(Per leggere i testi, cliccare sui titoli:)
L’amor (charitas) che muove il Sole e le altre stelle ... non ha niente a che fare con "mammona", "mammasantissima", "padrini", e... "andranghatia".
IL "SEGRETO" DEL "NOME" RIVELATO E CHIARITO: GIUSEPPE dà a suo Figlio, GESÙ (= "Dio" salva), il NOME del Suo "Dio", e Gesù rivela che il Nome di "Dio" è "Amore", al di là dell’Eros e dell’Agape, è - teocritica-mente - Charitas!!!
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
IL CROCIFISSO: UN PEZZO DI LEGNO, PINOCCHIO, E NOI, ITALIANI ED ITALIANE. INDIETRO NON SI TORNA.
FLS
IL NUOVO CRISTIANESIMO DELL’UCRAINA
Sono due le principali Chiese ortodosse del Paese invaso: la Chiesa ortodossa ucraina (indipendente) di EPIFANIO e la Chiesa ortodossa d’Ucraina (subordinata al patriarcato di Mosca) di ONOFRIO. È il primo, con toni inequivocaboli, a spiegare che cosa sta nascendo
di Marco Ventura (Corriere della Sera, “La Lettura”, 5 giugno 2022)
Sono i nuovi cristiani quelli che si battono in Ucraina. È un nuovo cristianesimo quello che si produce nella guerra. Ce ne rendiamo conto sempre di più, a mano a mano che gli occhi si abituano all’oscurità di questa guerra. La trasformazione, naturalmente, non appare nitida. Il cristianesimo del futuro si delinea nei chiaroscuri. La sua luce appare fioca come una lampadina a fluorescenza appena accesa. Del resto i nuovi cristiani si stanno facendo mentre gli anfibi affondano nel fango, nella poltiglia dell’urgenza e della forza maggiore, mentre tutto sembra antico e provvisorio.
Per comprendere, «la Lettura» ha dialogato a distanza con il Metropolita di Kiev Epifanio, capo della Chiesa ortodossa ucraina riconosciuta tre anni fa dal patriarca ecumenico di Costantinopoli come indipendente, «autocefala» nel gergo del diritto canonico ortodosso. Le domande e le risposte scritte sono state discusse con Dmytro Vovk, esperto internazionale di libertà religiosa, e da lui tradotte dall’inglese in ucraino e viceversa.
Epifanio è l’uomo sul confine, nuovo cristiano per scelta e per necessità, leader di quella Chiesa indipendente eppure vincolata al destino del popolo da cui comincia questo nuovo cristianesimo. Il metropolita non è d’accordo con l’enfasi sul 2019, l’anno del tomos, il documento che riconosce l’autocefalia: «Non si dovrebbe iniziare dal 2019, ma almeno dal 1917, quando la lotta per l’indipendenza della Chiesa in Ucraina cominciò subito dopo la caduta dei Romanov».
La Chiesa dei nuovi cristiani sa di oppressione, di lotta per la liberazione: «La strada è stata lunga, l’occupazione spirituale di Mosca è durata più di tre secoli». L’invasione russa amplifica il senso del percorso, reclama un sigillo divino: «Siamo a casa nostra, stiamo costruendo la nostra Chiesa ortodossa ucraina autocefala sulla terra dataci da Dio affinché ci prendiamo cura del nostro gregge». Il dubbio che la svolta del 2019 abbia aumentato le tensioni scivola in una domanda. Il metropolita non lascia spazio: «Il modo in cui è posta la domanda corrisponde alla falsa narrativa diffusa dalla Russia». La contrapposizione con il patriarcato di Mosca diventa ancora più esplicita quando si chiede che cosa avrebbero potuto fare gli ortodossi per scongiurare la guerra. Se i vertici della Chiesa russa, nella terminologia tecnica ortodossa «i gerarchi», «si sentissero parte della Chiesa di Cristo e non di un dipartimento religioso al servizio del Cremlino, se vivessero secondo il Vangelo e testimoniassero la verità, non sarebbero uno strumento ideologico del potere russo». L’indipendenza in questione non è soltanto quella tra le Chiese, ma anche quella dallo Stato. Se gli si fa osservare che il connubio di Stato e Chiesa tipico dei Paesi ortodossi appare ancora più problematico oggi a causa della guerra, Epifanio ribatte che «nessuna Chiesa può rinunciare ai rapporti con lo Stato» e visto che dialoga con un quotidiano italiano, respinge al mittente: «Il centro della Chiesa cattolica, il Vaticano, è esso stesso uno Stato e costruisce relazioni con altri Paesi come uno Stato».
Poi prende un’altra strada: «Noi non abbiamo un tale status e non lo cerchiamo». Per illustrare «la differenza che conta» ricorre ancora una volta al contro esempio russo: «La Chiesa può essere un’istituzione indipendente che dialoga con il governo ed è leale verso la statualità, oppure può essere dipendente, subordinata al governo, parte della macchina propagandistica del regime, come si vede in Russia dove la Chiesa è uno dei tentacoli della piovra aggressiva».
Lo schema si ripete sul patriottismo cristiano: «La Chiesa non rifiuta il sano patriottismo perché questo si basa sulla principale virtù cristiana: l’amore». Tuttavia «l’uso del patriottismo, anche cristiano, da parte della Russia è certamente sbagliato, è una colpevole manipolazione», perché «il patriottismo è amore per la patria, non per il dominio dello Stato». Devono dunque essere diversi la relazione con lo Stato ucraino, lo Stato stesso, l’identità di popolo, Stato e Chiesa nel loro insieme. Per Epifanio, infatti, il problema con la Russia sta «nella nostra stessa identità, nella nostra esistenza stessa», non nel tomos del 2019. «Per Putin l’Ucraina non esiste, la nazione ucraina non esiste e quindi non possiamo avere una Chiesa indipendente; di più, Putin non sopporta il successo del popolo ucraino, dello Stato e della Chiesa nella costruzione di un moderno Paese europeo».
Funzionano così il negativo e il positivo, sull’indipendenza tra Chiesa e Chiesa, sull’indipendenza della Chiesa dallo Stato e al contempo sul bisogno di Stato, sul sano patriottismo e su un’identità moderna ed europea. Sono le parole chiave dei nuovi cristiani, su cui Kiev e Mosca sono eguali e contrarie: entrambe gelose della loro terra e del gregge corrispondente, entrambe sparate nel mondo, verso lo spazio liberale «moderno e europeo» gli ucraini, verso lo spazio conservatore postmoderno e globale i russi.
Il test, l’ultima parola chiave, è l’unità. Epifanio non fa concessioni agli ortodossi ucraini rimasti con il metropolita Onofrio nella Chiesa ortodossa d’Ucraina ancora sotto Mosca. Onofrio ha quasi subito unito la sua voce a quella delle comunità religiose ucraine nella condanna dell’invasione e di recente ha annunciato misure tese ad allentare i rapporti. Epifanio è scettico: «Non abbiamo visto passi significativi per recidere i legami istituzionali con il patriarcato di Mosca, né abbiamo assistito a una vera condanna della posizione criminale di Kirill Gundyaev e di altri gerarchi che apertamente giustificano e benedicono l’aggressione russa contro l’Ucraina».
È lungo l’elenco dei capi di accusa: «Non c’è stata una condanna dell’ideologia, praticamente fascista, del “mondo russo”» e invece «si sono registrati numerosi casi di assistenza agli occupanti da parte del loro clero, mentre le nostre attività sono state definite “sovversive”, “sabotatrici” e ritenute “una delle ragioni dell’invasione militare dell’Ucraina”».
La prima unità, quella tra cristiani ortodossi, è per Epifanio quella che è mancata prima dell’invasione e che avrebbe forse dissuaso Mosca: «Se l’ortodossia ucraina fosse stata unita attorno al trono di Kiev, Putin non avrebbe sperato di trovare sostegno in Ucraina». È soprattutto, nella fase presente, «l’unificazione degli ortodossi in Ucraina» che «avverrà sicuramente» e che «è già in corso».
Prima dell’invasione, ricorda il metropolita, il 15% dell’intera popolazione ucraina esprimeva fiducia verso la Chiesa sotto Mosca e il 38% verso la Chiesa indipendente. A marzo la fiducia nella Chiesa di Onofrio era già scesa al 4% mentre quella per la sua Chiesa raggiungeva il 52%. «Le parrocchie lasciano la giurisdizione del Patriarcato di Mosca e si uniscono a noi», aggiunge, «dopotutto il patriarca ecumenico ha stabilito che in Ucraina tutti gli ortodossi appartengano all’unica Chiesa autocefala».
L’unità, come obiettivo, e l’unificazione, come processo, sono decisive per i nuovi cristiani. La libertà, in questa prospettiva, è il migliore alleato e il peggior nemico, e Epifanio sottolinea la propria volontà «che il processo di unificazione avvenga consapevolmente e volontariamente».
Sulla libertà religiosa divergono ancor più il positivo ucraino e il negativo russo. «I regimi repressivi si battono sempre per il controllo completo di tutte le sfere della vita», spiega Epifanio, «il totalitarismo non esiste a metà, quindi non sorprende che non ci sia libertà religiosa in Russia, adesso lì non c’è nessuna libertà». Invece «per noi in Ucraina il totalitarismo è innaturale e del tutto inaccettabile e questo dimostra ancora una volta che siamo popoli diversi».
Dopodiché dalla libertà si torna all’unità: «Cristiani, musulmani, ebrei, pagani e atei difendono insieme la loro patria in Ucraina», scrive Epifanio e aggiunge: «Ci siamo dati un organismo unico: il Consiglio pan-ucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose, che comprende rappresentanti del 90% delle comunità religiose in Ucraina».
All’unità degli ortodossi in un’unica Chiesa corrisponde l’unità dei credenti in un unico Consiglio le cui decisioni, specifica il metropolita di Kiev, «sono prese esclusivamente per consenso». L’indipendenza, il patriottismo, l’identità, poi l’unità e la libertà, sono l’identikit del nuovo cristianesimo mobilitato e militarizzato che si forgia in trincea. Di fronte, il nemico.
Su Onofrio Epifanio è asciutto: «Non abbiamo rapporti speciali, non ci incontriamo spesso, solo in occasione di eventi ufficiali dello Stato; finora, negli otto anni dalla sua intronizzazione, ha evitato ogni dialogo e continua a farlo».
Il patriarca di Mosca è menzionato solo con nome e cognome, Kirill Gundyaev, per negargli la dignità patriarcale. Nei saluti pasquali Epifanio ha invitato la «pienezza dell’ortodossia» a condannarne «le parole e le azioni» perché «nessuno può tenere il calice e lo scettro pastorale con mani insanguinate». Sollecitato in proposito, Epifanio risponde che «la prima condanna che per tali azioni dovrebbe temere un cristiano, e a maggior ragione un gerarca della Chiesa, è il giudizio di Dio». Il giudizio delle Chiese, tuttavia, è necessario: «Quale sarà la forma e la procedura lo dirà il tempo».
Ricorda però che nella seconda metà del XVII secolo un sinodo dei patriarchi d’Oriente guidato dal patriarca ecumenico «condannò il patriarca russo Nikon e lo spogliò della sua dignità». Peraltro «il verdetto del popolo sulle azioni di Kirill Gundyaev è già arrivato». Le comunità in Ucraina lasciano Mosca «soprattutto a causa della posizione anticristiana del suo leader».
Il nemico è comunque l’intero patriarcato di Mosca: «I responsabili dell’ideologia criminale del “mondo russo” hanno acceso il fuoco della guerra e con labbra false hanno benedetto apertamente carnefici e assassini in nome di Dio e della Chiesa». Pertanto «condannare questi crimini, condannare la trasgressione delle leggi di Dio e dell’uomo, non è solo un diritto, ma un dovere morale di ogni persona, specialmente dei cristiani». Per Epifanio «non si tratta più delle sottigliezze del diritto canonico o delle discussioni storiche, ma del bene e del male in quanto tali e della scelta di ciascuno: sei con Dio o con il diavolo?».
Nelle distruzioni, nella fuga, nelle violenze e nei lutti della guerra, nella «ferita viva che continua a sanguinare», il metropolita vede il ritorno «dell’impero del male», come il presidente Reagan chiamò l’Unione sovietica. Epifanio si dice in generale aperto al dialogo, ma rimprovera agli europei una «politica di relazioni con Mosca» che si è rivelata «un completo fallimento» perché «ha creato l’illusione dell’invincibilità e dell’impunità nell’aggressore russo».
Il giudizio è severo anche sulla Via Crucis di Papa Francesco dello scorso 15 aprile. L’infermiera ucraina e la studentessa di medicina russa che hanno portato insieme la croce, scrive Epifanio, sono infatti apparse del tutto fuori luogo nel momento in cui i russi adottano la narrativa dei «popoli fratelli» e «equiparano la vittima e l’aggressore».
I nuovi cristiani nati dai conflitti hanno bisogno di idee nette sul nemico perché lo sperimentano mimetizzato, infiltrato. Li sostiene, nel loro lavoro tra le ombre, la convinzione che Dio agisca nella storia. Oggi non può esserci «cooperazione» con i russi, precisa Epifanio, ma «la provvidenza di Dio corregge il male e dirige tutto verso il bene» e quando «saranno cambiati la politica, la società e l’ambiente ecclesiale, una rinnovata Chiesa russa potrà anticipare il pentimento della Russia per tutti i crimini commessi, anche in Ucraina». Affondati nella realtà, appesi all’efficacia, i nuovi cristiani vivono di fede. Epifanio conferma che ci sono state «azioni pericolose» contro di lui, «diverse persone sono state arrestate e si sono rinvenuti alcuni dispositivi di guida». Non è abbastanza. «Come cristiani dobbiamo ricordare le parole dei salmi», conclude: «Se il Signore non protegge la città, invano veglia la sentinella».
L’iniziativa.
Il 19 marzo al via l’Anno della famiglia. «Uniti da San Giuseppe»
Sedici congregazioni religiose danno vita a un Comitato per iniziative comuni. Primo appuntamento un triduo online in preparazione alla festa del 19 marzo
di Enrico Lenzi (Avvenire, domenica 14 marzo 2021)
Sedici congregazioni tra maschili e femminili, diverse per storia, carisma, luogo di nascita e diffusione, ma unite dal riconoscere in san Giuseppe il proprio patrono o il santo ispiratore dell’azione della famiglia religiosa. È uno dei frutti del lavoro che già da qualche anno tre di queste famiglie religiose (i Giuseppini del Murialdo, gli Oblati di san Giuseppe e la Federazione italiana suore di san Giuseppe) stanno compiendo per diffondere non tanto la devozione, quanto la conoscenza dell’opera e del ruolo del Custode del Redentore.
Complice anche l’Anno di san Giuseppe indetto lo scorso 8 dicembre da papa Francesco, il nucleo iniziale di questa collaborazione ha deciso di invitare anche le altre famiglie religiose che pongono san Giuseppe all’interno del proprio carisma. Nasce così il Comitato San Giuseppe, che «in questo anno ha deciso di dare vita a un calendario di incontri e iniziative - spiega uno dei coordinatori, padre Luigi Testa, Oblato di san Giuseppe, congregazione nata ad Asti nel 1878 grazie a san Giuseppe Marello -, alla luce della Lettera apostolica «Patris corde» che papa Francesco ha diffuso proprio l’8 dicembre 2020 a 150 anni dalla proclamazione di san Giuseppe a patrono della Chiesa universale ».
E proprio da quel documento papale sono tratte le riflessioni che caratterizzeranno il triduo in preparazione alla memoria liturgica di san Giuseppe (19 marzo), che si svolgerà online sul canale YouTube denominato «Comitato San Giuseppe» il 16, 17 e 18 marzo prossimi alle 15.
A quell’ora, infatti, sarà possibile seguire le riflessioni che tre religiosi e tre religiose, alternandosi, faranno prendendo ciascuno un aspetto della Patris corde.
Si inizia il 16 marzo con un collegamento dalla Basilica di san Giuseppe al Trionfale a Roma in cui si rifletterà sull’aspetto del «padre nella tenerezza» e in quello «nell’obbedienza».
Il giorno successivo, dal Santuario San Giuseppe a San Giuseppe Vesuviano (Napoli) si rifletterà sul Custode del Redentore come «padre nell’accoglienza » e «padre del coraggio creativo».
Infine il 18, dal Santuario San Giuseppe ad Asti, si affronterà la figura come «padre lavoratore » e «padre nell’ombra».
Ma il triduo «è l’appuntamento più ravvicinato del programma che stiamo elaborando insieme - spiega padre Testa -. Il 29 aprile abbiamo una iniziativa che coinvolgerà le scuole superiori. Si intitola “Nel laboratorio di Giuseppe. I giovani e il lavoro tra paura e speranza”, a cui è legato anche un concorso («Domani è un’altra impresa») che assegnerà alcune borse di studio». L’evento sarà in streaming e avrà come sede principale il Collegio Artigianelli di Torino dei Giuseppini del Murialdo e vi saranno collegamenti con Roma e Lucera.
Già fissato anche l’evento che si lega alla conclusione dell’Anno di San Giuseppe: sarà a Roma dal 6 all’8 dicembre. «Stiamo studiando programma, relatori e modalità di realizzazione - aggiunge padre Testa -, ma intendiamo viverlo non come momento finale di un percorso, bensì come occasione per rilanciare l’attività di conoscenza e di studio anche teologico sulla figura di san Giuseppe». Insomma «ci domanderemo come continuare il percorso anche dopo il 2021».
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
Presentazione volume - Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019
Lunedì 24 febbraio, alle ore 11.00, verrà presentato il volume Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019.
Interverranno:
Alberto Melloni, Segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII
Antonio Manfredi, Scrittore latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
Daniele Conti, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Sarà presente la curatrice del volume.
L’incontro - aperto a tutti gli interessati - si terrà nella Sala dei Seminari dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
LINGUA GRECA E CRISTIANESIMO: LO STRUMENTO ELETTO E L’EU-CARESTIA... *
GIORNATA MONDIALE DELLA LINGUA GRECA
ΣΚΕΥΟΣ ΕΚΛΟΓΗΣ • VAS ELECTIONIS
Il ruolo della lingua greca nella diffusione del pensiero cristiano
Sabato 8 febbraio 2020, ore 10
Sala conferenze - Palazzo Reale, Piazza Duomo 14, Milano
Interventi
Sua Eminenza Gennadios - Arcivescovo d’Italia e Malta
L’educazione e la cultura sono la via per la pace
Stefano Martinelli Tempesta - Università degli Studi, Milano
Fede cristiana e tradizione classica nei codici della Biblioteca Ambrosiana
Alberto Barzanò - Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
La lingua greca: strumento e veicolo di comunicazione tra primo cristianesimo e Impero romano
Emanuela Fogliadini - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano
Eikōn, “icona”: somiglianza, rappresentazione, rivelazione del prototipo
Gilda Tentorio - Università degli Studi, Milano L’anima senza tempo dell’Athos: scrittori e impressioni di viaggio
Marco Roncalli - Saggista e scrittore
Patristica greca, ortodossia orientale ed ecumenismo in san Giovanni XXIII
Massimo Cazzulo - Presidente Società Filellenica Lombarda
Il lessico liturgico della poesia neogreca del Novecento: l’esempio di To ʼΆξιoν ἐστί di Odisseas Elitis
L’inizio dei lavori sarà preceduto dai saluti delle Autorità di
Filippo Del Corno Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Nikolaos Sakkaris Console onorario della Repubblica di Grecia a Milano,
Dimitri Fessas Presidente della Federazione delle comunità e delle confraternite greche di Italia, Sofia Zafiropoulou Presidente della Comunità ellenica di Milano
* FONTE: LICEO CLASSICO STATALE "TITO LIVIO" - MILANO (27 gennaio 2020)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO"
EU-ANGELO, EU-ROPA .... E "SCRITTURA ED EU-CARESTIA"?! LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
Federico La Sala
LA TERRA, IL "PADRE NOSTRO", E IL SINODO DEI VESCOVI SUL MEDITERRANEO ...*
Mediterraneo, frontiera di pace. Le cose da sapere sull’incontro di Bari
Dal 19 al 23 febbraio l’evento per la pace. Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati
di Giacomo Gambassi, inviato a Bari (Avvenire, mercoledì 12 febbraio 2020)
Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati. Tre i continenti che idealmente si abbracceranno: Europa, Asia e Africa. Ecco in numeri l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace”, il grande forum ecclesiale voluto dalla Cei che per la prima volta riunisce i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare e che sarà concluso da papa Francesco. -Le cifre non dicono tutto, ma raccontano la scommessa di un’iniziativa che si terrà dal 19 al 23 febbraio e che avrà come cornice Bari, la città “ponte” fra Oriente e Occidente come testimonia «la venerazione senza confini del suo patrono san Nicola» o la scelta del Pontefice di tenere nel luglio 2018 all’ombra del Castello svevo l’incontro per la pace in Medio Oriente con i capi delle comunità cristiane della regione, spiega l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Carucci.
Adesso lo sguardo si allarga all’intero Mediterraneo chiamando a un supplemento d’anima le Chiese. È l’urgenza della pace l’orizzonte di un evento che invita a una nuova responsabilità il mondo cattolico. Non un convegno o un seminario accademico ma un «incontro di fraternità dallo stile sinodale che vuole aiutare le comunità ecclesiali a camminare sempre più insieme», spiega il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, durante la conferenza stampa di presentazione a Roma moderata dal direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, Vincenzo Corrado.
Nel 2018 era stato proprio Bassetti a lanciare l’idea dell’evento «rileggendo i Colloqui mediterranei promossi da Giorgio La Pira circa sessant’anni fa», racconta il cardinale le cui radici affondano nella Firenze del sindaco “santo”.
«Se La Pira aveva coinvolto l’ambito politico - dice Bassetti - io mi sono chiesto: perché anche i vescovi non possono mobilitarsi di fronte ai drammi delle proprie genti? Del resto la Chiesa non ha altro scopo che servire l’uomo. E ciò implica anche affrontare i problemi che le nostre comunità vivono». Tutto l’episcopato italiano ha sposato il percorso: ecco perché i pastori della Penisola saranno a Bari nelle ultime due giornate.
Due i temi di cui discuteranno i vescovi del bacino: l’annuncio del Vangelo, a cominciare dai giovani; e il dialogo fra Chiese e società. «Di fatto come pastori ci siamo posti una domanda: che cosa Dio vuole oggi dal Mediterraneo? E l’incontro sarà un’occasione di discernimento», chiarisce il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, vice-presidente della Cei e coordinatore del comitato organizzatore.
A fare da sfondo al confronto le guerre che ancora insanguinano l’area (dal conflitto israelo-palestinese a quelli in Siria, Iraq o Libia); le nuove tensioni che scuotono la regione; le ferite ancora aperte delle guerre che dai Balcani al Libano hanno segnato gli ultimi decenni; la povertà; le disuguaglianze fra la sponda nord e quella sud; le politiche di sfruttamento da parte dei grandi del pianeta; la complessa convivenza fra le fedi; le persecuzioni delle minoranze religiose, soprattutto cristiane; il dramma delle migrazioni.
«La questione della pace - dice Raspanti - non è disgiunta dagli squilibri sociali che qui si registrano. E anche lo stesso tema delle migrazioni sarà visto secondo prospettive diverse. Penso al grido che alcuni vescovi delegati hanno già lanciato chiedendo di aiutare i loro Paesi a non lasciare fuggire i cristiani».
Lo stile dell’incontro è mutuato dal Sinodo dei vescovi. Non solo nei due anni di preparazione sono stati coinvolti gli episcopati del Mediterraneo che hanno contribuito a elaborare una bozza di lavoro, ma soprattutto le giornate di Bari saranno nel segno dell’ascolto e del dialogo fra i vescovi.
«Ore e ore di discussione», annuncia Raspanti. Dal confronto scaturirà il documento che sarà approvato dai presuli e che domenica mattina verrà consegnato al Pontefice durante il suo incontro con i vescovi nella Basilica di San Nicola.
«Il Papa che condivide a pieno il nostro incontro - dice Bassetti - ci ha chiesto proposte concrete che vadano oltre le lamentele».
Il dialogo fra il Pontefice e i pastori della regione rappresenterà l’appuntamento centrale di Bari, che verrà aperto dal saluto di Bassetti e dalle testimonianze del cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo e presidente della Conferenza episcopale di Bosnia ed Erzegovina, e dell’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, e che si chiuderà con l’intervento dell’arcivescovo di Algeri, il gesuita Paul Desfarges, presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa. Momento concluso dell’evento sarà la Messa presieduta da Francesco alle 10.45 nel cuore di Bari.
L’incontro dei vescovi si porterà dietro anche un segno concreto di attenzione a tutto il Mediterraneo.
«Si tratterà di borse di studio per giovani delle diverse sponde con lo scopo di formare una nuova classe dirigente», annuncia Bassetti. Il progetto avrà come guida la Caritas italiana e vedrà il coinvolgimento di Rondine-Cittadella della pace, il laboratorio della riconciliazione alle porte di Arezzo che fa studiare i giovani provenienti dai Paesi in guerra fianco a fianco con il loro "nemico".
I lavori “sinodali” dei vescovi saranno a porte chiuse ma ogni giorno è previsto un briefing con la stampa. Guai comunque a pensare che le giornate siano blindate.
Sono previste infatti Messe e momenti di preghiera aperti a tutti; venerdì sera ogni pastore delegato sarà ospite di una parrocchia; poi sabato pomeriggio, a partire dalle 15.30, al teatro Petruzzelli si terrà l’incontro di testimonianze con voci e volti da tutto il Mediterraneo e gli interventi dei vescovi e di esperti di geopolitica.
Intanto si immagina già il “dopo Bari”. «Non ritengo che tutto si possa concludere in Puglia - avverte il presidente della
Cei -. È possibile che si creino tavoli di lavoro tematici che permetteranno ai vescovi di incontrarsi di nuovo. Del resto la sfida è far riscoprire la vocazione propria del nostro grande mare: una vocazione alla pace e all’incontro».
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
TEOLOGIA ED ESTETICA. I volti della Grazia... *
La preghiera.
Il nuovo «Padre Nostro» arriva in Avvento
La preghiera con la formula: "Non abbandonarci alla tentazione" anziché "Non indurci in tentazione" sarà recitata durante le Messe a partire dal 29 novembre
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 28 gennaio 2020)
Per il “nuovo” Padre Nostro ci vuole ancora un po’ di pazienza. La traduzione rinnovata della più popolare delle preghiere, insegnata direttamente da Gesù, sarà inserita nel Messale che verrà consegnato subito dopo Pasqua, quest’anno il 12 aprile.
Come noto il Padre Nostro nella nuova versione prevede che l’invocazione “Non indurci in tentazione” lasci al posto alla più corretta formulazione “Non abbandonarci alla tentazione”. Versione, ha aggiunto monsignor Forte, che verrà recitata durante le Messe nella chiese italiane a partire dal 29 novembre, prima Domenica d’Avvento.
Leggi anche
Intervista.Arriva il «nuovo» Padre Nostro, ma per la Messa ci vorrà un po’
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
MEMORIA E STORIA / STORIA E MEMORIA.... *
il santo del giorno
Conversione di san Paolo.
La luce improvvisa, la caduta, la voce di Cristo. La fede è apertura all’inaspettato infinito
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 25 gennaio 2020)
Il cambio di rotta, la strada nuova, la svolta imprevista: la fede è apertura all’inaspettato, alla novità che trasforma la vita, all’infinita luce che entra dentro il buio dei nostri errori. Ecco perché la Chiesa oggi celebra la Conversione di san Paolo, ricordando a tutti, così, che Dio ci chiama sempre, continuamente, che nessuno è "spacciato".
"All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo - si legge negli Atti degli Apostoli - e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?". Era l’inizio di una nuova esistenza per Paolo, che sarebbe diventato uno dei pilastri della comunità dei credenti, l’apostolo che fece del Vangelo un messaggio davvero "cattolico", cioè offerto a ogni popolo e a ogni nazione della Terra.
Dopo l’incontro con Cristo sulla via di Damasco, Paolo rimase accecato e dopo aver recuperato la vista fu battezzato: l’immersione nella vita di Dio è il dono di uno sguardo diverso sul mondo.
Altri santi. Sant’Anania di Damasco, martire (I sec.); beata Arcangela Girlani, vergine (1460-1494).
Letture. At 22,3-16; Sal 116; Mc 16,15-18.
Ambrosiano. At 9,1-18; Sal 116 (117); 1Tm 1,12-17; Mt 19,27-29.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
FILOSOFIA E FILOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS: CHARITAS....
Tesi di Laurea
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
SOMMARIO Introduzione .................................................................................................................
1 Sezione 1: il versante ermeneutico ....................................................................... 5
1.1 La genesi agostiniana del principio .................................................................... 7
1.2 L’illuminismo tedesco e il nesso linguaggio-mondo ................................. 23
1.2.1 Wilhelm von Humboldt: “Sprachansicht als Weltansicht” ................................................................... 27 -APPENDICE Georg Friedrich Meier e il “Versuch einer allgemeinen Auslegungkunst” .................................. 43
1.3 La linea ontologica dell’ermeneutica contemporanea .............................. 53
1.3.1 Martin Heidegger e l’analitica esistenziale di “Sein und Zeit” ................................................ 55
1.3.2 Hans-Georg Gadamer e l’ermeneutica ontologica di “Warheit und Methode“ ........................ 69
Sezione 2: la riflessione logica .............................................................................. 85
2.1 Fondamenti teorici della carità in logica ....................................................... 87
α ) La riflessione filosofica di Ludwig Wittgenstein ......................................... 89
β) L’ipotesi della relatività linguistica............................................................ 100
2.2 Willard van Orman Quine e l’argomento di “traduzione radicale” ............................................................... 113
2.3 Donald Davidson e l’interpretazione radicale ..................................................................................... 137
Conclusione .............................................................................................................. 157
Bibliografia ............................................................................................................... 161 -Sitografia................................................................................................................... 163
***
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da
carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione.
Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus
dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovverocareo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάριςe dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello»,kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino”1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
** UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA. Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo, Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco, Laureando: GANDELLINI Francesco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’unico segno, la necessaria chiarezza.
Il falso mito dei "due Papi"
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, mercoledì 15 gennaio 2020)
Per quanto suggestivo possa apparire nelle serie televisive e in un film di un certo successo, quello dei "due Papi" è un falso mito, che è necessario smascherare, anche perché viene sempre più spesso rappresentato in certe cronache che fanno specchio a vere o presunte polemiche e manovre, innescate da interventi intorno a temi scottanti per l’oggi della Chiesa e l’avvenire del cristianesimo.
A smentire la possibilità che nella Chiesa odierna vi siano due Papi è lo stesso Benedetto, il pontefice emerito, che ha sempre dichiarato «incondizionata reverenza e obbedienza» all’attuale Vescovo di Roma e ieri ha eliminato ogni equivoco, chiedendo di togliere il proprio nome sia dalla copertina sia dall’introduzione e dalle conclusioni dal volume del cardinal Robert Sarah sul celibato dei preti al quale aveva concesso un proprio saggio (uniche pagine che intende firmare). Questa chiarezza era indispensabile, così il lettore sa e comprende quale sia la posizione di Benedetto XVI e quanto invece non gli appartenga, perché scritto e divulgato da altri.
Finiscono con l’alimentare la falsa mitologia dei due Papi sia quelle rappresentazioni che sottolineano amicizia e continuità fra i due personaggi in questione, senza evidenziare l’obbedienza dell’emerito all’attuale Papa, ma molto più quelle che li contrappongono in maniera subdola e ideologicamente contrassegnata. La riflessione si impone, perché i credenti non vengano disorientati più di quanto non siano dal contesto culturale e sociale in cui vivono.
Il Papa è il segno tangibile e concreto dell’unità della Chiesa, altro ruolo oltre questo non gli compete. In questo senso non può essere che uno e unico. Le epoche, da questo punto di vista certamente buie, in cui sono convissuti contemporaneamente Papi e antipapi, non hanno prodotto nulla di buono per il tessuto ecclesiale e spirituale della comunità credente. E solo quando qualcuno, come Giovanni XXIII (l’antipapa quattrocentesco), ha saputo con umiltà farsi da parte, si è ricostituita l’unità ecclesiale e ha ripreso vigore l’evangelo nel mondo.
Senza questo unico segno di unità, il cristianesimo vivrebbe una frammentazione devastante e la divisione regnerebbe sovrana, laddove al contrario, nella lettera agli Efesini leggiamo che «vi è [e quindi vi deve essere] un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti» (4, 4-6). Il dualismo non appartiene al cristianesimo cattolico, e quindi neanche alla fede cristiana tout court, è piuttosto frutto dello gnosticismo storico e perenne, che costituisce una costante tentazione per coloro che credono.
Per passare dalla Bibbia e dalla storia all’oggi, non possiamo dimenticare che il pontificato interrotto di papa Benedetto sia stato il vero gesto rivoluzionario che ha consentito la stagione di papa Francesco, con le sue innovazioni e la sua vivacità, sempre nel solco della tradizione della Chiesa cattolica. Abitare tale gesto, stupefacente e drammatico allo stesso tempo, significa rendersi conto che nella Chiesa vi è un solo Vescovo di Roma, ossia un solo Papa. Parlare di due Papi è insensato, come impegnarsi per contrapporre le due figure più significative dell’attuale contesto cattolico. E c’è da sospettare che dietro operazioni che adottano tale modalità, ci sia chi intende distruggere la Chiesa stessa, attentando alla sua prima nota costitutiva, che - come recitiamo nel Credo - è l’unità. Certo demitizzare i "due Papi" significa andare contro corrente e avere meno audience, ma non per questo ci si può esimere da tale compito.
Ritenere che la tradizione sia da una parte e l’innovazione dall’altra significa non comprendere il senso autentico della tradizione stessa, che è radicalmente innovativa, in quanto non guarda solo al passato, ma si innesta nel presente e si apre al futuro. Questo vale per le strutture costitutive di quella religione che pone a suo fondamento la fede cristiana. In primo luogo il culto e la liturgia, che, ininterrottamente, ma con linguaggio sempre nuovo, fa sì che il mistero si renda presente nell’oggi della sacramentalità. Qui il gesto e le parole fondamentali sono sempre le stesse: il pane che si spezza, l’acqua che si versa, le mani che si impongono, l’unzione con le parole che accompagnano e rendono sacramento il segno. Su questi fondamentali la Chiesa non ha alcun potere, in quanto le sono consegnati dalla rivelazione stessa, ma le modalità celebrative le sono affidate, perché la memoria non sia pura nostalgia e il presente non si rattrappisca in un passato preconfezionato. In secondo luogo la dottrina, che è chiamata a svilupparsi, secondo la feconda indicazione del santo cardinale John Henry Newman.
Uno sviluppo organico ed omogeneo, che, quando non è tale (o non è stato tale) ha prodotto i peggiori mali della Chiesa, ossia l’eresia e lo scisma. In terzo luogo le strutture, chiamate a trasformarsi e modificarsi, nello spirito di quanto disegnato da papa Francesco nel suo ultimo discorso alla Curia romana (21 dicembre 2019). I binari di tale trasformazione sono stati indicati nell’evangelizzazione e nella promozione umana, cardini portanti dell’agire ecclesiale nel presente e nel futuro, su cui devono poggiare e di cui devono nutrirsi le sovrastrutture o impalcature giuridiche e istituzionali.
Il falso mito dei due Papi veniva smascherato dallo stesso Benedetto XVI, quando, in un famoso discorso alla curia romana (22 dicembre 2005), riflettendo sul Concilio Vaticano II, contrapponeva un’ermeneutica della ’discontinuità’, ovvero dell’innovazione per l’innovazione, che avrebbe di fatto offerto il fianco al dualismo, non a quella della ’continuità’, come ci si sarebbe aspettato da un Papa ritenuto conservatore, ma a quella della ’riforma’. Una riforma che non ha nulla a che vedere con la rivoluzione, ma significa sviluppo e vita, apertura al futuro nel necessario e sempre fecondo radicamento nel passato, con attenzione vigile a un presente certamente problematico, ma anche affascinante e provocatorio per la fede.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200101_omelia-madredidio-pace.html)
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
*
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
LA “CROCE” (“X”) DELL’APOSTOLO ANDREA E LA “BIBLIA PAUPERUM”. A GLORIA DI PRESICCE E IN MEMORIA DEL SUO PATRONO.... *
RICORDANDO CHE “lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. E qui subisce il martirio per crocifissione: appeso con funi a testa in giù, secondo una tradizione, a una croce in forma di X; quella detta poi “croce di Sant’Andrea”. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre” (cfr. : Sant’ Andrea Apostolo), solleciterei storici e storiche, filologi e filologhe, filosofi e filosofe, a riflettere - visto che Gesù Cristo (dal greco Χριστός, Christós) è morto sulla “croce” - sulla differenza tra la “croce” (“X”) dell’apostolo Andrea e, unitariamente, la “croce” latina dell’apostolo Pietro (“Crocifissione di San Pietro” di Michelangelo Merisi), sia sul piano del significato del simbolismo della figura sia sul significato della lettera dell’alfabeto greco e dell’alfabeto latino.
Al buon-intenditore (del “buon-messaggio” - dell’ “ev-angelo”) poche parole....
Complimenti e buon lavoro
Federico La Sala
* Cfr.: Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano di Andrea Erroi, Fondazione Terra d’Otranto, 30.12.2018.
Riflessione.
Una nuova scommessa per la Chiesa di oggi
di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti (Avvenire, giovedì 22 agosto 2019)
Duemila anni di storia, un miliardo e trecento milioni di fedeli in continua crescita grazie alla spinta demografica dei paesi del Sud del mondo. Da un certo punto di vista, la Chiesa cattolica gode di ottima salute. Eppure, dietro la facciata rassicurante dei numeri, si odono scricchiolii allarmanti che non possono essere sottovalutati. Crollo della partecipazione religiosa nelle società più avanzate; difficoltà particolarmente forti tra i giovani e i ceti più istruiti; sensibile riduzione delle vocazioni. Sintomi eloquenti, ai quali si aggiunge la perdita di reputazione causata dagli scandali finanziari e dagli abusi sessuali.
Lo spostamento del baricentro in aree economicamente, politicamente e socialmente più arretrate è dunque una buona notizia solo a metà. In quei paesi - dove il livello istituzionale è meno evoluto e il rapporto con le persone più diretto - la Chiesa gioca su un terreno che le è più congeniale. Ma il timore è che le cose siano destinate a cambiare rapidamente anche in quei contesti. Difficile immaginare un futuro se la Chiesa rinuncia a dialogare con la parte più avanzata del mondo.
Almeno in Europa la Chiesa si trova di fronte a uno snodo generazionale senza precedenti: nella popolazione che ha meno di 30 anni, coloro che non credono semplicemente perché si sentono del tutto indifferenti e apatici rispetto alla «questione Dio» (i cosiddetti nones) sono netta maggioranza. Come se la cosa non li riguardasse, come se non riuscissero neppure a cogliere il senso della domanda: credi tu? Di Dio sembra proprio non sentirsi la necessità.
Oggetto di un discorso ormai superato, residuo di tradizioni che sconfinano nella superstizione o bandiera di fondamentalismi che sfociano nella violenza: è questo il registro in cui la questione della fede viene oggi rubricata in Europa da buona parte della popolazione, specie giovanile. Quando la generazione di chi oggi ha 70 anni e più passerà, la Chiesa europea, già assottigliata, si ritroverà con un numero assai esiguo di fedeli. C’è una questione organizzativa: la struttura della Chiesa - burocratizzata e gerarchica - appare inadatta a stare al passo con un mondo diventato veloce e plurale. Manca la consapevolezza che non è più possibile parlare dell’esperienza religiosa oggi usando lo stesso discorso di quando la fede era un’evidenza sociale.
Occorrerebbero, piuttosto, parole in cammino, che cerchino di dare voce e forma al diffuso senso di precarietà. Parole capaci di trasmettere l’esperienza della fede dove, con Michel de Certeau, «la sola stabilità è spingere il pellegrinaggio più in là», alla ricerca di nuove vie di presenza e narrazione. Ma sembra difficile, quasi impossibile, trovarle. C’è ancora spazio per la «buona novella» cristiana nel mondo di oggi? Ci può essere ancora una domanda che non trova risposta in ciò che già c’è, o nelle promesse di un progresso della scienza, della tecnica, dell’economia nel quale si ripongono ormai tutte le speranze di salvezza?
Facciamo un passo indietro. Se il messaggio del Vangelo, la buona notizia dell’amore che salva e vince la morte, è arrivato fino a noi è perché ha saputo parlare al profondo del cuore degli uomini e delle donne lungo i venti secoli che ci hanno preceduti. Riuscendo così a ispirare il modo di pensare e di vivere di intere società. Questa forza che ha attraversato la storia si è fondata su almeno tre pilastri, che sono però oggi tutti soggetti a una profonda erosione, sotto la spinta di cambiamenti storico-culturali di enorme portata.
Il primo pilastro ha a che fare con lo spinosissimo nodo dell’onnipotenza. Prendendo le distanze dalle religioni che l’avevano preceduta - nelle quali la potenza del sacro si manifestava al di là di qualunque limite -, quella cristiana è sempre stata molto attenta a evitare di farsi schiacciare dall’onnipotenza di Dio. In questo modo, essa ha potuto garantire una scansione tra ordine religioso e ordine politico, aprendo una dialettica che nel corso della storia si è rivelata straordinariamente fruttuosa. È per il fatto impensabile di essere una religione in cui è Dio che si sacrifica per l’uomo - e non viceversa - che quella cristiana ha potuto essere grembo per l’affermazione della soggettività moderna. Persino Nietzsche ha riconosciuto che proprio «grazie al cristianesimo l’individuo acquistò un’importanza così grande, fu posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare».
E tuttavia, come in altre epoche, anche oggi - dentro e fuori la Chiesa - questo «scandalo» evangelico fatica a trovare ascolto: come far capire all’uomo contemporaneo - affascinato dai miti dell’efficienza, della performance, della (onni) potenza tecnica o all’opposto attratto da una divinità a cui semplicemente sottomettersi - il significato liberatorio di un Dio che, con le parole di Hölderlin, «crea l’uomo come il mare la terra: ritirandosi»?
E che mostra la propria «potenza» incarnandosi in un bambino e facendosi appendere a una croce? Il secondo pilastro riguarda la salvezza personale, tema essenziale per ogni grande religione. Dio salva la vita di ciascuno. Nella storia del cristianesimo ci sono state, come è naturale, molte oscillazioni attorno a questo tema, in una continua tensione fra terra e cielo, corpo e anima. Con la modernità, come sappiamo, sul piano culturale il baricentro si è spostato dalla salvezza eterna al successo mondano, dalla cura dell’anima al benessere materiale. Di quale salvezza si può dunque parlare oggi, quando la tecnica arriva addirittura a immaginare di poter promettere l’«immortalità»? Il terzo pilastro tocca il tema della universalità.
La Chiesa ha sempre riconosciuto e coltivato la propria vocazione universale, consapevole della necessità di parlare a tutti. Condizione per essere chiesa, appunto, anziché setta, piccolo gruppo di duri e puri ripiegati su sé stessi e separati dal resto del mondo. Sappiamo che la relazione tra fede e ragione, ereditata dalla tradizione greca e latina, è stata di enorme importanza. Sin dall’inizio la Chiesa ha intuito che il proprio destino sarebbe stato legato a quello della ragione. Ma il problema è che nel corso degli ultimi secoli si sono modificati i termini stessi della questione. Da una parte, il restringimento alla sola dimensione strumentale (vero è ciò che è certo, e dunque ciò che funziona e realizza rapidamente le promesse) ha di molto diminuito la capacità della ragione di essere guida sicura all’agire umano. Diventata tecnica, l’ambito principio in cui la ragione sembra applicarsi è il problem solving e il suo obiettivo il superamento del limite, di ogni limite.
Così, ciò che oggi sembra unificare il mondo è il grande sistema tecno/economico che, con la sua neutralità etica e le sue pretese di controllo, vorrebbe rendere superflua la stessa questione religiosa. Ma è realistico un tale progetto? Dall’altra parte, se oggi, come dicono le stime dell’autorevole Pew Research Institute, su dieci abitanti della terra tre sono cristiani, cosa vuol dire pensarsi come «universali »? In un pianeta diventato piccolo, senza più terre da esplorare, ma dove le diverse tradizioni religiose - che pure si delocalizzano e si innestano un po’ dappertutto - hanno sedimenti ormai consolidati, come sviluppare il dialogo interreligioso?
Questione che a maggior ragione investe l’ecumenismo: quale ruolo il cattolicesimo romano può e deve giocare rispetto alle altre confessioni cristiane, numericamente più deboli ma custodi di ricchezze da rimettere in gioco, a vantaggio dei cattolici stessi e del mondo intero? In questa cornice, all’inizio del XXI secolo, la scommessa cattolica non è allora né quella di rincorrere qualcosa che starebbe davanti - la piena affermazione della modernità, con tutti i suoi successi - né di inseguire un sogno di restaurazione e rinnovata centralità - cullandosi nella nostalgia di un passato ormai perduto. Si tratta, piuttosto, di muovere i primi passi di una via nuova, recuperando la consapevolezza di avere qualcosa di inaudito da dire. Qualcosa che manca a questo tempo. Qualcosa di prezioso per il nostro futuro comune.
Cultura
Se l’epidemia fa riflettere sulla inter-dipendenza
SCAFFALE. «Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo», di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti (Il Mulino)
di Francesco Antonelli (il manifesto, 17.11.2020)
In uno dei suoi romanzi più famosi, La peste (1947), Albert Camus scrive che «le epidemie ci insegnano». In un libro meno famoso ma più recente, La febbre (2018), Ling Ma (recensito su queste pagine da Benedetto Vecchi il 3 luglio del 2019, ndr) scrive che «dopo la Fine (causata dall’epidemia di febbre al centro del suo romanzo distopico, nda) arrivò l’Inizio». Insomma, la modernità, così orgogliosa delle sue conquiste, non incontra le epidemie solo come fatti epidemiologici e naturali bensì come soggetti sociali e politici in grado di rimettere in discussione l’ordine sociale e di farne emergere le più stridenti contraddizioni: la peste, l’epidemia, portano con loro anche una malattia morale e, sgretolando il passato, aprono le porte a nuove possibilità, regressive (più spesso) oppure di avanzamento sociale (più raramente). Far emergere una coscienza post-apocalittica - nel senso di rendere consapevoli le persone di ciò e quindi di evitare che divengano semplici «oggetti» da manipolare all’interno di rivoluzioni passive gestite solo dall’alto - è l’obiettivo principale del nuovo libro di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo (il Mulino, pp. 180, euro 15).
IL LIBRO di Giaccardi e Magatti è per questo motivo pieno di speranza poiché la speranza - come ci ha insegnato Bloch - vuol dire dare valore a qualcosa che si desidera per il futuro, combattere per affermarla, consapevoli della possibilità concreta che si verifichi l’esatto contrario: alla pandemia di Covid occorre guardare senza ottimismo né pessimismo per il futuro. Eppure come possibilità aperta di ricostruire un intero assetto sociale profondamente deficitario e in bancarotta già prima dell’epidemia.
La narrazione globalista, impostasi dopo la caduta del muro di Berlino, incentrata sul modello di un capitalismo senza confini, incontrollato e incontrollabile che genera, attraverso l’ipertrofia della tecnica, l’esaltazione di soggetti solitari, iper-stimolati, compiaciuti della propria inarrestabile volontà di potenza che violenta l’ecosistema e svilisce i rapporti umani, eternamente inquieta e ansiogena, come lo sono le élite socialmente irresponsabili che l’hanno alimentata, è finita per sempre: la pandemia è solo l’ultimo evento catastrofico di una triade costituita dall’undici settembre e dalla crisi economico-finanziaria del 2007 che hanno mostrato l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. In questo contesto, cosa ci insegna la pandemia? Per Giaccardi e Magatti un valore fondamentale che, a dire il vero, era stato rintracciato come tale da alcuni grandi sociologi a cavallo del XX secolo, come la risorsa fondamentale e, allo stesso tempo, la grande fragilità della società moderna: l’interdipendenza - o meglio, l’inter-indipendenza, come la chiamano gli autori - tra persone, ruoli, funzioni e paesi del mondo. Il fatto che la libertà di ciascuno non finisce dove inizia quella dell’altro (secondo la vulgata liberale); ma, al contrario, è sostenuta e possibile solo assieme e grazie al riconoscimento e alla presa in carico, alla cura, dell’altro. Il familiare, l’amico come l’estraneo.
SOLO ATTRAVERSO comportamenti responsabili possiamo garantire la salute e la sicurezza nostra e degli altri. Solo avendo consapevolezza che si appartiene a una comunità. Solo riconoscendo che la dimensione del «pubblico», del «sociale», dello «Stato» continua a essere fondamentale per poter garantire un presente e un futuro degno. In poche parole, ritorna al centro la solidarietà sociale e la cittadinanza come insieme di diritti e doveri che ci liberano dall’infantilismo del neoliberismo. Se Beck e Bauman, con i loro modelli della società del rischio e della modernità liquida, sono i sociologi che più volte vengono richiamati da Giaccardi e Magatti come gli intellettuali che, prima e meglio degli altri, avevano capito i limiti del globalismo e la direzione verso cui muoversi per superarli, è Émile Durkheim il vero vincitore intellettuale di questa partita poiché fu questo grande padre fondatore della sociologia, oggi frettolosamente e non a caso dimenticato, già a fine Ottocento, a indicare chiaramente tutte queste dimensioni come fondamentali per assicurare un futuro sostenibile alle fragili società moderne, troppo spesso incantate dalle sirene dell’individualismo di mercato. E anche la sinistra dovrebbe ricominciare a ricordarlo per uscire dalle secche in cui una ormai mortifera prospettiva della «terza via», in nome del globalismo, l’ha precipitata da almeno trent’anni.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SAPIENZA E IL MESSAGGIO EVANGELICO. FRANCESCO BACONE E SAN PAOLO PRENDONO LE DISTANZE DALLE ENCICLICHE DI PAPA BENEDETTO XVI. Una "preghiera comune" firmata da Bacone
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEL SOLE DI ORIENTE E DI OCCIDENTE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 3. «Lingue come di fuoco» (At 2,3). La Pentecoste e la dynamis dello Spirito che infiamma la parola umana e la rende Vangelo *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Cinquanta giorni dopo la Pasqua, in quel cenacolo che è ormai la loro casa e dove la presenza di Maria, madre del Signore, è l’elemento di coesione, gli Apostoli vivono un evento che supera le loro aspettative. Riuniti in preghiera - la preghiera è il “polmone” che dà respiro ai discepoli di tutti i tempi; senza preghiera non si può essere discepolo di Gesù; senza preghiera noi non possiamo essere cristiani! È l’aria, è il polmone della vita cristiana -, vengono sorpresi dall’irruzione di Dio. Si tratta di un’irruzione che non tollera il chiuso: spalanca le porte attraverso la forza di un vento che ricorda la ruah, il soffio primordiale, e compie la promessa della “forza” fatta dal Risorto prima del suo congedo (cfr At 1,8). Giunge all’improvviso, dall’alto, «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).
Al vento poi si aggiunge il fuoco che richiama il roveto ardente e il Sinai col dono delle dieci parole (cfr Es 19,16-19). Nella tradizione biblica il fuoco accompagna la manifestazione di Dio. Nel fuoco Dio consegna la sua parola viva ed energica (cfr Eb 4,12) che apre al futuro; il fuoco esprime simbolicamente la sua opera di scaldare, illuminare e saggiare i cuori, la sua cura nel provare la resistenza delle opere umane, nel purificarle e rivitalizzarle. Mentre al Sinai si ode la voce di Dio, a Gerusalemme, nella festa di Pentecoste, a parlare è Pietro, la roccia su cui Cristo ha scelto di edificare la sua Chiesa. La sua parola, debole e capace persino di rinnegare il Signore, attraversata dal fuoco dello Spirito acquista forza, diventa capace di trafiggere i cuori e di muovere alla conversione. Dio infatti sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cfr 1Cor 1,27).
La Chiesa nasce quindi dal fuoco dell’amore e da un “incendio” che divampa a Pentecoste e che manifesta la forza della Parola del Risorto intrisa di Spirito Santo. L’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio che fa nuove tutte le cose e si incide in cuori di carne.
La parola degli Apostoli si impregna dello Spirito del Risorto e diventa una parola nuova, diversa, che però si può comprendere, quasi fosse tradotta simultaneamente in tutte le lingue: infatti «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,6). Si tratta del linguaggio della verità e dell’amore, che è la lingua universale: anche gli analfabeti possono capirla. Il linguaggio della verità e dell’amore lo capiscono tutti. Se tu vai con la verità del tuo cuore, con la sincerità, e vai con amore, tutti ti capiranno. Anche se non puoi parlare, ma con una carezza, che sia veritiera e amorevole.
Lo Spirito Santo non solo si manifesta mediante una sinfonia di suoni che unisce e compone armonicamente le diversità ma si presenta come il direttore d’orchestra che fa suonare le partiture delle lodi per le «grandi opere» di Dio. Lo Spirito santo è l’artefice della comunione, è l’artista della riconciliazione che sa rimuovere le barriere tra giudei e greci, tra schiavi e liberi, per farne un solo corpo. Egli edifica la comunità dei credenti armonizzando l’unità del corpo e la molteplicità delle membra. Fa crescere la Chiesa aiutandola ad andare al di là dei limiti umani, dei peccati e di qualsiasi scandalo.
La meraviglia è tanta, e qualcuno si chiede se quegli uomini siano ubriachi. Allora Pietro interviene a nome di tutti gli Apostoli e rilegge quell’evento alla luce di Gioele 3, dove si annuncia una nuova effusione dello Spirito Santo. I seguaci di Gesù non sono ubriachi, ma vivono quella che Sant’Ambrogio definisce «la sobria ebbrezza dello Spirito», che accende in mezzo al popolo di Dio la profezia attraverso sogni e visioni. Questo dono profetico non è riservato solo ad alcuni, ma a tutti coloro che invocano il nome del Signore.
D’ora innanzi, da quel momento, lo Spirito di Dio muove i cuori ad accogliere la salvezza che passa attraverso una Persona, Gesù Cristo, Colui che gli uomini hanno inchiodato al legno della croce e che Dio ha risuscitato dai morti «liberandolo dai dolori della morte (At 2,24). È Lui che ha effuso quello Spirito che orchestra la polifonia di lodi e che tutti possono ascoltare. Come diceva Benedetto XVI, «la Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé» (Omelia, 3 giugno 2006). Lo Spirito opera l’attrazione divina: Dio ci seduce con il suo Amore e così ci coinvolge, per muovere la storia e avviare processi attraverso i quali filtra la vita nuova. Solo lo Spirito di Dio infatti ha il potere di umanizzare e fraternizzare ogni contesto, a partire da coloro che lo accolgono.
Chiediamo al Signore di farci sperimentare una nuova Pentecoste, che dilati i nostri cuori e sintonizzi i nostri sentimenti con quelli di Cristo, così che annunciamo senza vergogna la sua parola trasformante e testimoniamo la potenza dell’amore che richiama alla vita tutto ciò che incontra.
* PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 giugno 2019 (ripresa parziale).
LA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA O LA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA?! Al di là della Trintà edipica....*
La Trinità
di José Tolentino Mendonça (Avvenire, domenica 16 giugno 2019)
Come si rappresenta il mistero? Noi ci accostiamo a esso a tastoni, consapevoli che i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre immagini vacillano e arrivano appena a intravvederne, poveramente, la realtà. Ma questo nostro tentativo di approssimazione costituisce comunque un importante patrimonio di fede.
Pensiamo ad Andrej Rublëv: siamo nella seconda metà del XV secolo quando egli crea quella che sarà la più celebre icona della Trinità. Il testo biblico soggiacente (Gen 18,1-15) è quello dell’ospitalità che Abramo offre ai tre personaggi celesti che lo visitano. Nella contemplazione di questa stupenda icona della Trinità, l’orante viene condotto al centro del mistero di Dio.
In effetti, ciò che vien lì focalizzato è il Dio unico, un solo Dio con la stessa natura divina in tre persone. I tratti fisionomici coincidono esattamente, come se fosse la medesima figura mostrata per tre volte, anche se in tre posizioni differenti.
I personaggi hanno lo stesso volto, lo stesso atteggiamento del corpo, le stesse ali. Inoltre, tutti hanno in mano uno scettro e posseggono un’aureola per indicare eguali dignità e regalità.
Ciascun personaggio, però, occupa una posizione differente nello spazio e sono diversi i gesti, i colori degli abiti e il gioco degli sguardi.
Il Padre, da cui proviene ogni benedizione, guarda all’umanità attraverso il Figlio. E il Figlio guarda a noi attraverso lo Spirito Santo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’EUROPA, LA COSTITUZIONE, E LA BANDIERA: LE RADICI CATTOLICHE DI MARIA ELENA (MADRE DI COSTANTINO) O LE RADICI CRISTIANE DI MARIA BEATRICE (MADRE DI DANTE)?! Al di là della trinità "edipica" e "mammonica" *
Europa.
Le radici cattoliche e mariane della bandiera dell’Unione Europea
Un saggio di Enzo Romeo ricostruisce la complessa genesi e la simbologia legata a Maria del vessillo di colore blu con il cerchio di dodici stelle, adottato dal Consiglio europeo nel 1955
di Edoardo Castagna (Avvenire, venerdì 14 giugno 2019)
Ogni identità ha bisogno di simboli ai quali guardare, per riconoscersi e per ispirarsi. Lo sanno bene i populisti di ieri e di oggi, che usano le identità come sciabole per dividere. In modo diametralmente opposto, tanto politicamente quanto moralmente, lo sapevano bene anche i padri fondatori dell’Unione Europea nella loro ricerca di una nuova identità capace di abbracciare, unire, includere.
L’identità europea si è costruita un poco alla volta negli ultimi sessant’anni e, anche se nell’ultimo periodo sembriamo a un punto di stallo, non possiamo non vedere quanto di grande e buono è stato fin qui costruito. Anche attorno ai simboli. Abbiamo un inno nella musica di Beethoven; e abbiamo una bandiera, ormai presenza famigliare sulle facciate degli edifici pubblici - e non solo, come le ultime elezioni europee hanno dimostrato: non pochi balconi hanno visto esporre il drappo azzurro con le dodici stelle.
Alla storia di questa bandiera ha dedicato il suo ultimo saggio Enzo Romeo (Salvare l’Europa. Il segreto delle dodici stelle; Ave, pagine 190, euro 12,00), nel quale la ricostruzione dei passaggi che portarono le istituzioni europee alla scelta definitiva si accompagna alla riscoperta del retroterra imprevisto che agì sui suoi creatori. Il disegno finale è attribuito a un lavoro collegiale, nel quale tuttavia spiccano i contributi del direttore dell’Ufficio d’informazione e stampa del Consiglio d’Europa, Paul Michel Gabriel Lévy, e soprattutto di Arsène Heitz, impiegato dell’Ufficio e autore di diversi bozzetti per la bandiera comune - tra i quali, con poche modifiche, quello infine adottato.
Cattolico e assai devoto alla Madonna, Heitz lavorò su simboli in apparenza del tutto laici: eppure l’azzurro, le dodici stelle come quelle della “medaglia miracolosa” che commemora le apparizioni mariane di rue du Bac a santa Caterina Labouré nel 1830, e che Heitz portava sempre con sé... una simbologia mariana agì, forse più come “mano invisibile” che come ispirazione cosciente, almeno fino a quando, molto più tardi, lo stesso Heitz non la esplicitò, forse prendendone consapevolezza egli stesso: «Mi sentii ispirato da Dio - avrebbe confidato Heitz a padre Pierre Caillon nel 1987, poco prima di morire - nel concepire un vessillo tutto azzurro su cui si stagliava un cerchio di stelle, come quello della medaglia miracolosa. Cosicché la bandiera europea è quella di Nostra Signora».
Quello di Heitz, d’altra parte, non fu l’unica delle proposte a contenere richiami alla simbologia cristiana, anche più espliciti: per esempio, l’austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, fondatore nel 1922 dell’Unione Paneuropea, suggerì un drappo blu con una croce rossa cerchiata di giallo; lo stesso Heitz propose una croce rossa in campo verde. Il verde fu tra i colori più ricorrenti nelle prime bozze: il francese Robert Bichet lanciò l’idea di quindici stelle verdi su campo bianco, il Movimento federalista europeo chiedeva che fosse adottato direttamente il proprio emblema, una “E” verde su campo bianco. Il blu fu comunque il colore più proposto, così come le stelle ebbero facilmente la meglio su altri simboli come i cerchi (un bozzetto a cerchi intrecciati fu bocciato perché ricordava troppo, a detta della commissione, una catena o la bandiera olimpica, se non addirittura la ghiera di un telefono...).
Le dodici stelle disposte a cerchio su fondo blu furono adottate dal Consiglio d’Europa (la bandiera identifica tanto questa istituzione quanto la successiva Unione Europea) nel 1955, con argomentazioni apparentemente anodine: il blu è quello del cielo dell’Occidente, le dodici stelle rappresentano tutti i popoli d’Europa nella loro diversità, il cerchio la loro unità. -Nessun riferimento, nei documenti ufficiali, a richiami mariani: ma, come nota giustamente Romeo, in questi casi «bisogna procedere su un piano assolutamente aconfessionale, evitando polemiche di sapore religioso o ideologico. Non si tratta di nascondere ipocritamente i segni della propria fede, ma di proporli su un piano universale, perché in questo caso essi trascendono l’appartenenza a una Chiesa e si trasformano nell’allegoria di un quadro valoriale comune». E, in effetti, ormai per mezzo miliardo di persone quelle stelle in campo blu hanno acquisito un po’ il colore di casa.
Anche se di una casa ancora in costruzione.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
Federico La Sala
INCONTRO DI PREGHIERA CON IL POPOLO ROM E SINTI
PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Sala Regia
Giovedì, 9 maggio 2019 *
Delle cose che ho sentito, tante mi hanno toccato il cuore, ma prendiamone una per incominciare, poi arriveranno le altre.
Questa mamma che ha parlato, mi ha toccato il cuore quando ha detto che lei “leggeva”, “vedeva” la speranza negli occhi dei figli. Ne ha quattro, mi ha detto, e questo va bene, questi sono due. La speranza può deludere se non è vera speranza, ma quando la speranza è concreta, come in questo caso, negli occhi dei figli, mai delude, mai delude!
Quando la speranza è concreta, nel Dio vero, mai delude. Le mamme che leggono la speranza negli occhi dei figli lottano tutti i giorni per la concretezza, non per le cose astratte, no: crescere un figlio, dargli da mangiare, educarlo, inserirlo nella società... Sono cose concrete. E anche le mamme - oserei dire - sono speranza. Una donna che mette al mondo un figlio è speranza, semina speranza, è capace di fare strada, di creare orizzonti, di dare speranza.
In ambedue le testimonianze c’era sempre il dolore amaro della separazione: una cosa che si sente sulla pelle, non con le orecchie. Ti mettono da parte, ti dicono: “Sì, sì, tu passi, ma stai lì, non toccarmi”. [Si rivolge al giovane prete che ha fatto la testimonianza] In seminario, ti domandavano se chiedevi l’elemosina, se andavi a Termini... La società vive delle favole, delle cose... “No, Padre, quella gente è peccatrice!...”. E tu, non sei peccatore? Tutti noi lo siamo, tutti. Tutti facciamo sbagli nella vita, ma io non posso lavarmene le mani, guardando i veri o finti peccati altrui. Io devo guardare i miei peccati, e se l’altro è in peccato, fa una strada sbagliata, avvicinarmi e dargli la mano per aiutarlo ad uscire.
Una cosa che a me fa arrabbiare è che si siamo abituati a parlare della gente con gli aggettivi. Non diciamo: “Questa è una persona, questa è una mamma, questo è un giovane prete”, ma: “Questo è così, questo è così...”. Mettiamo l’aggettivo. E questo distrugge, perché non lascia che emerga la persona. Questa è una persona, questa è un’altra persona, questa è un’altra persona. I bambini sono persone. Tutti. Non possiamo dire: sono così, sono brutti, sono buoni, sono cattivi. L’aggettivo è una delle cose che crea distanze tra la mente e il cuore, come ha detto il Cardinale [Bassetti]. È questo il problema di oggi.
Se voi mi dite che è un problema politico, un problema sociale, che è un problema culturale, un problema di lingua: sono cose secondarie. Il problema è un problema di distanza tra la mente e il cuore. Questo: è un problema di distanza. “Sì, sì, tu sei una persona, ma lontano da me, lontano dal mio cuore”. I diritti sociali, i servizi sanitari: “Sì, sì, ma faccia la coda... No, prima questo, poi questo”. È vero, ci sono cittadini di seconda classe, è vero. Ma i veri cittadini di seconda classe sono quelli che scartano la gente: questi sono di seconda classe, perché non sanno abbracciare. Sempre con l’aggettivo buttano fuori, scartano, e vivono scartando, vivono con la scopa in mano buttando fuori gli altri, o con il chiacchiericcio o con altre cose. Invece la vera strada è quella della fratellanza: “Vieni, poi parliamo, ma vieni, la porta è aperta”. E tutti dobbiamo collaborare.
Voi potete avere un pericolo... - tutti abbiamo sempre un pericolo - una debolezza, diciamo così, la debolezza forse di lasciar crescere il rancore. Si capisce, è umano. Ma vi chiedo, per favore, il cuore più grande, più largo ancora: niente rancore. E andare avanti con la dignità: la dignità della famiglia, la dignità del lavoro, la dignità di guadagnarsi il pane di ogni giorno - è questo che ti fa andare avanti - e la dignità della preghiera. Sempre guardando avanti. E quando viene il rancore, lascia perdere, poi la storia ci farà giustizia. Perché il rancore fa ammalare tutto: fa ammalare il cuore, la testa, tutto. Fa ammalare la famiglia, e non va bene, perché il rancore ti porta alla vendetta: “Tu fai così...”. Ma la vendetta io credo che non l’avete inventata voi. In Italia ci sono organizzazioni che sono maestre di vendetta. Voi mi capite bene, no? Un gruppo di gente che è capace di creare la vendetta, di vivere nell’omertà: questo è un gruppo di gente delinquente; non la gente che vuole lavorare.
Voi andate avanti con la dignità, con il lavoro... E quando si vedono le difficoltà, guardate in alto e troverete che lì ci stanno guardando. Ti guarda. C’è Uno che ti guarda prima, che ti vuole bene, Uno che ha dovuto vivere ai margini, da bambino, per salvare la vita, nascosto, profugo: Uno che ha sofferto per te, che ha dato la vita sulla croce. È Uno, come abbiamo sentito nella Lettura che tu hai fatto, che va cercando te per consolarti e incoraggiarti ad andare avanti. Per questo vi dico: niente distanza; a voi e a tutti: la mente con il cuore. Niente aggettivi, no: tutte persone, ognuno meriterà il proprio aggettivo, ma non aggettivi generali, secondo la vita che fai. Abbiamo sentito un bel nome, che include le mamme; è un bel nome questo: “mamma”. È una cosa bella.
Vi ringrazio tanto, prego per voi, vi sono vicino. E quando leggo sul giornale qualcosa di brutto, vi dico la verità, soffro. Oggi ho letto qualcosa di brutto e soffro, perché questa non è civiltà, non è civiltà. L’amore è la civiltà, perciò avanti con l’amore.
Il Signore vi benedica. E pregate per me!
DALLA FIABA, UNA LEZIONE DI PENSIERO COSTITUZIONALE ... *
I seduttori e i maestri: due voci ben diverse
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 9 maggio 2019)
IV Domenica di Pasqua
Anno C
Le mie pecore ascoltano la mia voce. Non i comandi, la voce. Quella che attraversa le distanze, inconfondibile; che racconta una relazione, rivela una intimità, fa emergere una presenza in te. La voce giunge all’orecchio del cuore prima delle cose che dice. È l’esperienza con cui il bambino piccolo, quando sente la voce della madre, la riconosce, si emoziona, tende le braccia e il cuore verso di lei, ed è già felice ben prima di arrivare a comprendere il significato delle parole.
La voce è il canto amoroso dell’essere: «Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline» (Ct 2,8). E prima ancora di giungere, l’amato chiede a sua volta il canto della voce dell’amata: «La tua voce fammi sentire» (Ct 2,14)... Quando Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta, la sua voce fa danzare il grembo: «Ecco appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44). Tra la voce del pastore buono e i suoi agnelli corre questa relazione fidente, amorevole, feconda. Infatti perché le pecore dovrebbero ascoltare la sua voce?
Due generi di persone si disputano il nostro ascolto: i seduttori, quelli che promettono piaceri, e i maestri veri, quelli che danno ali e fecondità alla vita. Gesù risponde offrendo la più grande delle motivazioni: perché io do loro la vita eterna. Ascolterò la sua voce non per ossequio od obbedienza, non per seduzione o paura, ma perché come una madre, lui mi fa vivere. Io do loro la vita.
Il pastore buono mette al centro della religione non quello che io faccio per lui, ma quello che lui fa per me. Al cuore del cristianesimo non è posto il mio comportamento o la mia etica, ma l’azione di Dio. La vita cristiana non si fonda sul dovere, ma sul dono: vita autentica, vita per sempre, vita di Dio riversata dentro di me, prima ancora che io faccia niente. Prima ancora che io dica sì, lui ha seminato germi vitali, semi di luce che possono guidare me, disorientato nella vita, al paese della vita. La mia fede cristiana è incremento, accrescimento, intensificazione d’umano e di cose che meritano di non morire.
Gesù lo dice con una immagine di lotta, di combattiva tenerezza: Nessuno le strapperà dalla mia mano. Una parola assoluta: nessuno. Subito raddoppiata, come se avessimo dei dubbi: nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io sono vita indissolubile dalle mani di Dio. Legame che non si strappa, nodo che non si scioglie. L’eternità è un posto fra le mani di Dio. Siamo passeri che hanno il nido nelle sue mani. E nella sua voce, che scalda il freddo della solitudine.
(Letture: Atti 13,14.43-52; Salmo 99; Apocalisse 7,9.14-17; Giovanni 10,27-30)
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ASTUZIA DEL LUPO E I SETTE CAPRETTI. "APRITE, APRITE": SONO IL VOSTRO "PAPI"!!! LA PAROLA "ITALIA", LA "PASSWORD", CONSEGNATA A UN PARTITO (1994-2011).
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
A proposito del documento con cui Ratzinger si congeda dalla Chiesa
Un canto del cigno triste e inopportuno
di Marcello Neri (Il Mulino, 15 aprile 2019)
Inadeguato e inopportuno, così è il recente testo di Ratzinger sulla genesi sociale e culturale degli abusi nella Chiesa cattolica. Inadeguato non solo rispetto al tema che si vuole trattare, ma anche alla logica interna che si vorrebbe perseguire. Un affastellarsi di frasi, memorie personali, giudizi, osservazioni, senza un principio argomentativo che renda coerente l’impianto. Inopportuno per i tempi, le maniere, gli esiti prodotti.
Dalla storia, in cui a diritto l’aveva fatto entrare la scelta spirituale delle sue dimissioni da pontefice romano, Ratzinger ha iniziato a uscire quasi subito dopo: troppa devota obbedienza nominale al successore e troppe parole che andavano in altra direzione.
Ratzinger, volente o nolente, ha contribuito ad alimentare il mito di un «doppio» canonicamente e teologicamente mai esistito, reso possibile solo dalla logica mediatica e dalla perfidia di coloro che hanno piegato a essa il lento declino di un uomo che per mezzo secolo ha avuto in mano le sorti della Chiesa cattolica. Fino al punto di dover riconoscere, in un momento di folgorante obbedienza ecclesiale, di non esserne stato all’altezza.
L’ultimo scritto è quello di un uomo solo con i suoi demoni e i suoi conti da regolare, senza un amico che lo consigli saggiamente di tenere per sé le annotazioni su cui è stata costruita una vera e propria campagna di delegittimazione della Chiesa cattolica (dal Vaticano II all’analisi delle ragioni strutturali da parte di Francesco degli abusi sessuali).
Non solo, ma anche lo scritto di un uomo usato da amici privi di quel rispetto e di quella devozione con i quali, come Bibbia e sapienza popolare ci insegnano, dobbiamo circondare il tempo finale dei nostri vecchi. L’ethos uscito dal Sessantotto sarà traballante, finanche scanzonato e ignaro del prezzo che avrebbe fatto pagare alle generazioni future. Ma l’ethos che ha fatto di una «senile» prova di Ratzinger un piano di battaglia per imbrattare i muri del Vaticano II e ostacolare ancora una volta il percorso intrapreso dalla Chiesa sotto la mano severa di Francesco non è altro che il risentimento della rivalsa per il potere perduto.
Entrare nel merito dell’articolo di Ratzinger è quasi imbarazzante. Mi chiedo, d’altro lato, se si possa assistere inermi all’autodistruzione di una mente che ha fatto della propria personale visione del cristianesimo lo schema di base dell’ortodossia cattolica a livello globale.
Agghiacciante la parte che elabora le ragioni della dimissione dallo stato clericale dell’abusatore comprovato. Il crimine lede la fede dogmatica e per questa ragione deve essere perseguito in maniera implacabile. Le vittime nel testo di Ratzinger non esistono, ridotte al silenzio più assordante e alla dimenticanza del non venire nominate neanche en passant. Esse sono solo lo strumento mediante il quale il perpetratore violenta l’innocenza originaria e la perfezione perpetua della fede.
In questo momento, addebitare in toto le ragioni degli abusi nella Chiesa cattolica ai processi sociali e culturali di cambiamento degli assetti relazionali tra le generazioni, le persone, i singoli e le autorità costituite è semplicemente indice di cattivo gusto - anche nel caso uno sia profondamente convinto di ciò. Non si può dire, semplicemente perché si è visto che non è vero.
Distorsioni indebite e legittimazioni improprie del potere che circola nella Chiesa non possono essere ricondotte alla caduta morale di alcuni, neanche di molti dei suoi; si tratta piuttosto - come ha ricordato poco tempo fa monsignor Heiner Wilmer, vescovo di Hildesheim - di qualcosa che appartiene al dna della Chiesa stessa e come tale va trattato.
Non a tutti è concessa una platea globale per il proprio canto del cigno. Quando questo accade si dovrebbe raccogliere presso di sé le poche forze rimaste e prendere congedo con dignità dalla Chiesa che è di tutti. Altro è stato con Ratzinger, che si è lasciato avvincere da ancestrali paure e da una vendicatività di basso profilo, a uso e consumo di una combriccola di filibustieri che non provano un briciolo di sentimento per lui.
Che «un Dio che inizia con noi una storia d’amore e vuole includere in essa tutta la creazione» sia l’orizzonte ultimo da cui prende le mosse questo testo, così come esso si è prodotto e con gli effetti intenzionali che ha messo in circolo, è la piegatura drammatica del canto del cigno di Ratzinger.
COSTITUZIONE - E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... *
Il caso italiano
Il sacro dovere e la sua torsione populista
di Francesco Palermo (Il Mulino, 31 gennaio 2019)
La Costituzione è il perimetro entro il quale la politica si muove, o meglio, si dovrebbe muovere, con le proprie scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee si svolge, o si dovrebbe svolgere, secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata ad arbitri, a organismi super partes, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il presidente della Repubblica. È, pertanto, non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la Costituzione può svolgersi la politica.
La Costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: "non avrai altro Dio all’infuori di me". E non può esserci politica al di fuori della Costituzione. Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati a interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’Interno ha invocato l’articolo 52 della Costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due vicende, seppur diverse tra loro, della nave Diciotti da un lato (per la quale pende una richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti) e della nave Sea watch dall’altro (la cui vertenza, di fatto, è ancora aperta), il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul "sacro dovere" di ciascun cittadino alla "difesa della patria", previsto appunto dall’articolo 52.
Tale disposizione non ha, naturalmente, nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della Carta. Non a caso, il testo che uscì come definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della Costituente. Tutti erano d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’Interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo.
Il richiamo al "sacro dovere" della "difesa della patria" ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la Costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione ("sacro dovere"), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti.
Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’articolo 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo rimette in tale contesto, facendo intuire che "l’invasione" dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla Costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della Costituzione, di eroderne il ruolo di perimetro dell’attività politica, di limite e parametro della stessa. Un’erosione di cui questo caso è solo il più recente di una lunga serie di esempi, che porta a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della Carta costituzionale.
Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale (o almeno non dovrebbe sfuggire, ma evidentemente per alcuni non è così). E infatti l’operazione politica che distorce il significato della Carta funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della Costituzione sfugge.
Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che in questo caso non è quella dei migranti, ma quella della Carta su cui si fonda il nostro stesso ordinamento in quanto democrazia. Una nave su cui siamo imbarcati tutti.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
Oggi sarà una giornata eccezionale
Nel ricordo di un testimone *
di L’Osservatore Romano, 24 gennaio 2019
Uno dei pochi testimoni ancora in vita è Guido Gusso - in quel periodo “aiutante di camera” del Papa - che accompagnò Giovanni XXIII a San Paolo e assistette allo storico annuncio.
Ci racconta cosa è successo quel giorno?: una giornata eccezionale, nel ricordo di un testimone.
Ricordo proprio bene quel giorno, il 25 gennaio 1959. Ho dato una mano al Santo Padre a mettersi i paramenti, cioè il rocchetto e la mozzetta. E lui mi ha detto: «Guido, prendi il rocchetto più bello perché oggi sarà una giornata eccezionale, ché dovrò dare un grande annuncio». Allora ho messo a posto tutto, il mantello rosso, il cappello rosso e siamo scesi per prendere l’auto.
Guidava lei?
La portava il cavalier Angelo Stoppa, che era l’autista di Papa Pacelli. Durante il percorso, il Papa si era come assorto, non parlava. Normalmente, lui parlava sempre... ma quel giorno, quella mattina, tutto in silenzio. Siamo arrivati a San Paolo, c’è stata la cerimonia, e poi ha invitato tutti i cardinali ad andare nella “saletta”, una piccola aula. E là mi sono fermato anch’io, perché avevo il cappello, il mantello e la borsa. E lui ha annunciato che avrebbe fatto un sinodo, il Sinodo romano, che il Sinodo sarebbe quello per i preti. Già a Venezia l’aveva fatto, perché io stavo a Venezia con lui. Poi, dopo aver parlato un po’ del Sinodo disse: «Vi debbo dare un grande annuncio: indirò un Concilio». Al momento c’è stato un «ohhhhh!», e poi un silenzio di tomba. Nessuno ha più parlato. E poi c’è stato un brontolio generale... Lui ha spiegato... e poi ha detto anche che doveva fare un’altra cosa...
La riforma del Codice.
La riforma del Codice, ecco. Ha spiegato un po’, e tutti sono andati via, ognuno per conto suo. Il Papa è salito in macchina, serio. E disse: «Non l’hanno presa bene: questa cosa del Concilio a nessuno gli garbava». E basta. Poi siamo tornati a casa. Allora, in camera da letto, mentre si levava il rocchetto, la mozzetta e tutti i paramenti che aveva addosso, io gli chiesi: «Santità, io sono ignorante, non so che cosa sia questo Concilio». «Eh - diceva - come non lo sai?». «No - dissi - ma mi consola che quel cardinale che stava vicino a me ha chiesto al suo collega: “Di’ un po’, ma che è ‘st’affare del Concilio, che non so che cosa sia?”». Allora lui, con pazienza, mi ha fatto sedere nel suo studio e mi ha spiegato i Concili, incominciando dai primi Concili che facevano all’epoca, mi pare secondo o terzo secolo, per arrivare poi al Concilio di Trento e all’ultimo, il concilio Vaticano I, che poi è stato sospeso, perché c’è stata la presa di Roma con Pio IX.
Quindi, alla fine, quel giorno lui era contento o no?
Era contento, altroché contento! È stata un’ispirazione, diceva: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi». Questo era quello che voleva.
E si è meravigliato della reazione dei cardinali?
No... Lo sapeva... Mi ha detto: «Già incominciano a tirarmi le pietre. Stai attento, tu, nella vita ti può capitare come capita a me, che mi tirano i sassi. Non raccattarli, eh?». Era buono, era buono. E posso dire, dopo sessant’anni ci voleva un argentino come Francesco per valorizzare e dare impulso al grande Concilio fatto. È stato grande Paolo VI che l’ha portato avanti, perché credo che chiunque altro avrebbe messo da parte tutto.
Cos’altro disse durante il viaggio di ritorno in Vaticano?
Non ha detto «a»; non ha detto «a». Solo qualche parola con monsignor Capovilla. Però, posso dire che lui per il Concilio ha dato la vita. Poi, l’11 ottobre è stato grandioso: l’apertura, era contento! Lui sperava di poterlo anche chiudere. Purtroppo è morto, per un brutto male. Ha sofferto molto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
COME IL BUON-GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").... *
Messaggio.
Il Papa: ecco la Rete che vogliamo. Per liberare, non intrappolare
Oggi, memoria di san Francesco di Sales, pubblicato il Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali che sarà celebrata il 2 giugno
di Gianni Cardinale (Avvenire, giovedì 24 gennaio 2019)
Internet «rappresenta una possibilità straordinaria di accesso al sapere», ma è anche «uno dei luoghi più esposti alla disinformazione e alla distorsione consapevole e mirata dei fatti e delle relazioni interpersonali, che spesso assumono la forma del discredito». La rete poi «è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri», ma «può anche potenziare il nostro autoisolamento, come una ragnatela capace di intrappolare». Ecco quindi che il web deve essere fatto non «per intrappolare, ma per liberare».
Lo scrive papa Francesco nel Messaggio, diffuso oggi, per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che quest’anno si celebra, in molti Paesi, domenica 2 giugno, Solennità dell’Ascensione del Signore.
Il Messaggio del Pontefice è pubblicato come da tradizione nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria liturgica di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Ed ha come titolo «’Siamo membra gli uni degli altri’ (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana» (IL TESTO INTEGRALE).
Nel testo il Pontefice denuncia l’uso dei social per fomentare "spirali di odio" e "ogni tipo di pregiudizio", nonché i rischi del cyberbullismo, del narcisismo e dell’autoisolamento che porta al fenomeno degli "eremiti sociali". Papa Francesco inoltre ribadisce che la rete deve fondarsi "sulla verità" e non "sui like".
Per Papa Francesco «le reti sociali, se per un verso servono a collegarci di più, a farci ritrovare e aiutare gli uni gli altri, per l’altro si prestano anche ad un uso manipolatorio dei dati personali, finalizzato a ottenere vantaggi sul piano politico o economico, senza il dovuto rispetto della persona e dei suoi diritti». Senza contare che «tra i più giovani le statistiche rivelano che un ragazzo su quattro è coinvolto in episodi di cyberbullismo».
Usando la metafora della rete come comunità, il Pontefice osserva come «nello scenario attuale, la social network community non sia automaticamente sinonimo di comunità». Infatti «nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli».
Come ritrovare allora «la vera identità comunitaria nella consapevolezza della responsabilità che abbiamo gli universo gli altri anche nella rete online?».
Una possibile risposta, scrive papa Francesco, «può essere abbozzata» a partire da un’altra metafora, quella del corpo e delle membra, che san Paolo usa nella Lettera agli Efesini «per parlare della relazione di reciprocità tra le persone, fondata in un organismo che le unisce». Infatti «l’essere membra gli uni degli altri è la motivazione profonda, con la quale l’Apostolo esorta a deporre la menzogna e a dire la verità: l’obbligo a custodire la verità nasce dall’esigenza di non smentire la reciproca relazione di comunione».
Per il Pontefice «l’immagine del corpo e delle membra ci ricorda che l’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro». Così quando «la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione». Quando «una famiglia usa la rete per essere più collegata, per poi incontrarsi a tavola e guardarsi negli occhi, allora è una risorsa». Quando «una comunità ecclesiale coordina la propria attività attraverso la rete, per poi celebrare l’Eucaristia insieme, allora è una risorsa». Quando “la rete è occasione per avvicinarmi a storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza fisicamente lontane da me, per pregare insieme e insieme cercare il bene nella riscoperta di ciò che ci unisce, allora è una risorsa”.
La «rete che vogliamo» conclude papa Francesco è «la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza...». Una rete insomma «non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere». E la Chiesa stessa «è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui ‘like’, ma sulla verità, sull’’amen’, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».
Il Messaggio del Pontefice ha raccolto il plauso di Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione della Stampa: "È un’esortazione e un invito alla riflessione".
Vedi anche: Ecco la nuova App Cei per restare informati sulla vita della Chiesa e non solo
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
Federico La Sala
I medici nascono senza frontiere
di Roberto Mussapi (Avvenire, venerdì 18 gennaio 2019)
«In quante case io entri mai, vi giungerò per il giovamento dei pazienti tenendomi fuori da ogni ingiustizia e da ogni altro guasto, particolarmente da atti sessuali sulle persone sia di donne che di uomini, sia liberi sia schiavi». Siamo all’inizio di uno scritto che segna una tappa fondamentale della civiltà: il Giuramento di Ippocrate, il medico che fonda il compito e traccia le basi della sua arte. «Io giuro su Apollo medico e Asclepio e Igieia e Panacea, e su tutti gli dei e le dee, prendendoli a miei testimoni...».
Il giuramento di Ippocrate, su cui si fonda la medicina, è fatto agli dèi, il compito del medico non riguarda esclusivamente il mondo della polis, ma è vincolato a quello sacro del divino. Studi recenti datano il giuramento intorno al V secolo a. C, il secolo che vede nascere la tragedia come genere teatrale di poesia, e la filosofia, pensiero come logos. Alle spalle il rito dionisiaco tragico, e il pensiero dei presocratici, i baldi e travolgenti scienziati-poeti. Prodigioso momento di creazione dei Greci che fondano l’Occidente.
Cittadini di una democrazia, non servi di un Re come gli Egizi o i Persiani. Ma civiltà non ancora compiuta. Le donne non godono di diritti civili, né considerazione, meno ancora degli schiavi. Insomma molestare una donna, o uno schiavo, non è, per il greco del tempo, così grave. Non sono cittadini, maschi.
Per Ippocrate invece è la stessa cosa. Supera i limiti della sua civiltà. Va oltre: giuro di non fare violenza a nessuno, perché tutti, comprese donne e schiavi, sono, siamo uguali. Supera i pensatori del suo tempo. È un medico. I medici nascono senza frontiere.
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
L’esilio e la promessa...
Ricordare è verbo di futuro
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
Sono i segni religiosi quelli che più incidono la terra e dicono il carattere di una cultura. Templi, altari, edicole, croci, steli separano nel territorio il sacro dal profano, rivelano e danno nomi e vocazioni alle terre, trasformano gli spazi in luoghi. La terra porta iscritte nelle sue ferite i nostri vizi e le nostre virtù. Accoglie mite le nostre tracce, si lascia, mansueta, associare alle nostre sorti, e con una sua misteriosa e reale reciprocità comunica con noi. Tra le note della profezia c’è anche la capacità di interpretate il linguaggio della creazione, di raccontarcelo, di parlare al nostro posto e in nostro nome. Cosa direbbero, oggi, i profeti di fronte piaghe che stiamo producendo nel nostro pianeta? Quali parole di fuoco pronunzierebbero di fronte alle nostre "alture" popolate di idoli? Come profetizzerebbero davanti alle nostre miopie e ai nostri egoismi collettivi? Forse griderebbero, comporrebbero nuovi poemi, canterebbero, cantano, Laudato si’.
«Mi fu quindi rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, volgiti verso i monti d’Israele e profetizza contro di essi: Monti d’Israele, udite la parola del Signore Dio. Così dice il Signore Dio ai monti e alle colline, alle gole e alle valli: Ecco, manderò sopra di voi la spada e distruggerò le vostre alture"» (Ezechiele 6,1-3). Ezechiele profetizza contro i monti, resi complici innocenti delle infedeltà del popolo. Quelle colline, quelle valli e gole sono anche simbolo di quella creazione che "geme" in attesa di esseri umani suoi degni custodi. Sono gli animali, piante, suolo e sottosuolo, oceani e mari, che ogni giorno, e ogni giorno di più, subiscono le conseguenze della trasformazione della nostra vocazione da accudimento in tirannia. I profeti parlano anche per loro e al loro posto - ancora in mezzo tra terra e uomo, tra uomini e cielo, mediatori inchiodati su croci come messaggi di carne.
Fn dal suo primo insediamento in Caanan, il popolo di Israele ha sentito costantemente la seduzione dei culti cananei. Forte era il fascino di quegli dèi semplici, naturali, scanditi dai ritmi e dalle immagini della fertilità, e che si potevano vedere, raffigurare, toccare, ha avvertito la tentazione della loro prostituzione sacra che, sulle alture, offriva vie immediate di unione con le divinità. E se non ci fossero stati i profeti, YHWH, il nome del loro Dio diverso e unico, con il passare del tempo sarebbe diventato uno dei tanti nomi uno dei tanti dèi dei molti pantheon dei popoli vicini e vincitori. I profeti sono amici di Dio e amici dell’uomo, che ripetono: l’uomo è diverso perché Dio è diverso. Tengono alto e trascendente Dio per tenere più alto possibile l’uomo, per non ridurlo a consumatore-consumato di idoli manufatti. I profeti fanno sì che la naturale contaminazione che una fede riceve dall’incontro con gli altri popoli, non superi una soglia critica e faccia perdere il filo rosso dell’alleanza e dell’anima collettiva.
Senza il contagio religioso con Babilonia, con l’Egitto e coi popoli cananei, non avremmo molte pagine, bellissime, della Bibbia. Ma se quella fertilizzazione mutua fosse entrata nelle midolla e nel cuore della Promessa, del Sinai, della Legge e del Patto, quel popolo diverso dalla fede diversa sarebbe stato riassorbito nelle religioni naturali del Vicino Oriente. Il profeta è sentinella anche perché suona la tromba e dà l’allarme quando la contaminazione supera il punto critico e diventa assimilazione e sincretismo. E sa che c’è un luogo dove queste contaminazioni non possono e non devono entrare: il tempio, il luogo che custodisce la nostra storia più intima, l’altare del patto, il cuore del nostro nome. E, come conseguenza, il popolo di Israele non deve entrare nei templi degli altri popoli e adorare le loro divinità. Non solo perché quei popoli sono adoratori di idoli (Israele non ha sempre pensato che tutti gli altri dèi fossero idoli), ma perché il giorno che un popolo inizia a entrare e pregare in più di un tempio sta dicendo che, in fondo, non crede davvero a nessun dio (come quell’uomo che dicendo "ti amo" a più di una donna, in realtà sta dicendo che non ne ama davvero nessuna). Ecco perché la lotta dei profeti ai santuari delle alture ci dice, in poesia, cose molto serie - la poesia dice sempre cose molto serie.
Quando, ad esempio, le comunità nate da un carisma attraversano grandi crisi, la tentazione non sta l’eliminazione o la cancellazione del "Dio" della prima alleanza, ma nell’introduzione nel proprio tempio di altre divinità che iniziano ad affiancarsi al primo "culto". Si importano preghiere, canzoni, pratiche più vicine allo spirito del tempo, più semplici e comprensibili, che rispondono meglio ai gusti dei "consumatori". Entro un certo limite, questi arrivi possono aiutare e arricchire. Ma se queste pratiche estranee entrano dentro "il tempio", e se noi iniziamo a frequentare i templi degli altri senza distinguerli più dal nostro, la contaminazione inizia a minare il patto e la promessa; e arriverà presto il giorno in cui ci troveremo a parlare con il nostro primo Dio in templi tutti uguali, e non accadrà più nulla - molte crisi esistenziali, individuali e comunitarie, nascono da operazioni di affollamento del luogo del primo incontro, che diventa così fitto da non riuscire vedere né udire più nulla.
Ma i santuari e i templi erano anche i luoghi dei sacrifici di animali e di bambini. Dietro alla critica dei culti cananei e babilonesi c’è sempre, nei profeti grandi, la critica all’uso del sacrificio come moneta per commerciare con un Dio commerciante.
La polemica durissima dei profeti contro l’oro e l’argento, non è una critica economica né etica al denaro usato per i commerci umani; è una critica teologica e quindi antropologica, è una condanna ad una visione economica della fede e quindi della vita.
L’oro è pericolosissimo perché diventa il materiale con cui si fabbricano gli idoli: le statuette di Baal o di Astarte ieri, oggi i prodotti e i beni che, come nuovi idoli, ci vendono una sottospecie di eterna giovinezza. Più oro si possiede più grande è il prezzo che possiamo pagare per i nostri sacrifici.
I ladri che profanano il luogo santo non sono allora ladri di cose o di denaro; sono ladri religiosi, che sottraggono all’uomo la sua dignità e lo riducono a servo di idoli: «Getteranno l’argento per le strade e il loro oro si cambierà in immondizia, con esso non si sfameranno, non si riempiranno il ventre... Della bellezza dei loro gioielli fecero oggetto d’orgoglio e fabbricarono con essi le abominevoli statue dei loro idoli. Per questo li tratterò come immondizia... Sarà profanato il mio tesoro [tempio], vi entreranno i ladri e lo profaneranno» (7,19-22). Il denaro e l’oro sono immondizia quando non sono usati per vivere ma per fabbricare ogni sorta di idolo. Questa natura profonda delle ricchezze si rivela in pienezza soltanto alla fine («Viene la fine, viene la fine su di te»: 7,6).
Alla fine della vita, quando sarà evidente la differenza radicale tra le ricchezze (materiali e non) che abbiamo usato per sfamare e sfamarci, e le altre che abbiamo usato per creare o comprare idoli venditori di illusioni. Oppure nelle altre "fini", quando dentro una grossa crisi, malattia, depressione, capiamo che potremo ricominciare solo se impariamo a riconoscere altre ricchezze che ancora non abbiamo visto, in noi e attorno a noi.
Al centro di queste parole durissime che il profeta alza contro le alture, gli idoli e le infedeltà del popolo, ci raggiunge come raggio di sole aurorale un altro brano di teologia del resto (la Bibbia potrebbe essere raccontata come storia del resto fedele): «Tuttavia farò sopravvivere in mezzo alle nazioni alcuni di voi scampati alla spada, quando vi disperderò nei vari paesi. I vostri scampati si ricorderanno di me fra le nazioni in mezzo alle quali saranno deportati ... Sapranno allora che io sono il Signore» (6,8-10).
Tuttavia: i profeti amano molto questo avverbio, perché completa e addolcisce le loro parole di giudizio. I falsi profeti non conoscono i tuttavia, perché sono ideologici e ruffiani. Tuttavia è anche l’avverbio dei bravi educatori, degli insegnanti, dei responsabili di comunità, che dopo aver avuto la forza del giudizio di verità riescono ad aggiungere il "tuttavia" della mansuetudine e della pietas, che è sale e il lievito della pasta che stanno impastando.
Questo brano sul resto ci dice qualcosa di essenziale. Quando negli esili vogliamo provare a ricominciare veramente, sono due le cose davvero necessarie. A ricominciare non è il tutto, ma una parte, un piccolo resto vivo. Avevamo formato una famiglia, fatto nascere una comunità, un’impresa. Poi è arrivata la crisi, e quindi la deportazione e l’esilio. Ci siamo dispersi e contaminati con molti popoli. Se un giorno vorremo continuare la stessa prima storia dobbiamo vincere la nostalgia dell’intero, non lasciarci sedurre dal richiamo fortissimo del tutto, perché, semplicemente, quell’intero e quel tutto non ci sono più. Ma possiamo continuare veramente la nostra storia su quella piccola parte rimasta viva: due lavoratori della fabbrica, un bambino, quella sola parola buona che si è salvata dalle tante cattiverie che ci siamo detti.
La seconda cosa riguarda il significato del bellissimo verbo biblico ricordare ("si ricorderanno di me"). Nell’umanesimo biblico ricordare non è il verbo del passato, è il verbo di futuro. Si ricorda nel deserto, nei campi di mattoni, nell’esilio, e si ricorda per continuare a credere nella promessa che deve venire e verrà. Nel deserto dove ci ha gettato il tradimento del nostro patto matrimoniale, non si ricomincia celebrando un nuovo patto su un nuovo altare, ma ricordando che quelle parole erano state vere, perché una parte vera del nostro cuore non era mai uscita da quella chiesa e da quel primo altare. È imparando a ricordare che si inizia a risorgere.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
L’INDICAZIONE DI MANDELA....
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Nazismo.
Il no a Hitler che costò la vita a padre Reinisch
Prete cattolico, non giurò fedeltà al Führer e nel 1942 subì la condanna alla ghigliottina. Dal 2013 è in atto il processo di beatificazione, lo scrittore irlandese David Rice ne racconta la vita
di Riccardo Michelucci (Avvenire, mercoledì 21 novembre 2018)
«Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare; ma bisogna prenderla, perché è giusta». Molti anni prima che Martin Luther King pronunciasse una delle sue frasi più famose, padre Franz Reinisch trovò la forza di opporsi a Hitler sacrificandosi fino alle estreme conseguenze per non tradire la sua fede in Dio. Sarebbe passato alla storia come l’unico prete cattolico ghigliottinato ai tempi del Terzo Reich.
A lungo preso di mira dalla Gestapo per la sua aperta e radicale disapprovazione nei confronti del Führer, padre Reinisch subì prima il divieto di tenere conferenze e di predicare in tutto il territorio del Reich, poi ricevette la chiamata dalla Wehrmacht con il conseguente obbligo di prestare il giuramento fedeltà a Hitler.
«Sapeva bene che agli obiettori di coscienza erano riservate pene durissime e molti cercarono di fargli cambiare idea, ma lui fu sempre irremovibile nel suo rifiuto. Disse che sarebbe stato disposto a giurare fedeltà al popolo tedesco ma non al Führer», ci spiega lo scrittore irlandese David Rice, autore di I will not serve: The priest who said no to Hitler, un romanzo biografico appena uscito per i tipi di Mentor Books, che racconta la vita di questo martire cattolico.
Franz Reinisch era nato nel 1903 nella città austriaca di Feldkirch, e dopo studi in diritto e filosofia era entrato nel Seminario maggiore di Bressanone. Nel 1928 prese gli ordini ed entrò a far parte della comunità pallottina nel movimento di Schoenstatt, iniziando a prendere posizione pubblicamente contro il nazismo subito dopo l’ascesa al potere di Hitler, che lui definiva «la personificazione dell’Anticristo».
Quando nel 1942 ricevette l’ordine di entrare nelle forze armate - al pari di migliaia di altri esponenti del clero dell’epoca - era ancora all’oscuro dell’esistenza dei campi di sterminio, non poteva sapere che il regime stava attuando la Soluzione finale, ma aveva già visto gli ebrei perseguitati per le strade, intere famiglie strappate dalle loro case e sparite nel nulla. Aveva assistito con i propri occhi alle violenze contro i religiosi e alla repressione di qualsiasi forma di dissenso. Per questo si convinse che non avrebbe potuto prestare giuramento di fedeltà a Hitler senza tradire i principi nei quali credeva così fermamente.
Nel 1937 papa Pio XI aveva denunciato il nazionalsocialismo con la sua enciclica Mit brennender Sorge, definendolo «l’apostasia orgogliosa da Gesù Cristo, la negazione della sua dottrina e della sua opera redentrice». Negli anni seguenti migliaia di persone vennero costrette con la violenza a rinunciare alla fede cristiana, e persino professarsi cattolici equivaleva ormai a opporsi al nazismo.
Il libro di Rice racconta in forma romanzata il percorso interiore che condusse padre Reinisch verso un coraggioso rifiuto che sbalordì persino i vertici della Wermacht. «Ci deve pur essere qualcuno che si oppone agli abusi di potere. Io, come cristiano, sento di essere chiamato a esprimere questa protesta», spiegò durante la consegna delle divise militari nella caserma di Bad Kissingen. Era il 15 aprile 1942. Il religioso 38enne fu immediatamente tradotto nel carcere di Berlino: poche settimane più tardi si aprì il processo contro di lui, che si sarebbe concluso ineluttabilmente con la sua condanna a morte.
«Si sentiva talmente legato alla fede da scegliere di sacrificare la sua vita per essa. Oltre al suo straordinario coraggio mi ha sempre sconvolto il fatto che sia stato decapitato con la ghigliottina», afferma David Rice, che per scrivere questo libro è rimasto a lungo tra i pallottini di Schoenstatt, vicino alla città tedesca di Coblenza, dove ha avuto accesso ai suoi documenti personali.
Uno dei momenti più drammatici ricostruiti nel libro è quello in cui padre Reinisch, dopo aver trascorso molte notti insonni, apprende che non sarà fucilato bensì ghigliottinato. «Il plotone di esecuzione è riservato ai soldati - gli spiegano - per i criminali comuni è prevista la decapitazione».
La sentenza di morte fu letta la sera del 21 agosto 1942 nella prigione di Brandenburgo-Görden. Reinisch ribadì di non essere un rivoluzionario, ma soltanto un prete cattolico armato della sua fede nello Spirito Santo. Trascorse l’ultima notte pregando, poi scrisse una lettera d’addio alla sua famiglia, alla quale lasciò i suoi paramenti liturgici, il suo crocifisso e il suo rosario, insieme ad alcuni libri.
Nelle prime ore del mattino seguente gli furono tolte le scarpe e legate le mani dietro la schiena, infine fu condotto nella stanza dell’esecuzione. Il boia indossava un abito da alta cerimonia: cappello a cilindro, pantaloni a righe, tight, panciotto e guanti bianchi, con i quali scoprì un vecchio esemplare della famigerata “Fallbeil”, la ghigliottina usata fin dall’Ottocento per decapitare i criminali comuni.
«Pronunci il suo nome», gli gridò. «Franz Reinisch, prete cattolico», rispose il condannato. Dopo una lunga pausa, il boia gli chiese per l’ultima volta se era disposto a sottoscrivere il giuramento di fedeltà e gli indicò un foglio appoggiato su un tavolo, ricordandogli che se l’avesse firmato avrebbe avuto salva la vita. «La ringrazio per la sua gentilezza - replicò Reinisch - ma non posso prendere parte a una guerra ingiusta e neppure giurare fedeltà a un regime antidemocratico. Muoio per Cristo re e per la madrepatria. Possa Dio benedirvi tutti».
Il suo martirio avrebbe risvegliato molte coscienze, ispirando altri prigionieri a compiere simili atti di resistenza nonviolenta a Hitler. Uno di questi fu il contadino austriaco Franz Jägerstätter, di profonda fede cattolica, che incontrò padre Reinisch nel carcere di Brandeburgo e trovò anche grazie a lui il coraggio dell’obiezione di coscienza. L’anno dopo si rifiutò anch’egli di entrare nelle file naziste, finendo sulla ghigliottina. Il 28 maggio 2013 il vescovo di Treviri, monsignor Stephan Ackermann, ha aperto ufficialmente il processo di beatificazione di Franz Reinisch.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA.
PIO XII, OGGI?! DOPO E CONTRO LA LEZIONE DI PAPA WOJTYLA, IL REVISIONISMO NOSTALGICO DI RATZINGER.
GESÙ E IL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
Federico La Sala
Santa Sede.
Lotta agli abusi, il Papa convoca i capi dei vescovi di tutto il mondo
L’annuncio al termine della riunione dei 9 Cardinali. L’incontro sarà in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019. Sul tavolo il tema della protezione dei minori e della prevenzione degli abusi
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 12 settembre 2018)
Una decisione forte, che esprime la volontà fermissima di fare verità su una piaga che va sanata al più presto. Papa Francesco sentito il Consiglio di cardinali, ha deciso di convocare una riunione con i presidenti delle Conferenze episcopali della Chiesa cattolica sul tema della protezione dei minori e degli adulti vulnerabili.
L’annuncio è contenuto nel comunicato che conclude la XXVI riunione del cosiddetto C9, il gruppo di porporati cui lo stesso Pontefice ha affidato il compito di aiutarlo nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa universale. Un tema quello degli abusi, rilanciato dal recente dossier sulla diocesi della Pennsylvania e dal caso McCarrick, ampiamente trattato, come recita la nota finale, nella riunione di cardinali, iniziata lunedì per concludersi stamani.
Il vertice con i tutti i leader degli episcopati rilancia una volta di più la volontà di adottare misure idonee alla prevenzione e alla tutela delle vittime e, allo stesso tempo rappresenta una presa d’atto di come il problema si ancora drammaticamente caldo. Il tutto si svolgerà nella linea della tolleranza zero, che Bergoglio ha adottato sin dall’inizio del suo pontificato, proseguendo la rotta indicata da papa Ratzinger.
Domani l’incontro con i vertici dell’Episcopato Usa
Un anticipo dell’appuntamento di febbraio si avrà comunque già domani, giovedì. quando saranno ricevuti in Vaticano i vertici della Conferenza episcopale statunitense. In particolare il Papa incontrerà il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e presidente dei vescovi Usa, il cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston e presidente della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, monsignor José Horacio Gomez arcivescovo di Los Angeles, vicepresidente dell’episcopato e il segretario generale monsignor Brian Bransfield.
Non imminente un ricambio nel C9
Naturalmente il C9 ha affrontato ha anche gli argomenti per cui è nato. Come ha sottolineato la vicedirettrice della Sala Stampa vaticana, Paloma Garcia Ovejero, «gran parte dei lavori del Consiglio e stata dedicata agli ultimi aggiustamenti della bozza della nuova Costituzione Apostolica della Curia romana, il cui titolo provvisorio e “Praedicate evangelium”. Il Consiglio di cardinali ha già consegnato, in proposito, il testo provvisorio che, comunque, e destinato ad una revisione stilistica e ad una rilettura canonistica».
Inoltre come comunicato lunedì scorso, durante la prima sessione di questa XXVI riunione, il C9 «ha chiesto al Papa una riflessione sul lavoro, la struttura e la composizione dello stesso Consiglio, tenendo anche conto dell’età avanzata di alcuni membri». In proposito la vicedirettrice della Sala Stampa ha detto che «per dicembre non ci saranno nuovi membri del C9» aggiungendo che «se ci saranno cambiamenti, vedremo». Procedendo nei lavori per la riforma della Curia romana infine il Consiglio che «ancora una volta ha espresso piena solidarietà a papa Francesco per quando accaduto nelle ultime settimane», vedi dossier Viganò, «si è concluso con la rilettura dei testi già preparati facendo motivo di attenzione la cura pastorale per il personale che vi lavora». Dei 9 porporati che costituiscono il C9 mancavano il cardinale australiano George Pell, l’85 enne cardinale cileno Francisco Javier Errazuriz e il quasi 79enne cardinale africano Laurent Monsengwo Pasinya.
«Il Santo Padre, come di consueto, informa il comunicato finale del C9, ha partecipato ai lavori, anche se e stato assente in tre momenti: lunedì in fine mattinata, per l’udienza al cardinale Beniamino Stella; martedì mattina, per la visita ad limina apostolorum della Conferenza episcopale Venezuela e questa mattina per l’Udienza generale».
La Cei: non per fermarsi all’abuso
E sempre in tema di abusi, il sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per la comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana cita l’incontro, annunciato nei giorni scorsi dal C9 e svoltosi ieri. «Ascolto delle vittime, impegno di educazione, formazione e comunicazione, stesura di Linee guida e di norme per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili. Sono questi - scrive don Ivan Maffeis - i temi approfonditi nell’incontro che ieri - martedì 11 settembre - ha visto insieme la Pontificia Commissione per la tutela dei minori con la corrispondente Commissione della Cei. Una collaborazione fattiva, che mira soprattutto all’elaborazione di proposte, iniziative e strumenti di prevenzione da offrire alle diocesi. Per non fermarsi a condannare l’abuso e promuovere una cultura della persona e della sua dignità».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
I DUE CRISTIANESIMI, I DUE PAPI, E LA PENA DI MORTE.....
Lupus in pagina
Fede definita e pena capitale: insieme, ma «con moderazione»?
di Gianni Gennari (Avvenire, 07.08.2018)
"Life Site News" 3/8: «La liceità della pena di morte è una verità di fede cattolica... de fide tenenda, definita dal Magistero ordinario e universale della Chiesa... Chi afferma che la pena capitale è in se stessa un male cade nell’eresia». Così Roberto De Mattei, con testo dal latino: «Si può esercitare la pena di morte senza peccato mortale, a condizione che la vendetta sia esercitata non per odio ma per giudizio, non in maniera imprudente ma con moderazione».
Ormai contiamo anche «sette accuse» esplicite di «eresia» a papa Francesco, ma qui fa pensare quell’uccidere «con moderazione»: si prenderà esempio dai briganti che nel Vangelo lasciano al Samaritano quel poveraccio «emithanè», solo «mezzo morto»? Quindi, in rete, esemplare chiarezza non solo evangelica ma anche storica con rimando al «Concilio di Trento» parte III, al «Catechismo maggiore di San Pio X», sempre «parte III» e, oltre queste "modernità" esibite, anche alla «lettera del 18 dicembre 1208» di Innocenzo III contro i Valdesi. Se la fede cattolica continua a sopravvivere, insomma, lo dobbiamo a questi professori integerrimi, infrangibili, che sfidano Chiesa e mondo senza tema del ridicolo.
Altri tempi, se avessero incontrato un Galileo Galilei lo avrebbero condannato, e in coerenza con tanto passato, anche "bruciato" - cosa che quei "lassisti" e "modernisti" del 1600 non hanno fatto! - ma con moderazione, accendendo il fuoco a poco a poco, magari con una sigaretta elettronica, perché la loro vera modernità è aperta e immediata.
A proposito, in questi giorni si parla del 50° della Humanae vitae di un Papa che loro non hanno mai gradito del tutto, ma stavolta lo hanno approvato in pieno, con una sola condizione, esplicita e firmata dallo stesso di cui sopra: non va letta alla luce del Concilio e del Vangelo, ma «alla luce della Casti connubii» di Pio XI, del 1930! Sempre in anticipo: la classe non si smentisce mai!
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
Federico La Sala
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
di Giovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
Il Papa, la fede e il primato sul marxismo
Dipendiamo da Dio, il marxismo sbaglia a negarlo
Francesco presenta il libro di Ratzinger su fede e politica
“Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo”
di papa Francesco (La Stampa, 06.05.2018)
Il rapporto tra fede e politica è uno dei grandi temi da sempre al centro dell’attenzione di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e attraversa l’intero suo cammino intellettuale e umano. L’esperienza diretta del totalitarismo nazista lo porta sin da giovane studioso a riflettere sui limiti dell’obbedienza allo Stato a favore della libertà dell’obbedienza a Dio: «Lo Stato - scrive in questo senso in uno dei testi proposti - non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello Stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno Stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di Stato. Lo Stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Lo Stato romano era falso e anticristiano proprio perché voleva essere il totum delle possibilità e delle speranze umane. Così esso pretende ciò che non può; così falsifica ed impoverisce l’uomo. Con la sua menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico».
Successivamente, anche proprio su questa base, a fianco di San Giovanni Paolo II egli elabora e propone una visione cristiana dei diritti umani capace di mettere in discussione a livello teorico e pratico la pretesa totalitaria dello Stato marxista e dell’ideologia atea sulla quale si fondava.
Il marxismo
Perché l’autentico contrasto tra marxismo e cristianesimo per Ratzinger non è certo dato dall’attenzione preferenziale del cristiano per i poveri: «Dobbiamo imparare - ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare e di agire - che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato da noi» scrive Ratzinger già negli anni Settanta con una profondità teologica e insieme immediata accessibilità che sono proprie del pastore autentico. E quel contrasto non è dato nemmeno, come egli sottolinea alla metà degli anni Ottanta, dalla mancanza nel Magistero della Chiesa del senso di equità e solidarietà; e, di conseguenza, «nella denuncia dello scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri - si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell’ambito dello stesso territorio nazionale che non è più tollerato».
Il profondo contrasto, nota Ratzinger, è dato invece - e prima ancora che dalla pretesa marxista di collocare il cielo sulla terra, la redenzione dell’uomo nell’aldiquà- dalla differenza abissale che sussiste riguardo al come la redenzione debba avvenire: «La redenzione avviene per mezzo della liberazione da ogni dipendenza, oppure l’unica via che porta alla liberazione è la completa dipendenza dall’amore, dipendenza che sarebbe poi anche la vera libertà?».
E così, con un salto di trent’anni, egli ci accompagna alla comprensione del nostro presente, a testimonianza dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero. Oggi infatti, più che mai, si ripropone la medesima tentazione del rifiuto di ogni dipendenza dall’amore che non sia l’amore dell’uomo per il proprio ego, per «l’io e le sue voglie»; e, di conseguenza, il pericolo della «colonizzazione» delle coscienze da parte di una ideologia che nega la certezza di fondo per cui l’uomo esiste come maschio e femmina ai quali è assegnato il compito della trasmissione della vita; quell’ideologia che arriva alla produzione pianificata e razionale di esseri umani e che - magari per qualche fine considerato «buono» - arriva a ritenere logico e lecito eliminare quello che non si considera più creato, donato, concepito e generato ma fatto da noi stessi.
I «diritti apparenti»
Questi apparenti «diritti» umani che sono tutti orientati all’autodistruzione dell’uomo - questo ci mostra con forza ed efficacia Joseph Ratzinger - hanno un unico comune denominatore che consiste in un’unica, grande negazione: la negazione della dipendenza dall’amore, la negazione che l’uomo è creatura di Dio, fatto amorevolmente da Lui a Sua immagine e a cui l’uomo anela come la cerva ai corsi d’acqua (Sal 41). Quando si nega questa dipendenza tra creatura e creatore, questa relazione d’amore, si rinuncia in fondo alla vera grandezza dell’uomo, al baluardo della sua libertà e dignità.
L’uomo e Dio
Così la difesa dell’uomo e dell’umano contro le riduzioni ideologiche del potere passa oggi ancora una volta dal fissare l’obbedienza dell’uomo a Dio quale limite dell’obbedienza allo Stato. Raccogliere questa sfida, nel vero e proprio cambio d’epoca in cui oggi viviamo, significa difendere la famiglia. D’altronde già San Giovanni Paolo II aveva ben compreso la portata decisiva della questione: a ragione chiamato anche il «Papa della famiglia», non a caso sottolineava che «l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia» (Familiaris consortio, 86). E su questa linea anche io ho ribadito che «il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa» (Amoris laetitia, 31).
Così sono particolarmente lieto di potere introdurre questo secondo volume dei testi scelti di Joseph Ratzinger sul tema «fede e politica». Insieme alla sua poderosa Opera omnia, essi possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica che, ponendo la famiglia, la solidarietà e l’equità al centro della sua attenzione e della sua programmazione, veramente guardi al futuro con lungimiranza.
Dibattito
Germania: Baviera, obbligo del crocifisso negli edifici pubblici. No dei vescovi. Card. Marx, “non è un simbolo culturale” *
Genera “divisione, inquietudine e contrasto” la decisione presa martedì scorso dal governo bavarese guidato da Markus Söder (Csu) di appendere una croce in tutti gli edifici regionali. “Se la croce è vista solo come un simbolo culturale, non la si capisce”; la croce “è un segno di protesta contro la violenza, l’ingiustizia, il peccato e la morte, ma non un segno contro altre persone”: così il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera, oltre che presidente dei vescovi tedeschi, che ieri, in un’intervista al Süddeutschen Zeitung (Sz), si è criticamente espresso contro la decisione.
Da più parti, in ambito cattolico ed evangelico, si sono alzate voci contro questa che è stata definita una “iniziativa populistica da campagna elettorale”. La Baviera andrà al voto tra sei mesi. “Che significa vivere in una terra cristiana?”, questa è la domanda da porsi secondo il card. Marx, in modo che apra ad accogliere tutti. Anche l’arcivescovo di Bamberga mons. Ludwig Schick si era pronunciato qualche giorno prima: “La croce non è un segno identitario di una regione o di uno Stato” ma è un invito a imparare a vivere nella solidarietà e nell’amore.
Comunicando la notizia della decisione Söder aveva invece detto: “È un chiaro riconoscimento della nostra identità bavarese e dei valori cristiani”. L’ordine di Söder “potrebbe dare l’impressione che ci sia un ritorno della religione cristiana”, scrive oggi Sz. “L’impressione è sbagliata. Non c’è una tale rinascita. C’è solo un ritorno del suo sfruttamento politico”.
* Agenzia SIR, 30 aprile 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Baviera, il dilemma di Söder
Non piace a Marx (il vescovo) il crocefisso in uffici pubblici
di Roberto Brunelli (la Repubblica, 30.04.2018)
Parole inequivocabili, quelle di Marx. Il suo è un “no” forte e vibrante al crocefisso appeso d’obbligo negli uffici pubblici: «Non spetta allo Stato spiegare quale sia il significato della croce», tuona. Solo che non è di Karl Marx, l’autore del Capitale, che stiamo parlando, ma di Reinhard Marx, arcivescovo e cardinale nonché presidente della Conferenza episcopale tedesca. Che in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung ha frontalmente attaccato il governatore della Baviera Markus Söder, il cui gabinetto martedì scorso ha varato una direttiva per cui in ogni locale pubblico del Land dovrà essere appeso il simbolo della cristianità.
Iniziativa che ha scatenato, in un paese a forte impronta laica come la Germania, un dibattito furioso che è andato ben oltre i confini della Baviera: i Verdi e la Linke definiscono di natura «populista e anticostituzionale» la sortita del cristiano-sociale Söder, mentre i liberali di Christian Lindner non esitano a parlare di «profanazione della croce». Pure diversi importanti esponenti della Chiesa bavarese reagiscono con nervosismo: «La croce non è mica il logo di una campagna elettorale». I sondaggi non aiutano: secondo un rilevamento dell’istituto Emnid per la Bild, è contrario all’affissione del crocefisso il 64% dei tedeschi.
Ma il vero colpo al cuore per il povero Söder - che aveva tentato di difendersi tirando in ballo «l’identità bavarese» - è la sortita senza se e senza ma del cardinale Marx. La decisione di procedere all’affissione del crocefisso negli uffici del Land crea «divisione e inquietudine», scandisce il capo dei vescovi: «E chi vede il crocefisso solo come un simbolo culturale non ne ha compreso il significato». Parole come pietre, che sottintendono la natura strumentale della decisione del governo bavarese: «La croce viene espropriata in nome dello Stato», attacca Marx, secondo cui «essa è un simbolo del rifiuto della violenza, dell’ingiustizia e del peccato, ma non un simbolo rivolto contro altri esseri umani».
Marx sottolinea che, sì, è opportuno un dibattito sul crocefisso, ma in termini che certo non sono quelli intesi da Söder: «Cosa significa vivere in un paese caratterizzato cristianamente?», si chiede il presidente della conferenza episcopale, secondo cui la definizione comprende «i cristiani, ma anche i musulmani, gli ebrei e coloro che non credono affatto». Marx non ha dubbi: lo Stato deve far sì che possano «articolarsi» le diverse confessioni, ma non può decidere quale debba essere il contenuto di una convinzione religiosa.
Insomma, il Vangelo non si lascia tradurre in politica in una scala “uno ad uno”: «La croce dovrebbe essere un modello per la politica affinché sia rispettata la dignità di ogni persona, soprattutto dei più deboli. Sono questi i parametri su cui misurarsi».
Insomma, Marx e crocefisso non è un ossimoro, in Germania. Altro che oppio dei popoli.
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO...
GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac (...)
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS")....
In S. Pietro in Ciel d’oro il cardinal Ravasi parla di carità
Mercoledì 28 febbraio la nuova tappa del progetto “L’Arca delle Virtù: da Agostino al XXI secolo” voluto dal rettore Rugge
di MARIA GRAZIA PICCALUGA (la Provincia Pavese, 27 febbraio 2018)
PAVIA. Dopo la Speranza, la Carità. Ma la virtù cantata da San Paolo - paziente e benigna - mostra ancora lo stesso volto agli uomini del nostro secolo? Rappresenta ancora la ricchezza dei poveri e la forza della scienza come riteneva Sant’Agostino? Il progetto “L’Arca delle Virtù: da Agostino al XXI secolo” - concepito e avviato lo scorso anno dal rettore dell’Università di Pavia Fabio Rugge con il sostegno di molte realtà cittadine - la mette al centro della sua seconda edizione.
Mercoledì 28 febbraio alle 20.45, nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, la riflessione sarà affidata al cardinale Gianfranco Ravasi (insigne biblista e teologo, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura) e a un dialogo in poesia e musica tra Vivian Lamarque e I Solisti di Pavia. «Pensiamo che questa virtù sia oggi un nervo sensibile della società globalizzata, multietnica, multireligiosa, divisa tra ricchi e poveri» chiarisce il rettore Rugge.
La personificazione della Carità, in una delle 95 statue che adornano l’Arca marmorea del santo, ha il volto di donna. Offre lo stesso seno, con la stessa generosità, a due bambini.
«L’Arca di Agostino è l’esposizione plastica di un programma dottrinario - spiega il rettore dell’Università di Pavia - Questo programma, però, non è per niente un’astrazione. Le “virtù”, in particolare la loro definizione e coltivazione, hanno dato per secoli trama alla società europea. Continuano a farlo, con la sfida intellettuale e spirituale che portano. La carità, ad esempio, ha spesso perso il suo significato di amore, dono, offerta, sacrificio, e ha talvolta acquisito dei connotati negativi. E’ stata contrapposta ai diritti, alla solidarietà civile. Discutere oggi di carità vuol dire anche interrogarsi sulla quotidianità di persone tra le persone».
Fede, speranza, carità, mansuetudine, povertà, prudenza, giustizia, temperanza, fortezza, obbedienza e castità: l’Arca che conserva le spoglie del santo di Ippona parla, come un libro aperto, ai contemporanei.
Agostino, inoltre, è protettore dell’Università di Pavia che, da queste radici passate, ha deciso di proiettarsi verso il futuro promuovendo un progetto che sappia trarre dal tesoro morale del santo spunti per una riflessione sull’etica contemporanea.
L’evento di mercoledì avrà inizio alle 20.45, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, con una riflessione del cardinale Gianfranco Ravasi sul tema della Carità, dal titolo “Nihil caritate dulcius. Carità, virtù teologica e sociale”. Seguirà un dialogo artistico tra la poesia di Vivian Lamarque e la musica de I Solisti di Pavia: un’esecuzione originale e inedita, che simboleggia il “contagio” della Carità. Il programma prevede la lettura, da parte della poetessa, di versi tratti da “Madre d’inverno” e altre poesie, alternata all’esecuzione di brani di Bach, Mozart, Corelli, Vivaldi.
Del Comitato scientifico che ha elaborato i contenuti fanno parte: Giampaolo Azzoni (Università di Pavia), Cristina Bicchieri (Pennsylvania University), Ian Carter (Università di Pavia), Andrea Moro ( Iuss Pavia), Gianfranco Ravasi (Pontificio Consiglio della Cultura), Salvatore Veca (Iuss Pavia). Mentre al Comitato dei Promotori hanno aderito, oltre al rettore, il priore della basilica di San Pietro Antonio Baldoni, Renata Crotti, il rettore della Scuola Universitaria Superiore Iuss Michele Di Francesco, il sindaco Massimo Depaoli, e il vescovo di Pavia Corrado Sanguineti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! Ha dimenticato l’esortazione di Papa Wojtyla ("Se mi sbalio, mi coriggerete")?!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
Sessant’anni di Europa
Le linee di frattura dell’Unione
di Alessandro Cavalli (Il Mulino, 21 marzo 2017)
Gli anniversari sono tempo di bilanci. Il 25 marzo si celebrano i 60 anni dalla firma del Trattato di Roma dal quale è nata quella che oggi chiamiamo Unione europea. Il bilancio però è difficile. Per alcuni il bicchiere è mezzo pieno, per altri è mezzo vuoto, ma non è facile capire chi dei due abbia più ragione. La pace tra gli Stati membri non è venuta meno e, per ora, sembra garantita. L’Unione è sopravvissuta - con qualche acciacco - alla crisi del secolo, la più grave dopo quella che è sfociata nella Seconda guerra mondiale.
La povertà non è stata vinta e le disuguaglianze sono aumentate, ma nel complesso l’Europa resta in questo mondo una delle regioni nelle quali si sta meglio. Con qualche severa restrizione in alcuni Paesi, le libertà e i diritti umani fondamentali sono sostanzialmente rispettati. In un’ottica di lungo periodo e guardando a gran parte del resto del mondo, bisogna riconoscere che non ci è andata poi così male.
Molti di noi, se dovessero scegliere dove vivere, alla fine sceglierebbero proprio l’Europa, come del resto tanti profughi, rifugiati, migranti che bussano alla porta, anzi, perlopiù entrano senza bussare. Per loro l’Europa è una terra promessa: molti finiranno delusi, ma molti altri vi troveranno una nuova patria dove far crescere i loro figli.
E però, le crepe dell’edificio dell’Ue sono visibili a tutti e non riguardano solo la sfida dell’uscita del Regno Unito (voluta, giova ripeterlo, dal 37% degli aventi diritto al voto e dal 52% dei votanti).
Nelle aree limitrofe del Medioriente e dell’Africa regnano la guerra e il caos, e l’Unione non ha né le risorse né le competenze per far sentire la sua voce e per tentare di ricomporre i conflitti. I mercati finanziari sono sempre in agguato, sensibili all’altalena delle dinamiche imprevedibili della fiducia e della sfiducia sull’affidabilità dei singoli Paesi e dei loro debiti sovrani. Mario Draghi ha sparato tutte le munizioni che aveva a disposizione (e forse anche qualcuna di più) per fronteggiare la crisi monetaria, nel suo arsenale sono rimaste solo poche armi di emergenza. I movimenti anti-europei di destra, ma anche di sinistra, si apprestano a raccogliere, nell’anno elettorale incominciato nei Paesi Bassi, il consenso di tutti quegli scontenti che attribuiscono all’Europa e alla sua moneta la causa dei loro guai. Sulla scena mondiale sia Putin a Est sia Trump a Ovest sembrano entrambi ben intenzionati, sia pure con motivazioni diverse, a mettere i bastoni tra le ruote del processo di unificazione europea. Luci e ombre, a ognuno decidere se prevalgano le prime oppure le seconde.
La diga olandese ha tenuto; se in Francia le ambizioni di Marine Le Pen saranno ridimensionate e, soprattutto, se in autunno in Germania si affermasse una coalizione disposta a prendere l’iniziativa di qualche significativo passo avanti, gli scenari di una ever closer union potrebbero riaprirsi.
La Commissione Juncker ne ha disegnati cinque che si possono riassumere così, nel linguaggio delle parate militari: fermi tutti, un passo indietro, un passo laterale a sinistra, un passo laterale a destra, un passo avanti. Solo che la Commissione non ha il potere di dare ordini e di pretendere che vengano eseguiti, si limita a indicare le mosse possibili, sta ai governi decidere, insieme e quasi sempre all’unanimità, in che direzione andare. Al momento attuale, gli esiti sono tutti ancora aperti, da quelli perversi a quelli virtuosi.
Tra gli esiti possibili c’è la geometria variabile, i cerchi concentrici, l’Europa a due o più velocità. Diciamolo chiaro: se si vuole fare un passo avanti non si può farlo in ventisette.
Le linee di faglia sono troppo consistenti. C’è quella Nord-Sud che ci (noi, italiani) riguarda direttamente e quella Est-Ovest che riguarda i nuovi arrivati dopo l’allargamento del 2004. Lo sapevamo già allora che l’allargamento prima dell’approfondimento significava l’annacquamento. È a dir poco superficiale chi sostiene che allora non si doveva fare l’allargamento. La domanda da porsi è invece un’altra: che cosa sarebbe successo in Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania eccetera se l’allargamento non ci fosse stato? Basta guardare a che cosa è successo nella ex Jugoslavia e a che cosa succede ancor oggi in Ucraina.
A ventisette, a diciannove, a undici, a nove o a sei, l’egemonia sarà di fatto, lo si voglia o no, della Germania. È meglio per l’Europa nel suo insieme una Germania all’interno di un vincolo europeo rafforzato in un numero ridotto oppure un vincolo lasco per un gruppo più numeroso? Questo è il dilemma sul quale sarebbe utile un ampio e approfondito dibattito pubblico e sul quale si dovrebbero ridisegnare gli schieramenti politici. La Germania conta di più in un’Europa divisa, o in un’Europa unita, sia pure, ristretta?
Questa volta i cittadini non devono solo aspettare che piovano dall’alto le decisioni dei governi. Le campagne elettorali del 2017 avranno tutte al centro il tema dell’Europa e degli immigrati, certamente in Francia e Germania e, prima o poi, anche in Italia. Tutto lascia prevedere che siamo di fronte a una svolta nella quale si gioca il futuro del continente e questa volta a decidere saranno (anche) i popoli.
Sarà però utile riflettere sul fatto che il populismo nazionalista anti-europeo è solo un effetto, non una causa, della crisi dell’Unione. Le cause sono tante: l’assenza di visione e di leadership nei Paesi che hanno finora guidato il processo, la fragilità e la farraginosità dell’architettura istituzionale, la scarsa legittimazione democratica, la forza degli interessi finanziari e delle imprese multinazionali che lucrano sulla diversità dei sistemi pubblici e dei regimi fiscali e che non vedono negativamente la conservazione dello status quo e, infine, anche la forza di inerzia dell’esistente.
Gli Stati nazionali, con i loro apparati burocratici, con i loro sistemi politici, con i sentimenti di appartenenza che riescono ancora a suscitare nelle popolazioni, possono durare ancora per secoli senza interrompere il loro declino. In fondo, di civiltà che sono declinate a lungo e sono scomparse lentamente, oppure in modo brusco e drammatico, la storia ne ha conosciute diverse. Se non facciamo qualcosa, questo potrebbe essere il destino anche dell’Europa.
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 16.07.2015)
CITTÀ DEL VATICANO Padre Silvano Fausti raccontava che il momento era stato quando Benedetto XVI e Carlo Maria Martini si videro per l’ultima volta. Milano, incontro mondiale delle Famiglie, 2 giugno 2012, il cardinale malato da tempo era uscito dall’Aloisium di Gallarate per raggiungere il Papa. Fu allora che si guardarono negli occhi e Martini, che sarebbe morto il 31 agosto, disse a Ratzinger: la Curia non si riforma, non ti resta che lasciare.
Benedetto XVI era tornato sfinito dal viaggio a Cuba, a fine marzo. In estate cominciò a parlarne ai collaboratori più stretti che tentavano di dissuaderlo, a dicembre convocò il concistoro dove creò sei cardinali e neanche un europeo per «riequilibrare» il Collegio, l’11 febbraio 2013 dichiarò la sua «rinuncia» al pontificato. Dimissioni «già programmate» dall’inizio del papato - se le cose non fossero andate come dovevano -, fin da quando al Conclave del 2005 Martini spostò i suoi consensi su Ratzinger per evitare i «giochi sporchi» che puntavano a eliminare tutti e due ed eleggere «uno di Curia, molto strisciante, che non ci è riuscito», rivela il padre gesuita.
Silvano Fausti è morto il 24 giugno a 75 anni, dopo una lunga malattia. Biblista e teologo, una delle voci più ascoltate e lette del pensiero cristiano contemporaneo, era la persona più vicina a Carlo Maria Martini, il cardinale lo aveva scelto come guida spirituale e confessore, si confidava con lui. Il retroscena affidato tre mesi prima di morire a glistatigenerali.com - l’intervista video è stata ora diffusa in Rete - corrisponde a ciò che padre Fausti raccontava in privato nella cascina di Villapizzone, alla periferia di Milano, dove viveva da 37 anni con altri gesuiti nella comunità che aveva fondato. Quasi un testamento che, a proposito di Ratzinger e Martini, risale ai giorni del Conclave di dieci anni fa. Erano le due personalità più autorevoli e, racconta Fausti, «i due che avevano più voti, un po’ di più Martini» (già allora malato di Parkinson), uno per i «conservatori» e l’altro per i «progressisti». C’era una manovra per «far cadere ambedue» ed eleggere il cardinale «molto strisciante» di Curia. «Scoperto il trucco, Martini è andato la sera da Ratzinger e gli ha detto: accetta domani di diventare Papa con i miei voti» . Si trattava di fare pulizia. «Gli aveva detto: accetta tu, che sei in Curia da trent’anni e sei intelligente e onesto: se riesci a riformare la Curia bene, se no te ne vai».
Martini, rivela Fausti, disse che il Papa fece poi un discorso «che denunciava queste manovre sporche e ha fatto arrossire molti cardinali». Il 24 aprile 2005, nell’omelia di inizio pontificato, Benedetto XVI disse: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi». Padre Fausti ricorda anche il gesto che avrebbe fatto Ratzinger, il 28 aprile 2009 nell’Aquila devastata dal terremoto. Era previsto solo un omaggio, ma Benedetto XVI seminò il panico varcando la porta santa della basilica pericolante di Collemaggio per deporre il suo pallio sulla teca di Celestino V, il Papa del «gran rifiuto». Ratzinger e Martini, pur diversi, si riconoscevano e si stimavano. «Cercavano sempre di metterli contro per fare notizia. Mentre, con Wojtyla, Martini dava ogni anno le dimissioni...». Le dimissioni di Benedetto XVI erano una possibilità dall’inizio del pontificato, spiega Fausti. Finché a Milano, quel giorno, Martini gli disse «è proprio ora, qui non si riesce a fare nulla». Nell’ultima intervista, Martini parlò di una Chiesa «rimasta indietro di 200 anni: come mai non si scuote?».
Ratzinger non è scappato davanti ai lupi, nonostante attacchi e veleni interni che fino a Vatileaks ne hanno funestato il pontificato. Sa che è urgente agire e fare pulizia, ma sente di non averne più la forza. Ci vuole una scossa. Nella sua rinuncia «in piena libertà» dice che «per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo» che «negli ultimi mesi» gli è venuto a mancare. Il conclave, di lì a un mese, eleggerà Jorge Mario Bergoglio. Padre Fausti, nel video, sorride: «Quando ho visto Francesco vescovo di Roma ho cantato il nunc dimittis , finalmente!, ho aspettato dai tempi di Gregorio Magno un Papa così...».
Alle radici dell’intolleranza
L’analisi del filologo Bettini che la individua nei credi monoteisti
«Elogio del politeismo» il nuovo saggio dello studioso parte dall’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni antiche esempio di tolleranza
di Luigi Spina (l’Unità, 08.06.2014)
PER PARLARE ADEGUATAMENTE DELL’ «ELOGIO DEL POLITEISMO » DI MAURIZIO BETTINI, È DOVEROSO TRACCIARE PRIMA UN BREVE ELOGIO DELLA COMPARAZIONE ANTROPOLOGICA, che è il metodo che più volte l’autore richiama come guida della sua analisi. A differenza dell’analogia, che schiaccia il nuovo sul già conosciuto (non si contano gli Hitler, i Mussolini e gli Stalin che si sono susseguiti nella politica italiana), la comparazione distingue le due realtà, quella che si conosce e quella che si vuol comparare, per coglierne soprattutto le differenze e le singolarità.
Ecco, completato il mini-elogio della comparazione, si può cominciare a dire che il saggio di Bettini affronta un tema non usuale: l’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni politeiste antiche. Farne materia di ricerca sì, ma pensare che si possano importare, per quanto criticamente, idee e comportamenti da qualcosa che non rientri nella dialettica fra le tre religioni monoteiste e la non religiosità non è pensiero ricorrente.
Proprio nell’Introduzione, Bettini propone un argomento convincente: di Platone, di Aristotele, di Agostino, della democrazia antica non si può fare a meno di parlare, qualsiasi argomento attuale si voglia affrontare; difficile invece che si parli della religione antica, politeista. Il volume è organizzato in 15 capitoli e due appendici.
I titoli dei capitoli offrono i terreni della comparazione: dal presepio e dalle moschee alle statuette romane e al larario; dalla proclamata unicità del Dio alla possibilità di riadattare gli dèi; dai possibili contatti sotterranei fra monoteismi e politeismi alle strutture sociali e comunitarie nelle quali la/le divinità si insediano; dalla pregnanza delle parole, infine, ai paradossi della/e scrittura/ e. Le appendici approfondiscono due temi: la tolleranza e l’intolleranza; gli usi e i significati del termine paganus.
Fra gli elementi positivi, in base ai quali il politeismo antico potrebbe far riflettere meglio sulle rigidità del monoteismo c’è sicuramente la curiosità, anche di massa, che costituiva la molla per conoscere davvero il funzionamento di religiosità diverse dalla propria. L’ostacolo dell’unicità condiziona quello stesso dialogo interreligioso che rimane, comunque, un tentativo auspicabile per mantenere aperto un canale comunicativo e di reciproca conoscenza.
Quando Papa Benedetto XVI richiamò, nel 2006, la controversia del 1391 fra Manuele II Paleologo e un maestro persiano, un mudarris di fede musulmana, non fu difficile constatare che non si trattava di un vero dialogo, ma di una specie di doppio monologo, come scriveva proprio Théodore Koury, il filologo a cui lo stesso Ratzinger si riferiva. D’altra parte, la scoraggiante presa d’atto non riguardava solo la controversia antica ma anche le modalità con cui furono lette le parole del Papa.
Il rapporto con la (o le) divinità altrui è la cartina di tornasole che Bettini sperimenta per comparare la cultura romana e le culture odierne, in uno scavo che è contemporaneamente antropologico e linguistico. Non si può prescindere dal modo in cui gli antichi hanno denominato un fenomeno, una pratica, un oggetto, e dal modo in cui, spesso, sono i moderni a rinominare quello stesso dato, cercando di retrodatarne la sostanza e mascherando, in tal modo, i differenti quadri mentali.
La raffigurazione del politeismo da parte dei moderni avviene attraverso termini che non corrispondono quasi mai alla denominazione da parte delle culture antiche, l’unica che consentirebbe di capire effettivamente cosa gli antichi stessi intendessero. Questa indagine, che Bettini conduce con grande chiarezza si concentra su termini per noi familiari quali politeismo, e il corrispettivo monoteismo, pagano, idolatria ecc., ma la cui storia, il cui uso, presenta molti aspetti più complessi e spesso inattesi.
La traducibilità degli dèi, cioè la possibilità di accogliere divinità di altre culture nella propria, rinominandole, riconoscendo loro nuove funzioni, rappresenta il vero punto originale del politeismo antico. In quel mercato comune della divinità non era un problema inserire nel contatto fra i popoli e le culture i rapporti fra le divinità, in una tendenza all’inclusione e all’allargamento, piuttosto che all’esclusione e alla reductio; la traducibilità tra divinità, inoltre, non consente di identificare superficialmente quelli che potrebbero sembrare suoi inaspettati residui nelle religioni monoteiste, come per esempio, in quella cattolica, il culto dei santi. Le funzioni che si attribuiscono alla Madonna e a molti santi, di patronato, di assistenza, di protezione mancano del requisito della traducibilità, della trasferibilità, per cui mantengono quella che Bettini definisce una pluralità esclusiva.
Un’attenzione particolare Bettini dedica alla tolleranza, che è termine moderno altrettanto abusato che contestato, in quanto conserva insieme un valore tendenzialmente positivo e un rischio negativo di tipo etimologico. Non a caso la tolleranza è contrapposta alla interpretatio degli dèi, quel carattere di traducibilità che percorre tutto il libro. L’interpretatio è quella traducibilità potenziale che viene stabilita attraverso la mediazione, il compromesso che presiede a qualsiasi negoziazione perché abbia un buon esito.
Si capisce, dunque, come la tolleranza, spesso sentita come punto di avvio di un dialogo fra diversi, marchi nello stesso tempo la gerarchia fra i diversi stessi: il rispetto che si sottintende nel termine cela, infatti, la sofferenza della accettazione risolta solo da un’etica caritatevole che sa anche tollerare gli errori. Se non si pensasse di possedere l’unica verità, forse, non scatterebbe la vocazione alla tolleranza.
Connesso al tema della tolleranza è quello della violenza, dello scontro di carattere religioso. Che le divinità dei Greci e dei Romani fossero coinvolte nelle guerre umane, che fossero immaginate addirittura in guerra fra loro, ciò non toglie che questo scontro non avesse per nulla carattere religioso, ma che la religione rappresentasse, anzi, un motivo per attenuare lo scontro stesso. Tanto più che le divinità facevano parte sostanziale delle comunità, in particolare attraverso quei riti di attribuzione della cittadinanza che Bettini ben spiega.
Nel capitolo che non a caso si intitola «Il sacrificio del presepio e le bombe della moschea», Bettini affronta un tema divenuto di forte attualità da qualche anno in occasione delle feste natalizie, da quando, cioè, la presenza del presepio o del Crocifisso, simboli del cristianesimo, nei luoghi pubblici dello Stato (scuole, tribunali), è diventato argomento di polemica; allo stesso modo, Bettini segnala le polemiche contro la costruzione di una moschea in Val d’Elsa.
Questo tema riassume i termini della comparazione possibile fra politeismi e monoteismi nella vita non solo religiosa di una comunità. Entrambe le reazioni, la rinunzia al presepio proposta da alcuni insegnanti e genitori di scuole italiane come gesto di rispetto verso altri culti e, dall’altra parte, la protesta di segno opposto, mostrano come al fondo delle due opzioni vi sia un unico vincolo: l’unicità del dio nel quale si crede, al punto che la scelta si può dividere fra: se non quello, meglio nessuno.
Eppure, il presepio mi pare possa rappresentare ancora uno spazio nel quale simboleggiare le dinamiche interne a comunità che hanno nella diversità religiosa fra monoteismi un punto vulnerabile.
La grotta del presepio mi sembra abbia perso la sua posizione centrale, per la spinta a dare voce e spazi a presenze le più varie, fino all’irruzione, grazie ai ben noti artigiani napoletani, di personaggi dell’attualità. Una sorta di cittadinanza riconosciuta a elementi estranei alla tradizionale ambientazione del presepio potrebbe essere la chiave di volta per aprirlo a una vera tensione politeista, sperimentando un quadro mentale che adottasse gli schemi della traducibilità, della mediazione negoziata: un inizio in cui una nuova cittadinanza risulti visibile e leggibile, per dèi, uomini e donne, ciascuno con le proprie credenze e divinità e, anche aggiungerei, in assenza di esse.
Tre donne «forti» dietro tre padri della fede
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Il IV secolo è fine di un’epoca e nascita di tempi nuovi anche per i modelli femminili nella cultura cristiana e nella società. Mentre le istituzioni dell’Impero si sfaldano, popoli premono ai confini, corruzione e violenze dilagano e le casse sono vuote, causa guerre ed evasione fiscale, alcune donne sono protagoniste delle trasformazioni almeno tanto quanto gli uomini accanto ai quali la storia le ha accolte. Elena, madre di Costantino, Monica madre di Agostino, Marcellina sorella di Ambrogio.
Ma ci son pure Fausta, moglie di Costantino, da lui fatta assassinare per sospetto tradimento (violenza in famiglia anzi tempo) e la compagna di Agostino, giovane cartaginese vissuta anni more uxorio («coppia di fatto» si direbbe oggi) col futuro santo vescovo d’Ippona. Gli diede pure un figlio, Adeodato, di lei però non è rimasto nemmeno il nome: una rimozione del femminile, nonostante la straordinaria autoanalisi ante litteram compiuta da Agostino nelle Confessioni; un archetipo delle rimozioni collettive della donna praticate dalla cattolicità e di tanta misoginia e sessuofobia che affliggeranno la Chiesa per secoli e ancora la affliggono. Ma andiamo con ordine nel considerare i tipi.
La madre solerte, forte, premurosa, ambiziosa, molto attaccata al figlio maschio, possessiva: è il modello di madre che emerge dalle testimonianze. In parte è un’icona ritagliata sul prototipo della matrona romana, su cui s’innesta la novità del cristianesimo. Questo dalle origini si dibatte in una contraddizione. C’è l’esempio di Gesù che «libera» la donna dalle sudditanze; per lui non è alla stregua di una «cosa» (come negli usi romani); negli incontri rivela l’alta considerazione verso una persona non certo inferiore all’uomo e contraddice così la cultura del tempo. Narrano i vangeli che Gesù si mostra a Maria di Magdala e alle altre donne come il Risorto davanti al sepolcro vuoto: loro sono le protagoniste, a esse affida l’annuncio pasquale. Dall’altra parte c’è San Paolo che invita le mogli a stare sottomesse ai mariti e ispira la visione di un ruolo ancillare, silenzioso, subordinato.
Ecco, allora: Elena anticipa quella che in epoche successive sarà la Regina Madre. Locandiera, legata a Costanzo Cloro cui darà un figlio, Costantino, fa di tutto perché questi diventi padrone dell’Impero: tesse rapporti, guida, consiglia. Verrà ricambiata: Costantino cingerà lei del diadema imperiale (invece della «traditrice» Fausta) introducendo nell’iconografia una coppia un po’ incestuosa: madre e figlio.
Psicologicamente Costantino sarà in un certo modo sottomesso a Elena. A Gerusalemme lei troverà le reliquie del Santo Sepolcro. Dei chiodi della Croce ornerà la corona imperiale (posta sul capo dei padroni del mondo sino a Napoleone) per dire che chi governa è sottomesso a Dio, e farà il morso del cavallo del figlio: anche i sovrani devono frenare le pulsioni. Madre altrettanto ingombrante, sul piano degli affetti in questo caso, fu Monica per Agostino.
Questi aveva cercato di liberarsene partendo per Roma senza dir nulla ma Monica non si scoraggiò, lo inseguì e raggiunse sino a Milano, capitale ai tempi. Qui convinse il figlio, all’apice del successo come retore, a rispedire in Africa la compagna e si diede da fare perché trovasse a corte una moglie. Intanto s’era pure spesa affinché Agostino conoscesse Ambrogio, che a Milano contava più delle insegne imperiali. Così l’amore di madre si trasformò: cadde il progetto di ascesa sociale, venne la conversione e il futuro padre della Chiesa riprese la via dell’Africa, senza più Monica però, che morirà sulla via del ritorno.
Un altro genere di donna, che ebbe e ha importanza nella Chiesa, nei costumi, nella cultura è incarnato da Marcellina. La sorella di Ambrogio, dopo aver contribuito a crescere i fratelli, prese il velo con papa Liberio. Grazie a lei si prospettò una scelta di vita ricalcata sul modello del monachesimo orientale, di cui Ambrogio era estimatore: la verginità (su questa il Patrono di Milano compose una delle sue opere principali), la consacrazione, il chiostro in cui ritirarsi, pregare e, in taluni sviluppi, lavorare, garantire il prosieguo delle tradizioni e aprirsi al mondo attraverso opere di carità. Costantino, Ambrogio, Agostino e lo loro donne: esempi d’una storia plurale che continua, viene costruita giorno dopo giorno ancora, si evolve.
COSTANTINO 313 d.C.
Dal 25 ottobre 2012 al 17 marzo 2013, Palazzo Reale di Milano ospita la mostra Costantino 313 d.C., progettata e ideata dal Museo Diocesano di Milano e curata da Gemma Sena Chiesa e Paolo Biscottini. L’iniziativa è promossa e prodotta da Comune di Milano - Cultura, Moda, Design, Palazzo Reale, Museo Diocesano di Milano e la casa editrice Electa, in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e con la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, l’Arcidiocesi di Milano e l’Università degli Studi di Milano.
L’evento è posto sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e della Segreteria di Stato del Vaticano, con il Patrocinio del Ministero degli Affari Esteri e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Patronato della Regione Lombardia e il Patrocinio della Provincia di Milano. La mostra è realizzata con il sostegno della Fondazione Bracco.
“Questa mostra rivela come Milano sia stata, oltre che la capitale politica e amministrativa di un impero, anche un riferimento etico e culturale - ha detto l’assessore alla Cultura Stefano Boeri -. Milano, in quel preciso momento storico, ha saputo mostrare al mondo la propria profonda civiltà attraverso l’apertura ad ogni espressione di fede e alla tolleranza religiosa in un tempo in cui barbarie e intolleranza parevano regnare più sovrane dell’autorità imperiale”.
L’esposizione celebrerà l’anniversario della emanazione nel 313 d.C. dell’“Editto di Milano”, da parte dell’imperatore romano d’Occidente Costantino e del suo omologo d’Oriente, Licinio. Con esso il Cristianesimo, dopo secoli di persecuzioni, veniva dichiarato lecito e si inaugurava così un periodo di tolleranza religiosa e di grande innovazione politica e culturale. Il rescritto, infatti, riportava: Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto abbiamo risolto di accordare ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità.
Dopo Milano, la mostra proseguirà a Roma dal 27 marzo al 15 settembre 2013 nelle sedi del Colosseo e della Curia Iulia.
Le celebrazioni dell’Editto di Costantino si terranno anche ad Aquileia nel corso del 2013. Promosse dalla Fondazione Aquileia le iniziative avranno come punto focale l’antico complesso basilicale della città, uno dei luoghi di culto costantiniani meglio conservati.
Il percorso espositivo in Palazzo Reale si articola in sei sezioni che approfondiscono con più di 200 preziosi oggetti d’archeologia e d’arte, tematiche storiche, artistiche, politiche e religiose: dalla Milano capitale imperiale, alla conversione di Costantino, ai simboli del suo trionfo. Sono evidenziati i protagonisti dell’epoca, l’esercito e i suoi armamenti, la corte, i preziosi oggetti d’arte e di lusso. Una importante sezione della mostra è dedicata a Elena, madre di Costantino, imperatrice e santa, per mettere in risalto la singolarità di questa figura femminile all’interno della corte imperiale e della storia della Chiesa.
Il visitatore sarà introdotto nella definizione della nuova forma urbana di Milano (Mediolanum), ricca città di provincia, assurta al ruolo di capitale d’Occidente e resa di fatto una delle capitali dell’impero assieme a Nicomedia, residenza di Diocleziano, e alle sedi dei due Cesari, Costanzo Cloro a Treviri e Galerio a Sirmio.
Grazie a una cospicua documentazione archeologica, continuamente arricchita dall’attività di scavo e di ricerca intensificatasi negli ultimi decenni, si presenteranno i risultati, alcuni ancora inediti, degli ultimi rinvenimenti della città di Massimiano, Costantino e dei suoi successori.
Attraverso reperti e ricostruzioni, si potrà fare un ideale viaggio nella Milano imperiale; dal Palatium, edificio polifunzionale destinato ad accogliere non solo la sede dell’imperatore ma anche quella della complessa burocrazia e che doveva occupare tutta la parte nordovest della Milano romana, si passerà alle grandiose terme, identificabili tra gli odierni Corso Vittorio Emanuele e via Larga, al quartiere di piazza Meda, ricco di edifici privati, alla necropoli dell’area di Sant’Eustorgio, e ad altre zone della città.
Il comunicato stampa completo della mostra e le informazioni tecniche
Quel monogramma divino e vittorioso Quanti simboli prima di vedere Cristo
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Si potrebbe immaginare che dopo l’Editto costantiniano di tolleranza l’iconografia cristiana, fino ad allora mutuata dall’arte imperiale, cominciasse a sviluppare una serie di nuove immagini autonome. Invece, secondo lo storico André Grabar che ha dedicato tutti i suoi studi all’iconografia cristiana e bizantina, «anche senza dimenticare le massicce distruzioni, i regni di Costantino e dei suoi figli, che videro la fondazione dell’impero cristiano, sono per la storia dell’iconografia cristiana quasi come una tabula rasa».
Per il momento, in questi primi secoli, c’è fondamentalmente una sola immagine nuova legata al regno di Costantino: il cosiddetto crismon, il monogramma di Cristo, formato dalle lettere sovrapposte dell’alfabeto greco X (si legge chi) e P (si legge ro), ossia le prime due lettere della parola Cristo, l’unto, il prescelto. Secondo le cronache, peraltro celebrative e contraddittorie, dello storico Eusebio, alla vigilia della battaglia contro Massenzio sul ponte Milvio, l’imperatore avrebbe visto apparire in cielo una croce di luce sovrapposta al cerchio del sole con la scritta «In hoc signo vinces», vincerai sotto questa insegna. Costantino avrebbe quindi fatta sostituire nel labaro (il vessillo militare composto da un drappo quadrato color porpora attaccato a una lancia) l’immagine dell’aquila imperiale con quella del crismon.
Il segno compare nelle monete costantiniane anche se, a conferma del fatto che le cose siano forse andate diversamente dal miracolo raccontato da Eusebio, è assente nell’arco di Costantino eretto solo tre anni dopo la battaglia. In effetti Costantino non si convertì di colpo e anzi conservò per tutta la vita la carica di Pontifex maximus, cioè capo supremo della religione pagana tradizionale. È difficile, dunque, credere che avesse sostituito già alla battaglia del ponte Milvio l’immagine dell’aquila imperiale con quella del crismon nel labaro del suo esercito.
Anche se fu Costantino a divulgarlo, il monogramma non fu comunque una sua invenzione. Esisteva già come abbreviazione della parola greca crestòs, con la stessa pronuncia di Cristos, ma con il significato di buono, utile, propizio, usato come simbolo di buon auspicio anche in alcuni sarcofagi orientali. L’imperatore, insomma, potrebbe aver usato il segno preesistente del crismon con un significato di buon auspicio che, solo successivamente e oltre il primitivo intento di Costantino, l’agiografia imperiale avrebbe poi trasformato in monogramma cristiano.
Il buon esito della battaglia poteva a quel punto benissimo servire a far coincidere il simbolo di vittoria militare con il simbolo della vittoria di Cristo sulla morte. Ancora una volta, dunque, l’iconografia cristiana andava a sovrapporsi a quella imperiale, spostando semplicemente il significato delle immagini e dei simboli, esattamente come avviene nella trasmissione del linguaggio da una generazione all’altra quando uno stesso termine può cambiare il valore semantico.
E infatti nel cristogramma costantiniano i significati militari e religiosi si intrecciano e sovrappongono in un continuo andare e venire da uno all’altro. Il cerchio dentro cui è rappresentato il crismon, per esempio, è una possibile allusione alla corona d’alloro della vittoria così come al sole, che ogni giorno risorge come Cristo dopo la morte. E come l’iconografia costantiniana rappresentava l’imperatore con i suoi figli trionfanti su un dragone ai loro piedi, così nel crismon si poteva aggiungere la S del nome finale di Cristos sotto la lettera P con l’allusione alla vittoria finale di Cristo sul male identificato col serpente. E per sovrappiù, a questo intreccio di significati, fra i bracci della X potevano comparire anche la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, alfa e omega, per alludere all’inizio e alla fine del progetto di salvezza.
Fu proprio la resurrezione di Cristo ad escludere il tema della morte dall’arte funeraria dei primi secoli del cristianesimo, quando la croce era ancora percepita come un simbolo d’infamia. Solo a partire dal V secolo sostituì il crismon come segno per eccellenza del Cristo, anche negli stendardi militari. Ma era ancora una croce senza il corpo del Cristo e molto preziosa, lavorata con oro e gemme. La figura di Cristo non fa la sua comparsa prima del VI secolo e resta rara fino in epoca carolingia. Bisognerà poi aspettare l’XI secolo prima che in Occidente compaia un nuovo tipo di Cristo crocifisso, con il capo reclinato sulla spalla, il corpo emaciato e sulla testa una corona di spine in luogo di quella gemmata che coronava i Cristi trionfanti, vivi e con gli occhi aperti, dell’arte bizantina secondo l’equivalenza del Cristo vittorioso con l’imperatore trionfante
E il potere temporale della Chiesa si basa su un falso
di Armando Torno (Corriere della Sera, 25 ottobre 2012)
Quando si parla di Donazione di Costantino si fa riferimento a una presunta cessione, da parte dell’imperatore romano a papa Silvestro I (eletto il 31 dicembre 314) e ai suoi successori, di Roma, dell’Italia e delle province occidentali. Il documento che la testimonia apparve già dubbio nel X secolo, ma poi fu impugnato sia da Arnaldo da Brescia (morto nel 1155), da Niccolò Cusano (morto nel 1464) e definitivamente sbugiardato con un’operina da Lorenzo Valla - scritta nel 1440, durante i giorni di Eugenio IV, ma pubblicata nel 1517 - La falsa Donazione di Costantino. In essa l’umanista dimostra che la lingua in cui fu redatto il documento è un latino che risente degli influssi barbarici e i riferimenti ivi contenuti rimandano a un tempo nel quale Costantinopoli è già diventata la nuova capitale dell’impero.
Il contenuto della Donazione va diviso in due parti. Nella prima, la cosiddetta confessio, dopo le solite formule protocollari segue la narrazione della miracolosa guarigione dalla lebbra di Costantino e del suo battesimo. Si racconta che i sacerdoti pagani, dopo che le cure mediche si rivelarono inutili, suggerirono all’imperatore di immergersi in una vasca dove si sarebbe dovuto versare il sangue di bimbi innocenti. Ma egli rifiutò, anche perché il pianto delle madri lo commosse. A quel punto gli appaiono in sogno Pietro e Paolo: i santi garantiscono a Costantino la guarigione se avesse chiesto il battesimo al Papa. Il Pontefice glielo amministrò, anzi lo fece seguire anche dalla cresima. La seconda parte del documento, la cosiddetta donatio o dispositio, registra il gesto imperiale. Costantino, d’accordo con i suoi dignitari, il Senato ma anche con lo stesso popolo, decide di concedere alla Chiesa poteri, dignità e onori imperiali.
Un dettato non particolarmente chiaro, anzi piuttosto ampolloso, giunto in tre lingue: latino, slavo e greco. La prima di esse è considerata la più completa ed è quella che si utilizza con maggior frequenza per i riferimenti. Il testo di questo celebre falso si legge nella riedizione, a cura di Roberto Cessi e Roberta Sevieri, La Donazione di Costantino, pubblicata da La Vita Felice nel 2010 (costa 11,50 euro): in essa, oltre un ampio saggio introduttivo, si trovano le versioni latina e greca.
Insomma, è possibile rileggere le varie scene con cui è di fatto giustificato il potere temporale. Parole come le seguenti dovettero suscitare un certo effetto: «Abbiamo inoltre stabilito anche questo, che lo stesso venerabile padre nostro Silvestro, sommo Pontefice, e tutti i pontefici suoi successori, debbano utilizzare il diadema, ossia la corona d’oro purissimo e gemme preziose, che dal nostro capo a lui abbiamo ceduto, e portarlo sul capo a lode di Dio e gloria del beato Pietro».
Non è facile orientarsi nelle mille storie che nascono o si riflettono in questo documento, ma c’è un saggio di Giovanni Maria Vian, intitolato appunto La donazione di Costantino (Il Mulino 2004), che sa indirizzare il lettore del nostro tempo.
Non è inoltre semplice stabilire quando si cominciò a usare ufficialmente tale documento, anche se sembra che Leone IX nel 1053 sia stato il primo; sicuramente esso ebbe una notevole influenza nel Medioevo se si pensa che già nel 1059 Niccolò II concesse l’investitura della contea di Melfi al normanno Roberto il Guiscardo proprio fondandosi sulla Donazione.
Del resto basterà aggiungere che Dante nel XIX canto dell’Inferno manifesta il disagio provocato dall’insano atto, anche se da uomo del suo tempo lo crede autentico: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre!».
La discussione su vero e falso continuò sino al secolo del romanticismo, quando la Chiesa perse il suo territorio, giacché mai mancò qualche religioso isolato che si arrampicava sugli specchi per difendere le ragioni di quel broglio antico. Si può poi discutere se c’è un’unità testuale o se la Donazione sia stata una costruzione realizzatasi in tempi diversi; comunque se ne fissa in genere la stesura in un periodo che corre tra il 750 e l’850, vale a dire tra Pipino e Carlo il Calvo.
Qualche storico suggerisce l’ipotesi che Stefano II, andando in Francia nel 753, avrebbe portato con sé il documento. Altri, addirittura, sostengono che tale falso avrebbe preparato (e giustificato) l’incoronazione di Carlo Magno. Ma questa è una storia infinita. Per raccontarla in termini esaurienti sarebbe bene approfittare delle opportunità recate dalle celebrazioni costantiniane del prossimo anno.
La nuova stagione dei diritti
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 12.05.2012)
Il fronte dei diritti si è appena rimesso in movimento. Obama ha affrontato senza reticenze il tema difficile dei matrimoni omosessuali, e lo stesso ha fatto François Hollande inserendolo nel suo programma e mettendo all’ordine del giorno quello ancor più impegnativo del fine vita. Di questa rinnovata centralità dei diritti dobbiamo tenere conto anche in Italia.
In che modo, però, e con quali contenuti? Qualche esempio. La recente sentenza della Corte di Cassazione sui matrimoni gay è un dono dell’Europa. Così come lo è l’avvio dell’estensione alla Chiesa dell’obbligo di pagare l’imposta sugli immobili. Così come può diventarlo l’utilizzazione degli articoli 10 e 11 del Trattato di Lisbona.
Mi spiego. La Cassazione ha potuto legittimamente mettere in evidenza il venir meno della "rilevanza giuridica" della diversità di sesso nel matrimonio, e il conseguente diritto delle coppie dello stesso sesso ad una "vita familiare", proprio perché queste sono le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e soprattutto dell’innovativo articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Sappiamo, poi, che la norma sul pagamento dell’Ici da parte della Chiesa è andata in porto solo perché erano ormai imminenti sanzioni da parte della Commissione europea. E la discussione sui rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, tornata con prepotenza in Italia anche per effetto degli ultimi risultati elettorali, trova nel Trattato chiarimenti importanti, a cominciare dal nuovo potere che almeno un milione di cittadini può esercitare chiedendo alla Commissione di intervenire in determinate materie. Lo ha appena fatto il Sindacato europeo dei servizi pubblici che si accinge a raccogliere le firme perché l’Unione europea metta a punto norme che riconoscano come diritto fondamentale quello di accesso all’acqua potabile.
Scopriamo così un’altra Europa, assai diversa dalla prepotente Europa economica e dall’evanescente Europa politica. È quella dei diritti, troppo spesso negletta e ricacciata nell’ombra. Un’Europa fastidiosa per chi vuole ridurre tutto alla dimensione del mercato e che, invece, dovrebbe essere valorizzata in questo momento di rigurgiti antieuropeisti, mostrando ai cittadini come proprio sul terreno dei diritti l’Unione europea offra loro un "valore aggiunto", dunque un volto assai diverso da quello, sgradito, che la identifica con la continua imposizione di sacrifici.
Questa è, o dovrebbe essere, una via obbligata. Dal 2010, infatti, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è quindi vincolante per gli Stati membri. Bisogna ricordare perché si volle questa Carta. Il Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, lo disse chiaramente: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione». Sono parole impegnative. All’integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l’integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata pienamente realizzata, al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell’Unione europea si sarebbe accompagnato addirittura un deficit di legittimità. Si avvertiva così che la costruzione europea non avrebbe potuto trovare né nuovo slancio, né compimento, né avrebbe potuto far nascere un suo "popolo" fino a quando l’Europa dei diritti non avesse colmato i molti vuoti aperti da quella dei mercati.
Negli ultimi tempi questo doppio deficit si è ulteriormente aggravato. L’approvazione del "fiscal compact", con la forte crescita dei poteri della Commissione europea e della Corte di Giustizia, rende ancor più evidente il ruolo marginale dell’unica istituzione europea democraticamente legittimata - il Parlamento. Oggi si levano molte voci per trasformare la crisi in opportunità, riprendendo il tema della costruzione europea attraverso una revisione del Trattato di Lisbona. In questa nuova agenda costituzionale europea dovrebbe avere il primo posto proprio il rafforzamento del Parlamento, proiettato così in una dimensione dove potrebbe finalmente esercitare una funzione di controllo degli altri poteri e un ruolo significativo anche per il riconoscimento e la garanzia dei diritti.
Non è vero, infatti, che l’orizzonte europeo sia solo quello del mercato e della concorrenza. Lo dimostra proprio la struttura della Carta dei diritti. Nel Preambolo si afferma che l’Unione "pone la persona al centro della sua azione". La Carta si apre affermando che "la dignità umana è inviolabile". I principi fondativi, che danno il titolo ai suoi capitoli, sono quelli di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, considerati come "valori indivisibili". Lo sviluppo, al quale la Carta si riferisce, è solo quello "sostenibile", sì che da questo principio scaturisce un limite all’esercizio dello stesso diritto di proprietà. In particolare, la Carta, considerando "indivisibili" i diritti, rende illegittima ogni operazione riduttiva dei diritti sociali, che li subordini ad un esclusivo interesse superiore dell’economia. E oggi vale la pena di ricordare le norme dove si afferma che il lavoratore ha il diritto "alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato", "a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose", alla protezione "in caso di perdita del posto di lavoro". Più in generale, e con parole assai significative, si sottolinea la necessità di "garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti". Un riferimento, questo, che apre la via all’istituzione di un reddito di cittadinanza, e ribadisce il legame stretto tra le diverse politiche e il pieno rispetto della dignità delle persone.
Tutte queste indicazioni sono "giuridicamente vincolanti", ma sembrano scomparse dalla discussione pubblica. Si apre così una questione che non è tanto giuridica, quanto politica al più alto grado. Il riduzionismo economico non sta solo mettendo l’Unione europea contro diritti fondamentali delle persone, ma contro se stessa, contro i principi che dovrebbero fondarla e darle un futuro democratico, legittimato dall’adesione dei cittadini. Da qui dovrebbe muovere un nuovo cammino costituzionale. Se l’Europa deve essere "ridemocratizzata", come sostiene Jurgen Habermas, non basta un ulteriore trasferimento di sovranità finalizzato alla realizzazione di un governo economico comune, perché un’Unione europea dimezzata, svuotata di diritti, inevitabilmente assumerebbe la forma di una "democrazia senza popolo". Da qui dovrebbero ripartire la discussione pubblica, e una diversa elaborazione delle politiche europee.
Conosciamo le difficoltà. L’emergenza economica vuole chiudere ogni varco. Dalla Corte di Giustizia non sempre vengono segnali rassicuranti. Lo stesso Parlamento europeo ha mostrato inadeguatezze sul terreno dei diritti, come dimostrano le tardive e modeste reazioni alla deriva autoritaria dell’Ungheria. Ma l’esito delle elezioni francesi, e non solo, ci dice che un’altra stagione politica può aprirsi, nella quale proprio la lotta per i diritti torna ad essere fondamentale. Di essa oggi abbiamo massimamente bisogno, perché da qui passa l’azione dei cittadini, protagonisti indispensabili di un possibile tempo nuovo.
Il male oscuro dell’Europa
di BARBARA SPINELLI *
TUTTI ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell’animo e del crimine. L’occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d’un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna.
Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l’ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.
In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa "uccisione-linciaggio in un impulso d’ira incontrollata"), e tale è stato l’attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell’amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l’ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l’assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l’omicida seriale interiorizza la guerra. La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus.
Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: "Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio", così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell’"era dell’irresponsabilità". È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: "Mai più?". Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l’esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una "follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun’altra intossicazione alcolica". Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente "come un ragno nella sua tela, immobile da mesi". Amok è scritto nei primi anni Venti: un’epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del ’14-18, Thomas Mann vedeva l’Europa sommersa da "nervosità estrema".
"L’amok è così - spiega Zweig nel racconto - all’improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada... Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l’orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente... Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato... ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L’ossesso corre senza sentire... finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando". Ci furono opere profetiche, negli anni ’20-’30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell’orrida e precisa visione del presente? Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest’odio del diverso (dell’ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l’Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L’attentato che compì a Oslo fece 8 morti. Il secondo, nell’isola Utoya, uccise 69 ragazzi.
Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell’America degli odii razziali, in prima linea: l’odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l’Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d’ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a "usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino". Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: "Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso". Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d’immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.
Com’è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com’è possibile che l’Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell’aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un’isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l’alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l’etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito "la più grande tragedia dell’Ungheria moderna". Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell’Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell’odio razzista, della banalizzazione del male che s’estende in Europa, della democrazia distrutta.
In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come "unico contenitore della democrazia", poiché senza di lui non c’è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l’austro-ungarico, l’ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell’ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po’.
* la Repubblica, 21 marzo 2012
Abolire la miseria
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 28 dicembre 2011)
Certe volte dimentichiamo che il pensiero di unirsi in una Federazione, nato come progetto non utopico ma concreto nell’ultima guerra in Europa, non ha come obiettivo la semplice tregua d’armi fra Stati che per secoli si sono combattuti seminando morte. È un progetto che va alle radici di quei nostri delitti collettivi che sono stati i totalitarismi, le guerre. Che scruta le ragioni per cui gli individui possono immiserirsi al punto di disperare, anelare a uno strabiliante Redentore terreno, immaginare la salvezza schiacciando i propri simili: i deboli, in genere. Dicono che i motivi che spinsero gli europei a unirsi, negli anni ’50, sono svaniti perché il compito è assolto: la guerra è oggi tra loro impensabile. Questo spiegherebbe come mai non esistono più statisti eroici come Monnet, De Gasperi, Adenauer: uomini marchiati dalla guerra di trent’anni della prima metà del ’900.
Chi parla in questo modo trascura quello sguardo scrutante che i fondatori gettarono sulla questione della miseria, e l’estrema sua attualità. Trascura, anche, quel che l‘Europa unita ha tentato di fare, per creare non solo istituzioni politiche ma sociali, economiche. Dai delitti del ‘900 siamo usciti, nel ‘46, con un patto di mutua assistenza fra cittadini.
È detto Welfare perché prese forma in Inghilterra grazie al piano concepito durante la guerra, su mandato del governo, da William Beveridge, uno dei fondatori della Federal Union: lo Stato del Benessere (meglio sarebbe dire Bene-Vivere: il bene dell’Essere è cosa più scabrosa) dà sicurezza non aleatoria all’indigente, l’escluso, l’anziano, il paria.
Per questo è una grave svista pensare che l’Europa abbia concluso la missione, e stia lì solo come arcigna guardiana dei conti in ordine. Esattamente come nel dopoguerra, sono richiesti Fondatori, Inventori: se la crisi odierna è una sorta di guerra, è urgente immaginare istituzioni durature perché i mali che stanno tornando (miseria, diseguaglianza) non trascinino ancora una volta le società in strapiombi di disperazione, risentimento, e quell’odio dell’altro che si disseta bramando capri espiatori (ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e in prospettiva anche i vecchi che "muoiono così tardi").
Abolire la miseria: così s’intitolava lo splendido libro che l’economista Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni del Manifesto di Ventotene, scrisse in carcere nel ‘42 e pubblicò nel ’46: "Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale". La sfida oggi è identica, e sono le pubbliche istituzioni nazionali e europee a doversi assumere il compito. Affidarlo a chiese o filantropi vuol dire regredire a tempi in cui solo la carità era il soccorso.
In molti paesi arabi sono gli estremismi musulmani a occuparsi del Welfare, confessionalizzandolo. Non è davvero il modello da imitare: gli Stati europei si sono sostituiti alle chiese fin dal ‘200, creando istituzioni laiche aperte a tutti. Anche l’Europa unitaria investe su organismi comuni perché - sono parole di Jean Monnet - "gli uomini sono necessari al cambiamento, ma le istituzioni servono a farlo vivere". E aggiunge, citando il filosofo svizzero Amiel: "L’esperienza d’ogni uomo ricomincia sempre; solo le istituzioni diventano più sagge: accumulano l’esperienza collettiva e da quest’esperienza e saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole vedranno cambiare non già la loro natura, ma trasformarsi gradualmente il loro comportamento". È laico anche questo: voler cambiare i comportamenti, non la natura dell’uomo.
È importante ricordare come nacque il Welfare, perché in Europa, Italia compresa, le campagne elettorali si svolgeranno su questi temi, e sul banco degli imputati ci sarà spesso la medicina stessa che dopo il ’45 ci somministrammo sia per abolire le guerre, sia per abolire la miseria. Non è improbabile, ad esempio, che le destre italiane - non ancora emendate - tramutino l’Europa in bersaglio: da essa verrebbero quelle regole che ci impoveriscono e commissariandoci, ci umiliano. L’attacco al governo Monti, quando s’inasprirà, sfocerà in attacco all’Unione. È già chiaro negli slogan leghisti. Lo è nell’offensiva di Berlusconi contro le tasse: cioè contro il tributo che ciascuno (specie i ricchi) deve versare per preservare la pubblica salute.
Rifondare oggi l’Europa concentrandosi sulla lotta alla miseria significa capire perché l’Unione ci chiede certi comportamenti, e al tempo stesso inventare istituzioni aggiuntive che diano sicurezza all’esercito, in aumento, di disoccupati e precari. Significa comprendere che la battaglia al debito pubblico non è una mania né una mannaia: è il patto generazionale che l’Unione ci chiede di stringere, visto che gli Stati da soli non l’hanno fatto per timore delle urne. Il Trattato di Maastricht impone di non caricare le generazioni future di debiti contratti dalla presente generazione per procurarsi dei beni senza pagare le relative imposte, scrive Alfonso Iozzo, economista e federalista europeo, in un saggio sulla re-invenzione del Welfare ("Il Federalista", 1/2010).
Val la pena leggerlo, questo saggio, che poggia sulle solide basi di studi fatti da James Meade, Nobel dell’economia, sui modi di garantire redditi minimi di cittadinanza all’intera società. Il presupposto è estinguere il debito degli Stati, e trasformarlo in credito pubblico: in un patrimonio che lo Stato preveggente tiene per sé, dedicandolo non alle spese correnti ma al finanziamento del Welfare, questo bene non solo sminuito ma spesso inviso. Iozzo è convinto, come il liberal Meade, che la ricchezza delle nazioni o dell’Europa (il Pil) vada calcolata con nuovi metodi (Meade chiamava il suo Stato Agathopia, il Buon posto in cui vivere). Il criterio non è più la differenza fra quel che costano i beni prodotti e il reddito ricavato. È il patrimonio di cui dispone lo Stato, è la sua gestione: l’obiettivo è sapere se alle generazioni future verrà lasciato un capitale maggiore o minore di quello che noi abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti. Le leggi di Maastricht applicano tale metodo, prescrivendo come primo passo l’estinzione del debito pubblico.
Resta da compiere il secondo passo: la trasformazione del debito in un credito che protegga i cittadini in tempi di crisi. Non tutti hanno come patrimonio il petrolio norvegese, ma Oslo è un modello e ogni Stato ha l’acqua, l’aria, possibilmente nuove forme di energia: altrettanti beni pubblici consumati dall’individuo. Poiché petrolio e gas prima o poi finiranno, la Norvegia ha istituito con i ricavi energetici un Fondo pensione sottratto all’azzardo dei mercati. Solo il 4% del Fondo può essere annualmente usato per la spesa pubblica, lasciando ai cittadini un capitale a disposizione per il futuro, quando il patrimonio sarà esaurito (ogni norvegese è proprietario virtuale attraverso il Fondo di circa 100.000 euro, contro una quota del debito pubblico a carico di ogni italiano di 30.000 euro).
Avendo combattuto i debiti pubblici, l’Europa potrebbe escogitare iniziative simili, inducendo gli Stati a garantire nuova sicurezza sociale. Non solo; potrebbe far capire che nei costi vanno ormai incluse l’acqua sperperata, l’aria inquinata: beni non rinnovabili come il petrolio norvegese. Si parla molto di far ripartire la crescita. Ma essa non potrà esser quella di ieri, e questa verità va detta: perché i paesi industrializzati non correranno come Asia o Sudamerica; e perché la nostra crescita sarà d’avanguardia solo se ecologicamente sostenibile.
Di qui l’importanza delle prossime elezioni: non solo quelle nazionali, ma quelle del Parlamento europeo nel 2014. Chi griderà contro le tasse e contro l’Europa troppo patrigna e severa promette un paese dei balocchi, dove è sempre domenica e sempre truffa. Meglio saperlo prima, che troppo tardi. Meglio ricominciare l’eroismo, di cui non cessa il bisogno.
Io sono europeo
di Vittorio Cristelli (“vita trentina”, 6 novembre 2011)
Se qualcuno in una ipotetica intervista, volendo sapere la comunità di appartenenza, ci ponesse a bruciapelo la domanda “chi sei?”, molti risponderebbero: “Sono trentino, sono altoatesino, sono italiano”. Qualcuno provocatoriamente potrebbe rispondere “sono padano”. Ma nessuno probabilmente risponderebbe “sono europeo”. Eppure è a questa coscienza che dobbiamo tendere, specie oggi di fronte alla globalizzazione che dovrebbe progressivamente farci sentire cittadini del mondo. A questo ho pensato in questi giorni di fronte alla “lettera di intenti” che il Capo del governo italiano ha dovuto consegnare ai 27 Paesi dell’Eurozona e alla Commissione di Bruxelles e leggendo i relativi giudizi e reazioni.
È certo che si è trattato di un commissariamento dell’Europa nei confronti dell’Italia e del suo governo che aveva fissato tutt’altri itinerari. Le reazioni, del tipo “non prendiamo lezioni da nessuno” denotano orgoglio nazionale antistorico e ignoranza della stessa protezione che può derivare dall’appartenenza alla famiglia europea. C’è stato perfino chi ha maledetto l’Euro. Figuratevi se questi direbbero “sono europeo”!
Io non entro nel merito dei singoli provvedimenti contenuti nella lettera, che anzi qualcuno, come quello dei licenziamenti facili, può essere criticato esattamente perché non è affatto “europeo”. Si pensi, solo per un attimo a quello che Jeremy Rifkin chiama “sogno europeo” da preferire a quello americano, proprio perché condito di solidarietà specie con i più deboli. Ma scalciare perché l’Europa interviene onde impedire che l’Italia faccia fallimento, è comportarsi come un bambino che strattona e prende a calci chi lo agguanta per impedirgli di cascare nel fiume.
È vero che i richiami all’Italia sono venuti non dall’Europa politica ma dalla Banca centrale (Bce) e quindi dal mondo finanziario, ma è vero pure che finora si è realizzata solo l’Europa economica e finanziaria. L’Europa politica e culturale è ancora di là da venire. Già, parecchi anni fa Jean Monnet, uno dei fondatori della nuova Europa ebbe a dire: “Se si partisse adesso incomincerei dalla cultura”.
Questo discorso vale anche per le Chiese, che sono in ritardo rispetto all’ideale che si erano proposte. Il vescovo di Piacenza Gianni Ambrosio, delegato italiano negli Episcopati europei, così si esprime in una recente intervista: “In questo momento l’attenzione più importante è fare sì che la dizione Unione Europea diventi parte di una mentalità comune e diffusa”. Non un’Unione astratta e senza anima, ma “una vera comunità capace di solidarietà e attenta al principio di sussidiarietà”. Già, la sussidiarietà che non significa solo che non debbono fare le entità superiori quello che riescono a fare gli enti di base, ma anche che quelle devono fare ciò che gli enti inferiori non riescono a portare a termine. Donde il diritto-dovere dei richiami.
Ma le Chiese europee tutte, dalle cattoliche alle protestanti, dalle ortodosse alle anglicane hanno sottoscritto già nel 1989 a Basilea il loro progetto europeo in cui definivano l’Europa “casa comune, guidata dallo spirito di cooperazione e non di competizione”. Le “regole di casa” erano: il principio di uguaglianza di tutti quelli che vivono nella casa; la tolleranza, la solidarietà e la partecipazione; “porte e finestre aperte” e cioè contatti personali, scambi di idee, dialogo anziché violenza nella risoluzione dei conflitti. Casa aperta anche verso il futuro del mondo e del creato.
Se non ci siamo ancora è segno che anche le Chiese si sono fermate ai blocchi di partenza. “Io sono europeo” significa identificarsi in quello che Rifkin chiama “sogno europeo”. Chi non sogna però è già vecchio. Oggi si direbbe che è da rottamare.
E i cristiani si armarono
di Lucia Ceci (Saturno, 21 ottobre 2011)
DISTRUGGERE PIETRE, si sa, vuol significare spesso affrancarsi da un intero sistema. Stanno a dimostrarlo immagini che condensano passaggi epocali: l’abbattimento della statua di Stalin a Budapest nell’ottobre 1956, la demolizione di centinaia di immagini di Saddam Hussein in Iraq, il fuoco talebano sui Buddha di Bamiyan.
A sancire uno spartiacque decisivo nella storia del cristianesimo fu la distruzione, nel 391, del Serapeo di Alessandria d’Egitto, il tempio dedicato al dio regolatore delle acque del Nilo, garante della salute dei vivi e del destino dei morti. Ne fece le spese soprattutto la smisurata statua di Serapide, fatta in legno laminato d’oro e d’argento, che i cristiani decapitarono, spaccarono a colpi d’ascia e diedero alle fiamme al cospetto di cittadini increduli. Dal Serapeo la furia devastatrice si estese agli altri templi di Alessandria e di lì a tutte le città dell’Egitto. Una volta profanati, gli spazi sacri vennero decontaminati e convertiti in basiliche.
Dietro la distruzione e la riconversione dei luoghi di culto si celava una battaglia decisiva per ridefinire i confini del sacro e la gestione del particolare potere che esso veicolava. Ma non era una rivoluzione dal basso: a un anno dalla strage di Tessalonica e dalla successiva penitenza cui il vescovo Ambrogio aveva costretto l’imperatore, Teodosio aveva emanato un editto che autorizzava la distruzione dei templi pagani. La croce, simbolo di sofferenza e martirio, si era trasformata in simbolo di potere. Come era stato possibile?
Giovanni Filoramo lo indaga nel denso volume La croce e la spada, che ha per oggetto il «secolo breve»: quel periodo che va dalla conversione di Costantino (312) alla morte di Teodosio (395), in cui si assiste alla trasformazione di un gruppo religioso minoritario in Chiesa di Stato, pronta, dopo essere stata perseguitata, a perseguitare a sua volta nemici interni ed esterni. Il libro ripercorre le tappe di questo itinerario e il contributo dei suoi principali protagonisti: gli imperatori romani da Costantino a Teodosio e i vescovi cristiani da Eusebio ad Agostino.
La svolta decisiva, che riguarda la ricerca di un’ortodossia unitaria e il modo in cui il cristianesimo si rapporta al potere politico, ha luogo sotto Teodosio: col Concilio di Costantinopoli si fissa il dogma trinitario e si impone, grazie all’intervento dell’imperatore, la verità dottrinale uscita vincente dall’assise valida come legge di Stato.
La dissidenza religiosa, di conseguenza, si trasforma in crimen publicum. L’avvio della criminalizzazione dell’eretico apre un capitolo nuovo e funesto nella storia del cristianesimo, quello in cui si può uccidere «in nome di Dio», illuminato nel libro attraverso l’illustrazione dei primi pericolosi segnali di cambiamento: la condanna a morte dell’eretico Priscilliano e l’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia. Non si trattò solo, per dirla con Edward Gibson, di «intolerant zeal». Né, come hanno sostenuto gli apologeti, di una mera conseguenza della svolta costantiniana.
Nella Chiesa del IV secolo la fede fondata sulla rivelazione di Dio mediante il Figlio mise in moto una duplice, contraddittoria spinta: inclusiva in quanto mirava ad accogliere l’intera umanità, ma anche esclusiva perché la preservazione della «purezza» della comunità portò ad eliminare, oltre all’errore, l’errante.
Giovanni Filoramo, La croce e il potere, Laterza, pagg. 443, • 24,00
I preti austriaci rifiutano di revocare il loro appello alla disobbedienza
di Christa Pongratz-Lippitt e Sarah Mac Donald
in “The Tablet” dell’ 8 ottobre 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
I membri dell’Iniziativa dei preti austriaci, guidati dall’ex vicario generale di Vienna, mons. Helmut Schüller, hanno dichiarano che non intendono revocare il loro "Appello alla disobbedienza" pubblicato il 19 giugno scorso. Nella loro ultima newsletter 407 preti e diaconi scrivono: "Ci è stato chiesto di revocare il nostro “Appello alla disobbedienza”, ma in coscienza non possiamo farlo, finché si continua a lasciare in stand-by il suo contenuto".
I preti chiedono una riforma o almeno l’apertura di un dialogo su temi come l’obbligo del celibato sacerdotale, il ruolo delle donne, la comunione ai divorziati risposati. E chiedono anche il rafforzamento del ruolo dei laici nella Chiesa.
"Disobbedire ad alcune regole e norme restrittive in vigore nella Chiesa fa parte ormai da anni della nostra vita e della nostra missione di preti. Se fossimo qui a professare pubblicamente che lo facciamo senza riflettere ciò potrebbe solo aggravare ulteriormente il dissenso interno alla Chiesa e minare il lavoro pastorale", hanno detto nella loro lettera. Essi si dichiarano pienamente consapevoli che la "disobbedienza" potrebbe essere un termine capace di infiammare gli animi, ma sottolineano: "Noi non intendiamo una disobbedienza generalizzata per amor di contrapposizione, bensì un’obbedienza progressiva che in primo luogo dobbiamo a Dio, poi nei confronti della nostra coscienza e in ultima istanza alle leggi della Chiesa”.
Parlando di questa settimana a Dublino, dove si è recato per partecipare alla riunione dell’Associazione dei preti cattolici irlandesi (ACP), mons. Schüller ha detto al nostro giornale che quando divenne vicario generale a Vienna nel 1995 - incarico che ha ricoperto fino al 1999, lavorando alle dipendenze dell’arcivescovo Christoph Schönborn - aveva sperato in un cambiamento nella Chiesa, in linea con quanto affermato dal Concilio Vaticano II. "Ma ora abbiamo il fondato sospetto che il Vaticano voglia che la Chiesa torni indietro", ha detto. Considerare la Chiesa come una sorta di "fortezza contro il mondo e in particolare contro il mondo laico" non è questo il modo con cui il Concilio Vaticano II ha lavorato.
Una questione fondamentale oggi riguarda il ruolo dei battezzati laici - che "non sono solo da considerare alla stregua dei consumatori all’interno di un qualche negozio ... bensì anch’essi pietre nella costruzione della Chiesa". Essi dovrebbero crescere in termini di influenza e partecipazione alle decisioni della Chiesa - ha detto - "a motivo della loro grande esperienza di vita". Ha dichiarato che la Chiesa “ha timore dei laici, perché li considera come infettati da secolarizzazione e relativismo”. L’Iniziativa riguardo al tema del sacerdozio si basa sul fatto che esiste un diritto al matrimonio riconosciuto dalle Nazioni Unite, e così pure la parità di diritti per le donne riconosciuta dal mondo laico, ma non da parte della Chiesa.
Nella loro newsletter i preti hanno detto che era stato consigliato loro di discutere alcuni dei temi riguardanti le riforme meno impegnative con il cardinale Schönborn, ma che essi erano interessati a evitare che "solo alcuni del clero di rango superiore" discutessero delle riforme che riguardano tutti i fedeli insieme "al clero di rango inferiore".
DIO E’ SPIRITO, AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8). SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.
LA TRADIZIONALE "SCOLA" COSTANTINIANA DI BENEDETTO XVI: IL MAGISTERO DELL’INGANNARE IL PROSSIMO COME SE STESSO. Un’analisi di Giancarlo Zizola, con note
(...) Von Balthasar, era molto netto (...). Diceva che «al cristiano è vietato il ricorso ai mezzi d’azione specificamente mondani per un preteso incremento del regno di Dio in terra». Criticava l’integralismo di gruppi di «mammalucchi cristiani che aspirano a conquistare il mondo» (...)
Piss Christ: il malinteso
di Sébastien Lapaque
in “www.temoignagechretien.fr” del 15 aprile 2011 (traduzione: www.finesettimana.org) *
È da tempo che le bestemmie anticristiane non mi turbano più. Sono perfino tentato di accordare loro certe virtù educative. Pacifico vagabondo inchiodato ad una croce di legno dai violenti del suo tempo, il Salvatore del Mondo può ben essere coperto di sputi da quelli di oggi.
il Cristo degli oltraggi
“Si ignobilis, si inglorius, si inhonorabilis, meus erit Christus”, scrive Tertulliano, la cui prosa dalle erubescenze di lava in fusione in questo momento mi deliziano. “Se è senza splendore, se è senza gloria, se è infamato, è il Cristo che cerco.”
Ecco per gli agguerriti gradassi di Avignone partiti in crociata contro la presentazione al museo d’arte contemporanea di una fotografia dell’americano Andres Serrano che riproduce in grande formato l’immersione sacrilega di un piccolo crocifisso nell’urina.
“Si ignobilis, si inglorius, si inhonorabilis, meus erit Christus”: poche opere contemporanee illustrano in maniera più selvaggia l’esortazione del Grande scrittore cartaginese di questa fotografia di forza mostruosa in rosso e giallo intitolata Piss Christ.
Sua Eccellenza Mons. Arcivescovo di Avignone ha avuto torto a sollecitare il suo ritiro presso le autorità competenti. Avrebbe fatto meglio a salire in cattedra a prendere l’avversario in contropiede valorizzando le verità che ci fa sentire sulla coabitazione della grandezza e dell’abiezione.
Cristo e il piscio: sono le due estremità tra cui l’umanità si dibatte, più pronta ad annegare nel secondo che a gettarsi ai piedi del primo. Un cristiano non può spaventarsi per la coesistenza degli opposti: è il grande mistero.
lo scontro dei contrari
L’opera presentata ad Avignone ci ricorda che tra Cristo e i Rifiuti non c’è distanza. Un cristiano della scuola antica, un cristiano nato prima che si fosse presa l’abitudine di trapiantare ai battezzati dei cervelli di scimmia o di pecora, non ne sarebbe scandalizzato.
Léon Bloy avrebbe probabilmente adorato Piss Christ, quel quadro che dice tutto in due parole. Artista d’avanguardia nel suo genere, il Mendicante ingrato gustava gli happening selvaggi e lo scontro dei contrari.
Ricordate le sue Propos d’un entrepreneur de démolition: “Ci sono solo due cose, capite, che si possano mettere su una tomba e che vi facciano un ottimo effetto: la Croce del salvatore delle anime o un enorme escremento umano! Allora, scegliete, canaglie!” Ma le canaglie non vogliono più scegliere. Fanno petizioni, manifestano, dissimulano la loro vigliaccheria dietro pseudonimi su internet.
Eppure non c’è da stupirsi degli oltraggi che continua a ricevere Gesù. Un Dio al riparo dagli sberleffi, un Dio al riparo dalle bestemmie, un Dio al riparo dal marciume umano sarebbe adatto ai pagani o ai filosofi. Non sarebbe il Cristo che cerco, il Cristo che voglio, il Cristo che amo, venuto a sollevarmi dal canale di scolo o, chissà, dall’urina in cui stavo marcendo.
quale rabbia o quale risentimento amoroso?
No, davvero, le bestemmie che toccano il Redentore non mi turbano più. È poco dire che ne ha viste e ne ha vissute ben altre, a cominciare da tutte quelle che gli faccio subire giorno dopo giorno. Non conosco niente delle preferenze segrete di Andres Serrano, ignoro quale rabbia o quale risentimento amoroso si dissimuli dietro il suo Piss Christ. Ma gli argomenti di coloro che pretendono che sia troppo facile sfogare così il proprio nichilismo sulle spalle dei credenti non mi interessano. Quello che mi interessa, è proprio quel nichilismo che tocca Cristo, un nichilismo a cui ho voglia di rispondere come il curato di campagna di Georges Bernanos ad un personaggio del romanzo: “Lei potrebbe mostrargli i pugni, sputargli in faccia, frustarlo con delle verghe ed infine inchiodarlo ad una croce, che importa? È già stato fatto.”
Quando sento dei cattolici spiegare che i musulmani sanno farsi sentire e difendersi meglio controle ingiurie quando l’immagine di Allah o di Maometto viene travisata, vado su tutte le furie. Così vicini alla Stupidità, così lontani dal Senso. Non chiedo certo a tutti quei temerari Crociati di leggere i Padri - Tertulliano, contro Marcione, libro III - ma potrebbero di tanto in tanto uscire dalle loro fila per prestarsi ad esercizi di judo metafisico.
Della Croce del Salvatore si fa troppo spesso un ciondolo, un motivo decorativo, un segno senza significato. Ed ecco che attraverso il gesto brutale di Andres Serrano essa viene restituita alla sua brutalità: la Croce ridiventata scandalo - dal greco skandalon, l’ostacolo.
Al Musée des Beaux Arts di Avignone, ci si ferma. Ha perso i contorni vaporosi di simbolo per ridiventare il patibolo infamante su cui è stato inchiodato Gesù, morto tra due banditi, schernito, per aver predicato il perdono delle offese, la pietà per i vinti e l’attenzione per gli oppressi.
* PISS CHRIST (Wikipedia - testo inglese, con foto).
* PISS CHRIST (Wikipedia - testo italiano, senza foto)
Crocefisso, Strasburgo assolve l’Italia
"Esporlo non viola i diritti umani"
La Grande Camera assolve il nostro Paese dall’accusa di violazione della libertà religiosa di chi non è cattolico.
Il ministro degli Esteri Franco Frattini: "Ha vinto difesa dell’identità". La soddisfazione del Vaticano *
STRASBURGO - L’Italia ha vinto la sua battaglia a Strasburgo. La Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo l’ha assolta dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche.
La Corte ha scritto la parola fine sul dossier del caso ’Lautsi contro Italia’. Un procedimento approdato a Strasburgo il 27 luglio del 2006. Allora l’avvocato Nicolò Paoletti presentò il ricorso con cui Sonia Lautsi, cittadina italiana nata finlandese, lamentò la presenza del crocifisso nelle aule della scuola pubblica frequentata dai figli, ritenendo tale presenza un’ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e il diritto ad un’educazione e ad un insegnamento conformi alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori.
La prima sentenza della Corte (9 novembre 2009) diede sostanzialmente ragione alla signora Lautsi, affermando la violazione da parte dell’Italia di norme fondamentali sulla libertà di pensiero, convinzione e religione. Il Governo italiano, a quel punto, domandò il rinvio alla Grande Chambre della Corte, ritenendo la sentenza 2009 lesiva della libertà religiosa individuale e collettiva come riconosciuta dallo Stato italiano.
Con sentenza d’appello definitiva, i giudici dell’organismo del consiglio d’europa hanno sottolineato che, mantenendo il crocifisso nelle aule della classe frequentata dai figli della donna che ha fatto ricorso, "le autorità hanno agito nei limiti della discrezionalità di cui dispone l’italia nel quadro dei suoi obblighi di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che assume nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire l’istruzione conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche". Il crocifisso, in particolare, non viene considerato dai giudici di strasburgo un elemento di "indottrinamento".
"Oggi - si legge in una nota del ministro degli Esteri, Franco Frattini- ha vinto il sentimento popolare dell’Europa. Perchè la decisione interpreta soprattutto la voce dei cittadini in difesa dei propri valori e della propria identità. Mi auguro che dopo questo verdetto l’Europa torni ad affrontare con lo stesso coraggio il tema della tolleranza e della libertà religiosa". Esulta anche radio Vaticana che parla di vittoria dell’Italia " e di quanti ritenevano assurda la rimozione". Mentre la Santa Sede esprime "soddisfazione". Si tratta, afferma il direttore della sala stampa vaticana padre Federico Lombardi di una sentenza "assai impegnativa e che fa storia".
Di opposto tenore le reazione di Massimo Albertin, il medico di Abano Terme che otto anni fa aveva iniziato con la moglie la battaglia legale: "Il pronunciamento di Strasburgo mi delude molto, perchè la prima sentenza su questa vicenda era clamorosamente chiara". Perplesso anche il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni: "Dire che il crocifisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto. E non mi ci riconosco come simbolo culturale".
* la Repubblica, 18 marzo 2011
Crocifisso: soddisfazione Santa Sede
Frattini, ha vinto sentimento popolare Europa. Tosti, grottesco *
(ANSA) - ROMA, 18 MAR - La Santa Sede esprime ’soddisfazione’ per la sentenza della Corte Europea sull’esposizione del crocifisso nelle scuole. Si tratta, afferma il direttore della sala stampa vaticana, di una sentenza ’assai impegnativa e che fa storia’. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha detto: ’oggi ha vinto il sentimento popolare dell’Europa’. Ma il giudice ’anticrocifisso’ Luigi Tosti ha commentato: questa decisione ’mi sembra abbastanza grottesca. Ci sono state pressioni fortissime sulla Corte’.
* Ansa, 18 marzo 2011, 18:48
Le radici cristiane e i peccati dell’Europa
di Vittorio Messori (Corriere della Sera, 31 gennaio 2011)
Un fantasma s’aggira per l’Europa, verrebbe da dire, parafrasando qualcuno... Il fantasma è quello delle radici cristiane del Continente. Il rifiuto di riconoscerle da parte della nomenklatura di Bruxelles è stato avvertito da molti cattolici - protestanti e ortodossi sono più defilati, per non dire tiepidi - come una ferita non rimarginata, pronta a riaprirsi. Adesso, un’occasione è data dal documento dell’Unione sulle violenze contro i cristiani. Alla fine- in linea con l’ideologia egemone nell’Europarlamento, la political correctness- nobili appelli alla tolleranza e toccanti esortazioni alla libertà di culto. Insomma, molte parole. Tranne una: «cristiani», mai usata nel testo.
Le immediate voci cattoliche di protesta hanno affermato che nulla di diverso ci si poteva aspettare da un’Europa che non vuole riconoscere le sue radici, preferendo essere figlia di nessuno che della Chiesa. Qualcuno ha detto che negare quelle radici non è un peccato contro la religione, bensì contro la storia. Ma è davvero così? Ebbene, in quella storia vale la pena di tentare un rapido carotaggio, mai dimenticando le parole con cui Leone XIII annunciava l’apertura agli studiosi dell’Archivio segreto vaticano: «Il cristianesimo ha bisogno solo di verità». Per cominciare dagli inizi, quella verità ci rivela che gli storici sono ormai d’accordo su una realtà: come tutti i rivoluzionari che hanno avuto successo, anche i cristiani sono stati spinti a mitizzare gli inizi eroici.
Sbaglia chi pensa a un Impero romano impegnato nella persecuzione implacabile e sistematica degli annunciatori di Gesù morto e risorto. Come testimoniano gli Atti degli Apostoli, fu proprio l’Impero - con i suoi magistrati e i suoi soldati- a impedire che il giudaismo ufficiale soffocasse nella culla quella che non pareva altro che una eresia ebraica. Le persecuzioni romane furono discontinue, quasi sempre locali, proclamate da un imperatore ma messe da parte dal successore.
Anche il numero dei martiri pare sia molto ridotto rispetto alle cifre iperboliche date dagli antichi apologeti. Meno di quanto si creda i martiri, ma meno di quanto si immagini anche i battezzati quando, quasi tre secoli dopo, Costantino estese la libertà di culto ai cristiani. Nell’Africa del Nord e in Medio Oriente, le comunità erano numerose, anche se dilaniate da feroci conflitti teologici. In Europa, invece, il cristianesimo aveva creato roccaforti quasi soltanto in alcune grandi città, circondate dalla massa enorme dei «pagani», cioè gli abitanti dei pagi, i villaggi contadini.
Una prima cristianizzazione di massa iniziò qualche decennio dopo ma per volontà imperiale, quando Teodosio andò ben oltre il decreto costantiniano che dava libertà ai cristiani e tolse la libertà ai non cristiani, imponendo la chiusura dei templi e la distruzione dei segni pagani. Ma molti ignorano che soltanto poco prima che Francesco d’Assisi mostrasse a quali vette fosse giunta da noi la spiritualità cristiana, gli ultimi pagani europei- quelli degli attuali Stati baltici - si arrendevano al lungo assedio cristiano e accettavano rassegnati il battesimo. Gli altri popoli erano stati convinti a rinnegare (almeno ufficialmente, ma spesso non nella pratica occulta) i culti ai loro dèi non sempre con le buone, anzi talvolta con le cattive.
Ci furono anche episodi terribili come l’offensiva di Carlo Magno contro i Sassoni, terminata col massacro di coloro che rifiutavano il battesimo. Poco edificanti pure le imprese dei Cavalieri Teutonici, questi monaci-soldati che «cristianizzarono» l’Est europeo con in pugno una croce e una spada che spesso grondavano di sangue. La loro fama era tale che non a caso Himmler riesumerà le loro insegne e bandiere, per quell’ «Ordine bruno» in cui voleva trasformare le sue Ss. Intendiamoci: quella verità storica cui deve ispirarsi soprattutto il credente, impone di ricordare l’altro volto della realtà. E, cioè, l’apostolato coraggioso, tenace, spesso eroico, di schiere di inermi religiosi che si fecero missionari tra i barbari, tra gli idolatri, tra i pagani di ogni sorta e razza, avendo come sola arma il Vangelo e l’esempio personale.
Né va dimenticato che, se da qualche parte il battesimo fu imposto dalla legge del più forte, in molti altri luoghi il Vangelo fu accolto liberamente e praticato sinceramente. Ne è testimonianza irrefutabile l’Europa che in un paio di secoli si coprì di meravigliose cattedrali costruite con il lavoro, l’impegno, la fede di tutto il popolo. Dagli aristocratici alle prostitute. Molto altro andrebbe detto, acominciare da quel clamoroso esempio di «eterogenesi dei fini» che fu il monachesimo benedettino: quegli uomini fecero l’Europa senza volerlo né saperlo. Cercavano di chiudersi in cittadelle isolate dove darsi in pace all’orazione e all’ascesi, ma il loro distacco dal mondo creò un mondo nuovo.
Andrebbe ricordato, soprattutto, che ogni dottrina o ideologia nata in Europa contro il cristianesimo in realtà ha proposto, e propone, ideali incomprensibili senza il retaggio evangelico. A cominciare dalla «trinità» degli scristianizzatori giacobini- liberté, égalité, fraternité- che è una sorta di quintessenza cristiana. Non dimenticando quel giudeo-cristianesimo secolarizzato che è il marxismo.
Insomma, la storia è sempre troppo complicata per chi- da una parte e dall’altra- voglia partire in crociata. Per stare alle radici europee: verità impone di riconoscere che a questo nostro Continente il cristianesimo fu talvolta imposto piuttosto che proposto. Ma venti secoli stanno alle nostre spalle: che metteremmo in questa nostra storia, se rimuovessimo ciò che li ha riempiti a tal punto che anche chi ha cercato di liberarsene ha dovuto rifarsi ai suoi valori?
Dio, rischio della società globalizzata
di Ulrich Beck (La Stampa, 19.112010)
Con tutto il suo umanesimo la religione porta in sé una tentazione totalitaria. Dall’universalismo della religione nasce una fraternità che trascende classe sociale e nazionalità, ma anche la demonizzazione degli altri pensieri religiosi, una tendenza che attraversa tutta la storia - e che risale a circa duemila anni fa, alle origini delle religioni monoteiste, Cristianesimo, Ebraismo, Islam. Dio può in uguale misura rendere civili e imbarbarire gli esseri umani. Se vogliamo comprendere la religione nel mondo moderno dobbiamo capire il paradosso della globalizzazione della religione.
La religione non è solo incidentalmente globale nella sua espansione, un sottoprodotto della globalizzazione di strutture più potenti come i mass media, il capitalismo e lo Stato moderno. Piuttosto la formazione e la diffusione globale della religione in generale, e delle religioni monoteiste in particolare, è una caratteristica essenziale che definisce quelle religioni fin dai loro inizi. In effetti, alcune religioni sono «attori globali» da più di duemila anni. Pertanto, al fine di comprendere il gioco del meta-potere che ridefinisce il potere nell’era globale, dobbiamo prendere in considerazione, oltre al capitale globale, ai movimenti della società civile, ai protagonisti statali e alle organizzazioni internazionali, il ruolo delle religioni come forze modernizzanti o antimodernizzanti nella società mondiale post-secolare.
Per la religione un postulato è assoluto: la Fede - a suo confronto tutte le altre differenze sociali e contrapposizioni non sono importanti. Il Nuovo Testamento dice: «Tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio». Questa uguaglianza, questo annullamento dei confini che separano le persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane). Un’ulteriore conseguenza, tuttavia, è questa: una nuova fondamentale distinzione gerarchica è stabilita nel mondo con lo stesso valore assoluto delle distinzioni politiche e sociali che sono state annullate: la distinzione tra credenti e non credenti. Ai non credenti (sempre secondo la logica di questa dualità) vengono negate l’uguaglianza e la dignità di esseri umani. Le religioni possono costruire ponti tra le persone dove esistono gerarchie e frontiere; allo stesso tempo aprire nuove voragini determinate dalla fede là dove prima non ve n’erano.
Fu Paolo, un Ebreo ellenizzato che, più di ogni altra figura nel movimento nato attorno a Gesù, trasformò il cristianesimo da setta ebraica a forza religiosa globale con una visione universalistica. Fu lui ad abbattere i muri: «Non c’è né Ebreo né Greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina». L’universalismo umanitario dei credenti si basa sulla identificazione con Dio - e su una demonizzazione degli avversari di Dio che, come erano soliti dire Paolo e Lutero, sono «servi di Satana».
Questa ambivalenza tra tolleranza e violenza può essere suddivisa in tre elementi: le religioni del mondo A) rovesciano le gerarchie prestabilite e di conseguenza i confini tra nazioni e gruppi etnici; sono in grado di farlo, nella misura in cui B) creano un universalismo religioso di fronte a cui tutte le barriere nazionali e sociali diventano meno importanti; simultaneamente, si manifesta il pericolo che C) alle barriere etniche, nazionali e di classe si sostituiscano quelle tra i credenti nella vera fede da un lato e i credenti nella fede sbagliata e i non credenti dall’altra. Questo è il timore che sta diffondendo: che il rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione sia la minaccia di un nuovo secolo buio. La religione uccide.
Si sta dibattendo con inquietudine il «problema» dell’Islam nell’Europa laica: alcuni addirittura denunciano la «fine del multiculturalismo» - in un’Europa dalle troppe identità dissonanti. Ignorando così lo stratagemma della cooperazione: è possibile distinguere tra ortodossia e interazione. Questo procedimento si vede in atto in alcuni luoghi, diciamo a Londra e a Milano, ma soprattutto negli Stati Uniti e in particolare nelle grandi città di tutto il mondo (tantissimo in Giappone).
Questo buon senso interreligioso funziona nei progetti educativi come nel soccorso dei poveri, nella tutela delle minoranze o dei migranti (illegali) e, non ultimo, nella pubblica opposizione alle politiche statali di esclusione. I gruppi possono essere intolleranti per quanto riguarda la teologia altrui, ma al tempo stesso lavorare insieme in modo creativo per affrontare preoccupazioni pubbliche condivise. Questa separazione tra il dogma e la pratica è possibile, non solo a livello locale, ma anche sulla scena mondiale? Le religioni del mondo possono effettivamente interagire e collaborare per dare risposte pragmatiche alle sfide poste dai rischi della società mondiale - il pericolo di una guerra nucleare, i cambiamenti climatici, la migrazione, la povertà globale?
Oggi chiedersi in che misura la verità possa essere sostituita dalla pace è una domanda cruciale per la sopravvivenza dell’umanità. Ma la speranza per una religiosità inter-cristiana o cristianomusulmana senza la demonizzazione dell’altro non è la cosa più improbabile, ingenua, sciocca, assurda in cui si possa sperare?
(Traduzione di Carla Reschia)
*Ulrich Beck è professore di Sociologia presso l’Università di Monaco di Baviera e la London School of Economics
Uscire dalla religione
di Bernard Rivière
in “www.temoignagechretien.fr” del 13 agosto 2010
traduzione: www.finesettimana.org
La Buona Novella deve essere annunciata a tutti. Alcuni preti operai spiegano come la Chiesa, diventando una religione nel corso dei secoli, si è appropriata, snaturandolo, del messaggio di Gesù Cristo, e lo ha quindi reso inudibile da coloro che cercano Dio in verità.
Cogliere l’occasione!
“La sortie de religion, est-ce une chance?” (L’uscita dalla religione, è un’opportunità?), è un libro frutto della partecipazione di molte mani, di cui sarebbe troppo lungo elencare tutti gli autori. Citiamone però alcuni, innanzitutto e fondamentalmente quelli di una “mano” formata da cinque preti operai del Calvados, alla base della progettazione del libro. Troviamo frequenti citazioni di teologi: del gesuita Joseph Moingt, del pastore Dietrich Bonhoeffer (morto in campo di concentramento nel 1945), di Hans Küng...; di pensatori e filosofi: Marcel Gauchet, Mary Balmary, Jacques Duquesne...; di vescovi, di preti e di laici in gran numero...
Insieme, con le loro parole, le loro esperienze personali, le loro convinzioni, le loro attese, uniti dalla fede in Gesù Cristo saldamente stretta al cuore, vogliono comunicare ai lettori, e al di là di questi, ai credenti, che “l’essenza del messaggio evangelico è che l’umanità si realizzi pienamente”.
Non a seguito di lunghe dispute teologiche né di discorsi ex cathedra, ma attraverso lo sguardo d’amore che hanno tentato di rivolgere ai loro compagni di lavoro, questi preti hanno preso coscienza, una coscienza di fede viva, che “è passato il tempo in cui si poteva dire tutto agli uomini con parole teologiche e pie... Stiamo andando verso un’epoca totalmente senza religione”. (1)
Appropriazione
Fin dal secondo secolo della nostra era nascono le primissime, sporadiche comunità di discepoli di Gesù, spesso segretamente, senza alcuna intenzione nascosta di creare una religione, nel ricordo dell’amicizia di Gesù che alcuni affermano essere risuscitato. Il messaggio evangelico lentamente si propaga tra i “testimoni” che naturalmente cercano in maniera spontanea di trasmettere il messaggio della Buona Novella. A poco a poco - era inevitabile? - una certa organizzazione, comunque leggera, prenderà forma a partire dal IV secolo con l’impulso di Costantino e di Teodosio. E fu nei secoli seguenti che rapidamente prenderà il sopravvento l’aspetto istituzionale, soffocando a volte e troppo spesso, la spontaneità di una fede che chiede comunque solo di diffondersi.
Nel Nord Ovest
Alcuni preti del Calvados hanno percepito nella loro vita di tutti i giorni, durante il loro servizio come preti e lavoratori, che il messaggio di Gesù nel XX e nel XXI secolo era diventato inudibile. I primi capitoli del libro presentano molteplici testimonianze rese da loro stessi e dai loro compagni operai che esemplificano la deriva della Chiesa, che è diventata, da umile e al servizio della Buona Novella, una istituzione umana che viene chiamata “religione”.
Joseph Moingt riassume così l’evoluzione: “Il seguito di questa storia, che non ha mantenuto le promesse delle origini, lo si può riassumere dicendo che a poco a poco, nella Chiesa, la forma della religione ha coperto quella dell’annuncio, invece del contrario! L’annuncio è appello alla libertà, la religione è la costrizione di una determinata via di salvezza. Da questa conversione della Chiesa in semplice religione, che trasformava l’invito alla salvezza in ingiunzione minacciosa, è derivato il fatto che essa non ha più fatto sentire agli uomini la via della libertà né dell’umanesimo, poiché essa parlava solo un linguaggio religioso, tessuto di comandamenti, di mistero e di simbolismi sacri”. (2) Da questa convinzione nasce allora una lunga, semplice e appassionante scoperta di ciò che può essere ancora oggi l’annuncio della Buona Novella.
La pratica
Essere “praticante” consiste nel contribuire alla riuscita e alla crescita dell’umanità e non nel compiere atti rituali di una religione. “Essere cristiano, diceva Bonhoeffer, significa diventare radicalmente uomo e invitare anche gli altri a diventarlo”. Gesù invita a reintegrare l’uomo ferito, nudo, prigioniero, infermo nella società degli uomini.
“Ciò che fate al più piccolo, lo fate a me” (Matteo 25, 31-46). La salvezza assume un altro senso in questa prospettiva. La liberazione dal giogo della religione è uno degli aspetti della salvezza portati da Gesù. È il Regno che bisogna testimoniare e la Chiesa ha un senso solo se ciò che essa fa e dice è a servizio della vita e della felicità degli uomini e li apre così al vero progetto di Dio.
E gli autori, come una sorta di riassunto dell’opera, affermano, a rischio di scioccare: “Dio si è fatto presente in una umanità da umanizzare, ciò obbliga a pensare un Dio in divenire, Dio impegnato nella storia degli uomini. Dio non sarà totalmente Dio finché l’umanità non sarà davvero in piedi, autenticamente umana”. E terminano - o quasi - il loro saggio con un paragrafo importante: “La salvezza, (la riuscita dell’umanità) si gioca nell’oggi, nel quotidiano della vita”.
Queste conclusioni, che si basano sull’esperienza di uomini di fede impegnati nel mondo operaio, si rivolgono anche a tutti coloro che vogliono vivere intensamente la loro fede, quale che sia il contesto in cui vivono: “Sì, noi crediamo che non ci sia altro luogo per incontrare Dio che l’umanità”. “Il cristianesimo, è la religione dell’uscita dalla religione”, scrive con umorismo ma seriamente Marcel Gauchet. (3)
È un libro molto facile da leggere, che invita ciascuno ad interrogarsi sulla propria fede: “Credo in te, Dio in divenire, Dio in movimento, Dio presente ma allo stesso tempo futuro, Dio che rendi liberi e che ci aiuti a scrollarci di dosso la polvere delle nostre certezze” (Claude Simon).
(1) Joseph Moingt, Dieu qui vient à l’homme, Le Cerf, 2002
(2) Dietrich Bonhoeffer, Résistance et soumission, Lettres et notes de captivité, Les Editions
Labor et fides
(3) La condition historique, Stock 2003
La sortie de religion, est-ce une chance? (L’Harmattan), di Michel Gigand, Michel Lefort,
Jean-Marie Peynard, José Reis, Claude Simon, pp. 193, € 18.
Una croce fondata sulla P2
Nasce un movimento per la difesa del crocifisso: ispirato dal Venerabile
di Carlo Tecce e Giampiero Calapà (il Fatto, 03.07.2010)
Il crocifisso di legno cade tre volte dal trespolo di una lavagna. Le braccia dell’emozionato Roberto Mezzaroma che l’agitava, in quel momento mistico e (un po’) pacchiano, erano le protesi di Licio Gelli, il gran maestro della P2.
Il cosiddetto Venerabile ha ispirato il Movimento etico per la difesa internazionale del crocifisso (Medic), presentato nella sala congressi del Michelangelo di Roma, un albergo a pochi passi dal Vaticano. La politica è corsa a sostenere l’iniziativa: c’era Olimpia Tarzia, consigliere regionale Pdl, l’ex direttore del Tg1 Nuccio Fava, atteso invano l’ex mezzobusto del Tg1 Francesco Pionati (Adc) e sono stati annunciati telegrammi ricevuti (ma non letti) dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, dal presidente emerito Francesco Cossiga e dal “divo” Giulio Andreotti.
Il disegno dell’uomo P2
Per la Chiesa è un appuntamento imperdibile: don Walter Trovato, cappellano della polizia di Stato, è il primo a sedersi al tavolo degli oratori; l’anziano monsignore Antonio Silvestrelli è l’ultimo. Non è facile contare i collarini bianchi dei preti. Gelli ha scritto il codice etico e addirittura disegnato il simbolo dell’associazione: una sfera tagliata da cerchi concentrici su sfondo azzurro, una croce nera avvolta in una stretta di mano, quattro frecce ai bordi. Il Venerabile è nella sua Villa Wanda sulle colline di Arezzo: “Questa è la mia nuova battaglia - spiega al Fatto Quotidiano - e il colore scelto per il simbolo rimanda al mare, al cielo e al grembiule della Madonna, il resto a San Francesco e le frecce rappresentano i punti cardinali”.
L’età avanzata ha impedito a Gelli di officiare la cerimonia in una sala moderna, affollata di uomini e donne vestiti con abiti scuri da sera nel caldo di mezzogiorno. Un amico di Gelli ha rimpianto l’assenza del Venerabile, criticando “la gestione troppo rude della cerimonia del costruttore Mezzaroma”. Accenti che si mescolano, spillette che si confondono. Segni, simboli, messaggi più o meno occulti, più o meno massonici. Il secondo capitolo di uno Statuto suggellato da Gelli, più che a un piano di rinascita nazionale, somiglia a una crociata pop: difendere, coinvolgere, riconoscere.
“Medic vuole far emergere - declama Mezzaroma - le radici giudaico-cristiane del mondo occidentale e promuovere il significato autentico del crocifisso quale simbolo condiviso di amore assoluto; nasce con l’ambizione di essere un movimento trasversale, che raccoglie non solo cattolici ma anche ebrei, musulmani, atei, convinti che la croce abbraccia l’umanità intera”. Quasi un comizio, senza leggere, e un po’ fuori dal protocollo per un evento mondano in pieno giorno.
L’imprenditore Mezzaroma, ex europarlamentare di Forza Italia, è stato nominato segretario generale del Medic in una riunione a Villa Wanda che, diretta come è logico da Gelli, ha indicato presidente onoraria la duchessa d’Aosta, Silvia Paternò, dei marchesi di Regiovanni , dei conti di Prades, dei baroni di Spedalotto, appartenente al Sovrano Militare Ordine di Malta .
Una roba da far impallidire la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare di fantozziana memoria. Araldica pesante, insomma, tanto che “siamo già in 500: faccio politica per passione, sono iscritto al Pdl; stimo tantissimo Gel-li, ma non mi confido al telefono con nessuno” e attacca la cornetta Mezzaroma, contattato all’ultima forchettata di un banchetto fastoso. Il costruttore romano è un fan della prim’ora dei Circoli del buon governo di quel Marcello dell’Utri appena condannato a 7 anni in appello per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ex romanista parente di Lotito
Ex europarlamentare, responsabile del dipartimento “lotta alla povertà” del partito ai tempi di Forza Italia, Mezzaroma è lo zio della moglie di Claudio Lotito. Nel 2005 diventò il secondo azionista della Lazio vantandosi di “aver già salvato la Roma nel 1992 assieme ai miei fratelli, perché bisogna costruire non demolire”. E detto da lui vale un capitale, perché di cemento se ne intende. L’avventura con la Lazio è costata una condanna a un anno e 8 mesi, per un accordo definito “interpositorio” che permise a Mezzaroma di acquistare il 14,61% delle azioni biancocelesti di fatto per conto di Lotito, in modo da nascondere la titolarità del pacchetto completo con cui lo stesso Lotito avrebbe poi lanciato l’Opa. Aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza, per Lotito la condanna è di due anni.
Tra i padrini chiamati a battezzare il Medic, c’era anche monsignor Alberto Silvestrelli: un alto prelato che risponde all’invito di Licio Gelli. Esponente del governo Vaticano con l’incarico di sottosegretario alla Congregazione per il clero, oltre ad essere giudice di appello del Vicariato di Roma (il tribunale dei preti) e commissario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, si occupa di sociale: alcolismo e disabili. Ai tempi della gestione Ratzinger, monsignor Silvestrelli ha ricoperto incarichi anche nella Congregazione per la dottrina della fede, la moderna Inquisizione.
Il consigliere regionale (Lazio) Olimpia Tarzia, altra commensale, vanta un ampio curriculum tra fede e politica: fondatore (e segretario generale dal ‘97 al 2006) del Movimento per la vita, il cui successo più importante è stato il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita nel 2005. “Il crocifisso - ha affermato Tarzia - è simbolo di vita: si invoca lo Stato laico, ma lo Stato laico come democratico difende i diritti umani e il primo di questi diritti è quello alla vita”.Il Medic è pronto a difendere il crocifisso “anche con azioni forti, a promuovere un referendum che rimetta al popolo italiano la decisione di continuare a riconoscersi in quei valori che hanno delineato i confini culturali e spirituali dell’Italia e dell’Europa”. A quei valori che affascinano Licio Gelli
LA CROCE
di don Aldo Antonelli
"Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua".
Su questa affermazione di Gesù è stata costruita, nel tempo, tutta una "spiritualità della sofferenza" che nulla ha a che fare con l’etica evangelica e che sarebbe invece tutta da psicanalizzare: la sofferenza come mortificazione, come scelta di valore primario, come autoflagellazione, e via degradando. Chi non ricorda il cilicio come strumento di automortificazione nella vita di certi "malati" abusivamente chiamati santi?
Per noi cristiani la croce non è un valore a sè da vivere come scelta. E’ l’inverso. Noi facciamo le nostre scelte e vi restiamo fedeli anche a costo della croce. Noi la croce non la amiamo, come non lìha amata Gesù, ma sappiamo abbracciarla, se necessario, per un amore più grande.
Ernesto Balducci, nella sua acuta analisi, in una delle sue ultime omelie, a proposito, diceva: "Per Gesù prendere la croce non vuol dire fare le mortificazioni. La croce è un emblema di supplizio pubblico, non uno strumento di tortura privata. La croce era il destino dei condannati politici. Gesù prese la croce, cioè assunse su di sè l’obbrobrio della condanna pubblica ed andò avanti fino alla sua morte. Prendere la croce vuol dire accettare questo destino, farsene carico. Non vuol dire fare penitenza, non mangiare carne il venerdì, fare fioretti: Vuol dire assumersi, quando fosse necessario, il peso di un’esclusione per amore dell’umanità liberata da tutte le divisioni" (Gli ultimi tempi vol.3 p.285).
Ed Enzo Bianchi, priore di Bose, non molto tempo fa gli faceva eco scrivendo su La Repubblica del 2.12.2008 che "la croce è una necessitas per Gesù e, alla sua sequela, per il cristiano: necessitas umana, perché in un mondo ingiusto il giusto può solo essere osteggiato, perseguitato e, se possibile, ucciso".
Nulla ma che fare, naturalmente, con la prepotenza razzista di quanti ne vogliono fare strumento di potere e di supremazia: ""E’ ambigua e turbante la croceche si associa a un potere pubblico, fra la rivalsa della potenza e la riminiscenza di una iniqua condanna" scrive Adriano Sofri.
Mentre da Cuba Cincio Vitier scrive testualmente: "Quanti simboli sacri equivoci! La spada venne con la croce e la croce molte volte divenne spada.Croce e spada trasformate in bilancia. E non a servizio della giustizia ma dell’ingiustizia e della crudeltà. Non la bilancia dell’angelo ma quella del mercante impuro che commercia con gli esseri umani".
Buona domenica.
Aldo
Ménage à trois
di don Aldo Antonelli
"Quando in un dato Paese o in dato momento della storia, vedo che gli applausi piovono, che la Religione è onorata da tutti e che Dio come la Chiesa hanno un grande successo, ogni spirito prudente e veramente ispirato dalla fede sarà non già tranquillo, come sovente siamo stati, ma inquieto, temendo che sia qualche specie d’idolo che si adora al posto del vero Dio, e che sia qualche deformazione della religione ad avere un tale successo"! Così il card. John H.Newman già negli anni del secondo ottocento (Pensées sur l’eglise). Chissà cosa direbbe oggi...!
Fatto sta che se il dio di Bossi e di Berlusconi è un idolo (e lo è!) allora la chiesa che lo ostenta e che convive con la Lega e il Pdl non è una chiesa ma una setta.
E i cristiani che essa genera benedice e difende più che cittadini del mondo, quali dovrebbero essere i veri figli di Dio, sono semplicemente adepti di una setta, come i massoni o gli iscritti alla P2.
Culto del capo, obbedienza cieca e ritualità fine a se stessa sono i pilastri cardine di questo nuovo modo di essere cristiani e di fare politica. Il tutto abbondantemente annaffiato da pioggia di danaro e propagandado dalle reti uniticate raimediaset.
In questo ménage à trois (chiesa-politica-denaro) Berlusconi ruba, Bagnasco assolve e il bottino viene equamente diviso.
Il popolo bue guarda, ammira e plaude.
Aldo
La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha accolto la domanda di rinvio alla Grande Camera del caso Lautzi sull’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche. La notizia è stata subito accolta con “vivo compiacimento” dal ministro degli Esteri Frattini, mentre il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, ha parlato di “riaffermazione dell’identità del paese”. Positivo anche il commento di don Domenico Pompili, portavoce della Cei, che parla di “un passo avanti nella giusta direzione”.
Il presidente della Conferenza Episcopale, il cardinale Angelo Bagnasco ha commentato la decisione definendola “un atto di buon senso auspicato da tutti perché rispetta la tradizione viva del nostro Paese e riconosce un dato storico oggettivo secondo cui alla radice della cultura e della storia europea c’é il Vangelo”. Era stata proprio la Corte dei Diritti dell’Uomo a dare ragione a Soile Lautzi Albertin, cittadina finlandese, e al marito che otto anni fa avevano cominciato il lungo iter giudiziario chiedendo di togliere il crocifisso dalle aule in nome del principio di laicità dello Stato. Strasburgo aveva sovvertito la sentenza del Consiglio di Stato, condannando l’Italia anche ad un risarcimento di 5 mila euro per danni morali.
Il ricorso dello Stato italiano era un atto dovuto, sia per sensibilità diplomatica, sia per la questione del risarcimento. Il rischio è che la Grande Camera (la cui composizione sarà comunicata nei prossimi giorni) si pronunci in linea con la Corte di Strasburgo. In quel caso, lo Stato italiano potrebbe essere costretto a pagare il risarcimento, ma non a rimuovere la causa. La sentenza non porterebbe insomma automaticamente alla rimozione dei crocifissi dalle scuole.
Nei Sacri Palazzi sperano comunque che la Grande Camera si esprima in maniera “equilibrata”, come ha fatto in altri contesti ad esempio nel caso Turchia, o nel caso burqa. “In quei casi - dice un giurista vaticano - è stato fatto valere il principio del margine di apprezzamento, che è uno dei due principi su cui si fonda l’Europa. L’altro è la sussidiarietà”. Mentre in questo caso, sostiene, “non è stata considerata la storia del paese, al di là della statistica”. Ma, nelle stanze vaticane, preferiscono non predicare grande ottimismo: “Era un passo dovuto. Ma se la Grande Camera confermasse la condanna di Strasburgo, creerebbe un precedente importante per tutta l’Europa, e non solo per l’Italia”.
* il Fatto, 03.03.2010
Il Papa il potere e il veleno dei cardinali
di Vito Mancuso (la Repubblica, 4 febbraio 2010)
Sarà vero che il documento calunnioso sul direttore di Avvenire è stato consegnato al direttore del Giornale niente di meno che da Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, dietro esplicito mandato del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone, numero due della gerarchia cattolica a livello mondiale? E che l’insigne porporato si è servito di Vian e di Feltri per colpire il direttore di Avvenire in quanto espressione di una Conferenza Episcopale Italiana a suo avviso troppo indipendente e troppo politicamente equidistante? E che quindi il vero bersaglio del cardinal Bertone era il collega e confratello cardinal Bagnasco? Sarà vera la notizia di questo complotto intraecclesiale degno di papa Borgia e di sua figlia Lucrezia?
Come cattolico spero di no, ma come conoscitore di un po’ di storia e di cronaca della Chiesa temo di sì. Del resto fu l’allora cardinal Ratzinger, poco prima di essere eletto papa, a parlare di "sporcizia" all’interno della Chiesa (25 marzo 2005). Qualcuno in questi cinque anni l’ha visto fare pulizia? Direi di no, e forse non a caso proprio ieri egli ha parlato di «tentazione della carriera, del potere, da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di governo nella Chiesa». Quindi è lecito pensare che la sporcizia denunciata dal Papa abbia potuto produrre l’abbondante dose di spazzatura morale di cui ora forse veniamo a conoscenza.
Naturalmente come siano andate davvero le cose è dovere morale dei diretti interessati chiarirlo. Con una precisa consapevolezza: che gli storici un giorno indagheranno e ricostruiranno la verità, la quale alla fine emerge sempre, chiara e splendente, perché non c’è nulla di più forte della verità. Le bugie hanno le gambe corte, dice il proverbio, e questo per fortuna vale anche per il foro ecclesiastico. Siamo in un mondo che è preda di una devastante crisi morale. Le anime dei giovani sono aggredite dalla nebbia del nichilismo. Parole come bene, verità, giustizia, amore, fedeltà, appaiono a un numero crescente di persone solo ingenue illusioni.
La missione morale e spirituale della Chiesa è più urgente che mai. E invece che cosa succede? Succede che la gerarchia della Chiesa pensa solo a se stessa come una qualunque altra lobby di potere, e come una qualunque altra lobby è dilaniata da lotte fratricide all’interno. Certo, nulla di nuovo alla luce dei duemila anni di storia e di certo nessun cattolico sta svenendo disilluso. Rimane però il problema principale, e cioè che oggi, molto più di ieri, il criterio decisivo per fare carriera all’interno della Chiesa non è la spiritualità e la nobiltà d’animo ma il servilismo, e che la dote principale richiesta al futuro dirigente ecclesiastico non è lo spirito di profezia e l’ardore della carità, ma l’obbedienza all’autorità sempre e comunque.
Eccoci dunque al tipo umano che emerge dalle cronache di questi giorni: il cosiddetto "uomo di Chiesa". È la presenza sempre più massiccia di persone così ai vertici della Chiesa che mi rende propenso a credere che le accuse alla coppia Bertone-Vian siano fondate. Impossibile però non vedere che nella storia ecclesiastica misfatti di questo genere contro gli elementari principi della morale ne sono avvenuti in quantità. Anzi, che cosa sarà mai un foglietto calunnioso passato al direttore di un giornale laico per far fuori il direttore del giornale cattolico, rispetto alle torture e ai morti dell’Inquisizione? È noto che il potere temporale dei papi si è basato per secoli su un documento falso quale la Donazione di Costantino, attribuito all’imperatore romano e invece redatto qualche secolo dopo dalla cancelleria papale.
Che cosa concludere allora? Che è tutto un imbroglio? No, il messaggio dell’amore universale per il quale Gesù ha dato la vita non è un imbroglio. L’imbroglio e gli imbroglioni sono coloro che lo sfruttano per la loro sete di potere, per la quale hanno costruito una teologia secondo cui credere in Gesù significa obbedire sempre e comunque alla Chiesa. Secondo l’impostazione cattolico-romana venutasi a creare soprattutto a partire dal concilio di Trento la mediazione della struttura ecclesiastica è il criterio decisivo del credere. Lo esemplificano al meglio queste parole di Ignazio di Loyola rivolte a chi «vuole essere un buon figlio della Chiesa»: «Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica». Ne viene che il baricentro spirituale dell’uomo di Chiesa non è nella propria coscienza, ma fuori di sé, nella gerarchia. I "principi non negoziabili" non sono dentro di lui ma nel volere dei superiori, e se gli si ordina di scrivere la falsa donazione di Costantino egli lo fa, e se gli si ordina di torturare gli eretici egli lo fa, e se gli si ordina di appiccare il fuoco alle fascine per il rogo egli lo fa, e se gli si ordina di passare un documento falso egli lo fa. Ecco l’uomo di Chiesa voluto e utilizzato da una certa gerarchia.
È questa la sporcizia a cui si riferiva il cardinal Ratzinger nel venerdì santo del 2005? È questo il carrierismo denunciato ieri da Benedetto XVI? Il messaggio di Gesù però è troppo importante per farselo rovinare da qualche personaggio assetato di potere della nomenklatura vaticana. Una fede matura sa distaccarsi dall’obbedienza incondizionata alla gerarchia e se vede bianco dirà sempre che è bianco, anche se è stato stabilito che è nero. Né si presterà mai a intrighi di sorta "per il bene della Chiesa". La vera Chiesa infatti è molto più grande del Vaticano e dei suoi dirigenti, è l’Ecclesia ab Abel, cioè esistente a partire da Abele in quanto comunità dei giusti. In questa Chiesa quello che conta è la purezza del cuore, mentre non serve a nulla portare sulla testa curiosi copricapo tondeggianti, viola, rossi o bianchi che siano.
Proposta del Pdl depositata al Senato. Primo firmatario De Gregorio.
51.646 euro per finanziare i nuovi acquisti
"Chi tocca il crocifisso va in galera
reato levarlo dagli uffici pubblici"
La norma prevede l’obbligo di esporre la croce. I senatori del centrodestra: comprarne 40 mila
di Carmelo Lopapa (la Repubblica, 10.12.2009)
ROMA - Crocifisso in tutti gli uffici pubblici. E poi ospedali, porti, stazioni, aeroporti, carceri. Obbligatorio. Sanzionato di «arresto fino a sei mesi» o ammenda fino a mille euro non solo chi lo rimuove, ma anche il funzionario pubblico che si rifiuterà di esporlo. «C’è uno scontro di civiltà. E ognuno deve dire da che parte sta. Noi stiamo dalla parte della Chiesa, non ce ne vergogniamo». Il primo firmatario Sergio De Gregorio commenta così il disegno di legge depositato in questi giorni da nove senatori ultra-cattolici del Pdl al Senato. «Magari un po’ ruvido, soprattutto nelle sanzioni, ma necessario», sostiene il presidente della fondazione Italiani nel mondo.
A firmare il testo che, assicurano, presto sarà «calendarizzato» per l’esame a Palazzo Madama, anche Juan Esteban Caselli, eletto in Argentina, Gentiluomo del Papa in America latina e delegato presso il sovrano ordine dei Cavalieri Malta. Tra i promotori, anche Raffaele Calabrò, artefice del testo sul testamento biologico passato al Senato. Il disegno di legge - neanche a dirlo - segue la sentenza della Corte di Strasburgo che un mese fa ha giudicato la presenza del Crocifisso un «limite alla libertà religiosa», consta di soli 5 articoli e prevede anche una copertura finanziaria.
Già, perché se passasse il vincolo, occorrerebbe anche dotare tutti gli uffici del simbolo cristiano. Così, il quinto e ultimo articolo stanzia 51.646 euro per il 2010, da recuperare dal «Fondo di riserva» del ministero dell’Economia. E tanto dovrebbe bastare, spiegano i promotori, per acquistare dai 30 ai 40 mila Crocifissi, di quelli semplici, già visibili nelle aule scolastiche. Per il resto, oltre a riconoscere (articolo 1) alla croce il ruolo di «emblema di valore universale della civiltà e della cultura cristiana» e di simbolo perciò «irrinunciabile», si prevede (articolo 2) la sua esposizione «al fine di testimoniare il permanente richiamo della Repubblica italiana al proprio patrimonio storico-culturale radicato nella tradizione cristiana».
Da qui, l’esposizione non solo «in tutte le aule delle scuole, delle università, delle accademie» (articolo 3), ma anche «negli uffici della pubblica amministrazione e degli enti locali territoriali, in tutte le aule dei consigli regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali e delle comunità montane, in tutti i seggi elettorali», e ancora nelle carceri, negli ospedali, le stazioni, i porti, gli aeroporti in tutte le sedi diplomatiche. Chi lo rimuove «o lo vilipende, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da 500 a 1.000 euro». E la stessa sanzione è prevista per «il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che si rifiuterà di ottemperare all’obbligo».
Dice De Gregorio: «Non è una proposta integralista. Ma rispondiamo con inquietudine all’aggressività che si manifesta contro la nostra identità cristiana». Il governo per ora tace. L’opposizione si prepara a dare battaglia. «Un atto di insopportabile piaggeria servile - attacca Francesco Pardi dell’Idv, tra i primi ad opporsi alla proposta - Esibizionismo strumentale per procacciarsi la benevolenza dei vescovi. Lo fronteggeremo in aula».
La conversione dei Celti
di MICHELE BRAMBILLA (la Stampa, 1/12/2009)
Da qualche tempo a questa parte i più pugnaci difensori della cristianità sono uomini che non hanno fama di baciapile, e neppure di cattolici praticanti. Roberto Castelli, che ieri ha proposto l’inserimento della croce nel tricolore, nel 1998 aveva voluto celebrare il suo secondo matrimonio con un plateale rito celtico a Pontida.
Il ministro Frattini, che s’è detto possibilista sulla proposta di Castelli, non ha nel curriculum matrimoni padani, ma neppure parrocchie e oratori. Né viene dal mondo cattolico Ignazio La Russa, che ieri ha sì stoppato l’idea della croce nella bandiera, ma solo pochi giorni fa aveva rivolto ai giudici della Corte europea - che hanno chiesto la rimozione dei crocifissi dalle aule pubbliche - un colorito «possono morire».
E’ così. La Chiesa tace; o, se parla, lo fa per difendere la libertà religiosa anche dei musulmani, come hanno fatto ieri i vescovi svizzeri. E invece parlano, anzi urlano, soggetti che fino a poco tempo fa non avevano mai dato prova di avere a cuore il futuro della cristianità. Il caso più eclatante è quello della Lega. Castelli, infatti, ha detto di non parlare a titolo personale ma del partito, precisando che al prossimo consiglio dei ministri la richiesta di mettere la croce al centro della nostra bandiera potrebbe e dovrebbe essere formalizzata. E’ un’iniziativa che fa effetto, anche perché in un colpo solo la Lega non solo «riscatta» quel cattolicesimo che aveva spesso un po’ maltrattato (con nozze celtiche appunto, ma anche con altri riti pagani alle foci del Po e con la promessa-minaccia di una nuova Riforma protestante); ma «riscatta» anche, e perfino, quel tricolore che Bossi diceva di utilizzare volentieri come carta igienica.
Queste improvvise conversioni stupiscono sia i laici sia i cattolici. Da che cosa sono provocate? Le risposte possono essere due, non necessariamente l’una alternativa all’altra.
La prima è che anche la storia, oltre che le vie del Signore, è difficilmente prevedibile e riserva spesso molte sorprese. Poniamoci dal punto di vista di un credente. Questi può pensare che è proprio vero che la Provvidenza a volte scrive diritto su righe storte. Nel concreto: l’avanzata dell’Islam in Occidente ha ridestato una cristianità che pareva in sonno, e anche persone che da anni avevano abbandonato la pratica religiosa hanno sentito in pericolo la propria tradizione e reagito con imprevedibile vigore e zelo. Insomma l’Europa secolarizzata avrebbe capito che, dovendo scegliere, il Vangelo è preferibile al Corano.
La seconda risposta è ancora più pragmatica. E vuole che certe conversioni siano dettate solo da motivi politici. Si dimentica spesso, ad esempio, che la Lega deve fare i conti con un elettorato che è fondamentalmente l’ex elettorato della Dc, e che viene in gran parte dalle parrocchie. Più in generale, poi, l’uso della croce sarebbe funzionale alla Battaglia con la maiuscola della Lega: quella contro l’immigrazione.
Quale che sia la risposta giusta - e probabilmente c’è del vero in entrambe le risposte - sia i laici sia i cattolici debbono tenere in grande attenzione l’atteggiamento della Chiesa, che non è affatto da crociata, ma di grande prudenza. Anche qualora fossero animate dalle migliori intenzioni, infatti, certe campagne pro-croce sono quanto meno viziate dall’ingenuità del neofita, il quale non conosce affatto il significato di ciò che crede di difendere. Il cristianesimo è un qualcosa che va proposto; non imposto. Ogni volta che qualcuno ha cercato di imporlo con la legge o con la forza - e nella storia è successo - ha finito solo per farlo detestare. La vera forza del Vangelo è stata, nel corso dei secoli, l’aver cambiato la vita di tante persone, le quali con il loro cambiamento hanno «contagiato» altre persone. E’ stata la carità, più di ogni altra, la virtù che ha convinto gli uomini a diventare cristiani: carità che vuol dire uno sguardo diverso nei confronti del prossimo e della vita.
La Chiesa è prudente e non appoggia certe battaglie proprio perché sa che la croce non può essere impugnata come una clava. E’ un segno sempre «per» tutti e mai «contro» qualcuno. Chi vorrebbe imporre il crocifisso ovunque, ora anche nella bandiera, non si rende conto che la mescolanza tra Dio e Cesare è perfino blasfema. E non si rende conto che così facendo si comporta esattamente come quell’Islam fondamentalista che vuol combattere.
Gherush92
Committee for Human Rights
ECOSOC Organization
GLI AFFAMATI DAL CROCIFISSO
La disutile presenza del pontefice al vertice della FAO, se da una parte evidenzia l’incapacità di questo mastodontico organismo ad affrontare le tematiche della fame, dall’altra ci costringe a delle osservazioni sull’enciclica Caritas in Veritate. Il testo, richiamato più volte nel discorso del papa in plenaria, è l’apogeo di un’ideologia universalista e neo-omologazionista con la quale il cristianesimo vorrebbe costruirsi la patente di risolutore dei problemi della povertà e della fame estrema del mondo, dopo esserne stato uno degli artefici principali in Africa, in America Latina e non solo.
In verità, la Caritas in Veritate non risolve né il problema della povertà, né quello della fame, anzi le aggrava. Il difetto principale sta nel voler gestire il problema con l’assistenzialismo e l’evangelizzazione. Il titolo sintetizza la teoria: la carità nella verità ovvero nell’evangelizzazione; il corollario riepiloga il programma: la croce per un pugno di riso.
Il cristianesimo pratica e prescrive l’evangelizzazione e l’uniformità sotto forma di un unico modello culturale. La diffusione del cristianesimo non è altro che la diffusione di un prototipo universale precostituito, che ostacola la conoscenza e gli scambi fra le specie, fra i popoli e le culture. E’ un processo contro natura perché non accetta la diversità e si adopera per ricondurre le migliaia di opere e culture che incontra all’interno di uno schema precostituito, auto referenziato, ma del tutto inefficace a spiegare e interagire con l’universo, la diversità culturale e i fenomeni naturali. L’evangelizzazione, insieme con altre forme di omologazione, è la causa principale della cancellazione delle diversità, porta alla perdita di conoscenza e ha significato e provocato la scomparsa e l’assimilazione di molti popoli e culture. L’evangelizzazione è una delle principali cause della povertà, della miseria e della fame estrema, perché cancellando la diversità si elimina la conoscenza che è olistica, il bene più prezioso, il motore per la produzione di cibo e di benessere.
L’enciclica Caritas in Veritate, sulla quale si sono espressi in modo servile, ossequioso e incompetente politici e intellettuali e la FAO, è, in realtà, un guazzabuglio tuttologico che affronta i temi della globalizzazione, della cooperazione internazionale, dello sviluppo umano, dell’ambiente, dei cambiamenti climatici, della natalità, della finanza internazionale, del sindacato, usando qua è là parametri di giudizio ereditati, secondo la convenienza, da vulgate terzomondiste e neoglobal da una parte e da analisi economiche di stampo liberale dall’altra.
Tesi e opinioni sostenute con ambiguità, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, fatte per il politicume, per accontentare i benpensanti, i teorici della banalità, i conformisti ad oltranza e, nel caso, qualche cariatide ammuffita degli organismi intergovernativi.
L’enciclica, invece, disboscata e ripulita dalle molte ed inutili incrostazioni, afferma che la salvezza dell’uomo e dei popoli viene solo “dall’unità della carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”.
A questo punto vogliamo affermare in maniera chiara che il diritto al cibo non può essere mediato né da Gesù Cristo né da speculazioni finanziarie né da altre presunte verità. Il diritto al cibo deve essere garantito e basta, lasciando la possibilità a ciascuno di riappropriarsi della propria conoscenza per la produzione delle proprie risorse alimentari. Sembrerebbe che il papa voglia fare concorrenza alla FAO nell’agguantare risorse finanziarie da utilizzare nell’assistenzialismo o per lo sviluppo della Caritas in Veritate, dopo averle opportunamente decurtate a proprio uso e consumo. E’ così da sempre.
Il documento parla di carità, ma non propone, come sempre, nessuna regola su come, cosa e quanto dare, su come scambiare, su come creare benessere, sulla soluzione del problema della povertà e della fame. La carità cristiana, infatti, “supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. La “città dell’uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione.” Si tratta, viceversa, proprio di un problema di giustizia per sanare le ingiustizie sociali, economiche, ambientali e spirituali commesse nel corso dei secoli da parte del cristianesimo - con la scusa della misericordia che supera la giustizia - per appropriarsi arbitrariamente e avidamente di risorse, uomini, anime, conoscenze e spiritualità. La concezione della carità cristiana ha bisogno di uniformità umana indistinta, “universalizzata”, ridotta all’incapacità di provvedere a se stessa, quale terreno fertile per un disegno di evangelizzazione-omologazione che si perpetua da secoli.
La carità cristiana, così definita, non ha alcuna parentela con il concetto ebraico e islamico rispettivamente di Tzedaka e Sadaqah che vuol dire giustizia e si rifà ai concetti giustizia e diritto sociale e di distribuzione dei beni e che tende a considerare la povertà non uno status perenne da utilizzare per attingere proseliti, ma un incidente di percorso a cui porre rimedio in modo equo ed efficace. Secondo Maimonide esistono otto livelli di carità ma la forma più alta è quella di aiutare qualcuno ad aiutare se stesso cioè a provvedere ai mezzi per la sua riabilitazione.
D’altronde il documento incalza quando sostiene che “le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell’amore di Dio e che l’umanità intera è alienata quando si affida a progetti solo umani, a ideologie e a utopie false........Tra evangelizzazione e promozione umana - sviluppo, liberazione - ci sono infatti dei legami profondi ”
Cosa significa tutto ciò? L’enciclica lo spiega in modo chiaro e inequivocabile in questo passaggio chiave dove affonda la lama della evangelizzazione:
“Per questo motivo, se è vero, da un lato, che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture dei diversi popoli, resta pure vero, dall’altro, che è necessario un adeguato discernimento. La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali. Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano », porta in se stesso un simile criterio.”
La carità non è, quindi, semplice atto di donazione ma, addirittura, metro di giudizio del cristianesimo, per stabilire quali culture e quali popoli possono essere inclusi nella “comunità universale” e quindi possono mangiare. Una nuova inquisizione, dunque, dal volto inumano, dove la scelta è: fame o conversione. Qual è il metodo migliore per convertire se non mantenere popoli e comunità in uno stato perenne di indigenza?
L’enciclica è, peraltro, in perfetta continuità con la dichiarazione Dominus Jesus dello stesso Ratzinger dove “La missione ad gentes anche nel dialogo interreligioso conserva in pieno, oggi come sempre, la sua validità e necessità ...e che il dialogo interreligioso deve avere essenzialmente lo scopo di convertire”.
L’evangelizzazione ha praticato il razzismo, lo sfruttamento di risorse ed uomini, fino alla schiavitù.
Ecco cosa significava il rifiuto della conversione nel “Requerimemiento”, il documento letto dai cristiani in spagnolo ai popoli dell’America Latina: “...Ma, se voi non vi convertite (al cristianesimo) e con malizia frapponete ritardi, io vi dichiaro che, con l’aiuto di Dio, noi faremo ingresso con la forza nel vostro paese e vi faremo guerra in tutti i modi e maniere che potremo e vi assoggetteremo al giogo e all’obbedienza della Chiesa, e prenderò le vostre persone e figli e i farò schiavi e come tali li venderò....” .
Ed ecco ancora cosa veniva sancito nel breve Dum Diversitas : “Noi concediamo per il presente atto, con la nostra Autorità apostolica, pieno e libero permesso di invadere catturare e sottomettere i saraceni e i pagani e qualunque altro infedele o nemico di Cristo, in qualunque luogo, come anche nei suoi regni ducati, contee e principati e altre proprietà... e di ridurre queste persone a schiavitù perpetua”. Il testo della bolla del papa Nicola V specifica la concessione di ridurre a schiavitù perpetua gli africani e riguarda gli abitanti di tutti i territori a partire da Capo Bojador a Capo Nun e quindi «tutte le coste meridionali fino al limite estremo». Il papa allora poteva condannare interi continenti, come l’Africa, alla cattività perpetua perché esisteva la teologia della schiavitù. Le conseguenze le conosciamo: decine e decine di milioni di morti ammazzati e di schiavi. Ecco da dove viene la povertà e la fame.
La teologia della schiavitù appare come lo sbocco inevitabile dell’evangelizzazione, la quale, definita come il motore di un processo evolutivo dell’umanità verso valori più elevati, per giustificare la propria esistenza, deve necessariamente schematizzare i rapporti fra i popoli (e fra le diverse culture o società), secondo un sistema gerarchico in cui si degradano gli altri per affermare il ruolo guida del cristianesimo. Se l’evangelizzazione è un’operazione di emancipazione, a cui si è sempre associato il significato di civilizzazione, è implicito che deve essere diretta ad emancipare e a civilizzare chi ne ha bisogno, nel caso specifico, gli Ebrei, i Mori, gli Africani e poi gli Indiani, i Roma. Questi non solo erano considerati una merce ma, secondo la teologia della schiavitù, erano destinati ad un’esistenza di subordinazione e assoggettamento ai cristiani, come metodo per evangelizzare il mondo.
Ora c’è da chiedersi che differenza epistemologica c’è tra i documenti di oggi che reiterano il ricatto dell’evangelizzazione come chiave per accedere alla “carità” e le disposizioni di cinque secoli fa che hanno messo interi popoli, allora pienamente in grado di vivere in armonia con l’ambiente, traendone risorse alimentari e il giusto godimento per la vita, sotto il giogo del crocifisso attraverso: separazioni delle famiglie, battesimi forzati, editti da fè, inculturazione, encomiendas, la tratta degli schiavi fino ad oggi con il costoso assistenzialismo perpetuo?
Si resta quindi scioccati nel vedere il massimo esponente della Chiesa Cattolica - campione dell’impoverimento e della distruzione secolare di popoli - dare lezioni alla FAO su come risolvere il problema della povertà che ha contribuito a creare. Si resta anche scioccati nel vedere la FAO senza programmi diventare succube di queste inconsistenti teorie. Nessun “mea culpa”, nessuna volontà di confrontarsi con la propria storia e di riconoscere che il processo di evangelizzazione, del passato e del presente, sia produttore e mantenitore di povertà in quanto distruttore di quella diversità culturale e ambientale data in principio dal Creatore.
Un’operazione di costante revisione e falsificazione storica in contrasto, peraltro, con la Convenzione sulla Diversità Biologica nella quale si prescrive di “rispettare, conservare e mantenere la conoscenza, le innovazioni e le pratiche delle popolazioni indigene e delle comunità locali, comprendendo gli stili di vita tradizionali come rilevanti per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica”.
Questo principio è in netto contrasto con la concezione dell’enciclica dove, invece, è continua l’ipotesi di un’omogeneizzazione del mondo verso lo status entropico del pensiero unico, del cibo unico, della cultura e religione unica.
E’ assolutamente necessario fermare l’opera degli oltre 300.000 missionari che assediano popoli e nazioni nel nome dell’uniformità e interrompere la loro attività distruttiva di cristianizzazione. E’ necessario anche contenere l’opera delle NGO che si ispirano ai principi dell’evangelizzazione e dell’assistenzialismo cristiano.
Secondo Gherush92 è necessario che vengano riaffermati i seguenti principi, senza il ricatto della conversione:
Il principio della solidarietà - aiutare gli altri ad aiutare se stessi;
Il principio della riparazione - ogni danno ad un popolo provocato da razzismo e/o schiavitù deve essere compensato;
Il principio del negoziato - ogni decisione deve essere presa in accordo con ciascun popolo;
Il principio dell’extraterritorialità - ogni cultura deve avere il diritto di gestire la sua identità come un popolo e una nazione;
Il principio della salvaguardia della diversità culturale.
Svelato l’arcano ci sembra chiaro che l’annunciata visita del papa in Sinagoga sia più dannosa che utile. Chiediamo pertanto che non venga. Ad ogni buon conto non porti con se né la Dominus Jesus né la Caritas in Veritate come dono e, nella denegata ipotesi, tale regalia non sia accettata.
NO ALLA VISITA DEL PAPA IN SINAGOGA
Sostieni Gherush92
Committee for Human Rights
UN ECOSOC
gherush92@gherush92.com
Se i cattolici disobbediscono
di Vito Mancuso (la Repubblica, 21 novembre 2009)
Dieci anni fa Pietro Prini pubblicò un libro che fece scalpore: Lo scisma sommerso (Garzanti). Oggi Riccardo Chiaberge, direttore del supplemento domenicale del Sole 24 Ore, ripropone il medesimo sostantivo ma senza aggettivi: Lo scisma. Cattolici senza papa (Longanesi). In effetti il Codice di diritto canonico qualifica lo scisma proprio così, come «rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice», e lo sanziona con la scomunica latae sententiae. Ma cosa sta succedendo perché uno dei più profondi filosofi cattolici quale fu Prini e uno dei più acuti giornalisti qual è Chiaberge giungano a usare un termine tanto impegnativo? Né sono i soli, si veda anche Piero Cappelli, Lo scisma silenzioso (Gabrielli) e Per un cristianesimo adulto, 28 interviste a cattolici poco obbedienti a cura di Giorgio Pilastro (Abiblio).
Chiaberge racconta cattolici che non fanno dell’obbedienza al papa il carattere distintivo della loro fede, ma che neppure praticano una disobbedienza preconcetta che ancora li definirebbe (seppure in negativo) in funzione del potere papale. La loro fede semplicemente non si definisce in rapporto al papa ma a qualcosa per loro di più importante: l’amore per il mondo. Non coltivano volontà scismatiche, perché l’obiettivo non è la Chiesa con le sue strutture, ma il mondo e la sua giustizia. Il clericalismo è superato, la laicità pienamente affermata: il banco di prova della fede sono le strade e i laboratori del mondo. Ecco perché questi cattolici, continuando a dichiararsi tali, non temono di infrangere la dottrina ecclesiastica quando la vedono come un ostacolo al bene del mondo. Così c’è suor Maria Martinelli, medico e missionaria in Africa, che spiega tutti i metodi di prevenzione dell’Aids, condom compreso, perché si ha «il dovere morale di non trasmettere l’infezione»; c’è Giorgio Lambertenghi Deliliers, presidente dei Medici cattolici di Milano, che sostiene la donazione alla ricerca degli embrioni congelati e apprezza le aperture di Obama al riguardo; c’è Elisa Nicolosi della Mangiagalli di Milano che è orgogliosa dei 250 bambini che con la fecondazione assistita ogni anno nascono nel suo ospedale; c’è don Luigi Verzé, fondatore del San Raffaele, che proclama che «nulla e nessuno può fermare la ricerca»; c’è Elena Cattaneo che lavorando sulle staminali embrionali dice che «più guardo queste cellule più si rafforza la mia fede che il dono della vita vada speso per ridurre le sofferenze». La situazione è riassunta da don Virginio Colmegna, direttore della Casa della Carità di Milano: «Non c’è nessun dogma da consegnare sulle verità morali, c’è una grande ricerca».
Uno scisma vero e proprio quindi? In realtà la categoria "scisma" è inappropriata per questa tensione spirituale, del tutto diversa da quella che portò allo "scisma d’oriente" del 1054 tra Roma e Costantinopoli dividendo cattolici e ortodossi, o da quella che dal 1378 al 1417 produsse il "grande scisma d’occidente" con ben tre papi in contemporanea. Allora l’oggetto del contendere era il potere all’interno della Chiesa, oggi è il corretto rapporto col mondo. Il potere ecclesiastico lo si lascia volentieri a chi lo detiene, e nella vita concreta si fa ciò che indica la luce della coscienza al fine di produrre il massimo di bene e di giustizia, senza per questo cessare di ritenersi cattolici, anzi pensando così di esserlo veramente. Né il potere papale ha la possibilità di impedirlo, come avveniva nel passato con il ricorso alla violenza.
Ulrich Beck, docente di sociologia a Monaco di Baviera e a Londra, nel libro Il Dio personale (Laterza) descrive una ricerca spirituale strettamente individuale che attraversa con vivacità tutta l’Europa. Un Dio "fai da te" quindi, un sincretismo che si crea un credo e una morale a proprio uso e consumo? C’è molto di più. C’è soprattutto, scrive Beck, «una religione nella quale l’uomo è sia credente sia Dio». Non siamo lontani dal dispiegamento dell’idea teologica principale di Gesù: non c’è amore per Dio se non come amore per l’uomo.
Oggi non è più concepibile una mano che si alzi per colpire nel nome di Dio, neppure se il papa, com’è avvenuto in passato, dovesse assicurare che "Dio lo vuole". E diventa sempre meno concepibile una mano che nel nome di Dio si rifiuta di curare i sofferenti con tutti i possibili strumenti, per esempio impedendo la ricerca sulle staminali embrionali o boicottando l’uso del preservativo.
Oggi l’unico Dio accettabile è il Dio che sta totalmente e concretamente dalla parte dell’uomo. E con ciò non siamo lontani dal centro del cristianesimo: l’incarnazione di Dio. Forse sarebbe opportuno che qualcuno nei sacri palazzi iniziasse a leggere con più attenzione e con più amore ciò che Gesù chiamava "segni dei tempi".
Lo scisma sommerso
di Aldo Maria Valli (Europa, 20 novembre 2009)
Uno spettro si aggira per la Chiesa: lo scisma silenzioso. La parafrasi del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels è scherzosa, e chiediamo subito scusa per l’ardire, però il problema è serio.
C’è una porzione di Chiesa, difficilmente quantificabile perché sommersa, che guarda alla Chiesa ufficiale, quella che si esprime attraverso la gerarchia, con crescente sconcerto e avverte un distacco sempre più marcato. I sintomi della divaricazione sono ormai numerosi. Ci sono pastori che appaiono senza gregge e greggi che avvertono con pena di non potersi riconoscere nei pastori. C’è una Chiesa che quando parla, giudica e agisce appare mossa dalla preoccupazione della condanna più che da quella dell’accoglienza, e un popolo di Dio che, avvertendo il bisogno di recuperare la radicalità evangelica, vuole, con Paolo, «farsi tutto a tutti » e soprattutto debole con i deboli. C’è una Chiesa attenta a giudicare il mondo e una che vuole camminare in mezzo al mondo. Una che punta sull’idea di verità e un’altra che privilegia la misericordia.
Una che corregge il Concilio in senso preconciliare e una che chiede di riscoprire il Concilio e possibilmente di viverlo.
Una che si ritrova nei convegni di studio e una che li fugge. Una che produce documenti e una che li rifiuta come vuoti e inutili. Una che si preoccupa dei rapporti col potere temporale e una che sente il bisogno di denunciare la disumanità di ogni potere e inneggia allo spirituale. Una che usa il potere di giurisdizione come strumento a garanzia della vera fede e una che lo considera un ostacolo per la diffusione della buona novella. Una che mette in guardia dalla modernità e una che si mescola con il reale. Una che vive i regimi concordatari come garanzia di libertà e una che li considera una gabbia. Una che nel relativismo vede un nemico e una che nel relativismo vede un’opportunità. Una che è andata strutturandosi producendo apparati di governo e una che vuole essere comunione senza strutture.
I segnali dello scisma arrivano da tante parti. A volte è un gruppo che si riunisce, a volte è una lettera spedita a qualche vescovo, o un appello su un sito internet, o un dibattito in un blog. Però che lo scisma ci sia è ormai innegabile. Bisogna dare dunque il benvenuto a chi ne parla apertamente, contribuendo a mettere le carte in tavola.
È il caso del libro che si intitola appunto Lo scisma silenzioso. Dalla casta clericale alla profezia della fede, di Piero Cappelli (Gabrielli Editori, 256 pagine, 15 euro), con prefazione di Arturo Paoli. Un libro duro, come si evince da quella definizione di “casta clericale” che campeggia provocatoriamente nel sottotitolo ma che forse incomincia ad avere un certo sentore di luogo comune dopo che Claudio Rendina ha pubblicato La santa casta della Chiesa. Un libro, questo di Cappelli, con il quale si può essere d’accordo o meno (per limitarci a un solo esempio, è difficile concordare con il giudizio tranciante nei confronti di Paolo VI), ma che getta luce su un malessere che non può essere ignorato e, soprattutto, chiarisce un punto fondamentale: chi prova il malessere si sente dentro la Chiesa, non fuori, e tutto vuole tranne che uscirne. Non è una porta sbattuta ma, come scrive l’autore, una mano tesa a sollecitare e condividere una tesi. Certo, il linguaggio è, diciamo così, ben poco diplomatico, ma è una durezza evangelica: «Sia il vostro parlare sì sì, no no, il di più viene dal maligno».
Centrale è il Concilio Vaticano II, con la sua idea di Chiesa in quanto assemblea di popolo, di ekklesia all’interno della quale la dignità sacerdotale di tutti i battezzati è qualcosa non solo da riconoscere sulla carta ma da valorizzare nella vita. Di qui la denuncia del clericalismo, virus sempre risorgente, e la richiesta di tenere ben presente che l’unico capo dell’unico corpo mistico chiamato Chiesa è Cristo.
Sono passati dieci anni da quando il professor Pietro Prini denunciò lo “scisma sommerso” determinato dalla frattura fra la dottrina ufficiale e le coscienze dei fedeli su questioni di fede assolutamente centrali come il peccato originale e la dannazione eterna, e ancora di più su questioni come la sessualità e la bioetica. Adesso, parlando di scisma silenzioso, espressione peraltro da lui usata per la prima volta proprio nel 1999, Cappelli torna a mettere il dito nella piaga sottolineando un “dominio clericale” davanti al quale un crescente numero di fedeli risponde dicendo di non riconoscersi in una Chiesa istituzione che provoca disagio e non accoglie le differenze.
L’autore ha parole impietose per i cattolici “formati e inquadrati”, spesso membri di movimenti, sempre pronti a fare da spalla all’autorità, ma improvvisamente critici (anche se in modo curiale, senza clamore) quando il vescovo non concede loro la gestione delle attività ecclesiali.
Sono, questi, i laici-clericali, durissimi nel rimbrottare i laici-laici e sempre pronti nel giudicare automaticamente fuori dalla Chiesa chiunque, attraverso l’uso della ragione, si permetta di pensare con la propria testa. Quando si entra in questo tipo di polemica il rischio della generalizzazione è forte. Utile, al di là delle accuse, è però aprire la discussione sulla ridotta capacità di elaborazione culturale dei cattolici e su quanto poco si faccia per formare cattolici pensanti.
Il diacono Aniello D’Angelo scrive al Papa anunciando di lasciare la Chiesa dopo i tanti torti subiti negli ultimi anni
"NON MI RICONOSCO NELLA VOSTRA OPULENZA"
Il docente di religione denuncia le "ipocrisie" del clero, svela i "veleni" contro di lui.
"La Diocesi di Vallo specula sulle case e non aiuta i poveri"
di Vincenzo Rubano *
VALLO DELLA LUCANIA - Vuole restare con i suoi ragazzi "fino alla morte", ed essere ridotto allo stato di laico perché non si rispecchia più nella Chiesa di oggi. E’ la richiesta di Aniello D’Angelo, docente di religione, residente a Centola, diacono dal 1997. Il docente ha scritto direttamente a Benedetto XVI per spiegare le motivazioni del suo gesto, che hanno già gettato nello sgomento i vertici della diocesi di Vallo della Lucania. “E’ da molto tempo che meditavo una simile scelta che mi è costata tanta riflessione e dolore - precisa D’Angelo - La decisione l’ho presa all’apertura dei lavori della FAO che si è tenuta a Roma nei giorni scorsi, quando, già in disaccordo con questi tipi di eventi, celebrati alle spalle dei poveri e con grande dispendio economico, ho visto la presenza di papa Benedetto XVI, che partecipa ad una tale manifestazione, indossando croce e anello d’oro. Sono stato diacono permanente dal 1997 e mi ero illuso - spiega ancora D’Angelo - di dare un contributo ad una chiesa che brillasse per sincerità, umiltà e povertà; invece ho dovuto constatare che la maggior parte delle azioni ecclesiali sono mirate solo a fini economici e di affermazione di potere”.
Ma il diacono cilentano, che avrebbe preferito non pubblicizzare la sua vicenda, evidenzia numerose perplessità anche all’interno della diocesi di Vallo: “A livello diocesano - spiega il docente - le cose sono sotto gli occhi di tutti: la diocesi di Vallo ha investito la maggior parte delle sue energie nell’edificazione di un regno di Dio fatto di musei spogli, di “fontanelle” come il cinema, il teatro, le rendite dai molteplici immobili di proprietà. Voglio restare fuori dall’avallare questo stato di cose e dire basta alle bugie e falsità di molti esponenti della gerarchia ecclesiale che mi hanno toccato anche personalmente”.
D’Angelo fa riferimento ad abusi subiti in prima persona: “Ho saputo di una lettera segreta e introvabile, vista da alcuni miei colleghi tra le mani del vescovo, spedita dall’ex dirigente scolastico del liceo scientifico di Vallo che chiedeva di non rinnovarmi la nomina in quella scuola, come infatti avvenne dal successivo anno scolastico. Per questo voglio la verità e la condanna di eventuali responsabili. Tale fatto mi ha molto danneggiato a livello fisico ed economico, se si pensa che da allora le sedi scolastiche a me assegnate sono lievitate, fino alle attuali sei, in sei comuni diversi e molto distanti tra loro”. Ora D’angelo aspetta di essere chiamato in Vaticano e chiarire la sua posizione. Nel frattempo ha fondato l’ associazione “Chiesa degli ultimi” per aiutare chi è più debole, chi è vittima dell’incuria umana, chi è emarginato dalla società.
* Julie-news, La Città, Quotidiano di Salerno e Provincia, 19/11/2009, p. 28
L’etica della furbizia
Crocefissi in classe? Almeno non dite di essere liberali
di Francesca Rigotti, università di Lugano (l’Unità, 11.11.2009)
Vorrei intervenire con le parole della filosofia politica sulla questione riguardante la presenza del crocifisso nelle aule della scuola pubblica italiana. Ma prima ancora desidero far notare che la risposta della Corte europea dei diritti dell’uomo alla richiesta della signora Lautsi è assolutamente in linea con la legislazione che abbiamo sottoscritto. La Corte ha infatti risposto con le parole dell’art. 2 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1952, sottoscritta anche dallo stato italiano, che stabilisce che «Lo Stato nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento in modo conforme alle loro convinzioni religiose e filosofiche». Evidentemente nel Bel Paese si è preferito fare orecchie da mercante e ignorare tale diritto genitoriale, oltre a ironizzare sul fatto che la signora sia di origine straniera e quindi non abbia da interferire con le faccende italiane, ignorando probabilmente il fatto che qui si tratta di diritti dell’uomo, che per definizione non hanno confini nazionali né abbisognano di cittadinanze particolari. Oltre a ciò, una precedente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (del 1976) prescrive che le conoscenze religiose siano dispensate dalla scuola in modo «oggettivo, critico e pluralistico».
Leggo questi dati e riconosco la lodevole applicazione del principio di «ragionevole neutralità» nell’articolo di Marcello Ostinelli, «Etica pratica e cultura religiosa nella scuola pubblica ticinese» uscito su «Verifiche» (giugno 2007, no. 3, pp. 4-7). L’articolo contiene informazioni interessanti e proposte più che condivisibili. Le istituzioni liberali devono risultare neutrali rispetto alle visioni del mondo e alle concezioni del bene individuali che caratterizzano le società contemporanee. Questo atteggiamento è visibile particolarmente nella posizione che il liberalismo assume nei confronti della religione. Lo stato liberale è agnostico (indifferente) rispetto al problema religioso. Lo stato liberale è neutro rispetto ai valori. Tipica dello stato liberale è quindi la separazione tra stato e chiesa, nel rispetto dell’idea che la religione è qualcosa che interessa gli individui nella sfera privata ma non dovrebbe interessare lo stato. Lo stato liberale non ha una chiesa ufficiale ma rispetta le varie chiese presenti. Lo stato liberale è laico perché ragiona fuori dall’ipotesi di Dio, etsi deus non daretur, come se Dio non esistesse, il che non significa che non esiste - ricorda Ostinelli - ma vuol dire che bisogna sgomberare il campo da asserzioni dogmatiche. Se alcuni settori del paese Italia non si riconoscono in uno stato laico e liberale, che lo facciano, ma abbiano almeno, se non il coraggio, la banale coerenza di dichiararlo e e di rinunciare all’ uso e all’abuso di termini quali libertà e liberalismo.❖
TANTI CROCIFISSI E POCHI CRISTIANI
di don Aldo antonelli *
Sul giornale La Repubblica di ieri è apparso, nella pagina delle lettere, questa bella lettera di Salvatore Resca, viceparroco di San Pietro e Paolo a Catania.
Per fortuna sono siamo né pochi né soli.
C’è poi chi tace per paura di ritorsioni e chi ha il coraggio di esprimere le proprie convinzioni.
C’è chi ama inquinare e volgarizzare il discorso, purché sia "popolare", e chi vuole ricondurlo alla sua originaria schiettezza.
Chi ne vuol fare arma di difesa e di offesa allo stesso tempo per accattonaggio politico e chi ne fa un tesoro da custodire nella propria vita per alta fedeltà.
Noi siamo tra i secondi.
Scrive don Salvatore Resca:
Sono viceparroco a Catania (chiesa dei santi Pietro e Paolo) e al sovrintendente del Teatro Bellini (che vuole esporre il crocifisso sulla facciata) dico: ti prego, togli la croce! Non so cosa ne pensano preti e vescovi ma credo che anche Cristo, dall’alto dei cieli, vedendosi appeso fra Violetta e Norma stia sussurrando: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. La croce non si appende; i cristiani sanno che si carica sulle proprie spalle per incamminarsi con essa dietro Gesù Cristo. Il Vangelo è una cosa seria. Un luogo come un teatro, a prescindere da ciò che accade all’interno delle sue mura, non è il più adatto per metterne in evidenza le esigenze. Il crocifisso è il simbolo della Fede. Non è un simbolo culturale o un collante di identità etniche e nazionali: abbiamo aule scolastiche piene di crocifissi appesi e vuote di cristiani, veri.
Come non dargli ragione?
Aldo [don Antonelli]
Cei, i vescovi in assemblea ad Assisi
Bagnasco: "Basta odio, serve disarmo"
ASSISI - Basta con un clima di odio "pericoloso" per l’Italia, basta con una "conflittualità sistematica" che abbandona i cittadini a se stessi e li porta a disaffezionarsi verso la loro nazione: con un forte appello al "disarmo" nella vita pubblica il presidente dei vescovi italiani, cardinal Angelo Bagnasco, ha aperto stasera ad Assisi la sessantesima assemblea generale della Cei. A tutti gli schieramenti ha chiesto "onestà intellettuale", "buona volonta" e il superamento di "matrici ideologiche" che sembrano "rigurgitare da un passato che non vuole realmente passare".
Clima politico. "E’ necessario e urgente svelenire il clima generale, perché da una conflittualità sistematica, perseguita con ogni mezzo e a qualunque costo, si passi subito ad un confronto leale per il bene dei cittadini e del Paese intero", dice il presidente Cei. "Ci piacerebbe - spiega il presidente dei vescovi italiani - che, nel riconoscimento di una sana, per quanto vivace, dialettica, inseparabile dal costume democratico, si arrivasse ad una sorta di disarmo rispetto alla prassi più bellicosa, che è anche la più inconcludente".
Scuole cattoliche. L’auspicio che i fondi destinati al sistema dell’istruzione non statale, cioè alla scuola libera non siano tagliati nella prossima Finanziaria è stato formulato dal cardinal Bagnasco. "Ci si augura - ha detto il presidente della Cei - che le cifre inizialmente previste con decurtazioni consistenti, possano essere prontamente reintegrate in modo da consentire agli enti erogatori dei servizi di mantenere gli impegni già assunti".
Crisi economica. L’Italia "oggi come non mai" dovrebbe rivelarsi "scattante" per "cogliere al balzo i cenni di uscita dalla crisi e potenziarli, così da accorciare le sofferenze che la situazione dell’economia mondiale ha finito per scaricare sulle categorie più deboli, specialmente sul fronte del posto del lavoro", sottolinea Bagnasco. "Il Paese - osserva il porporato - deve tornare a crescere, perché questa è la condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni del nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle famiglie monoreddito".
Imprenditori. Nella sua prolusione, Bagnasco incoraggia poi l’imprenditoria italiana a farsi onore anche all’estero. "Una creatività operosa, una collaudata professionalità, una generosità solidale qualificano solitamente - rileva il presidente della Cei - l’apporto italiano ovunque si esplichi nel mondo, ben oltre gli stereotipi ingenerosi".
Immigrati. "Il nostro Paese, con la sua esposizione geografica, quasi a ponte tra Nord e Sud del mondo, è chiamato a rinvigorire la propria tradizionale apertura ai popoli africani, aiutandoli anzitutto a promuovere il loro sviluppo interno", afferma il presidente della Cei. Bagnasco esorta a trovare "le formule più adeguate per un partenariato in grado di onorare la nostra e altrui dignità".
Africa. Dopo aver fortemente rimproverato in più occasioni le manipolazioni delle parole del Papa riguardo all’Aids e i preservativi, Bagnasco, torna a lamentare che nuovi interventi di Benedetto XVI sull’Africa, in particolare in occasione del Sinodo, "hanno avuto un ascolto debole, anche per il rilancio troppo flebile che i media internazionali hanno riservato a questo appuntamento". L’Italia, auspica il presidente della Cei, è chiamata a "rinvigorire la propria tradizionale apertura ai paesi africani" in un partenariato "in grado di onorare la nostra e altrui dignità":
Sudan. "Anche il nostro è tempo di martiri, per quanto ai popoli della libertà talora sprecata possa sembrare incredibile, e quasi impossibile", afferma Bagnasco. Il presidente della Cei rileva la "risonanza" che ha avuto nelle settimane scorse, "ma assai di più ne avrebbe meritato", l’annuncio "choccante" che sette cristiani sono stati orribilmente uccisi nel Sudan meridionale "in una macabra parodia della crocifissione".
L’Aquila e Messina. Le tragedie per cause naturali che "ciclicamente colpiscono il territorio nazionale", come quelle verificatesi all’Abruzzo e a Messina, dice Bagnasco, "invocano una disponibilità da parte di tutte le forze politiche a scelte risolutive sulle annose questioni che rendono debole il sistema-Italia".
Media. Nel rapporto tra la Chiesa e i media "si annidano alcuni motivi di sofferenza". "Non di rado - denuncia il presidente della Cei - c’è, da una parte, una sottovalutazione del concreto-essenziale nella vita della Chiesa, di ciò che le consente di essere nonostante tutte le resistenze e le avversità, e - dall’altra - la tendenza a far figurare preponderante ciò che non lo è". Secondo Bagansco, "quando si trascura o si ignora il quadro delle priorità nel quale si collocano i singoli eventi o pronunciamenti del Pontefice e dell’Episcopato diventa difficile evitare rappresentazioni parziali o fuorvianti, critiche ideologiche e finanche preconcette, letture volte ad attribuire intenzioni o parole che non hanno motivo di esserci in quei termini".
"In ogni singola circostanza - spiega con le parole del Papa - alla Chiesa preme, in nome del Vangelo, partecipare alla vita del Paese, e portare il proprio contributo nel libero dibattito culturale e sociale lieta e grata di essere raccontata dai media per gli argomenti che ella attinge dalla fede come dalla ragione". Bagnasco sottolinea che "nel corso dei lavori assembleari" i vescovi parleranno dell’immagine della Chiesa "nella sua proiezione mediatica", ma nella prolusione si astiene dal "fare anticipazioni". E così i nomi dei successori di Dino Boffo alla guida di Avvenire, Sat 2000e Radio In Blu restano ancora sconosciuti.
Crocifisso. Di fronte alla ’’surreale’’ sentenza emessa dalla Corte europea di Strasburgo a proposito della presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche italiane, ’’bene ha fatto il Governo ad annunciare ricorso’’. Dice Bagnasco che parla di una sentenza ’’sorprendente’’ e ’’alquanto surreale’’. "Un’impostura" di minoranze esigue che rischiano di far allontanare l’Europa dalla gente.
Il Muro di Berlino. A vent’anni dalla caduta del muro di Berlino, l’Europa, afferma il presidente della Cei "ha ripreso a respirare con entrambi i suoi polmoni". Ma mentre "cambiamenti vorticosi si sono succeduti" purtroppo "difficoltà inedite sono affiorate ad Ovest come ad Est, dove l’elemento della secolarizzazione ha finito con l’imporsi quale denominatore comune più rapidamente di quanto si sia radicato il costume democratico". "Sappiamo - spiega - che alla base del cammino europeo non vi possono essere solo strategie politiche o strutture burocratiche, perchè le une e le altre, pur necessarie, non sono sufficienti per scaldare i cuori dei singoli e dei popoli in ordine a quel senso di cordiale appartenenza che è indispensabile per sentirsi comunità"
Islam e ora di religione. La Cei ribadisce le proprie riserve sull’ora di religione islamica. "Non è in discussione - ha spiegato Bagnasco - la libertà religiosa di chicchessia, ma la peculiarità della scuola e le sue specifiche finalità che, in uno stato positivamente laico, sono di ordine culturale ed educativo". Il porporato, aprendo stasera ad Assisi l’assemblea generale della Cei, ha ribadito che l’insegnamento della religione cattolica "non è un’ora di catechismo" ma una occasione di conoscenza di una fede che fa parte del "patrimonio storico del popolo italiano".
Ru 486. Dopo la registrazione della Ru 486 da parte dell’Aifa "non si potrà non riconoscere, come già fa la legge 194, la possibilità dell’obiezione di coscienza agli operatori sanitari, compresi i farmacisti e i farmacisti ospedalieri, che non intendono collaborare direttamente o indirettamente ad un atto grave", afferma il cardinale.
Cattolicesimo. "La nostra Chiesa - afferma Bagnasco - non si riconosce in una ’religione civile’ a servizio di qualche potere, ma si identifica nella missione che le è stata affidata, quella di annunciare a tutti il mistero di Cristo con le implicazioni che ne conseguono sul piano antropologico, etico, cosmologico e sociale".
Il nuovo rito delle esequie. La nuova edizione italiana del rito delle esequie, dice il presule, sarà pubblicata dai vescovi italiani "con l’intendimento di volerne esplicitare le virtualità di annuncio rispetto alla novità portata da Cristo Gesù dinanzi al mistero della morte".
Morte, giudizio, Inferno. "Morte, giudizio, inferno e paradiso sono termini non ignoti, non silenziati, non spiegati secondo categorie falsamente buoniste o erroneamente crudeli. Rappresentano invece il traguardo da lumeggiare con la Parola risanatrice di Dio, senza fatalismi o sotterfugi scaramantici", dice Bagnasco. Il cardinale ha poi proseguito spiegando che morte, giudizio, inferno e paradiso, "sono tappe di una vita che va oltre la morte e sfocia nella vita eterna. Ciò che saremo non sappiamo descriverlo, ma esiste".
Anglicani. Il cardinale Bagnasco plaude alla decisione del Papa di aprire le porte a quegli anglicani che ne hanno fatto richiesta in quanto non si sentivano più in comunione con la loro Chiesa: è questo un gesto che non indebolisce l’ecumenismo ma anzi lo rafforza in quanto il vero problema odierno è la scomparsa di Dio dall’orizzonte degli uomini, ha spiegato.
* la Repubblica, 9 novembre 2009
I carcerieri di Dürrenmatt
di Beppe Sebaste (l’Unità, 01.12.2009)
Claustrofobia è un concetto che si usa poco in politica, eppure è proprio questo che provocano i regimi chiusi e totalitari, a diversi gradi del loro insediamento. Gli ingredienti sono sempre gli stessi: chiusura, appunto, omogeneizzazione, ripiegamento sulla propria identità; identità che, a diversi livelli di fascistizzazione, si basa sulla comunanza del suolo oppure del sangue. L’appartenenza religiosa ha pure un ruolo importante in questa marca di identità.
In Svizzera, storicamente terra d’asilo e di rifugiati politici e religiosi, dove un referendum populista ha proibito l’edificazione di minareti, nel 1990 il grande Friedrich Dürrenmatt pronunciò un discorso d’indimenticabile e feroce ironia contro la politica claustrofobizzante del suo Paese. Descrisse la Svizzera come una paradossale prigione nella quale gli svizzeri sono carcerati e al tempo stesso carcerieri di se stessi, «per dimostrare la propria libertà». In tale prigione, disse, «gli Svizzeri si sono rifugiati (...) perché soltanto lì essi sono sicuri di non essere aggrediti».
Vale la pena di ricordare alla lettera un passo del discorso di Dürrenmatt: «C’è un solo problema in questa prigione, quello di provare che non è una prigione ma il rifugio della libertà, poiché, dall’esterno, una prigione è una prigione e quelli che sono dentro sono carcerati, e chi è carcerato non è libero: agli occhi del mondo esterno, solo i carcerieri sono liberi, poiché se non fossero liberi sarebbero carcerati. Per risolvere questa contraddizione i carcerati hanno introdotto l’obbligo generale di essere guardiani: ogni carcerato dimostra di essere libero facendo lui stesso il proprio carceriere. Ciò che dà agli svizzeri il vantaggio dialettico di essere al tempo stesso liberi, carcerati e carcerieri».
Le sue parole valgono oggi più che mai per l’Italia, da quando a fare le leggi c’è un paradossale «Popolo delle libertà», guidato dai carcerati-carcerieri della Lega. Non so voi, ma la mia claustrofobia sta superando il livello di guardia.❖
ALLA CORTESE ATTENZIONE DELLA REDAZIONE con preghiera di pubblicazione
COMUNITA’ PARROCCHIALE “SANTI PIETRO E PAOLO” VIA SIENA, 1, 95128 CATANIA. Tel: 095431949
Con gioia e commozione abbiamo saputo della decisione approvata lunedì 30 novembre, quasi all’unanimità, dal Consiglio comunale di Catania, con ben tre ordini del giorno, di “esporre la croce nell’aula consiliare e in tutti i locali della municipalità aperti al pubblico”. Non solo appoggiamo entusiasticamente l’iniziativa ma suggeriamo qualcosa di più: mettiamo nell’aula comunale e in tutti gli uffici pubblici accanto al Crocifisso, da un lato un bel ritratto di Sant’Agata, dall’altro un’immagine del papa! Sarà così pienamente assicurata la nostra identità catanese e cattolica, nonché la piena ortodossia della fede. Spero vogliate permetterci di desiderare anche di andare oltre. Perché non nominare un cappellano stabile per la Giunta e il Consiglio comunale che benedica l’inizio delle sedute? E perché non iniziare le sedute con una preghiera comune? L’intervento dall’alto sarebbe assicurato! Perché solo un intervento dall’alto può risollevare la classe politica che ci governa e le deplorevoli condizioni di questa nostra sventurata città!
Catania, 1 dicembre 2009
Sac. Salvatore Resca Vice parroco della chiesa dei santi Pietro e Paolo Insieme ad un gruppo di parrocchiani 095/502230; 3683387539; sresca@tiscali.it
P.S.: Nei locali della parrocchia si raccolgono firme per appoggiare l’iniziativa.