(Queste note si ricollegano - in particolare - alla parte finale del lavoro FREUD, KANT, E I SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEO-DEVOTA - Vedi Pdf allegato, in fondo)
1. Kant e il problema della "feconda immaginazione".
Come per Dante, così per Kant. "I sogni di un visionario" (troppo sottovalutati dai filosofi e dagli storici della filosofia kantiana) sono come la “Vita nova” di Dante (prima e “L’interpretazione dei sogni” per Freud dopo): una svolta decisiva. Nel confronto con l’Ulisse del suo tempo, Emanuel Swedenborg, che sembra abbia trovato la via per l’aldilà e incontrato tanta gente, egli riesce a capire la grandissima importanza dell’immaginazione e, al contempo, a trovare nel pagliaio l’ago della bussola "con la speranza", per "orientarsi" nel mare delle illusioni. Ne ha colto il legame con la vita stessa dell’uomo, con la "ragione" e con la "metafisica", e ne ha chiarito il come e il quanto sia fondamentale coniugare ed equilibrare il suo potere con quello dell’esperienza e della saggezza, per non dare ali a folli voli e non porre fine all’avventura stessa dell’umanità e al suo desiderio e alla sua volontà di seguire virtù e conoscenza.
Per Kant, pensare non è conoscere e le illusioni, le finzioni, e "le invenzioni" non sono "ipotesi": possono diventare "ipotesi" - come nel caso della gravitazione universale - solo se esse accordano "all’esperienza il diritto di decidere" sulla loro possibilità o impossibilità e realtà. Il pericolo, sempre ben presente a Kant, è che i possibili frutti dell’immaginazione, presentati come dotati di autorità e di validità assoluta dalla sua ’sapiente’ astuzia (come dirà nella "Critica della ragion pura"), possono portare non solo un individuo "fuori della cerchia della conoscenza umana", ma l’intera società direttamente alla “pace perpetua”!
Kant vede molto bene cosa c’è alla base dei sogni dei visionari e dei metafisici di tutti i tipi e di tutti i tempi! Al fondo, e in fondo, c’è solo infantilismo, titanismo, e superomismo - una volontà di potenza immatura e cieca, che celebra solo se stessa e il suo proprio Spirito ateo e devoto ("Io che è Noi e Noi che è Io”). Kant, come Mosè, buon profeta: Emanuel Swedenborg, il padre di tutto l’idealismo tedesco e del romanticismo dell’Assoluto!
ECCO L’“UOMO SUPREMO”. In una pagina della "parte seconda o storica" dei "Sogni", nel capitolo secondo intitolato "Viaggio estatico di un entusiasta nel mondo degli spiriti", dopo aver fornito - senza aver "aggiunto nessuna fantasticheria" sua a quella di Swedenborg - un "fedele riassunto al lettore comodo ed economo", Kant così scrive:
"[...] Ho già detto che secondo il nostro autore [Swedenborg] le diverse forze, e proprietà dell’anima sono in simpatia con gli organi del corpo sottoposti al loro governo. tutto l’uomo esteriore corrisponde quindi a tutto l’uomo interiore, e se perciò un notevole influsso spirituale colpisce dal mondo invisibile l’una o l’altra di queste potenze dell’anima, egli ne risente pure armonicamente nell’apparente presenza nelle membra del suo uomo esterno, che corrispondono ad essa. [...]
Da questo si può ora, se si crede che valga la pena, farsi una idea della più strana e rara immaginazione, nella quale concorrono tutti i suoi sogni. Nello stesso modo cioè che le diverse potenze e facoltà costituiscono quell’unità che è l’anima o l’uomo interno, così anche i diversi spiriti (i cui caratteri principali concordano fra di loro come le diverse capacità di uno spirito) costituiscono una società, che ha in sé l’apparenza di un grande uomo, e nella cui figura ciascuno si vede in quello stesso posto e in quelle membra visibili che sono conformi alla sua speciale funzione in un simile corpo spirituale. Tutte le società spirituali poi e l’intiero mondo di tutti questi esseri invisibili appare alla fine ancora sotto l’apparenza dell’uomo supremo.
Fantasia prodigiosa, gigantesca, che è forse lo svolgimento di una vecchia rappresentazione infantile, quando cioè nelle scuole, per venir in aiuto alla memoria, si raffigura tutta una parte del mondo sotto l’aspetto di una vergine seduta, eccetera. In quest’uomo sterminato vi è un continuo ed intimo commercio di uno spirito con tutti gli altri e di tutti con uno; e, qualunque possano essere la posizione reciproca degli esseri viventi in questo mondo o il loro cambiamento, essi hanno tuttavia nell’uomo supremo un tutt’altro posto, che non mutano mai, e che in apparenza è un luogo in uno spazio immenso, ma in realtà un determinato modo dei loro rapporti e influssi.
Io sono stanco di riprodurre qui le assurde chimere del più temerario fra i sognatori e non voglio spingermi fino alla descrizione dello stato dopo la morte. Poi ho anche altri scrupoli. Poiché, sebbene un naturalista ponga nella sua vetrina fra le sue preparazioni del mondo animale non solo quelle che sono formate secondo natura, ma anche i mostri, tuttavia egli deve stare attento di non mostrarli a chiunque né in modo troppo chiaro. Perché vi potrebbero essere fra i curiosi delle donne incinte, sulle quali tali cose potrebbero fare una brutta impressione.
E siccome fra i miei lettori ve ne potrebbero essere di quelli che in rapporto alla concezione ideale si trovino in uno stato analogo, così mi spiacerebbe se ne dovessero soffrire qualche inconveniente. Tuttavia, siccome io li ho già avvertiti fin dal principio, non ne rispondo per nulla e spero che non mi addosseranno i mostriciattoli che potrebbero nascere in questa occasione dalla loro feconda immaginazione [...]" (I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, pp. 156-157).
UN ARCHIVIO DELLA RAGIONE UMANA. Quanto importante e decisivo per Kant sia stato lo studio e l’interpretazione dei "sogni" di Swedenborg, forse, è possibile capirlo meglio solo riflettendo su quanto scrive anche dopo, nella “Critica della Ragion pura”, alla fine della "Dottrina trascendentale degli elementi": "non si cesserà mai di discutere, sino a che non si penetrerà entro la vera causa dell’illusione, da cui anche l’uomo più razionale può essere ingannato [...] mi è sembrato necessario indagare dettagliatamente, sino alle sue fonti prime, tutta questa costruzione - sebbene vana - della ragione speculativa [...] mi è sembrato allora consigliabile redigere dettagliatamente gli atti di questo processo, e depositarli nell’archivio della ragione umana, per prevenire futuri errori di una simile specie" (I. Kant, Critica della Ragion pura, Adelphi, Milano 1976, pp. 704-705).
Fino alla fine, Kant mostra di essere ben consapevole cosa ha significato confrontarsi con la "feconda immaginazione" di Swedenborg: "[...] all’egoismo si può opporre solo il p l u r a l i s m o, cioè quel modo di p e n s a r e per il quale non si chiude nel proprio io il mondo, ma ci si considera e ci si comporta come semplici cittadini del mondo" (I. Kant, Antropologia pragmatica, 1798).
NON SI CHIUDE NEL PROPRIO IO TUTTO IL MONDO. Con la sua bussola e con la sua bilancia, nella "nave" di Galilei, Kant è a casa e di casa. La ’navigazione’ procede sicura, senza confusione tra “mondo sensibile” e “mondo intellegibile”: la strada della critica ha assicurato (e assicura) non solo a lui ma a tutti i ’naviganti’ e, soprattutto, ai nuovi Galilei e ai nuovi Newton, passi sicuri nell’"oceano cosmico" (Keplero); e, con la speranza e la fede razionali nel “Sommo Bene” (I. Kant, Critica della Ragion pura ... cit., pp. 785 e ss.) - la ragione: "il bene sommo in terra" - la possibilità di uscire dall’“aiuola che ci fa tanto feroci” (Dante), e andare verso una terra nuova, dove si possa vivere “in pace e in libertà”(Dante).
Una corretta concezione di sé, unita alla libertà della coscienza e “alla prova dell’esperienza”, già acquisita e manifestata nella interpretazione dei “Sogni di un visionario” (“Io sono dove sento: sono altrettanto immediatamente nella punta delle dita come nella testa: sono la stessa persona che soffre ai calcagni e in cui il cuore batte nella passione [...] La mia anima è tutta nell’intiero corpo e tutta in ogni sua parte”), gli hanno permesso di prendere le distanze dalla "barca" e dal "folle volo" del visionario Swedenborg (e di tutti i metafisici, presenti futuri) e di andare, oltre le colonne d’Ercole, molto lontano e con gran lucidità!
2. Kant e il problema dell’"Io", dell’"Io sono" e dell’Io penso".
Nel 1787, considerati gli attacchi, gli equivoci, e gli indebiti sviluppi a cui è stato sottoposto il suo discorso, Kant - pur se sorpreso e amareggiato (“Mi risulta pressoché incomprensibile” - scrive in una nota di “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” - che studiosi come Mendelssohn e Jacobi “abbiano potuto trovare nella “Critica della ragion pura” un punto d’appoggio allo spinozismo”) - non si scoraggia: ne prende atto e si rimette al lavoro e risponde, riorganizza e pubblica la seconda edizione della “Critica della Ragion pura”.
Nella prima edizione, quella del 1781, resiste - e offre il fianco ad attacchi minacciosi - un punto debole, poco chiaro. C’è un equilibrio instabile - in basso e in alto ("vi sono tre fonti soggettive di conoscenza, sulle quali si fonda la possibilità di un’esperienza in generale e della conoscenza dei suoi oggetti: s e n s o, c a p a c i t à d i i m m a g i n a z i o n e ed a p p e r c e z i o n e": Critica della ragion pura, cit., pp. 187): a livello dell’"immaginazione" (“una facoltà di sintesi a priori, per cui noi le diamo il nome di immaginazione produttiva”) e del suo rapporto con la "sensibilità" e l’"intelletto" e, al contempo, con l’"appercezione" e l’"Io penso". Come sempre, l’immaginazione non si smentisce - è "la matta di casa". Ma non è solo l’immaginazione a creare problemi. E’l’Io, l’Io penso, il problema più importante - l’unità trascendentale dell’ "autocoscienza". E’ la questione del "cogito, ergo sum" che a Kant dà ancora da pensare.
Nel 1787, pertanto, subito dopo "Che cosa significa orientarsi nel pensiero" (1786), Kant si rimette al lavoro e precisa meglio il percorso e il discorso fatti nella prima edizione della "Critica della Ragion pura" (1781). Contro coloro, i tanti (al di là degli stessi Mendelssohn e Jacobi), che vogliono spalancare "le porte alla s t r a v a g a n z a d e l l a f a n t a s i a" (I. Kant, Critica ..., cit., 2 ed., p. 150), inserisce la "Confutazione dell’idealismo" (op. cit., pp. 295-305), riorganizza con maggior determinazione il rapporto tra “immaginazione”, “sensibilità”, “intelletto”, e "io penso", e - pur se restano ovviamente ancora nodi - fa ulteriori passi innanzi nella chiarificazione, soprattutto sul piano dell’unità trascendentale dell’autocoscienza, dell’"io penso", e del suo rapporto con le tre facoltà dell’anima (sensibilità, immaginazione, e intelletto).
Grande il pericolo e grande l’impegno - “l’erculea fatica della conoscenza di sé” è assolutamente necessaria (come Kant stesso scrive ancora in un intervento del 1796, contro chi faceva “l’elogio di Platone come filosofo del sovrasensibile e dell’ intuizione intellettuale”, cfr.: E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, la Nuova Italia, Firenze 1977, p. 497). La posta in gioco è l’intero programma di Kant: la libertà della coscienza, la via critica come sola possibilità di distinguere le "invenzioni" e le illusioni dalle "ipotesi" e le "apparenze" - e la ‘navigazione’ stessa dell’umanità intera. Purtroppo la forza del “già detto” - sia per Kant sia per i suoi amici e nemici - è schiacciante, ma il risultato dell’operazione è enorme. E merita di essere rimesso in evidenza e ripensato - a sua perpetua gloria.
LA ‘RIVELAZIONE’ DELL’ “IO PENSO”: “IO SONO”. Premesso e ricordato (come Kant fa ripetutamente, da sempre) che "pensare" un oggetto non equivale a "conoscere" un oggetto, è da dire che nella nuova edizione egli ristruttura tutto il discorso sulla “immaginazione” e riaffronta in modo decisivo il rapporto con il problematico "cogito, ergo sum". Fermo restando che l’anima è “una sostanza nell’idea, ma non nella realtà”, che “la semplicità del mio io (come anima) non è inferita a partire dalla proposizione Io penso, ma sta già in quello stesso pensare”, ora Kant - con Cartesio, ma contro Cartesio - si spinge oltre e, dal “sentimento del bisogno” della ragione ( che lo ha portato alla fede “razionale, al “concetto” di Dio, al “Sommo Bene”), giunge al “sentimento” dell’ “esistenza”- all’ “Io sono”.
Finalmente la sua immaginazione, ben guidata dalla speranza e dalla fede razionali, lo porta a destinazione: dalla pianura del mondo sensibile-empirico (dalla sensibilità e dall’intelletto: i “due ceppi della conoscenza”) è arrivato in cima alla montagna e, sulla montagna - sotto il cielo stellato, dentro sé - illuminato da “una grossa luce” (‘vista’ già negli anni ’70), egli trova il “mondo intellegibile” e “l’unità trascendentale dell’autocoscienza”, quella dell’ “Io sono”: sé stesso, la legge morale, e la libertà. E comprende da dove vengono i sogni e le illusioni della “feconda immaginazione” dei visionari e dei metafisici e, al contempo, da dove parte il sentiero dell’“alta fantasia” di chi cammina (con il suo “disio e ‘l velle”) alla luce dell’“amore che muove il Sole e le altre stelle” - della “grazia” del Sommo bene!
L’ “UNO” DELL’AUTOCOSCIENZA: "IO SONO". Per “orientarsi” e ripensare meglio questo passaggio decisivo del lavoro di Kant, ricordando sempre il punto di vista già espresso nel 1766, nei “Sogni di un visionario” (“Io sono [...] la stessa persona che soffre ai calcagni e in cui il cuore batte nella passione”), è opportuno e bene rileggere e soffermarsi su alcuni passaggi-chiave dalla nuova “Critica della Ragion pura”:
a) “L’Io penso deve poter accompagnare tutte deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, perché altrimenti in me verrebbe rappresentato un qualcosa, che non potrebbe affatto venir pensato o con espressione equivalente: poiché altrimenti o la rappresentazione risulterebbe impossibile, oppure, almeno per me, essa non sarebbe niente. [...] Ogni molteplice dell’intuizione ha perciò una relazione necessaria con l’Io penso, nello stesso soggetto in cui viene ritrovato questo molteplice. La rappresentazione: io penso, tuttavia, è un atto della spontaneità, essa non può cioè, venir considerata come pertinente alla sensibilità. Io la chiamo l’appercezione pura - per distinguerla da quella empirica - o anche l’appercezione originaria, perché essa è quell’autocoscienza che, col produrre la rappresentazione: i o p e n s o - la quale deve poter accompagnare tutte le altre, ed è una ed identica in ogni coscienza - non può esser accompagnata da nessun’altra rappresentazione. L’unità di tale rappresentazione, io la chiamo anche l’unità trascendentale dell’autocoscienza, per designare la possibilità della conoscenza a priori su di essa” (pp. 196-197);
b) “[...] io penso. Questa proposizione fondamentale è tuttavia un principio, non già per ogni possibile intelletto in generale, bensì solo per quello, attraverso la cui appercezione pura - nella rappresentazione: io sono - non viene tuttavia dato nulla di molteplice. Quell’intelletto, mediante la cui autocoscienza venisse al tempo stesso dato il molteplice dell’intuizione - un intelletto, attraverso la cui rappresentazione esistessero al tempo stesso gli oggetti di questa rappresentazione - non avrebbe bisogno, per l’unità della coscienza, di un particolare atto di sintesi del molteplice, mentre l’intelletto umano, che pensa soltanto ma non intuisce, ha bisogno di tale sintesi” (p. 165).
c) "[...] nella sintesi trascendentale del molteplice delle rappresentazioni in generale, e quindi nell’originaria unità sintetica dell’appercezione, io non sono cosciente di come apparisco a me, né come sono in me stesso, bensì ho coscienza soltanto c h e i o s o n o. Questa r a p p r e s e n t a z i o n e è un p e n s a r e, non un i n t u i r e. Ora, dato che per la c o n o s c e n z a di noi stessi si richiede, oltre all’atto del pensare, che porta il molteplice di ogni intuizione possibile all’unità dell’appercezione, altresì una determinata specie di intuizione, da cui viene dato questo molteplice, allora la mia propria esistenza non è certo apparenza (tanto meno una semplice illusione), ma la determinazione della mia esistenza può verificarsi solo in base alla forma del senso interno, nel modo particolare in cui viene dato all’intuizione interna il molteplice che io congiungo. Di conseguenza, io non ho affatto una c o n o s c e n z a di me, c o s ì c o m e s o n o, ma semplicemente del modo in cui io appaio a me stesso. La coscienza di sé è quindi ben lungi dall’essere una conoscenza di sé, malgrado tutte le categorie che costituiscono il pensiero di un o g g e t t o i n g e n e r a l e, mediante la congiunzione del molteplice in una appercezione".
d) Nella nota, a riguardo, Kant puntualizza ancora: "L’io penso esprime l’atto del determinare la mia esistenza. Con ciò l’esistenza è quindi già data: tuttavia, con ciò non è ancora dato il modo in cui io debbo determinare tale esistenza, cioè porre in me la molteplicità che appartiene ad essa. Per questo si richiede l’auto-intuizione, che si fonda su una forma data a priori, cioè il tempo, il quale è sensibile ed appartiene alla recettività di ciò che è determinabile [...]" (I. Kant, Critica della Ragion pura ...cit., pp. 193-195).
Problemi ne restano da risolvere e chiarire ancora, ma la battaglia contro il problematico idealismo cartesiano (e non solo) è vinta! Un sentiero razionale, praticabile per tutti gli esseri umani, è aperto! “Ecce Homo. Come si diviene ciò che si è”: una risposta (e un omaggio) in anticipo a Nietzsche, che diede coraggiosamente la scalata alla montagna (ricordare le tre metamorfosi dello spirito in “Così parlò Zarathustra”: il cammello - la ‘nave’ del deserto con le sue “tavole” della Legge, il leone che con il suo ruggito dice “no” a tutti valori, e il bambino che dice “Io sono”) ed ebbe le sue grandi difficoltà per ritrovare l’unica via possibile, sia per salire che per scendere - quella della critica.
Kant ha già spiegato a Nietzsche il problema “della visione e dell’enigma” (“Così parlò Zarathustra”) e ha trovato la chiave (il punto di ‘eternità’) per spezzare la testa del serpente (la linea del ‘tempo’) e dar luogo alla trasformazione dell’uomo e della società. E ha già spiegato a Hegel - contrariamente alle allucinazioni e ai deliri suoi e dei suoi Amici - come si esce e come si entra dal cerchio della comunità umana, come l’uomo diventa “dio” e come “dio” s’incarna e diventa “uomo” (menschwerdung), per non cadere nella trappola dell’“apparenza dell’uomo supremo” di Swedenborg (e di Heidegger e di Eichmann) e non perdersi come marionette (quelle di Vaucanson, cfr.: I. Kant, critica della ragion pratica, Laterza, Bari 1971, p. 123), nel “cerchio di tutti i cerchi” dello Spirito Assoluto.
L’“UNO” DEL “SOMMO BENE: IL REGNO DELLA “GRAZIA”. “L’ideale del sommo bene” non è un fuoco fatuo non rimanda affatto “alle buone intenzioni” (di cui è lastricato l’inferno) delle “anime belle”. Per Kant - e questa è già una risposta a Schiller a cui risponderà specificamente nel 1793 (si cfr.: I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Bari 1980, nota, pp. 21-22) - la via della critica è l’unica via pratica per uscire fuori dalla preistoria e dallo stato di minorità - e non ricadervi! Nella “Critica della Ragion pura”, egli così scrive:
“Leibniz chiamava il mondo - in quanto si considerano in esso soltanto gli esseri razionali e le loro relazioni secondo leggi morali, sotto il governo del sommo bene - r e g n o d e l l a g r a z i a, distinguendolo dal r e g n o d e l l a n a t u r a, dove tali esseri sono bensì sottomessi a leggi morali, ma non si attendono altre conseguenze dal loro comportamento, se non quelle che hanno luogo seguendo il corso della natura del nostro mondo sensibile. Il considerarci nel regno della grazia - dove ci attende ogni felicità, fuorché non siamo noi stessi a costringere la nostra partecipazione a tale felicità, col renderci indegni di essere felici - è dunque un’idea praticamente necessaria della ragione. [...] Senza un Dio e senza un mondo per noi adesso invisibile, ma sperato, le idee gloriose della moralità sono quindi certamente oggetto di applauso e di ammirazione, ma non già molle di propositi e azioni, poiché non adempiono interamente al fine che è naturale per ogni essere razionale, e, che è determinato a priori dalla stessa ragione pura, risultando necessario” (op. cit., p. 791).
Al di là di Platone, e delle illusioni e dei sofismi di tutti i platonismi e di tutti i cattolicismi, e della miopie visionarie di tutti i materialismi, egli ha trovato “il filo d’oro della ragione” e della libertà degli “io sono” del “regno della grazia” e l’ha consegnato a tutta l’umanità, affinché non smarrisca la “diritta via” e non perda la bilancia con la speranza. “Sàpere aude!” non è che l’inizio - un altro ‘mondo’ è possibile e non è il “serpente” a parlare, ma Immanuel Kant. Ricordiamoci di ricordarcelo: e non confondiamo l’“Io sono” dell’uomo di Immanuel Kant, con l’“Io sono” dell’ “uomo supremo” di Emanuel Swedenborg - e del Terzo Reich!
Federico La Sala (03.08.2010)
_***MEMORIA DI KANT: «Ciò che ci salva dall’annientamento o dall’essere un semplice puntino nell’infinità dell’Universo, cioè ciò che ci salva dalla paura radicale del nulla, è questo “io invisibile” capace da solo di contrapporsi all’Universo infinito» (Hannah Arendt).
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
Perché si vuole uccidere Kant?
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA: "Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
FLS
ANTROPOLOGIA (KANT), COSMOTEANDRIA, E "PREISTORIA" (#MARX): IL "NODO GORDIANO" DELLA STORIA D’EUROPA.
"RIFLESSIONI SISTEMICHE" (AIEMS - Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche). Una nota a margine della ripresa lodevolissima di una sollecitazione batesoniana a ripensare criticamente il "patrimonio" (del "matrimonio" ) della "caduta" biblica e della "cronica" tradizione "olimpica".
"La testura del sistema. La relazione nel pensiero di Gregory Bateson"(cfr. Lucilla Ruffilli e Giulia Testi, "Riflessioni Sistemiche", N° 30 - "Relazioni e cura", giugno 2024):
"[...] Nel 1970 Bateson propone una idea forte, la ’flessibilità’. [...]
Anche una cultura è un sistema adattativo, se una società sopravvive diciamo che la sua cultura è adattativa. Ma può darsi invece che la società vada verso l’autodistruzione. [...] Questo ci dovrebbe dar da pensare, suggerire di concentrarci non sul problema degli adattamenti immediati, ma sui cambiamenti a lunga scadenza.
Chiederci se questo adattamento è davvero tale che lo possiamo sopportare.
[...].
È adattativo abituarsi a sciogliere il nodo gordiano con la violenza del taglio?
Scrive Nora #Bateson:
Il mito è arrivato fino a noi, portato dalla sabbia del tempo, con il culto della Madonna che scioglie i nodi.
(statua della Madonna che scioglie i nodi nella basilica dei Santi Vitale, Valeria, Gervasio e Protasio al Quirinale) [...]" (cfr. Lucilla Ruffilli e Giulia Testi, "Riflessioni Sistemiche", N° 30 - "Relazioni e cura", giugno 2024).
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. LA LEZIONE DI KANT... *
Il casco di Dio e la mela: la logica vinta dalla “matematica del mistero”
C’è una razionalità orizzontale e una verticale: la prima crede di dominare il reale, la seconda esce dai binari del già scritto e comprende la totalità. È lo strumento per compiere la nostra umanità
di Raul Gabriel (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
Il termine “razionale” viene usato spesso a sproposito. In sé non identifica alcuna categoria certa. La razionalità è una materia talmente malleabile che può schiudere visioni sorprendenti o ingabbiare in strutture di ragionamento rigide da cui non si riesce più a uscire. Tutto dipende dalla qualità della razionalità. E la qualità dipende in buona parte dall’asse su cui si sviluppa.
Ognuno di noi è razionale, e non è escluso che, sia pure con le limitazioni del caso, la razionalità possa essere estesa anche al mondo animale. L’interpretazione della parola “razionale” si infiltra nei labirinti sinaptici per strade che possono essere molto diverse. Persino in contraddizione tra loro.
Qual è il punto critico? Il fatto che alcuni sviluppano una razionalità orizzontale, caratterizzata da grande ricchezza di informazioni organizzate in maniera estremamente meccanica, rafforzata non di rado da un autocompiacimento che frena ogni possibile risonanza capace di espandere la struttura del ragionamento. Non è importante che si tratti di storia, arte, biologia, fisica, teologia, critica letteraria e così via. Ciò che importa è la propensione ad articolare il pensiero secondo concatenazioni vincolate e sequenziali che lo rendono simile ai processi produttivi delle macchine di produzione alfanumeriche.
Altri invece sviluppano una razionalità verticale e obliqua che al posto delle meccanicità orizzontali-aritmetiche, ha come fondamentale caratteristica la potenzialità dei salti di intuizione. Il modo verticale, se così possiamo chiamarlo, va spesso in conflitto con il procedimento meccanico. A differenza del modo orizzontale che si accontenta di risultati facilmente dimostrabili a patto di rimanere in prospettive estremamente limitate, non dà sempre garanzia di successo, ma è l’unico che può portare a veri salti cognitivi.
Un collezionista di Milano in visita al mio studio ha detto una cosa di cui sono profondamente convinto. Le intuizioni più potenti vengono praticamente sempre dagli autodidatti. Aggiungerei anche da coloro che hanno un rapporto profondamente conflittuale con gli studi e non ne diventano il breviario noioso e ragionieristico da esporre come una litania stanca per la troppa abitudine. L’intelligenza orizzontale ha molto a che fare con la burocrazia intellettuale, e spesso si sposa più con l’ansia di un facile riconoscimento da parte degli altri che con una sete di indagine.
Il casco di Dio
La ricerca di Michael Persinger, neuroscienziato sviluppatore del cosiddetto “casco di Dio”, originariamente “casco di Koren” da Stanley Koren il suo primo creatore, può essere emblematica della distinzione tra i procedimenti orizzontale e verticale. Soprattutto nelle sue conseguenze. Sono convinto che non molti conoscano Persinger, scomparso di recente e fondatore del Behavioral Neuroscience Program, settore di ricerca sulle neuroscienze che innesta psicologia, chimica, neurologia e biologia in un progetto sperimentale che ha generato branche di studio come la neuroteologia.
Cercherò di illustrare brevemente la sua esperienza. Il “casco di Dio” è un semplice casco da motoslitta dotato di due solenoidi in grado di emettere leggeri campi magnetici. Fatto indossare a una persona in un ambiente isolato senza suoni e stimoli di sorta, produce un leggero campo magnetico sul lobo temporale. La stimolazione porta l’individuo ad avvertire delle presenze. In alcuni casi i soggetti sono in grado di elencare numero e posizioni spaziali di queste presenze.
Durante l’esperimento sono state riferite sensazioni come “uscire dal corpo” e cose del genere. L’esperienza di per sé è estremamente interessante, come indagine conoscitiva e medica. La capacità del cervello, e per esteso del corpo, di sintonizzarsi su forze invisibili ma perfettamente presenti e “corporee”, reagire a esse generando percezioni di varia natura, è sicuramente un campo di indagine molto affascinante.
Ma questo è il dato empirico. In sé non significa nulla. Come tutti i dati sperimentali osserva ciò che succede ma non può dire nulla sul perché succede. Michael Persinger ha applicato alla interpretazione dei risultati ottenuti con questo apparato incredibilmente semplice, quella che definisco “razionalità orizzontale”. Cioè la stessa logica di un rebus da settimana enigmistica. Non voglio essere frainteso. Questo tipo di razionalità può arrivare molto in là nella complessità delle deduzioni. -Ciò che non può fare è uscire da una catena di cause e conseguenze vincolate e sequenziali, che non possono portare a vere novità, ma trovano la strada di un labirinto senza orizzonti, come una cavia addestrata alla ricerca del cibo premio.
Nell’interpretazione di Persinger i risultati degli esperimenti dimostrano l’inconsistenza degli stati caratteristici nelle esperienze mistiche come percezione di presenze, rivelazioni, catarsi, trasporti spirituali. Tutto ciò che si attribuisce a una attività spirituale o extrasensoriale dell’individuo è, secondo Persinger, il prodotto dell’influenza sul cervello di perturbazioni elettromagnetiche in cui ci si può imbattere occasionalmente.
Questo ragionamento aritmetico si svolge in un tunnel univoco. Mette gli elementi in fila uno davanti all’altro e trae una conclusione che non si scosta in alcun modo dalla stessa qualità dei dati empirici. Non tiene conto del fatto che i dati dell’esperimento mostrano semplicemente una modalità di interazione del cervello. La meravigliosa capacità del nostro corpo di intercettare visibile e non visibile, pur sempre corporeo, a livelli di finezza sorprendenti. Ma la sua lettura orizzontale non va oltre il dato e la sua ontologica insignificanza etica.
Non produce una sintesi capace di uscire da un labirinto logico privo di orizzonte. Il ragionamento si affanna a tracciare una linea tra i dati mantenendone il medesimo livello qualitativo. Non produce sintesi e salto cognitivo.
La razionalità orizzontale ci dice quello che sappiamo già: che esistono i dati, che hanno quella forma e scansione temporale. Dal punto di vista cognitivo non genera alcuno spostamento. Dire che la nostra vita extrasensoriale o spirituale è il frutto aritmetico della fisiologia del cervello sottoposto ad alcuni stimoli significa scambiare arbitrariamente gli effetti con le cause.
Se le dimensioni percepite a causa del casco sono artificiali, questo non esclude in alcun modo che esistano dimensioni vere e concrete che generano la stessa percezione.
Se Persinger avesse aperto la sua razionalità alla dimensione verticale avrebbe compreso che aveva dimostrato un fatto profondo e toccante: se un Dio esiste, si manifesta proprio attraverso la dote che è stata data al nostro corpo: reagire a quel campo magnetico leggero che a me fa tenerezza, come una carezza delicatissima dentro la nostra carne.
La logica senza frutto del peccato originale
Le considerazioni sul "casco di Dio", le direzioni della razionalità, la loro divisione radicale nel quadro delle facoltà cognitive umane, compresa la sfera spirituale, portano molto in là e possono aprire a ipotesi stimolanti.
Intelligenza orizzontale e verticale aprono a mondi completamente diversi e innescano comportamenti completamente diversi - con un riflesso evidente nel nostro modo di stare al mondo, di interagire con gli altri e nella società. Si tratta non solo di meccanismi cognitivi che si esplicano nel momento del loro esercizio, una sorta di “soluzione” diversa a una domanda. -Le due forme di intelligenza sono la porta verso visioni complessive della realtà totalmente differenti.
Vi è un filo conduttore che riconduce questo tema chiave della razionalità al primo dilemma posto dalla storia simbolica a riguardo dell’intelligenza come forma di contrapposizione e ribellione al divino, verticalità per definizione. Il “peccato originale” è l’enigma cognitivo alla radice della storia umana. Riguarda la natura del bene e del male e, a mio parere, riguarda profondamente la natura della razionalità, che con il bene e il male è indissolubilmente intrecciata.
Forse il frutto con cui il serpente tenta gli abitanti del Giardino primigenio non rappresenta la conoscenza tout court. -Rappresenta invece una conoscenza “orizzontale”, l’adesione a una razionalità meccanica che esclude i salti cognitivi e per questo esclude Dio e la sua presenza ab origine. Esattamente come Persinger, nelle sue affrettate conclusioni sui risultati sperimentali ottenuti con il “casco di Dio”.
Il peccato originale è un primo amalgama tra razionalismo e riduzionismo. La mela è l’intelligenza orizzontale, parziale, escludente, basata su una analisi puramente aritmetica del reale. La sua stessa essenza esclude la visione verticale, la conoscenza complessiva del Giardino. Una volta simbolicamente mangiata, genera istantaneamente le categorie che danno l’illusione della comprensione, forti di un legame in apparenza stringente con il reale.
La mela crea il labirinto orizzontale, privo di elevazione, che esclude dalla visione generale, dalla conoscenza totale. Il labirinto è quello della logica strutturata per concatenazioni incapaci di fare salti. La tentazione è forte. Mostrare la validità del proprio processo logico cognitivo facendo leva su parametri gestibili a distanza ravvicinata che pretendono di mostrare una concretezza inoppugnabile mentre evidenziano una profonda cecità di fondo.
Mangiare la mela della razionalità orizzontale significa rinunciare al proprio destino di umanità compiuta che funziona per logiche tutt’altro che lineari. Per fortuna. Rinunciare consapevolmente alla speranza del compimento del proprio destino significa autodegradarsi in nome di una conoscenza che diventa invece scissione.
Separazione dal Giardino.
Il “peccato” originale è stato questo. Scegliere di muoversi nella realtà come cavie da laboratorio, così impegnate nella progressiva risoluzione dei problemi e dei test da perdere la cognizione della possibilità del salto e della visione d’insieme. La visione di insieme, il Giardino, non sono aritmetici. Sono come un territorio incongruo, apparentemente eterodosso, la cui comprensione richiede un susseguirsi di sfide cognitive che possono essere tentate solo con una continua scommessa, intuibile ma ignota, che risponde a una matematica del mistero, se vogliamo chiamarla così.
Non vi è contraddizione tra intelligenza e divino. Il sapere, in alcuni momenti della storia, ma anche oggi negli anfratti delle sottoculture cristiane e non, viene visto come interferenza nell’ascesi, una sorta di tentativo di capire ciò che non si può capire e quindi tentativo di “essere Dio”.
Invece l’intelligenza è parte integrante del Giardino e dei suoi abitanti. A patto che sia una intelligenza verticale. Perché unico vero strumento per compiere la propria umanità.
L’esclusione dal Giardino non viene irrogata come punizione da un arbitro intransigente per un fallo di gioco. La esclusione è coincidente con la scelta della razionalità orizzontale che degrada gli esseri umani a meccanismi e li tenta semplicemente perché dà loro la impressione di controllare e poter essere controllata.
Non credo che si possa scegliere il proprio tipo di intelligenza. Forse non è neanche un processo volontario. Volontaria è la esibizione della razionalità come teoria di informazioni legate una all’altra, strumento di controllo, potere, narcisismo. Volontario è rivendicare una conoscenza che si crede di poter dimostrare assoluta perché limitata. Il problema è lo stesso delle geometrie euclidee e non euclidee. Con Euclide si può costruire un muro, e non è poco. Ma non si può in alcun modo mettere fuori la testa di più di dieci centimetri a contemplare l’universo di cui Euclide come l’intelligenza orizzontale non è altro che una minima manifestazione.
La mela è la tentazione mortale di fare di un particolare il tutto, rinunciando alla fiducia della scommessa cognitiva dentro la quale, solo, può essere contemplato il Giardino della propria e altrui realizzazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO"
KANT ALL’ATTACCO DEI DELIRI E DEGLI INGANNI DEI "GRANDI SAPIENTI": ANNO DI GRAZIA, 1766. Invito alla rilettura dell’opera del 1766, "I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica".
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Sulla divinità di Gesù. il Vaticano corregge Scalfari
Nota della Sala Stampa vaticana: dal fondatore di Repubblica libera e personale interpretazione. La precisazione dopo le sconcertanti e irreali frasi attribuite al Papa sulla divinità di Gesù Cristo
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 9 ottobre 2019)
Qualcuno stamattina leggendo “La Repubblica” avrà fatto un balzo sulla sedia. Nel suo commento al Sinodo intitolato “Francesco e lo spirito dell’Amazzonia” il fondatore del quotidiano Eugenio Scalfari attribuisce infatti al Papa riflessioni e opinioni quanto meno sconcertanti.
In particolare Scalfari scrive: «Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d’incontrarlo e di parlargli con la massima confidenza culturale, sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo».
E a conferma di quanto appena detto, il giornalista e filosofo, passa in rassegna, modificandola anche un po’, la Passione di Gesù, soffermandosi in particolare sul grido di Cristo in croce, tratto dal Vangelo di Marco che riprende il Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un’invocazione che Scalfari riassume in “Signore mi hai abbandonato”. «Quando mi è capitato di discutere queste frasi - aggiunge Scalfari - papa Francesco mi disse: “Sono la prova provata che Gesù di Nazareth una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio”». Davvero, quella di Scalfari, un’interpretazione troppo libera e palesemente irreale, al punto da meritarsi una “correzione”.
Arrivata con una nota del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni: «Come già affermato in altre occasioni, le parole che il dottor Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato, come appare del tutto evidente da quanto scritto oggi in merito alla divinità di Gesù Cristo».
Del resto per capire che le espressioni attribuite al Pontefice non potevano essere reali sarebbe bastato recuperare le parole del Papa, ripetute in più occasioni. Poteva essere sufficiente anche solo riprendere pochi passaggi dell’udienza generale del 18 dicembre 2013: «Dio ha voluto condividere la nostra condizione umana al punto da farsi una cosa sola con noi nella persona di Gesù, che è vero uomo e vero Dio. Ma c’è qualcosa di ancora più sorprendente. La presenza di Dio in mezzo all’umanità non si è attuata in un mondo ideale, idilliaco, ma in questo mondo reale, segnato da tante cose buone e cattive, segnato da divisioni, malvagità, povertà, prepotenze e guerre. Egli ha scelto di abitare la nostra storia così com’è, con tutto il peso dei suoi limiti e dei suoi drammi. Così facendo ha dimostrato in modo insuperabile la sua inclinazione misericordiosa e ricolma di amore verso le creature umane».
Concetti ribaditi a Caserta il 28 luglio 2014: «L’Apostolo Giovanni è chiaro: “Colui che dice che il Verbo non è venuto nella carne, non è da Dio! È dal diavolo”. Non è nostro, è nemico! Perché c’era la prima eresia - diciamo la parola fra di noi - ed è stata questa, che l’Apostolo condanna: che il Verbo non sia venuto nella carne. No! L’incarnazione del Verbo è alla base: è Gesù Cristo! Dio e uomo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, vero Dio e vero uomo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Scienza e spiritualità
Oltre il reale
di Federico Ferrari (Doppiozero, 08.10.2019)
Nell’arco della vita può capitare di imbattersi in esperienze in cui il percetto, l’oggetto della percezione, supera il concetto, quell’insieme di percorsi razionali che l’intelletto elabora e mette in opera per dare un significato al vissuto. I concetti sono, in fondo, una serie di risposte che, astraendo dal contingente e riducendo l’esperienza al conoscibile, se non al conosciuto, la rendono gestibile. Nella moderna neurobiologia si è individuato nel DMN (Default Mode Network) una rete, presente nel cervello, che svolge questa funzione. Quando questa rete cerebrale va in crisi, quando il concetto non riesce a gestire il percetto, quando appare una mancata coincidenza tra la ragione e l’esperienza, ci troviamo di fronte a qualcosa che resta inspiegabile, se non indicibile. Con un linguaggio più aulico e spirituale, potremmo dire che appare l’ineffabile o, come chioserebbe uno studioso delle religioni, appare il numinoso. Ci troviamo, infatti, di fronte a qualcosa che va oltre l’esperienza del reale, così come siamo abituati a conoscerlo nella vita quotidiana. Si dà, in queste rarissime occasioni, un’eccedenza o una sproporzione che mette in discussione la certezza stessa di cosa sia reale.
Come cambiare la tua mente di Michael Pollan è un poderoso e avvincente resoconto di esperienze di questo genere; esperienze che lasciano una sensazione di spaesamento perturbante, non solo nel racconto di coloro che le hanno compiute, le decine di personaggi che appaiono nel testo di Pollan, ma anche nel lettore che, senza tregua, altalena tra lo stupore di scoprire la possibilità di accedere a dimensioni ulteriori della mente e del reale e la sensazione di trovarsi di fronte a una sorta di allucinazione collettiva in cui la follia diviene norma. Pur su tutt’altro registro linguistico, la lettura di Pollan fa sorgere inquietudini simili a quelle che emergono leggendo la Trilogia di Valis di Philip K. Dick nell’intreccio indissolubile tra biografia e narrazione che si moltiplica nei tre romanzi dickiani in una labirintica proliferazione di piani tra finzione, realtà e ultrarealtà. Dick, come Pollan, narra di un’esperienza “mistica”, esperienza che lo aveva portato oltre la dimensione spazio-temporale ordinaria mostrandogli dettagli di un mondo assai prossimo a quello descritto dalla tradizione gnostica.
All’interno dell’atmosfera onirica, eppur straordinariamente realistica, del romanzo di Dick, che assume connotati davvero inquietanti se letta parallelamente al diario di quegli anni, uscito con il titolo di L’esegesi, più volte viene da chiedersi cosa sia la realtà e se la fiction dickiana non sia piuttosto una parola profetica capace di mostrare, al di là delle apparenze abitudinarie del senso comune, il reale nella sua essenza abissale e vertiginosa. Altrettanto inquietante e gravido di domande analoghe è il libro di Michael Pollan. E anche per Pollan e le sue enigmatiche esperienze di passaggio attraverso il muro della percezione e della realtà vale la frase icastica di Valis: “la realtà è quella cosa che quando smetti di crederci non svanisce”. Sì, in fondo, sia in Dick sia nei personaggi descritti da Pollan, ci si trova di fronte ad esperienze di oltrepassamento del reale che non necessitano più di una fede. È, potremmo dire, quel che resta della realtà mistica quando non c’è più fede, quando non si crede più. Ci troviamo al cospetto del resto, di quel che resta della tensione verso l’aldilà, in un mondo che non crede più in nulla al di fuori dell’efficacia dei risultati.
Di quali esperienze tratta il libro dell’autore di fortunate opere sulla consapevolezza alimentare, come Il dilemma dell’onnivoro e In difesa del cibo? Il libro di Pollan credo possa essere definito come il resoconto di un cammino iniziatico, quello dello stesso autore, alle sostanze psichedeliche. Aristotele, per descrivere l’esperienza iniziatica, sottolineava che, più che come un insegnamento (didaskómenos), la si dovesse intendere come un’impronta (typoúmenos), un qualcosa che si imprime sull’anima e sul corpo dell’iniziato. E, leggendo i resoconti dei “viaggi” riportati da Pollan, si ha la netta sensazione di assistere proprio a questo tipo di esperienza, un’esperienza che si rivela, per l’appunto, come un’oscura sapienza, che si imprime nella mente di colui che la sperimenta. Non c’è nulla di didascalico in Pollan, ma tutto appare come vivo, come reale, come impossibile da eludere e da dimenticare: un sapere impresso nella carne.
Non è raro che le esperienze psichedeliche raccontate da Pollan abbiano un carattere catabatico, cioè di contatto e scambio con il mondo dei morti. Molto emozionanti sono le pagine dove Pollan descrive l’incontro con il teschio del nonno o l’identificazione dei genitori con due alberi davanti al suo studio, a cui segue la percezione, anzi la certezza, di una continuità indissolubile tra i vivi e i morti, tra la nascita e la morte. Anche qui si ha la netta sensazione del ripresentarsi di momenti canonici dell’esperienza misterico-iniziatica nella quale alla katábasis, alla caduta nelle tenebre, segue l’inesorabile ascesa verso la luce, l’anábasis.
Di pagina in pagina, attraverso una scrittura brillante e coinvolgente, non esente da un’ironia sferzante che fa coppia con una rara capacità di creare empatia tra il lettore e i personaggi (personaggi che, in realtà, sono persone in carne ed ossa, quasi tutte viventi e dotate di nomi e cognomi), Pollan non si limita al proprio percorso, ma ci accompagna tra i più avanzati laboratori di ricerca del mondo, mostrandoci come la ricerca scientifica abbia oggi un estremo interesse a studiare l’efficacia degli psichedelici in moltissimi campi di applicazione. E poi, in un alternarsi di situazioni e di colpi di scena, ci trascina al cospetto di misteriosi mediatori che, confinati nell’illegalità e in un’atmosfera magico-sacrale, fanno vivere a uomini e donne, del tutto normali e alla ricerca di un senso per la propria fin troppo “sensata” esistenza, “viaggi” oltre le porte della percezione, là dove il confine tra l’io e il Tutto vacilla.
Pollan ricostruisce, in questo modo, con grande precisione e dovizia di particolari, le tappe principali della storia di queste sostanze dalla fine degli anni trenta, anni della scoperta accidentale da parte di Albert Hofmann della molecola dell’LSD, sino, nei primi anni del 2000, al loro “rinascimento” (questa l’espressione di Pollan) ad opera di alcuni dei principali centri di ricerca medica e farmacologica del mondo, passando ovviamente per tutta la leggendaria sperimentazione degli anni sessanta da parte di un’intera generazione di hippy ed esponenti della controcultura americana, senza dimenticare l’uso di queste sostanza da parte delle élite del jet set internazionale in una rete di personaggi, più o meno inquietanti, dietro i quali si intravedono le ombre minacciose della CIA e di ancor più discrete società segrete.
Si viene così a delineare, nelle oltre 400 pagine del libro, un composito e sorprendente affresco che narra le sorti, più o meno note, di queste sostanze: dalla loro recente riabilitazione, non solo e non tanto per la cura di patologie resistenti ai farmaci in commercio e alle terapie comuni (patologie come l’alcolismo, le dipendenze o la depressione per le quali gli psichedelici hanno dimostrato, nei primi studi pubblicati, straordinarie percentuali di efficacia terapeutica), per giungere al loro utilizzo per una più vasta e complessa comprensione della mente e delle sue frontiere. Ricerche, queste ultime, che impongono alla scienza perturbanti sconfinamenti nelle dimensioni del misticismo e della fuoriuscita dal sé, spostando i confini del conosciuto alle soglie della scomparsa dell’individualità egoica a favore di una coscienza universale o cosmica.
È su queste ultime dimensioni di sconfinamento tra scienza e mistica che, io credo, sorgono gli interrogativi più interessanti in una più vasta e generale ricognizione sul ritorno di una dimensione spirituale nelle moderne società del tecnocapitalismo avanzato. Adelphi aveva già pubblicato, nel 2018, un interessante testo di Mark O’Connell dal titolo Essere una macchina, nel quale veniva investigato un inaspettato cortocircuito tra lo sviluppo tecnologico e la ricerca di nuove forme spirituali. In quel caso si trattava dei progetti transumanisti di resurrezione dei corpi attraverso le macchine o, nel peggiore dei casi, di trasmigrazione della coscienza in una macchina. In fondo, O’Connell ci mostrava la risorgenza, sotto nuove spoglie, quasi totalmente secolarizzate, della novella cristica dell’avvento del Regno in cui la morte è vinta. Pollan compie un gesto analogo a quello di O’Connell andando ad indagare, attraverso i più avanzati studi scientifici attualmente in corso, la possibilità di un ampliamento delle frontiere della mente e della coscienza.
E, in questa sua indagine, ci porta in terre di confine in cui la scienza, e i suoi derivati tecno-farmaceutici, si trovano ad intersecare il misticismo e antichissime sapienze, rimandando, in modo più o meno consapevole, al rapporto tra l’ātman e il Brahman della tradizione hindu o al Noûs aristotelico e tutte le sue derivazioni averroistiche, secondo le quali vi sarebbe una mente unica, senza forma e senza soggetto, a cui le singole menti non farebbero che connettersi. È ancora a questa mente unica che Aldous Huxley si riferiva quando, parlando proprio delle sostanze psichedeliche, in Le porte della percezione, ipotizzava l’esistenza di un “Intelletto in Genere” più vasto di quello individuale. Si tratta, in fondo e di nuovo, tornando alle pagine di Pollan, della ricomparsa dell’antica necessità umana di oltrepassamento della sfera del quotidiano per accedere a una dimensione altra o, comunque, più vasta della realtà. Non solo della realtà esterna, che la fisica e la chimica contemporanee hanno già dilatato all’inverosimile, tanto verso l’infinitamente piccolo quanto in direzione dell’infinitamente grande, ma anche della realtà cosiddetta interiore, quella della mente e della coscienza. Gli psichedelici appaiono, oggi, alla scienza, come prima erano apparsi a molti sacerdoti e sciamani o, in tempi più recenti, a scrittori e visionari di un mondo alternativo, una possibile via d’accesso per questa espansione dei confini della mente. Gli psichedelici, non più come droghe ricreazionali, ma come potenti mezzi tecnici utili per dare avvio a nuove ricerche e scoperte, allo stesso modo in cui lo furono, per la chimica e la biologia, il microscopio e, per l’astronomia, il telescopio. Quel che davvero sorprende, uscendo dalla lettura di Pollan, è come la scienza si confronti, oggi, con questioni che secondo lo scientismo positivista sarebbero state messe definitivamente “fuori gioco” proprio dall’evoluzione del pensiero scientifico, pensiero che le avrebbe bollate come irrazionali e fondate sulla superstizione e sull’ignoranza.
Così, quando nel 2006 un’equipe della Johns Hopkins University guidata da un neuroscienziato come Roland Griffiths, pluripremiato per il suo rigore e le sue ricerche nell’arco di una lunga carriera, pubblica su “Psychopharmacology” (una delle più importanti e serie riviste scientifiche di settore) uno studio dal titolo Psilocybin can occasion mystical-type experiences having substantial and sustained personal meaning and spiritual significance comprendiamo che si stanno aprendo per la ricerca strade fino ad alcuni anni orsono impensabili. La scienza che certifica l’esperienza mistica! Non a caso, le sostanze psichedeliche - le più note delle quali sono l’LSD, la mescalina, la psilocibina, la MDMA, più conosciuta come ecstasy - vengono oggi spesso chiamate endeogene, cioè che “hanno Dio al proprio interno”.
Il dettagliato racconto di Pollan ci pone, quindi, davanti a una domanda inaspettata: le sostanze psichedeliche che, anche secondo protocolli scientifici, danno accesso a esperienze mistiche ci mostrano che la mistica diventa scientifica o che la scienza diviene mistica? Può sembrare una domanda sofistica ma non credo lo sia. Credo, anzi, che nella risposta che noi, nei prossimi anni, daremo a questa o altre simili domande sia contenuto il destino della futura civiltà umana. Una civiltà che potrebbe portare a una rivitalizzazione dell’esigenza mistico-spirituale dell’uomo all’interno dell’alveo della scienza (una mistica manipolata dalla scienza) oppure a una dissoluzione o ibridazione del metodo scientifico in una miriade di anti-metodi o contro-metodi, per parafrasare il filosofo della scienza Paul Karl Feyerabend.
Se infatti noi riuscissimo a stabilire, cosa che la scienza attualmente sembra in grado di fare o si accinge a fare, che l’esperienza mistica sia dovuta a una inibizione della rete DMN (inibizione causata da processi chimici innescati, tra gli altri elementi possibili, dagli psichedelici) che conclusione dovremmo trarre? La più plausibile è che se l’intero processo dipendesse e fosse causato da principi chimici e fisici allora la mistica sarebbe spiegabile come un fenomeno chimico-fisico e non avrebbe nulla di soprannaturale. Il mondo a cui accederemmo in un’esperienza mistica dipenderebbe in maniera univoca dall’inibizione di flussi ematici e di ossigenazione di alcune parti del cervello. Nulla di più, nulla di misterioso. Verrebbe così a cadere l’idea misterica di un’illuminazione e di un sapere visionario e profetico su una realtà più profonda e vera che l’esperienza mistica mostrerebbe. Non si avrebbe, cioè, una misticizzazione della realtà scientifica ma una scientificazione della realtà mistica, spiegabile secondo regole di causa effetto, al pari di ogni altro processo chimico-fisico. La scienza, in qualche modo, assumerebbe il controllo anche della vita spirituale. Non sarebbe più costretta a relegarla nella sfera della superstizione. Potrebbe, più semplicemente e scientificamente, manipolare lo spirituale, come tutto il resto della natura.
Questa sembra l’ipotesi più plausibile, ma resterebbe insoluto un ulteriore quesito. Ammesso, infatti, che la coscienza sia frutto di un particolare equilibrio chimico-fisico e che una volta messo in crisi questo equilibrio la coscienza si dissolva avendo accesso a una realtà ulteriore, chi stabilisce se sia più “vero” lo stato di equilibrio o quello di disequilibrio generato dall’uso degli psichedelici? E, ancora più radicalmente, chi stabilisce che la realtà espansa generata dal disequilibrio psichico sia meno reale di quella percepita in una fase di equilibrio? O, detto ancora diversamente, per quale ragione il prodotto di più composti chimici dovrebbe essere più vero di un altro o dei molti altri possibili partendo dagli stessi elementi di base? E infine, per quale ragione la coscienza del sé dovrebbe essere più vera o spiegare meglio il reale della coscienza diffusa di cui parlano i mistici e che può essere generata attraverso un uso specifico di sostanze psichedeliche? Non si tratterebbe solo di due approssimazioni alla pluralità del reale, allo stesso modo in cui cambia la visione del reale se io lo osservo a partire dai campi magnetici che lo costituiscono o dalle lunghezze d’onda della luce percepibili dall’occhio umano? È, per noi, dell’ordine dell’ovvietà che la realtà del campo magnetico di un corpo e la sua realtà visibile sulle frequenze luminose percepibili da un occhio umano siano esattamente la stessa realtà. Ma, a seconda che l’organo percipiente si sintonizzi su una o sull’altra, si generano mondi, visioni del mondo, pratiche di mondo radicalmente diverse. Cosa sarebbe dunque la visione della scienza una volta scoperto - in realtà da millenni e da decine di tradizioni e civiltà disseminate sul globo, ma ora anche dalla scienza - che vi sono altri possibili accessi al reale e altre innumerevoli possibili visioni del cosmo, interno ed esterno, che ne determinano un ampliamento pari a quello dell’espansione dell’universo?
Nel moltiplicarsi di queste domande, e di altre ancora, è probabilmente contenuta la realtà del mondo che verrà. Forse la realtà dell’umanità del futuro si trova tra le pieghe di un’interrogazione, sull’universo e sulla coscienza che lo riflette, non più fideistica né puramente razionale, ma che si inoltra nell’oscuro sapere di una gnosi, arcana e sempre a venire, le cui frontiere sono al di là di ogni dominio e di ogni certezza: una conoscenza in viaggio...
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
Federico La Sala
METAFISICA E SCIENZA. L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI. Anassimandro batte Asterix ... ma non i "visionari", i theorici dell’"uomo supremo"...*
L’invenzione della Natura Terremoti, eclissi, mareggiate e siccità sono lì a ricordarci la precarietà del tutto: come per i Galli dei fumetti, il timore che l cielo possa sempre cadere. Ma così non sarà, aveva scoperto il filosofo di Mileto nel VI secolo a.C.
Anassimandro batte Asterix
Anassimamdro si era cinvinto che l’universo fosse in espansione, forse in consegueza di una esplosione inizialr (il Big Bang?); e che gli uomini ferivassero dai pesci (Darwin?)
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 12.08.2018)
Nascere - venire all’essere, diventare qualcosa - è una colpa che verrà pagata con la morte. Questo, secondo Friedrich Nietzsche, giovane filologo a Basilea ancora sensibile alle sirene di Schopenhauer, insegnava il primo testo filosofico giunto fino a noi, un breve frammento di Anassimandro di Mileto: «Principio di tutte le cose non è né l’acqua né nessun altro dei cosiddetti elementi, ma una certa altra natura infinita, da cui tutto diviene (...): da ciò da cui è la generazione delle cose che sono, lì è anche la distruzione secondo il dovuto: esse scontano infatti la pena e il fio dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo».
Poche parole, al cui fascino è difficile sottrarsi. Per Martin Heidegger, in fluenzato a sua volta da Nietzsche, costituivano la prova del fatto che la filosofia è nata grande, capace di affrontare fin da subito i problemi più importanti. Perché c’è qualcosa invece di nulla? Questa è la questione fondamentale. Perché esistono gli alberi, il mare, noi, io? Anassimandro non aveva posto solo la domanda; aveva anche offerto una prima risposta.
C’è un principio primo, eterno, infinito, indistinto (chiamiamolo Dio; Anassimandro lo chiamava apeiron, il «senza limiti») in cui tutto riposa; la realtà, così come la vediamo intorno a noi (e di cui facciamo parte) si è formata staccandosi proprio da quel principio: un impulso incoercibile, una spinta potente, irrazionale e primordiale, spinge tutto a essere qualcosa. È la volontà di vivere, di cui parlava Schopenhauer. E non solo lui: lo schema di pensiero è molto più diffuso. La storia ebraica e poi cristiana degli angeli che si ribellano a Dio, o di Adamo ed Eva, non è molto diversa, e tanti altri paralleli, fin dalla lontana India, potrebbero essere aggiunti. Analoghe erano le conclusioni, del resto: questa colpa, la colpa di voler essere, prima o poi sarebbe stata punita. La nascita e la morte, l’essere e il non essere: ogni affermazione (di sé) è una negazione (dell’altro), ma giustizia prima o poi verrà fatta. Ecco la legge, tragica, che svela il segreto dell’esistenza. Una tesi affascinante, indubbiamente. Che però non c’entra nulla con Anassimandro.
Vissuto nel VI secolo a.C., di lui si è perso quasi tutto. Se ancora leggiamo qualche sua frase, è grazie al neoplatonico Simplicio (un personaggio di cui sarebbe bello raccontare le imprese: era uno dei sette filosofi fuggiti in Persia per fondare la città ideale di Platone, dopo che Giustiniano aveva chiuso la loro Accademia ad Atene nel 529 d.C.), che lo aveva citato, più di mille anni dopo.
Il suo scritto, un imponente commento alla Fisica di Aristotele, fu poi pubblicato da Aldo Manuzio nel 1526 (e anche di queste imprese editoriali, e di quello che hanno significato per l’Europa, sarebbe bello ricordarsi), permettendo ai vari Nietzsche e Schopenhauer di appassionarsi ad Anassimandro. L’edizione di Manuzio, però, si fondava su un manoscritto lacunoso. Mancava una paroletta nell’ultima frase: «Essi scontano reciprocamente la pena e il fio dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Per quanto minuscola, l’aggiunta cambia tutto. Il conflitto non è più con il principio (Dio): riguarda l’universo, o meglio gli elementi che lo costituiscono. Anassimandro raccontava una storia completamente diversa.
Il mondo che si dispiega davanti a noi si organizza per opposizioni: il caldo e il freddo, la luce e il buio, l’acqua e il fuoco... il conflitto è tra questi opposti, gli elementi materiali costituenti, che sono come in guerra tra di loro. Il conflitto e il caos: il rischio è che l’universo intero collassi se uno degli elementi dovesse prevalere sugli altri. Era una paura ben presente nel mondo del mito, dove a ogni potenza naturale è associata una divinità, a cui occorre rivolgersi con preghiere e sacrifici perché conservi l’universo in questo suo equilibrio così precario. Terremoti, eclissi, mareggiate e siccità sono lì a ricordarci la precarietà del tutto: come per Asterix e Obelix, il timore è che il cielo possa sempre cadere, e tutto andare in frantumi. Così non sarà, spiega Anassimandro, forte della sua scoperta.
Scoprire significa vedere qualcosa che c’è, ma nessuno vedeva. È vero che la realtà si trasforma continuamente e che ogni trasformazione altro non è che l’affermarsi di una qualità e la temporanea soppressione del suo opposto. Ma la prevaricazione verrà riequilibrata nel corso del tempo, secondo una legge che regola eternamente queste opposizioni. È l’incessante alternanza del giorno e della notte, delle stagioni calde e fredde, e dei cicli astronomici che scandiscono la vita dell’universo. Questo ha visto Anassimandro, l’ordine che regola le trasformazioni.
Dimenticato il pensatore tragico, senza più bisogno di introdurre divinità arcane, quello che ora emerge è il cantore dei ritmi iscritti nel mondo dei contadini e dei mercanti. Un pensatore che confida esclusivamente nella sua capacità di osservare e ragionare.
Non è più il tempo dei poeti che ripetono ispirati la parola della Musa: l’autorità di Anassimandro dipende unicamente dalla capacità di collegare correttamente i fenomeni, offrendo spiegazioni plausibili. Il risultato è la scoperta della «natura», la presa d’atto che questo immenso universo che ci circonda è qualcosa di unico, omogeneo, in cui tutto si tiene, secondo leggi e costanti. All’instabilità permanente del mito si sostituisce l’idea di uno spazio stabile e regolare - uno spazio «naturale» per cui non servono interventi arbitrari, esterni, «soprannaturali».
Non è un’intuizione da poco. La filosofia nasce così, insegnando a guardare, a riconoscere la trama che innerva lo spettacolo (questo significa theoria in greco) dell’universo, la regolarità che ricompone in un ordine dinamico ciò che all’occhio inesperto appare caotico e instabile.
Se lo avesse incontrato, Anassimandro non avrebbe compreso il senso della domanda di Heidegger. Per i Greci, l’universo esiste da sempre per sempre, eternamente. Inutile dunque chiedersi perché c’è l’essere e non il niente. Molto più proficuo, e interessante, è individuare le leggi che regolano la vita dell’universo e raccontarne la storia. Si sarebbe insomma sentito più vicino a un filosofo della scienza come Karl Popper, che infatti proprio in lui e negli altri presocratici aveva trovato i precursori degli scienziati contemporanei, uniti dallo stesso desiderio di comprendere, descrivere e spiegare. È una buona presentazione di quello che faceva Anassimandro: osservando le maree e le orbite dei pianeti si era convinto che l’universo è in espansione, con gli elementi caldi che si allontanano progressivamente da quelli freddi, forse in conseguenza di un’esplosione iniziale.
Di certo la passione di indagare e conoscere è la stessa. Aveva anche concepito la prima mappa dell’universo, con la Terra (a forma di cilindro, non piatta) al centro, circondata da una serie di anelli concentrici, delle stelle, del sole, della luna, secondo proporzioni geometriche ben definite. Un universo non solo uniforme ma anche elegante, insomma (e una prima versione del modello che il lettore italiano ritroverà nella Divina Commedia).
Tutto chiaro, dunque?
Prima di entusiasmarsi per i presocratici Popper si era formato discutendo con i membri del Circolo di Vienna, che si erano proposti l’obiettivo di fare chiarezza da tutte le astruserie della metafisica (Heidegger, tanto per cambiare, era il bersaglio privilegiato). Enunciati e domande che non rappresentano stati di fatti di ordine fisico, oggettivamente verificabili, non possono essere detti né veri né falsi, sono privi di senso: non trasmettono alcuna conoscenza e per questo bisogna starne lontani.
Ludwig Wittgenstein, il nume tutelare del circolo, lo aveva spiegato con la consueta chiarezza. «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è»: come il mondo è, ecco qualcosa che possiamo descrivere e spiegare; che (perché) il mondo è (esiste), invece no; è qualcosa di cui non ha perciò senso parlare (è il Mistico, nel suo vocabolario): «Se una domanda può porsi, può avere anche una risposta»; «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Davvero?
Anassimandro aveva offerto una prima descrizione «scientifica» dell’universo. Aveva per primo intuito che l’universo è un tutto organico, regolato da leggi e costanti. Alcune domande, però, rimanevano aperte. Perché ci sono queste leggi, chi garantisce per il loro funzionamento? Forse il misterioso apeiron, quel principio indeterminato, oscuro e infinito, da cui tutto proviene e a cui tutto torna? Ma questo non significa reintrodurre con parole diverse problematiche teologiche? Non è soltanto un problema storiografico (ricostruire le tesi di Anassimandro in proposito); è un’altra versione del solito problema: ma perché ci sono le cose - gli alberi e i pianeti, io e tu? Da dove arrivano e dove vanno?
Domande oziose, per cui probabilmente non si troverà mai una risposta ultima. Ma di cui è difficile fare a meno: «L’impulso al Mistico - scriveva lo stesso Wittgenstein il 15 maggio 1915 - viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza. Noi sentiamo che una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppure stato toccato». È un’affermazione fin troppo severa: senza l’aiuto di chi ci guida nella comprensione di quello che accade intorno a noi, non potremmo veramente godere dello spettacolo dell’universo e iniziare a interrogarci su noi stessi.
Così Platone e Aristotele sostenevano che la filosofia vive della meraviglia, nella consapevolezza che le cose non sono mai come credevamo. Alla fine del suo percorso anche Wittgenstein era arrivato a conclusioni analoghe: «Mi meraviglio per l’esistenza del mondo». Imparare a meravigliarsi, consapevoli che tanto maggiori saranno le scoperte tanto più numerosi saranno i problemi che dovremo affrontare: probabilmente non c’è esperienza più bella per noi esseri umani, sempre in cerca di significati, ma anche sempre esposti al rischio di ricadere nelle superstizioni di Asterix. Per questo servono le scoperte degli scienziati, ma anche le domande dei filosofi. Meglio ricordarsene, visto che il viaggio promette di essere ancora lungo.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA. AL DI LA’ DI NEWTON, CON KANT - E ARTHUR S. EDDINGTON ... e Popper
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!)
L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura" (e non solo)
Federico La Sala
Le frontiere della tecnoscienza
Se l’uomo si fa Dio
Intelligenza artificiale, bioingegneria, robot sono la nuova frontiera. E tornano a dividere i filosofi tra apocalittici e visionari. Che ne sarà della specie umana?
di Marco Pacini (l’Espresso, 01.04.2018)
Una delle fotografie più nitide di questo primo tratto di strada che abbiamo imboccato verso il “salto antropologico” l’ha scattata il sociologo e filosofo Edgar Morin all’alba del millennio: «L’umanità è ancora in rodaggio e siamo già nelle vicinanze della post-umanità. L’avventura è più che mai ignota». Come spettatori un po’ attoniti, sospesi tra l’ammirazione e l’inquietudine, assistiamo alla grande partita della tecnoscienza, dove la posta in palio è il futuro di una specie, la nostra. Lo chiamano post-human, senza nemmeno un accordo su un significato univoco. Ma la partita è iniziata da tempo e non può attardarsi in sottigliezze semantiche.
Nella squadra A giocano i tecno-umanisti (o transumanisti), evangelisti di una religione che potremmo chiamare datismo: non siamo altro che sistemi di elaborazione dati e in quanto tali possiamo migliorare, cambiare la nostra natura senza porre limiti alle acquisizioni e applicazioni delle due discipline madri, informatica e biologia (intelligenza artificiale e ingegneria genetica).
La squadra B schiera i postumanisti che anche quando salutano con favore la fine del dualismo natura-cultura, mettono in guardia sugli sviluppi “fuori controllo” della tecnoscienza e sul nuovo capitalismo cognitivo e genetico che potrebbe generare scenari distopici. E vorrebbero almeno aspettare l’arbitro, prima di iniziare la partita.
Ma dell’arbitro sembra non esserci bisogno. Perché «tutto funziona, e questo è appunto l’inquietante», come disse allo Spiegel nell’ultima intervista postuma Martin Heidegger, antesignano del pensiero della (o sulla) tecnica.
Quell’intervista diventò un libro intitolato “Solo un dio ci può salvare”. E forse nemmeno di quel dio c’è più la necessità, dato che saremo noi stessi come specie, o una parte di noi, potenziati da dispositivi frutto della santa alleanza tra bioingegneria e informatica, a trasformarci in “Homo deus”, come ha suggerito lo storico del futuro Yuval Noah Harari.
L’intelligenza si sta separando dalla coscienza, avvertono alcuni degli analisti del futuro postumano come Harari; e una volta liberata dalla coscienza l’intelligenza sviluppa una velocità vertiginosa. Quella dei postumani immaginati nei templi dello “human+” come Google e dei suoi sacerdoti come Ray Kurzweil. Gli esseri umani - assicurano - non sono più in grado di gestire gli immensi lussi di dati, sono arrivati al capolinea e ora potrebbero passare il testimone a entità di un tipo del tutto nuovo.
Scenario entusiasmante. O apocalittico, come pensa il filosofo Michel Onfray, che conclude il suo ultimo lavoro, “Decadenza”, con una diagnosi senza speranza: «Un pugno di postumani riuscirà a sopravvivere al prezzo di un’inaudita schiavitù delle masse, cresciute come bestiame (...) Le dittature di questi tempi funesti faranno passare quelle del Novecento per inezie. Google lavora oggi a questo programma transumanista. Il nulla è sempre certo».
Meno catastrofista, ma “in allerta”, Adam Greenfield, che in “Tecnologie radicali” rilette: «Non so cosa significherà essere umani nell’era della post-umanità (...). Capisco perfettamente perché chi crede, per quanto incautamente, che da queste circostanze (la post-umanità frutto del matrimonio tra I.A. e bioingegneria ndr) trarrà il massimo beneficio e un potere inattaccabile voglia arrivarci così in fretta. Quello che non capisco è perché lo vogliano anche gli altri».
Ma forse è inutile preoccuparsi di un futuro postumano alla Onfray, se dovesse realizzarsi la situazione in cui per la parola “umano” non ci sarebbe semplicemente più posto, con o senza prefisso. Lo ipotizza il filosofo Nick Bostrom (fautore del potenziamento umano e studioso dell’Intelligenza artificiale tra i più accreditati) nel suo ultimo saggio “Superintelligenza”: quando l’I.A. supererà quella umana potrebbe sterminare l’umanità intera. Sulla base di queste previsioni, nel gennaio 2015 Bostrom firmò una lettera aperta, sottoscritta da molti altri scienziati, tra cui Stephen Hawking, per mettere in guardia sui potenziali pericoli di uno sviluppo eccessivo dell’I.A.
Nel frattempo, finché con o senza “post” ci saremo, le frontiere continuamente superate dall’intelligenza artificiale e dall’ingegneria genetica (ne parlano negli articoli che seguono Nicoletta Iacobacci e Gianna Milano) pongono con sempre maggiore forza un problema. Anzi, il problema: ci spingeremo in dove si "può", o in dove si "vuole"?
È vero, l’ibridazione è già avviata da tempo. Siamo già in parte nel postumano. «La nostra seconda vita negli universi digitali, il cibo geneticamente modificato, le protesi di nuova generazione, le tecnologie riproduttive sono gli aspetti ormai familiari di una condizione postumana. Tutto questo ha cancellato le frontiere tra ciò che è umano e ciò che non lo è, rivelando le fondamenta non naturalistiche dell’umanità contemporanea», ha scritto la filosofa del posthuman Rosi Braidotti.
Ma forse una parte di ciò che la migliore fantascienza ci ha fatto intravedere e che si presenta ormai sotto forma di possibilità ulteriore, esponenziale, rappresenta un “salto” più che una continuità di questa condizione postumana. Ed è di fronte a quel salto che il “postumanesimo critico” rivolge interrogazioni sempre più pressanti alla tecnoscienza che “funziona” e procede. Segnalandole l’incrocio tra il si può e il si vuole.
Il soggetto di quel volere dovrebbe essere un noi che si interroga ed è interrogato. Ma che per ora sembra assistere attonito alla partita senza arbitro. Ed è quasi inutile ricordare che l’arbitro assente è la politica, ormai da qualche decennio costretta ad arrancare dietro alla tecnoscienza e all’economia o al loro sodalizio (basti pensare agli algoritmi che ogni giorno sui mercati decidono autonomamente di spostare miliardi in nanosecondi).
Quel noi ha il volto, per esempio, di chi si vede uscire dalla mostra “Human+” (viaggio tecnoartistico sul futuro della specie, in corso a Roma al Palazzo delle esposizioni). E la cui espressione sembra dire: lo voglio o non lo voglio quel “più” per i miei figli e nipoti? Ma soprattutto: potranno deciderlo?
Il nuovo inizio è la vita
colloquio con Rosi Braidotti
di M.P. (l’Espresso, 01.04.2018)
«Quando si parla di postumano non si può parlare solo di ricerche neuronali, intelligenza artificiale, bioingegneria. Non c’è niente di nuovo su questo, solo un’accelerazione. Quello che dobbiamo fare è trovare una convergenza tra i saperi».
Raggiunta al telefono nel suo studio all’Università di Utrecht, dove insegna da anni, la filosofa italiana Rosi Braidotti prova a mettere ordine. A sottrarre il dibattito sul postumano ai singoli saperi, ai tecnologi e tecnocrati, per riconsegnarlo alla filosofia. O meglio al pensiero critico. Ha da poco pubblicato in inglese “The Posthuman Glossary”, scritto con Maria Hlavajova. Ma il suo lavoro principale è “Il Postumano”, uscito anche in Italia nel 2014 per DeriveApprodi.
Professoressa Braidotti, siamo all’ennesimo “post”, ma questa volta sembra decisivo.
«Sì, e chiama in causa insieme lo sviluppo tecnologico e le realtà sociali. Si può pensare all’accelerazione tecnologica come a una rivoluzione, ma anche una tragedia sociale, all’antropocene come alla catastrofe ambientale senza ritorno... C’è un clima di ansia. Ma io resto ottimista, perché può far scattare la convergenza tra i saperi, un pensiero critico ma non nichilista».
Il suo postumano parte dalla fine dell’antropocentrismo e dell’opposizione natura-cultura. Verso quale inizio?
«L’inizio è considerare la struttura vivente in sé vitale e contemporaneamente non naturalistica. Costruire un’etica non antropocentrica che consideri tutti i viventi, sperimentando le possibilità della scienza senza timori».
Non vede nelle istanze postumaniste e tecnoumaniste un prevalere di queste ultime ma nella forma di nuovi spazi di dominio?
«Sul postumano stanno lavorando le grandi compagnie della Silicon valley. Si deve ragionare su come il capitalismo cognitivo si è impossessato delle humanities. Si deve ricostruire un terreno comune per discutere su cosa sta accadendo. Il potenziamento umano è diventato centrale in queste discussioni e ciò che lo rende perverso è che lo presentano come l’ultimo capitolo dell’illuminismo. Io dico il contrario. La grande mutazione non avviene nel vuoto, ci sono le implicazioni sociali. Bisogna negoziare su che cosa siamo capaci di diventare. Riorganizzare i saperi, posizionarsi come cittadini, reinventarsi in un’emergenza epistemologica. Spinoza scrisse l’Etica per questo».
Strappare il velo della Maya
Ultraoltre. Posato sulla invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà ha il potere di ricoprire la vera natura delle cose
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 03.12.2016)
«Watch out now, take care, beware of soft shoe, dancing down the sidewalks, as each unconscious sufferer, wanders aimlessly, beware of Maya». «Fai attenzione, fai attenzione alle morbide scarpe che ballano sui marciapiedi, e come chi soffre incosciente e, vaga senza meta, guardati dalla Maya». Così George Harrison apre la sua Beware of Darkness, canzone iniziale del triplo album del 1970 All things must pass. Il disco è fortemente influenzato dall’esperienza indiana del «Beatle tranquillo», che aveva spinto già alla fine degli anni ’60 gli altri component dei Fab 4 verso quella scuola di pensiero induista diretta da Maharishi Mahesh Yogi, fondatore e guru della tecnica per la Meditazione Trascendentale.
Negli stessi anni, precisamente nel 1972, un artista americano, Chris Burden, si esibiva in una performance chiamata Deadman: il suo corpo, coperto da un semplice velo di plastica, era steso nel parcheggio di una superstrada californiana, come un semplice rifiuto; se un’automobile lo avesse investito avrebbe potuto morire.
Nell’agosto del 2015 un naufrago bengalese veniva recuperato da un peschereccio di Lampedusa. Tratto in salvo dichiara ai suoi soccorritori: «Molte barche sono passate davanti a me ma voi avete guardato oltre la Maya del mare».
IN ORIENTE
Cos’è dunque questa Maya dalla quale ci si deve guardare per non «soffrire incoscienti e vagare senza meta»? O che acceca la vista di chi vede solo il mare? E cosa rappresenta, analogamente, il sottile strato di materia plastica che separa dalla vista dell’automobilista che sta parcheggiando il corpo di Chris Burden?
Ebbene tutti i suoi molteplici significati sono simboleggiati, sia in Oriente sia in Occidente, da una immagine, quella del velo, il velo della Maya appunto, come lo definirà Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione. Drappeggiato sull’invisibile essenza di tutti i fenomeni della realtà, ha il potere di farli apparire ed al tempo stesso di ricoprire la vera Natura delle cose, che però si rende accessibile dopo lo svelamento, dopo che il velo della Maya è finalmente caduto, o è divento abbastanza sottile da permetterci di gettare oltre uno sguardo perspicuo.
Per il potere della Maya - al femminile in sanscrito, come tutto ciò che afferisce alla sfera creazionale - agli occhi dell’umanità inconsapevole il Mondo appare come una successione di eventi, di oggetti: questo ci incatena al ciclo di una esistenza «penosamente frammentaria» (samsara), come sostiene C.G. Jung nel Libro Rosso, perché percepisce solo la persistenza dell’essere ma non il suo divenire, velando così lo sguardo sulla reale Natura che giace dentro ed oltre di essa.
Scopo della vita, invece, è sollevare questo velo per cogliere l’essenza che la genera. Sollevare il velo della Maya significa percepire finalmente la matrice che tutto crea e tutto connette incessantemente, e questa visione genera la liberazione (moksa). Esserne consapevoli è l’unica strada per conquistare il senso della vita, essere un «risvegliato in vita», un jivanmukta in sanscrito, colui che esperisce la connessione col Principio Creatore e non solo con le sue illusorie e fallaci apparenze. Ma, e qui sta il suo arcano, quando si percepisce ciò che giace nel fenomeno, ciò che è inessivo ad esso, al contempo lo si ricrea, si ricrea l’incanto alla sorgente del Mondo.
LA FONTE INIZIATICA
La natura di questa forza illusoria è ben illustrata dalla storia tradizionale indiana di un asceta semidivino, Narada, che una volta chiese direttamente all’Essere Supremo (Visnù) che gli mostrasse il potere della sua Maya. Nārada, nella mitologia indù, è uno dei modelli preferiti del saggio «sul sentiero della devozione» (bhakti-mārga).
Quando Narada ebbe espresso umilmente la sua profonda aspirazione, il dio lo istruì, non verbalmente, bensì sottoponendolo ad una atroce avventura. Quindi gli disse: «tuffati nell’acqua e sperimenta il segreto della mia Maya». Narada si immerse nel laghetto e ne riemerse trasformato in Susila, La Virtuosa, la figlia del re di Benares; e poco dopo, quando fu nel fiore degli anni suo padre la diede in sposa al figlio del re del Vidarbha, suo vicino. Tuttavia col passare del tempo, fra lo sposo ed il padre di Susila scoppiò una guerra furibonda. In una sola tremenda battaglia molti dei suoi figli e nipoti furono uccisi.
Fece dunque costruire una pira gigantesca e vi pose sopra i cadaveri dei suoi figli. Con le sue mani appiccò il fuoco alla pira, e quando le fiamme ruggirono si gettò nel fuoco. La vampa divenne immediatamente fresca e trasparente; la pira divenne un laghetto e in mezzo all’acqua Susila trovò se stessa, ma nelle spoglie del santo Narada. Il dio Visnù, tenendolo per mano, lo stava conducendo fuori dal laghetto, chiedendogli con un sorriso ambiguo: «Chi sono i figli di cui lamenti la morte?». Narada pregò allora che gli fosse concessa la grazia di ricordare quest’esperienza per tutto il tempo a venire, e chiese inoltre che il laghetto, come fonte iniziatica, potesse divenire un luogo sacro di pellegrinaggio. Questa versione è riportata nel libro di Heinrich Zimmer, Miti e simboli dell’India.
L’essenza del racconto sta nello svelamento che la Maya è l’Esistenza stessa sia nella sua forma visibile, peritura e transeunte, sia nella sua essenza invisibile, perenne al di là di ogni dualismo. Il Mondo, per l’induismo, è, infatti, mayamaya, cioè «costituito dalla maya»; è questa la conoscenza che il mito si propone di svelare attraverso la capacità magica, trasformatrice, delle acque.
Giustamente, fa notare Zimmer, che qui l’acqua rappresenta la sostanza del principium individuations, poiché la nostra personalità individuale, consapevole, la psiche della quale siamo consci, il personaggio il cui ruolo impersoniamo socialmente o in solitario isolamento, è comunque nutrito, come in un microcosmo mentale ed emotivo, dall’elemento fluido dell’inconscio. Quest’ultimo di fatto rappresenta una potenzialità per larga parte sconosciuta, distinta dal nostro essere cosciente: molto più vasta, molto più complessa, potremmo anche dire segreta se non addirittura incomprensibile e paurosa, e che tuttavia ne rappresenta il fondamento profondo, la sostiene ed è in comunione con essa, le circola attraverso come un fluido vivificante, ispiratore e spesso perturbante, eppure in qualche modo da esso separata: come può essere simboleggiato da un velo che ci ondeggia dinanzi allo sguardo separando conscio ed inconscio.
Wendy Doniger, in Sogni, illusione ed altre realtà, ci rammenta che il potere della Maya non si esercita dunque sui fenomeni, poiché essi sono la Maya, bensì sulla consapevolezza dell’uomo: quanto più essa è ottusa - per paura, insicurezza, avidità, ignoranza - tanto più il velo si inspessisce divenendo alla fine un manto oscuro che ci separa dal senso della nostra stessa esistenza. Sollevare il velo della Maya, o renderlo traslucido, è allora un’esperienza iniziatica, come quella che ha vissuto il saggio Narada: egli, finalmente, apre gli occhi sulla Realtà sui generis che giace «dentro» i fenomeni apparenti, svelando lo sguardo con il quale l’uomo risvegliato guarda al Mondo.
IL DRAPPO DI ISIDE
Quid fuit, quid est, quid erit Ma la metafora del velo che copre l’essenza delle cose non è solo legata alla filosofia indiana, anzi: appare esplicitamente citata anche nell’antica opera di Plutarco Iside ed Osiride. Su quella che si diceva essere un tempo la tomba di Iside, vicino a Menfi, ci dice l’autore, era stata eretta una statua ricoperta da un velo nero. Sulla base della imponente e misteriosa figura era incisa questa iscrizione: «Io sono tutto ciò che fu, ciò che è, e ciò che sarà, e nessun mortale ha ancora osato sollevare il mio velo». Questo è il Velo di Iside, divinità antichissima che simboleggia la Natura, cioè la Natura naturans, ed al contempo la varietà delle sue varie forme: l’insieme cioè della Zoè e delle sue Bìos, secondo la distinzione greca tra la Vita senza caratterizzazioni, incondizionata, la Zoè appunto, e le sue espressioni caratterizzate, le Bìos.
Perché Iside è velata? Già Eraclito di Efeso, in uno dei suoi frammenti più discussi ci dice che «la Natura ama velarsi», ed infatti Plutarco, descrivendo la versione più comune del mito che lega Iside ed Osiride, così descrive il velo che copre la Dea in opposizione a quello che invece riveste il suo sposo: «Tinte di colori diversi sono la veste di Iside, a segno del suo potere sulla materia, la quale accoglie tutte le forme e tutte le vicissitudini subisce, potendo diventare luce e tenebra, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, inizio e fine. Ma senza ombra né varietà e la veste di Osiride, che ha un solo colore, quello delle luce. Il Principio, infatti è vergine di ogni mescolanza: l’essere primordiale ed intelligibile è essenzialmente puro. Così i sacerdoti non rivestono che una sola volta Osiride della sua veste, per subito riporta e non mostrarla mai né toccarla mai... La visione dell’Essere... non si può ottenere o percepire che in un solo istante». Questa visione mistica della realtà al di là del velo che la ricopre è esattamente quella che propone Eraclito con il suo frammento sul nascondimento della Natura. Egli intende darci una traccia di come superare il dualismo che separa l’uomo dalla realtà intima delle cose.
KANT E SCHOPENHAUER
Dopo più di venticinque secoli da Eraclito ritroviamo una interpretazione politico-etica del velo della Maya nell’opera di Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, dove il filosofo cerca di innestare sulla visione del pensiero occidentale contemporaneo, duale e scisso, quella orientale, ricongiungente e non duale. Schopenhauer parte infatti dalle categorie di Kant, con la nota distinzione tra fenomeno e noumeno (o cosa in sé), per rovesciarle completamente o meglio, ricongiungerle.
Per Kant, notoriamente, il fenomeno è la realtà, o almeno l’unica realtà conoscibile e accessibile agli «a priori» che informano la mente umana; per Schopenhauer invece il fenomeno è illusione, sogno e parvenza: esattamente ciò che nella filosofia indiana abbiamo visto essere il Velo della Maya.
Ma, mentre l’essenza della realtà, o noumeno, che si nasconde dietro il fenomeno, per Kant restava inconoscibile, per Schopenhauer esso può essere percepito e di conseguenza è possibile squarciare il velo della Maya, ma come? Attraverso la «volontà di vivere»: la forza creativa e impersonale alla base di tutte le cose che ne costituiscono l’oggettivazione. Questa è allora l’esperienza fondante attraverso cui possiamo percepirci sia dall’esterno, come rappresentazione, sia dall’interno come «vissuto diretto», come corpo vivente di una Bìos immersa pienamente nel flusso della Zoè. Non è questo allora che informa di sé l’esperienza di Chris Burden? In Deadman, non solo la realtà corporea dell’artista, ma la sua stessa essenza vitale, il suo Invisibile, è separato dallo sguardo diretto solo da un sottile velo che può essere squarciato in ogni momento. Per questo Arthur Danto nel suo La destituzione filosofica dell’arte, in particolare nel capitolo Arte e perturbazione, prendendo in considerazione queste forme di performance le classifica come «arti della perturbazione», nel senso che sono in grado di rendere indistinguibile i confini tra artefatto e realtà.
Riferendosi a Deadman, Danto la definisce una «perturbazione» perché quel gesto è in grado di ridisegnare i confini tra arte e vita: qui la «perturbazione» consiste nell’infrangere la distanza tra le due per includere la realtà come componente artistica effettuale. In tal modo si elimina la distinzione tra arte e realtà: «Burden avrebbe potuto essere ucciso, sapeva che sarebbe potuto succedere, e voleva che questo fatto facesse parte dell’opera e che fosse ciò a cui si rispondeva quando si rispondeva emotivamente all’opera. Non accadde, ma sarebbe potuto accadere senza violare i confini dell’opera, perché l’opera incorporava quei confini come parte della propria sostanza«. Incorporava: non il corpo che si fa arte attraverso un gesto estremo, ma il gesto estremo che si fa corpo, restituisce corporeità alla vita.
ARENDT ED ERACLITO
La linea interpretativa che lega disvelamento e rinascita, potere della mente e creazione personale e collettiva del Mondo, è spinto alle sue estreme conseguenze esistenziali da Hanna Arendt nell’incompiuto La vita della mente. Già Giorgio Colli riferendosi al frammento di Eraclito, traduce «Natura» con «Nascimento» e dunque: «Il Nascimento ama nascondersi». Nel commento è chiarito che «Natura» è qui intesa come Natura trascendente, la Natura naturans, il «Principio» che nonostante abbia creato le apparenze, i fenomeni, si mantiene inaccessibile ad uno sguardo puramente raziocinante e scientista. Sicché Natura è l’Origine, come dice Angelo Tonelli nel suo Eraclito, dell’Origine: «Ciò che origina si cela, come mistero, dietro l’apparenza delle cose che origina, pur manifestandosi anche attraverso di esse. Ogni manifestazione del principio è anche suo nascondimento: tale l’ambiguità del cosmo in cui viviamo, e di tale ambiguità il sapiente reca consapevolezza. La conoscenza diventa flusso dinamico, tensione al congiungimento con ciò che origina».
ESTETICA FRAGILE
Ma oggi chi è in grado di catalizzare il nostro stupore tanto da farci ritrovare nella quotidianità un accesso alla «totalità non manifesta»? E ancora, chi coniuga insieme i concetti di Schopenhauer e l’estetica di Arthur C. Danto, incarnando con la propria «volontà di vivere» una vera e propria performance di «arte perturbazionale»? Certo i migranti. Questi corpi che attraversano lo spazio, autentiche metafore viventi, squarciano il velo di una realtà per noi ancora invisibile. Per la sensibilità narcotizzata e secolarizzata dell’Occidente, quelle che consideriamo sovente non-persone, arrivando da oltre le Colonne d’Ercole del nostro sguardo sul quotidiano sono in grado, mercé la loro fragilità, di generare e trasmetterci una «volontà di vivere» che può agire da controveleno della nostra mortificazione morale. La fragilità si ribalta così nella forza di chi non ha nulla da perdere.
La consapevolezza di questo contare nulla per l’Occidente liberista permette ai migranti di spingersi al di là del già visto, al di là del conosciuto: se la mia vita è senza valore per voi che non mi vedete- accecati dalla Maya del mare - allora io me le riprendo sotto i vostri stessi occhi rischiando la morte. Massima fragilità uguale massima resilienza: massima negazione potenziale, la morte, massima affermazione in atto, la mia volontà di vivere.
Il malessere perturbante che ci assale alla loro vista e che nessuna misura di «sorvegliare e punire» può cancellare dall’anima, è in realtà generato dall’oscura consapevolezza che il nostro insensato stile di non-vita dipende in definitiva dal loro non-essere. La performance permanente della loro «apparizione» sui nostri territori afferma così l’emergere di una soggettività che invece vorremmo affondare insieme ai loro corpi. Ogni espressione performativa migrante sdrucisce allora la compattezza della Maya biopolitica che impedisce di accedere alla nostra stessa «volontà di vivere». Questa semplice evidenza diviene dunque l’inizio di una sfida che ha come posta emozionale la nostra stessa percezione del Mondo. Il velo diviene a poco a poco traslucido: balugina la luce delle ombre splendenti di chi affronta il rischio supremo pur di affermare la dignità della propria esistenza.
La morte di Dio libera l’uomo o lo priva di ogni senso etico? Due classici visti da Leo Strauss nella crisi della modernità. Resta incerto l’esito del conflitto tra ragione e rivelazione. La fragilità degli ideali illuministi alla luce della terribile catastrofe di Weimar
di Mauro Bonazzi (Corriere della sera, La Lettura, 23.10.2016)
Ci si chiede sempre cosa sia un classico. Leo Strauss non avrebbe avuto dubbi: è chi aiuta a capire i problemi. Come Baruch Spinoza, ad esempio. Strauss gli si era avvicinato quasi per caso, su invito dell’Accademia per le Scienze del Giudaismo. Non se ne allontanò più. La ragione della lunga frequentazione è facile da intuire: chi meglio di Spinoza, emarginato dalla sua comunità per l’empietà delle dottrine professate, il pensatore radicale per eccellenza, poteva servire come guida per indagare il grande problema della modernità, lo scontro tra religione e filosofia (e scienza)? Lo Spinoza del Trattato teologico-politico è colui che più decisamente si era scagliato contro il principio di autorità e dunque la Rivelazione. Ma neppure lui era riuscito a riportare una vittoria definitiva. Quello che rende il suo attacco così interessante agli occhi di Strauss è il fallimento: neanche Spinoza è riuscito a dimostrare la superiorità di filosofia e scienza rispetto alle verità rivelate.
Certo, riconosce Strauss, filosofia e scienza godono ormai di maggior prestigio, nel discorso pubblico, rispetto alle tradizioni religiose. Nel mondo disincantato (il riferimento corre ovviamente a Max Weber) in cui viviamo non c’è più posto per miracoli e profeti. Ma il maggior prestigio di filosofia e scienza rispetto alla religione non si fonda sulle basi solide di una confutazione autentica. Perché se è vero che la Rivelazione non riesce a sottomettere la filosofia, non meno vero è che la filosofia non riesce a debellare la Rivelazione: dimostrare (per via di ragionamento o ricorrendo all’esperienza concreta) che Dio non esiste è impossibile. Così come è impossibile dimostrare che esiste (è un fatto di fede, non di argomentazioni). Ed è questo che importa a Strauss: la persistenza della tensione tra due modi di considerare la realtà, diversi e incompatibili; è lo scontro tra Atene e Gerusalemme, come scriverà negli anni della maturità.
Ma già in quegli anni giovanili, l’analisi di Spinoza lo aveva aiutato a capire che la questione decisiva, in questo scontro, riguardava la (presunta) autonomia della ragione. Il progetto della modernità, che si propaga fino ai nostri giorni, si fonda sulla convinzione che la ragione umana basti per rendere adeguatamente conto della realtà, permettendoci di costruire un mondo di pace e benessere. Il progetto è nobile e ambizioso. Ma anche realizzabile? Strauss aveva iniziato le sue letture nel pieno della crisi di Weimar: una bella espressione, la Repubblica di Weimar, degli ideali illuministici, che però stava implodendo di fronte a una realtà che si rivelava più complicata, refrattaria a farsi irreggimentare secondo schemi e categorie moderni. Non sono diversi i problemi che stiamo affrontando oggi. Intanto Strauss era finito esule, come molti altri, ebrei e non solo.
Il testamento di Spinoza (Mimesis) contiene la prima traduzione italiana dei saggi che Strauss era venuto scrivendo su questo tema tra il 1924 e il 1932, a completamento dell’opera principale La critica della religione in Spinoza, uscita nel 1930, e chiarisce alcuni punti decisivi della sua interpretazione. In particolare, questi lavori aiutano a meglio comprendere l’importanza della presenza di un ospite inatteso, a cui Strauss continuamente pensa quasi mai nominandolo. Friedrich Nietzsche. Senza di lui non si può capire che cosa sia davvero in gioco.
L’ateismo di Spinoza (perché a questo conduceva il suo razionalismo radicale) nasceva con un intento liberatorio, facendo propria la battaglia di Epicuro contro la paura degli dèi. Dobbiamo liberarci di Dio per smettere di vivere nel terrore, e tornare a guardare serenamente il mondo che ci circonda; seguendo le leggi della natura, non asserviti alla minaccia del peccato. Con Nietzsche si comprende che il vero problema è un altro: come pensare a un mondo senza Dio? Questa è la sfida a cui la rivoluzione scientifica, di cui sia Nietzsche sia Spinoza erano convinti sostenitori, ci invita. Liberati dal giogo degli dèi, gli uomini si sono fatti padroni del loro destino. Per farne cosa? Il Dio biblico, il creatore del cielo e della terra, era anche il garante dell’esistenza del bene e del male. Nell’universo retto dalla provvidenza divina vigeva la fiducia che esistessero valori oggettivi come il bene o la giustizia, a cui rifarci per le nostre decisioni. La morte di Dio mette in crisi la fondatezza di questa convinzione: dove contano solo le leggi fisiche di causa ed effetto ha senso parlare ancora di bene o male?
Qualche anno fa Leo Strauss ha goduto di un’improvvisa notorietà, diventando oggetto di critiche veementi e adesioni incondizionate, in un clima quasi da stadio (soprattutto negli Usa). Questo perché si riteneva che il suo pensiero politico stesse alla base dell’ideologia neo-conservatrice della presidenza di George W. Bush. Molti suoi allievi, in effetti, hanno occupato cariche di rilievo nell’amministrazione repubblicana. Ma le interpretazioni solo politiche della sua filosofia sono inutilmente riduttive. Il suo interesse è altrove: in un pensiero inattuale, capace di illuminare le questioni del presente grazie a una ripresa degli antichi - gli ultramoderni, li chiamava lui.
Sono celebri le due definizioni aristoteliche dell’essere umano: l’animale razionale e l’animale politico. Per natura tendiamo tutti al sapere, si legge all’inizio della Metafisica: conoscere, trovare il senso di ciò che siamo e di ciò che ci circonda, esprime un aspetto essenziale della nostra natura. Ma, a differenza di tanti altri animali, non possiamo vivere da soli, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri: siamo politici nel senso che viviamo sempre insieme (questa è la Politica). Sembra banale ma non lo è, perché desiderio di conoscenza e rispetto delle norme etico-politiche non sempre vanno d’accordo. Oggi lo sappiamo fin troppo bene. La ricerca scientifica procede impavida verso scoperte sempre più meravigliose, offrendoci possibilità fino a poco tempo fa impensabili. Che uso fare però di queste scoperte? Ci sono dei limiti per la ricerca? E chi li stabilisce?
Con altri termini, discutendo di vita contemplativa (dedicata alla conoscenza) e di vita attiva (dedicata alla politica), sono gli stessi problemi di cui si preoccupava Aristotele, seguito dai filosofi medievali che avrebbero poi influenzato Spinoza (l’ultimo degli ultramoderni, in fondo, perché consapevole di questa tensione insormontabile). L’impulso inestirpabile a conoscere che caratterizza i sapienti, nella misura in cui mette in discussione tutti i valori su cui si fonda la città, non rischia di essere eversivo? Forse che Socrate è stato condannato giustamente? Sono domande inquietanti, che almeno ci aiutano a chiarire la portata dei problemi - di problemi che sembrano scontati e che poi si scoprono d’impervia risoluzione. A questo servono i classici, come ha insegnato Leo Strauss, e per questo conviene continuare a leggerli.
Via le religioni (e la cucina) da ogni governo
Fernando Savater rilegge la lezione di Voltaire sull’intolleranza
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, La Lettura, 23.10.2016)
«Ci sono voluti sessant’anni per farci accettare quello che Newton aveva dimostrato; incominciamo appena adesso a salvare la vita dei nostri bambini col vaccino; non applichiamo che da poco tempo i giusti principi dell’agricoltura: quando cominceremo ad applicare i giusti principi dell’umanità?». Così Voltaire scriveva in una pagina del suo Trattato sulla tolleranza, pubblicato nel dicembre del 1763. Il 9 marzo dell’anno precedente a Tolosa era stato messo a morte il protestante Jean Calas, che una giuria aveva ritenuto colpevole della morte di un figlio «impiccato dal padre stesso» perché aveva espresso l’intenzione di tornare alla fede cattolica.
Voltaire si era convinto presto che quella condanna era l’ennesimo mostruoso errore giudiziario ispirato dal fanatismo manifestato dalla maggioranza cattolica della città. Nello stesso tempo aveva compreso il peso di quella che oggi chiamiamo opinione pubblica sulla vita dei singoli cittadini. Doveva scrivere nell’opera di teatro Olimpia il verso: «L’opinione fa tutto; è lei che ti ha condannato».
Poteva sembrare una resa, era invece l’inizio di una nuova battaglia. Nel giugno del 1764 aveva visto la luce il Dizionario filosofico portatile, che tutto era tranne che un dizionario nel senso usuale del termine; piuttosto un’arma filosofica contro i disastri prodotti da pregiudizi e superstizioni, disponibile per qualsiasi tipo di lettori, per il fatto che era trasportabile e facilmente consultabile, al contrario dei grandi volumi di «metafisica» destinati a una ristretta cerchia di eruditi.
Nella voce «Miracoli» del Dizionario si legge: «Un miracolo è la violazione delle leggi matematiche, divine, immutabili, eterne. Solo per questa definizione, un miracolo è una contraddizione in termini: una legge non può essere immutabile e violata»; e perché mai «per favorire gli uomini Dio dovrebbe alterare ciò che ha stabilito per tutti i tempi e per tutti i luoghi? I suoi favori sono già nelle sue stesse leggi». E nella voce «Abramo» (che apre la prima edizione) Voltaire diceva che era uno di quei personaggi «come Thot tra gli Egizi, l’antico Zoroastro in Persia, Ercole in Grecia, Orfeo in Tracia, Odino presso i popoli del Settentrione, che sono più noti per la loro fama che non per una storia ben accertata».
Bastava questo perché all’epoca l’opera di Voltaire fosse considerata un libro uscito «dal torchio di stampa di Belzebù!». E oggi? «È mercé dunque alla filosofia/ che in Europa vi son più lumi che pria,/ i mortali sono meno inumani,/ l’acciaio è spuntato, i fuochi lontani», verseggiava lo stesso Voltaire. Anche per merito suo il fanatismo sarebbe stato costretto a cessare guerre e roghi; però c’è da dubitare che sia davvero così.
Fernando Savater, uno dei maggiori intellettuali spagnoli contemporanei, nel suo Voltaire contro i fanatici (Laterza) si chiede «che cosa ci resta veramente di Voltaire? Ci resta l’esempio della sua militanza, (...) che non mirava semplicemente a modificare la nostra comprensione del mondo o la condotta individuale del saggio nel mondo, ma a modificare il mondo stesso (...); nessuno prima di lui si era accorto con tanta chiarezza della forza rigeneratrice che le idee possono esercitare sull’opaca e logora struttura della società».
Savater sottopone al lettore agili estratti dalle opere di Voltaire che illustrano la necessità di «separare ogni tipo di religione da qualunque genere di governo», in modo che «la religione non debba essere questione di stato in misura maggiore che la cucina». E i filosofi debbono «lavorare alla vigna e schiacciare l’infame». Gli infami sono i tanti «scellerati devoti» che impongono la condanna di opinioni e forme di vita diverse dalle loro. Soprattutto in questioni «spirituali». «Quanto più divina è la religione cristiana, tanto meno spetta all’uomo imporla; se Dio l’ha fatta, Dio la sosterrà senza di voi».
Per Savater sono ancora troppi i fanatici che hanno «l’hobby di uccidere». Resistere a costoro che ancora si sentono «crudeli come dèi», è importante oggi come all’epoca di Calas. E smettiamola di credere che l’immenso universo sia stato fatto da un nostro Dio solo per noi . Noi siamo piccolissimi atomi, «i cui occhi guidati dal pensiero hanno però osservato la Luna».
Il fondamentalismo religioso vuol cancellare il protagonismo della libertà femminile
di Lea Melandri (il manifesto, 21.05.2016)
Non si può negare il fatto che la religione sia un prezioso archivio della memoria degli individui e della specie, di vicende che stanno ai confini tra inconscio e coscienza. C’è la stupidità del fanatismo, ma ci sono anche sublimi simbolizzazioni, interrogativi che vanno alla radice dell’umano. È su questa stratificazione di simboli che va portato lo sguardo, riconoscendoli come proiezioni del modo in cui viviamo.
Il pensiero laico e il pensiero religioso sono in realtà imparentati, anzi «consanguinei», come dice Stefano Levi nel suo Laicità, grazie a Dio (Einaudi) che alcuni anni fa presentammo al Festival delle Letterature di Mantova: se la religione è quella che cerca le «cause occulte» delle cose, lo stesso fanno la filosofia e la metafisica. E la religione sembra avere la precedenza.
Ora, riflettere sul pensiero, sulle forme che ha preso nelle sue costruzioni, laiche o religiose che siano, vuol dire chiedersi innanzi tutto chi è il soggetto del pensiero e come si è configurata, nella storia che abbiamo conosciuto - opera di una comunità di soli uomini - la sua nascita. La consanguineità fra la religione e le altre costruzioni simboliche sta prima di tutto nel fatto di discendere dalla stessa matrice: quel «principio maschile» che - come scrive Bachofen ne Il matriarcato - «nell’ambito dell’esistenza fisica è al secondo posto, subordinato al principio femminile».
Da ciò si deduce che la «consanguineità» tra pensiero laico e religioso è molto più di una «contaminazione»; discende dal fatto che traggono la loro origine da quel soggetto unico maschile, da quella visione unica del mondo che ha violentemente e astrattamente differenziato - complementarizzato e posto secondo un ordine gerarchico- materia e spirito, natura e cultura, individuo e genere, corpo e pensiero, identificando e confondendo l’uscita dall’animalità e la nascita del linguaggio con il destino del maschio e della femmina.
La «consanguineità» sta dunque in quello che Otto Weininger - singolare figura di intreccio tra filosofia e religione, posta all’inizio del Novecento ed espressione della crisi della ragione occidentale, nel momento in cui avanza l’emancipazione femminile - chiama l’enigma del dualismo, collegandolo col peccato originale. Il corpo, la sessualità, comparendo sulla scena pubblica - sono gli anni della scoperta della psicoanalisi -, rappresentano una minaccia per quello che era stato il fondamento etico, filosofico/religioso della cultura occidentale, greca-romana-cristiana. In questo discorso appare chiaro come la trascendenza, su cui la religione costruisce il mistero di Dio, l’Essere perfetto, il Valore assoluto, è imparentata con la trascendenza che si è attribuita l’Io maschile. Alla donna, che rappresenta la sessualità, la materia, il non essere, e che perciò incarna per l’uomo la caduta, la colpa, si impongono regole morali superiori a quelle dell’uomo: la purezza, la verginità. Per essere «redentrice» dell’uomo deve «essere uccisa e riportata in vita». L’Io maschile e Dio si pongono così su una linea di continuità: L’Io (Dio) come tempo è volontà. La volontà diventa valore (l’uomo diventa Dio) quando esce dal tempo. Per concludere allora, l’essenza dell’idea di Dio e la sua importanza per l’umanità, è che «Dio è l’uomo perfetto», e l’uomo perfetto, come Gesù Cristo, è Dio.
Le figure e i gesti che la mente religiosa proietta sull’oscurità del mistero parlano dunque dell’origine della civiltà maschile, del modo con cui ha inteso differenziarsi dalla natura, dal corpo femminile che genera e che porta perciò i segni dei limiti mortali dell’umano. Parlano della ri-nascita o ri-generazione del mondo spostata sul versante di un principio maschile spirituale: una genealogia di padre in figlio dove la donna è mediazione simbolica, contenitore.
Forse è proprio in queste rappresentazioni così vicine all’origine e a quelle domande insopprimibili dell’umano, che hanno a che fare con la nascita, la morte, il diverso destino toccato all’uomo e alla donna, che la religione esercita un fascino così duraturo. Nella rappresentazione del sacro, si può dire che il soggetto maschile della storia ha tentato di dare un senso, volgendolo a proprio favore, al mistero della nascita e della morte, all’uscita della coscienza dall’animalità, all’angoscia dell’originaria in distinzione col corpo della madre, al bisogno di differenziarsi e di controllarne la potenza.
La rivalsa delle religioni oggi può essere legata alla crisi delle istituzioni politiche, ma anche al protagonismo che hanno preso il corpo, la sessualità e la libertà femminile.
Si può pensare che la durata e il fascino della religione venga dal fatto che l’aspetto sessuato e sessuale lì è esplicito - non rimosso -, teatralizzato e spettacolarizzato.
Vi si possono leggere confusi amore e violenza, il sogno di armonia degli opposti e il sessismo, il razzismo. Ecco perché non stupisce leggere il recente interesse giornalistico sul rapporto fra donne e religioni, soprattutto monoteistiche, nel volume appena pubblicato da Giuliana Sgrena, con il titolo provocatorio Dio odia le donne (Il Saggiatore).
La religione parla di madri, figli, padri, nascite, morti e resurrezioni, dannazione e riscatto della carne, dell’umano, del femminile. La religione sublima in modo evidente il rapporto tra i sessi, le figure di genere nella loro ambiguità: figure che strutturano rapporti di potere ma anche d’amore, che tengono dentro la complementarietà e la spinta alla riunificazione. Affrontando le problematiche del corpo, dei sessi, il femminismo ha portato la laicità al suo fondamento primo. Ma non ha affrontato la religione direttamente, nelle sue costruzioni simboliche, così come non ha affrontato il sogno d’amore, la fusionalità, l’unione mistica. Forse è proprio da ricercare in questa ambiguità la ragione prima del consenso di cui la religione gode anche presso le donne.
La trappola della verginità
Tempi presenti. «Dio odia le donne», il nuovo libro di Giuliana Sgrena, uscito per Il Saggiatore. Una ricognizione, anche in chiave autobiografica, sulle ambiguità e le efferatezze delle religioni perpetrate ai danni del corpo (e della mente) femminile
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 21.05.2016)
Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico.
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni. Ma quale famiglia, quale Dio?:
Il Papa: non confondere la famiglia voluta da Dio e altre unioni
Francesco alla Rota romana: «La Chiesa continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali non come un ideale per pochi ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Serve una maggiore preparazione, un «nuovo catecumenato»
di ANDREA TORNIELLI (La Stampa, 22/01/2016)
CITTÀ DEL VATICANO
Nel percorso sinodale sul tema della famiglia, la Chiesa ha «indicato al mondo che non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Lo ha detto Papa Francesco ricevendo nella Sala Clementina giudici, officiali e avvocati della Rota romana, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
Bergoglio ha ricordato che la Rota «è il tribunale della famiglia» ma anche «il tribunale della verità del vincolo sacro», due aspetti «complementari» perché la Chiesa mostra l’«amore misericordioso di Dio» verso le famiglie, «in particolare quelle ferite dal peccato e dalle prove della vita», e allo stesso tempo proclama «l’irrinunciabile verità del matrimonio secondo il disegno di Dio».
Dopo aver sottolineato come il Sinodo abbia ribadito che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione», Francesco ha detto che la Chiesa, tramite il servizio della Rota, «si propone di dichiarare la verità sul matrimonio nel caso concreto, per il bene dei fedeli» e «al tempo stesso tiene sempre presente che quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato oggettivo di errore, continuano ad essere oggetto dell’amore misericordioso di Cristo e perciò della Chiesa stessa».
«La famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al “sogno” di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità», ha spiegato Francesco, ricordando che «Dio ha voluto rendere partecipi gli sposi del suo amore: dell’amore personale che Egli ha per ciascuno di essi e per il quale li chiama ad aiutarsi e a donarsi vicendevolmente per raggiungere la pienezza della loro vita personale; e dell’amore che Egli porta all’umanità e a tutti i suoi figli, e per il quale desidera moltiplicare i figli degli uomini per renderli partecipi della sua vita e della sua felicità eterna».
La famiglia, ha aggiunto, è «chiesa domestica» e «lo “spirito famigliare” è una carta costituzionale per la Chiesa: così il cristianesimo deve apparire, e così deve essere». E la Chiesa sa che tra i cristiani, «alcuni hanno una fede forte, formata dalla carità, rafforzata dalla buona catechesi e nutrita dalla preghiera e dalla vita sacramentale, mentre altri hanno una fede debole, trascurata, non formata, poco educata, o dimenticata».
A proposito del peso della fede personale circa la validità del matrimonio, Papa Bergoglio ha ribadito «con chiarezza che la qualità della fede non è condizione essenziale del consenso matrimoniale, che, secondo la dottrina di sempre, può essere minato solo a livello naturale». Infatti, il dono ricevuto nel battesimo «continua ad avere influsso misterioso nell’anima, anche quando la fede non è stata sviluppata e psicologicamente sembra essere assente». Non è raro che gli sposi nel momento della celebrazione abbiano «una coscienza limitata della pienezza del progetto di Dio, e solamente dopo, nella vita di famiglia, scoprano tutto ciò che Dio Creatore e Redentore ha stabilito per loro».
«Le mancanze della formazione nella fede e anche l’errore circa l’unità, l’indissolubilità e la dignità sacramentale del matrimonio viziano il consenso matrimoniale soltanto se determinano la volontà», precisa il Pontefice. «Proprio per questo gli errori che riguardano la sacramentalità del matrimonio devono essere valutati molto attentamente».
«La Chiesa - ha concluso Francesco - con rinnovato senso di responsabilità continua a proporre il matrimonio, nei suoi elementi essenziali - prole, bene dei coniugi, unità, indissolubilità, sacramentalità -, non come un ideale per pochi, nonostante i moderni modelli centrati sull’effimero e sul transitorio, ma come una realtà che, nella grazia di Cristo, può essere vissuta da tutti i fedeli battezzati». Proprio per questo è urgente, dal punto di vista pastorale, coinvolgere tutte la Chiesa nella preparazione adeguata degli sposi al matrimonio «in una sorta di nuovo catecumenato, tanto auspicato da alcuni padri sinodali».
Utopia
Quell’isola che non c’è diventata la madre di tutte le Costituzioni
La grande opera di Thomas More compie 500 anni
Non una fuga nel sogno: un modello a cui ispirarsi
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 08.01.2016)
Thomas More creò “Utopia” cinquecento anni fa, nel 1516, in età matura e mentre si stava avviando a una brillante carriera politica che lo avrebbe portato a essere cancelliere di Enrico VIII. Il divorzio del re segnò la rottura dell’Inghilterra con la Chiesa di Roma e la fine della carriera e della vita del cardinale cattolico More, giustiziato il 6 luglio del 1535 (santificato da Pio XI nel 1935 e proclamato da Giovanni Paolo II protettore dei politici).
“Utopia” é il capolavoro di questo grande umanista cristiano che Erasmo da Rotterdam descrisse come un credente ansioso di una fede verace e nemica di ogni superstizione, e che i bolscevichi immortalarono in un monumento posto davanti al Cremlino accanto a quello di Tommaso Campanella. Prima opera che porta questo nome, Utopia non é un libro semplice e sulle intenzioni del suo autore (che riconobbe la schiavitù e la subordinazione delle donne) gli studiosi non si trovano ancora d’accordo.
Certamente, si trattò di un progetto che rifletteva le condizioni storiche dell’Inghilterra del tempo, afflitta dall’intolleranza religiosa (alle soglie della Riforma protestante) ma prima ancora dalla miseria delle classi povere e dall’opulenza di un’oligarchia abituata al privilegio di rapina.
Utopia non disegna però un sogno d’evasione nella terra dell’abbondanza. Racconta una società in sintonia con l’etica dei moderni, dove il lavoro è onorato, anche se nessuno è costretto alla stessa mansione per tutta la vita; dove si rispetta un tempo lavorativo di sei ore giornaliere affinché ognuno abbia il tempo dello svago e possa coltivare rapporti affettivi e sociali, l’arte e la scienza.
In Utopia, la legge è uguale per tutti; la giustizia segue un dosaggio di oneri e di onori misurato secondo il servizio reso alla società, non l’appartenenza a un ceto o una classe; la vita pubblica aborre la retorica perchè menzognera; e infine, il popolo non è una platea addomesticata da retori e da legulei. Nelle città federate di Utopia si promuovono la cultura, la letteratura e l’arte; sono abolite le sofisticherie teologiche e metafisiche, si educano i giovani secondo i principi del metodo sperimentale, il più adatto a un popolo che si autogoverna e ha il potere ultimo delle decisioni; i cittadini delegano l’amministrazione a magistrati che sono scrupolosamente controllati; le amicizie e le parentele sono bandite da ogni relazione pubblica.
L’utopia non è propriamente un luogo di evasione dal presente, ma un esercizio di immaginazione che denuncia il disordine della società esistente e mostra i principi a partire dai quali è possibile correggerlo. L’isola che non c’è di More illustra le norme del ben vivere collettivo e privato secondo un ideale che appartiene alla natura umana come un dover essere che la ragione indica - non un assurdo, non un disegno che sta fuori della nostra portata.
L’utopia è, in questo senso, la matrice delle costituzioni moderne, delle leggi che i popoli scrivono nella loro fase creatrice, quando emergono da grandi sofferenze e sanno ragionare per grandi visioni, pensando non a quel che conviene a loro in quel momento e alla loro generazione, ma a quel che farà dignitoso il paese per le generazioni a venire.
Insieme al cinquecentesimo anniversario dell’Utopia di More, nel 2016 si celebrerà anche il settantesimo anniversario della nostra Repubblica, la matrice utopica della nostra società. L’Assemblea che si insediò dopo il 2 giugno 1946 segnò il carattere della nostra Costituzione, nata dalla lotta partigiana e guidata da partiti politici, da cittadini, cioè, con diverse idee politiche e capaci di convenire pur dissentendo. La capacità di immaginare il futuro è innervata nel presente, come un punto di riferimento senza il quale non ci è possibile fare scelte. L’utopia è una creazione esemplare di questa capacità. Un luogo che non c’è del quale non si può fare a meno.
di Roberto Esposito (la Repubblica, 08.01.2016)
Fin nel suo stesso nome - che rimanda a un luogo perfetto, ma inesistente - l’utopia presenta un’ambivalenza costitutiva, che percorre la sua intera storia. Sempre oscillante tra realtà e immaginazione, letteratura e politica, dogmatismo e critica, essa è stata alternativamente vista come prodromo del totalitarismo e come annuncio di libertà.
Ricondotta da alcuni alla Repubblica di Platone, essa è in realtà un genere essenzialmente moderno, risalente al sedicesimo secolo. Diversamente dai racconti utopici di matrice ellenistica - come quelli di Evemero, Ecateo, Giambulo -, che guardano a una mitica età dell’oro situata nel più remoto passato, l’utopia rinascimentale si rivolge piuttosto al futuro.
La stessa idea di “isola”, in cui è collocata da Moro, simboleggia lo strappo dalla terraferma della tradizione classica e cristiana. Certo, essa intende ricostruire una condizione di uguaglianza naturale, ma attraverso strumenti artificiali e una pianificazione di tipo tecnico. Non per nulla, soprattutto nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone, la scienza ha un posto di rilievo. Lo stato perfetto non è dato in natura, ma è il prodotto di una determinata progettazione umana. Proprio questo elemento di pianificazione integrale, volto alla produzione di una società perfetta, espone però l’utopia al rischio della degenerazione. Ben visibile nella Città del sole di Campanella, tale carattere ingegneristico percorre le utopie settecentesche e ottocentesche.
Neanche la critica di Marx al socialismo utopistico di Saint-Simon e Fourier, in nome di un socialismo scientifico, risulta immune da una tendenza totalizzante. Ciò spiega il ribaltamento del racconto utopico nella sua versione distopica operato, nel Novecento, nel Mondo nuovo di Huxley e in 1984 di Orwell.
Eppure questa condanna non chiude la storia dell’utopia, come dimostra il suo rilancio nello Spirito dell’utopia e nel Principio speranza di Ernst Bloch. Una volta caduta la pretesa prometeica della perfettibilità del genere umano, l’utopia conserva intatta la propria carica emancipativa nei confronti dei poteri esistenti. Si direbbe che essa resti valida a patto di non immaginarsi integralmente realizzabile - di restare un disegno aperto, incompiuto.
Come insegna Kant, le idee della ragione non sono destinate a concretizzarsi nella realtà, ma, se assunte come ideali regolativi, la possono spingere verso esiti apparentemente irraggiungibili.
L’idealismo ormai lontano dal mondo del lavoro
di Giancarlo Bosetti (la Repubblica, 08.01.2016)
Nonostante l’incandescente fantasia di Thomas More (o di Tommaso Campanella) la distanza tra l’utopia e una realistica riforma è esposta al tira e molla della retorica e all’interesse di chi deve pagarne il prezzo. Nell’isola inventata dall’inglese si lavorava sei ore al giorno, nella Città del Sole del calabrese solo quattro. Erano davvero utopie e lo sono rimaste. Ma per molti è rimasta utopia la limitazione a otto ore, anche dopo che una convenzione internazionale l’ha sancita come un diritto nel 1919. Ancora più utopia oggi la piena occupazione.
Il fatto è che a meritarsi cattiva fama non sono stati gli ideali, ma alcuni vizi che si accompagnano spesso all’utopia e fanno sì che venga regolarmente trasformata in incubo. Il vizio non è l’altitudine del desiderio, ma quello che i grandi critici dell’utopismo - due per tutti: Karl Popper e Isaiah Berlin - hanno identificato come il suo aspetto più pericoloso: la convinzione che si possa realizzare una società perfetta, esente dai comuni difetti - egoismo, avidità, opportunismo, eccetera. Il perfezionismo è dunque parente stretto del costruttivismo rivoluzionario, il quale ritiene, attraverso una élite che si auto-investe del mandato di conoscere la direzione della storia.
Che alcuni sappiano dove va quel fiume fa sì che i prezzi di sofferenza da pagare siano soltanto un inevitabile pedaggio per liberare il suo corso dagli impacci (Popper), mentre gli eletti che cucinano la storia continuano a rompere una quantità crescente di uova giustificandosi, come faceva Stalin, con il bisogno di fare una omelette, che però non arriva mai in tavola (Berlin).
La cura di questo vizio che tende sempre a ripresentarsi, incontenibile - il desiderio di purificare l’umanità accompagna anche le pulizie etniche - sta sia nel coltivare moderazione e gradualità delle riforme sia nell’accettare quella varietà e imprevedibilità di comportamenti che ripropongono l’evidenza del nostro essere fallibili. E diversi. È il dato inoppugnabile su cui Voltaire costruiva l’edificio della tolleranza.
La grandezza degli ideali non è dunque da reprimere. Non era, non è gigantesco l’ideale della cittadinanza cosmopolitica? O quello della pace perpetua in un mondo tutto democratico? Eppure proprio in quelle stesse pagine in cui ne parlava, Emmanuel Kant, che perfezionista non era, collocava la celebre riflessione sul «legno storto», come quello di cui è fatto l’uomo, da cui non si ricaverà nulla di interamente diritto. «Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura».
Il “principio speranza” oltre i calcoli della ragione
di Vito Mancuso (la Repubblica, 08.01.2016)
A proposito di utopia occorre sempre ricordare quanto scriveva Oscar Wilde nel 1891: «Una carta geografica che non comprenda l’isola di Utopia non merita nemmeno uno sguardo, perché escluderebbe l’unico paese al quale l’Umanità approda in continuazione» ( L’anima dell’uomo sotto il socialismo). La capacità di utopia però, chiamata da Ernst Bloch «il principio speranza», è imparentata con un superamento della ragione calcolante e per questo all’uomo coi piedi per terra appare spesso irrazionalità e follia. Non è quindi un caso che, qualche anno prima del capolavoro di More, Erasmo da Rotterdam avesse dedicato a lui l’Elogio della follia (1509), composto proprio nella casa londinese di More.
Ma cosa permette di distinguere l’utopia dall’immaginazione fantastica e dall’illusione? È il fatto che l’utopia rimanda sempre a un luogo, a un topos; di esso, di cui si dichiara consapevolmente l’inesistenza qui e ora, si avverte il bisogno per mostrare quale potrebbe e dovrebbe essere il volto più vero dell’esistenza. L’utopia perciò non è fuga dal reale, ma penetrazione nella sua essenza più autentica grazie a una più acuta capacità di visione.
Prendiamo l’essere umano: limitandosi a ciò che appare, può essere considerato solo un grumo di istinti e di voglie, ma nella luce del pensiero utopico diviene soggetto di armonia, creatore di bellezza, promotore di giustizia e apparire come il fenomeno più nobile prodotto dall’universo.
Qual è la prospettiva più realistica? La prima. Qual è quella più produttiva? La seconda. Lo statuto epistemologico del pensiero utopico appare quindi paradossale: si fugge con la mente in un luogo inesistente ma, ben lungi dall’alienarsi nelle illusioni, si diviene più capaci di incidere sulla realtà. Non ci si lascia scoraggiare dalla pesantezza del quotidiano, ma lo si trasforma.
Si impone però la domanda decisiva: qual è la sorgente del pensiero utopico? Come nominare cioè quella dimensione dell’essere più alta rispetto alla piana del reale e per questo capace di illuminarla e di riformarla? Un tempo si chiamava Dio e l’utopia era religiosamente connotata. Poi la si chiamò società socialista e l’utopia divenne politicamente connotata. Il libro di Thomas More, come già la Repubblica di Platone, rappresenta una felice sintesi delle due prospettive, all’insegna di un’ideale teologia politica e di una politica spiritualmente connotata. Stiamo ancora aspettando di vedere la realizzazione di qualcosa di simile ma credo che coltivarne la prospettiva sia una forma di felice utopia.
MARIA MANTELLO -L’8 dicembre, l’Immacolata Concezione, tra paganesimo e controllo sociale *
Apuleio, nelle Metamorfosi ci presenta questa apparizione:
È Iside che appare al protagonista Lucio, al momento della sua iniziazione-rinascita, ma la descrizione potrebbe tranquillamente riferirsi alle tante raffigurazioni di Maria, la madre del dio fatto uomo, La Vergine dall’Immacolata Concezione.
L’inno di s. Ambrogio
Nel suo inno di Natale, s. Ambrogio loda Il Redentore che ha fecondato Maria col suo "mistico soffio": «Veni, Redemptor Gentium, / Ostende partum virginis/ ...Non ex virili semine/ Sed mystico spiramine/ Verbum Dei factum est caro/ Fructusque ventris floruit» (Vieni Salvatore delle Genti, Rivelaci il parto verginale... non da seme umano/ ma da soffio mistico/ il Verbo di Dio si è fatto carne/ e il Frutto del ventre maturò). Si tratta del mito della fecondazione attraverso l’orecchio ("conceptio per aurem") usata dai padri della Chiesa per spiegare la verginità della Madonna e che richiama il mito pagano dove si credeva che la donnola, fosse fecondata attraverso l’orecchio. E questo molto probabilmente, come ha osservato uno dei più grandi esperti di mitologia, Karoly Kerenyi, suggerì ai padri della Chiesa che Maria fosse stata fecondata da dio attraverso le parole dell’angelo annunciatore.
Simone Martini, nella sua celebre "Annunciazione" conservata agli Uffizi, fa spiccare sul fondo oro della tavola, su cui si stagliano le figure dell’Angelo e della Madonna, le parole del versetto del Vangelo di Luca: Ave gratia plena, Dominus tecum, che si dipartono dalla bocca dell’angelo fino all’orecchio di Maria. E ancora, in un’altra celebre "Annunciazione" del 1486 di Carlo Crivelli (conservata alla National Gallery di Londra), c’è un raggio che dal cielo si dirige all’orecchio della Madonna.
Dalla Dea madre alla Madre di Cristo
La grande dea madre, che simboleggiava la nascita della natura tutta, con Maria, diviene la piena di grazia, l’ancella del Signore, la madre "puro spirito" di un figlio "puro spirito".
Tuttavia, nella società contadina dove la fertilità era considerata un valore primario, Maria sostituisce questi culti, prendendo il posto di Demetra, nel caso della madonna del frumento a Milano o quella del melograno di Pestum, al pari di tante altre Madonne sparse nel mondo dall’evangelizzazione cattolica.
A Capo Colonna, vicino Crotone, su una scogliera che domina il Golfo di Taranto, si ergeva un maestoso tempio dedicato ad Era Lacinia, protettrice dei matrimoni. Qui nel mese di maggio le donne di Crotone si recavano in processione per chiedere grazie alla dea. Oggi questa stessa processione si svolge, ma in onore di Maria Theotokos, la Madre di Dio.
Nell’"Apocalisse", Maria è la donna rivestita del sole, con la luna sotto i piedi e una corona di stelle sul capo. E così è raffigurata nella stragrande maggioranza dell’iconografia che ha accompagnato fino ai nostri giorni il suo culto.
Una divinità lunare, dunque, come anche s. Bonaventura nei Proverbi la definiva: «che bella luna deve essere stata Maria quando quell’eterno Sole fu da lei pienamente ricevuto e in lei concepito (7.20)». Le divinità lunari, per la relazione della luna con le maree, erano associate al mare, ma anche alle stelle, come guida nella navigazione, impresa certamente non facile nell’antichità.
E Maria diviene la Stella maris, che guida nelle tempeste, e nel buio della notte del peccato (d’ogni fedel nocchier fidata guida, come la definì anche Petrarca), ma anche la protettrice dei marinai.
Originariamente, stella del mare (stella maris) era Afrodite, la prima a comparire sul far della sera, e la prima a scomparire alle prime luci dell’alba. Al Vespro era detta Espero, e all’alba Fosforo. Un canto mariano assai noto ne conserva la memoria nella metabolizzazione della stella Maria: De l’aurora tu sorgi più bella, coi tuoi raggi a far lieta la terra. E fra gli astri che il cielo rinserra/ Non vi è stella più bella di te...
Attraverso Maria, la piena di grazia, quindi, i simboli cosmici della fertilità della terra e delle acque, legati alle dee madri continuano a veicolare.
A ricordo della vita cosmica, l’Immacolata Concezione conserva sul suo mantello il colore azzurro del cielo e del mare; il serpente sotto i suoi piedi. Il serpente cosmico, da simbolo di perenne vitalità e di conoscenza, è stato però trasformato dal cattolicesimo in emblema di peccato, e, primo su tutti, quel peccato originale di cui tutta l’umanità sarebbe macchiata, e sul quale si è costruita e incentrata l’ideologia del riscatto attraverso la grazia del cattolicesimo (cfr: Maria Mantello, Sessuofobia e caccia alle streghe nella storia della chiesa, in "Lettera Internazionale", n°69).
Ecco allora, che alla Vergine Maria si fa schiacciare il serpente, il peccato di unione sessuale. Ma nello schiacciare la vita concreta terrena, tuttavia, sono proprio quei simboli evocativi così carnali, che continuano a veicolare.
L’Immacolato concepimento della Madonna e di Cristo...
Il peccato originale, com’è noto, costituisce la base e il punto di partenza del Cristianesimo. Il sacrificio sulla croce del Dio-uomo, infatti, sarebbe inconcepibile sul piano dottrinario senza la presupposizione di un tale peccato, che quel sacrificio giustifica ai fini della salvezza escatologica di un’umanità “macchiata” e altrimenti condannata dal Dio padre alla dannazione eterna.
Poiché “il peccato” imbratta ogni nato bisogna che Cristo, il Dio-uomo, che proprio al riscatto da quella colpa originaria è stato preposto ne deve essere assolutamente immune.
Teologi ed ecclesiastici si preoccupano, allora, che sia concepito in un grembo immacolato.
Così in suo Decretale del 392 scriveva Papa Siricio: «Gesù non avrebbe deciso di nascere da una vergine, se non fosse stato certo della sua assoluta castità: che il suo grembo, in cui il corpo del Signore si sarebbe formato, dominio dell’Eterno Re, fosse stato insudiciato da seme maschile. Chi sostenesse questo non penserebbe in modo difforme dai perfidi ebrei».
Il concepimento ebraico narrato nella Bibbia da Isaia, dove «una giovane donna concepirà e partorirà un figlio e lo chiamerà Emmanuele» (7,14) è pertanto, trasformato dalla Chiesa in parto virginale.
Il mito pagano della partenogenesi lo si trova anche nel mondo classico e serviva a conferire una sorta di eccezionalità a personaggi illustri: si pensi a Platone (fonte: Diogene Laerzio) e ad Augusto (fonte: Svetonio) figli di Apollo, o ad Alessandro figlio del fulmine (fonte: Plutarco). Ma il cristianesimo, spogliatolo d’ogni significato metaforico, lo assume come fatto biologico reale.
La giovane donna fertile, l’alma della narrazione ebraica d’Isaia, diverrà allora Vergine: prima, durante e dopo il parto.
In tanta ossessione virginale, però, si trascura, ad esempio, che il vangelo di Marco, scritto attorno agli ultimi trenta anni del I secolo, parli esplicitamente di fratelli e sorelle di Gesù: «Non è costui il falegname, il figliuolo di Maria, e il fratello di Giacomo e di Giosè, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» ( Marco, 6.3).
Del resto il vangelo di Matteo, non escluderebbe rapporti matrimoniali tra Maria e Giuseppe, ma rinviarli semmai a dopo la nascita di Gesù: «ma egli (Giuseppe, ndr.) non ebbe con lei rapporti coniugali, finché ella ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù. » (Matteo, I. 25). Ma per la Chiesa romana, la madre del Cristo sarà la sempre vergine, secondo la definizione della Volgata di s. Gerolamo (morto nel 420 ca.), dove gli originari termini ebraici di fratelli e sorelle sono opportunamente sostituiti con quelli di cugini e cugine.
L’ossessione della castità e il fiat mariano
La difesa della castità nella terrena famiglia del Gesù cristiano è talmente importante per la dottrina cattolica che la stessa Vergine Maria si vuole concepita senza macchia e lo stesso Giuseppe, suo sposo, è fatto vergine, nonostante il protovangelo di Giacomo (del II secolo), seppure allo scopo di salvaguardare inviolato l’imene della Madonna, parli di fratellastri di Gesù (evidentemente, i figli avuti da Giuseppe da precedenti nozze).
Ma la madre del Redentore non è solo la Vergine, è anche l’Ancilla Domini.
Mentre in tutti gli altri casi il “miracolo” creazionistico, il “dono divino” della vita avviene, infatti, servendosi di un maschio, nel caso di Gesù esso è realizzato direttamente da dio.
Anzi, il dio-maschio evidenzia tutta la sua forza di dominio e d’onnipotenza proprio in virtù di questo concepimento virginale, dove la partecipazione all’evento della “prescelta Maria” è risolta nella comunicazione del fatto avvenuto e, per giunta, attraverso terzi: l’angelo. Alla donna-Maria, allora, non resta che far pronunciare il famoso fiat.
Un fiat ed una verginità che percorrono tutta la dottrina cattolica, e che ai giorni nostri in particolare papa Wojtyla ha riaffermato con forza con l’enciclica Redemptoris Mater.
Il dualismo Eva la strega - Maria la santa
Il mito dell’Incarnazione e della Madre Vergine, risponde ad un ben preciso criterio d’economicità asessuata: sostituire e contrapporre alla prima donna, Eva, una nuova prima donna, Maria.
Assai esplicite, già nel III secolo, le affermazioni in tal senso.
Ad esempio, s. Ireneo (morto intorno al 202) dichiara: «Come la razza umana fu condannata alla dannazione per colpa di una vergine (Eva, ndr.) [...] l’astuzia del serpente fu vinta dalla semplicità di una colomba». (Adversus Haereses, I, 5-19).
Ma è tutto il mito dell’incarnazione cristiana per il riscatto dell’umanità dal peccato originale a strutturarsi su una sorta d’incontaminata purezza: con la casta Maria, che si contrappone alla peccatrice Eva; col casto Cristo, il nuovo capostipite di un’umanità redenta, che già s. Paolo aveva sostituito ad Adamo per la fondazione della primigenia eternità cristologia (cfr: I Corinzi 15-22; II Corinzi 5-17; Romani 5-14).
Un uomo nuovo ed una donna nuova, dunque, servono per riscrivere il Genesi ed annunciare il Verus Israel. Solo così il cristianesimo può porsi come Verità superiore, Eterna, Rivelata, Unica ed Universale, quindi Cattolica, da kata olou (katà òlou) che significa “in tutto”, “su tutto”.
Come nasce il dogma della Madre di Dio immacolata
La questione dell’incarnazione divina di Cristo ha lacerato il mondo cristiano fin dai primi secoli. Tra il IV e V secolo, sulle controversie cristologiche si giocano non solo le lotte di potere dei vescovi, ma anche quelle per la superiorità del cristianesimo sull’ebraismo e sul mondo pagano. E’ in questo contesto che Maria prende il posto delle Grandi Dee della classicità e, seppure tra forti contrasti teologici, diventa la madre di Dio.
Nel V secolo il vescovo di Costantinopoli, Nestorio, faceva notare come Maria non potesse essere generatrice di Dio, ma solo madre dell’uomo: anqrwpotòkos (anthropotòkos). Affermare il contrario avrebbe significato, infatti, negare la preesistenza di Dio all’evento e, quindi, la Sua stessa eternità. Una questione non soltanto logica ma inerente alla sostanza dell’unico dio: «se dio avesse una madre - scriveva Nestorio al Vescovo di Roma Celestino I - la vera fede non ne risentirebbe? Maria non ha messo al mondo una divinità perché l’essere creato non può essere madre di colui che l’ha creato».
Come andò a finire è cosa nota: il Concilio di Efeso, nel 431, condannò come assurde ed eretiche le posizioni di Nestorio. L’artefice di tutta l’operazione era stato il patriarca di Alessandria, s.Cirillo. Questi si era distinto nella persecuzione contro gli ebrei: in Egitto si era impadronito di tutte le sinagoghe e aveva scacciato più di 100.000 ebrei da Alessandria, era stato il mandante dell’assassinio della filosofa Ipazia, violentata e fatta a pezzi dai suoi monaci analfabeti... E che adesso voleva affermare la sua supremazia tra le chiese d’Oriente e, pertanto, si affannava ad organizzare le sue orde di monaci fanatici, tutori della “pubblca morale” e processioni di fedeli osannanti alla Madonna, quella Vergine Maria che, proprio ad Efeso, la capitale del culto di Artemide, verrà proclamata madre di Dio: qeotòkos (theotòkos).
La questione della Verginità, però, non si chiudeva ad Efeso, giacché il V Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553 si preoccupava ancora di onorare Maria col titolo di "sempre vergine" e il Concilio Lateranense del 649 ne sanciva infine il dogma. Qualche secolo dopo, di fronte alla rivoluzione della Riforma protestante, Paolo IV, nel 1555, anno in cui egli istituisce anche gli obbligatori ghetti per gli ebrei, riaffermava con forza la verginità di Maria (ante partum, in partu, post partum).
Del resto, di fronte a fermenti rivoluzionari che pongono in crisi il cattolicesimo e i suoi poteri, non ci sarà sempre una Madonna, magari piangente, posta a vestale di Controriforme e Restaurazioni?
La purezza della Vergine Maria come potente baluardo per la riaffermazione della dommatica cattolica!
Per le donne, un modello di castità cui conformarsi che la mitologia cattolica amplifica nella moltiplicazione di sante, quasi sempre vergini e, comunque, in lotta contro il “peccato della carne” al quale non cedono, a costo di torture e sofferenze tremende.
Pio XII e Santa Maria Goretti
Da quest’ampia schiera citiamo s. Maria Goretti anche perché riproposta ai nostri giorni da Wojtyla, nonché dalla televisione pubblica italiana che alla vicenda della giovinetta, forse in omaggio al Vaticano, ha dedicato una propria produzione filmica.
La poveretta, morta nel 1902 sotto i colpi del pugnale del seduttore a cui non aveva ceduto, veniva santificata nel 1950 da Pio XII con queste parole: “Dio è meraviglioso nei suoi santi...Egli ha dato alle giovani del nostro mondo crudele e degradato un modello e una protettrice, la piccola vergine Maria che ha santificato l’inizio del secolo col suo sangue innocente”.
Maria Goretti era continuamente portata ad esempio - come papa Pacelli voleva - e la visita alla sua casa era considerata una tappa importante per la formazione di una ragazza perbene.
Erano gli anni dell’avanzata delle sinistre e della partecipazione delle donne alla politica, “una deriva di degradazione” a cui la Chiesa cercava di contrapporre come deterrente il modello virginale mariano di cui la povera Maria Goretti rappresentava un fulgido esempio.
Pio IX l’Immacolata Concezione, Pio XII l’Assunzione in cielo della sempre Vergine
Del resto, circa un secolo prima, quando il processo risorgimentale italiano stava ponendo irreversibilmente in crisi la teocrazia pontificia, un altro papa oggi santo, Pio IX, non aveva utilizzato anch’egli ad efficace fortilizio il mito della purezza mariana, stabilendo nel 1854 il dogma dell’Immacolata Concezione della Madonna?
Pertanto, rientra perfettamente nella logica ecclesiale che Pio XII, nello stesso anno della santificazione di Maria Goretti, si sia preoccupato anche di definire il dogma dell’Assunzione della Madre di Cristo in cielo: “Era necessario che il corpo di colei, che anche nel parto aveva mantenuto la verginità, rimanesse incorrotto anche dopo la morte”. (Munifecentissimus Deus, definizione del dogma dell’Assunzione in anima e corpo alla gloria dei cieli di Maria, Vergine Madre di Dio)
Così la Madonna, che aveva avuto la patente del Concepimento Virginale, di essere rimasta sempre Vergine, di essere stata essa stessa generata senza contaminazione sessuale (Immacolata Concezione), proprio per la garanzia di castità sua e familiare, aveva assicurato anche il dogmatico lasciapassare d’incorruzione corporea per il cielo.
Maria Mantello
A un civile e savio relativismo e a una umana tollerante convivenza, c’è chi sente il bisogno di contrapporre, con gesta eclatanti, la fedeltà a un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 27.11.2015)
«Il fanatismo sta alla superstizione come il delirio sta alla febbre. Chi ha delle visioni e scambia i sogni e le proprie fantasie per profezie, è un entusiasta. Chi scambia la propria follia per un impegno ad uccidere, è un fanatico». Lo scrive Voltaire nel 1764.
Il fanatismo ha radici antiche, profonde. E ubbidisce a una drastica e volontaria semplificazione della realtà. Chi conosce la complessità del mondo, sa che il diverso va prima di tutto conosciuto, poi avvicinato, per confrontarsi, per discutere, per contrattare. Il mondo è ampio e diversificato. Chi semplifica, non vuole conoscere l’altro, vuole solo eliminarlo. Tagliare una testa è piu semplice, piu chiaro, più decisivo che dialogare. Ma per tagliare le teste bisogna disporre di armi, libertà di movimento e potere; per questo il fanatico cercherà di procurarsi armi e denaro, senza tanti scrupoli, con l’imbroglio, il furto, la rapina se necessario. Per il semplificatore, il fine giustifica sempre i mezzi.
«Una volta che il fanatismo ha incancrenito il cervello, la malattia è quasi incurabile», continua Voltaire, «i fanatici sono persuasi che il Dio che li ispira sia al di sopra delle leggi e che il loro entusiasmo sia la sola legge che devono ascoltare... Cosa rispondete a chi dichiara che è sicuro di meritare il cielo scannandovi?».
Riconosciamo questa logica, che oggi praticano i ragazzi dell’Isis, altrimenti detto Daesh. È una logica perversa, ma seducente nella sua radicale brutalità. Ci vuole intelligenza, sensibilità, rispetto, pazienza, per stabilire dei rapporti reali col mondo. Il Dio semplificatore, come la regina folle del Paese delle Meraviglie, non conosce né rispetto, né pazienza, ma solo un bisogno sbrigativo e spietato di imporre la propria funebre volontà: via quella testa, via quell’altra! Presto, presto, tagliate, tagliate! «Sono di solito i furfanti a guidare i fanatici e a mettere il pugnale nelle loro mani», continua Voltaire nella sua lucida analisi che sembra scritta oggi : «Le leggi, la religione, non valgono contro questa peste degli animi. La religione, lungi dall’essere per loro un cibo salutare, si trasforma in veleno... essi attingono i loro furori dalla stessa religione che li condanna».
Si ricordano due avvenimenti che sono rimasti incisi a fuoco nella memoria storica, per la loro atrocità. Il caso dei protestanti fatti a pezzi dai cattolici al tempo della Regina Elisabetta: «I borghesi di Parigi corsero la notte di san Bartolomeo ad assassinare, scannare, fare a pezzi e gettare dalle finestre i loro concittadini che non andavano a messa». E quello della setta di eretici ismaeliti che, guidati da un famoso «Vecchio della montagna», diffusero, nel secolo XI, il terrore in tutto il Medio Oriente con i loro assassini a freddo, contro chiunque giudicassero non in linea con il loro Dio. Si chiamavano Hashishiyyin (uomini dediti all’hashish), da cui deriva la parola «assassino». Il Vecchio della montagna, Hasan i-Sabbah, prometteva loro un paradiso di freschi ruscelli e di vergini disponibili e innamorate, se si fossero lasciati uccidere; ma solo dopo avere pugnalato e sgozzato un buon numero di miscredenti. Il Vecchio aveva un carisma straordinario e i ragazzi andavano a morire pieni di entusiasmo, sicuri della meravigliosa ricompensa. Ora ci chiediamo: erano solo criminali o ragazzi bisognosi di assoluto in un mondo che aveva perso ogni rapporto con l’utopia? Ragazzi che scambiavano il coltello per la chiave che avrebbe aperto loro le porte del paradiso?
La cronaca non parla mai del genere femminile. Non era pertinenza delle donne tagliare le gole. Le donne vinte diventavano schiave, proprietà del vincitore assieme alle pecore, ai cavalli, alle mucche. Merce pregiata che si poteva comprare, vendere, utilizzare a proprio piacimento. Solo quando si ribellavano all’orribile destino, venivano sgozzate pure loro.
Il fanatismo non appartiene a una cultura piuttosto che a un’altra, non ha niente a che vedere con l’osservanza di una fede. Forse non è neppure una espressione dell’odio che anima gli esseri umani. Chi odia è anche capace di amore. Il fanatico respinge sia l’uno che l’altro. Piuttosto si direbbe un bisogno profondo e non ascoltato di trascendenza. Un bisogno che, non soddisfatto con umanità, si trasforma in un mostruoso innamoramento della morte e del nulla.
Il continuo battersi il petto gridando che siamo noi i responsabili, siamo noi i colpevoli, suona un poco ridicolo a dire la verità e anche presuntuoso: come se fossimo noi a determinare le svolte nelle coscienze degli esseri umani. Perché dovremmo togliere a questi ragazzi la libertà di scelta e di azione? Anche se loro non riconoscono il libero arbitrio, anche se sostengono che è tutta colpa di chi ha cominciato per primo ad aggredire, che sia il crociato o il colonialista, è presuntuoso ritenere che siamo responsabili di quello che fanno. Certamente l’Europa ha compiuto dei grandi errori, ma ciò non toglie che ogni generazione, ogni persona, risponde delle proprie scelte e delle proprie azioni. Le giustificazioni suonano paternalistiche e grottesche.
Le religioni si sono sempre divise, anche con ferocia, su questo problema di fede: Dio esiste in quanto essere pensante, con un corpo riconoscibile, o è una entità soprannaturale, una mente che comprende tutto e tutto capisce, ma non può intervenire perché è piu simile al cosmo infinito che all’uomo finito? Le piu feroci guerre esplose all’interno delle fedi monoteiste si basano su questo punto: se Dio è onnipotente, perché permette il male? Se invece Dio può solo il bene, poiché il male spetta al demonio, allora Dio non è onnipotente, ma solo una parte che combatte contro un’altra. E come distinguere il bene dal male? Ed esiste un male universale, riconosciuto da tutti? Quel bene e quel male stanno in un Libro Sacro o nella coscienza degli uomini?
I Sunniti e gli Sciiti si sono combattuti per secoli su questi interrogativi. Fagocitando e distruggendo altri gruppi religiosi come i Mutaziliti (nel IX secolo) e le varie tendenze mistiche dei Sufi. Chi crede che la volontà divina sia simbolica e ideale, è più disposto ad accogliere e adattarsi alle trasformazioni storiche. Chi invece concepisce Dio come un Padre assolutista, tirannico e geloso, è portato a ritenere che la realtà sia immobile, che la storia non conti, e la ragione non abbia alcun valore. Di solito le grandi Chiese hanno scelto l’interpretazione simbolica e idealistica, (spesso paradossalmente unita a una precettistica rigorosa), perché ha permesso loro di adeguarsi ai cambiamenti, di mutare visione del mondo, di diventare più umane e di durare nel tempo.
Ogni tanto però, non si sa come, esplode un corto circuito. A un civile e savio relativismo e a una umana tollerante convivenza, qualcuno sente il bisogno di contrapporre, con gesta eclatanti, la fedeltà a un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo. Pretendendo di applicare i precetti del VII secolo dopo Cristo. Come se da noi a qualcuno venisse in mente di applicare le regole della Bibbia, quando la schiavitù era legale, la vendetta era l’unica forma di giustizia e gli adulteri e gli omosessuali venivano lapidati.
Come fingere di non sapere che c’è stato Cristo, che ha contraddetto tutto quello che era considerato normale a quei tempi, ha introdotto la pratica dell’umiltà, del rispetto dell’altro, della povertà, dell’uguaglianza? Per questo è stato crocefisso, ma alla fine il cristianesimo ha trionfato sui cultori della Bibbia. E come fingere di non sapere quanto è costato raggiungere il concetto della divisione fra Stato e Chiesa? Quanto è stato doloroso stabilire i valori dei diritti civili?
L’accettazione della immanenza o meno di un Libro Sacro sta alla base della saggezza di una religione. E certamente papa Francesco questo l’ha capito bene e sta dando un esempio straordinario. Ma la logica, la tolleranza, il rispetto, suonano come parole blasfeme per chi ha messo al posto del cuore una spada appuntita, per cui ogni abbraccio diventa una ferita mortale.
Voglio finire queste brevi riflessioni, da una parte con le parole di Voltaire, che ci raccomanda, nei momenti di crisi, di affidarci alla filosofia, perché i filosofi non fanno la guerra ma ragionano e il ragionamento è «il solo bene che abbiamo da contrapporre alle furie degli invasati». E, dall’altra parte, con le parole del poeta Ibn Arabi, uno dei piu grandi poeti del XIII secolo, deriso e attaccato per le sue posizioni conciliatorie: «Un tempo io mi offendevo col mio compagno se la sua religione non era uguale alla mia, ma ora il mio cuore ammette ogni forma. Il mio cuore oggi è un prato per le gazzelle, un chiostro per il monaco, una Kaaba per il pellegrino, per le tavole della legge e per il sacro libro del Corano. Seguo la tenerezza e dovunque mi portano i cammelli d’amore, là trovo la mia religione, la mia fede».
PSICOANALISI E FILOSOFIA. DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE....
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
ANDIAMO IN ESTASI
di Alfredo Giuliani *
PER ANNI ho letto trattati e saggi di psicoanalisi come fossero romanzi, zibaldoni poetici, peripezie antropologiche e terapeutiche di nuovi intrigantissimi sciamani. Sono stato toccato nel vivo della fantasia, nell’ ombelico dei sogni, nel cocuzzolo mitologico-filosofico. La letteratura psicoanalitica ha finito con l’ occupare uno spazio cospicuo della mia biblioteca.
A un certo punto della vita ho fatto una soddisfacente esperienza, né troppo breve né troppo lunga, del confessionale junghiano. Che tutto questo mi sia servito per conoscere un po’ meglio me stesso e gli altri, a percepire la forza e le deformazioni degli impulsi, per congetturare la presenza di campi e confini invisibili, mi sembra ovvio.
Per me il fascino principale dell’ analisi risiede nel metodo e nell’ idea che lo muove: che si possa riuscire a conoscere (o riconoscere) ciò che non sappiamo di sapere, ossia la nostra distorta ignoranza o sepolta sapienza. Infatti, c’ è un’ altra cosa ovvia che troppo spesso viene dimenticata: gli oggetti di cui discorre la psicoanalisi sono tanto arcaici e lontani quanto i modi della nostra vita emozionale, affettiva e mentale.
La psicoanalisi è un’ arte maieutica, è un teatro alchemico e manierista, è l’ avventura psichica, come aveva intuito lo Zeno di Italo Svevo; e l’ operatore, lo sciamano, lo esercita a proprio rischio, modificandosi continuamente. Certo, esistono anche sciamani mediocri o cialtroni; ma questo è un altro problema. Nel fascino esercitato dall’ analisi c’ è un fondamentale elemento critico. Io devo supporre che il nostro sciamano possieda i criteri della Ragione e della patologia psichica; e insieme con lui, grazie alla delicata e penetrante manovra di tali criteri, mi avventurerò nel mio sepolto e confuso sapere.
E’ vero che per l’ analisi non esiste la malattia, esiste il malato. Eppure, oggigiorno la relazione terapeutica (che dovrebbe configurarsi come una trasfusione di ritrovamenti e ideazioni dall’ analista al paziente e viceversa) corre due pericoli perfino grotteschi. In sostanza, che sia l’ analista sia il paziente si abbarbichino al già noto. L’ uno per l’ accumulo di conoscenze e interpretazioni trasmesse e collaudate. L’ altro perché subisce la frammentazione temporale delle sedute e perché tende a incanalarsi nella prevedibilità delle cose da dire. Prevedibilità che non finisce mai, attirata dal miraggio di comunicare tutto.
In un libro uscito presso Adelphi nel 1983, Elvio Fachinelli ha indagato con molta finezza questi meccanismi; ma il fatto curioso è che il suo Claustrofilia individua un’ area psicologica che circoscrive diversi fenomeni, tutti individuati dalla ricerca del chiuso (immagine o modello: l’ utero materno). Sicché dalle considerazioni sui limiti e il tempo dell’ analisi si arriva ai sogni di soggiorno intrauterino e al tempo stagnante, estatico, vissuto dal feto nella sua unità duale con la madre (relazione contraddittoria di co-identità).
Se si tiene conto che esperienze di tipo protonirico sembrano presenti nel feto negli ultimi mesi della gravidanza, mentre maturano le funzioni del suo sistema nervoso centrale, e quindi un inizio di vita mentale e sensoriale si sviluppa prima della nascita, ecco che ci si può azzardare a supporre che il bambino non ancora nato avverta nella sua estatica dimora l’ oscura e terrorizzante intrusione di un terzo! La claustrofilia sarebbe dunque un sentimento naturale, acquisito nel soggiorno intrauterino (casa-fortezza, bellissimo giardino, buia piscina ondulante).
L’ avventura psichica comincia assai prima del trauma della nascita; ma, in fondo, le madri sensibili non l’ avranno sempre sospettato? E proprio riflettendo sul tempo stagnante del soggiorno intrauterino, su quel tempo estatico fuori del tempo che a volte ritorna nei sogni dei pazienti, e che si lascia plausibilmente ipotizzare come protoattività mentale secondo le recenti acquisizioni della neurofisiologia, Fachinelli è arrivato al suo appassionante nuovo libro, La mente estatica (Adelphi, pagg. 202, lire 20.000).
Scrittore lucido, sobrio ma vibrante, dotato di un bel garbo stilistico insolito tra i suoi colleghi, Fachinelli non ricorre pressoché mai al formulario gergale della psicoanalisi. Rigoroso nel pensiero e nello stile, non si adatta però completamente alla forma del resoconto scientifico; non lo appagano del tutto neppure le flessibili maniere del saggio.
Per lui un libro deve argomentare una sequenza di sorprese. Così La mente estatica presenta alla rovescia i capitoli d’ una intrepida peregrinazione esplorativa. Prima i risultati: l’ affiorare della percezione estatica, la scoperta che la nostra civiltà si è difesa dalla nozione di estasi attribuendola soltanto a stati di rapimento mistico o religioso, oppure confinandola nel patologico.
Poi la ricognizione storica di esperienze estatiche, per exempla: Meister Eckhart, Dante, il matematico Poincaré, Proust, Bataille e l’ inaspettato Moses Herzog, protagonista dell’ omonimo romanzo di Saul Bellox. Quindi: resoconti di varie esperienze, letture, note ai margini del tema, sondaggi rapsodici del tempo estatico. Segue un approfondimento e ampliamento del motivo già trattato in Claustrofilia: la disponibilità del feto, e qui soprattutto del neonato, alla percezione estatica (unità sublime con la madre). E infine: un sottilissimo esame di alcuni scritti di Freud (e di Lacan), che a detta dell’ autore costituisce l’ antecedente di quanto abbiamo letto nei primi due terzi del libro.
La struttura anomala della Mente estatica è in questo capovolgimento, che fa risaltare l’ assemblaggio delle parti. I capitoli, tanto diversi tra loro, sono scorci, passaggi, giri, percorsi a volte tortuosi, oppure misteriosamente rettilinei, di uno stesso labirinto. Come capita spesso quando si consultano i nostri sciamani, i loro discorsi sembrano inoltrarsi in zone dove le frontiere si annullano. Ma l’ oggetto che quei discorsi evocano con cauta suggestione lo riconosciamo sùbito. Ma s, l’ estasi! Chi può dubitare della sua diffusione profana? Non si dice comunemente: mi ha mandato in estasi, era in estasi, e così via? Lo si dice magari con una sfumatura di enfasi comica, ma anche in quella forma impoverita la parola attesta una parvenza di specialissima condizione esperibile da chiunque. Specialissima e banale! Quale portentosa contraddizione.
Ma l’ opinione di Fachinelli è che non sia più lecito separare dogmaticamente considerandoli incompatibili come si fa ora i differenti livelli dell’ esperienza estatica. Nell’ estasi di qualsivoglia natura si è come fuori di sé, fuori dal sé abituale, secondo il significato originale della parola greca ékstasis, e in questo stato si prova una contentezza, una gioia anch’ essa non abituale, un reale rapimento dell’ animo.
Tale excessus mentis, descritto dai mistici medioevali, è di fatto disponibile in ciascuno di noi. Lo si ammette generalmente nell’ ambito dei sentimenti, nell’ artista e in coloro che godono interiormente l’ opera d’ arte, quale essa sia. Ma come stacco rapinoso dal tempo, sospensione totale del vivere, quasi perdita del respiro, come attimo vuoto che ti accoglie e ti perde (campo di tensioni da attraversare), la situazione estatica viene misconosciuta o cancellata. Si vuole interrompere, perché fa paura, quel movimento verso il nulla, che è familiare al mistico, ma non gli è peculiare.
Il profano teme l’ abolizione dell’ io, per angoscia arretra prima che la smisurata gioia del rapimento invada il vuoto. Peccato, non sa quello che perde. Ma una spiegazione c’ è: si ha terrore della gioia eccessiva (stato che si pone al di là del piacere comunemente inteso) poiché essa è contigua alla pulsione di morte (il vecchio Freud l’ aveva intuito). Mi viene in mente la saggia e bella Porzia del Mercante di Venezia, quando nel terzo atto perora a se stessa: Mòderati, amore, reprimi la tua estasi, trattieni la tua gioia, frena questo eccesso!.
Lo sciamano, ancora una volta, ha attivato un vortice di pensieri che ci toccano nel cocuzzolo e nell’ ombelico. Alcuni di tali pensieri sono futili. L’ estasi degli antipatici sarà anch’ essa antipatica, o varrà la metà? E quella degli sciocchi, varrà poco più di niente? Fachinelli sembra dare la preferenza all’ estasi degli intelligenti. Ma l’ estasi, di per sé, sarà indifferente; cadrà dove vuole, come soffia il capriccioso Spirito biblico? Se è un tipo particolare di percezione, non si potrà attenderla e provocarla con un certo metodo? E chi si droga non è forse un estatico coatto?
Dice Fachinelli: l’ estasi non è soltanto nelle sue epifanie riconoscibili; è anche nella sua irradiazione al resto. Ma allora l’ attimo estatico avrebbe una inimmaginabile potenzialità trasformativa. Io credo che sia proprio così, ma ne traggo conseguenze personali e non saprei inferirne effetti teorici d’ interesse generale. Della gioia eccessiva non si può parlare. Il silenzio la custodisce, e tuttavia... essa parlava apertamente in certi romanzi che hanno segnato la nostra giovinezza.
Trovo strano che Fachinelli non si sia ricordato di Dostoevskij; nel suoi romanzi, penso principalmente a L’ idiota, c’ è un vero delirio di situazioni estatiche. Per alcuni dei suoi personaggi il cadere o il trovarsi fuori di sé, il provare una gioia smisurata, è una condanna, una frenesia ingovernabile che frantuma ogni convenienza, un segno grottesco-sublime del destino; potremmo dire che per loro l’ eccitazione estatica è il meglio dell’ incomprensibile. E può portare al peggio.
L’ argomento di Fachinelli ha mille risvolti, è vago e intenso e non vorrei abbandonarlo. La mente estatica è un libro di evidenze inquietanti, dove buio e luminosità, lontano e vicinoi accelerazione e immobilità, oggetti ancestrali e nuovissimi si proiettano in un misterioso deserto esistenziale popolato di sogni realizzati e di immani attese frustrate. Tempi e spazi percettivi hanno subìto un sommovimento, e anche l’ estasi brulica sulla terra in forme orripilanti.
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
* di ALFREDO GIULIANI (la Repubblica, 04 aprile 1989).
MANZONI, MARX, E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006). CON MARX, OLTRE...
IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA LA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
"SCORPIONE E FELICE". RIDENDO E SCHERZANDO, MARX TROVA "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO.
UN "PLATONISMO PER POPOLO": UNA "VOLKS-WAGEN" PER TUTTI! Una nota:
Il merito va alla curiosità di alcuni ricercatori e a coincidenze. Tutto iniziò due anni fa, quando l’International council on clean transportation (Icct) - una non-profit la cui missione è "migliorare le performance ambientali e l’efficienza energetica" nei trasporti "per il bene della salute pubblica e per mitigare il cambiamento climatico" condusse test in Europa per capire la reale performance di automobili dotate di motori diesel "puliti" *
MILANO - Ci ha impiegato oltre un anno per ammettere di fronte alle autorità americane che il suo è stato un tentativo deliberato di raggirare le leggi sulle emissioni, e non una questione di problemi tecnici. Ma Volkswagen l’aveva quasi scampata. Se non fosse stato per una serie di pure coincidenze e per la curiosità di vari ricercatori specializzati nelle quattro ruote, il gruppo tedesco forse non sarebbe mai stato scoperto a barare sui livelli di particelle inquinanti prodotte da milioni dei suoi motori diesel. E’ il New York Times a ricostruire i fatti.
Tutto iniziò due anni fa. Allora l’International council on clean transportation (Icct) - una non-profit la cui missione è "migliorare le performance ambientali e l’efficienza energetica" nei trasporti "per il bene della salute pubblica e per mitigare il cambiamento climatico" - stava conducendo test in europa per capire la reale performance di automobili dotate di motori diesel "puliti". Non particolarmente colpiti dai risultati, gli esperti del gruppo (tra le cui fila ci sono molti ex funzionari dell’agenzia per la protezione ambientale americana o epa, quella che venerdì scorso ha formalmente accusato Volkswagen di avere barato) decisero di condurre la stessa analisi su vetture negli Stati Uniti. Consapevoli del fatto che in Usa le norme sulle emissioni erano più stringenti e quasi certi che l’esito del test avrebbe fatto sfigurare le auto europee, i ricercatori si misero al lavoro senza immaginare che invece sarebbero inciampati in una delle maggiori truffe nel settore automobilistico della storia recente. In cerca di aiuto, l’Icct pubblicò un annuncio per la ricerca di un partner con cui testare vetture diesel. La West Virginia university decise di partecipare al bando.
"Testare veicoli leggeri a diesel in condizioni reali sembrava molto interessante", ha raccontato al Nyt Arvind Thiruvengadam, professore all’ateneo. "Ci siamo guardati e ci siamo detti ’proviamoci’". Alla fine quell’università fu selezionata, senza immaginare che avrebbe trovato un gruppo auto intento a barare. Per di più Volkswagen non era stata presa di mira. Per caso due dei tre veicoli a motore diesel acquistati per il test erano del gruppo tedesco. Ma ci volle poco per fare sorgere dubbi tra gli esperti. "Se sei imbottigliato nel traffico di Los Angeles per tre ore, sappiamo che la vettura non si trova nella condizione migliore per dare buoni risultati sulle emissioni", ha spiegato al Nyt Thiruvengadam. "Ma se si va a 70 miglia all’ora, tutto dovrebbe funzionare perfettamente. Le emissioni dovrebbero calare. Ma quelle di Volkswagen non scesero". E’ vero che le condizioni reali di guida sono condizionate dalla velocità, dalla temperatura, dalla topografia e da come il conducente preme sui freni. Ma la performance dei veicoli del gruppo tedesco sembrava piuttosto strana. A confermarlo fu poi il California air resources board (Carb), l’agenzia dello stato della California preposta a fissare standard sulle emissioni.
Venuto a conoscenza dei test in corso dell’Icct, il Carb decise di prenderne parte. E così i regolatori misero alla prova gli stessi veicoli analizzati dal gruppo di esperti aiutato dalla West Virginia university. I test si svolsero prima nei laboratori sofisticati del Carb, e l’esito sui due veicoli Volkswagen fu perfetto (il merito, con il senno di poi, fu il ricorso al controverso software chiamato "defeat device"). Ma quando quei due veicoli furono messi sulle strade del Golden state, le emissioni di diossido di azoto risultarono tra le 30 e le 40 volte più alte dei limiti di legge. Di conseguenza il Carb e l’Epa iniziarono le loro indagini su Volkswagen nel maggio 2014, come emerso dai documenti diffusi venerdì scorso. Il gruppo auto disse di avere scoperto la ragione di tali livelli alti di emissioni e propose un rimedio software.
Ciò risultò lo scorso dicembre in un richiamo di quasi 500.000 vetture in Usa. Ma il Carb continuò la sua inchiesta, non convinto che la performance su strada delle auto del gruppo sarebbe migliorata. Aveva ragione. Gli standard sulle emissioni continuavano ad essere violati, motivo per cui il Carb scelse di condividere quanto scoperto con l’Epa l’8 luglio. A quel punto l’agenzia per la protezione ambientale minacciò Volkswagen: o risolveva la questione o le autorità non avrebbero dato il via libera ai modelli 2016 dell’omonimo marchio e di quello Audi (una procedura generalmente di routine). Solo a quel punto arrivò l’ammissione del secondo maggiore gruppo di auto al mondo e con essa una crisi reputazionale smisurata.
Anche l’indifferenza è un tiranno: sconfiggetela con un romanzo
Solo l’immaginazione ci salva dalla dittatura
Dopo “Lolita a Teheran” un nuovo inno alla libertà dell’immaginazione: come salvare la democrazia con le storie di Twain, Lewis, McCullers
E nelle democrazie non spetta solo ai politici difendere la libertà: ogni individuo è tenuto a lottare contro l’indifferenza del benessere
di Azar Nafisi (La Stampa -TuttoLibri, 19.09.2015)
Se dovessi risalire alle origini della Repubblica dell’immaginazione, direi proprio che cominciò tutto a Roma, o con Roma! L’idea, per esser più precisi, mi venne la prima volta nel 2004, quando scrissi un discorso per il Festival internazionale delle Letterature di Roma. Qualche mese dopo, il 5 dicembre 2004 il «Washington Post Book World» ne pubblicò una versione diversa e abbreviata, con il titolo di Republic of Imagination. In onore della nascita italiana del mio libro e del ruolo che l’Italia ha avuto nel suo concepimento, vorrei riportare in vita quella magica serata di Roma aprendo e concludendo questo articolo con i passaggi che aprirono e conclusero il mio intervento di allora.
«Celebro questo paese che tanto spesso avevo già visitato con l’immaginazione prima che nella realtà, fra persone delle quali non parlo la lingua ma con cui condivido un linguaggio comune e universale che sfida tutti i confini geografici. Questa Italia vera e reale dove mi trovo oggi sarà sempre legata nella mia mente e nel mio cuore a quell’altra così piena di magia che ho scoperto per la prima volta grazie ai prodigi dell’immaginazione, nei film, nei romanzi, nell’arte e nella musica.
Da bambina, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Sophia Loren e Gina Lollobrigida non mi erano meno noti dei loro omologhi iraniani. In seguito, una schiera di registi con i nomi che quasi per magia finivano tutti con la stessa vocale, la “i”, lasciò un’impronta profonda sulle mie idee e i miei ideali: Fellini, Antonioni, Pasolini, Rossellini, Minnelli, Bertolucci.
Alcuni decenni dopo, quando qualcuno decise di cambiare il nome del mio paese da Iran a Repubblica islamica dell’Iran e parecchi cinema dove avevo visto quei film furono chiusi o incendiati, per otto anni di guerra, tra un oscuramento e l’altro, tra gli urli delle sirene e il fragore delle bombe, ho continuato a guardare con amici e parenti le videocassette proibite dei vecchi film della mia infanzia e della mia gioventù, insieme a quelli più recenti che venivano introdotti clandestinamente in Iran.
Quante volte, e in quanti soggiorni pieni di amici e semplici conoscenti ho visto Nuovo cinema Paradiso, e mi sono commossa senza pudori vedendo tutti quei baci censurati che toccavano il cuore anche dei meno romantici fra noi. Così, i colori di Tiziano, Caravaggio e Leonardo sono entrati a far parte delle luci e delle ombre dei miei sogni; e mi ricordavo le arie delle opere di Verdi come se fossero state scritte nella mia lingua.
«E poi c’era l’Italia che prendeva forma grazie all’immaginazione di scrittori e poeti, italiani e stranieri. Prima ancora di vedere i quadri di Filippo Lippi e Andrea Del Sarto li ho scoperti nelle poesie di Robert Browning, ed ero già stata a Roma, a Napoli, a Venezia e a Trieste grazie ai racconti di James, Mann, Moravia, Ginzburg, e di tutti quegli scrittori italiani i cui nomi terminavano in “o”: Eco, Calvino e il mio amatissimo Italo Svevo, di cui ero riuscita a scovare La coscienza di Zeno in una libreria dell’usato di Teheran.
L’altro giorno, in mezzo ai quaderni che avevo portato con me negli Stati Uniti dalla Repubblica islamica ho ritrovato un pezzetto di carta dove avevo annotato una citazione da Primo Levi; i suoi libri, con tutta la loro saggezza, mi hanno aiutato a superare alcuni dei momenti più difficili e disperati della mia vita sotto il regime islamico. Levi ci ricorda che, siccome la vita nel campo di concentramento riduce l’uomo a una bestia, “noi bestie non dobbiamo diventare ... e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà”.
«Ho visitato anche tanti altri paesi, la Francia, la Russia, l’Inghilterra, l’America, l’Egitto e la Turchia. Così, fin dalla prima infanzia ho avuto in mente la mappa di un mondo che non aveva confini geografici, ed era popolato da uomini come Dante, Racine, Shakespeare, Boccaccio, Goethe, Tolstoj e Hafiz. Sono stati quel mondo e i suoi illustri abitanti, quella pluralità di lingue, colori e leggi a farmi capire per la prima volta quanto la creazione e la salvaguardia di una vera democrazia dipendano da ciò che potremmo chiamare un’immaginazione democratica».
«I lettori nascono liberi e liberi devono rimanere» ricordò Vladimir Nabokov ai suoi studenti. Prima di essere una scrittrice sono stata una lettrice, e i miei libri celebrano l’atto della lettura». «Da bambina mi resi conto che attraverso le storie potevo invitare nella mia cameretta il mondo intero, ma presto scoprii che la realtà era fragile e che era facilissimo perdere tutto quel che rientra sotto il nome di casa. A tredici anni fui mandata a studiare in Inghilterra.
Fu la prima lezione che ebbi sulla provvisorietà e l’incostanza della vita. L’unico modo che avevo per ritrovare la mia Teheran perduta e sfuggente era affidarmi ai ricordi e a qualche libro di poesia che avevo portato da casa. In quelle notti tristi, nella piccola città umida e grigia di Lancaster, mi infilavo sotto le coperte con la borsa dell’acqua calda e aprivo a caso uno dei tre libri che avevo sul comodino: Hafiz, Rumi e una poetessa persiana contemporanea, Forugh Farokhzad.
Allora non sapevo che in quel modo mi stavo già costruendo una nuova casa, una casa portatile, che nessuno avrebbe potuto togliermi. In seguito, prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, mi adattai ad altre nuove case e le seppi accettare con l’aiuto degli amici e dei familiari che incontrai in Sterne, Swift, Fielding, le Brontë, Austen, Auden, Shakespeare, Melville, Poe, O’Connor, Faulkner, McCullers, Baldwin, Dickinson e altri.
Capii a fondo solo nel 1979 quanto sia importante l’immaginazione quando si lotta per conquistare e custodire le libertà individuali e i diritti umani. Quell’anno tornai in Iran subito dopo la Rivoluzione islamica, e compresi che l’esilio più duro è quello in cui non ci si sente più a casa in casa propria. Che i regimi oppressivi prima brucino i libri e poi uccidano le persone non era più un concetto astratto e non faceva più parte delle esperienze degli altri; era diventato un aspetto della mia realtà personale e una parte integrante della mia esperienza quotidiana.
Il regime islamico prese di mira innanzitutto i diritti umani e le libertà individuali, tutto quello che suggeriva differenza e diversità, e le sue prime vittime furono le donne, le minoranze e la cultura. Oltre a emanare leggi contro le donne e le minoranze, colpì gli scrittori, i poeti, gli artisti, i musicisti, i giornalisti. Disse che gli studi accademici, umanistici e sociali in particolare, erano nocivi. L’ayatollah Khomeini giunse a definire le università «la fonte di ogni sciagura»; erano più pericolose delle bombe. Presto furono chiuse in nome della «Rivoluzione culturale», la resistenza e i cortei universitari furono repressi, e così molti persero la vita o i mezzi per vivere.
Non sorprende che siano finite sotto attacco proprio le arti e le discipline umanistiche. I capolavori dell’arte, della letteratura e della filosofia minacciano le tirannie perché incoraggiano a pensare liberamente, immaginare, mettere in discussione le idee preconcette e l’autorità stabilita. Nessun sermone, nessuna forma di correttezza politica può sostituire la profonda empatia che nasce dall’immaginazione, quando questa ci fa vivere le esperienze di altre persone e ci apre gli occhi su idee e punti di vista di cui ignoravamo l’esistenza.
Nel 1997, al mio ritorno in America, mi accorsi in fretta che purtroppo i tiranni sanno molto meglio di certi nostri leader democratici come l’immaginazione e le idee insidino il loro dominio assoluto. Loro sono pronti a uccidere per soffocare la libertà di scelta e d’espressione, ma molti altri sono pronti a perdere il lavoro, la sicurezza e a volte anche la vita per proteggere il loro senso di integrità personale e il diritto di essere come vogliono. Si può arrivare a dire che ai dittatori faccia più paura la cultura democratica dell’Occidente che il suo potere militare, ed eppure la cultura democratica non è un monopolio dell’Occidente: appartiene a tutti quelli che lottano per lei e vi sono votati, a prescindere dalla loro provenienza. Come il totalitarismo, anche la democrazia può esistere ovunque, in Oriente e in Occidente, e non può sopravvivere senza un’immaginazione democratica.
Del resto, per sapere queste cose non bisogna necessariamente vivere in una società oppressiva. Oggi stiamo affrontando, non solo in America ma nella gran parte delle democrazie, una crisi che non si limita all’economia o alla politica; le nostre difficoltà economiche e politiche in realtà si fondano su una crisi di visione. La visione è, come disse Swift, «quel che è invisibile agli altri», e proprio per questo non può esistere senza l’immaginazione. Nelle democrazie non spetta solo ai politici ma a tutti i cittadini difendere quelli che considerano i loro diritti e libertà. E la libertà, come ci ha ricordato Saul Bellow, ha il suo prezzo; i suoi «patimenti».
Molti grandi scrittori ci ammoniscono che la sua nemica numero uno è l’indifferenza di quando preferiamo la comodità al rischio, il nostro appagamento alla compassione, l’ideologia e le banalità allo scambio autentico e all’apertura verso la critica e l’autocritica, l’avidità alla passione, l’intrattenimento alla riflessione, la correttezza politica alla curiosità e all’empatia. La mancanza di libertà attecchisce su una mentalità utilitaristica e mercenaria che promuove la ricerca del mestiere a discapito della ricerca della conoscenza, e così facendo isola la scienza e la tecnologia dalle scienze umane e dalle discipline umanistiche, privandole tutte del loro vero significato e obiettivo.
La domanda è: possiamo affrontare gli immensi problemi che ci si presentano oggi se non siamo capaci di immaginare il passato, di riflettere sul presente e di scorgere le opportunità di cambiare immaginando il futuro? Possiamo vincere le «guerre» contro il terrorismo senza la conoscenza autentica e l’empatia verso chi vive sotto la supremazia del terrore? Possiamo combattere i nostri nemici senza capire chi sono, perché agiscono così o, in altre parole, senza metterci nei loro panni? E possiamo salvare l’ambiente senza la scienza, che ce lo fa conoscere, e la capacità di immaginare le conseguenze dei nostri danni? Possiamo educare i nostri figli a diventare cittadini responsabili, a compiere le giuste scelte in questo mondo commerciale, in questa società dei consumi dove tutto, dai dentifrici ai candidati elettorali, viene confezionato, inventato, reinventato, e dove i soldi - non la passione e la compassione - regnano sovrani? Come rispondiamo a queste domande noi, in quanto lettori?
La questione dei diritti umani e dell’immaginazione non è al primo posto solo in Cina, in Iran o in Arabia Saudita. Credo, come Ray Bradbury, che «Non c’è bisogno di bruciare i libri, per distruggere una cultura. Basta fare in modo che la gente smetta di leggere».
Come affrontiamo questi temi noi, in quanto lettori? E i libri possono aiutarci a risolvere i nostri problemi reali? Mi sono sempre posta queste domande e sono sempre arrivata alla stessa risposta: anche l’immaginazione e il pensiero, come i diritti umani e la libertà, trascendono le barriere di tempo, luogo, nazionalità, religione, etnia, lingua, razza, genere, e creano uno spazio universale dove non solo celebriamo le nostre differenze ma riconosciamo la nostra comune umanità. Ecco perché sono insostituibili, in termini molto pragmatici; ci ricordano che tutti partecipiamo alla lotta umana e ci permettono di cogliere nel profondo la voce e il cuore di chi è diverso da noi. La democrazia dipende dall’immaginazione.
Perché fin dall’alba dei tempi gli uomini e le donne sentono il bisogno di raccontare storie? Le cose che dissi a Roma più di undici anni fa sono ancora vere: «E abbiamo bisogno di scrivere di quegli avvenimenti, di raccontare quello che è successo a noi e agli altri per salvarci dalla disperazione, per ricordare a noi stessi e al mondo che abbiamo vissuto e per raccontare la vita attraverso i nostri occhi, e così recuperare tutto ciò che i tiranni hanno voluto sottrarci.
Contro l’indecenza e la brutalità dei campi di concentramento, sulla soglia della morte e privi di qualsiasi diritto, uomini come Levi e Osip Mandel’štam cercarono conforto nella poesia. Per Levi, ricordare i versi di Dante e insegnarli a un compagno di prigionia era diventato più importante della razione quotidiana di pane, e più tardi volle scrivere di quella sua esperienza per comprenderla a fondo e per «ridiventare uomo, uno come tutti».
«Sono arrivata alla fine della mia storia, e vorrei concludere citando Italo Calvino, che ben sapeva la necessità per i singoli e le comunità di riflettere continuamente su se stessi, e di cambiare mediante l’empatia e la libertà che soltanto un’immaginazione democratica può assicurare: “... e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste”».
© Azar Nafisi, 2015
[traduzione di Mariagrazia Gini e Roberto Serrai]
Esce il nuovo libro di Odifreddi. Ecco un estratto
Quel duello senza fine tra scienza e buonsenso
L’evidenza inganna: se guardiamo verso l’alto sembra davvero che il Sole giri intorno alla Terra
Einstein ha distrutto la certezza che se due eventi sono simultanei per qualcuno, lo sono per tutti
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 09.06.2015)
C’È forse qualcosa di più evidente del fatto che il Sole e la Luna girano attorno alla Terra, una volta al giorno? Basta un minimo di osservazione, per accorgersi che entrambi gli astri si alzano, si muovono e si abbassano nel cielo, in maniera perfettamente analoga. Eppure, oggi sappiamo che questo genere di “evidenze” è inconcludente, per un duplice motivo: non solo, com’è ovvio, per l’appello all’autorità, ma anche, e più sorprendentemente, per quello alla supposta prova dei fatti. In realtà, benché le osservazioni ci presentino dati paralleli per il Sole e la Luna, il moto del Sole è solo un’illusione ottica, mentre il moto della Luna è una vera deduzione logica.
In altre parole, i fatti sono solo indizi, e ci vuol altro per saltare alle conclusioni: sostanzialmente, serve una visione scientifica, che permetta di discernere il vero e il reale dal falso e dall’immaginario. La caratteristica principale di questa visione scientifica sta nella capacità di saper andare oltre le apparenze, per capire le ragioni profonde dei fenomeni, e vedere il quadro generale della Natura.
Come si può facilmente immaginare, le ragioni profonde e il quadro generale contrastano sistematicamente con le ragioni superficiali e i quadri particolari, che costituiscono invece il cosiddetto “senso comune”. Il che spiega, allo stesso tempo, le resistenze e le difficoltà che gli scienziati incontrano nel diffondere le proprie scoperte tra la gente comune, appunto. Una lista delle idee più “evidenti” può addirittura fungere da indice per una ministoria della scienza, i cui capitoli raccontino come queste idee abbiano dovuto essere faticosamente scalzate, una a una, per venir rimpiazzate da altre che in origine erano semplicemente considerate “assurde”.
Cominciando dalla geologia, il computo dell’età della Terra basato sulle fantasiose genealogie bibliche portò nel 1650 il vescovo Ussher a una stima di circa 6.000 anni, ma salì vertiginosamente quando si cominciarono a usare metodi scientifici. Nel 1779 il conte di Buffon misurò il tempo di raffreddamento di una sfera di terra, e ne dedusse un’età del pianeta di circa 75.000 anni. Nel 1862 Lord Kelvin fece calcoli più sofisticati dello stesso genere, e arrivò a una stima tra i 20 e i 400 milioni di anni. Nel 1927 la scoperta della radioattività permise ad Arthur Holmes di alzare la soglia tra 1 miliardo e mezzo e 3 miliardi. E nel 1956 Clair Patterson sfruttò i meteoriti per arrivare alla stima attuale di 4 miliardi e mezzo. Il calcolo dell’età della Terra costituisce l’esempio archetipico del passaggio dal mito alla scienza: si sostituisce una favola con una teoria, che dapprima è enunciata in forma rudimentale e semplificata, e poi viene via via precisata.
Molte altre illusioni “evidenti” derivano invece da una visione antropocentrica, a misura d’uomo, che impedisce di guardare al mondo con il necessario senso delle proporzioni. Per accorgersi della rotondità della Terra, fu necessario allargare lo sguardo, fisico e mentale: ad esempio, osservare il progressivo apparire di una nave all’orizzonte, o il graduale mutamento delle costellazioni nei grandi viaggi in direzione Nord-Sud, o la forma dell’ombra prodotta dalla Terra durante le eclissi di Luna. E il trattato Sul cielo di Aristotele testimonia che la consapevolezza della sfericità della Terra era già stata acquisita ben prima della nostra Era.
Si dovettero invece attendere i Princìpi di geologia di Charles Lyell, tra il 1830 e il 1833, per accorgersi che i tempi geologici erano incommensurabili con quelli storici, e che piccole cause potevano alla lunga produrre grandi effetti: ad esempio, scolpire globalmente la superficie terrestre, nella maniera che a noi oggi appare localmente immutabile. Il principio del lento accumularsi di piccole variazioni fu una delle ispirazioni per L’origine delle specie di Charles Darwin, nel 1859. Ed è proprio nella biologia che le idee “evidenti” opposero, e ancora continuano a opporre, la più disperata resistenza a quelle scientifiche: prima fra tutte, ovviamente, quella della fissità delle specie, che la Bibbia supponeva create una volta per tutte da un intervento diretto del Creatore. Scalzata quella, l’evoluzionismo produsse effetti a catena: in particolare, l’idea che l’uomo non fosse altro che una variazione delle scimmie, oltre che l’ultima insignificante comparsa di una lunga storia. In realtà, solo la sistemazione definitiva dell’evoluzionismo è opera di Darwin.
L’idea che le specie potessero evolvere era stata introdotta molto prima: nella Lettera sui ciechi a uso dei vedenti di Denis Diderot, e nella Storia naturale generale e particolare del conte di Buffon, entrambe del 1749. E la prima teoria coerente e completa, ma sbagliata, era stata enunciata nel 1809 da Jean-Baptiste de Lamarck nella Filosofia zoologica.
Quest’ultimo introdusse anche un’altra idea “evidente” e dura a morire: l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, condivisa anche da Darwin, e scalzata soltanto nel 1883 dalla distinzione tra fenotipo e genotipo di August Weismann.
L’idea non “evidente” che ha causato le più furiose e durature resistenze fu però, ovviamente, quella del moto della Terra negli spazi celesti. Che a muoversi non fosse il Sole attorno alla Terra, ma la Terra attorno al Sole, fu proposto per la prima volta da Aristarco verso il 300 prima della nostra Era, e l’ipotesi gli procurò da parte degli stoici le stesse accuse di empietà che i cristiani scaricarono addosso a Galileo duemila anni dopo, nel 1633.
La soluzione del dilemma venne da un’altra idea non “evidente”, proposta da Cartesio e Galileo: il principio d’inerzia, secondo il quale le forze non servono a mantenere il movimento di un corpo, come suggerirebbe l’uso dell’acceleratore sulla nostra auto, ma a cambiarlo. Nelle mani di Galileo e Newton, il nuovo principio servì a eliminare una quantità di preconcetti della fisica: gli stessi che continuano tuttora ad alimentare la cosiddetta “fisica ingenua”, professata da tutti coloro che non sono dei professionisti.
In base al principio d’inerzia, un corpo in movimento non tende a fermarsi, o a cambiare direzione, a meno che non intervengano delle forze a costringervelo, come l’attrito dell’aria, o la forza di gravità. È la combinazione fra l’inerzia e la gravità a spiegare fenomeni tra loro tanto diversi quanto la caduta perfettamente verticale delle mele dagli alberi, e il permanere della Luna nella sua orbita.
La relatività di Einstein mandò invece in soffitta una delle idee più “evidenti” a proposito del tempo: che se due eventi appaiono simultanei a qualcuno, devono apparire simultanei a tutti. Invece non esiste un tempo universale, valido per tutti, e ciascuno di noi ha un tempo personale, valido solo per sé.
Analogamente, hanno dovuto essere messe in soffitta molte idee della chimica, che per secoli e millenni hanno alimentato i pregiudizi degli alchimisti e dei loro ingenui seguaci. Ad esempio, nessuno dei quattro elementi classici (terra, acqua, aria e fuoco) è un vero elemento, così come d’altronde nessuno dei due “colori” bianco e nero è un vero colore. E il calore non è prodotto da qualche fantomatica sostanza, come il flogisto immaginato nel 1667 da Johann Becher, ma dal movimento delle particelle che costituiscono un corpo o un gas. Particelle che, in maniera per niente “evidente”, sono sempre nello stesso numero in un dato recipiente, qualunque sia il gas che lo riempie a una data pressione.
Alla base di queste, e molte altre, mancate evidenze sta un’idea rivoluzionaria proposta da Democrito, divulgata da Lucrezio e confermata dalla fisica e dalla chimica moderne: l’atomismo. Esso mostra che, se non «siamo fatti della sostanza dei sogni», poco ci manca: gli atomi che ci compongono, infatti, sono quasi tutti vuoti. Ma non completamente vuoti come le idee “evidenti”, che la scienza si è assunta il compito di smantellare una a una, per liberarci gradualmente dalle pastoie dell’ignoranza e della superstizione.
Ieri come oggi, sulle orme del Maestro
Ignazio di Loyola, esercizi d’immaginazione per tornare a vivere la realtà di Cristo
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 12.06.2014)
Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, aveva un’immensa immaginazione, e la coltivava e la faceva coltivare dai padri gesuiti, quando essi eseguivano gli esercizi spirituali, il cuore dell’insegnamento praticato nella Compagnia.
Imponeva loro di fissare con la mente i grandi e minimi aspetti dell’immaginario cristiano: la nascita di Gesù, la sua infanzia, il battesimo, la tentazione, la passione, la crocifissione, la sepoltura, la resurrezione. I gesuiti dovevano rovistare con un’intensità implacabile ciò che portavano dentro il cuore: niente doveva sfuggire loro, nemmeno un sasso o una pianta o un filo d’erba dei sentieri che Gesù aveva percorso; nemmeno una parola che egli aveva pronunciato nelle sinagoghe o lungo il mare.
«Bisognava considerare da lontano la strada da Betania a Gerusalemme, se ampia o stretta, se piana o montuosa»: guardare la tavola a cui Gesù era seduto, i piatti, le bottiglie, i bicchieri. Così la mente dei gesuiti scendeva dentro se stessa; e apprendeva l’insegnamento che Gesù Cristo aveva depositato nel paesaggio che aveva percorso, o nella stanza dove era vissuto.
Quante volte Dio, o Gesù, o lo Spirito era apparso alla mente dei padri gesuiti! La natura di Dio era un dono: pronto a illuminare e perfezionare con i raggi della sua grazia il cuore dei padri. Era disposta a effondersi, sempre più generosa e più vasta; e a ricevere ciò che dagli uomini saliva verso di lui:
«Prendi, Signore, e ricevi/ tutta la mia libertà,/ la mia memoria,/ il mio intelletto,/ e tutta la mia volontà/ tutto ciò che ho e posseggo;/ tu me lo hai dato,/ a te, Signore, lo ridono;/ tutto è tuo».
Dio confortava, consolava, addolciva con una gioia inesauribile. «Ridete, figliolo, Ignazio disse a un novizio, e siate allegri nel Signore, poiché un religioso non ha nessun motivo per essere triste e ne ha mille per gioire».
Quando si voltavano indietro, i padri gesuiti cercavano di ritrovare la natura della propria anima: ciò che essa aveva di autentico, di originario, di puramente spirituale. L’emozione era grandiosa. Ma, al tempo stesso, essi trovavano in sé molte cose diverse: tumulti, peccati, passioni, disordini, sventure; gli effetti che la caduta aveva prodotto su ciascuno di loro. Così condannavano i disordini, le passioni e i capricci. Rafforzavano la volontà della ragione: certi che la ragione, sebbene nata dopo il peccato originale, sarebbe riuscita a salvarli dal peccato. Non temevano di appoggiarsi ad essa e alla sua sostanza umana: anzi cercavano di renderla più robusta e affinata, più solida e complicata.
Qualche volta i padri gesuiti si sentivano soffocare. La vita morale, sia pure virtuosa, costringeva la loro anima; gli altri esseri umani opponevano limiti e negazioni al loro slancio amoroso. Avevano bisogno di spazio. In alcuni testi cristiani trovarono l’invito a una severissima e strettissima condizione ascetica. Ma, proprio in Sant’Ignazio, scoprirono l’invito ad abolire ogni ascetismo e ogni strettezza. Come lui, i padri gesuiti amavano il cosmo: ammiravano tutte le creature, le stelle, le comete, le erbe e gli animali; visitavano le più lontane regioni del mondo; non rifiutavano i piaceri del corpo; e si ergevano sopra i cieli, ascoltando il palpito della creazione.
La Compagnia di Gesù esigeva dai padri attività estremamente complicate: essi dovevano, per esempio, lavorare come economi e amministratori. Sebbene ordini più spirituali condannassero queste attività pratiche, i padri gesuiti le difendevano con cautela e tenacia. Si rendevano conto che il rapporto quotidiano con la realtà allargava la loro mente, rendeva più sinuosa la loro intelligenza e la loro fantasia.
Come Sant’Ignazio, avevano altri timori: l’astrazione dello spirito puro, la follia della mente abbandonata a se stessa. Gli Esercizi spirituali erano strettamente legati al tempo del giorno, della settimana, del mese, dell’anno. La vita di ogni gesuita obbediva al tempo. Un certo esercizio doveva essere compiuto all’alba di ogni giorno: allora bisognava guardarsi con diligenza da un particolare peccato; dopo pranzo un altro esercizio ricordava loro quante volte erano caduti in quel peccato.
Tutti i padri gesuiti conoscevano il tempo proprio di ciascuno di loro: l’ordine temporale conteneva una grande e nascosta sapienza, che essi non avrebbero mai finito di apprendere. Solo coincidendo col tempo, solo facendolo battere regolarmente sugli orologi del cuore, essi tenevano aperta l’anima, e permettevano a Gesù Cristo e allo Spirito Santo di penetrare dentro di essa.
Chi compiva gli Esercizi spirituali correva un rischio: quello degli scrupoli; vale a dire i peccati immaginari, ricordi di peccati passati, dubbi, incertezze, insoddisfazioni, disgusti, torture dell’intelligenza. Da soli, i padri gesuiti non riuscivano a liberarsi dagli scrupoli; e rimanevano invischiati nei relitti della propria anima. Non restava loro che pregare a lungo Gesù e lo Spirito Santo, aprendo l’anima alla sovrabbondante grazia di Dio.
INCONTRO CON ME STESSO
di don Aldo Antonelli
Mezzogiorno.
In casa, da solo, come spesso da qualche tempo.
Tutte le finestre sono aperte e la sala respira a pieni polmoni l’azzurro intenso e schietto di questa prima giornata d’autunno. "Voglio incontrarmi con me stesso - mi son detto -. Voglio farmi quattro chiacchiere con me!". Il primo problema che mi si pone è se chiudere gli occhi o tenerli aperti. E non è un problema da poco. Tenere gli occhi aperti comporta che lo sguardo ti leghi ai ricordi: le foto, i quadri, gli oggetti, tutto parla e al passato, purtroppo... E allora ti chiedi: "ma io sono il mio passato"?
NON CI STO!
Chiudo gli occhi e trovo la difficoltà a pensarmi senza l’altro, senza "relazione", non "in rapporto a...". E qui mi si pone la domanda delle domande: "Ma allora io sono solo una funzione?".
NON CI STO!
Così, con la testa tra le mani, lentamente ma inesorabilmente mi accorgo che io non confino con me stesso; i miei connotati non sono i visibili, gli udibili, i fruibili, i conosciuti/conoscibili. Mi accorgo, con sorpresa, di essere una sorta di "transgenico", un "al di là" cui è difficile dare un nome, perché ogni termine sarebbe insufficiente a esprimermi e a definirmi. E sarebbe anche equivoco...! E fa capolino una terza, impertinente domanda: "che fossi anch’io indefinibile e innominabile, come Dio?....".
Mi alzo, apro gli occhi e mi affaccio al balcone. Nuovo, come un bambino. Nuovo anche il sole. Nuovo il panorama e nuovo anche il verde dell’erba dei giardini di condominio.
ORA SI’ CHE CI SONO!
Aldo
Recitare o essere? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
di don Angelo Casati
Viandanti (www.viandanti.org, 30 marzo 2012
Mi succede - qualcuno la ritiene una mia ossessione - di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: "Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?". Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia - non tutti! - di farisei che "recitavano": "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesù, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo - lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava - che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita" una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato.
Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: "Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza.
Scrive Carlo Maria Martini: "Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del "perfetto". Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: "Un uomo" - scrive - "condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".
"NELLA NOSTRA SOCIETA’ DI SPETTACOLI E DI RAPPRESENTAZIONI, CHE FARE DI UN EICHMANN DI CARTA?" (PIERRE VIDAL-NAQUET, Gli assassini della memoria, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 55) "Di fronte a un Eichmann di carta, bisogna rispondere con la carta. Alcuni di noi lo hanno fatto e lo faranno ancora" (p. 74).
Un Eichmann di carta
Anatomia di una menzogna.
Ho esitato a lungo prima di accettare di rispondere all’amichevole richiesta di Paul Thibaud, direttore di Esprit (e che fu anche negli anni 1960-1962, direttore di Verité-Liberté, Quaderni d’informazione sulla guerra di Algeria) e di scrivere queste pagine sul preteso revisionismo, a proposito di un’opera di cui gli editori ci dicono senza ridere: Gli argomenti di Faurisson sono seri. Bisogna rispondere”. Le ragioni di non rispondere erano molteplici [...] Rispondere come, se la discussione è impossibile? Procedendo come si fa con un sofista, cioè con un uomo che assomiglia a colui che dice il vero, e di cui bisogna smontare pezzo per pezzo gli argomenti per smascherarne la falsità. Tentando, anche, di elevare il dibattito, di mostrare che l’impostura revisionista non è la sola che orna la cultura contemporanea, e che bisogna capire non solo il come della menzogna, ma anche il perché. Ottobre 1980
1. Il cannibalismo, la sua esistenza e le relative spiegazioni.
Marcel Gauchet ha dedicato la sua prima cronaca su Débat (n. 7, maggio 1980) a quel che ha chiamato "l’inesistenzialismo". Una delle caratteristiche della cultura’ contemporanea è, infatti, quella di tacciare d’un sol colpo di inesistenza le realtà sociali, politiche, ideali, culturali, biologiche che erano ritenute le più consolidate. Vengono ripiombati nell’inesistenza: il rapporto sessuale, la donna, il dominio, l’oppressione, la sottomissione, la storia, il reale, I’individuo, la natura, lo Stato, il proletariato, l’ideologia, la politica, la pazzia, gli alberi.
Questi giochetti sono deprimenti, possono anche distrarre, ma non sono necessariamente pericolosi. Che la sessualità e il rapporto sessuale non esistano non disturba gli amanti, e l’inesistenza degli alberi non ha mai tolto il pane di bocca a un boscaiolo o a un fabbricante di pasta da carta.
Talvolta può, tuttavia, succedere che il gioco cessi di essere innocente. Come quando si chiamano in causa non la donna, la natura o la storia, ma questa o quella espressione specifica dell’umanità, o un momento doloroso della sua storia.
In quella lunga fatica che è stata la definizione dell’uomo di fronte agli dei, di fronte agli animali, la frazione dell’umanità cui apparteniamo ha scelto in particolare, almeno da Omero e da Esiodo nell’VIII secolo a.C., di presentare l’uomo come colui che, a differenza degli animali, non mangia il suo simile. Così diceva Esiodo nel suo poema Le Opere e i Giorni: “Tale è la legge che Zeus figlio di Crono ha prescritto agli uomini: che i pesci, gli animali selvatici, gli uccelli alati si divorino, perché tra loro non c’è giustizia". Esistono trasgressioni alla legge, di rado nella pratica, piú spesso nei racconti mitici. Esistono soprattutto trasgressori classificati come tali: sono certe categorie di barbari che per ciò stesso si escludono dall’umanità. Un ciclope non è un uomo.
Non tutte le società collocano in questo preciso punto la linea di separazione. Ce ne sono alcune, né più né meno <
Dividere il reale dall’immaginario, dare un significato all’uno e all’altro è un lavoro che tocca all’antropologo, allo storico, si tratti di antropofagia, di riti nuziali o dell’iniziazione dei giovani [...]
[...] come molti storici, miei predecessori e miei contemporanei, mi sono interessato alla storia dei miti, alla storia dell’immaginario, pensando che l’immaginario sia un aspetto del reale e che se ne debba fare la storia come si fa quella dei cereali e della nuzialità nella Francia del XIX secolo. Certo questo “reale” è, tuttavia, nettamente meno “reale” di quel che siamo soliti chiamare con tale nome. Tra i fantasmi del marchese di Sade e il Terrore dell’anno II c’è una differenza di qualità, ed anche, al limite, un’opposizione radicale: Sade era un uomo piuttosto mite. Una certa volgarizzazione della psicanalisi è responsabile di questa confusione tra il fantasma e la realtà.
Ma le cose sono più complesse: una cosa è attribuire all’immaginario una parte nella storia, una cosa è definire immaginaria, come Castoriadis, l’istituzione della società, un’altra è stabilire, alla maniera di Baudrillard, che il reale sociale è composto solo di relazioni immaginarie. Quest’affermazione estrema ne comporta un’altra che dovrò spiegare: quella che dichiara immaginaria tutta una serie di avvenimenti molto reali. Come storico, mi sento in parte responsabile dei deliri di cui mi sto per occupare (Pierre Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, nel saggio “Un Eichmann di carta. Anatomia di una menzogna”, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. 3-8)
COSA PUBBLICA
di Mario Pezzella (il manifesto, 01.10.2010)
La rilettura della filosofia di Hannah Arendt da parte dello studioso Miguel Abensour * consente di mettere a fuoco una visione dell’agire politico che non ha lo scopo di edificare una «buona società», ma l’affermazione della libertà dei singoli
Ricostruendo il suo cammino intellettuale, nell’ultimo libro Pour une Philosophie politique critique, Abensour ricorda quanto decisivo sia stato il suo confronto con l’opera di Hannah Arendt: «Dovevo approfondire la questione così nuova della natalità, prendere le misure dell’antiplatonismo della Arendt e valutare ciò che significava il gesto, a prima vista sconcertante, che consisteva nell’andare a cercare la filosofia politica di Kant nella Critica del giudizio».
Abensour aveva negli Settanta approvato la rinascita della «filosofia politica», come antidoto a una concezione sociologica o economicista dell’azione storica; successivamente, egli non ha condiviso la sua trasformazione in disciplina accademica e il tentativo di giustificare la concezione liberale e parlamentare della democrazia come l’unica pensabile e possibile. Lo studio della Arendt gli permette di elaborare il suo pensiero, di giungere prima a una «critica della filosofia politica», e poi - in positivo - a una filosofia politica critica. La Arendt, così riletta da Abensour, appare come la pensatrice di una moltitudine insorgente e radicale, critica verso ogni forma di democrazia formale e spettacolare, pronta a opporre il suo momento istituente e creativo a quello inerte e costituito dello Stato.
Dentro la caverna di Platone
In questa prospettiva, il termine stesso di «filosofia politica» è paradossale, quasi un tentativo di unire due concetti di per sé contraddittori. Filosofia e politica non appartengono piuttosto a tradizioni differenti e alternative? Secondo la Arendt «la filosofia politica avrebbe innanzitutto il torto di essere il frutto dello spirito corporativo dei filosofi. Oggetto della ricerca non sarebbe più la questione della città, della città buona, ma il rapporto del filosofo alla città. Alla domanda sul regime politico migliore si sostituirebbe la ricerca del regime capace di proteggere il filosofo dalle passioni della moltitudine». La Arendt, come è noto, amava definirsi uno «scrittore politico», nella linea di Machiavelli, Montesquieu e Tocqueville: questi avrebbero esaltato l’elemento irriducibile della pluralità, del conflitto e della moltitudine nella storia, mentre i filosofi avrebbero piuttosto cercato di ricondurre i molti all’Uno, la contraddizione alla quiete, il molteplice a una codificazione istituita e immutabile.
Questa critica è ben visibile - secondo Abensour - nell’analisi dedicata dalla Arendt al mito della caverna di Platone, che è insieme una ripresa e una critica della lettura heideggeriana del noto testo della Repubblica. Gli uomini incatenati nella caverna danno un’immagine totalmente negativa della vita pubblica e della polis; ad essi il filosofo, illuminato dalla visione delle Idee, dovrebbe portare ordinamento e armonia. Ma il tentativo non finisce troppo bene, secondo la Arendt: perché in realtà i disgraziati e recalcitranti cittadini proprio non ne vogliono sapere di essere illuminati dall’alto di un’autorità estranea e non condivisa. Come già aveva scritto Heidegger, è perfino prevedibile una lotta mortale tra il «liberatore» e i prigionieri che non vogliono saperne di essere liberati.
Il potere della polis
L’immagine della caverna e dei prigionieri suppone dunque un’immagine negativa dell’agire politico, a cui il filosofo vuole opporsi ed imporsi, per affermare contro un simile caos l’unità e l’autorità regolatrice. Una visione dell’essere-in-comune totalmente negativa, un’ostilità alla polis, concepita come luogo di disordine e iniquità, inducono il filosofo ad imporre dall’esterno un argine al dilagare della corruzione e della morte; come se la città e l’agire dei cittadini fossero irrimediabilmente condannati all’ignoranza e all’impotenza. Questa visione negativa della politica spinge Platone a modificare addirittura la sua teoria delle idee nella Repubblica: più che oggetto di visione contemplativa, esse divengono istanze normative, in base a cui dev’essere ordinata la vita della città.
L’azione politica ha la potenza di inserire nell’essere la discontinuità salvatrice, il balenio di un possibile che prima non era, e che essa estrae alla luce del significato. L’essere-per-la nascita affiora soprattutto nel tempo sospeso di una cesura storica, nell’intervallo che segna la discontinuità tra un’epoca e l’altra, quando come diceva Walter Benjamin, la dialettica degli eventi resta «in bilico».
Nella breccia che si apre tra un ordine in declino e un possibile ignoto, che ancora non si è solidificato e alienato in un nuovo regime, si apre il tempo dell’azione politica vera, inaugurale e iniziale. L’azione politica introduce il nuovo e il possibile nella ripetizione sempre uguale del tempo e rompe la catena del destino e della necessità. Tra l’essere-per-la-nascita e l’essere-per-la-morte vi è dunque la stessa differenza che passa tra le modalità del possibile e del necessario: «Una denota l’ingresso nella possibilità, l’altra ne segna l’estinzione». La nascita è per la Arendt potenza originante, da cui scaturisce l’azione politica come affermazione di un inizio.
Ma come è possibile che l’azione inaugurale, la vitalità della cesura, il potere istituente dei cittadini, si diano durata e resistano alla tentazione di creare un ordine altrettanto stabile e alienato del precedente?
La Arendt trova sostegno in un pensatore, che pur non avendo mai scritto una vera e propria «filosofia politica», ha concepito una innovativa teoria del «senso comune»: si tratta di Kant e della sua opera in apparenza più lontana dalla politica, La critica del giudizio. Il senso comune è pensato come «una condizione di possibilità» della comunicabilità universale, e rivela la volontà degli uomini di creare un mondo in cui ogni singolarità venga riconosciuta nella sua differenza specifica; essi realizzano così il desiderio di persuadersi l’uno con l’altro e l’aspirazione a giudizi universali e condivisi. La Arendt estende il significato del giudizio di gusto kantiano all’ambito del giudizio politico: «Ogni giudizio, ma anche ogni azione, dovrebbe rispondere a questa esigenza originaria di comunicazione universale, dandosi come obiettivo di far passare nell’effettività, sotto forma di legge tale idea di umanità, rinviando a un contratto originario. La comunicazione non è un dato dell’esperienza. Ogni giudizio di gusto è attraversato, lavorato da questo contratto originario e dall’esigenza di comunicabilità universale che esso comporta».
I diritti contro la legge
Interpretando in tal modo la Arendt, Abensour si ricollega alle origini del giacobinismo rivoluzionario francese (a Saint-Just è dedicato un suo saggio politico importante, che introduce le opere complete). Saint-Just considerava l’istituzione repubblicana come il braciere destinato a conservare il fervore costituente della rivoluzione, evitando che esso si spenga nella morta cenere della legge, nella sua tendenza a trasfigurare l’attività legiferante in potere costituito e immutabile: «L’istituzione, più matrice che cornice, contiene in sé una dimensione immaginaria, di anticipazione, che possiede di per sé una potenza stimolante, tale da far nascere, da generare costumi o piuttosto attitudini e comportamenti, che vadano nel senso dell’emancipazione, da essa annunciata. In questo senso l’istituzione, "sistema di anticipazione" come dice Gilles Deleuze, si oppone alla legge, nella misura in cui essa contiene un appello - appello di una libertà ad altre libertà -, che la differenzia radicalmente dal vincolo caratteristico della legge».
Come evitare il passaggio dal gioco reciproco del senso comune, gestazione della volontà generale dei cittadini, a un nuovo regime statico-inerte, fondato sulla violenza e il terrore? Il senso comune è il principio a priori della decisione politica democratica, che si oppone al principio autoritario fondato sulla sottomissione e sulla asimmetria dei rapporti di padronanza. Per praticarlo occore tuttavia la desueta virtù del coraggio civico: se la vita sotto il dominio si limita «alla ripetizione della vita e al suo ciclo ripetitivo», l’azione politica espone nello spazio pubblico dell’apparire, in cui, coem sostiene Hannah Arendt, «ogni cosa ed ogni uomo si espongono alla vista altrui».
Tal eroismo non ha però nulla di sacrificale o di romantico, e in particolare di differenzia da quello evocato da Heidegger in Essere e tempo. Non è la risposta all’appello sovrumano del destino, ma il coraggio civico che si applica a criticare ogni regime che voglia porsi come fatalità inviata da un dio. Solo la mancanza di un dio e dei suoi «eletti» presunti può salvarci, nell’ambito politico. L’eroismo si condensa qui nella singolarità del dissenso di fronte a una legge, statuita deprivando e ingannando il «senso comune» dei cittadini, eludendo l’arena della persuasione e della comunicazione. Contro le decisioni occulte delle elites combatte la «democrazia insorgente», come la chiama Abensour, che riattiva incessantemente il conflitto dei diritti contro le leggi, il disaccordo tra la realizzazione del principio di eguaglianza e la sua restrizione a una parte sola dei cittadini. Le istituzioni che possono dar forma a tale insorgenza, sono quelle consiliari e comunaliste, che la Arendt ha descritto - nella loro possibile efficacia pragmatica oltre che nel loro orientamento utopico - nel libro Sulla Rivoluzione.
La natura del conflitto
Alla filosofia politica fondata su principi primi e sul dominio dell’Uno, la Arendt oppone il pensiero ampliato di Kant, più un processo e un metodo che una determinazione di contenuti: esso esprime il continuo tentativo di accordare i nostri giudizi a quelli degli altri, senza poter sapere se avremo successo e quale risultato finale emergerà dal confronto. Il pensiero ampliato si costituisce come intelletto collettivo, intessuto dai cittadini, nel movimento continuo della comunicazione e della persuasione, nel dissenso contro le leggi che tendono a bloccare tale attività, nell’apertura ripetuta del tempo storico, che non si appaga di alcuna soluzione definitiva.
Il senso comune non mira a una «società buona» che concluda armonicamente (e tirannicamente) la storia, ma ad una accettazione del conflitto e della disunione e al loro riassorbimento in «giudizi politici» condivisi e contingenti.
Paradossalmente, solo l’accettazione e il dispiegamento del conflitto può affermare il bene «comune» ed evitare che esso, divenendo di fatto particolare, ed espressione di una parte sola, degeneri in una guerra distruttiva e autodistruttiva.
L’azione politica resta esposta a una contingenza radicale, pur guidata da una potenza trascendentale e utopica: «L’idea del senso comune o il senso comune come idea, richiama precisamente a qualcosa che non è dell’ordine dell’esperienza, pur abitandola come il trascendentale, in cui soltanto l’esperienza e il pensiero che la costituisce possono trovare il loro luogo fondativo (...) Il trascendentale è presente in seno all’empirico come rappresentazione di un altrove, senza il cui riferimento l’empirico non reggerebbe, l’esperienza perderebbe il suo principio di orientamento». Se non è possibile dedurre il contenuto della decisione da un principio generale e astratto, è però opportuno lasciarsi guidare da una unità di misura (la relazione simmetrica tra uguali) e dal «pensiero ampliato», che esalta il confronto delle opinioni e critica ogni forma di asservimento.
• MIGUEL ABENSOUR
Dal «comunista» Blanqui alla critica dello Stato
Miguel Abensour è un filosofo della politica atipico per la Francia. Atipico perché ha intrapreso un percorso di ricerca che si discosta da quelli seguiti da Jacques Ranciere, Alain Badiou, Etienne Balibar, solo per citare gli studiosi che più di altri hanno cercato di sviluppare una critica radicale della democrazia liberale. Se per Ranciere o Balibar o Badiou la democrazia è caratterizzata dalla presa di parola dei senza potere o come contesto per un superamento del capitalismo, per Abensour è una forma politica che garantisce la libertà dei singoli perché non prevede istituzioni centrali (lo Stato) preposte alla decisione politica. Studioso del giacobinismo, in particolare di Saint-Just, e dell’utopia socialista a partire dal «comunista» Blanqui e William Morris, si è interessato della filosofia di Emmanuel Levinas e di Martin Buber. Oltre a questo saggio su Hannah Arendt («Hannah Arendt contro la filosofia politica?», Jaca Book, pp. 179, euro 24) in Italia è stato pubblicato «La democrazia contro lo Stato» (Cronopio, pp. 207, euro 18.50).
Morto Miguel Abensour, interprete della democrazia della modernità
Si è spento a 78 anni il filosofo che ha rilanciato il concetto di utopia
di DONATELLA DI CESARE *
Si è spento improvvisamente, all’età di 78 anni, Miguel Abensour. Ne ha dato la notizia il Collège International de Philosophie di Parigi di cui il filosofo era stato presidente. La democrazia deve essere pensata come critica radicale, esercizio continuo che mette in questione l’ordine esistente. Abensour ha avuto il merito di far riflettere sul valore della «democrazia nella modernità», sui rischi di banalizzarne il significato accettandone una versione moderata.
Acuto interprete delle opere di Emmanuel Levinas, Claude Lefort, Hannah Arendt (in italiano Jaca Book ha pubblicato nel 2010 il suo saggio Hannah Arendt contro la filosofia politica?), Abensour è stato anche uno studioso profondo del totalitarismo, il cui domino ha ricercato anche nell’architettura con un’analisi originale dell’opera di Albert Speer, l’architetto del Terzo Reich.
Erede in Francia della Scuola di Francoforte, ha rilanciato il concetto di «utopia» e nella sua opera più importante Per una filosofia politica critica (Jaca Book, 2011) ha sottolineato il nesso indissolubile tra democrazia e utopia. E in una democrazia sempre da costruire, nel rispetto non solo del tu, ma anche del terzo, ha indicato l’argine contro i governi neoautoritari dell’Europa attuale.
Il nostro rischio?
Perdere conoscenza
Conoscere è importante, soprattutto oggi in un un Paese come il nostro dove domina l’ignoranza
di Nicla Vassallo (l’Unità, 19.09.2010)
State leggendo questo articolo. Un semplice atto che presuppone parecchie conoscenze: saper leggere, sapere che l’Unità è un giornale, sapere in quale spazio/tempo vi trovate (se vi credeste nella Grecia antica, cosa comprendereste della situazione socio-politica contemporanea?), sapere che siete voi, non qualcun altro. Di più, necessitate di una conoscenza di background, di cui fa tra l’altro parte il sapere che un giornale è qualcosa che si sfoglia, non che si mangia, che non avete scritto il presente articolo, qual è il vostro nome (vi chiamate forse Nicla Vassallo?), e via dicendo. Chiudete gli occhi, per immaginare di perdere ogni conoscenza, queste incluse. La vostra esistenza? Ridotta a un mero vegetare, in cui non sapete quasi nulla. Esperimento inquietante, che mostra però l’importanza del conoscere.
GRANDE FRATELLO & CO. Apriamo gli occhi sull’oggi. Da una parte, i luoghi deputati (famiglie, libri, media, scuole, università, eccetera) a trasmettere conoscenza, non errori, risultano controllati e penalizzati viepiù, mentre si scacciano conoscenze e competenze per lasciar posto a insigni, immeritevoli appariscenze, che brillano per pressapochismo e ignoranza. Dall’altra, ci vengono propinate, troppo spesso, realtà virtuali, dimensioni fittizie, informazioni manipolate, che, erronee, finiscono col non trovare riscontro «là fuori», nel mondo esterno.
Se in ciò consta la nostra cultura, su quale patrimonio conoscitivo, condivisibile e condiviso, si erge? Oppure, è una non-cultura, se non un’anti-cultura, che galoppa alla volta di un mondo orwelliano, governato dal Grande Fratello: «In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità esiste davvero? O che il passato è immutabile? Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo?» (George Orwell, 1984, Mondadori, Milano, p. 85). D’accordo, errare humanum est, ma un illuminato Cicerone precisa che perseverare è azione da ignoranti, quindi non da diabolici a meno che, ovvio, ignoranti e diabolici non coincidano. Abitiamo, allora, in una cultura dell’ignoranza e dell’errore, sempre che di cultura si tratti. Se sommiamo l’ignoranza all’errore, erriamo nell’ignoranza e ignoriamo d’errare, tradendo le aspirazioni conoscitive, iscritte per Aristotee nella nostra natura. A venirci assicurata rimane una brutalità di dantesca memoria.
Illusioni e allucinazioni umane, errori percettivi, ci conducono a vedere il bastone spezzato nell’acqua quando in realtà non lo è, l’acqua nel deserto quando in realtà non vi è. Chiamandole illusioni e allucinazioni, implichiamo che qualcosa di non illusorio e non allucinatorio si dia in una realtà da conoscere, realtà che non creiamo, né fantastichiamo, realtà che esiste indipendentemente da noi. I realisti concordano. Ma chi ingiunge prontamente «Siamo realisti: fatti, non parole!», oltre a proferire parole, si nasconde dietro un logoro slogan, sconfessa la relazione tra parole e fatti, sorvola sul problema della verità. «Dire di ciò che esiste che non esiste, o di ciò che non esiste che esiste, è falso, mentre dire di ciò che esiste che esiste, e di ciò che non esiste che non esiste, è vero»: Aristotele sposa così (La metafisica, IV, 7, 1011b) una precisa concezione della verità, stando a cui le nostre affermazioni sono vere se corrispondono ai fatti, se trovano in essi una base oggettiva.
Quando affermiamo senza menzogne? Quando crediamo in ciò che diciamo. Sapere fare un’affermazione comporta, a ogni buon conto, saperla giustificare, essere cioè in grado di offrire buone ragioni per essa. Mettiamo che qualcuno affermi «Non esistono le condizioni per riaprire le trattative», e che, alla domanda «Per quale ragione lo credi?», replichi «Il Colosseo è eversivo»: non ci troviamo di fronte a una giustificazione, bensì a una farneticazione. Solo nel caso in cui disponiamo di una giustificazione, non di una farneticazione, la credenza che affermiamo ha buone probabilità di risultare vera, ovvero di aspirare allo status di conoscenza.
Giungere a conoscere per un caso fortuito? Non si appella alla fortuna la scommessa di Blaise Pascal sull’esistenza di Dio. Abbiamo ragioni di credere che Dio esiste perché la posta in gioco è la vita eterna. Si tratta di ragioni prudenziali (è prudente, conveniente credere che Dio esiste), non di ragioni epistemiche (ragioni per credere che sia vero che Dio esiste).
Meglio la convenienza o la verità? Se aspiriamo a conoscere, occorre optare per verità. Non per nulla, a partire da Platone, identifichiamo la conoscenza con la credenza vera supportata dalla giustificazione epistemica. Tuttavia, rimaniamo esseri fallibili, dalle capacità cognitive limitate, per cui le nostre credenze, pur giustificate, possono risultare false. Certo, per mera casualità, si danno credenze vere ingiustificate. Ma chi, dotato di sale in zucca, darebbe credito a uno scommettitore incompetente, stando a cui x vincerà? Diremmo forse che lo scommettitore in questione (che tira a indovinare, e che si differenzia così da quello pascaliano) sapeva che x avrebbe vinto, nel caso in cui x vinca? Lo scommettitore non sapeva, ha avuto soltanto una spacciata fortuna.
Già, la Fortuna, meglio non affidarsi a questa giovane bendata, se siamo savi. Una donna irrazionale, contrapposta, per errore, all’uomo razionale, donna che trova però un qualche riscatto in epoca rinascimentale, quando viene rappresentata con una vela in mano. Chi sa veleggiare non naviga né con irrazionalità, né con casualità: sceglie, a ragione, rotte precise. Navigare è impresa difficile, occorre per l’appunto saperlo fare non tutti ne sono in grado -, gli errori si pagano cari: andar per mare rimane la migliore metafora della nostra effettiva esistenza. Ci saranno pure naufragi fortunati e capitani che, come i prìncipi di Nicolò Machiavelli, si trasfigurano in tali, con poca fatica, grazie alla fortuna, «ma devono poi penare per restare al potere», al timone. Già, difficile governare una barca senza conoscenza, senza sapienza.
Come salvarsi dal populismo nel mondo senza confini
Lo sguardo cosmopolita contro la demagogia
Per gentile concessione dell’editore anticipiamo parte della premessa dell’ultimo libro di Ulrich Beck "Potere e contropotere nell’età globale" in uscita per Laterza
di Ulrich Beck (la Repubblica, 06.09.2010)
Il successo del populismo di destra in Europa (e in altre parti del mondo) va inteso come reazione all’assenza di qualsiasi prospettiva in un mondo le cui frontiere e i cui fondamenti sono venuti meno. L’incapacità delle istituzioni e delle élites dominanti di percepire questa nuova realtà sociale e di trarne profitto dipende dalla funzione originaria e dalla storia di queste istituzioni. Esse furono create in un mondo nel quale erano ancora pienamente valide le idee di piena occupazione, di predominio della politica nazional-statale sull’economia nazionale, di frontiere funzionanti, di chiare sovranità e identità territoriali.
Lo si può mostrare in relazione a quasi tutti i temi scottanti del nostro tempo. Chi, di fronte alla disoccupazione di massa e all’occupazione precaria in rapida diffusione promuove l’ideale della piena occupazione, offende l’umanità. Chi, nei Paesi in cui il tasso di natalità è sceso sotto la soglia fatidica di 1,3 figli per ogni donna, afferma che le pensioni sono al sicuro, offende l’umanità. Chi, di fronte alla drastica riduzione dei proventi dalle imposte sui profitti vanta i meriti della globalizzazione, che consente ai grandi gruppi economici transnazionali di mettere gli Stati gli uni contro gli altri, offende l’umanità. Chi, nell’era delle catastrofi ambientali e degli avvelenamenti alimentari in atto o incombenti proclama che la tecnica e l’industria risolveranno i problemi da esse stesse prodotti, offende l’umanità.
Noi europei facciamo come se esistessero ancora la Germania, l’Italia, i Paesi Bassi, il Portogallo, ecc. E invece non ci sono più da un pezzo, poiché quelle riserve di potere che sono gli Stati nazionali chiusi in se stessi e le unità nazionali delimitate l’una rispetto all’altra sono diventate irreali al più tardi con l’introduzione dell’euro. Nella misura in cui c’è l’Europa non esistono più la Germania, la Francia, l’Italia, ecc. (anche se questi Paesi continuano a governare nelle teste delle persone e nei libri illustrati degli scrittori di storia), poiché non ci sono più le frontiere, le competenze e gli spazi di esperienza esclusivi su cui si fondava questo mondo di Stati nazionali. Ma se tutto ciò è passato, se il nostro pensiero, le nostre azioni e le nostre ricerche si muovono all’interno di categorie-zombie, quale mondo si sta formando o si è già formato?
(...) Per comprendere il terremoto politico provocato e sfruttato dal populismo di destra occorre mettere in luce le fonti della sua potenza. Esse risiedono nel fatto che qui i temi e i motivi cari al nuovo controilluminismo da cui è connotata la modernità europea - la lotta contro il declino e la decadenza, la rinascita dei vecchi valori e delle vecchie comunità - vengono applicati ai tabù attuali della modernizzazione radicalizzata. In tutto ciò è irritante questa massima del «sia ... sia», che rimescola i fronti del politico. Il cosiddetto «populismo di destra» non è affatto un populismo solo di destra, ma un populismo sia di destra che di sinistra. Esso può essere particolarmente potente e inquietante perché questo tipo di politica lega, assorbe, combina, sintetizza ciò che sembra escludersi: obiettivi di destra con metodi di sinistra, la rottura emancipatrice dei tabù messa in scena dai mass-media, che sprigiona il potenziale tossico del risentimento antimoderno. Ciò si riflette anche nella reazione pubblica. Si denuncia la demagogia dei populisti come un pericolo per la democrazia stabilita - ma, perlomeno in cuor proprio, la si saluta come una terapia d’urto necessaria a scuotere la democrazia dal suo letargo. Pertanto, la potenza dei populisti è direttamente proporzionale alla mancanza di risposte della politica stabilita alle domande di un mondo radicalmente mutato.
Tutto ciò può essere osservato come sotto una lente d’ingrandimento se si prendono in considerazione (come fa questo libro) le conseguenze della globalizzazione (...). In questo libro la globalizzazione è intesa e sviluppata - riprendendo questi approcci ma nello stesso tempo facendo un passo al di là di essi - come trasformazione storica. Da questa prospettiva emerge che, nello spazio di potere dai contorni ancora indefiniti di una politica interna mondiale, la distinzione tra il nazionale e l’internazionale su cui si era basata la nostra visione del mondo è cancellata (...).
Se ciò che è nazionale non è più nazionale e ciò che è internazionale non è più internazionale, allora il realismo politico prigioniero dell’ottica nazionale è sbagliato. Al suo posto - è questo l’argomento di questo libro - subentra un realismo politico di cui occorre comprendere la logica di potere e che assegna un posto centrale al ruolo decisivo dell’economia mondiale e dei suoi attori nella collaborazione e nel contrasto tra gli Stati, ma anche alle strategie dei movimenti transnazionali della società civile, ivi compresi i movimenti anticivili, ossia le reti terroristiche, che mobilitano contro gli Stati la violenza privatizzata per perseguire i propri obiettivi politici.
Un realismo, ovvero un machiavellismo, cosmopolitico risponde in particolare a due domande. Primo: come e attraverso quali strategie gli attori dell’economia mondiale impongono agli Stati le leggi della loro azione? Secondo: come possono a loro volta gli Stati riconquistare un meta-potere statuale-politico di fronte agli attori dell’economia mondiale per imporre al capitale mondiale un regime cosmopolitico che includa anche la libertà politica, la giustizia globale, la sicurezza sociale e la conservazione dell’ambiente?
L’importanza e la pertinenza di questa nuova politica economica mondiale derivano per un verso dal fatto che essa in quanto teoria del potere è sviluppata nello spazio strategico dell’economia transnazionale e, per un altro, dal fatto che nello stesso tempo essa risponde alla domanda che allora si pone: come può il mondo della politica organizzata per Stati (nei suoi concetti fondamentali, nel suo spazio di potere strategico, nelle sue condizioni di contorno istituzionali) aprirsi alle sfide dell’economia mondiale ma anche ai problemi derivati dalla modernizzazione?
(...) Lo Stato nazionale non è più il creatore di un quadro di riferimento che include in sé tutti gli altri quadri di riferimento e che rende possibili le risposte politiche. Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 insegnano, non ultimo, che la potenza non è sinonimo di sicurezza. In un mondo radicalmente diviso la sicurezza potrà esserci solo quando ognuno sarà disposto a - e capace di - vedere il mondo della modernità scatenata con gli occhi dell’altro, dell’alterità, cioè quando l’evoluzione culturale risveglierà in ciascuno questa apertura e quest’ultima sarà diventata quotidiana .
(...) Se si dischiude intellettualmente e politicamente lo spazio di potere mondiale al di là delle vecchie categorie di «nazionale» e «internazionale», si aprono (accanto alle spiegazioni della reazione populistica) prospettive di un rinnovamento cosmopolitico della politica e dello Stato.
L’universo di Hawking
«Si è autogenerato senza l’intervento di Dio»
«Il grande disegno» esce a pochi giorni dalla visita del Papa a Londra
La controversa tesi nell’ultimo libro. Cacciari: illogico
di Dario Fertilio (Corriere della Sera, 03.09.2010)
In principio era il caos, sostiene Stephen Hawking. E di Dio, nessuna traccia. Parole grosse che, trattandosi di uno dei massimi astrofisici viventi, fanno boom. Tanto più che proprio lui, uno degli scienziati più famosi al mondo, condannato all’immobilità e privo della parola per un’atrofia muscolare progressiva, teorico delle stringhe e dei buchi neri, in un suo libro precedente ( Breve storia del tempo, pubblicato in Italia dalla Bur Rizzoli) aveva lasciato invece una porta socchiusa ai creazionisti, sostenendo che la presenza di Dio non sarebbe incompatibile, in sé, con un approccio scientifico all’universo.
Ma questa voltano : The Grand Design, «Il grande disegno», scritto con il fisico americano Leonard Mlodinow, in 200 pagine serrate e anche immaginifiche si spinge abbastanza lontano da ipotizzare la presenza di altri universi abitati, per poi giungere all’apodittica conclusione che il Big Bang sarebbe una «inevitabile conseguenza delle leggi della fisica», e che l’intervento di una mano creatrice sarebbe decisamente da escludere. Più precisamente, alla domanda che Hawking si pone da sé, «l’universo ha avuto bisogno di un creatore?», la risposta è chiara e incontrovertibile: no. E perché no? «Perché c’è una legge che si chiama gravità, e l’Universo può e continuerà a crearsi da sé, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui qualcosa esiste piuttosto che il nulla, per cui l’Universo esiste, e noi stessi esistiamo». Punto. Per il grande Stephen Hawking, in pensione da un anno e già sulla cattedra occupata da Newton, la questione è chiusa.
In Gran Bretagna le sue conclusioni finiscono ovviamente in prima pagina - cominciando dal «Times» - tanto più che l’uscita del libro (giovedì prossimo) cade appena una settimana prima della visita di papa Ratzinger al di là della Manica.
Subito reazioni positive da Richard Dawkins, il biologo dichiaratamente ateo, che saluta l ’ est ensione al - l’universo delle teorie darwiniane sugli esseri viventi. Altrove, però, e cominciando dall’Italia, prevalgono invece, in varie gradazioni: perplessità, scetticismo, imbarazzo.
Il filosofo della scienza Giulio Giorello, ad esempio, ammette che l’idea di una creazione dal vuoto, «per effetto di una fluttuazione casuale rapidissima e molto energetica», è materia dibattuta dai cosmologi quantisti, anzi «l’ipotesi di una creazione senza creatore la si può ritrovare persino tra le pieghe della filosofia indiana». Una cosa però, sottolinea, è «fare a meno di Dio come creatore agente dall’esterno, un’altra parlarne come forza intrinseca alla natura, sulle orme di Giordano Bruno e Spinoza». Inoltre, a suo giudizio, «il bisogno di Dio non è basato sulla cosmologia, e la grazia è una scintilla nel buio. D’altra parte la scienz a prescindetot a l mente da Dio».
Più netto, e quasi sprezzante verso Hawking, un altro filosofo, Massimo Cacciari: «Nulla è più assurdo e antiscientifico di pretendere che un linguaggio specialistico fornisca risposte universali. È una contraddizione logica, quella di Hawking, che ha qualcosa di comico e non va nemmeno presa in considerazione. Meglio avrebbe fatto a leggersi la "Dialettica trascendentale" di Kant».
Più articolati, ma di fatto consonanti, i pareri del mondo scientifico. Tommaso Maccacaro, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica, analizza i punti principali della teoria di Hawking ( presenza di altri sistemi solari simili al nostro, di altri possibili universi, l’idea che si possa raggiungere un equilibrio fra la teoria quantistica del mondo subatomico e quella della gravità) e conclude: «Nessuno di questi punti può servire come base per una discussione su Dio, perché le cose sono totalmente disgiunte. Mi sembrano affermazioni talmente irrazionali da far sì che qualsiasi teologo ne possa fare un solo boccone». E il biologo evoluzionista Telmo Pievani: «Sulla teoria fisica delle stringhe, invocata da Hawking non c’è affatto consenso. Se invece parliamo di evoluzionismo, certo, il processo della vitavnon sembra procedere secondo un progetto. Ma da qui a dimostrare che un’entità sovrannaturale non esiste ce ne corre. E se anche riuscissimo a conoscere i pensieri di Dio, questo non proverebbe che Lui non esiste».
La filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo
I signori della creazione
Un brano dell’ultimo saggio di Stephen Hawking: "Perché il grande disegno non dipende da Dio"
Per secoli le domande importanti venivano affrontate dai pensatori. Ma oggi la fiaccola della conoscenza è altrove
Spetta alla scienza offrire soluzioni anche se queste vanno contro il senso comune. Come mostra Feynman
di Stephen Hawking, Leonard Mlodinow (la Repubblica, 06.04.2011) Ciascuno di noi non esiste che per un breve intervallo di tempo, e in tale intervallo esplora soltanto una piccola parte dell’intero universo. Ma la specie umana è una specie curiosa. Ci facciamo domande, cerchiamo delle risposte. Vivendo in questo mondo sconfinato che può essere ora amichevole ora crudele, e volgendo lo sguardo ai cieli immensi che ci sovrastano, gli uomini si sono sempre posti una moltitudine di interrogativi. Come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l’universo? Qual è la natura della realtà? Che origine ha tutto ciò? L’universo ha avuto bisogno di un creatore? La maggior parte di noi non dedica troppo tempo a preoccuparsi di simili questioni, ma quasi tutti di tanto in tanto ci pensiamo.
Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza.
Questo libro si propone di dare le risposte che sono suggerite dalle scoperte e dai progressi teorici recenti. Tali risposte ci conducono a una nuova concezione dell’universo e del nostro posto in esso, assai diversa da quella tradizionale, e diversa anche da quella che avremmo potuto delineare soltanto un decennio o due fa. Eppure la nuova concezione aveva cominciato a prendere forma embrionale quasi un secolo addietro.
Secondo la concezione tradizionale dell’universo, i corpi si muovono su traiettorie ben determinate e hanno storie definite, cosicché è possibile specificare la loro esatta posizione in ogni istante del tempo. Sebbene tale descrizione sia abbastanza soddisfacente ai fini della vita quotidiana, negli anni ’20 si scoprì che questa immagine "classica" non era in grado di rendere conto del comportamento apparentemente bizzarro osservato sulle scale delle entità atomiche e subatomiche. Era invece necessario adottare un diverso quadro concettuale, chiamato fisica quantistica. Le teorie quantistiche si sono dimostrate straordinariamente precise nel predire gli eventi su tali scale, e al contempo capaci di riprodurre le predizioni delle vecchie teorie classiche quando venivano applicate al mondo macroscopico della vita quotidiana. Eppure la fisica classica e quella quantistica sono basate su concezioni assai diverse della realtà.
Le teorie quantistiche possono essere formulate in molti modi differenti, ma la descrizione probabilmente più intuitiva fu proposta da Richard Feynman (detto Dick), una personalità brillante che lavorava al California Institute of Technology e suonava i bongos in un locale di spogliarelli dei dintorni. Secondo Feynman, un sistema non ha una sola storia, ma ogni storia possibile. Più avanti, nella nostra ricerca delle risposte, spiegheremo nei particolari l’impostazione di Feynman, e ce ne serviremo per analizzare l’idea che l’universo stesso non abbia un’unica storia, e neppure un’esistenza indipendente. Questa sembra un’idea radicale, anche a parecchi fisici. In effetti, come molti concetti della scienza attuale, pare essere in conflitto con il senso comune. Ma il senso comune è basato sull’esperienza di tutti i giorni, non sull’universo quale ci si rivela mediante meraviglie della tecnologia come quelle che ci consentono di spingere lo sguardo fin nel cuore dell’atomo o a ritroso nell’universo primordiale.
Fino all’avvento della fisica moderna era opinione comune che il mondo potesse essere interamente conosciuto tramite l’osservazione diretta, che le cose sono ciò che sembrano, così come vengono percepite mediante i nostri sensi. Viceversa, lo spettacolare successo della fisica moderna, basata su concetti che, come quello di Feynman, sono in contrasto con l’esperienza quotidiana, ha dimostrato che le cose non stanno così. La concezione ingenua della realtà, pertanto, non è compatibile con la fisica moderna. Per affrontare tali paradossi adotteremo un’impostazione che chiameremo realismo dipendente dai modelli. Questa impostazione si basa sull’idea che il nostro cervello interpreti l’informazione proveniente dagli organi sensoriali costruendo un modello del mondo. Quando un simile modello riesce a spiegare gli eventi, tendiamo ad attribuire a esso e agli elementi e ai concetti che lo costituiscono la qualità della realtà o della verità assoluta. Ma possono esserci modi diversi per creare un modello della medesima situazione fisica, e ciascuno di essi potrà utilizzare elementi e concetti fondamentali differenti. (...)
Nel corso della storia della scienza si è scoperta una serie di teorie o modelli sempre migliori, dalla concezione di Platone alla teoria classica di Newton, fino alle moderne teorie quantistiche. È naturale chiedersi: questa sequenza alla fine avrà un punto di arrivo, porterà a una teoria definitiva dell’universo che includa tutte le forze e predica ogni osservazione che è possibile fare, oppure continueremo per sempre a scoprire teorie di efficacia crescente, senza però mai approdare a una che non possa essere ulteriormente migliorata? (...) oggi disponiamo di una candidata al ruolo di teoria ultima del tutto, ammesso che ne esista effettivamente una, e questa candidata è chiamata teoria M.
(...) La teoria M non è una teoria nel senso consueto. È un’intera famiglia di teorie diverse, ciascuna delle quali è una buona descrizione delle osservazioni soltanto entro una certa gamma di situazioni fisiche. È un po’ come accade nel caso delle carte geografiche. Come si sa, non è possibile rappresentare l’intera superficie terrestre in un’unica carta. L’usuale proiezione di Mercatore, utilizzata per i planisferi, fa sembrare sempre più grandi le aree man mano che si va verso nord o verso sud e non copre le regioni dei poli. Per rappresentare fedelmente tutta la Terra si deve ricorrere a una serie di carte geografiche, ciascuna delle quali copre una regione limitata. Le varie carte si sovrappongono parzialmente tra loro, e dove ciò accade mostrano lo stesso paesaggio. La teoria M è in qualche modo analoga.
Le varie teorie che formano questa famiglia possono sembrare molto diverse, ma possono essere considerate tutte come aspetti della medesima teoria fondamentale. Sono versioni della teoria applicabili solo in ambiti limitati: per esempio, quando certe grandezze, come l’energia, sono piccole. Come accade per le carte che si sovrappongono, così dove gli ambiti di validità delle varie versioni si sovrappongono, queste predicono i medesimi fenomeni. Ma proprio come non c’è nessuna carta piana che sia una buona rappresentazione dell’intera superficie terrestre, così non c’è nessuna teoria che da sola sia una buona rappresentazione delle osservazioni in tutte le situazioni.
Vedremo come la teoria M possa offrire soluzioni alla questione della creazione. Secondo questa teoria, il nostro non è l’unico universo. Anzi, la teoria predice che un gran numero di universi sia stato creato dal nulla. La loro creazione non richiede l’intervento di un essere soprannaturale o di un dio, in quanto questi molteplici universi derivano in modo naturale dalla legge fisica: sono una predizione della scienza. Ciascun universo ha molte storie possibili e molti stati possibili in tempi successivi, cioè in tempi come il presente, assai lontani dalla loro creazione.
Gran parte di tali stati saranno radicalmente differenti dall’universo che osserviamo e soltanto pochissimi di essi consentirebbero l’esistenza di creature come noi. Pertanto la nostra presenza seleziona da questo immenso assortimento soltanto quegli universi che sono compatibili con la nostra esistenza. Sebbene siamo minuscoli e insignificanti sulla scala del cosmo, ciò fa di noi in un certo senso i signori della creazione. Per comprendere l’universo al livello più profondo, dobbiamo sapere non soltanto come esso si comporta, ma anche perché. Perché c’è qualcosa invece di nulla? Perché esistiamo? Perché questo particolare insieme di leggi e non qualche altro? Questo è l’interrogativo fondamentale sulla vita, l’universo e il tutto.
© 2010 by Stephen Hawking and Leonard Mlodinow Original art copyright © 2010 by Peter Bollinger © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S. p. A., Milano
Per gentile concessione Luigi Bernabò Associates srl
IL CASO
Hawking: "Vi spiego perché
non è stato Dio a creare l’universo"
La teoria nel nuovo libro dello scienziato: "Il Big Bang deriva solo dalle leggi della fisica". Molte reazioni dei teologi, dopo questo annuncio, alla vigilia della visita del Papa
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - L’universo ha bisogno di un Creatore? "No". La perentoria risposta arriva dal professor Stephen Hawking, l’astrofisico più famoso del mondo, considerato da molti l’erede di Newton, del quale ha per così dire ereditato la prestigiosa cattedra all’università di Cambridge. In un nuovo libro che esce in questi giorni, l’autore del best-seller internazionale Dal Big Bang ai buchi neri sostiene, sulla base di nuove teorie, che "l’universo può essersi creato da sé, può essersi creato dal niente" e dunque "non è stato Dio a crearlo".
La sua affermazione occupava ieri tutta la prima pagina del Times di Londra, come una sfida, l’ennesima, della scienza alla religione. "Così come Darwin ha smentito l’esistenza di Dio con la sua teoria sull’evoluzione biologica della nostra specie", commenta Richard Dawkins, biologo difensore dell’ateismo, "adesso Hawking la nega anche dal punto di vista della fisica". Nel suo libro più famoso, l’astrofisico aveva cercato di spiegare che cosa accadeva "prima" del Big Bang, ossia prima che nascesse il tempo, lasciando il quesito irrisolto. Il capitolo conclusivo conteneva un ragionamento che alcuni interpretarono come l’idea che Dio non fosse incompatibile con una comprensione scientifica dell’universo: scoprire cosa c’era prima Big Bang, arrivare a una "completa teoria" dell’universo - scriveva Hawking - "sarebbe il più grande trionfo della ragione umana, perché a quel punto conosceremmo la mente di Dio".
Ma nella sua nuova opera, intitolata The Grand Design (Il grande disegno o progetto) e scritta insieme al fisico americano Leonard Mlodinow, lo scienziato offre la risposta: anziché essere un evento improbabile, spiegabile soltanto con un intervento divino, il Big Bang fu "una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica". Scrive Hawking: "Poiché esiste una legge come la gravità, l’universo può essersi e si è creato da solo, dal niente. La creazione spontanea è la ragione per cui c’è qualcosa invece del nulla, il motivo per cui esiste l’universo, per cui esistiamo noi". Nel libro, lo studioso predice inoltre che la fisica è vicina a formulare "una teoria del tutto", una serie di equazioni che possono interamente spiegare le proprietà della natura, la scoperta considerata il Santo Graal della fisica dai tempi di Einstein.
E’ tuttavia la sua asserzione che Dio non ha creato l’universo, e dunque non esiste, a suscitare eco e polemiche. "Se uno ha fede", osserva il professor George Ellis, docente di teologia alla University of Cape Town, "continuerà a credere che sia stato Dio a creare la Terra, l’Universo o perlomeno ad accendere la luce, a innescare il meccanismo che ha messo tutto in moto, prima del Big Bang o del presunto nulla che lo ha preceduto". Ma il campo dell’ateismo accoglie la pubblicazione del libro di Hawking come una vittoria della ragione e della scienza, da celebrare a due settimane dalla visita in Inghilterra di papa Benedetto XVI, che non sarà per niente d’accordo con Hawking.
Nel nuovo libro, l’astrofisico rivela che il riferimento alla "mente di Dio" nel suo precedente volume sul Big Bang era stato male interpretato. Hawking non ha mai creduto che scienza e religione fossero conciliabili. "C’è una fondamentale differenza tra la religione, che è basata sull’autorità, e la scienza, che è basata su osservazione e ragionamento", conclude. "E la scienza vincerà perché funziona".
* la Repubblica, 03 settembre 2010
[...] Un diavolo politico, seppur cornuto, come quello che Ambrogio Lorenzetti mette al centro della celebre allegoria del cattivo governo, dipinta per il palazzo pubblico di Siena. Un tiranno, circondato da una squallida consorteria di vizi, che si mette sotto i piedi la giustizia, raffigurata con le mani legate (ogni riferimento al presente è puramente casuale). O addirittura un diavolo cardinale, come quello del Michelangelo della Sistina che nel Giudizio universale dà al signore dell’inferno il volto del potentissimo Biagio da Cesena, maestro di cerimonie del pontefice Paolo III. Non più ibridi con gli occhi verdi di ramarro ma uomini dallo sguardo luciferino e dalla crudeltà mefistofelica [...]
di Marino Nola (la Repubblica, 10 agosto 2010)
Uno nessuno centomila volti per l’inventore della tentazione. Il diavolo non è mai uguale eppure resta sempre lo stesso. Serpente infido, angelo caduto, caprone volante, dragone sulfureo. Ma anche eroe maledetto, libertino irredimibile, mercante d’anime. E ancora anormale, marginale, deviante. Bel tenebroso oppure brutto sporco e cattivo. E perfino terrorista e serial killer. Dalla Genesi ai nostri giorni il maligno ne ha cambiate di facce.
A dirlo è Daniel Arasse, storico dell’arte della Sorbona, in un libro appena uscito in Francia per le Edizioni Arke. Titolo Il ritratto del diavolo. Argomento, le mille sembianze con cui la nostra civiltà nel corso della storia ha cercato di rappresentare il principio attivo del male. Finendo per fare del signore delle tenebre il mutaforma per antonomasia. Proprio come quelli che oggi popolano il cinema e la letteratura fantasy. Ma in realtà ad essere veramente diabolico è proprio questo trasformismo gattopardiano. Cambiare tutto perché nulla cambi, mimetizzarsi per continuare ad indurci in tentazione.
Sin dai primi secoli del Cristianesimo la vera arma del diavolo è proprio la sua capacità di trucco e di travestimento. Tertulliano, uno dei padri della Chiesa, sosteneva che gli angeli ribelli scacciati dal paradiso rivelarono alle donne arti diaboliche come l’uso della “polvere nera con cui si prolungano gli occhi”. Quello che oggi non a caso si chiama mascara.
Seduzione uguale tentazione. Come quella cui viene sottoposto sant’Antonio da un sexy-diavolo in sembianze femminili. Simile alla sensualissima Anita Eckberg che Fellini, in “Le tentazioni del dottor Antonio”, trasforma in una prorompente diavolessa bionda che sulle note di “bevete più latte” fa perdere la testa a Peppino De Filippo nelle vesti del bacchettone di turno. Di fatto Tertulliano, oltre a riaffermare che la tentazione è femmina, condanna la cosmetica in quanto mascheramento che snatura il modello divino di cui il volto umano è la copia rivelatrice. E in molte incisioni medievali il demonio viene riconosciuto proprio quando si toglie la maschera. Finendo letteralmente smascherato. Proprio come Diabolik. E come Arlecchino, la maschera per antonomasia, che in origine è anche lui un diavolo. Lo dice il nome stesso che viene dall’antico germanico hölle könig, che in inglese diventa hell king, ovvero re dell’inferno.
Ma questa capacità illusionistica non è solo uno strumento del mestiere, è anche la storica ragion d’essere del maligno. Che riesce, ieri come oggi, a rendere il male pensabile e soprattutto rappresentabile solo a condizione di restare un’icona a bassa risoluzione cui la Chiesa stessa non ha mai dato un volto definitivo. Ed è proprio grazie a questa indefinizione che il diavolo è rimasto un evergreen. Capace di un morphing perpetuo che ne fa sempre il profilo più aggiornato del male, la sua ultima versione.
Diceva Dostoevskij che in realtà l’uomo ha creato il diavolo a sua immagine e somiglianza. Come dire che ogni epoca ha il Lucifero che si merita. Lo mostra a chiare lettere la storia dell’arte occidentale che registra puntualmente le metamorfosi del grande nemico. Sin dalle prime raffigurazioni altomedievali dove Satana e Belzebù hanno facce da turchi, da mongoli, da africani. Tratti etnici per significare un male straniero, un pericolo che viene dall’esterno. Fino a quel tornante decisivo che sta fra medioevo ed età moderna quando il demonio perde le ali di pipistrello, la coda di dragone, gli zoccoli da satiro pagano, per lasciare il posto a un maligno dal volto umano.
Un diavolo politico, seppur cornuto, come quello che Ambrogio Lorenzetti mette al centro della celebre allegoria del cattivo governo, dipinta per il palazzo pubblico di Siena. Un tiranno, circondato da una squallida consorteria di vizi, che si mette sotto i piedi la giustizia, raffigurata con le mani legate (ogni riferimento al presente è puramente casuale). O addirittura un diavolo cardinale, come quello del Michelangelo della Sistina che nel Giudizio universale dà al signore dell’inferno il volto del potentissimo Biagio da Cesena, maestro di cerimonie del pontefice Paolo III. Non più ibridi con gli occhi verdi di ramarro ma uomini dallo sguardo luciferino e dalla crudeltà mefistofelica.
Così il diavolo cede il posto al diabolico che è in ciascuno. Come diceva Paul Valéry, il diavolo diventa come Dio. Entrambi esistono, ma solo in noi e insieme formano una coppia inseparabile di divinità latenti. Come dire che la modernità lascia all’uomo la scelta tra bene e male. Tra resistere alle tentazioni del peccato o al contrario cedere deliberatamente cancellando così l’idea stessa di peccato. Una rivoluzione che finisce per fare del diavolo il simbolo della vittoria del piacere e della libertà. O, addirittura, della forza vindice della ragione, per dirla con Giosuè Carducci. Un eroe bello e impossibile. Come il Satana di William Blake del Victoria and Albert Museum di Londra, uno Spartaco venuto dagli inferi che guida gli angeli ribelli all’assalto del trono di Dio. E come il Satana di Milton che preferisce essere re all’inferno piuttosto che servo in paradiso.
Ma proprio perché si è fatto umano, troppo umano, il diavolo sparisce progressivamente dalla pittura e dall’iconografia. Che hanno bisogno di forconi, di artigli, di squame e di occhi fosforescenti da incubo. Se è facile dipingere dei mostri è difficile rappresentare la mostruosità. E così l’agente del caos esce dai manuali di storia dell’arte per entrare in quelli di criminologia e di psichiatria. E a dargli la caccia sono gli scienziati come Cesare Lombroso che fa dell’antropometria una demonologia positivista popolata di delinquenti, anormali, briganti, mattoidi e “pazzi morali”.
Uno zoo umano affollato di poveri diavoli come il “falsario piemontese”, il “ladro napoletano”, “l’anarchico lucano”. Più demonizzati che demoni in verità. Oggi, scacciato dalla morale religiosa Satana si delocalizza e si scioglie nel sociale. Entra nei moderni tribunali della coscienza laica con un look tutto nuovo. Un diavolo che veste Prada. Terziarizzato, immateriale, interiorizzato.
E soprattutto medicalizzato. Un maligno da psicologi e dietologi più che da teologi. Un demonio interinale microfisicamente nebulizzato in mille piccole tentazioni e altrettanto piccole demonizzazioni che ci aiutano ad orientarci tra un bene e un male ad assetto variabile, più mutevoli degli indici della borsa. Dal colesterolo ai radicali liberi, dai grassi idrogenati ai raggi UVA. Dal sovrappeso agli inestetismi. Dalla mucca pazza all’effetto serra. E così il simbolo del male diventa sintomo di malessere. È tutto quel che resta del diavolo nell’era della flessibilità. Che ha tolto il posto fisso anche a Belzebù.
“Le portrait du diable”, un saggio di Daniel Arasse, ed. Arke
MA QUANDO?
di don Aldo Antonelli
Quando vediamo la luce?
Un vecchio rabbino domandò una volta ai suoi allievi da che cosa si potesse riconoscere il momento preciso in cui finiva la notte e cominciava il giorno.
"Forse quando si può distinguere con facilità un cane da una pecora?".
"No" disse il rabbino.
"Quando si distingue un albero di datteri da un albero di fichi?".
"No" disse il rabbino.
"Ma quando allora?" domandarono gli allievi.
Il rabbino rispose:
"È quando, guardando il volto di una persona qualunque, tu riconosci il fratello o la sorella. Fino a quel punto, è ancora notte nel tuo cuore".
Finisca la notte. E inizi il giorno.
Aldo
La politica dell’antistato
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 03.08.2010)
È arduo farsi un’idea precisa della portata della trasformazione politica prodotta dai governi Berlusconi. Ma è urgente cominciare a fare un rendiconto per poter agire con prudente speditezza e capire che cosa fare. Partiamo dalle accuse mosse dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, al premier nel momento del suo congedo burrascoso dal Pdl. La prima accusa è di trattare gli affari di stato come affari di partito e gli affari di partito come affari suoi; la seconda accusa è di far passare l’impunitá per garantismo. La logica patrimonialista viene denunciata da anni; ora è confermata dal suo piú autorevole testimone. Queste le componenti inanellate: lo Stato è il partito e il partito è l’azienda del premier; di qui nasce la politica dell’illegalitá, che non è dunque una semplice questione morale. Tutto si lega nella logica privatistica che è, questo è il punto, una logica dell’anti-Stato.
Questo governo non lascerá solo macerie, dunque. Lascerá qualcosa di nuovo, forse il lascito piú tremendo e anche quello che occorrerá subito demolire, senza second thought. Il monito di qualche giorno fa del presidente della Repubblica a mettere in moto gli «anticorpi» interni alla nostra democrazia è un autorevole punto fermo dal quale partire. È urgente smontare il metodo di governo messo in piedi in questi anni, ovvero l’identificazione della decisione con l’emergenza, dell’informazione con la propaganda, della giustizia con la persecuzione, della legge con i lacci alla libertá, della pratica dell’illecito con la favola della «poche mele marce».
A questo metodo corrisponde il teorema, sintetizzato dal presidente della Camera, della illegalitá sistemica, composta e ridimensionata ad arte come questione morale. Ma dietro il linguaggio bonario delle «poche mele marce» che il premier e i suoi Tg dispensano per noi popolo dell’ascolto passivo, si nasconde una vasta e organica trama di governo sotterraneo degli affari, delle amicizie, dei privilegi; una trama che ha la natura di una politica dell’anti-Stato, volta a cambiare il carattere del potere pubblico e delle relazioni tra Stato e cittadini.
Chiamandolo anti-Stato riconosciamo che questo partito-governo-azienda ha e ha avuto una filosofia, un progetto preciso, a suo modo sovversivo e radicale. In una lettera a Repubblica del 5 luglio scorso, il Ministro Bondi, spiegando la tempra innovativa del suo leader, affermava che la «solitudine» del premier rispetto, non all’opinione pubblica, ma «al mondo politico, istituzionale e culturale», al mondo delle «alte magistrature istituzionali» era causato proprio dal fatto che il premier è «totalmente avulso» dalla logica dello Stato di diritto, dal «potere di veto derivante da una architettura istituzionale» e «dalla sedimentazione di norme burocratiche». Questa analisi è illuminante e da prendere sul serio. Il presidente del Consiglio è un «uomo nuovo», e per questo ammirato da chi ha sempre sentito le istituzioni come un impaccio alla libertà, invece che come canali di coordinamento delle azioni collettive per rendere la libertà individuale sicura perché non alternativa alla libertà altrui.
Questa è una rottura radicale con lo Stato moderno; e una ferita che peserà sulla nostra democrazia, nonostante i suoi provati anticorpi. Peserà, perché l’ammirazione per il guasconismo del neofita non è per nulla un fatto isolato, ma una componente della nostra tradizione politica nazionale. Che il Premier sia visto come un modello di modernità a paragone dei funzionari pubblici (le «alte magistrature istituzionali») è segno di una filosofia radicalmente sovversiva della modernità: un’esaltazione della rivolta del dominium (potere della forza, economica e privata) contro l’imperium (potere del pubblico).
Un nuovo ancien régime nell’età del mercato, una rivincita dell’oikos contro la polis, della «fatticità» della forza degli interessi contro la «nomatività» delle relazioni pubbliche, del fastidio quasi a veder trattare «me» e «te» come uguali nonostante il «mio» potere sia tanto più grande del «tuo», della repulsione verso l’eguaglianza di rispetto.
Alcuni «rivoluzionari» di quarant’anni fa sono rimasti irretiti e stregati da questo «uomo nuovo» perché hanno visto in lui la personificazione della loro convinzione che l’idea della legge imparziale sia ideologia da parrucconi, fatta per nascondere il «vero» potere, quello che opera nella società, che agisce senza orpelli e senza ipocrita imparzialità.
Perché onorare le istituzioni se sono solo una formalità e un espediente ideologico? Perché non ammirare il potere nella sua diretta espressione? La lettura della «solitudine» di Berlusconi rispetto al mondo dello Stato rivela questa antica attrazione per il «realismo» contro la norma, il disprezzo per chi crede nel diritto e non sa ammirare il potere «reale», un potere capace di rimescolare il pubblico e il privato gettando alle ortiche la stantia e ipocrita arte liberale della limitazione e della separazione. L’illiberalità, denunciata anche da Fini, è la logica che presiede un’idea di libertà come potenza.
La pratica del rimescolamento di pubblico e privato che il Premier e i suoi amici e ammiratori hanno inaugurato in questi anni è un macigno che pesa e peserà ancora sulla nostra vita pubblica. Smantellare questa politica anti-istituzionale radicale è il compito più urgente, un compito il cui successo dipenderà da almeno due fattori: che l’opinione pubblica e l’informazione facciano il loro lavoro di svelamento e critica, che non accettino più di essere strumenti di nascondimento della verità per tenere i cittadini spettatori passivi e adoranti; che l’illegalità venga chiamata col suo nome e perseguita con sistematica determinazione affinché il governo degli affari sia smantellato e la sua filosofia si mostri per quello che è, una ideologia del potere illimitato.
CHE ILLUSIONE AFFIDARSI ALLA CHIESA-CATTOLiCA:
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 01.08.2010)
«Molti anni fa un uomo, in Oriente, possedeva un anello inestimabile, un dono caro. La sua pietra, un opale dai cento bei riflessi colorati, aveva un potere segreto: rendere grato a Dio e agli uomini chiunque la portasse...». Comincia così la parabola che Nathan, un saggio ebreo gerosolimitano, narra al sultano Saladino nel 1192, durante una parentesi delle lotte tra musulmani e cristiani in Terrasanta. Questa parabola è nota a tutti nel suo esito finale, anche perché secoli prima che Ephraim Lessing nel 1779 la incastonasse nel suo poema drammatico Nathan il saggio, fatto di 3.849 pentapodie giambiche, il nostro Boccaccio l’aveva messa in bocca a "Melchisedech giudeo" nella terza novella della prima giornata del suo Decameron.
L’anello, lasciato in eredità di generazione in generazione, «giunse alla fine a un padre di tre figli, tutti e tre ugualmente obbedienti e da lui amati allo stesso modo... Così, con affettuosa debolezza, egli promise l’anello a tutti e tre». Ma come alla fine assegnarlo? La soluzione è nota: ne fece cesellare altri due identici e, in punto di morte, chiamò i figli uno per uno e a ciascuno consegnò un anello. Nessuno dei tre sapeva quale fosse quello vero.
La metafora è sciolta da Lessing nello spirito della tipica liberalità illuministica, che animava il nostro autore tedesco e che sarà celebrata anche dal famoso elogio della tolleranza intessuto da Voltaire.
I tre monoteismi, incarnati dai tre anelli, devono coesistere in spirito ecumenico e armonico. Sarà ciò che espliciterà il giudice a cui i tre figli ricorrono per dirimere la questione dell’autenticità e, quindi, del primato: «Ognuno di voi ebbe l’anello da suo padre, ognuno di voi sia sicuro che esso è quello vero. Egli vi ha amati ugualmente tutti e tre; non volle, infatti, umiliare due di voi per favorirne uno solo. Sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi! Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra del suo anello! E aiuti questa virtù con la dolcezza, con indomita pazienza, con la carità e con profonda devozione a Dio».
Giustamente nella nuova edizione di questo "dramma di idee", il curatore Leo Lestingi appaia alle parole del giudice un passo del Corano molto significativo di cui il testo di Lessing sembra essere quasi una «riscrittura laica»: «Se Dio avesse voluto, avrebbe fatto una comunità unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quello che vi ha dato. Gareggiate, allora, nelle opere buone perché tutti a Dio tornerete e in quel momento Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (5, 46-48).
Non è ora nostro compito illustrare la tesi di Lessing, secondo il quale la vera religione è quella che rende migliore l’uomo, adottando così un parametro veritativo esistenziale, etico e antropologico. Come osserva Lestingi, per lo scrittore tedesco «ciò che conta non è il fatto di essere cristiani, ebrei o musulmani, se ciò porta a oscurare la dignità umana, ma è l’essere uomini; decisivi sono i valori e i compiti di un umanitarismo qualitativo».
Questa concezione esalta, certo, il pluralismo, ribadisce che ogni religione ha un suo frammento di verità, ma anche introduce consequenzialmente una sorta di soggettivismo e persino di relativismo.
Infatti, i tre devono adattarsi a considerare come autentici tutti e tre gli anelli, ignorando la realtà oggettiva per la quale uno solo è l’anello vero. A questo proposito desidererei accennare molto sinteticamente a una questione più attuale e più complessa nelle sue formulazioni teoriche e pratiche.
Intendo riferirmi al dialogo interreligioso che ai nostri giorni ha un rilievo straordinario, soprattutto con l’irruzione della globalizzazione e con l’affacciarsi impetuoso di un monoteismo, quello islamico, nelle nostre città cristiane. Il dialogo tra le religioni è diventato, quindi, anche un nuovo capitolo della teologia contemporanea. Anzi, aveva ragione il teologo Heinz R. Schiette quando, già nel 1963, nel suo saggio Le religioni come tema della teologia osservava che «ci si trova di fronte a un terreno dogmaticamente nuovo, paragonabile alle zone in bianco degli antichi atlanti».
Al tradizionale paradigma dell’ “esclusivismo” (extra ecclesiam nulla salus) si è sostituito quello dell’ “inclusivismo”, suggerito soprattutto dal famoso teologo tedesco Karl Rahner, mentre il Concilio Vaticano II ha dato impulso «al dialogo e alla collaborazione dei cristiani coi seguaci delle altre religioni» (Nostra Aetate 2), così come si sono tentate mediazioni ulteriori tra i due paradigmi citati attraverso la proposta di un cristianesimo "relazionale".
Si è, però, corso anche il rischio di procedere verso la deriva di un pluralismo che in pratica faceva perdere l’identità alla teologia cristiana stingendone, se non estinguendone, il volto proprio. Si pensi, ad esempio, al cosiddetto paradigma "geocentrico" proposto dal teologo presbiteriano britannico John Hick nelle sue opere Dio e l’universo delle fedi (1973) e Dio ha molti nomi (198o), destinato a cancellare la speciticità cristologica. In sede meno teorica e più etico-politica - e, quindi, con minore assertività - si è mosso anche il noto Progetto per un’etica mondiale, elaborato nel1990 da Hans Küng (in italiano fu tradotto da Rizzoli nel 2001) e adottato dal "Parlamento delle religioni" di Chicago nel 1993: esso si basava su un consenso morale minimo verso cui le grandi tradizioni culturali e religiose dovevano convergere per essere al servizio dell’humanum, così da creare un mondo «giusto, pacifico e sostenibile».
È significativo notare che Küng rimandava proprio a Lessing, affermando che la bontà o meno di una religione, e quindi la sua "verità", dipende dalla sua promozione autentica della dignità dell’uomo e del bene comune.
Se è vero che il fondamentalismo etnocentrico e integralistico è la negazione esplicita del dialogo interreligioso e dell’ecumenismo, lo sono però anche le forme di sincretismo e relativismo, che più facilmente tentano civiltà stanche e divenute meno identitarie come quelle occidentali.
Anche questo atteggiamento - come quello che propone vaghe religioni "unitarie" su pallidi e inoffensivi denominatori comuni (ne sono esempi le tesi dello storico inglese Arnold Toynbee o del pensatore indiano Vivekananda) - si oppone al vero dialogo. Esso, infatti, suppone nei due soggetti un confronto di identità e di valori, certo per un arricchimento reciproco, ma non per una dissoluzione in una generica confusione o in un appiattimento.
Come l’eccesso di affermazione identitaria può diventare duello non soltanto teorico, ma anche armato, così il concordismo generico può degenerare in un incolore uniformismo o in una "con-fusione" relativistica. Conservare l’armonia della diversità nel dialogo e nell’incontro, come accade nel duetto musicale (che crea armonia pur nella radicale differenza dei timbri di un basso e di un soprano), è la meta di una genuina e feconda esperienza multiculturale, interculturale e interreligiosa.
Lestingi è, comunque, convinto che Lessing «non abbia mai voluto sfilarsi di dosso il cristianesimo come una vecchia tunica logorata, ma ha inteso interpretarlo in maniera nuova e ardita facendogli fare un salto in avanti». Un salto, però, piuttosto rischioso che ha sotto di sé anche il vuoto di uno smarrimento della specificità e dell’autenticità teologica.
Gotthold Ephraim Lessing, «Nathan il saggio», a cura di Leo Lestingi, Palomar, Bari, (via Nicolai, 47), pagg. 246, € 24,00.
la recensione
Di Francesco e Boncinelli, indagine sulle tracce dell’io
di ANDREA L AVAZZA (Avvenire, 04.08.2010)
In una società individualistica e narcisistica come la nostra, in cui tutti parlano sempre di più in prima persona singolare, può apparire paradossale chiedersi «che fine ha fatto l’io?». Eppure, da una prospettiva scientifica, è quanto mai pertinente il titolo del recente volume, strutturato in forma di dialogo, del genetista e neuroscienziato Edoardo Boncinelli e del filosofo della mente Michele Di Francesco, entrambi attivi all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
Le scienze cognitive contemporanee, ancora più radicalmente di Freud e della filosofia novecentesca, hanno infatti messo in questione l’unità, la razionalità, la coerenza e la capacità di governare l’azione dell’io. Danni cerebrali di piccola entità possono colpire selettivamente le nostre capacità mentali, mentre molti esperimenti mostrano che nel cervello sono in azione simultanea varie agenzie cognitive che si contendono il centro della coscienza.
E almeno due sistemi alternativi guidano i nostri processi decisionali. Uno è veloce, istintivo, automatico e poco flessibile; l’altro è più lento, sottoposto al controllo consapevole, più duttile e raffinato. Se bisogna spostarsi all’istante perché ci sta cadendo un vaso in testa, è meglio affidarsi al primo; se vogliamo decidere al meglio in un contesto di interazione sociale, risulta migliore il secondo.
Ma, spesso, si manifestano cortocircuiti che ci rendono incoerenti o irrazionali agli occhi degli altri. D’altra parte, andiamo scoprendo che siamo inconsciamente influenzati nei modi più bizzarri da situazioni che giudicheremmo irrilevanti, come i giovani che, dopo aver partecipato a un test centrato sugli anziani e il loro comportamento, camminano molto più lentamente del solito lasciando l’aula in cui hanno partecipato alla prova.
Che dire poi della libera volontà, che riteniamo al massimo influenzata dai condizionamenti culturali, dalle mode e dalla pubblicità? In laboratorio, i neuroscienziati ci indicano invece che le nostre decisioni sono prese dal cervello ben prima che ce ne rendiamo conto, dissolvendo così la nostra idea di libertà e lo stesso ruolo attivo dell’io.
Sono soltanto alcune delle risultanze che fanno parlare di una ’scomparsa’ del soggetto personale come lo conoscevamo. Più tranchant è Boncinelli, che con alta competenza dà voce alle posizioni della scienza sperimentale; meno ostile a ritenere l’Io un’entità reale con rilevanza causale Di Francesco, studioso raffinato anche della fenomenologia.
La forma dialogica del libro rende facilmente accessibile l’immersione in un ambito di ricerca che sta rivoluzionando l’immagine di noi stessi. E che pone anche interrogativi forti e pressanti a chi non ritenga che l’unica certezza identitaria rimastaci sia il Dna. Come scrive Di Francesco, infatti, riferendosi al concetto di io agostiniano, per il quale la verità è nel cuore dell’uomo, dove si trova anche Dio, «se ci muoviamo con le risorse della scienza e della filosofia, questo tipo di verità resta fuori dal discorso».
E. Boncinelli - M. Di Francesco
CHE FINE HA FATTO L’IO?
San Raffaele. Pagine 206. Euro 19 ,50
Al Festivalfilosofia, 17, 18, 19 settembre 2010 (Modena, Carpi, Sassuolo), dedicato al tema della fortuna (http://www.festivalfilosofia.it/2010/), Nicla Vassallo (http://www.niclavassallo.net/) terra’ una lectio magistralis su "Cultura dell’errore", il 17 settembre a Carpi, alle ore 11.30, in Piazzale Re Astolfo:
http://www.festivalfilosofia.it/2010/?mod=eventi&categoria=1622
http://www.festivalfilosofia.it/2010/?mod=protagonisti&id=1910
http://www.festivalfilosofia.it/2010/?servizi_stampa=1&mod=scarica_immagini&high=1
Dibattito.
La scienza non può più negare l’esistenza di Dio
Parla Olivier Bonnassies, autore con Michel-Yves Bolloré di un best-seller internazionale che incrocia cosmologia, fisica, storia e teologia. Per dimostrare che non c’è contrasto tra fede e ragione
di Riccardo Maccioni (Avvenire, lunedì 26 agosto 2024)
A volte per capire il senso di una storia, la radice di una ricerca, bisogna partire dalla fine. Nel nostro caso dall’ultima frase della pagina conclusiva di un libro, una parafrasi di san Paolo all’Areopago di Atene così come raccontato negli Atti degli apostoli: Dio ha creato l’essere umano perché lo cerchi. Ed è un viaggio iniziato all’alba del mondo, destinato a non finire mai. Un itinerario giocato sul filo dell’orgoglio dell’uomo e sulla sua presunzione di poter catturare con le proprie sole forze il mistero. Si pensi a quella che in certi periodi è parsa una vera guerra tra fede e ragione, all’indisponibilità da parte della scienza di riconoscere la possibilità di qualcosa o qualcuno che la oltrepassasse, impossibile da recintare. Per secoli le acquisizioni, soprattutto nel campo della fisica e della matematica, sono state orientate in un’unica direzione, cioè la capacità, comunque la possibilità, di spiegare l’universo senza la necessità di un Dio creatore.
Però il pendolo della storia ha cambiato orientamento, mettendo in fila, a partire dalla prima metà del XX secolo, scoperte che hanno avvalorato con forza l’ipotesi dell’esistenza di una causa intelligente originaria. A queste ricerche, e quindi alla possibilità di arrivare a Dio attraverso la ragione, è dedicato il libro cui si accennava all’inizio:
Dio. La scienza, le prove. L’alba di una rivoluzione (Edizioni Sonda, 612 pagine, euro 24,90),
saggio bestseller internazionale di cui sono autori l’ingegnere informatico Michel-Yves Bolloré docente all’Université Paris-Dauphine e l’imprenditore Olivier Bonnassies diplomato all’École Polytecnique di Parigi e laureato in teologia all’Institute Catholique, sempre della capitale francese. «Questo libro - spiega Bonnassies, 58 anni il prossimo 16 settembre - è un’indagine pensata per rispondere a un’unica domanda: “Esiste un Dio Creatore?”. E da un solo punto di vista, la razionalità. Per farlo mettiamo a disposizione del lettore, giudice di questa inchiesta, una dozzina di dossier tematici indipendenti per offrire un quadro il più possibile completo sull’argomento».
Il volume, come spesso succede, nasce dall’incontro tra due profili differenti. «Nel 2013 - commenta Bonnassies - ho pubblicato il video “Démonstration de l’existence de Dieu et raison de croire chrétienne” (Dimostrazione dell’esistenza di Dio e ragioni cristiane per credere) che ha avuto 1,8 milioni di visualizzazioni, in cui descrivo le ragioni razionali che mi hanno portato a diventare credente quando ero giovane. Michel-Yves Bolloré è stato uno dei primi a guardarlo. Mi ha contattato dicendomi che era molto buono ma che si poteva fare di più, perché aveva studiato il tema per 30 anni ed era convinto che il grande pubblico non sapesse quanto le cose fossero cambiate grazie alla svolta avuta dalla ricerca scientifica. Il libro è nato così».
E dire che fino a vent’anni Bonnassies è stato ateo. «Ho studiato scienze e ho frequentato l’École Polytechnique, dove ho creato la mia prima azienda. Con il mio partner abbiamo iniziato a divertirci, a guadagnare soldi, ad avere “successo”, ma presto mi sono reso conto che queste cose non mi davano la felicità. Ho cominciato a farmi domande sul senso della vita: da dove veniamo? Dove andiamo? Qual è il significato? Ero convinto che non ci fossero risposte, perché altrimenti tutti le avrebbero trovate e me lo avrebbero rivelate, così ho iniziato a cercare, ma senza molte speranze. Per caso mi sono imbattuto in alcuni libri che sostenevano l’esistenza di forti ragioni razionali per credere in Dio e in Gesù, e sono rimasto sorpreso nello scoprire che queste motivazioni erano estremamente solide se si era disposti a indagare. Oggi sono felice di vedere che la stessa sorpresa è stata condivisa dai lettori del libro».
Il volume mostra come, storicamente, le conquiste scientifiche siano sembrate allontanare sempre più l’uomo dall’idea di Dio. Negli ultimi decenni questo atteggiamento si è invertito. «Per quattro secoli, da Copernico a Freud, passando per Galileo, Newton, Laplace e Darwin, la scienza è sembrata in grado di spiegare sempre più cose senza bisogno dell’ipotesi di Dio. Marx e Freud, che si dichiaravano scienziati, cercarono persino di far credere che la religione fosse tossica, “l’oppio dei popoli”. Tutto questo ha generato una corrente materialista e scientista che ha dominato il XIX e il XX secolo. Le cose sono cambiate con la scoperta della termodinamica, che dimostra che l’universo si sta logorando e dirigendo verso una morte termica. L’universo ha quindi avuto un inizio. E questa scoperta, successivamente confermata da molti altri approcci razionali, ha implicazioni immense perché, se c’è un inizio, c’è un Dio».
Alla base di questo cambiamento di prospettiva ci sono alcune conquiste scientifiche fondamentali. «Tre cose: in primo luogo, ora sappiamo con certezza che l’universo è composto da tempo, spazio e materia indissolubilmente legati; in secondo luogo, che sicuramente ha avuto un inizio assoluto; e in terzo luogo, che è straordinariamente regolato in tutti i suoi aspetti per consentire la vita complessa. Queste tre scoperte hanno enormi implicazioni, perché se il tempo, lo spazio e la materia, intimamente legati, hanno avuto un inizio, è perché la causa all’origine per definizione trascende il nostro universo, cioè è non spaziale, non temporale e non materiale, visto che ha avuto il potere di creare tutto ciò che esiste, e che lo ha anche regolato in modo che i quark e gli atomi potessero essere stabili con valori molto precisi (senza i quali non sarebbe possibile alcuna evoluzione complessa), che le stelle potessero bruciare per 10 miliardi di anni e che si potesse sviluppare la vita complessa. Con questi importantissimi e semplicissimi risultati, la scienza ci fornisce l’esatta definizione di ciò che tutte le filosofie e tutte le religioni classiche indicano come Dio, cioè un essere trascendente, esterno all’universo, che lo ha creato affinché un giorno potessero emergere la vita complessa e gli esseri umani».
La domanda di fondo del libro è se si possa credere in Dio su una base puramente razionale. «Si può, assolutamente, e sempre di più. A impedire una risposta a questa domanda sarebbe la mancanza di conoscenza che oggi però a livello generale progredisce a rotta di collo grazie alla scienza, a Internet, agli scambi internazionali e ai mezzi di informazione. È un po’ come quando si alza la marea o si dirada la nebbia: la realtà sul campo appare a poco a poco e rivela un paesaggio inaspettato, che cambia tutto. Da soli sarebbe difficile arrivare a una conclusione, ma siamo come Newton che ripeteva: «Ho potuto andare più lontano perché ero appollaiato sulle spalle dei giganti che mi hanno preceduto». Vale anche per noi oggi, grazie agli studiosi, ai filosofi, ai santi e ora agli scienziati. Possiamo dire che non ci sono mai state tante prove dell’esistenza di Dio».
Tra i temi che il libro presenta come fondamentali c’è Gesù, risulta imprescindibile la domanda su chi possa essere stato. «Gesù - prosegue Bonnassies -, un semplice falegname venuto da Nazareth, che ha parlato per tre anni e poi è morto, ha lasciato un segno nell’umanità come nessun altro e ha spaccato la storia in due. Si tratta di una “anomalia” nella storia che è molto difficile da spiegare in modo naturale. Ma la scoperta di cause soprannaturali necessarie è un altro modo per dimostrare che non è possibile che non ci sia altro che l’universo materiale». In sintesi, possiamo dire che il libro mette in evidenza il modo in cui le più recenti conquiste scientifiche, in particolare nel campo della fisica, postulano l’esistenza di un Dio creatore. «Sì, però presentando in modo ben documentato i dodici dossier indipendenti. Vogliamo che i lettori si facciano un’idea propria. E questo senza nascondere, la nostra conclusione: il materialismo è diventato una credenza irrazionale. Non è più sostenibile».
Tornando alla citazione iniziale, che poi è la fine del libro, il volume si conclude con un passaggio del sermone di san Paolo all’Areopago di Atene: “Dio ha creato l’uomo perché lo cerchi”. Un invito che è alla base di tutto lo studio di Bolloré e Bonnassies. «Proprio così - concluse Bonnassies -! L’unico rischio è quello di perdersi. Cristo ha detto: “Chi cerca, trova” (Lc 11,10), ma se non si cerca bene, non ci si deve stupire se non si trova quello che cerchiamo. Il nostro libro offre un aggiornamento che permette a tutti di costruirsi una propria opinione informata».