata dalla Zwitscher Maschine messa in moto da Barone abbia molto in comune con l’aria che si respira nell’ultimo scritto di Deleuze, il cui titolo L’immanence: une vie... reca in sé qualcosa di simile a un motivo in cui le forze convergono e si agitano, e la vita diviene pura contemplazione senza oggetto né soggetto della conoscenza, contemplazione vivente che produce quella tonalità emotiva che il filosofo francese era solito chiamare (come ha fatto notare Agamben) self-enjoyment.
Per il contemplativo, che sperimenta la tempiternità nel quotidiano, oltre la nostalgia per un bene perduto o per ciò che è passato nei momenti temporali di questa vita, così intesa, per quanto goffa, cagionevole, di costituzione debole, fragile, claudicante essa sia, ogni giorno è una vita, e dunque basta a se stesso - e basta a Panikkar - per rivelare la pienezza di tutto ciò che è.
Ecco perché Paulo Barone ha tutte le ragioni per affermare che «non si può guardare al mistico senza invidia». Essere ben bilanciato, inter-essere, sempre tra le cose, come la Pantera rosa o, parafrasando Burroughs, il gatto che è in noi (il gatto, nel baule degli animali di Panikkar, ha una certa rilevanza), nella società attuale, il mistico, scrive Panikkar ne La nuova innocenza (Servitium, 2003), è il solo che può sopravvivere «senza diventare terrorista (violento) o cinico (menefreghista)», proprio in virtù del suo grado di coscienza o, con Barone, di una macchina per cinguettare, che potrebbe costituire il motore di una nuova Achsenzeit o «età assiale» finalmente spensierata.
Dalla concezione della scienza al senso dello Stato
Arabi e Occidente gli ostacoli al dialogo
Nelle tre fedi Dio è presente attraverso un messaggio specifico e unico che esclude gli altri.
Nella prassi tutto ciò è stato mutato in ideologia
di Adonis (la Repubblica, 5.12.2008)
Quattro ostacoli vanificano il dialogo umano, sincero e creativo tra le sponde orientale e occidentale del Mediterraneo, o per essere più precisi tra gli Arabi e l’Occidente. Questi ostacoli rappresentano la visione religiosa dell’uomo e del mondo, la concezione della conoscenza, della scienza e in particolare dell’aspetto tecnologico, del senso dello Stato e della prassi politica, dell’antico e reiterato conflitto tra il sacro ebraico e quello islamico, che adesso si manifesta sotto forma di conflitto tra Israele e Palestina.
Se veramente volessimo realizzare questo tipo di dialogo creativo, che non si basa sulla semplice tolleranza, per essere fondato invece sulla eguaglianza degli esseri umani, allora dovremmo innanzitutto eliminare questi ostacoli o almeno dovremmo adoperarci per rimuoverli nel dialogo e negli incontri. In questa sede è difficile analizzare nei particolari ciascun ostacolo per scoprirne le origini e predisporne il superamento. Perciò mi limito a fare alcuni accenni e a porre domande specifiche per ciascuno di essi.
In primis, per quanto concerne la visione religiosa dell’uomo e del mondo, e qui si intende la visione monoteista, sappiamo tutti che il monoteismo ha un suo modo esclusivo di concepire Dio. In ogni monoteismo Dio è presente attraverso un messaggio specifico e unico che esclude gli altri. Nella prassi è stato mutato in ideologia, facendo della sua interpretazione l’unica via per conoscere Dio ad esclusione delle altre. Così, per il monoteismo, la parola divina si trasforma in uno strumento per il potere. E l’interpretazione è un potere culturale che diventa mezzo per fondare il potere politico-sociale.
Allora, prima di affrontare qualsiasi dialogo tra le religioni monoteiste, è necessario porre delle domande fondamentali: la rivelazione specifica di ogni monoteismo, la parola di Dio nella sua totalità, è da ora sino alla fine del mondo, o è parte del discorso di Dio capace di arrivare sino all’infinito? Si può circoscrivere la parola di Dio alla sola rivelazione, mentre si può affermare che Dio non parlerà né farà rivelazioni dopo quella ebraica, o quella cristiana o quella islamica, e ciò che ha detto - a ciascuna di loro - è l’ultima rivelazione e quindi il sigillo delle verità? È possibile che Dio doni una rivelazione migliore di quelle svelate alle religioni monoteiste, o no? Se la risposta fosse affermativa allora i testi monoteistici non sarebbero più assoluti. Se la risposta fosse negativa, allora noi limiteremmo la libertà di Dio: allo stesso Dio non resterebbe che quel che ha detto.
Sembra quindi che il cosiddetto dialogo tra le religioni monoteiste si fondi su una differenza radicale, che consiste nel fatto che ciascuna di esse esclude l’altro nella propria visione di Dio. Come è possibile che vi sia dialogo tra parti che si negano a vicenda? Vi è dunque una egemonia teologica sul pensiero e sulla vita a un tempo. Il monoteismo non è semplicemente una conoscenza religiosa che domina la mente e il pensiero ma è anche un modo per controllare lo stesso corpo dell’uomo e possederne la vita in quanto ne possiede il pensiero. Esso è un potere biologico oltre che un potere culturale-mitologico.
Il pensiero mediterraneo si muove quindi in una prigione teologica. Ad esempio, i fondamentalisti ebrei definiscono la terra palestinese occupata come i «territori biblici liberati». I musulmani rispondono contestando questa definizione.
Se lo stesso Dio è prigioniero della rivelazione dei suoi libri all’uomo, a maggior ragione lo stesso uomo, in tutto il suo essere pensiero, azione, ragione e cuore, è prigioniero di questa rivelazione scritta. E ciò che complica la questione oggi, si cela nel divario crescente tra ciò che la terra umana chiede sia scritto da una parte, e dall’altra quello che ha scritto Dio, ossia tra il reale e il trascendente.
Sembra che la liberazione da questa prigione sia una condizione necessaria affinché emerga un dialogo sufficientemente razionale. In particolare noi osserviamo, storicamente e fattivamente, che ogni cosa nell’interpretazione dominante dell’egemonia teologica monoteista e nella sua prassi, non fa che confutare l’incertezza e il dubbio della ragione, il suo contraddirsi e interrogarsi, il fare ipotesi, rischiare e vincere. La negazione della natura stessa dell’uomo, del corpo, del sesso maschile e femminile e dei loro oceani di piacere, desiderio e passione. Oceani di vita nella sua essenza di festa ed unione, e nella sua essenza di supremo valore umano.
Le sponde del Mediterraneo sono state testimoni di fasi storiche in cui questa interpretazione e questa prassi hanno trasformato il monoteismo in un esercitazione di forza, di invasione e di egemonia, di cui le crociate non sono che una manifestazione. In questi momenti l’essere umano ha distrutto in nome della verità rivelata, e ha trasformato Dio in un semplice capo militare, e la teologia in una formula linguistica. E il monoteismo non è stato considerato una preghiera ma è diventato una spada.
La questione dunque non è semplicemente il declino della religione, come crede Steiner, o del declino del ruolo dell’istituzione religiosa nella vita, nel pensiero e nei rapporti umani, la questione è piuttosto correggere il difetto nella visione monoteista dell’uomo e del mondo. Ed esso è un difetto le cui cause si celano nella natura stessa di questa visione, molto di più che nei fattori esterni, come credono molti sociologi - e questo sia che i fattori si ricolleghino al movimento razionalista della rinascita (araba), o alla vocazione al dubbio e alla laicità dell’illuminismo, o al darwinismo e alla moderna tecnologia della rivoluzione industriale. In momenti come questi abbiamo assistito all’istituzione dei tribunali dell’inquisizione e al trattamento disumano dell’uomo accusato di avere violato il testo.
(traduzione Francesca M. Corrao)
Addio a Panikkar teologo del dialogo
di Vito Mancuso (la Repubblica, 28 agosto 2010)
Cosmoteandria. In questa difficile parola è racchiuso il nucleo del pensiero di Raimon Panikkar (morto ieri a 92 anni nella sua casa in Catalogna), uno dei più grandi teologi della nostra epoca, destinato a diventare sempre più una permanente sorgente di luce per tutti i cercatori sinceri della verità.
Cosmoteandria è il termine coniato da Panikkar per esprimere la sua intuizione filosoficoteologica fondamentale, cioè che l’Assoluto (teo) è attingibile solo in unione con il mondo (cosmo) e in unione con l’uomo (andria) e, simmetricamente, che l’uomo viene a capo della sua essenza solo in armonia con il mondo naturale e con il divino. Si tratta di una prospettiva che in lui non nacque come un colpo di genio estemporaneo, per quanto parlando di Panikkar è doveroso parlare di "genio" già solo a partire dalla ventina di lingue tra antiche e moderne perfettamente possedute e dagli innumerevoli riconoscimenti internazionali e lauree honoris causa (tra cui quella conferitagli nel 2004 dalla Facoltà di Teologia dell’Università di Tubinga, cioè una sorta di Nobel della ricerca teologica). L’intuizione della cosmoteandria è piuttosto il distillato della sua vita. Nato nel 1918 a Barcellona da madre catalana e da padre indiano (un aristocratico con passaporto britannico), si laureò in chimica, lettere, filosofia e teologia nelle migliori università europee, quasi a scandire con i suoi studi una progressiva ascesa dai fondamenti della materia alle altezze dello spirito.
Ordinato sacerdote si dedicò solo per poco alla vita pastorale, mentre prese presto a insegnare e tenere conferenze nelle migliori università di tutti i continenti. Al riguardo ricordo in particolare il ventennio 1966-1987, quando per un semestre viveva in America insegnando a Harvad, in California e a New York, e per un semestre in India studiando e soprattutto vivendo l’induismo e il buddhismo. Ed eccoci giunti al punto che più risalta del genio di Panikkar, il dialogo interreligioso, che per lui fu ricerca esistenziale in prima persona. Ne sono una significativa testimonianza queste sue celebri parole: «Sono partito cristiano, mi sono scoperto indù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano». Laddove spiriti miopi e insicuri vedono il pericolo dell’eresia e del sincretismo, Panikkar consegna in realtà l’indicazione luminosa verso l’unico sentiero che il nostro mondo globalizzato oggi può percorrere se vuole la pace e l’incontro tra le civiltà, e non il contrario.
In questa prospettiva è significativo sapere che Panikkar ha voluto che il dialogo interreligioso da lui praticato per tutta la vita lo accompagnasse fino alla fine: in queste ore il suo corpo verrà cremato e metà delle ceneri saranno depositate nella tomba di famiglia, metà portate sul Gange e adagiate su una foglia secondo antica tradizione indù.
L’Italia ha l’onore di essere il paese nel quale vede la luce in prima mondiale l’opera omnia di Panikkar grazie alla Jaca Book di Milano, al suo presidente Sante Bagnoli e soprattutto alla curatrice Milena Carrara Pavan. Si tratta di dodici volumi, di cui quattro già pubblicati e un quinto che sta per uscire dal titolo Religione e religioni, probabilmente il cuore del pensiero del grande teologo.
Così egli stesso presenta i suoi libri: «I miei scritti coprono un lasso di circa settant’anni, in cui mi sono dedicato ad approfondire il senso di una vita umana più giusta e più piena. Non ho vissuto per scrivere, ma ho scritto per vivere in modo più cosciente e aiutare i miei fratelli con pensieri che non sorgono soltanto dalla mia mente, ma scaturiscono da una Fonte superiore che si può chiamare Spirito». E ancora: «Mi sono aperto alla vita che mi sta attorno nella sua concretezza e ho scoperto che non era profana ma sacra». Ed eccoci tornati alla cosmoteandria: è l’apertura alla vita reale e concreta lo spazio per una nuova e più radicale intuizione del sacro.
Ma ciò che a me viene in mente ora, a poca distanza dalla sua morte, del Raimon Panikkar che ho conosciuto è soprattutto il sorriso e la passione per il cioccolato. Un sorriso dolcissimo che rivelava gioia di vivere, immancabile senso dell’umorismo, reale attenzione per gli altri, amore tenero e forte per ogni frammento di essere. E la passione per il cioccolato che custodiva in lui fino all’ultimo la semplicità del bambino.