La Civiltà del DIALOGO e dell’AMORE di Giovanni Paolo II o ... la civiltà di “FORZA Deus caritas est” di Benedetto XVI?!
IL VAN-GéLO di RATZINGER è il Van-GéLO dell’IMPERATORE COSTANTINO !!!
La sua linea teologico-politica offende (non solo le altre religioni e l’intera umanità, ma soprattutto) la nostra ITALIA, e LA LEGGE stessa dei nostri‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti - la COSTITUZIONE stessa, la nostra “Bibbia civile” (Carlo A. Ciampi)!
di Federico La Sala
A PARTIRE DA NOI STESSI E DA NOI STESSE - DAL NOSTRO PRESENTE STORICO, ATTUALE!
Per cominciare, "la verità della storia" ("Il morto fa presa sul vivo"!) ... non è la storia della Verità (l’Eu-angélo, il Buon-messaggio!) in cammino!!! E “il dialogo e il rispetto” di Benedetto XVI sono abissalmente lontani dal dialogo e dal rispetto, portati avanti e manifestati da GIOVANNI XXIII, e da GIOVANNI PAOLO II - W O ITALY (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”: art. 11 della Costituzione dei nostri ’Padri’ (‘Giuseppe’) e delle nostre ’Madri’ (‘Maria’)! - , sono come quelli del LUPO (o dell’Orso) nei confronti dell’ AGNELLO, nei confronti della religione ebraica come della religione islamica e della stessa intera umanità.
L’Istruzione "Dominus Jesus" aveva detto già tutto - contro Giovanni Paolo II e il suo spirito di Assisi, che mirava alla pace e il dialogo, con tutto il cuore e con tutta l’anima!!! “Ratzinger, lo sterminatore dell’ecumenismo” (Leonard Boff).
La teologa tedesca Uta Ranke-Heinemann, figlia dell’ex-presidente della Repubblica, e collega di corso del cardinale Ratzinger - in un’intervista del 18.01.1990, in Italia per presentare il suo libro "Eunuchi per il regno dei cieli” - ecco cosa disse di Ratzinger: "un uomo intelligente, ma privo di qualsiasi sensibilità umana".
Vale la pena tenerne conto, ora, quando ascoltiamo le sue parole o leggiamo i suoi testi ... e sappiamo che sono quelle della massima autorità del mondo ’cattolico’-romano.
Al contrario, ricordiamoci di Dante!!! All’inferno, oggi, certamente, egli non avrebbe messo Wojtyla (Bonifacio VIII, con il suo Giubileo 1300-2000) e nemmeno più Maometto ... ma proprio Papa Ratzinger - proprio per la sua volontà di distruggere lo spirito di Assisi (Dante era terziario francescano)! Ricordiamoci - da italiani e da italiane, che "Dio" - in ’volgare’ - si dice Amore e "che muove il Sole e le altre stelle", ma certamente - come ben sappiamo per le vicende politiche recenti - non l’intelligenza teologico-politica e politico-teologica di tutta l’attuale Gerarchia della Chiesa romano-’cattolica’!!!
Che ideologia folle, questa religione costantiniana che vuole imporsi come universale: si pretende che, dopo la Legge del "Dio" che dice di onorare il padre e la madre, si sostituisca e si imponga la Legge del "Dio" che dice di amare la Madre (’Maria’) e il Figlio (’Gesù Cristo’)!!! Ma che Spirito Santo è questo ... contro e senza il padre, Giuseppe ?! Questo è l’ordine simbolico e il credo del Mentitore ... e di “Mammasantissima” (della madre-Giocasta e del figlio-Edipo - come aveva ben capito e ben detto Freud!!!) - questa è la Legge del "Dio" del Faraone, come ben sapeva e sa "Israele"!!! Certamente non di Melchisedech, non di Abramo, non di Mosé, non di Gesù, e non di Maometto!!!
Il VAN-GELO cattolico-romano di PAPA RATZINGER è quello del Figlio-Imperatore Costantino (- come Gesù!) e della Madre-Imperatrice Elena (- come Maria!).
Fin dall’inizio - e subito - Benedetto XVI si è richiamato al IV secolo d. C. per proclamare "Urbi et orbi" cosa voleva e vuole: scatenare l’inferno, distruggere definitivamente la memoria della E dell’Eu-angélo (Buon-messaggio), rilanciare la vecchia guerra contro la storia della Verità in cammino ... e mettere fuori legge ogni ’battuta’ o motto di spirito: "Aus".. "Witz"!!! Che tutto vada all’inferno .... nel più profondo dell’inferno! Van-gélo, van-gélo: questo è il messaggio del Lupo travestito da Agnello, oggi! Il deserto avanza ... e la pace dell’impero cattolico-romano, pure - con la sua “croce”: "In hoc signo vinces" !!! "Con questo segno vincerai" - sicuramente, il trono e l’altare ... dei morti!!!
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6 - traduz. di G. Garbini) e segna “la diritta via”.... non per la "selva oscura" (Inferno), ma per "la divina foresta spessa e viva" del "paradiso terrestre"(Purgatorio) ed è lo stesso Amore che è al fondamento stesso della Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti... la nostra robusta e sana COSTITUZIONE. W O ITALY ! VIVA L’ITALIA !!!
Federico La Sala
P. S. - Allegato:
Una lettera - ‘sollecitazione’ del 2002 !!!*
Deponiamo le armi, apriamo un dibattito tra cattolici e non.
Bisogna cominciare a vaccinarsi: il conto alla rove-scia è partito. L’allineamento dei “pianeti” si fa sempre più stretto e minaccioso (Usa, Uk, Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Israele..) e il papa - accerchiato e costretto alla rassegnazione - lo ha detto con decisione e rassegnazione: “Dio sembra quasi disgustato dalle azioni dell’umanità”. Io credo che non si riferisse solo e tanto all’umanità degli altri, ma anche e soprattutto delle sue stesse “truppe” che lavorano dietro le quinte e alacremente a tale progetto. Come è già apparso chiaro in varie occasioni (ultima, plateale, nel Kazakistan nel 2001) la gerarchia della Chiesa Cattolico-Romana ha il cuore duro come quello dei consiglieri del faraone. Si è mantenuta a connivente distanza da Hitler, ha appoggiato Mussolini, sta appoggiando il governo Berlusconi, e non finirà per appoggiare Bush? Figuriamoci.
Lo sforzo di memoria e riconciliazione non è stato fatto per ri-prendere la strada della verità, ma per proseguire imperterrita sulla via della volontà di potenza... Non ha sentito e non vuole sentire ragioni - nemmeno quelle del cuore: la “risata” di Giuseppe (cfr. Luigi Pirandello, Un goj, 1918,“Novelle per un anno”) contro il suo modello-presepe di famiglia (e di società) continua e cresce sempre di più, ma fanno sempre e più orecchi da mercanti! Cosa vogliono che tutti e tutte puntino le armi non solo contro Betlemme (come già si è fatto) ma anche contro il Vaticano?
Credo con Zanotelli che “stiamo attraversando la più grave crisi che l’homo sapiens abbia mai vissuto: il genio della violenza è fuggito dalla bottiglia e non esiste più alcun potere che potrà rimettervelo dentro; e credo - antropologicamente - che sia l’ora di smetterla con l’interpretazione greco-romana del messaggio evangelico! Bisogna invertire la rotta e lavorare a guarire le ferite, e proporre il modello-presepe correttamente.
Lo abbiamo sempre saputo, ma ora nessuno lo ignora più! Chi lo sa lo sa, chi non lo sa non lo sa, ma lo sanno tutti e tutte sulla terra, nessuno e nessuna è senza padre e senza madre! Dio “è amore” (1Gv.: 4,8) e Gesù (non Edipo, né tanto meno Romolo!) è figlio dell’amore di un Uomo (Giuseppe, non Laio né tanto meno Marte, ma un nuovo Adamo) e una Donna (Maria) e non Giocasta né tanto meno Rea Silvia, ma una nuova Eva. Cerchiamo di sentire la “risata”. Deponiamo le armi: tutti e tutte siamo “terroni” - nativi del pianeta Terra, cittadini e cittadine d’Italia, d’Europa, degli Stati Uniti d’America, di Asia, di Africa ecc., come di Betlemme, come di Assisi e di Greccio... E non si può continuare con le menzogne e la violenza!
Non siamo più nella “fattoria degli animali”: fermiamo il gioco, facciamo tutti e tutte un passo indietro se vogliamo saltare innanzi e liberarci dalla volontà di potenza che ha segnato la storia dell’Occidente da duemila anni e più! Si tratta di avere il coraggio - quello di don Milani - di dire ai nostri e alle nostre giovani che sono tutti e tutte sovrani e sovrane o, che è lo stesso, figli e figlie dell’amore di D(ue)IO... dell’amore di "due Soli" esseri umani, come anche Dante aveva già intuito, sul piano politico ma anche sul piano antropologico. Cerchiamo finalmente di guardarci in faccia e intorno: apriamo il dibattito - o, perché no, un Concilio Vaticano III (come voleva già il cardinale Martini) tra credenti e non credenti - e teniamo presente che Amore non è forte come la morte, ma è più forte di Morte (Cantico dei cantici: 8,6; trad. di G. Garbini, non degli interpreti greco-romani della Chiesa Cattolica).
Caro La Sala,
ho letto, apprezzato e, ovviamente condivido. Gianni Vattimo
* Cfr. l’Unità del 29 dicembre 2002, p. 30.
Una nota
di Federico La Sala
*
A)Card. Crescenzio Pepe: “Quando diciamo mamma, diciamo porto sicuro, ma anche legge. Quando un tempo cambiavano i signori che governavano la nostra città, quando lo stato era assente, chi davvero regnava e custodiva gelosamente le tradizioni, i costumi, gli usi che sono arrivati sino a noi, erano, allora come oggi, le madri. A Napoli i figli so’ piezze ‘e core, core ‘e mamma. Lo ha dimostrato, in questi giorni, la signora Tonia, la madre coraggio, che ha messo a repentaglio la sua stessa vita per salvare la creatura del suo seno. Forse per questo nella nostra città la devozione alla Madonna, la Madre delle madri, affettuosamente chiamata Mamma do’ Carmine, è così fortemente sentita. Il senso della maternità è tale che nessun napoletano accetta l’idea che un bambino possa non avere la madre, così che chi ha avuto la disgrazia di perderla, o di non averla mai conosciuta, non viene chiamato trovatello, orfano, figlio di nessuno, ma “figlio della Madonna” perché non sia lasciato solo, senza un cuore di mamma. [...]
Nelle nostre incertezze e nelle nostre presunzioni, nel nostro programmare e nelle nostre decisioni, la nostra conoscenza rimane imperfetta, come imperfetta è la nostra profezia; eppure, nell’animo confuso, tre cose rimangono a sostenerci lungo il cammino: “la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” (1 Cor 13,13).
La Chiesa di Napoli deve restituire a questa terra, tra le più belle che Dio ha creato, la forza dell’amore, della condivisione, della comunione che contraddistingue i discepoli del Signore, perché il nostro popolo dal grande cuore possa ritrovare in se stesso la speranza che illumina il domani. Se sapremo ricostruire questa città sulla roccia, e non sulla sabbia, allora, solo allora, potremo dire: “Ora si è compiuta la salvezza” (Ap 12,10).
Che il nostro Santo patrono san Gennaro interceda per noi tutti, affinché il Dio della speranza ci riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiamo nella speranza per la virtù dello Spirito Santo (cf. Rm 15,13).
Rivolgiamo il nostro pensiero alla Santa Vergine, che con il suo “sì” ha aperto la storia dell’umanità alla speranza, e affidiamo le nostre speranze alla nostra bella Madonna del Carmine, la Mamma di tutte le mamme, la Mamma di tutta Napoli, e confidiamo nel nostro Signore Gesù Cristo.
Ca ‘a Maronna c’accumpagni!
Con la benedizione del Signore e l’intercessione di Maria, Regina di Napoli.
Crescenzio Card. Sepe
Arcivescovo
Festività di San Gennaro, 2006
B) ‘O SOLE ...
RIATTIVARE LA MEMORIA DELLA VITA
(e la navigazione di "me" e "te"
nel gran mare
dell’essere e della verità)
A FRANZ KAFKA, ALLA SUA MEMORIA, CHE VIVA IN ETERNO IN TUTTE LE GENERAZIONI PRESENTI E FUTURE DEL PIANETA TERRA... E DI TUTTE LE TERRE DELL’UNIVERSO.
(E al piccolo ELIAN e a ogni persona, disabile nel corpo e nell’anima)
*
Mi sono ricordato di tanti, tanti, tanti esseri umani,
compagni e compagne, che, nel buio dei deserti,
delle miniere, delle ‘scuole’ di morte, e delle ‘tombe’
della vita, interno ed esterno, hanno scavato, scavato,
scavato con i trapani e le trivelle delle loro carni,
delle loro unghie, e dei loro denti.
*
Mi sono ricordato di Primo Levi
e ho considerato se questo è un uomo:
“Gregorio SaMSa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo”.
La metamorfosi ... di noi stessi - un io senza memoria e senza istoria, una Legge senza vita, e un legame senza cuore - in miseri, poveri, neri, scarafaggi...
E, allora, infine, ho ritrovato il filo che mena, porta, e il porto, a Napoli, a casa mia.
*
Mi sono ricordato di mia mamma:
“ogni scarafone è bello per la mamma sua”.
E, allora, ho capito. A Nea-Polis, nella nuova Città, nella nuova Terra, tutti gli scarafoni sono belli
per il solo, Uno, Sole, Amore di tutti e due ,
di mamma e papà - al di là del mare di sangue e della terra insanguinata.
Mi sono ricordato di Te, di Me, e di tutti e di tutte, compagni e compagne delle strade della vita
e del nostro mondo...
Ho incontrato "te" e ho ripreso a cantare: ‘O Sole ...
Milano, 30.03.2000 d. C.
Federico La Sala
Sulle radici eu-angeliche e francescane, cfr, sul sito:
NAPOLI ("NEA-POLIS" = LA NUOVA-CITTA’), IL PESCE MORTO, IL PESCE VIVO E LA NUOVA ITALIA.
L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI.
Federico La Sala
FILOLOGIA STORIOGRAFIA E CRITICA:
"GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"]: LA "DIVINA COMMEDIA", A PARTIRE DAL CANTO XXVII DEL "PURGATORIO".
Il dolcissimo padre: la figura di Virgilio in Purgatorio XXVII
di Roberta Conte ("Caffé Letterario 2.0", 24 giugno 2015)
Nel viaggio dantesco molti personaggi hanno un’importanza significativa, ma se c’è chi ricopre in una sola persona il ruolo di guida, maestro e padre questo è Virgilio, ed è in Purgatorio XXVII che queste tre funzioni emergono distintamente, in maggior misura l’ultima.
Dante è arrivato quasi alla fine del suo cammino nel Purgatorio, in particolare nella settima e ultima cornice dove si trovano i lussuriosi. È mezzogiorno e viene incontro a lui, Virgilio e Stazio l’angelo della castità che avverte i tre della necessità di attraversare il muro di fuoco che hanno davanti, se vogliono proseguire verso la cima del monte; così, superate le fiamme giungono in prossimità della scala per iniziare la salita, ma il calare del sole li costringe a fermarsi e nella notte Dante sogna Lia, la moglie di Giacobbe, intenta a raccogliere fiori. Al mattino, una volta arrivati alla sommità della montagna Virgilio parla a Dante per l’ultima volta e, congedandosi, lo incorona imperatore di se stesso.
Virgilio in questo canto tiene per due volte discorsi visibilmente lunghi e in entrambi si mostra non solo guida, ma padre buono. Come ogni padre sprona il figlio ad andare avanti e tuttavia nel momento della prova, prima, e del saluto, poi, un’umana tenerezza per forza di cose compare. Avviene dunque così, quando il «dolce padre» (v. 52), nel primo discorso, caldeggia Dante a non aver timore del muro («Figliuol mio, / qui può esser tormento, ma non morte», vv. 20-21) e ad aver invece fiducia, spronandolo a tentare il fuoco con la sua stessa veste. Questa volta però la ragione non ne esce vittoriosa, se ne rende conto Dante stesso, capendo che la sua paura e il rimanere paralizzato davanti alle fiamme vanno «contra coscienza» (v. 33), e se ne adombra «un poco» (v. 35) pure Virgilio.
Quello che vive Dante è un vero e proprio dramma che si consuma nella scelta di fidarsi o meno del suo maestro: sa che può farlo ma non ne ha il coraggio (e in questo si manifesta l’uomo Dante con tutte le sue debolezze), ciò nonostante attraversare il fuoco è per lui un imperativo. Il muro è lo strumento di punizione dei lussuriosi, ma è anche una barriera da oltrepassare per raggiungere la sommità del monte: Dante, infatti, si sta portando sempre più vicino al Paradiso terrestre dove incontrerà Matelda.
Di questo limite da varcare «è segno l’umano dramma di Virgilio, che riconosce qui la sua impotenza, e cede di fatto a Beatrice [...] il posto fin qui tenuto accanto a Dante» che si rinfranca all’udire il nome della donna, quando Virgilio afferma: «Or vedi, figlio: / tra Beatrice e te è questo muro» (vv. 35-36).
Il prezioso richiamo al mito di Piramo e Tisbe fa intuire come il nome di Beatrice sia così vincente: lei è l’amore che permette, sopra ogni ragione, di superare il fuoco. Questo Virgilio lo sa, come sa anche di rivolgersi a un Dante nell’atteggiamento di un figlio timoroso e di fatto gli sorride «come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (v. 45) dopo che Dante, al nome della donna, «fatta solla» (v. 40) la sua rigidità, si volge verso di lui. Allo stesso modo in cui Piramo, in punto di morte, al sentire Tisbe verso di lei muove gli occhi.
Se si osserva ancora il testo, si comprende come il rapporto che viene esaltato di più in Purgatorio XXVII non sia, dunque, soltanto quello fra maestro e discepolo, ma soprattutto quello fra padre e figlio. Il secondo, infatti, sembra avere molti accenni anche nella veste linguistica del canto.
Dante si rivolge a Virgilio solo una volta con l’appellativo di padre («Lo dolce padre mio», v. 52); quando invece si riferisce a entrambe le guide, dunque includendo anche Stazio, le chiama «buone scorte» (v. 19) e «gran maestri» (v. 114), e anche nel momento in cui Virgilio fa un passo indietro per richiamarsi all’aiuto del nome di Beatrice, si rivolge a lui chiamandolo «savio duca» (v. 41), ancorché l’evocativa immagine dei pastori («tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori», vv. 85-86) ricorda come, nel senso cristiano del termine, il pastore sia guida ma, ancor di più, padre buono e amorevole.
Tuttavia è nelle parole di Virgilio che si palesano numerosi riferimenti al rapporto padre-figlio. Innanzitutto Virgilio chiama Dante figlio per ben tre volte (vv. 20, 35 e 128) e il comportamento paterno che ha nei suoi confronti viene evidenziato soprattutto quando lo stesso Dante vive una situazione infantile sottolineata, come ha notato bene Contini, dall’uso del pronome allocutorio di prima plurale («Volenci star di qua?», v. 44): in questo momento Virgilio si comporta appunto come un padre o comunque nell’atto di rivolgersi a un fanciullo, non a caso il plurale viene solitamente usato dagli adulti quando parlano a un bambino.
Lo stesso Virgilio poi, con premura paterna, lo accompagna «dentro al foco» (v. 46), prega Stazio di seguirli e conforta Dante, con una frase che non può non metterlo al riparo da qualsiasi dubbio, «Li occhi suoi già veder parmi» (v. 54) e così a queste parole il fanciullo, insieme con le guide, giunge al principio della salita.
Dante ha dunque superato questa grande prova e, tralasciando tutti i risvolti simbolici che possono far pensare al passaggio del muro come a un rito di purificazione, da compiersi prima di arrivare nei pressi dell’Eden, ciò che si può rilevare è che la scomparsa del terrore in Dante (tramutatosi in fermezza tramite l’intervento implicito di Beatrice) e l’arrivo dall’altra parte del fuoco siano stati possibili grazie alle parole di Virgilio.
Tuttavia, dei due discorsi tenuti da Virgilio è sicuramente il secondo quello che resta nella memoria di ogni lettore, ovvero quello del momento del saluto, in cui la sua figura trova compimento: ha ormai portato a termine il suo compito e ha guidato Dante come maestro e come padre. Siamo alla fine del canto, ancora prima del congedo anche il paesaggio e l’atmosfera preparano l’evento, le tenebre fuggono da tutti i lati (v. 112) e la luce del nuovo giorno accompagna le parole piene di speranza di Virgilio:
«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de’ mortali,
oggi porrà in pace le tue fami». (vv. 115-117)
Il dolce frutto è la metafora della felicità terrena verso la quale Dante si avvicina sempre di più e il cui raggiungimento sarà la sua piena realizzazione, ma non solo, queste parole hanno così tanta forza da spronarlo a continuare a salire, purtroppo però «dove Dante arriva, Virgilio deve tornare indietro».
Le ultime parole di Virgilio sono profonde come il suo sguardo («in me ficcò [...] li occhi», v. 126): sa che la sua missione è compiuta dicendo a Dante «se’ venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno», inoltre comprende l’impossibilità di proseguire per la sua condizione di abitatore del Limbo, ma è una consapevolezza che, giustamente osserva la Chiavacci Leonardi, non cede al sentimento personale e che dunque non manca di autorità. Adesso a Dante viene data totale responsabilità poiché «dritto e sano» (v. 140) è il suo arbitrio.
In definitiva, si può leggere il canto come un momento di formazione in cui il fanciullo Dante, presosi di ardire e avendo con sé l’insegnamento di Virgilio, va avanti per la sua strada non più accompagnato, ma con la padronanza di sé ricevuta dall’incoronazione da parte del padre-maestro di imperatore di se stesso («per ch’io te sovra te corono e mitrio», v. 142). C’è qualcun altro che lo aspetta dall’altra parte, l’amore che vince le barriere di fuoco: Beatrice.
*
LA "DIVINA COMMEDIA", A PARTIRE DAL CANTO XXVII DEL "PURGATORIO": "GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"].
"INCREDIBILE, MA VERO": CHE, DOPO LA LEZIONE EVANGELICA DI FRANCESCO DI ASSISI (GRECCIO, 1223: IL "PRESEPE" COME "MODELLO" ANTROPOLOGICO E TEOLOGICO), E, ALLA LUCE DELLA ACCETTAZIONE E CONDIVISIONE DA PARTE DI DANTE ALIGHIERI DELLA FRANCESCANA "IMITAZIONE DI CRISTO", è soprendente che, ancora oggi (dopo la celebrazione del "Dante 2021" e l’istituzione del "25 Marzo" come giornata del "Dantedì"), si continui a negare la tradizione evangelica per la quale "Il cristiano è un altro Cristo" e a difendere la tradizione autoritaria e dogmatica della tradizione paolina che "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"]: ARRIVARE A PENSARE CHE Dante non "cantò" i "mosaici" dei "faraoni", ma diede conto e testimonianza della Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri", dell’’Amore che muove il Sole e le altre stelle, e sollecitò a porre fine allo "spettacolo" della "tragedia" del cattolicesimo costantiniano, è cosa ancora impensabile per la dottrina della "dotta ignoranza" (1440) e della "pace della fede" (1453), nonostante il lavoro di Lorenzo Valla?! Non è il caso di riorganizzare le idee e orientarsi meglio sul problema antropologico del come nascono i bambini e come è possibile recuperare la diritta via e rinascere a sé?!
Federico La Sala
Udienza. Il Papa: la Chiesa torni all’essenziale, Dio privilegia le periferie
Francesco ha ribadito che "è dovere imprescindibile" di quanti hanno responsabilità "in famiglia, nelle parrocchie, nella scuola, nei luoghi sportivi" quello di "proteggere ragazzi loro affidati"
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 17 novembre 2021)
All’udienza generale, il Papa ha iniziato un nuovo ciclo di catechesi dedicato allo sposo di Maria e padre putativo di Gesù. La scelta di Betlemme e Nazaret, ha spiegato, dice che “la periferia e la marginalità sono predilette da Dio”. Ed ha proposto una nuova preghiera a San Giuseppe: “Aiutaci a preferire ciò che il mondo scarta”.
“L’8 dicembre 1870 il beato Pio IX proclamò san Giuseppe patrono della Chiesa universale. A 150 anni da quell’evento, stiamo vivendo un anno speciale dedicato a San Giuseppe, e nella Lettera apostolica Patris corde ho raccolto alcune riflessioni sulla sua figura”. Con queste parole il Papa ha iniziato, in Aula Paolo VI, un ciclo di catechesi sulla figura di san Giuseppe. “Mai come oggi, in questo tempo segnato da una crisi globale con diverse componenti, egli può esserci di sostegno, di conforto e di guida”, ha spiegato Francesco: “Per questo ho deciso di dedicargli un ciclo di catechesi, che spero possano aiutarci ulteriormente a lasciarci illuminare dal suo esempio e dalla sua testimonianza. E per alcune settimane parleremo con San Giuseppe”.
“Nella Bibbia esistono più di dieci personaggi che portano il nome Giuseppe”, ha ricordato il Papa: “Il più importante tra questi è il figlio di Giacobbe e di Rachele, che, attraverso varie peripezie, da schiavo diventa la seconda persona più importante in Egitto dopo il faraone. Il nome Giuseppe in ebraico significa ‘Dio accresca, Dio faccia crescere’. È un augurio, una benedizione fondata sulla fiducia nella provvidenza di Dio e riferita specialmente alla fecondità e alla crescita dei figli”. “Proprio questo nome ci rivela un aspetto essenziale della personalità di Giuseppe di Nazaret”, ha commentato Francesco: “Egli è un uomo pieno di fede in Dio, nella sua Provvidenza. Crede nella Provvidenza di Dio, ha fede nella Provvidenza di Dio. Ogni sua azione narrata dal Vangelo è dettata dalla certezza che Dio ‘fa crescere’, ‘aumenta’, ‘aggiunge’, cioè che Dio provvede a mandare avanti il suo disegno di salvezza. E, in questo, Giuseppe di Nazaret assomiglia molto a Giuseppe d’Egitto”.
E ancora il Papa ha aggiunto: “Giuseppe, che è un falegname di Nazaret e che si fida del progetto di Dio sulla sua giovane promessa sposa e su di lui, ricorda alla Chiesa di fissare lo sguardo su ciò che il mondo ignora volutamente”.
“Cosa ci insegna Giuseppe?”, si è chiesto a braccio Francesco: “Guarda agli angoli, guarda alle ombre, guarda alle periferie, quello che il mondo non vuole. Egli ricorda a ciascuno di noi di dare importanza a ciò che gli altri scartano. In questo senso è davvero un maestro dell’essenziale: ci ricorda che ciò che davvero vale non attira la nostra attenzione, ma esige un paziente discernimento per essere scoperto e valorizzato. Scoprire quello che vale”. “Chiediamo a lui di intercedere affinché tutta la Chiesa recuperi questo sguardo, questa capacità di discernere e valutare l’essenziale”, l’invito: “Ripartiamo da Betlemme, ripartiamo da Nazaret”.
La nuova preghiera a San Giuseppe
Papa Francesco conclude con un messaggio di speranza rivolto “a tutti gli uomini e le donne che vivono le periferie geografiche più dimenticate del mondo o che vivono situazioni di marginalità esistenziale”. Possiate trovare, è il suo augurio, in San Giuseppe “il testimone e il protettore a cui guardare”. E offre una preghiera, “fatta in casa, ma uscita dal cuore”, con la quale rivolgersi allo sposo di Maria.
Francesco: il Signore continua a manifestarsi nelle periferie, sia geografiche che esistenziali
Sottolineando la scelta di Betlemme e Nazaret nella vita di Gesù, il Papa è tornato a parlare della periferia e della marginalità che sono predilette da Dio. “Il Figlio di Dio non sceglie Gerusalemme come luogo della sua incarnazione, ma Betlemme e Nazaret, due villaggi periferici, lontani dai clamori della cronaca e del potere del tempo”. A farlo notare è stato il Papa, nella catechesi dell’udienza di oggi, la prima dedicata alla figura di San Giuseppe. “La scelta di Betlemme e Nazaret ci dice che la periferia e la marginalità sono predilette da Dio”, ha spiegato Francesco, che ha aggiunto a braccio: “Gesù non nacque a Gerusalemme con tutta la corte, ma nacque in una periferia e ha fatto la sua vita fino a 30 anni in quella periferia, facendo il falegname come Giuseppe: per Gesù le periferie e le marginalità sono predilette”. “Non prendere sul serio questa realtà equivale a non prendere sul serio il Vangelo e l’opera di Dio, che continua a manifestarsi nelle periferie geografiche ed esistenziali”, il monito del Papa, che ha proseguito ancora a braccio: “Il Signore sempre agisce di nascosto, nelle periferie, nelle periferie dell’anima, nei sentimenti di cui vergogniamo, ma che il Signore vede. Il Signore continua a manifestarsi nelle periferie, sia geografiche che esistenziali”.
Il Papa: Gesù conosce le periferie del nostro cuore, la nostra parte oscura
“Sempre Gesù va verso le periferie, e questo ci da tanta fiducia, perché conosce le periferie del nostro cuore, della città anonima, della nostra società, della nostra famiglia, quella parte un po’ oscura che noi non facciamo vedere per vergogna” ha spiegato a braccio, il Papa, nella prima catechesi dedicata alla figura di San Giuseppe, nell’anno speciale a lui dedicato. “Sotto questo aspetto, la società di allora non è molto diversa dalla nostra”, ha commentato Francesco: “Anche oggi esistono un centro e una periferia. E la Chiesa sa che è chiamata ad annunciare la buona novella a partire dalle periferie”. “Gesù va a cercare i peccatori, entra nelle loro case, parla con loro, li chiama a conversione”, ha detto il Papa ancora a braccio: “Gesù è rimproverato per questo dai dottori della legge: ‘Guarda, questo maestro mangia con i peccatori, si sporca... Ma va a cercare anche quelli che il male non lo hanno fatto ma lo hanno subito: i malati, gli affamati, i poveri, gli ultimi. Va a cercare i peccatori che hanno fatto del male e coloro che non hanno fatto del male e lo hanno subito”.
Abusi, il Papa: proteggere ragazzi è un dovere imprescindibile
Giovedì 18 novembre si celebra la prima giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi promossa dalla Cei. Lo ha ricordato il Papa al termine dell’udienza generale. "Auspico che questa iniziativa possa essere occasione di riflessione, di sensibilizzazione e di preghiera per sostenere i cammini si recupero umano e spirituale delle vittime. È un dovere imprescindibile di quanti hanno qualche responsabilità educativa in famiglia, in parrocchia, nella scuola, nei luoghi ricreativi e sportivi di proteggere e rispettare gli adolescenti e i ragazzi loro affidati perché è proprio in quei posti dove la maggioranza degli abusi succedono", ha concluso il Papa.
In onore di Francesco e Chiara d’Assisi, dei Francescani (Dante Alighieri, compreso!) ... e di Leonard Boff
IGNOTI A SE’ STESSI ...ED ESPORTATORI DI ’CRISTIANESIMO’ E DI ’DEMOCRAZIA’!!!
La ’lezione’ (di Nietzsche e) di un aborigeno canadese ai ’registi’ della politica ’cattolica’ (e ’laica’).
di Federico La Sala (ildialogo.org, 22 novembre 2005)
Credo che ormai siamo proprio e davvero al capolinea - nella totale ignoranza di sé stessi i componenti della Gerarchia della Chiesa ’cattolica’ si agitano ... alla ’grande’!!! Non hanno proprio più nulla da dire, evidentemente! Sono scesi in campo ... ma contro Chi?!, contro che cosa?! Contro lo spirito francescano!!!
In segno di solidarietà, qui ed ora - 2005 dopo Cristo, con i francescani in carne ed ossa, oggetto di un richiamo, con un Motu Proprio, da parte dell’ex- prefetto ’kantiano’ Ratzinger, il papa Benedetto sedicesimo, forse non è inutile un breve commento a margine... per cercare di stare svegli e di svegliarci, possibilmente - tutti e tutte!
Dennis McPherson, un aborigeno (che ormai ’ci’ conosce bene, evidentemente!) canadese, ecco cosa (sapientemente e sorprendentemente - per noi, occidentali!!!), alla domanda - “qual è l’essenza dell’essere umano? E’ una creatura speciale con una missione speciale?” - di un’antropologa-intervistatrice, ha risposto:
Se teniamo presente le famose parole “De nobis ipsis silemus [...]”(di Francesco Bacone), messe da Kant sopra (come una pietra tombale) e prima di iniziare il suo discorso della e nella Critica della ragion pura, si può dire che il ’nostro’ aborigeno ha capito e visto più che bene - e meglio di tutti i filosofi e teologi dell’Occide[re]nte!!! E ’ce’ lo ha detto in faccia - ’papale’, ’papale’: basta!!!
Noi che non conosciamo ancora noi stessi (Nietzsche) .... e che navighiamo nel più grande “oscurantismo” - quello (più importante!!!) relativo a noi stessi, vogliamo pure dare lezioni ed esportare ’cristianesimo’ e ’democrazia’ in tutto il mondo!? “Mi”!?, e “Mah”!!!?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
Il segno.
Liberiamo il culto di Maria da mafia e potere criminale
Presentato a Roma il “Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio dei fenomeni criminosi e mafiosi”, interferenze che talvolta inquinano anche manifestazioni mariane.
di Igor Traboni (Avvenire, sabato 19 settembre 2020)
È stato presentato ufficialmente ieri a Roma, nel corso della manifestazione “Liberare Maria dalle mafie”, il Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio dei fenomeni criminosi e mafiosi, gemmazione della Pontificia Accademia mariana internazionale e la cui creazione è stata sostenuta da papa Francesco. E in apertura dei lavori, ospitati nel salone del Museo delle Civiltà, è stata data lettura proprio del messaggio che nelle settimane scorse il Pontefice ha inviato a padre Stefano Cecchin, presidente dell’Accademia e che "Avvenire" ha ampiamente trattato lo scorso 20 agosto.
«È necessario che lo stile delle manifestazioni mariane - scrive tra l’altro il Pontefice - sia conforme al messaggio del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa. Uno dei criteri per verificare ciò è l’esempio di vita dei partecipanti, i quali sono chiamati a rendere dappertutto una valida testimonianza cristiana», auspicando altresì che i devoti della Vergine assumano «atteggiamenti che escludono una religiosità fuorviata e rispondano invece ad una religiosità rettamente intesa e vissuta».
Concetti che ha ripreso lo stesso padre Cecchin, dopo i saluti e l’intervento di padre Augustin Hernandez Vidales, rettore dell’Università Antonianum che ospiterà il Dipartimento. «La cultura legata a Maria va salvaguardata - ha detto il presidente dell’Accademia mariana - laddove anche il Papa ci dice che la devozione mariana è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza.
La nostra Accademia, che è l’unica a fregiarsi del titolo di “internazionale” proprio perché raccoglie mariologi di tutto il mondo, ritiene sia importante conoscere per amare e imitare; vogliamo essere un luogo dove il sapere diventa servizio», ha aggiunto padre Cecchin, non prima di aver sottolineato l’importanza dei Santuari («cittadelle della preghiera e capisaldi di pietà mariana» li definisce ancora papa Francesco) e stigmatizzando le notizie di presunte apparizioni che annunciano catastrofi o fine del mondo e che sono pure questi «modi mafiosi di spaventare la gente».
E qui torniamo al nocciolo dell’iniziativa che prende le mosse proprio dalla condanna pronunciata il 21 giugno 2014 da papa Francesco nella diocesi calabrese di Cassano all’Jonio: «Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!». E prima ancora il 9 maggio 1993 ad Agrigento ci fu il famoso grido di Giovanni Paolo II: «Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!».
Ecco dunque che il Dipartimento vorrà porsi «a servizio sia della comunità civile che di quella ecclesiale», ha rimarcato padre Gian Matteo Roggio, consigliere della Pontificia Facoltà teologica “Marianum”, dando anche visibilità a quanti già portano avanti questo delicato lavoro, oltre a «creare percorsi di educazione per giovani e adulti», andando ad esempio nelle scuole. Insomma, studio e osservazione ma anche «un agire concreto», come ha chiosato il giornalista di Tv 2000 e presidente dei Web cattolici italiani (Weca) Fabio Bolzetta, che ha introdotto e moderato i lavori.
Il Dipartimento sarà strutturato in 10 aree, ha sottolineato il coordinatore della struttura Fabio Iadeluca, che toccheranno un po’ tutti i temi “sensibili”, compresi terrorismo, ecomafie, caporalato, devianze giovanili. Un primo rapporto è stato già stilato anche grazie all’Osservatorio per le Policy transdisciplinari internazionali, come ha spiegato il suo presidente Stefano Cuzzilla. In chiusura la consegnate delle pergamene di nomina ai membri del Dipartimento, presenti tra gli altri i pastori di Campobasso-Bojano Giancarlo Maria Bregantini, di Oppido Mamertina-Palmi Francesco Milito e don Luigi Ciotti, fondatore di Libera.
Religiosità e criminalità.
Liberare la Madonna dalle mafie. Messaggio di papa Francesco
di Filippo Rizzi ed Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
La devozione mariana va salvaguardata da una religiosità fuorviata. Nel mirino «gli inchini» delle statue ai boss nelle processioni e la presenza dei clan nelle feste patronali
Liberare la Madonna dalla mafia. È il senso del nuovo intervento che papa Francesco ha voluto fare inviando un messaggio al francescano minore padre Stefano Cecchin presidente della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami), che ha deciso di porre il tema «religiosità e criminalità» al centro del proprio lavoro, dando vita a un Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio, a cui sono stati chiamati anche esperti esterni, rappresentati da magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile. È a loro che si rivolge il Papa nel messaggio inviato in vista del convegno che la Pami realizzerà il 18 settembre prossimo.
«La devozione mariana è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza - scrive Francesco nel suo messaggio datato significativamente 15 agosto, festa dell’Assunzione -, liberandolo da sovrastrutture, poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà, onestà e solidarietà».
Il riferimento, neppure troppo velato, è all’uso che le varie mafie fanno degli eventi religiosi - processioni e feste patronali in particolare - per mostrare la propria presenza sul territorio e anche per creare consenso facendo proprio leva attraverso la fede popolare. Negli anni passati accadeva spesso di leggere degli “inchini” che le statue della Madonna o del santo patrono, facevano verso la casa del boss locale, segno di omaggio e, nello stesso tempo, di riaffermazione del potere in quel territorio. Leggi anche
E il Pontefice, che già in passato ha fatto sentire la propria voce contro il crimine organizzato e le varie mafie, ribadisce con forza come sia «necessario che lo stile delle manifestazioni mariane sia conforme al messaggio del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa».
Ecco allora che uno «dei criteri per verificare ciò, è l’esempio di vita dei partecipanti a tali manifestazioni, i quali sono chiamati a rendere dappertutto una valida testimonianza cristiana mediante una sempre più salda adesione a Cristo e una generosa donazione ai fratelli, specialmente i più poveri». Insomma le comunità locali vigilino sulle feste patronali e soprattutto su coloro che in quelle occasioni si presentano come devoti, nascondendo intenti tutt’altro che devozionali. E ai fedeli, quelli veri, papa Francesco chiede di «assumere atteggiamenti che escludono una religiosità fuorviata e rispondano invece a una religiosità rettamente intesa e vissuta».
Invito che il Pontefice estende anche ai Santuari mariani, affinché «diventino sempre più cittadelle della preghiera, centri di azione del Vangelo, luoghi di conversioni, caposaldi di pietà mariana, a cui guardano con fede quanti sono alla ricerca della verità che salva». Dunque, conclude il Papa, ben venga questo lavoro che la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) intende avviare con la creazione del Dipartimento.
Un passo nuovo, che coinvolge anche le realtà del territorio non solo legate alle parrocchie o alle diocesi. Del resto queste ultime, in particolare nelle regioni con la maggior presenza delle organizzazioni di stampo mafioso, già da tempo sono intervenute con documenti e anche decisioni che hanno portato alla rottura con il passato.
Lo stesso papa Francesco, come abbiamo detto, ha espresso con forza l’impossibilità di far convivere una fede religiosa autentica e l’appartenenza alla mafia. Nella spianata di Sibari, durante la sua visita alla diocesi di Cassano all’Jonio il 21 giugno 2014, papa Bergoglio nell’omelia della Messa arrivò a dire che «coloro che seguono nella loro vita questa strada del male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati».
Concetto ribadito nell’omelia della Messa celebrata poco più di quattro anni dopo (il 15 settembre 2018) a Palermo in ricordo del beato don Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore».
Per questo «ai mafiosi dico: cambiate fratelli e sorelle. Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle. Io dico a voi mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».
E se, come disse nella visita a Napoli il 21 marzo 2015, «un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza», papa Francesco richiama tutti i credenti a essere vigilanti contro le distorsioni che della devozione mariana viene fatta. Un compito che richiama le coscienze di tutti all’impegno. E a non voltare le spalle quando si manifestano lungo i borghi della nostra Penisola queste deviate devozioni religiose.
Pami.
Culto mariano, un laboratorio per difendere la devozione dalla criminalità
Teologi, ma anche magistrati e giudici, nel Dipartimento creato nella Pontificia accademia Padre Roggio: studiare le cause delle deviazioni. Il criminologo Iadeluca: riti per odio e omertà Filippo Rizzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
Un dipartimento ad hoc all’interno della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) per studiare i fenomeni criminali e mafiosi e così «liberare la figura della Madonna dall’influsso delle organizzazioni malavitose». È quanto è allo studio di questa Istituzione pontificia per evitare di strumentalizzare la figura della Vergine da parte dei boss e dei clan criminali presenti nel nostro Paese: dalla Lombardia alla Calabria. Un centro studi sorto soprattutto sulla scorta dei recenti interventi di papa Francesco a questo riguardo: tra questi in particolare quello pronunciato, il 21 giugno del 2014, dove il Vescovo di Roma nella piana di Sibari in Calabria pronunciò parole inequivocabili: «La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati».
E il prossimo 18 settembre a Roma la Pami nel corso di un convegno traccerà le linee guida di questo nuovo Dipartimento che coinvolge (una trentina di persone): non solo teologi e mariologi ma anche magistrati (molto di loro della Dda, Direzione distrettuale antimafia), criminologi, avvocati, membri delle Forze dell’Ordine e sindaci di importanti città.
«Persone che ogni giorno - spiega il mariologo padre Gian Matteo Roggio, appartenente alla Congregazione dei missionari di Nostra Signora della Salette e tra i principali ispiratori di questa nuova sezione della Pami - si confrontano con il fenomeno mafioso, lo contrastano all’insegna della cultura della legalità. In un certo senso come recita il documento programmatico di questo nuovo dipartimento siamo chiamati tutti a un autentica “teologia della liberazione” dalle mafie».
Un evento assicurano gli organizzatori che ha anche il sostegno di papa Francesco. «Per il Convegno - racconta padre Roggio - il Papa ha inviato un messaggio chiaro e forte che porta la data del 15 agosto scorso. E caso singolare il documento reca la firma di Francesco dal palazzo del Laterano il luogo adiacente alla Cattedrale di Roma. In questo testo Francesco chiede a chi si professa autenticamente cristiano di salvaguardare la devozione mariana nella sua originaria purezza».
L’auspicio di questa task force di esperti è proprio quella di liberare anche idealmente luoghi simbolo come alcuni Santuari mariani del nostro Meridione - basti pensare - a quello della “Madonna di Polsi” nel cuore dell’Aspromonte dall’uso distorto di devozioni che ne fanno oggi le mafie odierne. «Il rito dell’iniziazione è la liturgia che accompagna l’ingresso del neofita nell’organizzazione.
È simile al “Battesimo” e deve essere considerata una “sorta di rinascita”, ovvero la nascita a nuova vita - spiega il criminologo Fabio Iadeluca -. Nella ’ndrangheta, in modo particolare rispetto a cosa nostra, alla camorra, alla sacra corona unita ed altre forme associative mafiose pugliesi, le forme rituali rappresentano l’essenza stessa dell’organizzazione e ne disciplina la vita dei suoi affiliati».
E aggiunge un dettaglio: «Monitorando questi episodi e intercettazioni ambientali a preoccuparci è stata l’adulterazione delle tradizionali venerazioni alla Madonna o ad importanti santi del Sud, penso in particolare a san Michele Arcangelo che con queste pratiche si trasformano in figure vendicatrici e cariche di odio; si tratta di usanze che servono a tutelare tutta una rete di omertà su cui si reggono queste realtà. Sono quasi sempre riti di iniziazione violenti con l’uso di santini e immagini sacre provenienti dal nostro patrimonio di fede cattolica».
Agli occhi di padre Roggio l’appuntamento di settembre servirà a fare chiarezza su quanto il magistero ecclesiale dice a riguardo. «Non è in discussione quanto da tempi non sospetti la Chiesa - è l’osservazione - si sia pronunciata per dire no a questi fenomeni e ribadire che tutto questo non appartiene alla corretta dottrina e spiritualità. Ma lo sforzo ulteriore che il nostro osservatorio vuole offrire è di andare alle radici culturali e antropologiche che fanno scaturire queste deviazioni religiose». Una sfida dunque di lungo termine.
«Penso che gli esempi di don Diana e don Puglisi e di come la Chiesa abbia mostrato proprio ai boss - è la riflessione finale - che questi miti sacerdoti erano dei modelli da imitare e non il contrario. Spesso viene usata dalla “cultura mafiosa” la figura della Vergine come un modello di obbedienza passiva di fronte al potere dominante. Essa viene raffigurata come una donna capace “oleograficamente” solo di piangere per la morte di un figlio. Bisogna dire basta a questo uso distorto dell’immagine della Madonna e ricordare attraverso la voce di tutti che ogni atto compiuto nella sua vita terrena e celeste è stato quello di essere in ascolto di tutti e in comunione fraterna con tutti gli uomini di buona volontà proprio come ci mostra il Vangelo quando ci parla di Lei a cominciare dal suo “fiat” all’arcangelo Gabriele».
Il Papa in Asia
All’Annuncio serve il «dialetto» perché non ne siamo padroni
di Maurizio Patriciello (Avvenire, sabato 23 novembre 2019)
La paura paralizza la libertà, tarpa le aspirazioni, impedisce di guardare oltre l’orizzonte. Dio è amore, libertà, verità. Amarlo vuol dire annunciare la ’sua’ Parola, non la nostra camuffata. In ogni discorso di papa Francesco in Thailandia - come del resto dappertutto - riecheggia il Vangelo che da due millenni impregna le nostre terre. Ogni uomo traduce in immagini le parole che giungono ai suoi orecchi. La parola ’pane’, per esempio, richiama alla mia mente un mondo che ha il sapore della casa, degli affetti, del camino acceso e delle carezze della mamma. Non posso, e non mi permetto, di pretendere che le stesse sensazioni le provi un cinese, o un islandese.
Il rispetto per la persona umana, quando è vero, deve passare attraverso il rispetto della sua cultura, della sua storia, della sua lingua, del suo mondo interiore. Al Papa stanno a cuore le persone, tutte, quelle non credenti e quelle di diverse religioni; e quelle che, come lui, hanno scommesso su Gesù la loro vita. Francesco sa che il grano della Parola che salva può e deve essere separato dalla crusca.
Siamo legati alle nostre tradizioni, è un bene? Si, se riconosciamo che sono ’nostre’, appartengono a noi, alla nostra storia. Via San Gregorio Armeno è un vicolo della vecchia Napoli, che nei giorni di Natale diventa un solo, grande mercato di presepi. Qui, folkrore, fede, tradizione, affari si confondono. Ebbene, credo che proprio il presepe napoletano, nella sua ingenuità, possa assurgere ad esegesi delle parole del Papa. Il mondo che rappresenta, infatti, non è quello di Betlemme dove nacque Gesù ma la Napoli del Settecento. I napoletani lo hanno sempre saputo e non se ne sono mai scadalizzati. Al contrario.
In quelle scenografie in miniatura, oltre alla capanna con la Sacra famiglia, c’è di tutto, e altro si può aggiungere, secondo la fantasia di ognuno. Oggi diremmo che il presepe napoletano è inclusivo. Le bancarelle dei pescivendoli, i negozietti dei merciai e dei macellai, li puoi trovare ancora oggi a Porta Nolana, ai Vergini, ai Quartieri spagnoli. Le massaie sorridenti, con gli zigomi rossi fuoco e i grembiuli che servivano anche come borse per la spesa, sono le nostre bisnonne. Gli zampognari sono scesi dai monti dell’Irpinia e del Molise, per suonare, dietro una piccola offerta, la ninna nanna a Gesù davanti alle nostre case.
«Il Signore non ci ha chiamati per mandarci nel mondo a imporre alle persone carichi più pesanti di quelli che già hanno, ma a condividere una gioia, un orizzonte bello, nuovo e sorprendente» ha detto Francesco in Asia ai religiosi cattolici. Perciò «non bisogna aver paura di cercare nuove forme, simboli, immagini e musiche per inculturare sempre di più il vangelo e ridestare il desiderio di conoscere il Signore». Il Papa invita poi i cristiani di tutto il mondo a confessare la fede «in dialetto» alla maniera in cui una mamma canta la ninna nanna al suo bambino. Bellissimo. Proprio come ha fatto Maria. Il Papa come il grande sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
Da più di duecento anni, la notte di Natale, nelle nostre chiese, risuona il suo Quann nascette Ninno. In dialetto, appunto. Dobbiamo impegnarci di più per imparare meglio ad annunciare Cristo «in dialetto», facendoci, cioè, «tutto a tutti». Senza tentennamenti, senza paure, senza sentirci padroni di niente. Coscienti di essere solo «servi inutili» che hanno avuto la grazia immensa di averlo conosciuto.
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Mediterraneo contesto del pensiero di pace.
Il Papa a Napoli, per la teologia che serve
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
«La teologia dopo “Veritatis gaudium” nel contesto del Mediterraneo» è il titolo del convegno internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale-Sezione San Luigi di Napoli. L’incontro che si è aperto giovedì verrà concluso venerdì mattina alle 12 da un intervento di papa Francesco. Al suo arrivo ad attenderlo, il Papa troverà, tra gli altri, il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e Gran cancelliere della Facoltà; il decano della Facoltà padre Pino Di Luccio e gli altri responsabili, il vescovo di Nola, Francesco Marino in rappresentanza dei presuli della Campania, e il gesuita Joaquin Barrero Diaz, assistente regionale per l’Europa del Sud. A Napoli sarà presente anche il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti.
A Napoli, per la teologia che serve: quella del contesto. Che è quella che parte "dal basso" e non si stacca dalla vita concreta con tutte le sue contraddizioni, le sue tensioni e indaga i segni dei tempi per cogliere l’attualità della Parola di Dio, appunto, nel contesto in cui viviamo. Per capire e studiare i problemi che investono l’umanità e insieme proporre risoluzioni. E in questo caso, a Napoli, il contesto è il Mediterraneo, culla di dialogo e scambi e battaglie e oggi soprattutto teatro di conflitti. È per questa teologia che venerdì, nella partenopea collina di Posillipo, papa Francesco busserà alla porta della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - che ha dato corpo a un convegno di due giorni sulla nuova frontiera del Mare Nostrum a partire dalla Veritatis gaudium - per una riflessione conclusiva.
Il tema della sua relazione, "La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo" sarà così una messa a punto di una prospettiva e una spinta d’eccezione a un percorso indicato.
Il Papa ha voluto scegliere il luogo di questo contesto proprio per rilanciare e dare forma e contenuto pratici alla riforma teologica che quasi un anno e mezzo fa ha promulgato con la pubblicazione della costituzione apostolica destinata alle università e facoltà teologiche ecclesiastiche.
Nel proemio della Veritats gaudium, queste, infatti, non sono solo chiamate a offrire percorsi di formazione qualificata dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma «costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della sapienza e della scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il Popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi».
Un «provvidenziale laboratorio culturale», insomma, nella visione del Papa, che porta a concepire anche le facoltà teologiche come le definiva Ivan Illich, academic inn, nel senso di una convergenza di studium e convivium. Un luogo privilegiato di servizio dove, l’intreccio fruttuoso delle conversazioni, può diventare l’autentico tessuto vitale e scientifico se anche il centro visibile e spaziale dell’università viene aperto nella consapevolezza che il modo migliore per dialogare non è solo quello di parlare e discutere, «ma quello di fare qualcosa insieme».
«È giunto ora il momento - ha scritto ancora Francesco nel proemio - in cui questo ricco patrimonio di approfondimenti e di indirizzi, verificato e arricchito per così dire "sul campo" dal perseverante impegno di mediazione culturale e sociale del Vangelo messo in atto dal popolo di Dio nei diversi ambiti continentali e in dialogo con le diverse culture, confluisca nell’imprimere agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa "in uscita"».
Per il Papa il rinnovamento della teologia non può che passare dall’ascolto e dall’osservazione attenta di tutte quelle esperienze che il popolo di Dio già sta facendo e in cui sta avvenendo una sintesi tra le diverse culture delle persone e proprio nell’ascolto di queste esperienze, in cui il Vangelo tocca davvero il vissuto umano, si troveranno i criteri, le prospettive, gli impulsi che ci aiuteranno a rinnovare la teologia.
«Far precedere la partecipazione al convegno con una visita tra i terremotati di Camerino forse indica proprio questo», sintetizza il decano gesuita Pino Di Luccio, docente di teologia biblica. Quella della sua Facoltà, è una teologia "in contesto" nella direzione della riforma delineata da papa Bergoglio nella Veritatis gaudium che si distingue per l’attitudine al dialogo con le culture, per l’orientamento inter e trans-disciplinare, per le competenze nelle varie discipline del sapere, e per l’apertura e la conoscenza delle altre religioni.
La sezione San Luigi della Facoltà dal 2016 promuove iniziative all’insegna della convivenza, dell’interculturalità e del dialogo con i musulmani e gli ebrei, anch’essi tra i relatori del convegno cominciato giovedì.
A tema c’è anche il documento di Abu Dhabi. L’insieme di Paesi, attraversati dal Mediterraneo e uniti dal dialogo di due uomini che si incontrano, è simbolo e inizio di un nuovo periodo interreligioso per una via di fratellanza nel Mediterraneo. -Del resto nel documento che febbraio il grande imam di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb ha firmato assieme a papa Francesco si chiede che questo diventi oggetto di ricerca e di riflessione in tutte le scuole, nelle università e negli istituti di educazione e di formazione, «al fine di contribuire a creare nuove generazioni che portino il bene e la pace e difendano ovunque il diritto degli oppressi e degli ultimi». E certamente non mancherà, in questo contesto, di essere menzionato dal Papa.
Cultura
Dialogo: a Napoli nasce la Teologia del Mediterraneo alla luce del pontificato di Papa Francesco
di Gigliola Alfaro (AgenSir, 17 giugno 2017)
Di fronte alla complessità dei nostri tempi, questo percorso vuole dare ragione della fede, che sa comunicarsi, in un confronto con i saperi, con la storia, con le culture e le religioni, dentro il cammino dell’umanità, per aprirsi alle provocazioni che vengono dal presente e proiettarsi verso un futuro da costruire insieme. Le voci del decano, padre Pino Luccio, e della coordinatrice del biennio, Giuseppina De Simone
“Offrire una formazione teologica che abiliti alla comprensione e all’annuncio della fede cristiana in dialogo con le culture, i popoli le religioni. In questo modo vogliamo rendere un servizio alle Chiese locali per preparare preti e laici competenti nel campo del dialogo interreligioso e nella mediazione culturale della tradizione cristiana”. Così padre Pino Luccio, decano della sezione San Luigi della Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale, spiega l’obiettivo del biennio di Teologia fondamentale, indirizzo “Teologia dell’esperienza religiosa nel contesto del Mediterraneo”, che partirà dall’anno accademico 2017-2018. Una scelta innovativa elaborata “alla luce del pontificato di Papa Francesco”:
E Napoli, città dell’incontro - evidenzia padre Luccio -, è un luogo che favorisce il dialogo: più di altre città del Mediterraneo, ha la capacità di accogliere quasi naturalmente persone che vengono da altre culture. Qui ognuno trova il suo spazio di espressione”. A Giuseppina De Simone, coordinatrice del biennio di Teologia fondamentale, abbiamo chiesto di illustrarci il progetto.
Come nasce l’idea di una Teologia del Mediterraneo?
I flussi migratori e la riflessione sulla capacità dell’Europa di accoglienza ci ha invogliati a promuovere un itinerario strutturato di teologia che assumerà come orizzonte specifico il contesto del Mediterraneo. La licenza di Teologia fondamentale che ospiterà questo percorso di Teologia del Mediterraneo vuole dare ragione della fede, che sa comunicarsi, in dialogo con i saperi, con la storia, con le culture e le religioni, dentro il cammino dell’umanità.
La drammatica situazione di un Mediterraneo, che diventa, da culla di civiltà e di religioni, la tomba di una moltitudine di disperati, si traduce in un appello forte a ritrovare il senso profondo dell’umano.
Oggi, perciò, siamo sollecitati a dare ragione della fede non arroccandoci, non difendendoci, ma mettendoci in cammino, imparando a stare dentro alla complessità del presente, ma in cui la fede può offrire una chiave di lettura. Non vuol dire trovare soluzioni facili, ma cogliere anche una direzione di senso rispetto alla quale assumerci le nostre responsabilità:
Avviare una Teologia del Mediterraneo a Napoli non è una scelta casuale...
Napoli è particolarmente adatta ad accogliere questa proposta per la sua collocazione geografica e per la sua storia: è stata e continua a essere una grande capitale del Mediterraneo e lo è proprio per quella umanità che la caratterizza e per la fede che ne ha segnato la storia. Noi riserveremo anche una sezione particolare allo studio della religiosità popolare, non soltanto da un punto di vista antropologico-culturale, ma anche teologico e pastorale perché crediamo che il vissuto della nostra gente sia intriso di questa particolarità del Mediterraneo che è luogo di incontri, scontri, contaminazioni tra culture diverse e mare di mezzo. Tutto questo è nella fede della nostra gente e nella tradizione di vita ecclesiale, oltre che sociale e culturale, che bisogna imparare a leggere e recuperare. Anche il linguaggio dell’arte sarà fondamentale nel nostro percorso. La storia della nostra terra è scritta su pietra;
Come sarà strutturato l’indirizzo in Teologia del Mediterraneo?
Nel biennio avremo alcuni corsi che ci aiuteranno a capire il contesto nel quale siamo: uno sarà, ad esempio, sui flussi migratori di ieri e di oggi: problema o risorsa? Ci saranno corsi che faranno entrare nella variegata realtà delle religioni del Mediterraneo, che riguarderanno l’islam, elementi di lingua araba, Sacra Scrittura al tempo di Gesù, la religiosità popolare, la pedagogia del dialogo, la pastorale dell’ecumenismo, le religioni come forza di pace o principio di violenza, la Chiesa e le altre religioni: quale dialogo?
Quale sarà l’impostazione della licenza?
Seguiremo un metodo laboratoriale. I programmi dei corsi sono stati pensati insieme da più docenti, che poi condurranno insieme gli stessi corsi. Anche gli studenti non saranno fruitori passivi. Abbiamo cercato di coinvolgere pure i vescovi, perché
Nel biennio, che ha un approccio multidisciplinare, avremo, infine, docenti che vengono da facoltà statali ed esperti a livello internazionale, ad esempio professori che vengono dall’Università ebraica di Gerusalemme: il corso sull’islam sarà tenuto da Meir Bar-Asher, tra i massimi esperti del Corano a livello internazionale.
LA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA O LA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA?! Al di là della Trintà edipica....*
La Trinità
di José Tolentino Mendonça (Avvenire, domenica 16 giugno 2019)
Come si rappresenta il mistero? Noi ci accostiamo a esso a tastoni, consapevoli che i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre immagini vacillano e arrivano appena a intravvederne, poveramente, la realtà. Ma questo nostro tentativo di approssimazione costituisce comunque un importante patrimonio di fede.
Pensiamo ad Andrej Rublëv: siamo nella seconda metà del XV secolo quando egli crea quella che sarà la più celebre icona della Trinità. Il testo biblico soggiacente (Gen 18,1-15) è quello dell’ospitalità che Abramo offre ai tre personaggi celesti che lo visitano. Nella contemplazione di questa stupenda icona della Trinità, l’orante viene condotto al centro del mistero di Dio.
In effetti, ciò che vien lì focalizzato è il Dio unico, un solo Dio con la stessa natura divina in tre persone. I tratti fisionomici coincidono esattamente, come se fosse la medesima figura mostrata per tre volte, anche se in tre posizioni differenti.
I personaggi hanno lo stesso volto, lo stesso atteggiamento del corpo, le stesse ali. Inoltre, tutti hanno in mano uno scettro e posseggono un’aureola per indicare eguali dignità e regalità.
Ciascun personaggio, però, occupa una posizione differente nello spazio e sono diversi i gesti, i colori degli abiti e il gioco degli sguardi.
Il Padre, da cui proviene ogni benedizione, guarda all’umanità attraverso il Figlio. E il Figlio guarda a noi attraverso lo Spirito Santo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEL SOLE DI ORIENTE E DI OCCIDENTE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 3. «Lingue come di fuoco» (At 2,3). La Pentecoste e la dynamis dello Spirito che infiamma la parola umana e la rende Vangelo *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Cinquanta giorni dopo la Pasqua, in quel cenacolo che è ormai la loro casa e dove la presenza di Maria, madre del Signore, è l’elemento di coesione, gli Apostoli vivono un evento che supera le loro aspettative. Riuniti in preghiera - la preghiera è il “polmone” che dà respiro ai discepoli di tutti i tempi; senza preghiera non si può essere discepolo di Gesù; senza preghiera noi non possiamo essere cristiani! È l’aria, è il polmone della vita cristiana -, vengono sorpresi dall’irruzione di Dio. Si tratta di un’irruzione che non tollera il chiuso: spalanca le porte attraverso la forza di un vento che ricorda la ruah, il soffio primordiale, e compie la promessa della “forza” fatta dal Risorto prima del suo congedo (cfr At 1,8). Giunge all’improvviso, dall’alto, «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).
Al vento poi si aggiunge il fuoco che richiama il roveto ardente e il Sinai col dono delle dieci parole (cfr Es 19,16-19). Nella tradizione biblica il fuoco accompagna la manifestazione di Dio. Nel fuoco Dio consegna la sua parola viva ed energica (cfr Eb 4,12) che apre al futuro; il fuoco esprime simbolicamente la sua opera di scaldare, illuminare e saggiare i cuori, la sua cura nel provare la resistenza delle opere umane, nel purificarle e rivitalizzarle. Mentre al Sinai si ode la voce di Dio, a Gerusalemme, nella festa di Pentecoste, a parlare è Pietro, la roccia su cui Cristo ha scelto di edificare la sua Chiesa. La sua parola, debole e capace persino di rinnegare il Signore, attraversata dal fuoco dello Spirito acquista forza, diventa capace di trafiggere i cuori e di muovere alla conversione. Dio infatti sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cfr 1Cor 1,27).
La Chiesa nasce quindi dal fuoco dell’amore e da un “incendio” che divampa a Pentecoste e che manifesta la forza della Parola del Risorto intrisa di Spirito Santo. L’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio che fa nuove tutte le cose e si incide in cuori di carne.
La parola degli Apostoli si impregna dello Spirito del Risorto e diventa una parola nuova, diversa, che però si può comprendere, quasi fosse tradotta simultaneamente in tutte le lingue: infatti «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,6). Si tratta del linguaggio della verità e dell’amore, che è la lingua universale: anche gli analfabeti possono capirla. Il linguaggio della verità e dell’amore lo capiscono tutti. Se tu vai con la verità del tuo cuore, con la sincerità, e vai con amore, tutti ti capiranno. Anche se non puoi parlare, ma con una carezza, che sia veritiera e amorevole.
Lo Spirito Santo non solo si manifesta mediante una sinfonia di suoni che unisce e compone armonicamente le diversità ma si presenta come il direttore d’orchestra che fa suonare le partiture delle lodi per le «grandi opere» di Dio. Lo Spirito santo è l’artefice della comunione, è l’artista della riconciliazione che sa rimuovere le barriere tra giudei e greci, tra schiavi e liberi, per farne un solo corpo. Egli edifica la comunità dei credenti armonizzando l’unità del corpo e la molteplicità delle membra. Fa crescere la Chiesa aiutandola ad andare al di là dei limiti umani, dei peccati e di qualsiasi scandalo.
La meraviglia è tanta, e qualcuno si chiede se quegli uomini siano ubriachi. Allora Pietro interviene a nome di tutti gli Apostoli e rilegge quell’evento alla luce di Gioele 3, dove si annuncia una nuova effusione dello Spirito Santo. I seguaci di Gesù non sono ubriachi, ma vivono quella che Sant’Ambrogio definisce «la sobria ebbrezza dello Spirito», che accende in mezzo al popolo di Dio la profezia attraverso sogni e visioni. Questo dono profetico non è riservato solo ad alcuni, ma a tutti coloro che invocano il nome del Signore.
D’ora innanzi, da quel momento, lo Spirito di Dio muove i cuori ad accogliere la salvezza che passa attraverso una Persona, Gesù Cristo, Colui che gli uomini hanno inchiodato al legno della croce e che Dio ha risuscitato dai morti «liberandolo dai dolori della morte (At 2,24). È Lui che ha effuso quello Spirito che orchestra la polifonia di lodi e che tutti possono ascoltare. Come diceva Benedetto XVI, «la Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé» (Omelia, 3 giugno 2006). Lo Spirito opera l’attrazione divina: Dio ci seduce con il suo Amore e così ci coinvolge, per muovere la storia e avviare processi attraverso i quali filtra la vita nuova. Solo lo Spirito di Dio infatti ha il potere di umanizzare e fraternizzare ogni contesto, a partire da coloro che lo accolgono.
Chiediamo al Signore di farci sperimentare una nuova Pentecoste, che dilati i nostri cuori e sintonizzi i nostri sentimenti con quelli di Cristo, così che annunciamo senza vergogna la sua parola trasformante e testimoniamo la potenza dell’amore che richiama alla vita tutto ciò che incontra.
* PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 giugno 2019 (ripresa parziale).
Sepe: "Il Papa a Napoli per migranti e lavoro"
Il cardinale presenta la visita di venerdì del pontefice in città
di ANTONIO DI COSTANZO (la Repubblica - Napoli, 16 giugno 2019)
«Il Papa è sempre impegnato nel costruire ponti. Napoli è una città aperta che per tradizione, storia e contesto vuole accogliere, al contrario di chi chiude le porte e trasforma il nostro mare Mediterraneo in un cimitero». Parla così il cardinale Crescenzio Sepe dalla sede della pontificia facoltà Teologica che ospita anche la casa dei gesuiti di via Petrarca presentando il convegno “la teologia dopo la Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo” al quale prenderà parte venerdì anche Papa Francesco. Un incontro che rappresenta una novità per l’intervento di un pontefice che prenderà la parola durante i lavori.
Il forum candida Napoli a diventare laboratorio di una nuova teologia. «Con la sua Veritatis Gaudium - afferma Sepe -il Papa sottolinea che la teologia va letta e interpretata nel contesto in cui ci troviamo a vivere. Una teologia che non è solo accademica, ma che affronta il mondo che viviamo». E quale argomento è più attuale di quello dell’accoglienza? E questo sarà il tema della due giorni di lavori come si evince già dal logo: una “goccia di più colori con il blu del mare Mediterraneo, il rosso delle terre, e due persone che si incontrano e si abbracciano dalle diverse sponde, intrecciandosi e creando una sorta di ponte tra chi accoglie e chi viene accolto. Sepe, senza nominarlo, punta il dito contro il ministro dell’Interno, Matteo Salvini: «Mi rivolgo a chi istituzionalmente deve rendere questo nostro mare, un mare che accoglie che sa salvare soprattutto quando si tratta di bambini, donne e ammalati. A nessuno è permesso rifiutare o scartare queste persone. Sono fratelli e sorelle e hanno bisogno di assistenza. Abbiamo il dovere umano e cristiano di accoglierli».
Tornando alla visita, l’elicottero con il Papa a bordo atterrerà al parco Virgiliano alle 9 del 21 giugno. In auto raggiungerà la sede della facoltà teologica di via Petrarca che si affaccia sul il golfo di Napoli. Non sono previsti incontri con la città ma sottolinea il cardinale: «Papa Francesco è ben informato sulla situazione di Napoli a cominciare dai problemi del lavoro». Probabile nel suo discorso un riferimento alle crisi industriale che si stanno vivendo in questi giorni e in particolare alla Whirlpool. Tra l’altro ieri c’era anche il segretario generale della Flai Cgil Campania, Giuseppe Carotenuto, nella delegazione della Cgil che ha incontrato in udienza privata il pontefice, insieme al segretario generale della Cgil, Maurizio Landini e della Flai Cgil, Giovanni Mininni.
Al convegno prenderanno parte oltre 700 persone, tutte invitate, tra loro soprattutto alunni e docenti della università pontificia, con loro intellettuali e studiosi provenienti da tutte le facoltà di Teologia. Poche le autorità previste: il prefetto Carmela Pagano, il presidente della Regione Vincenzo De Luca e il sindaco Luigi de Magistris. Papa Francesco lascerà Napoli intorno alle 15 «Visita strettamente privata - aggiunge Sepe - il pontefice sarà poco nelle strade di Napoli ma sarà molto presente nel cuore dei napoletani. Da quando è stato qui anche lui ama ripetere “A Maronna v’accumpagna”».
Si parlerà di teologia e accoglienza e lo si farà passando anche attraverso la cultura con gli studenti della facoltà pontificia che presenteranno video di opere d’arte e testi di filosofia: «Questo incontro - aggiunge l’arcivescovo - vuole essere un invito ai teologi ad aprire il proprio orizzonte verso i popoli, partendo dal contesto che ci viene da questo Mediterraneo.
Contestualizzare la teologia nel Mediterraneo vuole essere un messaggio ai popoli di sentirsi uniti da questo mare nostrum e scrivere forse una pagina nuova dei popoli. E non si parte da zero perché questa idea è qualcosa che fa parte fin dall’inizio della teologia di Papa Francesco, una teologia non solo di nozioni, ma che va raffrontata con il mondo». Domani tavolo tecnico per organizzare nei dettagli l’accoglienza. Previste navette per permettere agli invitati di raggiungere il convegno promosso con l’obiettivo di «lanciare un messaggio all’unità dei popoli, nonostante le diversità» . Lo evidenzia con chiarezza anche il padre gesuita Pino Di Luccio, vicepreside della Facoltà: «Napoli è una città caratterizzata dall’accoglienza, una città da cui si può partire per una nuova teologia del contesto del Mediterraneo».
De Magistris a Saviano: ’Sei diventato un brand’
’Più si spara, più cresce la tua impresa, sei diventato brand’
di Redazione ANSA *
A Napoli "più si spara, più cresce la tua impresa. Non posso credere che il tuo successo cresca con gli spari della camorra". Così, con un durissimo post su Facebook, il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, si rivolge allo scrittore Roberto Saviano per il quale a Napoli nulla sta cambiando. La polemica dopo il raid nella zona del mercato della Duchesca dove sono stati feriti tre senegalesi ed una bambina di 10 anni. "Caro Saviano, sei diventato un brand che tira se tira una certa narrazione", aggiunge de Magistris.
IL POST
Pronta la replica di Saviano: "Sindaco De Magistris, quando le mistificazioni della sua amministrazione verranno al pettine, a pugnalarla saranno i tanti lacchè, più o meno pagati, dei quali si circonda per mistificare la realtà, unico modo per evitare di affrontarla. Due sparatorie in pieno centro - scrive Saviano - e una bambina di 10 anni ferita in un luogo affollatissimo della città: ma il sindaco è infastidito dalla realtà, a lui non interessa la realtà, a lui interessa l’idea, quell’idea falsa di una città in rinascita: problema non sono le vittime innocenti del fuoco della camorra, problema è che poi Saviano ne parlerà. Il contesto nel quale nascono e crescono le organizzazioni criminali, fatto di assenza delle regole e lassismo, da quando lui è sindaco non solo non è mutato, ma ha preso una piega più grottesca: ora la camorra in città è minorenne e il disagio si è esteso alle fasce anagraficamente più deboli".
LE DICHIARAZIONI DI DE MAGISTRIS
"Caro Saviano, mi occupo di mafie, criminalità organizzata e corruzione da circa 25 anni, inizialmente come pubblico ministero in prima linea, oggi da sindaco di Napoli. Ed ho pagato prezzi alti, altissimi. Non faccio più il magistrato per aver contrastato mafie e corruzioni fino ai vertici dello Stato. Non ti ho visto al nostro fianco. Caro Saviano, ogni volta che a Napoli succede un fatto di cronaca nera, più o meno grave, arriva, come un orologio, il tuo verbo, il tuo pensiero, la tua invettiva: a Napoli nulla cambia, sempre inferno e nulla più. Sembra quasi che tu non aspetti altro che il fatto di cronaca nera per godere delle tue verità", sostiene il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, rivolgendosi allo scrittore.
"Se utilizzassi le tue categorie mentali dovrei pensare che tu auspichi l’invincibilità della camorra per non perdere il ruolo che ti hanno e ti sei costruito. E probabilmente non accumulare tanti denari. Ed allora, caro Saviano, mi chiedo: premesso che a Napoli i problemi sono ancora tanti, nonostante i numerosi risultati raggiunti senza soldi e contro il Sistema, come fai a non sapere, a non renderti conto di quanto sia cambiata Napoli. Ce lo dicono in tantissimi. Tutti - sostiene de Magistris - riconoscono quanto stia cambiando la Città. Napoli ricca di umanità, di vitalità, di cultura, di turisti come mai nella sua storia, di commercio, di creatività, di movimenti giovanili, di processi di liberazione quotidiani. Prima città in Italia per crescita culturale e turistica. Napoli che ha rotto il rapporto tra mafia e politica. Napoli dei beni comuni. Napoli del riscatto morale con i fatti. Napoli autonoma. Napoli che rompe il sistema di rifiuti ed ecomafie. E potrei continuare. Caro Saviano, come fai a non sapere, come fai a non conoscere tutto questo. Allora Saviano non sa i fatti, non conosce Napoli e i napoletani, allora Saviano è ignorante, nel senso che ignora i fatti, letteralmente: mancata conoscenza dei fatti".
"Non credo a questo. Sei stato da tanto tempo stimolato - aggiunge il sindaco - ad informarti, a conoscere, ad apprendere, a venire a Napoli. Saviano non puoi non sapere. Non è credibile che tu non abbia avuto contezza del cambiamento. La verità è che non vuoi raccontarlo. Voglio ancora pensare che, in fondo, non conosci Napoli, forse non l’hai mai conosciuta, mi sembra evidente che non la ami. La giudichi, la detesti tanto, ma davvero non la conosci. Ed allora, caro Saviano, vivila una volta per tutte Napoli, non avere paura. Abbi coraggio. Mescolati nei vicoli insieme alla gente, come cantava Pino Daniele".
L’invito di de Magistris, è a mischiarsi "ai tanti napoletani che ogni giorno lottano per cambiare, che soffrono, che sono minacciati, che muoiono, che sperano, che sorridono anche. Caro Saviano, cerca il contatto umano, immergiti tra la folla immensa, trova il gusto di sorridere, saggia le emozioni profonde di questa città. Saviano pensala come vuoi, le tue idee contrarie saranno sempre legittime e le racconteremo, ma per noi non sei il depositario della verità. Ma solo una voce come altre, nulla più. E credimi, preferisco di gran lunga le opinioni dei nostri concittadini che ogni giorno mi criticano anche ma vivono e amano la nostra amata Napoli. Ciao Saviano, senza rancore, ma con infinita passione ed infinito amore per la città in cui ho scelto di vivere e lottare".
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Un sangue sensibile alla cornice del senso
Credenze. Possente e minuziosa, la ricerca dello storico della scienza Francesco P. De Ceglia su «Il segreto di San Gennaro» (Einaudi) indaga i mutevoli concetti elaborati per spiegare il fenomeno
di Francesco Benigno (il manifesto, Alias, 11.12.2016)
Napoli, 4 maggio 1799. La cattedrale era gremitissima e la folla, che attendeva spasmodica di vedere la miracolosa liquefazione del sangue raccolto in un’ampolla rituale, appariva impaziente: il sangue non si scioglieva. Pochi mesi prima, a gennaio, all’arrivo del generale Championnet e dei suoi soldati, la liquefazione era avvenuta regolarmente, sia pure in cerimonia privata, e da quel momento San Gennaro era stato accusato pubblicamente di essersi fatto «giacobino». Ma ora la situazione era cambiata: le truppe inglesi e l’armata dei lazzaroni sanfedisti del cardinale Ruffo si stavano pericolosamente avvicinando a Napoli e i francesi, temendo un’insurrezione, presidiavano i punti nevralgici della città.
A voler credere a un testimone oculare, il diarista e ufficiale Paul Thiébault, il Presidente del governo napoletano, posto di fronte alla pericolosa impasse, avrebbe allora tentato una mossa estrema: si sarebbe avvicinato all’Arcivescovo di Napoli e - facendogli intravedere una pistola nascosta nel gilet - gli avrebbe sussurrato: «Se il miracolo non si compie in fretta voi siete morto». Detto fatto, il sangue si sciolse.
È solo uno tra i tanti episodi, favolosi e stranianti, raccontati da Francesco Paolo De Ceglia in Il segreto di San Gennaro Storia naturale di un miracolo napoletano (Einaudi, pp. XVI-416,euro 32, 00) una ricerca possente e minuziosa, condotta con garbo e grandi mezzi culturali, e soprattutto scritta benissimo, con uno stile incisivo e per quanto possibile - data la complessità dei temi trattati - chiaro. Perché sebbene il sottotitolo ammiccante reciti «storia naturale», la sua più giusta definizione avrebbe dovuto essere «storia intellettuale».
Il centro del libro non è costituito, infatti, dalle pratiche di devozione e dalla dimensione sociale della ritualità sacrale di una città sovrabbondante di «miracoli», bensì dai mutevoli quadri concettuali volta a volta elaborati per «spiegare» il fenomeno e, in sostanza, la cultura che lo ha identificato come tale. Un percorso affascinante, intessuto di ragionamenti sui confini tra la natura e la fede, tra la vita e la morte, tra ciò che può essere conosciuto e quanto resterà assolutamente ignoto.
La storia ha inizio il 17 agosto 1389 quando durante una processione delle reliquie di San Gennaro, martirizzato agli inizi del IV secolo, si verificò per la prima volta il fenomeno della liquefazione del suo sangue raccolto in una ampolla. Non era un caso del tutto eccezionale, a quel tempo. L’Europa pullulava di reliquie ematiche di vari santi nonché del sangue di Gesù Cristo, e alle reliquie erano variamente connessi miracoli disparati: a Bari, ad esempio, le ossa di San Nicola trasudavano manna. Ciò che c’era di particolare nel «miracolo» di San Gennaro, era la sua incostanza: normalmente solido e di colore bruno, il suo sangue talvolta si scioglieva guadagnando un colore rosso brillante. Era insomma instabile, incostante, mutevole in modo inquietante.
Cominciarono allora due processi importanti, mirati entrambi a rendere il miracolo gestibile e perciò a «regolarlo». Da una parte lo si inscrisse in un cerimoniale in grado di esaltarne la fruibilità collettiva, magari mitigandone la imprevedibilità; dall’altra lo si spiegò, in modo da rendere conto, pur nel quadro di un fenomeno soprannaturale, della ragione del periodico scioglimento. De Ceglia mette in luce molto bene come questi due processi siano interrelati e, oltretutto, promossi dagli stessi individui.
Ne viene, da un canto la fissazione di un calendario cerimoniale che prevedeva una liquefazione periodica, a giorni fissi; dall’altro la teoria secondo la quale il ribollire del sangue sarebbe procurato dall’avvicinamento delle altre reliquie del Santo, e segnatamente del capo, conservato in un ricco reliquario antropomorfo. Il cambiamento di fase del sangue dipenderebbe così dall’interazione tra le due reliquie. Il corpo del Martire, una volta avvicinatesi due sue componenti fondamentali, il capo e il sangue, riprenderebbe «a vivere»: «il sangue prezioso che si vede duro come un sasso, tosto che scuopre il suo venerando capo si vede liquido e spiumante come s’hallora uscito fuse dalle sacre vene: miracolo veramente stupendissimo, ch’eccede ogni altro miracolo».
Naturalmente, con la riforma, queste credenze subirono attacchi feroci da parte protestante, attacchi che cercarono di naturalizzare il fenomeno facendo leva sulla credenza, assai diffusa nei paesi nordici, della «cruentazione»; e cioè la convinzione che i cadaveri di individui deceduti di morte violenta siano in grado di reagire alla presenza dei propri uccisori emettendo sostanze organiche. Si avanzò così l’ipotesi che il cranio non fosse quello del Santo ma quello del suo carnefice. Come mostra bene De Ceglia, qui il contrasto non è dunque tra la superstizione meridionale cattolica e la razionalità settentrionale protestante, ma tra due diversi «stili di credenza». Uno, quello cattolico, orientato al soprannaturale, l’altro, quello protestante, più propenso alla dimensione magico-naturalistica.
Diverso ancora il panorama intellettuale settecentesco, dominato dalla logica dell’esperimento e dall’idea di replicare il fenomeno mediante pozioni di derivati di ferro e altre sostanze capaci di reagire, sciogliendosi, al calore o allo scuotimento. Ancora una volta, però, questa diversa dimensione, diciamo così sperimentale, non contrappone un nord scientista a un sud oscurantista, se è vero che a un Caspar Neumann, capace di intrattenere la corte di Berlino nel 1734 con un esperimento volto a svelare il «trucco» del sangue di San Gennaro, faceva eco a Napoli la costruzione, da parte del principe «illuminato» Raimondo di Sangro, di una macchina capace di riprodurre la liquefazione del sangue.
Le diatribe sono continuate fino a oggi e hanno coinvolto spiritisti e socialisti, gesuiti e massoni, maghi e sacerdoti, antropologi e mangiapreti, chimici e scienziati di diverso orientamento: la Chiesa infatti, pur proteggendo il culto, non ha mai dichiarato il fenomeno come miracoloso, sicché la fedeltà al cattolicesimo non ha implicato, di necessità, la credenza nella liquefazione miracolosa. Se un giorno tutto questo finirà, scrive saggiamente De Ceglia, non sarà perché qualcuno svelerà il «trucco» di San Gennaro ma perché cambierà la sensibilità verso queste forme di devozione.
Giusto, ma resta un rimpianto. Se nella sua fantastica traversata dei secoli De Ceglia avesse applicato lo stesso criterio, avremmo avuto una storia anche «sociale» e non solo intellettuale del «miracolo» di san Gennaro. E questa ci avrebbe fatto meglio capire, accanto agli aspetti della religiosità napoletana, dagli ex voto alle preghiere di intercessione, anche vicende che restano un po’ all’ombra di questo saggio: per esempio, il tentativo da parte popolare di appropriarsi della processione, il sostegno assicurato dai Gesuiti al suo culto, la protezione miracolosa accordata dal Santo alla città in occasione dell’eruzione del 1631, la competizione con gli altri Santi patroni di Napoli e quella, tutta politica, con Sant’Antonio di Padova. Durante la Restaurazione, infatti San Gennaro subì una sorta di ostracismo e pare che gli imbrattatele della rua catalana esponessero un quadro in cui Sant’Antonio armato di verghe sferzava san Gennaro che scappava. L’ostracismo sarebbe finito solo con l’arrivo solitario di Garibaldi in città nel 1860: e davanti all’Eroe dei due mondi, come (quasi) sempre, San Gennaro «fece» il miracolo.
Il miracolo in un’ampolla
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23 ottobre 2016)
Scappava, Pietro Giannone. Scappava a gambe levate. Via da Napoli, verso la natia Capitanata e le coste del Gargano. Verso l’Adriatico, e una qualche nave diretta al nord. Verso Vienna, la nuova capitale. Per lui, per l’incauto autore della Istoria civile del Regno di Napoli, pareva non esistere altro rimedio che la fuga, in quel disgraziato mese d’aprile del 1723. Da quando si era diffusa la voce che, nella Istoria civile fresca di stampa, Giannone avesse negato la natura miracolosa della liquefazione del sangue di san Gennaro, ecclesiastici di ogni specie e di ogni rango si erano fatti in quattro per scatenare la macchina del fango. Presuli dalle anticamere, frati dai chiostri, sacerdoti dai pulpiti, gesuiti dai torchi, avevano mobilitato contro lo scrittore anticuriale le «vili feminette», la «gente semplice e plebea». «Questa machina appunto adoperarono contro di me cotesti uomini pii, e religiosi. Si declamava per ogni angolo, ch’io negassi un sì evidente miracolo».
L’accusa suonava tanto più grave in quanto di lì a poco - il 1° maggio - doveva rinnovarsi il miracolo periodico della liquefazione. E in caso di mancato scioglimento del sangue, chi avrebbe protetto la città di Napoli dalle più varie calamità che regolarmente la minacciavano, le pestilenze, le guerre, le eruzioni del Vesuvio? Il 1° maggio, il martire cristiano avrebbe forse testimoniato del suo cruccio non solo contro il giurista miscredente, ma contro i napoletani tutti? Perciò Giannone scappava, scappava finché era in tempo. Perciò un suo fratello rimasto a Napoli aveva «tolto il migliore dalla casa», ritirandosi «in luogo ignoto e lontano dalla città». E poco importa se, nel giorno fatidico, il responso del sangue sarebbe riuscito ambiguo («si ritrovò parte liquefatto, e parte duro»). A Napoli, Pietro Giannone non avrebbe mai più rimesso piede, nell’agro quarto di secolo che pur gli restava da vivere.
Oggi - tre secoli più tardi - il sangue di san Gennaro ancora fa notizia, fin dentro le nostre cronache più recenti. Rinnovando l’attualità di una storia, quella del rapporto fra il sangue del santo e la città di Napoli, inaugurata oltre tre secoli prima della disavventura editoriale di Giannone: nell’anno 1389, con il primo episodio attestato di liquefazione. Storia risalente, dunque, al tardo Medioevo. Cioè a una stagione particolarmente propizia per un vissuto del cristianesimo così materico da sembrare pulp, fatto di manne dal cielo, di ostie sanguinanti, di reliquie ematiche del Golgota, come pure di stigmate di san Francesco, e di sacre sindoni.
Con un libro impeccabile nel metodo e impressionante nell’erudizione, Francesco Paolo de Ceglia ha ricostruito adesso i sette secoli o quasi di questa storia: la suggestiva vicenda (secondo il titolo) del «segreto» di san Gennaro, ovvero (nel sottotitolo) la «storia naturale di un miracolo napoletano». Non già - evidentemente - per determinare se miracolo ci sia davvero o non ci sia per nulla, ma piuttosto per ricostruire l’universo materiale e mentale di chi, da sette secoli in qua, quel miracolo ha riconosciuto come vero, consolante, salvifico; oltre all’universo di chi, da tre o quattro secoli a questa parte, nel miracolo ha intravisto il trucco.
Se le prime attestazioni risalgono alla fine del Trecento, la costruzione compiuta del miracolo napoletano va registrata intorno alla metà del Quattrocento. Allora si fissa il rituale per cui il tabernacolo contenente la doppia ampolla con il sangue di san Gennaro viene avvicinato dall’officiante al cranio del santo stesso, conservato in Duomo entro un reliquario antropomorfo: e per cui soltanto l’interazione fra le due reliquie - accompagnata da uno scuotimento del tabernacolo - provoca lo sciogliersi di un liquido che si presenta, altrimenti, allo stato normale di sangue rappreso. Seguono, nel corso del Cinquecento, le teorizzazioni più o meno eloquenti di tale organica «simpatia». Fino al trionfo seicentesco del culto in quello scrigno architettonico partenopeo che è la Cappella del Tesoro, dove magnificamente si dispiega l’arte pittorica del Domenichino.
Non per caso, nel pennacchio della volta, La Vergine intercede per Napoli raffigura l’intervento ematico di san Gennaro come un momento decisivo nella guerra scatenata dalla Chiesa di Roma contro l’eresia di Lutero e di Calvino: perché sin dagli esordi della Riforma protestante, e poi sempre più durante le guerre di religione, era stato dal Nord Europa che avevano risuonato le critiche più severe (oltreché le più sarcastiche) contro il preteso miracolo della liquefazione. Nella doppia ampolla napoletana non si poteva forse immettere una buona dose di calce viva che, eccitando il liquido rappreso, lo rendesse «spumante» come lo volevano i devoti? Questa l’ipotesi del teologo ugonotto Pierre du Moulin, cui si sarebbero aggiunte - dal Seicento al Novecento - innumerevoli altre proposte di decifrazione del segreto e di denuncia dell’impostura.
Il sangue di san Gennaro interrato in una ghiacciaia, «congelato nel modo in cui costoro [i napoletani] fanno i sorbetti». Il sangue di san Gennaro quale composto altrettanto astuto che truffaldino, un amalgama d’oro e di solfuro di mercurio. Il sangue di san Gennaro abilmente dissimulato in due tabernacoli identici, l’uno contenente liquido e l’altro contenente gel. Il sangue di san Gennaro prodotto da «sanguisughe ingozzate, con la bocca delicatamente sigillata». Il sangue di san Gennaro replicato e replicabile, in laboratorio, aggiungendo solfato di sodio a sangue di bue, ecc. ecc. «E voi, vi lascierete trovare ancora coll’umiliante composizione chimica che gl’impostori vi spacciano come sangue di san Gennaro, e con cui si beffano di voi da tanti anni? Non sarà bene di frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno?»: così, nel 1869, un mangiapreti che di nome faceva Giuseppe Garibaldi.
Ma la lunga storia non è finita lì, durante la breve parentesi di storia nazionale che è stata quella di un’Italia laica. Né è finita quando, corrente l’anno 1991, tre scienziati italiani hanno pubblicato su «Nature» un intervento che riduceva lo straordinario miracolo di san Gennaro a ordinario fenomeno di tissotropia. Stante «la proprietà di alcuni gel di liquefare quando mescolati o sottoposti a vibrazioni, e di solidificare di nuovo quando lasciati stare», si poteva ben ritenere che il liquido della doppia ampolla avesse poco di diverso da una banale miscela di cloruro ferrico, carbonato di calcio, acqua, e un pizzico di sale da cucina... A questi tre autorevoli scienziati, uno scienziato altrettanto autorevole - cui la curia di Napoli aveva permesso di compiere, dal 1979 al 1983, studi ravvicinati sull’ampolla - ha risposto negando, rilevazioni alla mano, che il comportamento della reliquia avesse «nulla a che vedere con la tissotropia».
Sì, la storia continua. Anche perché, notoriamente, chi ha bisogno di miracoli non cerca prove, ma segni. Non vuole ragionarci, vuole crederci. A tutt’oggi - con buona pace del generale Garibaldi - l’ampolla non è stata franta.
A Napoli il sindaco accende ’Nalbero’
E’ alto 40 metri, realizzato sul lungomare con circa 35mila tubi
di Redazione ANSA NAPOLI *
Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha acceso ’Nalbero’ l’attrazione del Natale 2016 realizzata alla Rotonda Diaz sul lungomare Caracciolo. L’accesso al pubblico comincerà la mattina di sabato 10 e non domani come inizialmente previsto perché alcuni lavori non sono ancora stati completati.
Nalbero, realizzato dalla Italstage di Pasquale Aumenta, è alto 40 metri, è innalzato su 35mila tubi di multirezionale Lahye, materiale arrivato dalla Germania, e alla base ci sono 150 tonnellate di zavorra per aumentare la stabilità e rispondere al vento del lungomare. La struttura è stata realizzata in 18 giorni e resterà ad affacciarsi sul Golfo per 90 giorni pronta ad accogliere napoletani e turisti.
"Nalbero - ha detto Pasquale Aumenta - è un’opera di ingegneria napoletana ed è la dimostrazione che anche a Napoli si possono fare cose belle. È espressione delle nostra capacità ed è un’opera fatta per la città". Secondo i dati riferiti, in media ogni giorno hanno lavorato alla struttura 80 persone con picchi di 250 negli ultimi giorni.
All’interno al piano terra ci sono la galleria commerciale e le esposizioni tra cui ’Vulcano con vista mare’ di Gennaro Regina.
Salendo al primo piano si trova l’area food con un ristorante da 180 posti aperto a pranzo e cena, un bar e un bistrot per soddisfare tutti i gusti e tutti i portafogli. Qui una grande terrazza che si estende su tutti i lati di Nalbero offre panorami mozzafiato del Golfo e della città.
A questi primi due livelli di Nalbero si accede gratuitamente mentre per salire alle sue terrazze panoramiche poste una a 18 metri di altezza e l’altra a 30 metri si dovrà pagare un biglietto.
Il ticket costa 8 euro per gli adulti e 5 euro per minori di 12 anni e over 65. Sono inoltre previste agevolazioni per le famiglie, mentre i bambini al di sotto di un metro di altezza accedono gratuitamente e i disabili con accompagnatore pagano un solo biglietto.
Nalbero nella sua permanenza a Napoli sarà anche un contenitore interattivo con attività laboratoriali, esposizioni e forme di intrattenimento per tutti i gusti. Sinergie, solo per citarne alcune, sono state strette con il Santobono-Pausillipon, con Città della Scienza, con Emergency e la Croce Rossa Italiana.
Nalbero ospiterà anche l’incursione artistica del collettivo Scu8. Inoltre con l’acquisto di un biglietto a prezzo pieno sarà possibile l’accesso a scelta tra il complesso monumentale di San Lorenzo Maggiore, la Galleria Borbonica, le Catacombe di San Gennaro e viceversa. Ad accompagnare i visitatori ci sarà la musica di radio Kiss Kiss
Le accuse del comboniano
Missionario anticamorra
Padre Alex Zanotelli torna a denunciare i mali della criminalità organizzata a Napoli e i troppi silenzi. Anche della Chiesa. Un’esposizione pubblica che ha indotto i missionari comboniani, riuniti a Roma per l’Assemblea generale, a scrivergli un messaggio di solidarietà “per il delicato momento che stai vivendo”.
di NIGRIZIA, 17 settembre 2015
Napoli e la camorra. Infuocano le polemiche sulle parole della presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, che ha definito «la camorra un dato costitutivo della città». Un’affermazione che ha acceso un aspro dibattito è nel quale è intervenuto anche padre Alex Zanotelli, che ha la sua missione nel quartiere Sanità di Napoli: «Il presidente Bindi non ha mai parlato di “dna”. Ma ha veramente ragione; non si può capire la storia di Napoli senza fare la storia della camorra. La sua frase potrà essere percepita come un pugno nello stomaco, lo è. Ma mi auguro che questa affermazione aiuti tutti noi a reagire».
Anche le parole del comboniano - pronunciate in occasione del funerale di Genny Cesarano, il 17 enne ucciso a colpi di arma da fuoco la notte del 5 settembre - avevano sollevato polveroni polemici. «La gravità di questo momento - aveva dichiarato dall’altare - è il sangue versato sulle nostre strade. In una città dove c’è violenza, discordia, frode e oppressione, il risultato è la morte. Le nostre mani grondano sangue e tutti noi, Chiesa compresa, dobbiamo assumerci le nostre responsabilità». «Questa è una città - aveva proseguito - spaccata in due. C’è una Napoli bene e una Napoli che vive malamente. Non possiamo accettare una città sventrata, fatta di Scampia, Rione Traiano e Soccavo e un’altra città fatta di Vomero». Ha infine chiesto alle istituzioni che «il popolo della Sanità sia messo in condizione di rialzare la testa. Tutte le istituzioni devono darci una mano, perché così, e solo così, possiamo vivere e non morire».
Una riflessione che padre Alex - insieme a don Antonio Loffredo e don Giuseppe Rinaldi, parroci di Santa Maria alla Sanità-Napoli - ha poi approfondito in una lettera aperta, nella quale torna a puntare il dito contro la Chiesa che deve diventare «sempre più comunità attiva sul territorio, che diventi popolo di Dio, capace di alzare la testa. Questo è un dovere di noi preti. Noi stiamo provando da anni, fra mille difficoltà, a camminare con questo nostro popolo. Al di là di una povertà diffusa, c’è un consumismo che azzera le coscienze nella formazione dei nostri figli più giovani, e una violenza che serpeggia sulle strade di questo rione.
Parole che hanno esposto pubblicamente padre Zanotelli, da anni impegnato in lotte sociali contro le ineguaglianze, le ingiustizie, la povertà e per il diritto all’acqua. Il comboniano ha comunque trovato, in questi giorni, il conforto e la solidarietà dei membri della sua congregazione. Riuniti a Roma in assemblea per il Capitolo generale della congregazione, i 62 rappresentanti dei missionari comboniani provenienti da venti nazionalità e operanti in vari paesi d’Africa, America, Asia e Europa si sono esposti sostenendo le battaglie di Zanotelli, per la rinascita del quartiere Sanità e apprezzando le parole di denuncia contro la camorra. «Caro Alex - scrivono i missionari - desideriamo esprimere il pieno sostegno al tuo impegno nel Rione Sanità di Napoli per la valorizzazione della vita e della dignità umana in una realtà marcata dalla cultura della violenza e dominata dalla criminalità organizzata».
«Abbiamo apprezzato il coraggio delle tue parole nella denuncia della camorra durante i funerali del minorenne Jenny, ennesima vittima della violenza criminale, e il tuo invito alla comunità del Rione Sanità a non rassegnarsi, ad alzare la testa e darsi da fare per costruire un’altra Napoli capace di guardare al futuro con speranza».
«Consapevoli del delicato momento che stai vivendo ti assicuriamo la nostra vicinanza e il ricordo nella preghiera perché il Signore ti accompagni e ti protegga nel fare “causa comune” con donne e uomini di buona volontà per la rinascita del quartiere della Sanità».
Papa a Napoli: ’Reagite alla camorra, la corruzione puzza’. E in Duomo si scioglie a metà il sangue di S.Gennaro
Il pontefice: ’Per questa città è tempo di riscatto’ *
Nel Duomo di Napoli, con Papa Francesco, si è verificato in via straordinaria il "prodigio" dello scioglimento del sangue di San Gennaro, che di solito si ripete solo per la sua festa il 19 settembre, il sabato precedente la prima domenica di maggio e il 16 dicembre. Il sangue si è sciolto per metà. A dare l’annuncio è stato il cardinale Sepe dopo che il Pontefice aveva preso la teca nelle sue mani. E’ la prima volta che accade nelle mani di un Pontefice. Non era mai avvenuto nè con Giovanni Paolo Secondo nel 1990, né con Benedetto XVI nel 2007. "Il vescovo ha detto che il sangue è metà sciolto: si vede che il santo ci vuole bene a metà, dobbiamo convertirci un po’ tutti perché ci voglia più bene", ha detto papa Francesco.
"Quanti scandali nella Chiesa e quanta mancanza di libertà per i soldi!", ha esclamato papa Francesco nel discorso ai sacerdoti e ai religiosi nel Duomo.
Il Papa nel duomo ’assediato’ dalle suore di clausura (LE FOTO)
Prima del Duomo il Papa ha celebrato la messa in una Piazza del Plebiscito gremita. Nella grande piazza, uno dei simboli di Napoli, sono state stimate oltre 60.000 persone. Il Santo Padre ha celebrato la messa dall’altare allestito dinanzi alla basilica di San Francesco di Paola.
Durante l’omelia papa Francesco ha invitato più volte i fedeli a ripetere in coro con lui: "Gesù è il Signore". Poi, al termine del discorso, ha nuovamente salutato in napoletano. "Ca ’a Maronna v’accumpagne!".
"Cari napoletani, largo alla speranza, e non lasciatevi rubare la speranza! Non cedete alle lusinghe di facili guadagni o di redditi disonesti. Reagite con fermezza alle organizzazioni che sfruttano e corrompono i giovani, i poveri e i deboli, con il cinico commercio della droga e altri crimini". Così il Papa nella messa in Piazza del Plebiscito. Non lasciate che la vostra gioventù sia sfruttata da questa gente", ha detto ancora il Papa.
La corruzione e la delinquenza non sfigurino il volto di questa bella città! Ai criminali e a tutti i loro complici Io umilmente oggi, come un fratello, ripeto: convertitevi all’amore e alla giustizia!". Così papa Francesco nell’omelia della messa in Piazza del Plebiscito, a Napoli. "Lasciatevi trovare dalla misericordia di Dio! Con la grazia di Dio, che perdona tutto, è possibile ritornare a una vita onesta", ha proseguito i Pontefice. "Ve lo chiedono anche le lacrime delle madri di Napoli - ha aggiunto -, mescolate con quelle di Maria, la Madre celeste invocata a Piedigrotta e in tante chiese di Napoli. Queste lacrime sciolgano la durezza dei cuori e riconducano tutti sulla via del bene".
Bagno di folla a Napoli (LE FOTO)
"Oggi comincia la primavera e la primavera è tempo di speranza. Ed è tempo di riscatto per Napoli: questo è il mio augurio e la mia preghiera per una città che ha in sé tante potenzialità spirituali, culturali e umane, e soprattutto tanta capacità di amare". Lo ha detto papa Francesco durante la messa in Piazza del Plebiscito. "Le autorità, le istituzioni, le varie realtà sociali e i cittadini, tutti insieme e concordi, possono costruire un futuro migliore", ha aggiunto.
L’entusiasmo dei fedeli riuniti fin dalle prime ore del mattino ha accompagnato Papa Francesco. Tante le bandierine bianche e gialle. Il Papa si è soffermato per salutare alcuni bambini.
"Il cardinale Sepe mi ha anche minacciato se non fossi venuto a Napoli", ha detto sorridendo papa Francesco, scherzando sulle ’pressioni’ dell’arcivescovo per ottenere la visita, durante il suo discorso in piazza Giovanni Paolo II a Scampia. "La corruzione puzza, la società corrotta puzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza". Lo ha detto papa Francesco nel suo discorso a Scampia. Riferendosi al passaggio sulla corruzione nell’intervento del presidente della Corte d’Appello di Napoli Antonio Bonaiuti, il Papa ha detto ’a braccio’ che "Se noi chiudiamo la porta ai migranti, se noi togliamo il lavoro e la dignità alla gente, come si chiama questo? Si chiama corruzione e tutti noi abbiamo la possibilità di essere corrotti. Nessuno di noi può dire ’io mai sarò corrotto’. No - ha proseguito -, è una tentazione, è uno scivolare verso gli affari facili, verso la delinquenza dei reati, verso la corruzione". "Quanta corruzione c’è nel mondo - ha aggiunto il Pontefice -: è una parola brutta, perché una cosa corrotta è una cosa sporca. Se noi troviamo un animale che è corrotto è brutto, ma puzza (il Papa ha usato il termine gergale ’spuzza’), la corruzione puzza e la società corrotta puzza, e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza". Al termine del discorso, Bergoglio ha anche invitato a "andare avanti nella pulizia della propria anima, nella pulizia della città, nella pulizia della società, perché non ci sia quella puzza della corruzione".
"Voi appartenete a un popolo dalla lunga storia, attraversata da vicende complesse e drammatiche. La vita a Napoli non è mai stata facile, però non è mai stata triste! E’ questa la vostra grande risorsa: la gioia, l’allegria". Lo ha detto papa Francesco nel suo discorso in piazza Giovanni Paolo II, nel quartiere napoletano di Scampia. "Il cammino quotidiano in questa città, con le sue difficoltà e i suoi disagi e talvolta le sue dure prove - ha proseguito -, produce una cultura di vita che aiuta sempre a rialzarsi dopo ogni caduta, e a fare in modo che il male non abbia mai l’ultima parola". "E’ la speranza, lo sapete bene, questo grande patrimonio, questa ’leva dell’anima’, tanto preziosa, ma anche esposta ad assalti e ruberie", ha aggiunto.
"Chi prende volontariamente la via del male ruba un pezzo di speranza. Guadagna qualcosa ma ruba la speranza. La ruba a sé stesso e a tutti, a tanta gente onesta e laboriosa, alla buona fama della città, alla sua economia". Lo ha detto papa Francesco nel suo discorso in pizza Giovanni Paolo II, a Scampia.
Papa Francesco ha benedetto i fedeli, al termine del discorso tenuto nel quartiere napoletano di Scampia, con la frase in napoletano solitamente pronunciata dall’arcivescovo di Napoli, cardinale Crescenzio Sepe: "A Maronna v’accumpagne", ha detto papa Francesco e la folla ha salutato con un lungo applauso.
Una giovane immigrata delle Filippine, un lavoratore e il presidente della Corte d’Appello di Napoli, Antonio Buonajuto, hanno rivolto tre brevi indirizzi di saluto al Papa giunto in piazza Giovanni Paolo II, nel quartiere napoletano di Scampia. ’’Il rispetto della legge - ha detto l’alto magistrato - è continuamente offeso dalla corruzione pubblica e privata’’. Il lavoratore, invece, ha lamentato la disperazione di quanti un lavoro non lo hanno mentre la giovane immigrata ha parlato della condizione difficile di quanti vengono da terre lontane.
* ANSA, 21.03.2015 (ripresa parziale)
La battuta di Francesco sul pugno spiazza laici e fedeli
Commentano le parole del Papa sul volo dallo Sri Lanka alle Filippine De Paolis, Lajolo, Cacciari, Tarquinio e De Masi. «Ha posto un limite». «È poco cristiano»
di Giacomo Galeazzi *
Città del Vaticano
Il «pugno» del Papa scuote il Sacro Collegio, gli intellettuali laici, i media cattolici. «Quella del Pontefice è una constatazione: nella vita di ogni giorno accade così - afferma il cardinale canonista Velasio De Paolis -. Se offendo qualcuno devo attendermi una contro-offesa. Purtroppo, infatti, la quotidianità non segue lo spirito del Vangelo e viene disatteso il monito di Gesù a porgere l’altra guancia». Ma «la reazione a una offesa verbale dovrebbe, quantomeno, essere un’altra offesa verbale e non un atto di violenza fisica». Comunque «chi ha realizzato quelle vignette avrebbe dovuto trattenersi dal farlo nella consapevolezza delle prevedibili conseguenze», aggiunge De Paolis. Il porporato di Curia Giovanni Lajolo ribadisce che «il male si vince solo con il bene», però riconosce che «esiste la libertà di opinione, non quella di insulto», altrimenti «vivremmo in un mondo di rissa continua».
Il quinto comandamento
In ogni modo, sottolinea Lajolo, «è lo spirito che fa la musica» e «un pugno morale può essere più duro di quello fisico». Certo, precisa Lajolo, «niente giustifica la reazione estrema e vile alle vignette messa in atto dagli attentatori di Parigi» che «non combattono faccia a faccia ma aggrediscono alle spalle persone disarmate». Parimenti «non va calpestato il quinto comandamento: non uccidere, non offendere», avverte il cardinale.
A Milano l’arcivescovo Angelo Scola non commenta le parole del Pontefice ma rimanda alla giornata di preghiera contro la violenza del 18 gennaio. «È una battuta non proprio cristiana, ma simpatica - osserva il filosofo Massimo Cacciari -. Francesco esprime l’impossibilità in questo secolo di porgere l’altra guancia e di rispettare le Beatitudini evangeliche che chiedono di amare il proprio nemico. Il Papa ha cercato l’effetto umano, forse anche troppo umano». Per il sociologo Domenico De Masi «il pugno viene poco prima del colpo di kalashnikov». Inoltre «non è vero che la satira può dire tutto: nulla è svincolato dalla legge», però, avverte De Masi, «serve un principio di proporzionalità tra offesa e difesa: a chi insulta Allah o la Madonna si risponde con una querela, non con una revolverata e neppure con un cazzotto».
Sacralità intima
Quella del pugno la trova, invece, «un’immagine geniale» Marco Taquinio, direttore del quotidiano dei vescovi Avvenire, secondo cui il Pontefice indicando la figura della madre rimanda a una sacralità intima, valida sul piano umano sia per i credenti in qualunque fede sia per gli atei: «Anche tra amici può accadere di superare il senso del limite e di provocare una reazione violenta. Ma se niente è rispettato, precipitiamo in una condizione di scontro permamente e la trivialità è cieca».
Indifferenza e presunzione
Secondo Taquinio quando chiudiamo gli occhi su qualunque persecuzione verso chiunque ovunque sia perpetrata, prepariamo l’irruzione dell’odio e della violenza anche nelle nostre città, nei luoghi simbolo delle nostre libertà, nelle nostre stesse case. «Il male si nutre di indifferenza e di presunzione». E solo una scelta limpida e chiara per la pace nella giustizia e nella libertà possono sventare i piani di dominio e di morte dei terroristi che osano agire «in nome di Dio». E «le nostre società aperte sono vulnerabili», quindi «l’uscita del Papa è una sintesi perfetta del rifiuto della logica di morte».
Alle radici dell’intolleranza
Recensione del libro del filologo Bettini «Elogio del politeismo» che parte dall’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni antiche esempio di tolleranza
di Luigi Spina (l’Unità, 08.06.2014)
PER PARLARE ADEGUATAMENTE DELL’ «ELOGIO DEL POLITEISMO » DI MAURIZIO BETTINI, È DOVEROSO TRACCIARE PRIMA UN BREVE ELOGIO DELLA COMPARAZIONE ANTROPOLOGICA, che è il metodo che più volte l’autore richiama come guida della sua analisi. A differenza dell’analogia, che schiaccia il nuovo sul già conosciuto (non si contano gli Hitler, i Mussolini e gli Stalin che si sono susseguiti nella politica italiana), la comparazione distingue le due realtà, quella che si conosce e quella che si vuol comparare, per coglierne soprattutto le differenze e le singolarità.
Ecco, completato il mini-elogio della comparazione, si può cominciare a dire che il saggio di Bettini affronta un tema non usuale: l’idea che ci possa essere qualcosa da imparare dalle religioni politeiste antiche. Farne materia di ricerca sì, ma pensare che si possano importare, per quanto criticamente, idee e comportamenti da qualcosa che non rientri nella dialettica fra le tre religioni monoteiste e la non religiosità non è pensiero ricorrente.
Proprio nell’Introduzione, Bettini propone un argomento convincente: di Platone, di Aristotele, di Agostino, della democrazia antica non si può fare a meno di parlare, qualsiasi argomento attuale si voglia affrontare; difficile invece che si parli della religione antica, politeista. Il volume è organizzato in 15 capitoli e due appendici.
I titoli dei capitoli offrono i terreni della comparazione: dal presepio e dalle moschee alle statuette romane e al larario; dalla proclamata unicità del Dio alla possibilità di riadattare gli dèi; dai possibili contatti sotterranei fra monoteismi e politeismi alle strutture sociali e comunitarie nelle quali la/le divinità si insediano; dalla pregnanza delle parole, infine, ai paradossi della/e scrittura/ e. Le appendici approfondiscono due temi: la tolleranza e l’intolleranza; gli usi e i significati del termine paganus.
Fra gli elementi positivi, in base ai quali il politeismo antico potrebbe far riflettere meglio sulle rigidità del monoteismo c’è sicuramente la curiosità, anche di massa, che costituiva la molla per conoscere davvero il funzionamento di religiosità diverse dalla propria. L’ostacolo dell’unicità condiziona quello stesso dialogo interreligioso che rimane, comunque, un tentativo auspicabile per mantenere aperto un canale comunicativo e di reciproca conoscenza.
Quando Papa Benedetto XVI richiamò, nel 2006, la controversia del 1391 fra Manuele II Paleologo e un maestro persiano, un mudarris di fede musulmana, non fu difficile constatare che non si trattava di un vero dialogo, ma di una specie di doppio monologo, come scriveva proprio Théodore Koury, il filologo a cui lo stesso Ratzinger si riferiva. D’altra parte, la scoraggiante presa d’atto non riguardava solo la controversia antica ma anche le modalità con cui furono lette le parole del Papa.
Il rapporto con la (o le) divinità altrui è la cartina di tornasole che Bettini sperimenta per comparare la cultura romana e le culture odierne, in uno scavo che è contemporaneamente antropologico e linguistico. Non si può prescindere dal modo in cui gli antichi hanno denominato un fenomeno, una pratica, un oggetto, e dal modo in cui, spesso, sono i moderni a rinominare quello stesso dato, cercando di retrodatarne la sostanza e mascherando, in tal modo, i differenti quadri mentali.
La raffigurazione del politeismo da parte dei moderni avviene attraverso termini che non corrispondono quasi mai alla denominazione da parte delle culture antiche, l’unica che consentirebbe di capire effettivamente cosa gli antichi stessi intendessero. Questa indagine, che Bettini conduce con grande chiarezza si concentra su termini per noi familiari quali politeismo, e il corrispettivo monoteismo, pagano, idolatria ecc., ma la cui storia, il cui uso, presenta molti aspetti più complessi e spesso inattesi.
La traducibilità degli dèi, cioè la possibilità di accogliere divinità di altre culture nella propria, rinominandole, riconoscendo loro nuove funzioni, rappresenta il vero punto originale del politeismo antico. In quel mercato comune della divinità non era un problema inserire nel contatto fra i popoli e le culture i rapporti fra le divinità, in una tendenza all’inclusione e all’allargamento, piuttosto che all’esclusione e alla reductio; la traducibilità tra divinità, inoltre, non consente di identificare superficialmente quelli che potrebbero sembrare suoi inaspettati residui nelle religioni monoteiste, come per esempio, in quella cattolica, il culto dei santi. Le funzioni che si attribuiscono alla Madonna e a molti santi, di patronato, di assistenza, di protezione mancano del requisito della traducibilità, della trasferibilità, per cui mantengono quella che Bettini definisce una pluralità esclusiva.
Un’attenzione particolare Bettini dedica alla tolleranza, che è termine moderno altrettanto abusato che contestato, in quanto conserva insieme un valore tendenzialmente positivo e un rischio negativo di tipo etimologico. Non a caso la tolleranza è contrapposta alla interpretatio degli dèi, quel carattere di traducibilità che percorre tutto il libro. L’interpretatio è quella traducibilità potenziale che viene stabilita attraverso la mediazione, il compromesso che presiede a qualsiasi negoziazione perché abbia un buon esito.
Si capisce, dunque, come la tolleranza, spesso sentita come punto di avvio di un dialogo fra diversi, marchi nello stesso tempo la gerarchia fra i diversi stessi: il rispetto che si sottintende nel termine cela, infatti, la sofferenza della accettazione risolta solo da un’etica caritatevole che sa anche tollerare gli errori. Se non si pensasse di possedere l’unica verità, forse, non scatterebbe la vocazione alla tolleranza.
Connesso al tema della tolleranza è quello della violenza, dello scontro di carattere religioso. Che le divinità dei Greci e dei Romani fossero coinvolte nelle guerre umane, che fossero immaginate addirittura in guerra fra loro, ciò non toglie che questo scontro non avesse per nulla carattere religioso, ma che la religione rappresentasse, anzi, un motivo per attenuare lo scontro stesso. Tanto più che le divinità facevano parte sostanziale delle comunità, in particolare attraverso quei riti di attribuzione della cittadinanza che Bettini ben spiega.
Nel capitolo che non a caso si intitola «Il sacrificio del presepio e le bombe della moschea», Bettini affronta un tema divenuto di forte attualità da qualche anno in occasione delle feste natalizie, da quando, cioè, la presenza del presepio o del Crocifisso, simboli del cristianesimo, nei luoghi pubblici dello Stato (scuole, tribunali), è diventato argomento di polemica; allo stesso modo, Bettini segnala le polemiche contro la costruzione di una moschea in Val d’Elsa.
Questo tema riassume i termini della comparazione possibile fra politeismi e monoteismi nella vita non solo religiosa di una comunità. Entrambe le reazioni, la rinunzia al presepio proposta da alcuni insegnanti e genitori di scuole italiane come gesto di rispetto verso altri culti e, dall’altra parte, la protesta di segno opposto, mostrano come al fondo delle due opzioni vi sia un unico vincolo: l’unicità del dio nel quale si crede, al punto che la scelta si può dividere fra: se non quello, meglio nessuno.
Eppure, il presepio mi pare possa rappresentare ancora uno spazio nel quale simboleggiare le dinamiche interne a comunità che hanno nella diversità religiosa fra monoteismi un punto vulnerabile.
La grotta del presepio mi sembra abbia perso la sua posizione centrale, per la spinta a dare voce e spazi a presenze le più varie, fino all’irruzione, grazie ai ben noti artigiani napoletani, di personaggi dell’attualità. Una sorta di cittadinanza riconosciuta a elementi estranei alla tradizionale ambientazione del presepio potrebbe essere la chiave di volta per aprirlo a una vera tensione politeista, sperimentando un quadro mentale che adottasse gli schemi della traducibilità, della mediazione negoziata: un inizio in cui una nuova cittadinanza risulti visibile e leggibile, per dèi, uomini e donne, ciascuno con le proprie credenze e divinità e, anche aggiungerei, in assenza di esse.
Il patto dei mafiosi nel nome di Dio
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 26.03.2014)
COSÌ come esistono gli atei devoti, esistono anche i mafiosi devoti. Adorano sopra ogni cosa le processioni, e idolatrico è il loro culto di certe Sante, i riti di iniziazione a Cosa nostra. E le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato sopra il proprio sangue: Roberto Saviano l’ha raccontato sabato su queste colonne. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita battesimale a nuova vita.
Contro quest’idolatria è insorto Papa Francesco, il 21 marzo, con parole sommesse ma durissime. Come già Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso, prospettandogli l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all’altra vita». Francesco sa il rapporto antico, intenso, mimetico, che Cosa nostra ha con la religione. La sua invocazione non è diversa da quella che la Chiesa, nell’ultimo decennio, ha rivolto ai terroristi che abusano dell’Islam. Non pronunciare invano il nome di Dio: è uno dei primi comandamenti del Decalogo, l’ingiunzione fa ritorno.
Ancora più rivelatori delle parole sono i gesti di Francesco: l’abbraccio delle vittime di mafia, la mano tesa a Don Ciotti, il fondatore di Libera vissuto per anni ai margini della Santa Sede e finalmente chiamato a parlare accanto al Pontefice, venerdì nella chiesa di San Gregorio VII a Roma.
Il Papa ha ascoltato, assorto, rimproveri non leggeri: Ciotti ha incitato la Chiesa a non collaborare mai più con la mafia, a fare autocritica. Ha ricordato che, in passato, essa non ha curato un male di così enormi risvolti umani e sociali. Ha citato i momenti di luce (in particolare Don Pino Puglisi, Don Peppe Diana, Don Cesare Boschin, ammazzati nel ’93, ’94, ’95) e al tempo stesso i «silenzi, le sottovalutazioni, gli eccessi di prudenza, le parole di circostanza».
Ha anche nominato espressamente la Procura di Palermo, impegnata in uno dei più cruciali processi italiani - quello sui patti fra Stato e mafia - esigendo a voce alta che i «magistrati onesti non siano lasciati soli». Ha fatto il nome del più minacciato fra di loro: Nino Di Matteo, condannato a morte da Totò Riina e tuttavia nome incandescente, che i rappresentanti dello Stato si guardano dal menzionare. È un j’accuse pesante, quello di Luigi Ciotti. E l’ha lanciato nel cuore della Chiesa, sicuro d’avere a fianco la sua massima autorità. Forse è la più grande novità di questi giorni. L’Altra Chiesa, quella di Don Gallo e Don Puglisi, da periferia che era diventa centro.
Gian Carlo Caselli, presente alle cerimonie e poi alla marcia di Libera per la XIX Giornata della memoria e dell’impegno, ha detto una cosa importante: che la Chiesa parla alle menti se ha profeti, «e per un profeta non è difficile arrivare più in là della politica». È facile soprattutto in Italia, dove la politica s’inabissa nei silenzi elusivi, nelle smemoratezze.
Caselli lo ripete fin da quando, insediato a capo della Procura di Palermo, disse in un convegno della Chiesa di Sicilia, nel ’93: «È necessario analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa (...) hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, e conviverci senza articolare una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società ».
Se Falcone e Borsellino vennero uccisi con le loro scorte, fu «perché lo Stato, ma anche noi cristiani, noi Chiesa, non siamo stati sino in fondo quel che avremmo dovuto essere (...). Quante volte, invece di vedere il prossimo, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile e del devozionismo religioso». Già allora chiedeva al Vaticano uno scatto di responsabilità: lo stesso implorato venerdì da Don Ciotti. Lo scatto che tarda a venire nella politica. Antonio Ingroia, ex pubblico ministero a Palermo, osserva come manchi, nei primi discorsi di Renzi premier, ogni accenno alle procure minacciate. Come sia vasto, e voluto, il mutismo sul processo Stato-mafia (Huffington Post,3-3-14).
Cosa significa, a questo punto, il «convertitevi» ripetuto tre volte da Francesco, e prima di lui da Giovanni Paolo II? Cos’è precisamente il mutar vita, per chi si dice uomo d’onore? Alcuni libri essenziali sono stati scritti su Chiesa a mafia (da Alessandra Dino, “La mafia devota”; da Vincenzo Ceruso, “La Chiesa e la mafia”; da Letizia Paoli, ricercatrice a Friburgo, “Fratelli di mafia”) e sempre il nodo è la conversione. In una libera Chiesa che vive in un libero Stato il senso è chiaro, ma non sempre spiegato nella sua sostanza.
Conversione e pentimento non sono una pacificazione, un adeguarsi alle esteriorità di una fede. Nell’esteriorità il mafioso eccelle, e già Sciascia lo scriveva: il cristianesimo «consente a quelle esplosioni propriamente pagane». Convertirsi, come disse nel ’97 Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo dopo Pappalardo, «esige la detestazione sincera del male commesso, la volontà risoluta di non commetterlo più, di riparare i danni arrecati alle persone e alla società, rimettendosi alle legittime istanze della giustizia umana».
Pentirsi comporta un’accettazione delle regole della pòlis, distinte da quelle vaticane: un divenire cittadino. Implica collaborazione con i magistrati, perché se non si fa giustizia in terra il rimorso è vano. E implica, nella Chiesa, l’abbandono della doppiezza. È doppiezza quel che disse Padre Schirru contro i pentiti e le «pratiche della delazione», nel Giubileo del 2000. O la protezione offerta ai latitanti da innumerevoli parroci, le connivenze in cambio di favori.
È scandalo il vuoto che si creò in ambito ecclesiastico quando fu ucciso Don Puglisi. Il «convertitevi» concerne i mafiosi, e al contempo quella parte del clero che fu connivente per almeno quarant’anni, sino alla fine degli anni 80: proprio gli anni in cui fu complice Andreotti, secondo la sentenza in Cassazione del 2004 che lo assolse parzialmente, e confermando il reato di «concreta collaborazione » lo prescrisse soltanto.
La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta - lo è ancora - dalle esplosioni idolatriche dei mafiosi. Più volte, scrive Vincenzo Ceruso, i parroci non vedono contraddizione tra la loro appartenenza religiosa e l’essere affiliati di Cosa Nostra. Così come c’è stato uno Stato malavitoso nello Stato, c’è stata una chiesa del delitto nella Chiesa. Così come c’è stata una trattativa Stato-mafia (nelle ultime ore si riparla di trattative anche con le Brigate rosse, nel rapimento Moro), ci sono stati patti fra Chiesa e mafia.
Allo Stato Cosa nostra contende il monopolio della forza, alla Chiesa il monopolio religioso: «Molti religiosi hanno attuato una strategia analoga a quella dei rappresentanti dello Stato, alternando negoziazione e competizione, ma più spesso contrattando gli spazi del sacro» (Ceruso, ibid, pp. 203-4).
Nel dopoguerra la Dc contribuì a legittimare Cosa nostra. Dominante era la voce preconciliare dell’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini: detrattore di Danilo Dolci e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, ammiratore di Francisco Franco. Letizia Paoli fornisce i dati evocati nel processo Andreotti: tra il ’50 e il ’92 (anno in cui sono ammazzati Falcone e Borsellino) il 40-75% dei parlamentari Dc e il 40% degli eletti in Sicilia occidentale erano apertamente sostenuti dalla mafia. Su questo passato la Chiesa ancora tace. La conversione che rivendica non la coinvolge. Sono stati numerosi gli arcivescovi denunciatori, ma ancor più i preti complici non processati.
Forse lo scatto invocato da Ciotti (la «pedata di Dio») deve avvenire anche nella curia, e fin dentro le parrocchie. Altrimenti l’anatema profetico che viene dall’alto sarà, come dice Caselli: «acqua che scivola sul marmo».
Il Papa ai mafiosi: «Convertitevi subito o per voi l’inferno»
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 22 marzo 2014)
I bagliori sinistri delle fiamme dell’inferno, luogo ultraterreno di tormenti e supplizi, lambiranno mafiosi e camorristi. Il giudizio di Dio per loro è segnato se non si convertiranno in tempo. L’anatema di Bergoglio quasi sussurrato dall’ambone della grande chiesa situata all’imbocco di via Gregorio VII, davanti ad un migliaio di famigliari di vittime di mafia, a don Luigi Ciotti fondatore dell’associazione Libera, a Giancarlo Caselli, a Pietro Grasso, a Rosy Bindi e a diversi magistrati dell’Antimafia, ha ricordato subito la condanna risuonata nella Valle dei Templi di Agrigento, agli inizi degli anni Novanta, quando Papa Wojtyla dopo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio, urlò: «Mafiosi, verrà per voi il Giudizio di Dio».
A variare stavolta sono stati certamente i toni ma non i contenuti - durissimi, pesanti, senz’appello -, non più gridati con l’intensità sanguigna del pontefice polacco, ma esposti con la pacatezza del confessore che tenta di riportare sulla retta via individui avidi e spietati. «Per favore, cambiate vita. Convertitevi, fermatevi di fare il male. Ve lo chiedo in ginocchio, è per il vostro bene. La vita che vivete adesso non vi darà piacere, non vi darà gioia, non vi darà felicità. Il potere, il denaro che voi avete adesso da tanti affari sporchi, da tanti crimini, denaro insanguinato e potere insanguinato, non potrà essere portato all’altra vita. Convertitevi, c’è ancora tempo per non finire nell’inferno, quello che vi aspetta se continuate su questa strada. Avete avuto un papà una mamma pensate a loro, piangete un po’ e convertitevi».
SIMBOLI
All’interno della chiesa si è levato un applauso che sembrava non finire più e sui molti volti si scorgevano lacrime liberatorie. C’erano i fratelli di Pino Puglisi, il prete di Palermo ammazzato da un killer, quelli di Antonio Landieri, freddato dalla camorra, la sorella di Falcone, Maria, mescolati a persone accomunate dallo stesso destino terribile, avere pianto un fratello, un marito, un padre uccisi da killer di Cosa Nostra. Un elenco di vittime lunghissimo, quasi monotono, che include persino 80 bambini, l’ultimo dei quali assassinato alcuni giorni fa. Un computo agghiacciante che è stato letto davanti al Papa per un’ora intera. I nomi delle vittime rimbombavano: Peppino Impastato, Boris Giuliano, Piersanti Mattarella, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno. Stefania Grasso figlia di un imprenditore calabro assassinato, punto di riferimento per le 15 mila persone toccate dal lutto, ha chiesto allo Stato di fare rispettare la legalità. Don Ciotti ha chiesto inasprimenti alle norme sul voto di scambio. Poi ha denunciato silenzi, omertà, resistenze da parte della Chiesa nel Sud.
OMERTÀ
Troppi vescovi e cardinali hanno preferito rifugiarsi in eccessi di prudenza o in parole di circostanza. L’ultimo clamoroso episodio risale a due anni fa quando sono stati celebrati i funerali di Stato per Placido Rizzotto, il sindacalista ucciso nel 1948 da Cosa Nostra. Il rito avvenuto alla presenza del Presidente della Repubblica è stato affidato al vescovo di Monreale, Di Gristina che durante l’omelia non solo ha sbagliato per due volte il nome della vittima, ma ha pure evitato di pronunciare apertamente la parola «mafia», suscitando un vespaio di polemiche e alimentando l’immagine di una Chiesa non ancora consapevole di quanto sia importante martellare sull’incompatibilità tra mafiosità e Vangelo. Papa Bergoglio, tenendo per mano don Ciotti, ha indicato la direzione giusta. Perché è tempo di voltare pagina.
I preti e i boss
di Roberto Saviano (la Repubblica, 22 marzo 2014)
Le parole pronunciate dal Papa sono parole definitive. Tuonano forti non a San Pietro dove saranno risultate naturali, persino ovvie. Tuonano epocali a Locri, Casal di Principe, Natile di Careri, San Luca, Secondigliano, Gela.
E in quelle terre dove l’azione mafiosa si è sempre accompagnata ad atteggiamenti religiosi ostentati in pubblico. Chi non conosce i rapporti tra cosche e Chiesa potrà credere che sia evidente la contraddizione tra la parola di Cristo e il potere mafioso. Non è così. Per i capi delle organizzazioni criminali il loro comportamento è cristiano e cristiana è l’azione degli affiliati. In nome di Cristo e della Madonna si svolge la loro vita e la Santa Romana Chiesa è il riferimento dell’organizzazione.
Per quanto assurdo possa apparire il boss - come mi è capitato di scrivere già diverse volte - considera la propria azione paragonabile al calvario di Cristo, perché assume sulla propria coscienza il dolore e la colpa del peccato per il benessere degli uomini su cui comanda. Il “bene” è ottenuto quando le decisioni del boss sono a vantaggio di tutti gli affiliati del territorio su cui comanda. Il potere è espressione di un ordine provvidenziale: anche uccidere diventa un atto giusto e necessario, che Dio perdonerà, se la vittima metteva a rischio la tranquillità, la pace, la sicurezza della “famiglia”.
C’è tutta una ritualità distorta di provenienza religiosa che regola la cultura delle cosche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta avviene attraverso la “santina”, l’effigie di un santo su carta, con una preghiera. San Michele Arcangelo è il santo che protegge le ‘ndrine: sulla sua figura si fa colare il sangue dell’affiliato nel rito dell’iniziazione. Padre Pio è il santo la cui icona è in ogni cella di camorrista, in ogni casa di camorrista, in ogni portafoglio di affiliato.
Nicola, ex appartenente al clan Cesarano ha raccontato: “Mi sono salvato una volta, quando ero giovane, perché un proiettile è stato deviato. I medici mi hanno detto che è stata una costola a evitare che il colpo fosse mortale. Ma io non ci credo. Quello che mi ha sparato mi ha sparato al cuore, non è stata la costola, è stata la Madonna”.
La Madonna, oggetto di preghiere: è a lei che ci si rivolge per sovrintendere gli omicidi. In quanto donna e madre di Cristo sopporta il dolore del sangue e perdona. Rosetta Cutolo veniva trovata in chiesa nelle ore delle mattanze ordinate da don Raffaele: pregava la Madonna di intercedere presso Cristo per far comprendere che la condanna a morte e la violenza era necessaria.
A Pignataro Maggiore esiste “la madonna della camorra” che il defunto boss Raffaele Lubrano ucciso in un agguato nel 2002, fece restaurare a sue spese, nella sala Moscati attigua alla chiesa madre. Anche Giovanni Paolo II aveva pronunciato - il 9 maggio del 1993 ad Agrigento - un attacco durissimo alla mafia: “convertitevi una volta verrà il giudizio di Dio”. Due mesi dopo i corleonesi misero una bomba a San Giovanni in Laterano.
Ma Francesco I non parla solo a chi spara: ha abbracciato i parenti delle vittime della mafia, ha abbracciato don Luigi Ciotti, un sacerdote che non era mai stato accolto da un pontefice in Vaticano e con Libera è diventato l’emblema di una chiesa di strada, che si impegna contro il potere criminale. La chiesa di don Diana, che fu lasciato solo a combattere la sua battaglia.
Oggi Francesco invita a stare a fianco dei don Diana. Le sue parole rompono l’ambiguità in cui vivono quelle parti di chiesa che da sempre fanno finta di non vedere, che sono accondiscendenti verso le mafie, e che si giustificano in nome di una “vicinanza alle anime perdute”.
Gli affiliati non temono l’inferno promesso dal Papa: lo conoscono in vita. Temono invece una chiesa che diventa prassi antimafiosa. Le parole di Francesco I potranno cambiare qualcosa davvero se la borghesia mafiosa sarà messa in crisi da questa presa di posizione, se l’opera pastorale della chiesa davvero inizierà a isolare il danaro criminale, il potere politico condizionato dai loro voti. Insomma se tutta la chiesa - e non solo pochi coraggiosi sacerdoti - sarà davvero parte attiva nella lotta ai capitali criminali. Dopo queste parole o sarà così o non sarà più Chiesa.
Papa: da Sepe auguri in napoletano
Arcivescovo Napoli, sapra’ dare una svolta alla Chiesa *
NAPOLI, 16 MAR - ’’Con la sua umilta’ ed il suo coraggio sapra’ dare una svolta alla Chiesa’’. Cosi’ l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, ha parlato della missione che attende il nuovo pontefice. Il cardinale Sepe ha anche raccontato i momenti successivi all’elezione. ’’Gli ho sussurrato: Santita’, ’a Maronna t’accumpagna’’’, ha proseguito l’arcivescovo. E il Papa di rimando ha detto: ’’Cosa significa?’’. ’’Gli ho spiegato che la Madonna lo deve accompagnare’’, ha concluso Sepe.
La lettera del cardinale Sepe
"Camorristi, vergognatevi"
Carissimi, si conclude qui, nel cuore della nostra Città, la magnifica fiaccolata ecumenica che si è snodata lungo via Toledo, interpretando i sentimenti di tutti i napoletani. Non importa quanti siamo, perché la freddezza del numero è annullata dal calore dei cuori e dal comune sentire di un popolo. Conta, infatti, l’esserci, lo stare insieme, il pregare insieme nel nome del nostro unico Dio, facendo memoria di tanti nostri fratelli ai quali è stata tolta la vita, senza colpa e senza ragione alcuna.
Il nostro ritrovarci testimonia una presenza, una condanna, una speranza. Sì, vogliamo gridare, con voce forte e ferma, che i nostri fratelli, rimasti vittime della violenza camorristica, sono qui con noi, presenti tra noi, rendendo ancora più forte il nostro impegno a riaffermare il valore della vita di ciascuno e di tutti, per difendere la libertà individuale e la convivenza civile, per esaltare la profonda dignità di questa Città, fatta grande dalla storia ma continuamente offesa da un manipolo di fuorilegge.
Siamo qui non per denunciare la nostra debolezza, ma per esprimere la nostra forza che non nasce dalla violenza delle armi, bensì dal sacrificio dei nostri fratelli vigliaccamente uccisi. Sono proprio loro a motivarci, perché costituiscono la linfa del nostro agire e della nostra battaglia.
Il giusto non muore invano e il sangue dei giusti, recita il salmista, è seme di luce e di speranza; luce nei nostri passi e speranza nei nostri cuori. Sono questi nostri fratelli che illuminano e guidano il nostro cammino, perché sono qui presenti e ci rendono potenti, mentre voi, seminatori di violenza e di morte, rimanete nelle tenebre, vi nascondete perché avete paura mentre dovreste piuttosto avere vergogna di voi stessi e dei vostri comportamenti. Sfuggite alla luce del giorno, perché avvertite il peso delle vostre colpe gravissime e non avete il coraggio di stare tra la gente.
Siete i veri sconfitti. Siete cadaveri che camminano, condannati a morte certa da voi stessi, sapendo che chi semina vento raccoglie tempesta. Sappiate che da parte nostra non ci può essere alcuna indulgenza. Siamo su sponde distinte e distanti, finché rimanete sotto il tunnel della violenza e della morte. Questa Napoli, questa società, questa umanità non vi appartiene, perché voi siete altro, avete scelto di stare contro i vostri fratelli, contro l’umanità, contro la legge, contro quei valori che sono alla base di ogni persona umana e della nostra stessa civiltà.
Vi parlo nel nome del nostro Dio misericordioso: Scegliete la vita, quella vera, quella sacra. Deponete le armi, perché, come disse il compianto Pontefice Giovanni Paolo II ad Agrigento, verrà per voi il giorno del giudizio e non ci saranno sconti. Neppure i vostri figli, le vostre mogli e madri vi perdoneranno per la vita difficile, pericolosa e oscura cui li avete costretti.
Noi continuiamo a credere e a batterci per il cambiamento, per riappropriarci della nostra Città liberata dalla violenza, per realizzare una società animata dalla giustizia e dal bene comune. Siamo sostenuti dalla nostra fede e dal sangue delle tante vittime innocenti per le quali questa sera vogliamo pregare tutti insieme.
“Camorristi in chiesa neanche da morti”
di Antonio Salvati (La Stampa, 10 novembre 2012)
«Se i camorristi non si pentono, non potranno entrare in chiesa neanche da morti». Parole chiare, scandite ritmicamente quasi come a caricarle di maggiore significato. L’arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe ribadisce così un concetto già espresso pubblicamente a più riprese. «L’ho già detto ai miei sacerdoti. Chi semina morte raccoglierà solo morte». E, rivolto ai camorristi: «Vi nascondete perché avete paura mentre dovreste piuttosto avere vergogna di voi stessi e dei vostri comportamenti. Sfuggite alla luce del giorno perché avvertite il peso delle vostre colpe gravissime e non avete il coraggio di stare tra la gente». Un anatema lanciato nel corso dell’omelia che ha chiuso la fiaccolata ecumenica organizzata a Napoli in ricordo delle vittime innocenti della criminalità organizzata.
Un corteo silenzioso, partito da piazza Carità e che si è concluso nella galleria Umberto I dopo aver attraversato via Toledo. «Siete i veri sconfitti ha tuonato l’arcivescovo nel suo discorso anticamorra - cadaveri che camminano, condannati a morte certa da voi stessi, sapendo che chi semina vento raccoglie tempesta».
Una marcia a cui hanno preso parte non solo cittadini, ma anche i rappresentanti delle chiese protestanti, di quelle ortodosse, della comunità ebraica, di quella islamica e buddhista di Napoli. «Sappiate che da parte nostra non ci può essere alcuna indulgenza - ha aggiunto il cardinale - siamo su sponde distinte e distanti, finché rimanete sotto il tunnel della violenza e della morte. Questa Napoli, questa società, questa umanità non vi appartiene perché voi siete altro - ha proseguito - avete scelto di stare contro i vostri fratelli, contro l’umanità, contro la legge, contro quei valori che sono alla base di ogni persona umana della nostra stessa civiltà».
Poi l’appello, rivolto direttamente ai camorristi: «Scegliete la vita, quella vera, quella sacra, deponete le armi perché verrà per voi il giorno del giudizio e non ci saranno sconti», ha detto il cardinale ricordando le parole che Papa Giovanni Paolo II pronunciò ad Agrigento parlando della mafia. Ma nonostante il duro monito, il cardinale non perde la speranza: «Noi continuiamo a credere e a batterci per il cambiamento, per riappropriarci della nostra città liberata dalla violenza per realizzare - ha concluso - una società animata dalla giustizia e dal bene comune».
in “www.lastampa.it” del 9 novembre 2012
«Chi semina morte raccoglierà solo morte. Se gli uomini dei clan non si pentono, così ho detto ai miei sacerdoti, non potranno entrare in chiesa neanche da morti». L’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, lancia il suo anatema proprio mentre ricorda le vittime innocenti della camorra.
La Chiesa cattolica di Napoli con le altre confessioni religiose dovranno «tutte insieme fare - ha auspicato - una barriera per arginare il dilagare del male», male che troppo spesso significa dolore e morte; sangue di mamme, padri e giovani innocenti.
E così questa sera cattolici, ortodossi, buddisti, evangelici, protestanti e islamici si sono ritrovati fianco a fianco - in una marcia silenziosa da piazza Carità alla galleria Umberto, nel cuore della Napoli straziata dai morti di camorra - per dire che la città onesta vuole dire no alla criminalità e che vuole vivere dei «quei valori autentici religiosi e civili». E per gli uomini dei clan, se non si convertiranno, non si pentiranno sinceramente, ha ammonito ancora l’arcivescovo di Napoli le porte delle parrocchie rimarranno sbarrate, «perché non sono degni di ricevere i sacramenti e neanche quando muoiono possono entrare in chiesa».
I vescovi della Campania stanno facendo sentire la loro voce. A Castellammare di Stabia l’arcivescovo Alfano, dopo una lunga polemica, ha impedito che la processione del santo patrono passasse sotto la casa di un presunto boss. «È gente spietata che ha venduto la dignità», ha aggiunto Sepe. «Ai camorristi dico convertitivi», ha detto perché loro «non distruggono solo le loro famiglie ma anche le nostre comunità».
«Come i ragazzi che nascono a Gaza e vivono con la guerra - ha detto Lorenzo Clemente, il marito di Silvia Ruotolo uccisa mentre rientrava a casa mentre era a prendere il figlio a scuola - i nostri figli crescono in un paese che è in guerra». A Napoli le «vittime innocenti della camorra sono sempre in mezzo a Napoli, vivono con noi» ha aggiunto il cardinale Sepe salutando Rosanna, la fidanzata di Lino Romano, il giovane ucciso nelle scorse settimane per uno scambio di persona dai sicari della clan in guerra per il controllo dello spaccio della droga. La ragazza in corteo ha esposto uno striscione con la scritta :«Siamo di più».
Il cardinale: camorristi già condannati a morte
di Dario Del Porto (la Repubblica, 22 ottobre 2012)
«Camorristi, voi che seminate morte, sappiate che siete già stati condannati a morte: in questa vita e nell’altra», tuona il cardinale Crescenzio Sepe. Le strade di Marianella sono illuminate dalle fiaccole. Le finestre, stavolta, sono aperte. C’è gente affacciata ai balconi. E dopo gli applausi, duemila voci cominciano a gridare. Una, dieci, sedici volte: «Noi non abbiamo paura». Accanto all’arcivescovo, una ragazza porta la foto di un momento felice. C’è lei che sorride, accanto all’uomo che aveva scelto come sposo. È Rosanna Ferrigno, la fidanzata di Pasquale Romano, ucciso per errore dai killer della nuova faida di Scampia. La sorregge il fratello Gennaro, che afferma: «Il quartiere ha risposto bene, è la reazione che tutta Napoli aspettava».
A guidare la fiaccolata, i parroci della periferia settentrionale di Napoli, ferita dalla nuova faida di Scampia. Accanto a loro, anche don Tonino Palmese, di Libera. E don Francesco Minervino, il decano delle parrocchie della zona, che afferma: «Vogliamo ribadire con forza che noi non abbiamo paura di chi semina il terrore». Si rivolge alla politica, don Francesco che «cerca palcoscenici». E «all’altra Napoli», quella che ignora le periferie e poi «viene qui a comprare la droga. Questa zona è ferita. Lo diciamo anche a quei professionisti che in qualche modo vengono qui a sostenere la camorra: liberateci da questa piaga. Noi, anche quando le fiaccole saranno spente, saremo ancora qui».
Il presidente della Municipalità, Angelo Pisani, batte sul tasto del quartiere dimenticato. «La gente si sente sola e anche stasera non ci sono istituzioni al loro fianco. È vero, si vedono finalmente polizia e carabinieri. Ma non vedo vigili, e già domani tutto tornerà come prima». Il parroco di Marianella, don Guglielmo Guarino grida: «Gente mia, siamo gente cattiva?». E la folla, in coro: no. «Non abbiate paura, Dio è con voi. La chiesa non ha paura di nessuno. Abbiamo visto troppo sangue e ci fa male». Li conosce tutti, quei ragazzi. E quando il corteo si ferma nel rione dove abitava Roberto Ursillo, assassinato a venti anni, don Guglielmo ricorda: «Era più bravo della sua classe, poi si è perso».
Il sindaco Luigi de Magistris, che non è alla fiaccolata ma nei giorni scorsi aveva incontrato personalmente la fidanzata di Lino Romano, chiede ai cittadini napoletani «di scuotersi. Ci sono ancora troppi indifferenti e troppe persone che si nascondono». L’omicidio di Pasquale appare, agli occhi del magistrato anticamorra Raffaele Cantone, oggi in Cassazione, da anni sotto scorta per le indagini sul clan dei Casalesi, come «un delitto annunciato, visto il livello dei criminali che oggi sparano a Scampia: giovanissimi e strafatti di cocaina».
Cantone però, prendendo spunto da quanto scritto ieri su Repubblica da Roberto Saviano, invita a non sottovalutare qualche segnale positivo: «Si è preso subito atto che la vittima era estranea agli ambienti malavitosi, il ministro dell’Interno è andato a casa dei familiari, anche i movimenti hanno reagito immediatamente e questo non era scontato. Nel complesso la reazione istituzionale è stata positiva e sinergica ». Resta, sottolinea Cantone, il dato di un’area «abbandonata a se stessa dopo la prima faida. Basta guardare il degrado della stazione della metropolitana, un pugno nell’occhio che si trova sulla stessa linea di fermate che invece costituiscono gioielli architettonici». Quanto alle Vele - gli edifici-simbolo che, rileva Cantone, «sono stati costruiti da chi ignorava la realtà, in omaggio alla logica radical chic che a Napoli ha fatto più danni della camorra» - il magistrato commenta: «Preferirei che se ne parlasse quando non ci sarà più l’emergenza. Ma quando questa faida finirà, quanti si ricorderanno di Scampia?».
Sepe: «La Chiesa è avvelenata dai carrieristi»
di Antonio Manzo (Il Mattino, 19 ottobre 2012)
«Siamo noi ”uomini della Chiesa” i primi a sfigurare il volto santo della nostra Madre Chiesa. È rimasta famosa la frase dell’allora cardinale Ratzinger, pronunciata alla Via Crucis al Colosseo sulla ”sporcizia” nella Chiesa. Ma si ha l’impressione che ”alla sporcizia” si sia aggiunta anche tanta zavorra». L’atto di accusa e di autocritica ecclesiale del cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e già prefetto di Propaganda Fide (il ministero degli esteri della Chiesa cattolica) arriva in pieno Sinodo dei Vescovi, all’inizio dell’Anno della Fede e a cinquant’anni dal Vaticano II. Sepe non resta fermo alla denuncia-preghiera dell’allora cardinale Ratzinger alla Via Crucis al Colosseo, nelle stesse ore in cui in quell’aprile di sette anni, veniva trasmessa al mondo l’icona della sofferenza di inizio secolo: Giovanni Paolo II, distrutto dai dolori e con la Croce tra le mani nella cappella privata del Vaticano. Il cardinale Sepe, a Napoli da sei anni, va oltre. Perchè oltre è andata la storia e la cronaca della denuncia sulla «sporcizia» nella Chiesa di Ratzinger, da quell’aprile del 2005: dagli scandali di Vatileaks al furto delle carte nello studio del Papa, dalla scoperta del maggiordomo infedele nell’appartamento papale alla condanna di Paolo Gabriele, per finire agli ancora segreti rapporti stilati dei cardinali «investigatori», voluti da Benedetto XVI, per ricostruire le trame dei corvi vaticani sullo sfondo di lotte interne ai Palazzi.
C’è tutto, nell’intervista che il cardinale di Napoli ha rilasciato due giorni fa a «Nuova Stagione», lo storico periodico della diocesi napoletana diretto da Enzo Piscopo. Ci sono i «mali della Chiesa» di questi tempi ma anche le nuove frontiere dell’evangelizzazione che hanno bisogno «non di nuove procedure o riunioni - dice il cardinale - ma di testimoni e di guide».
Sessantanove anni, la voce del cardinale Sepe «conta» in Vaticano. E non solo per la «giovane» età tra i cardinali della Chiesa. Dalla «sporcizia alla zavorra», ammette Sepe. «Penso al fenomeno subdolo e impalpabile, intorno al quale si attorcigliano e s’annidano veri e propri mali che si chiamano, per esempio, carrierismo o centralismo, parenti, peraltro, molto stretti tra loro. Sono scandali che non aiutano quanti sono alla ricerca di Cristo».
Per lui, alla frontiera più difficile del Mezzogiorno, l’evangelizzazione è il compito quotidiano che passa per la promozione umana, spesso da sollevare dai drammi dei senza lavoro e dell’assedio della criminalità. Di qui la durezza nell’analisi di oggi, passata simbolicamente negli anni dell’episcopato napoletano, dal grido «non rubate la speranza» ai ripetuti inviti di speranza modulati sulla religiosità popolare: «’A Maronna v’accumpagna».
Dice Sepe: «Non possiamo nasconderci dietro paraventi inesistenti o ipocriti. Anche nella Chiesa il carrierismo non solo esiste ma prospera. È sotto gli occhi di tutti che il carrierismo fa danni concreti, inquina i rapporti umani, avvelena gli ambienti in cui si sviluppa e matura». Non solo il carrierismo, ma anche «un certo centralismo burocratizzato» finisce nel mirino del cardinale di Napoli. «Il centralismo, seppure su un livello diverso, non è da meno, quanto ai danni che procura, soprattutto alla Chiesa-comunione. Salva fatta la verità della Chiesa-istituzione, ci si chiede: quanta comunione si vive nella Chiesa? Alle volte si ha l’impressione di vivere in una fossa di leoni che si sbranano tra loro, come con altre parole, ha ricordato Papa Benedetto XVI, piuttosto che in una Casa di comunione dove regnare l’amore di Cristo. Il centralismo, quando è condito di burocraticismo diventa asfissiante».
È l’esperienza di Napoli che conduce il cardinale Sepe sulla strada dell’analisi, una città «dove abbiamo alzato la voce, cercato le sue vie di dentro, famiglie angustiate da livelli di vita sempre meno dignitose» con la criminalità che «arruola» proprio nello «sfacelo del tessuto sociale». Gli scandali vaticani recenti, per il cardinale, sono una «orrenda serie di misfatti e di vere e proprio contro-testimonianze alle quali il Papa ha dato risposte forti e convincenti». Al di là dei corvi e delle trame, la preoccupazione più forte è, invece, quella «per una Chiesa che non riesce a essere più se stessa, una Chiesa avvolta dalla mediocrità di un’esistenza grigia, chiusa e arroccata su se stessa, che spesso sa dire solo parole che restano inascoltate perché fredde e scheletriche...Parole senza carne del vissuto».
IL CARDINALE CRESCENZIO PEPE A CONTURSI TERME (SA), PER LA BEATIFICAZIONE DI DON MARIANO ARCIERO.
CONTURSI TERME (SA) - BEATIFICAZIONE DEL SERVO DI DIO DON MARIANO ARCIERO:
NEL "PROGRAMMA PER LA SETTIMANA DAL 17 AL 24 GIUGNO 2012"
SI LEGGE:
Martedì 19 giugno 2012, ore 19,30
Chiesa Madre S. Maria degli Angeli
Solenne concelebrazione eucaristica
presieduta da Sua Eminenza il Cardinale
CRESCENZIO PEPE, Arcivescovo di Napoli
De Magistris: sos igiene. E attacca Berlusconi
Napolitano: "Urgente l’intervento del governo" *
Il sindaco lancia un sos sanitario e sul premier dice. "Se ne frega di Napoli. Se avesse avuto a cuore le sorti della città in queste ore avrebbe adottato ben altri provvedimenti". Il monito del capo dello Stato: emegrenza acuta e allarmante. Imminente un’ordinanza contro i roghi e contro chi sparge i rifiuti in strada, annunciata la scorta armata ai mezzi dell’azienda rifiuti, Ai cittadini si chiede "attenzione" sulla raccolta differenziata. Guasto il termovalorizzatore di Acerra, individuati tre nuovi siti in città
A Napoli la situazione è grave, l’emergenza è "acuta e allarmante", l’intervento del governo è "indispensabile". Il presidente Napolitano raccoglie e rilancia l’allarme del sindaco Luigi De Magistris, che poco prima aveva dichiarato: la situazione igienico-sanitaria "è grave", c’è ormai "un rischio concreto per la salute dei cittadini". De Magistris in una conferenza stampa ha anche duramente attaccato Berlusconi: "Non ha fatto nulla per Napoli e per l’emergenza rifiuti, perché se ne frega: altrimenti in queste ore avrebbe adottato altri provvedimenti". "Bisogna partire subito - ha aggiunto il primo cittadino - Le isole ecologiche devono essere immediatamente attive, non si può aspettare settembre". Fra le altre emergenze, "Il termovalorizzatore di Acerra è bloccato per un guasto", ha fatto anche sapere il primo cittadino, "da ieri sera non funziona più". "Il Comune di Napoli ha individuato tre siti di trasferenza in città", ha poi annunciato. In questo modo "non dovremmo più dipendere da nessuno".
Il primo cittadino non ha voluto però svelare quali siano questi siti, "per motivi di riservatezza". Ma è filtrato che oltre all"Ex Icm del quartiere Ponticelli già in uso, i luoghi individuati sarebbero i capannoni dismessi di Gianturco e l’ex mercato dei fiori di San Pietro a Patierno. Sul secondo sito la Provincia avrebbe dato l’ok.
De Magistris ha anche promesso un "impegno straordinario" della polizia municipale sul fronte della repressione dei roghi, "che rappresentano un pericolo per la salute pubblica", e contro "chi rovescia per strada i cumuli. In tal senso - ha detto - arriverà un’ordinanza tra poche ore". I mezzi Asia avranno scorta armata delle forze dell’ordine. Il sindaco non ha voluto svelare altri dettagli del piano anti- rifiuti. "Non è opportuno in questa fase rendere conto di tutti i passi che stiamo compiendo".
"No allo stato di emergenza", ha infine chiarito il primo cittadino. "Stiamo cercando di agire nell’ambito dei poteri ordinari. Noi facciamo quello che il Comune può fare". "Sappiamo che i cittadini sono stremati dalla situazione - ha concluso - ma chiediamo un ulteriore sforzo per fare attenzione ai rifiuti che gettano via e all’uso della differenziata. Cercheremo di rimpinguare le casse dell’Asìa alla quale stiamo chiedendo in queste ore uno sforzo straordinario".
* la Repubblica, 23 giugno 2011
De Magistris: "Presto Saviano libero a Napoli
Pasquino presidente dell’assemblea"
Il candidato dell’Idv risponde così alle dichiarazioni di sostegno dell’autore di Gomorra. "Saviano deve essere uno dei protagonisti del cambiamento di Napoli". E poi lancia la proposta al rettore di Salerno, sconfitto al primo turno delle elezioni a sindaco *
"Voglio creare le condizioni perchè Saviano possa tornare liberamente a Napoli". Con questa promessa Luigi de Magistris risponde a l’autore di Gomorra che ha dichiarato di voler sostenere l’ex magistrato al ballottaggio. di domenica.
"Saviano ha avuto il coraggio di portare il tema dei rapporti tra camorra e politica fuori dai confini nazionali - piega il candidato Idv - e lui deve essere uno dei protagonisti del cambiamento che vuole Napoli".
Per questo, fa sapere di essere intenzionato a "organizzare una passeggiata con Saviano e i giovani di Napoli". De Magistris aggiunge: "Mi è piaciuta l’espressione che ha usato ’Liberare Napoli’. E’ la stessa che ho utilizzato io in campagna elettorale". Oggi, per l’ex pm, è il giorno dell’incontro con i giovani sulle scale dell’Università di Napoli Federico II, in corso Umberto. Anche stavolta prende il megafono e parla ai ragazzi. "Adotta un astenuto e portalo a votare", dice. Gli studenti intonano il coro "Sindaco, sindaco".
Poi, il candidato di centrosinistra, riprende a parlare e sottolinea di "voler creare le condizioni" per evitare la fuga dei cervelli. "Da europarlamentare - spiega De Magistris - ho incontrato troppi ragazzi che sono andati via perchè qui non c’è lavoro".
"Credo che Pasquino possa essere un ottimo presidente del Consiglio e quando sarò sindaco voglio lui in questo ruolo". Lo ha detto Luigi de Magistris, candidato sindaco di Napoli, parlando del rettore dell’Università di Salerno Raimondo Pasquino, candidato sindaco del Terzo polo escluso dai ballottaggi. " una persona che ho imparato ad apprezzare in campagna elettorale per il suo stile - ha affermato a margine di un incontro con i giovani - così come ho apprezzato il suo annuncio di voler rimanere in Consiglio comunale".
* la Repubblica, 26 maggio 2011
IL CASO
Lunardi, atti di nuovo alla Camera
"Ecco perché bisogna processarlo"
L’affaire Propaganda Fide, il Tribunale dei ministri insiste. Indagato anche il cardinale Sepe. La prima richiesta di autorizzazione venne respinta
dal nostro inviato CARLO BONINI *
PERUGIA - La chiusura delle indagini sul Sistema Balducci-Anemone-Bertolaso (60 i faldoni di documenti istruttori depositati) e sull’associazione a delinquere che ha pilotato i grandi appalti pubblici, rianima il capitolo di questa storia che incrocia i destini dell’ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi e dell’arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe, con lui indagato di corruzione aggravata per il baratto tra l’acquisto sottocosto di un palazzo di proprietà di "Propaganda Fide" in via dei Prefetti, a Roma, e il contributo pubblico di 2 milioni e mezzo di euro ai lavori di ristrutturazione della sede della Congregazione in piazza di Spagna. Con una nuova "relazione motivata" di 13 pagine, il Tribunale dei Ministri di Perugia torna infatti a chiedere alla Giunta per le autorizzazioni della Camera di poter procedere nei confronti di Lunardi, oggi deputato Pdl. Riproponendo in modo ancora più articolato e assertivo una decisione su cui, il 6 ottobre scorso, la stessa Giunta si era pronunciata una prima volta, disponendo la restituzione degli atti al Tribunale perché ritenuti tanto "lacunosi nel ricostruire l’imputazione anche a carico del coimputato Sepe", quanto frutto di "indagini insufficienti".
"All’esito dell’approfondimento richiesto - scrive ora il Tribunale - questo Collegio ribadisce l’insussistenza dei presupposti per disporre l’archiviazione del ministro Pietro Lunardi, non apparendo palesemente infondata la notizia di reato a suo carico". "L’impianto accusatorio - si legge infatti - anche in relazione alla natura dell’imputazione, si fonda su ampi riscontri di carattere prevalentemente documentale (atti pubblici, provvedimenti amministrativi, corrispondenza, verbali di testimonianza, atti negoziali, documentazione contabile, atti della Procura regionale presso la Corte dei Conti) i quali rendono superfluo, allo stato, il compimento di indagini diverse. Tanto più in mancanza di qualsivoglia segnalazione in tal senso da parte del ministro interessato, che non si è mai avvalso della facoltà di presentare memorie al Collegio o di essere ascoltato".
Insomma, il lavoro della pubblica accusa, a giudizio del Tribunale, è concluso. Tanto che nelle 13 pagine della relazione se ne riportano con certosina precisione gli esiti (per altro stranoti alle cronache). Dalla compravendita del palazzo di via dei Prefetti (3 giugno 2004), alla lettera di Sepe a Lunardi per sollecitare l’intervento della società a capitale pubblico "Arcus" nella ristrutturazione della sede della Congregazione in piazza di Spagna (1 marzo 2005), all’"ordine" impartito in questo senso dal ministro al suo gabinetto (21 ottobre 2005), all’approvazione del finanziamento (29 novembre 2005), alla interessata supervisione dell’intera operazione di Diego Anemone e Angelo Balducci, "che, nella doppia veste di autorità degli appalti pubblici e di consultore per il patrimonio immobiliare di "Propaganda Fide", fungeva da collante per la soddisfazione di interessi privati".
Dunque - a giudizio del Tribunale - la Giunta non deve fare altro che dare una semplice risposta a un’altrettanto semplice domanda. Se Lunardi, "nel commettere il reato, abbia o meno agito a tutela di un interesse dello Stato". Se insomma, quel "baratto" all’ombra di un privatissimo affare immobiliare (3 i milioni di euro pagati dalla società del figlio di Lunardi, Giuseppe, per un immobile che ne valeva 8), che vede "indissolubilmente legati corrotto (Lunardi) e corruttore (Sepe)", avesse o meno un qualche imperscrutabile obiettivo di difesa di "superiori interessi collettivi".
E tuttavia, è tutt’altro che scontato che la Giunta decida. Il Tribunale insiste infatti nel chiedere l’autorizzazione a procedere per il solo Lunardi e non anche per il cardinal Sepe, come pure la Giunta aveva invitato a fare. Argomentando così: "Il fatto che la legge preveda che un eventuale diniego dell’autorizzazione a procedere nei confronti di un ministro possa o meno estendersi a chi ha concorso con lui nel reato (in questo caso il cardinal Sepe, ndr), non significa che, anche nei confronti di quest’ultimo vada chiesta l’autorizzazione".
* la Repubblica, 28 gennaio 2011
INCHIESTA APPALTI
G8, indagati il card. Sepe e Lunardi
Per entrambi accusa di corruzione
Avviso di garanzia dalla Procura di Perugia per il filone sui Grandi Eventi. Sia per l’arcivescovo di Napoli che per l’ex ministro si fa riferimento a ristrutturazione e vendita di immobili, in cui sarebbero coinvolti Anemone e Balducci
ROMA - Due nuovi indagati eccellenti nell’inchiesta sui "Grandi Eventi" e sugli appalti per il G8 alla Maddalena. Si tratta del cardinale Crescenzio Sepe e dell’ex ministro delle Infrastrutture Piero Lunardi, a cui è stato notificato l’avviso di garanzia emesso dai pm di Perugia Alessia Tavarnesi e Sergio Sottani. A entrambi è contestato il reato di corruzione. L’arcivescovo di Napoli e l’ex ministro sono stati indagati in due diversi tronconi dell’inchiesta.
Per il cardinale Sepe, l’indagine riguarda in particolare la ristrutturazione e la vendita di alcuni immobili di Propaganda Fide nel 2005. Operazioni nelle quali risulterebbe coinvolto il costruttore Diego Anemone, considerato personaggio centrale dell’inchiesta sui Grandi Eventi. Il sospetto degli inquirenti perugini è che l’arcivescovo di Napoli abbia ricevuto in cambio dei favori. Nessuna reazione dalla curia di Napoli, dove un collaboratore del cardinale si limita a riferire che "Sua Eminenza non è in sede"
Riferendo ai magistrati sull’ormai famoso appartamento in via Giulia, a Roma, il capo della Protezione Civile Guido Bertolaso aveva dichiarato 1 che era stato proprio il cardinale Sepe a procurargli la sistemazione, dopo un periodo di permanenza in un istituto ecclesiastico i cui orari erano incompatibili con le esigenze dello stesso Bertolaso.
Anche per quanto riguarda Lunardi l’accusa fa riferimento alla ristrutturazione e alla vendita di un immobile. In entrambe le operazioni sarebbe coinvolto l’ex presidente del Consiglio dei lavori pubblici Angelo Balducci, tuttora detenuto. In un’intervista a Repubblica 2, l’ex ministro aveva ammesso e difeso lo "scambio di favori" di cui era stato protagonista quando era titolare delle Infrastrutture e dei Trasporti.
* la Repubblica, 19 giugno 2010
Fu il cardinale Sepe a "trovare" casa a Bertolaso *
Fu il cardinale Crescenzio Sepe, a lungo al vertice di Propaganda Fide, a indirizzare Guido Bertolaso al professor Francesco Silvano, collaboratore dell’organizzazione religiosa, che poi gli mise a disposizione l’appartamento di via Giulia a Roma. Emergono nuovi particolari dall’interrogatorio del capo della Protezione Civile Guido Bertolaso di ieri davanti ai magistrati di Perugia Sergio Sottani ed Alessia Tavarnesi e chiamano in causa l’attuale arcivescovo di Napoli, all’epoca responsabile dell’ ’immobiliarè del Vaticano. Agli inquirenti che indagano sulla cricca degli appalti, Bertolaso ha spiegato agli inquirenti di avere contattato «personalmente» il cardinale Sepe, che conosceva da tempo. Nella primavera-estate del 2003 il sottosegretario aveva infatti chiesto e ottenuto, per vicende personali, di soggiornare presso il collegio universitario di Propaganda Fide, sempre a Roma. L’attività lavorativa del Capo del dipartimento della protezione civile - ha sostenuto lui stesso nella nota diffusa ieri sera subito dopo l’interrogatorio - si era però «mostrata incompatibile con il regime di vita degli studenti dell’ateneo a causa degli orari imposti dalla sua attività istituzionale».
Fu quindi il cardinale Sepe a indirizzare Bertolaso - secondo quanto avrebbe riferito lui stesso ai pubblici ministeri - al professor Silvano, che gli mise a disposizione l’appartamento di via Giulia. Il sottosegretario ha anche spiegato di avere soggiornato nella casa fino alla fine del 2003 quando tornò a vivere nella sua abitazione. Ma ai magistrati ha anche rivelato di avere mantenuto la disponibilità dell’appartamento, senza comunque soggiornarvi, per un altro anno, quando restituì le chiavi. Nel corso dell’interrogatorio, i pm hanno poi contestato a Bertolaso le dichiarazioni rese dall’architetto Angelo Zampolini, che gli inquirenti sospettano abbia riciclato denaro per Diego Anemone.
È stato lui ad aver detto di aver pagato l’affitto della casa di via Giulia (per conto del costruttore, è il sospetto di chi indaga) senza però fornire date, almeno a quanto sarebbe emerso nell’interrogatorio di Bertolaso. Il capo della protezione civile ha comunque negato che ciò sia avvenuto quando soggiornava nell’abitazione. Di questa Bertolaso ha ribadito di avere pagato le bollette ma non l’affitto. Ai pubblici ministeri di Perugia il sottosegretario ha consegnato anche alcune foto di un immobile nella zona di Positano, anche questo finito all’attenzione degli inquirenti. «Un rudere che apparteneva a mia madre» ha sottolineato Bertolaso ai magistrati. Nel corso dell’interrogatorio di ieri, infine, si è parlato anche di appalti. «Non mi sono mai occupato della gestione degli appalti, con la sola eccezione di quelli per il G8 che doveva tenersi alla Maddalena» ha messo a verbale il capo della Protezione Civile. Per quanto riguarda il vertice poi spostato all’Aquila, Bertolaso ha riferito che si accorse che i costi stavano lievitando e per questo «intervenni, sostituendo come soggetto attuatore Fabio De Santis (che a sua volta aveva preso il posto di Angelo Balducci, ndr) con Gian Michele Calvi, nel novembre del 2008». Per il resto degli appalti, Bertolaso ha riferito ai pm perugini che a occuparsene era l’allora presidente del consiglio superiore pubblici Angelo Balducci
* l’Unità, 16.06.2010
IL PESCE VIVO ("ICHTHUS"), IL PESCE FRITTO ("ICTUS"), E IL PONTEFICE MASSIMO (GIOVENALE, IV SATIRA). Una rilettura
“Adotta un bimbo napoletano”
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 29 dicembre 2009)
La Chiesa si mobilita per i «ninos de rua» della porta accanto. «Con trenta euro al mese i bambini poveri di Napoli potranno avere cibo e andare a scuola», afferma il cardinale Crescenzio Sepe, promotore dell’iniziativa «Aiutami a crescere». Contro la «povertà che si espande a macchia d’olio» l’arcidiocesi partenopea sperimenta la solidarietà «glocal», adattando alla realtà locale una formula che da anni sta dando ottimi risultati nei paesi in via di sviluppo. Grazie a questo nuovo modello di volontariato la Chiesa napoletana sostituisce le adozioni a distanza con quelle di vicinanza. In pratica ai fedeli viene proposto di adottare un bambino della propria città per non lasciarlo in strada.
Attraverso la fondazione Onlus «In nome della vita», presieduta da Sepe, saranno subito sostenuti un centinaio di minori disagiati che vivono nei «quartieri a rischio. Si potrà adottare un baby concittadino con un solo euro al giorno, garantirgli un regolare percorso scolastico e, se necessario, un aiuto alimentare. I soldi raccolti serviranno anche ad aprire un «banco alimentare per l’infanzia» che consentirà alle parrocchie di distribuire cibo per i neonati. «La povertà è un fenomeno in crescita anche a causa della crisi mondiale- spiega Sepe, organizzatore anche dell’asta di beneficenza in Curia con il cantante Massimo Ranieri.
«La Chiesa, da sempre, ha fatto della lotta alla povertà uno degli impegni principali- evidenzia l’ex «Papa rosso (cioè ministro vaticano delle Missioni) destinato da Benedetto XVI a ridare slancio a una delle diocesi più difficili d’Italia-. Anche qui a Napoli, considerando la situazione particolarmente complicata, realizziamo progetti chiari e precisi. La priorità è combattere il disagio». Una battaglia combattuta in prima linea, in un tradizionale «avamposto» della dottrina sociale.
«Non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza lotta alla povertà», evidenzia Sepe, reclamando «una più equa distribuzione delle ricchezze che pochi uomini e nazioni pretendono di controllare e governare in nome di una superiorità e di un diritto che spesso si traduce in sfruttamento e violenza». La carità, quindi, come risposta ad una «realtà triste e drammatica, di dimensioni enormi che non si può affrontare da soli, senza la solidarietà».
L’arcidiocesi ha creato la «banca dei poveri» alla quale Sepe ha donato lo stipendio di un anno. «Serve ai giovani e ai padri di famiglia senza un lavoro per darsi un’occupazione e procurarsi un reddito- evidenzia il cardinale-. Aiutiamo chi ha idee e progetti ma non ha risorse economiche per realizzarli». Il fondo «Spes», speranza, eroga in Curia prestiti fino 20mila euro a tasso zero.
E contro «egoismi e posizioni di privilegio», Sepe mette in guardia da «misure accentuano che le disuguaglianze: guai a sentirsi un nuovo dio ma senza anima né futuro».
A Natale la basilica dei Santi Severino e Sossio ha accolto 400 poveri per il pranzo e venerdì la Marcia della pace attraverserà le periferie.
I retroscena dei rapporti tra Berlusconi e Ratzinger nel nuovo libro di Pinotti e Gümpel
Quel patto segreto tra la destra e la chiesa
Si chiama "L’unto del Signore" E rivela i legami tra il Governo e il Vaticano. Sanciti alla presenza di Letta e Bertone in un incontro del 5 giugno 2008
di Alberto Statera (la Repubblica, 02.06.2009)
L’unto del Signore, come si autodefinì una volta, non è mai stato l’idealtipo del buon cattolico praticante. Ma quel 5 giugno 2008, con la regia del gentiluomo di Sua Santità Gianni Letta e del segretario di Stato Tarcisio Bertone, Silvio Berlusconi e Joseph Alois Ratzinger siglarono un patto d’acciaio tra il governo italiano in carica da un mese e il papato. Passato un anno, quel patto difensivo-offensivo ha già dato risultati straordinari per i contraenti, tanto da indurre il presidente della Camera Gianfranco Fini a tentare di smarcarsi dal berlusconismo anche in nome della laicità dello Stato.
Non c’è divorzio che possa incrinare quella sorta di nuovo Concordato de facto, nonostante le critiche della Chiesa del Vangelo alla «partnership» delle alte gerarchie con il politico amorale per eccellenza. Quella partnership consolidata recentemente con il Papa, in realtà viene da lontano, come documenta con dovizia di prove un libro-inchiesta di Ferruccio Pinotti e Udo Gümpel, intitolato per l’appunto L’unto del Signore in uscita per la Bur il 3 di giugno (pagg. 299 , euro 12,50) . Viene talmente da lontano da essere ormai indissolubile.
Ne è convinto, anche il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga: «Alla Chiesa cattolica - ha detto intervistato dagli autori - che uno vada in chiesa o meno non importa molto: se devo fare un contratto, una società, come amico mi scelgo uno che abbia le mie stesse idee religiose, ma se questo cristiano non capisce nulla di finanza e dall’altra parte c’è un massone che capisce di finanza, con chi crede che faccia la società? La Chiesa guarda al concreto». Berlusconi è cristiano e pure massone (tessera 1816 della P2).
Il giovane Silvio, studi al liceo Sant’Ambrogio dei Salesiani e frequentazione di Torrescalla, residenza universitaria milanese dell’Opus Dei, dove conobbe Marcello dell’Utri, fa i primi passi di imprenditore edile con l’aiuto della Banca Rasini. Investendo una parte dei primi guadagni, fonda la squadra di calcio Torrescalla-Edilnord targata Opus Dei: lui presidente, l’amico palermitano allenatore e il fratello Paolo centravanti.
Alla Rasini il padre Luigi da semplice impiegato è diventato direttore. Questa banca, con un solo sportello a Milano in piazza dei Mercanti, era alternativamente definita «Vatican bank», «Sportello della mafia» o « Banca di Andreotti». E’ stata in realtà tutte queste cose prima di finire nel 1992 dentro la Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani, l’uomo che sussurrava ad Antonio Fazio, pio governatore della Banca d’Italia e legionario di Cristo.
Dagli anni Sessanta e fino al blitz antimafia del 14 febbraio 1983 che portò all’arresto del direttore Antonio Vecchione, succeduto a Berlusconi senior, e di un gruppo di imprenditori legati ai clan Fidanzati, Bono e Gaeta, era in quello sportello a due passi dal Duomo il crocevia degli interessi di Cosa Nostra e del Vaticano. La maggioranza azionaria era passata dai Rasini a Giuseppe Azzaretto, nato e Misilmeri nei pressi di Palermo, cavaliere di Malta e commendatore del Santo Sepolcro, che aveva nominato presidente Carlo Nasalli Rocca, anche lui cavaliere di Malta e fratello del cardinale Mario Nasalli Rocca.
Ma si diceva che l’effettivo controllo fosse di Giulio Andreotti, come conferma Ezio Cartotto, ex dirigente democristiano che con Dell’Utri partecipò alla fondazione di Forza Italia. Interpellato da Pinotti e Gümpel, Dario Azzaretto racconta: «Andreotti è stato per la mia famiglia un grande amico e lo è tuttora», tanto che per anni ha trascorso le vacanze nella loro villa in Costa Azzurra.
Ma i misteri della Rasini, passata negli anni Ottanta anche per le mani dell’imprenditore andreottiano Nino Rovelli, non sono finiti qui. Dietro c’erano tre fiduciarie basate in Liechtenstein e amministrate dal gentiluomo di Sua Santità e gran croce dell’Ordine papale di San Gregorio Herbert Batliner, re dell’offshore, gnomo degli gnomi plurinquisito, che nel 2006 regalò un organo del valore di 730 mila euro a papa Ratzinger.
C’era anche Berlusconi in quelle tre fiduciarie? «Non mi pare - risponde Dario Azzaretto - che Berlusconi o parenti di Berlusconi o persone vicine a Berlusconi avessero partecipazioni in società che si potevano riferire alla banca». Le sue operazioni con la Rasini - aggiunge - avvenivano tramite Armando Minna, membro del collegio dei sindaci e amministratore di alcune holding berlusconiane registrate come saloni di bellezza e parrucchieri. Ufficialmente è nel 1975, quando i primi inquilini già abitano a Milano 2, che nasce la Fininvest. Ma la ricerca certosina degli autori dell’Unto del signore la retrodata di almeno un anno, quando una Fininvest Ltd-Grand Cayman compare tra le società partecipate da Capitalfin, controllata a sua volta dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e dall’Istituto per le Opere di Religione.
Ciò che coincide con quanto dichiarato dal figlio del banchiere piduista trovato morto a Londra nel 1982 sui soldi misteriosi con cui venne costituita la Fininvest. Carlo Calvi racconta tra l’altro che il padre, in una riunione del dicembre 1976 alle Bahamas cui era presente anche il cardinal Marcinkus, lo prese sottobraccio e gli sussurrò: «Finanzieremo le attività televisive di Silvio Berlusconi».
Storia antica, ma significativa del vero miracolo compiuto da Berlusconi: quello di avere sempre con sé il Vaticano, nonostante la sua storia personale. Al punto, diventato presidente del Consiglio, da dividere l’Italia tra due sovranità che si contendono il paese: quella della Chiesa e quella del declinante Stato laico.
Racconta ancora Cartotto: «Dell’Utri mi invitò a una convention di Publitalia a Montecarlo. Arrivammo nel principato con l’aereo aziendale. Su quell’aereo c’eravamo io, il professor Torno e monsignor Gianfranco Ravasi. Sono convinto che Berlusconi abbia cominciato a pensare all’ipotesi di scendere in campo nell’autunno del 1992, proprio in occasione di quella convention. Silvio fece un discorso nel quale rilevava che il clima politico si stava facendo pesante. Disse che gli amici perdevano potere, che i nemici ne conquistavano e l’azienda doveva attendersi momenti difficili».
Decisa infine la «discesa in campo», i rapporti col Vaticano divennero quasi un’ossessione: «Posso dire di aver avuto un piccolo ruolo anche io», vanta Cartotto: «Organizzai un incontro tra Bertone e Aldo Brancher, un ex sacerdote che ora è uno degli uomini più importanti di Forza Italia, quando il cardinale non conosceva ancora il gruppo berlusconiano. Poi Brancher lasciò il passo a Letta soprattutto nel momento in cui Bertone divenne segretario di Stato». Il cardinale Silvio Oddi, per trent’anni prefetto della Congregazione per il clero, assolse prontamente il Berlusconi politico dal peccato del primo divorzio. Il cardinale Camillo Ruini avallò.
Il 30 giugno 2008, tre settimane dopo l’incontro Ratzinger - Berlusconi, il governo confeziona il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche che prevede una disciplina ad hoc per gli ecclesiastici. Se si intercetta un prete bisognerà avvertire il suo vescovo, se si intercetta il vescovo il segretario di Stato vaticano. E se si intercetta il papa? Opzione non prevista.
il gesto
All’inizio della celebrazione l’arcivescovo di Napoli indossa la stola di don Giuseppe Diana, il sacerdote assassinato 15 anni fa per la sua opposizione ai clan
Applausi e pianti tra i fedeli che affollavano il duomo
«Fare memoria dovere di riconoscenza verso chi ha testimoniato con il proprio sangue»
LA CAMPANIA CHE DICE NO
I temi della speranza nella seconda giornata dell’iniziativa voluta da «Libera» per ricordare i caduti nella lotta contro i clan. Oggi la marcia dei familiari attraverserà il capoluogo campano
Sepe: «Non arrendersi mai Camorra, male senza confini»
A Napoli veglia di preghiera per le vittime della criminalità
-DAL NOSTRO INVIATO A NAPOLI ANTONIO MARIA MIRA (Avvenire, 21.03.2009)
Un signore anziano, viso da contadino, sale la scalinata che porta all’altare del Duomo. Tra le mani callose porta, stringendola delicatamente, una stola viola. La stola di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dalla camorra quindici anni fa. Lui è Gennaro Diana, il papà. Si avvicina al cardinale Crescenzio Sepe, gli porge la stola e il cardinale, togliendo la sua, la indossa. Un lungo, forte, commosso applauso sale, invade, riempie la grande chiesa. «Grazie eminenza - dice don Tonino Palmese, responsabile di Libera per la Campania - per aver voluto mettere sulle sue spalle il ricordo, la memoria, la vita di don Peppe Diana». Un altro applauso percorre il Duomo mentre il cardinale fa accomodare Gennaro, sorridente, al suo fianco, tra i sacerdoti che stanno partecipando alla veglia di preghiera in occasione della «Giornata della memoria e dell’impegno» in ricordo delle vittime di tutte le mafie che oggi attraverserà la città. È il momento più commovente di una veglia che ha toccato soprattutto i temi della sparanza e dell’impegno. «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò», recita una delle letture scelte dal Vangelo di Matteo. Una scelta non casuale.
Metà della chiesa è occupata da più di 500 familiari delle vittime delle mafie. Si prega. «Signore, Dio dell’universo, perdonaci per quelle volte in cui gli atteggiamenti di indifferenza hanno dato alle mafie la forza necessaria per imporre terrore, disperazione e morte». Al momento dello scambio del segno della pace salgono all’altare quattro familiari: Lorenzo Clemente, Stefania Grasso, Viviana Matrangola, e la mamma di Gelsomina Verde. Poi, proprio sul tema, si prega ancora.
«Dio della pace, non ti può comprendere chi semina discordia, non ti può accogliere chi ama la violenza; dona a chi edifica la pace di perseverare nel suo proposito e a chi la ostacola di essere sanato dall’odio che lo tormenta, perché tutti si ritrovino in te, che sei la vera pace». Poi si alza il canto. «Tu sei la mia vita, altro io non ho. Tu sei la mia strada, la mia verità. Nella tua parola io camminerò, finché avrò respiro, fino a quando tu vorrai. Non avrò paura, sai, se tu sei con me: io ti prego, resta con me».
Parole che ricordano tanto la vita di don Peppe. E del parroco ucciso dalla camorra parla il cardinale di Napoli. «Quindici anni fa fu ucciso dalla barbarie criminosa, ma oggi è più vivo che mai. La sua testimonanza continua a scuotere le coscienze, a dare coraggio a chi vuole combattere la battaglia del buono e del bello ». Parole chiare, quelle del cardinale. «Fare memoria - dice rivolgendosi proprio ai familiari delle vittime - è innanzitutto un dovere di riconoscenza verso chi ha seminato col proprio sangue una testimonianza che non ci può essere rubata da nessuno. Loro hanno testimoniato e ci hanno passato una fiaccola perché continui a illuminare la nostra vita».
Parole di speranza. «Sembra che il male non abbia confini ma noi non ci arrendiamo perché Dio è con noi, perché Cristo ha vinto il male, perché noi agiamo con la forza dei nostri ideali, perché siamo pronti a offrire la nostra vita perché il bene prevalga». Invece, aggiunge con toni che evocano il grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento, «i mafiosi devono nascondersi, non ritrovano un momento di pace perché il male li avvinghia. La loro è una vita di peccato. Seminano sangue e vivono nel sangue».
Dunque non bisogna arrendersi, torna a ripetere Sepe, «noi saremo i vincitori». Lo ringrazia don Luigi Ciotti e anche lui invita alla speranza. «Napoli è una città forte e amara, coraggiosa e non saranno alcuni gruppi criminali a togliere quella speranza che questa terra invoca. Ma dobbiamo tutti fare di più, tutti insieme». Sepe riprende il microfono. «Napoli applaudi don Luigi. Noi ti accogliamo, ti abbracciamo e ti ringraziamo per tutto quello che fai e che farai».
Un parco giochi nelle terre dei boss
Sull’area confiscata al capo dei casalesi, sorgerà un campo di calcetto. L’intesa è tra il consorzio Agrorinasce e le parrocchie della zona. «Da cosa loro diverrà casa nostra»
DAL NOSTRO INVIATO A CASAL DI PRINCIPE
Gli operai colano il cemento dei muretti, installano staccionate, posano pietrisco. Stanno nascendo un parco giochi e un campo di calcetto. Proprio a fianco del santuario della Madonna di Briano, a servizio di questo luogo di culto, tra i più amati e frequantati della provincia di Caserta. Una bella iniziativa. Ma è ancora più bella perchè nasce su un terreno confiscato a Francesco Schiavone ’ Sandokan’, il capo del clan dei casalesi. Quattromila metri quadri strappati al boss ma anche al degrado in cui erano finiti, portati via alla camorra e poi abbandonati, quasi una discarica. Ora si cambia. Dal male al bene, dal silenzio imposto dal piombo dei killer camorristi al vociare allegro e gioioso dei bambini. Che su un bel cartello potranno presto leggere che questo luogo di gioco è stato portato via alle cosche ed è ora della gente per bene: da « cosa loro » a « casa nostra » . Lo leggeranno i piccoli, lo leggeranno i genitori che forse per anni hanno abbassato la testa davanti alla violenza camorrista, accettando condizionamenti e convenienze. Accade anche questo in questa terra che, a fatica, ha imboccato il cammino del cambiamento e della speranza. Accade proprio nella zona più martoriata dalla camorra, tra i comuni di Casal di Principe e Villa di Briano, regno e dominio dei casalesi. Accade nella terra di don Peppe Diana, il parroco di Casal di Principe ucciso dai casalesi il 19 marzo 1994. Questa bella iniziativa è il frutto della collaborazione tra Agrorinasce, il consorzio tra i comuni dell’Agro Aversano nato proprio per la gestione dei beni confiscati, e la Forania di Casal di Principe che unisce le parrocchie della zona e che quindici anni fa era guidata proprio da don Peppe.
Come ci spiega Giovanni Allucci, amministratore delegato di Agrorinasce, l’area verrà dedicata alla Madonna di Briano e ad una vittima innocente della camorra. Il costo dei lavori è di 190.000 euro, in parte coperti da un contributo di 60.500 euro della Regione Campania. L’opera sarà pronta entro aprile e verrà concessa in comodato d’uso gratuito al Santuario, con la possibilità che tutte le parrocchie di Casal di Principe possano utilizzarlo.
Non è la prima realizzazione a favore della Chiesa locale e, soprattutto, dei giovani. Sempre Agrorinasce, in collaborazione con l’amministrazione comunale, ha infatti realizzato un campetto sportivo polifunzionale nella chiesa di S. Nicola, a Casal di Principe, la parrocchia di don Peppe, grazie anche al finanziamento di 25.000 euro concesso dalla Regione Campania. I lavori sono stati realizzati nel 2008 e ora il campetto è frequentato da tanti ragazzi.
Iniziative importanti. Lo sport, in realtà di degrado e ad alta presenza mafiosa, è fondamentale per il recupero dei giovani. Strumento educativo. Lo faceva a Brancaccio don Pino Puglisi, lo faceva a Casal di Principe don Peppe Diana, tifosissimo del Napoli. Anche pensando a lui mercoledì sera sul campetto della parrocchia hanno giocato don Luigi Ciotti, i sindaci della zona che avevano appena firmato un documento comune contro la camorra, e tanti ragazzi di Casal di Principe. Ed anche questo è un segno importante.
Antonio Maria Mira
Centocinquantamila in marcia contro la mafia
E a sorpresa anche Saviano sul palco
Una folla enorme ha sfilato in via Caracciolo insieme a Libera e ai familiari di 500 vittime della criminalità organizzata. Sono arrivati da trenta Paesi del mondo e da tutte le regioni italiane. A sorpresa sul palco anche Roberto Saviano.
È cominciata con l’inno d’Italia ed è finita, a sorpresa, con Roberto Saviano. A Napoli si è tenuta la marcia per la quattordicesima giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafia. Secondo l’associazione Libera, promotrice di una tre giorni dedicata all’impegno antimafia, al corteo hanno partecipato 150 mila persone. La presenza dello scrittore è stata tenuta nascosta fino all’ultimo minuto. Poi è salito sul palco e ha letto alcuni nomi delle vittime della criminalità organizzata: quello di Anna Politkovskaja, di sei immigrati africani uccisi a Castelvolturno, delle vittime della faida di Scampia e di Annalisa Durante, uccisa a Forcella a soli 14 anni. Saviano ha chiuso la lettura destinando un pensiero "anche a tutte le vittima di mafia che non conosciamo ancora".
LE FOTO La marcia dei centomila nel lungomare
I familiari delle vittime aprono il corteo. La marcia è cominciata con i 480 familiari delle vittime della criminalità organizzata che hanno cantato l’inno di Mameli esponendo le fotografie dei loro cari scomparsi. Sono state proprio le famiglie delle vittime della mafia ad aprire il corteo che ha raggiunto piazza del Plebiscito. Migliaia di persone hanno affollato il lungomare napoletano. Quando la testa del corteo arriva a Piazza Plebiscito, la coda è ancora alla Rotonda Diaz: un serpentone di 2 chilometri e mezzo, composto, allegro, colorato ma silenzioso.
Tanti striscioni da tutta Italia e da 30 paesi del mondo. Al centro del lungo corteo uno striscione nero con scritta bianca "Tu potrai dirmi che sono un sognatore ma non sono l’unico" di un liceo di Marano e quello degli immigrati della provincia di Caserta "Contro la camorra e il razzismo". A Napoli sono arrivate persone da trenta paesi del mondo e da tutte le regioni italiane. Dal Piemonte sono arrivati in 1500, mille dalla Sicilia, a bordo di due navi, 300 dalla Toscana, 800 autobus di studenti delle scuole di tutto il Paese. Negli alberghi partenopei sono stati ospitati la notte scorsa 480 familiari delle vittime.
La lettura dei nomi delle vittime. La manifestazione si è conclusa sul palco di piazza Plebiscito dove i famigliari delle vittime e i rappresentanti delle istituzioni cittadine si sono alternate a leggere i nomi delle quasi 500 persone che hanno perso la vita a causa della criminalità. La lettura è stata conclusa da Roberto Saviano, salito a sorpresa sul palco.
Don Ciotti: "Meno parole e più fatti". "Migliaia e migliaia di persone sono qui oggi per un abbraccio alla città - dice don Luigi Ciotti, presidente nazionale dell’associazione Libera che ha promosso la tre giorni dedicata all’antimafia - è un segno di attenzione a chi si impegna tutti i giorni contro la criminalità organizzata. Oggi siamo qui per ripetere che occorrono meno parole e più fatti".
"Trasformiamo la rabbia in qualcosa di positivo". Un lungo applauso ha accompagnato anche il discorso di Alessandra Clemente, figlia di Silvia Ruotolo, giovane mamma uccisa dalla camorra mentre accompagnava i figli a scuola. "Aveva 39 anni - ha detto la ragazza tra la commozione dei presenti sul palco - è stata uccisa senza alcuna logica e spiegazione. Occorre trasformare la rabbia in qualcosa di positivo. Quello che abbiamo vissuto non deve capitare più a nessuno. Impegnarsi per la memoria non è né stupido né inutile. Voglio ringraziare tutti e finalmente lo posso dire grazie a Napoli".
* la Repubblica-NAPOLI, 21 marzo 2009 - per vedere foto e video, clicca sul rosso.
VANGELO E SOCIETÀ
«Il Sud può ripartire»
I vescovi del Mezzogiorno: la speranza è viva
Sepe: la tappa di un percorso comune a tutta la Chiesa italiana
«Stimoli forti che dobbiamo trasferire alle comunità locali»
I laici si devono riappropriare di uno spazio che gli appartiene. Cacucci: superare l’incapacità di collegare fede e impegno nella storia
DAL NOSTRO INVIATO A NAPOLI
SALVATORE MAZZA *
Un «segno profetico», che ha parlato «della profonda comunione tra le Chiese del Sud», e dire «a tutti con chiarezza che la speranza non è morta, ma vuole solo essere rinverdita, vuole risorgere». E, insieme, tappa di un percorso «non fine a se stesso, ma che vuole essere parte di un cammino di tutta la Chiesa italiana», con la speranza, nel medesimo tempo, «di creare tra noi qualcosa che continui».
È con queste parole che il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, ha chiuso le due giornate di lavori del convegno ’La Chiesa nel Sud, le Chiese nel Sud’, conclusosi con la consegna ai quasi quattrocento partecipanti, tra i quali circa settanta vescovi, del Messaggio che pubblichiamo integralmente in questa pagina. «Quello che ci auguriamo è che il nostro lavoro possa essere utile per arrivare ad avere un documento nazionale, a vent’anni da quello del 1989. Per parte nostra - ha ribadito - troveremo sicuramente modalità e forme per continuare la collaborazione tra le Chiese del Sud, com’è avvenuto prima, in fase di preparazione, e durante questo convegno ». Per il porporato, che con i presidenti delle altre cinque regioni ecclesiastiche del Mezzogiorno ha tenuto una breve conferenza stampa al termine dei lavori, dall’incontro di Napoli sono scaturiti «stimoli forti» che, adesso, «dovremo riportare nelle nostre Chiese locali». «Se pensiamo al Convegno come a una realtà aperta - ha aggiunto - e che arriverà a coinvolgere tutti i vescovi italiani, capiamo che si è aperta una stagione nuova per continuare a lavorare e ad affrontare le sfide che ci attendono».
Proprio a proposito delle ’occasioni’ per iniziare a trasferire quanto emerso in questi giorni nella realtà ecclesiale, l’arcivescovo di Bari monsignor Francesco Cacucci ha annunciato che «stiamo preparando un convegno regionale sul laicato », con l’obiettivo concreto di cercare le strade «per superare l’incapacità di collegare fede e impegno nella storia», anche con la consapevolezza che «oggi le Chiese del Sud registrano una vivacità superiore al passato, ma bisogna fare un passo ulteriore». Vivacità, ha chiosato ancora Sepe, che il convegno ha ampiamente dimostrato soprattutto «per come ha sottolineato l’urgenza dell’impegno dei laici, i quali, i giovani specialmente, devono riappropriarsi di uno spazio che è loro».
Quanto alla domanda sul perché, nel messaggio finale, manchi un esplicito appello alla politica, di nuovo Cacucci ha posto in evidenza il fatto che «ci siamo rivolti a tutti i nostri fratelli e sorelle, e anche i politici sono nostri fratelli e sorelle ». Del resto, ha rilevato l’arcivescovo di Potenza monsignor Agostino Superbo, «quei politici che si rivolgono alla Chiesa esclusivamente per elemosinare voti dovrebbero solo vergognarsi».
Pubblichiamo il messaggio finale del Convegno «Chiesa nel Sud, Chiese del Sud» elaborato al termine dei lavori. *
« Ma Pietro gli disse: ’Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!’» (At 3,6).
Fratelli, uomini e donne del Sud, Non nascondiamo le difficoltà del tempo presente nella congiuntura delicata che attraversiamo, e sappiamo che tali difficoltà si aggiungono alle storiche ferite del Meridione. Quotidianamente le tocchiamo con mano nell’ascolto e nella consuetudine, che abbiamo con voi. Le nostre comunità ecclesiali sono infatti pienamente attraversate dalle sto- rie dei singoli e dalle vicende dei nostri popoli visitati dalle crisi economiche, affettive e sociali, che arrivano a mettere in ginocchio la fiducia dei genitori, dei giovani e dei lavoratori. Ogni giorno in tanti bussate alle nostre porte per ritrovare la parola persa del conforto e del significato dei nostri giorni.
Come Pietro ci sentiamo poveri e soffriamo della vostra sofferenza. La vostra mancanza provoca il cuore di noi Pastori, incapaci di moltiplicare il pane delle mense; abbiamo tuttavia il coraggio della nostra fede che grida: ’Nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!’ Solo nel Maestro ritroviamo la parola significativa che rende possibile di portare oltre lo sguardo; con Lui riusciremo a rendere feconde le storiche ricchezze che il Signore Dio ci ha donato: patrimonio di bellezza, di solidarietà e di accoglienza. Forse non sempre siamo riusciti ad essere buoni custodi con voi di questi doni, ma insieme vorremmo ritrovare le nostre radici, il nostro patrimonio umano e spirituale, per offrirlo non solo alle nostre genti ma all’intero Paese, all’Europa e ai Sud del mondo che come noi cercano un sole di speranza. Siamo confortati dalla piena sintonia che avvertiamo con l’intera Chiesa italiana.
Vorremmo che la speranza del Sud fosse la speranza del Paese.
Per ritrovare pienamente noi stessi bisogna però correggere alcune distorsioni, insinuatesi nei nostri stili di vita: la fede deve essere nettamente coerente con la vita. Come permettere che ci sia ancora distanza tra culto e storia, tra scelta credente e vita concreta, nel lavoro e nelle professioni, nella famiglia, nell’economia e nella politica? I laici che ancora numerosi vivono le comunità e le associazioni dovranno maggiormente dare ragione della speranza che è in loro nei luoghi che quotidianamente vivono, uscire cioè dalle mura del tempio per incarnare nella società il Vangelo di Cristo.
Quello che noi abbiamo, vi passiamo. Ma cosa abbiamo?
Parrocchie vivaci, associazioni, movimenti e volontariato generoso e attivo, una parola che ancora unisce gran parte della popolazione in una società che tende alla disgregazione. Questo è il nostro patrimonio; questo offriamo per ritrovare le nostre radici di comunione e di fraternità. Desidereremmo quasi un nuovo patto per ritrovare insieme la passione civile, fondata per parte nostra sulla fiducia nell’uomo che il Vangelo esprime, quasi un tessuto connettivo nel quale tutti possano esprimere liberamente se stessi.
La voce di Cristo ci suggerisce di condividere anche il poco che abbiamo: per questo offriamo gli spazi, le intelligenze, l’esperienza, l’impegno educativo, e oseremo dire la nostra stessa vita per costruire insieme un mondo migliore per i nostri figli. La generosità che come meridionali ci caratterizza, vorremmo passasse dall’emozionale ad una costante strutturale.
Anche noi Vescovi, uomini del Sud come voi, sentiamo forte l’invito di Pietro: Alzati e cammina! Con voi siamo pronti a camminare insieme.
* Avvenire, 14.02.2009
Chiedete scusa a Beppino Englaro
di Roberto Saviano *
DA ITALIANO sento solo la necessità di sperare che il mio paese chieda scusa a Beppino Englaro. Scusa perché si è dimostrato, agli occhi del mondo, un paese crudele, incapace di capire la sofferenza di un uomo e di una donna malata. Scusa perché si è messo a urlare, e accusare, facendo il tifo per una parte e per l’altra, senza che vi fossero parti da difendere.
Qui non si tratta di essere per la vita o per la morte. Non è così. Beppino Englaro non certo tifava per la morte di Eluana, persino il suo sguardo porta i tratti del dolore di un padre che ha perso ogni speranza di felicità - e persino di bellezza - attraverso la sofferenza di sua figlia. Beppino andava e va assolutamente rispettato come uomo e come cittadino anche e soprattutto se non si condividono le sue idee. Perché si è rivolto alle istituzioni e combattendo all’interno delle istituzioni e con le istituzioni, ha solo chiesto che la sentenza della Suprema Corte venisse rispettata.
Senza dubbio chi non condivide la posizione di Beppino (e quella che Eluana innegabilmente aveva espresso in vita) aveva il diritto e, imposto dalla propria coscienza, il dovere di manifestare la contrarietà a interrompere un’alimentazione e un’idratazione che per anni sono avvenute attraverso un sondino. Ma la battaglia doveva essere fatta sulla coscienza e non cercando in ogni modo di interferire con una decisione sulla quale la magistratura si stava interrogando da tempo.
Beppino ha chiesto alla legge e la legge, dopo anni di appelli e ricorsi, gli ha confermato che ciò che chiedeva era un suo diritto. È bastato questo per innescare rabbia e odio nei suoi confronti? Ma la carità cristiana è quella che lo fa chiamare assassino? Dalla storia cristiana ho imparato ha riconoscere il dolore altrui prima d’ogni cosa. E a capirlo e sentirlo nella propria carne. E invece qualcuno che nulla sa del dolore per una figlia immobile in un letto, paragona Beppino al "Conte Ugolino" che per fame divora i propri figli? E osano dire queste porcherie in nome di un credo religioso. Ma non è così. Io conosco una chiesa che è l’unica a operare nei territori più difficili, vicina alle situazioni più disperate, unica che dà dignità di vita ai migranti, a chi è ignorato dalle istituzioni, a chi non riesce a galleggiare in questa crisi. Unica nel dare cibo e nell’essere presente verso chi da nessuno troverebbe ascolto. I padri comboniani e la comunità di sant’Egidio, il cardinale Crescenzio Sepe e il cardinale Carlo Maria Martini, sono ordini, associazioni, personalità cristiane fondamentali per la sopravvivenza della dignità del nostro Paese.
Conosco questa storia cristiana. Non quella dell’accusa a un padre inerme che dalla sua ha solo l’arma del diritto. Beppino per rispetto a sua figlia ha diffuso foto di Eluana sorridente e bellissima, proprio per ricordarla in vita, ma poteva mostrare il viso deformato - smunto? Gonfio? - le orecchie divenute callose e la bava che cola, un corpo senza espressione e senza capelli. Ma non voleva vincere con la forza del ricatto dell’immagine, gli bastava la forza di quel diritto che permette all’essere umano, in quanto tale, di poter decidere del proprio destino. A chi pretende di crearsi credito con la chiesa ostentando vicinanza a Eluana chiedo, dov’era quando la chiesa tuonava contro la guerra in Iraq? E dov’è quando la chiesa chiede umanità e rispetto per i migranti stipati tra Lampedusa e gli abissi del Mediterraneo. Dove, quando la chiesa in certi territori, unica voce di resistenza, pretende un intervento decisivo per il Sud e contro le mafie.
Sarebbe bello poter chiedere ai cristiani di tutta Italia di non credere a chi soltanto si sente di speculare su dibattiti dove non si deve dimostrare nulla nei fatti, ma solo parteggiare. Quello che in questi giorni è mancato, come sempre, è stata la capacità di percepire il dolore. Il dolore di un padre. Il dolore di una famiglia. Il "dolore" di una donna immobile da anni e in una condizione irreversibile, che aveva lasciato a suo padre una volontà. E persone che neanche la conoscevano e che non conoscono Beppino, ora, quella volontà mettono in dubbio. E poco o nullo rispetto del diritto. Anche quando questo diritto non lo si considera condiviso dalla propria morale, e proprio perché è un diritto lo si può esercitare o meno. È questa la meraviglia della democrazia. Capisco la volontà di spingere le persone o di cercare di convincerle a non usufruire di quel diritto, ma non a negare il diritto stesso. Lo spettacolo che di sé ha dato l’Italia nel mondo è quello di un paese che ha speculato sull’ennesima vicenda.
Molti politici hanno, ancora una volta, usato il caso Englaro per cercare di aggregare consenso e distrarre l’opinione pubblica, in un paese che è messo in ginocchio dalla crisi, e dove la crisi sta permettendo ai capitali criminali di divorare le banche, dove gli stipendi sono bloccati e non sembra esserci soluzione. Ma questa è un’altra storia. E proprio in un momento di crisi, di frasi scontate, di poco rispetto, Beppino Englaro ha dato forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Sarebbe bello se l’epilogo di questa storia dolorosa potesse essere che in Italia, domani, grazie alla battaglia pacifica di Beppino Englaro, ciascuno potesse decidere se, in caso di stato neurovegetativo, farsi tenere in vita per decenni dalle macchine o scegliere la propria fine senza emigrare. È questa l’Italia del diritto e dell’empatia - di cui si è già parlato - che permette di rispettare e comprendere anche scelte diverse dalle proprie, un’Italia in cui sarebbe bellissimo riconoscersi.
© 2009 by Roberto Saviano Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
* la Repubblica, 12 febbraio 2009
Sul tema, si cfr.:
LIBRI
I sacrilegi delle mafie
Padrini e picciotti ostentano la loro devozione, che in realtà più che fede è superstizione. E quando i preti oppongono alla cultura omertosa la vera religione, sparano: da don Peppino Diana a don Puglisi
Il saggio di Alessandra Dino evidenzia il processo di maturazione della Chiesa nei confronti della mentalità mafiosa, verso un sempre maggior impegno nell’educazione dei giovani
DI GOFFREDO FOFI (Avvenire, 15.11.2008)
La mafia devota di Alessandra Dino, antropologa palermitana, è uno dei testi più significativi usciti sulla questione mafiosa ( intendendo con mafia anche le associazioni criminali di altre regioni come camorra, ’ ndrangheta, Sacra corona unita). Affrontando l’argomento da un punto di vista trascurato, procedendo a molte interviste con magistrati, preti, pentiti, vedendo della questione gli aspetti più specificamente religiosi ma anche collocandoli sullo sfondo di una più generale questione civile, la Dino aiuta a comprendere un ambiente, una cultura, distinguendo nettamente tra gli aspetti esteriori - quelli, diciamo, di una ritualità di facciata, che serve al mafioso per affermare il suo potere all’interno di una comunità, o quelli di una devozione deviata - e quelli più intimi del dilemma morale che può investire, come è ben noto o come si vorrebbe che fosse, anche il criminale più incallito.
Hanno sconcertato molti, le professioni e le espressioni di fede di alcuni noti mafiosi ( per esempio Provenzano), e la “ lettura” dei comportamenti religiosi di altri - o di un pentitismo sulle cui motivazioni alcuni sacerdoti hanno espresso dei dubbi, perché spesso causato soltanto dall’interesse alla riduzione della pena e dunque moralmente inautentico. Tra i preti che la Dino ha accostato ci sono quelli che sembrano partecipare ( ma più ieri che oggi) di una cultura ambientale coinvolgente, quelli che molto più seriamente distinguono tra il ruolo della Chiesa e il ruolo dello Stato e rivendicano la netta differenza dello sguardo, della posizione, dei doveri nei confronti di chi pecca ( e delinque), e quelli infine che insistono sulla “questione morale” vedendone gli aspetti più latamente etici, civili, sociali. Se di cultura-ambiente si tratta, è su questa che essi pensano di dover intervenire, e lo hanno fatto a volte (don Peppino Diana a Casal di Principe, don Puglisi a Palermo) lasciandoci la vita.
Oggi che molti libri ( non ultimo Gomorra) hanno messo in rilievo la profondità dei legami e degli interessi mafiosi in settori molto importanti dell’economia e della finanza e ben oltre i territori tradizionali, in tutto il Paese e altrove, in Europa come in America; oggi che le classi dirigenti di molti Paesi ( la stessa grande Russia) trattano con le mafie e se le fanno alleate, ovviamente a caro prezzo; oggi che il disordine morale della post- modernità abbassa enormemente il livello di difesa della morale dei singoli, occorrerebbe affrontare anche la questione mafiosa da presupposti assai vasti, che mettano in discussione l’intero assetto di società la cui prosperità deriva in parte dal crimine. Se è vero che, secondo le stime, il Pil italiano è prodotto per il dieci-dodici per cento dall’economia criminale ( e non vengono considerati in questi calcoli, per esempio, la produzione e lo smercio di armi) ne deriva che le risposte alle attività mafiose dovrebbero essere ben più radicali che quelle esclusivamente giudiziarie. E, di fatto, come si sconfiggono le mafie? Non credo, personalmente, che i “professionisti dell’antimafia” riescano sempre a incidere in profondità nel concreto delle culture mafiose, né che la denuncia sia di per sé sufficiente ( in un Paese come il nostro dove la denuncia sembra spesso un’arte e un mestiere, una retorica e un alibi: milioni di denunce giornalistiche, cinematografiche, letterarie, ma anche di buona propaganda sul territorio, hanno cambiato relativamente poco, anche se hanno costretto le mafie a inventare nuovi modi di agire).
La risposta viene da molte delle interviste e delle considerazioni che ne ricava la Dino, e sintetizzando si può dire che sono tre i modi necessari: l’intervento nell’economia, che è il fondamentale perché se non cambia l’economia non scema il potere che le organizzazioni mafiose possono avere su un ambiente sociale, l’attrazione che possono esercitare sui più deboli - per esempio i giovani, i precari, i disoccupati; quello giudiziario, del rispetto delle leggi, il cui vero limite consiste nella constatazione che le leggi non tutti le rispettano, nelle nostre classi dirigenti; e infine l’educazione, l’intervento assiduo e radicato in un territorio soprattutto nei confronti dei più giovani, per allargare la loro visione e dar loro solide fondamenta etiche. È in questo settore, dice la Dino, che la Chiesa può intervenire con efficacia, oltre che sul terreno che le è proprio della cura delle anime.
Un simbolo sfruttato dalla Chiesa dopo il Concilio di Efeso e nell’offensiva anti Lutero
La Vergine col bambino un’icona contro le eresie
Ma l’immagine fu ereditata dalla dea egizia Iside
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 20.11.2008)
Ancor prima dell’epoca cristiana, l’immagine della «Madre col Bambino» veniva già usata da molte culture con un significato religioso: nell’area mediterranea, per esempio, rappresentava la dea Iside con in grembo il figlio Horus e fu proprio questa iconografia egizia a passare in quella cristiana occidentale attraverso la mediazione dell’Oriente bizantino.
In particolare, dopo il 431, le gerarchie ecclesiastiche cristiane promossero l’immagine della Madonna col Bambino per dare forza alla condanna, votata dal Concilio di Efeso, dell’eresia nestoriana secondo la quale la Vergine non poteva essere chiamata «madre di Dio», ma solo madre di Gesù poiché non aveva generato un Dio, bensì solo il corpo in cui Dio aveva poi preso dimora.
Da quel momento fino al Medioevo nelle chiese cristiane si assiste a una proliferazione delle immagini della Madonna col Bambino (spesso accompagnate dall’iscrizione «Maria Mater Dei» e «Sancta Dei Genitrix») raggruppabili in diverse varianti: la Madonna del latte (dove la Vergine allatta il figlio) è una delle prime iconografie conosciute, fin dalla catacomba di Priscilla del III secolo; la Madonna orante col Bambino (genuflessa e con le mani giunte mentre adora il figlio poggiato su un lembo del proprio manto); la Madonna leggente col Bambino (con in mano il libro della Sapienza); la Madonna del roseto (seduta in un giardino di rose simbolo della verginità della madre di Dio) particolarmente amata nel Nord Europa; la Madonna col bambino in trono (dove Maria personifica la Chiesa), di derivazione bizantina e i cui più antichi esempi in Occidente si trovano nei mosaici di Ravenna.
L’immagine registra poi un secondo grande momento di successo che coincide ancora una volta con un’eresia: quella protestante. A cavallo fra XV e XVI secolo, l’impiego della Madonna col Bambino viene nuovamente incentivato da parte della Chiesa cattolica per fini propagandistici e, dopo la condanna di Lutero, per confutare la dottrina protestante che ridimensionava il culto della Vergine assieme a quello dei santi. In quest’epoca furono soprattutto due i pittori che portarono il soggetto alla gloria: Raffaello e Giovanni Bellini. Il primo perché, noto ammiratore e amante di donne, seppe dare alle sue Madonne grazia e bellezza idealizzate, di una perfezione che incantava e trascendeva qualsiasi modello umano; il secondo perché, sincero credente, nei volti delle sue Vergini dall’aria dolce e domestica ritraeva quello della moglie amata di un amore casto e cristiano.
Nel Rinascimento il culto mariano si era ormai molto diffuso e via via che la devozione popolare si era fatta più appassionata, anche l’iconografia della Madonna col Bambino aveva perso la primitiva ieratica monumentalità per acquisire un tono più tenero. La rigidezza, eredità orientale nella rappresentazione della Madre in posizione frontale con il bambino eretto, vestito e benedicente, aveva lasciato già nel XIV secolo il posto a due nuove varianti dove madre e figlio venivano messi in un rapporto di affettuosità attraverso un gioco di sguardi o di mani: la Madonna dell’Umiltà (in particolare nel-l’Italia settentrionale) e la Mater amabilis, il tipo di rappresentazione più amata fra tutta l’iconografia mariana. È soprattutto per quest’ultima immagine intima e domestica che si sviluppano leggere varianti attraverso l’inserimento di oggetti simbolici. Fra i più frequentati figurano la mela, frutto dell’albero del Bene e del Male: tenuta in mano dal Bambino allude alla redenzione dal peccato originale.
L’uva è simbolo del vino eucaristico e quindi del sangue del Cristo redentore (anche nella variante della brocca che contiene il vino). Analogamente, le spighe sono il pane eucaristico e dunque il corpo di Cristo. La ciliegia, frutto del Paradiso, è simbolo del Cielo; la melagrana, che già nel mondo pagano era attributo di Proserpina, dea che presiedeva alla germinazione, allude alla Resurrezione. La noce, invece, era un complesso simbolismo sviluppato da sant’Agostino, dove il mallo stava per la carne di Cristo, il guscio di legno alludeva alla croce e il gheriglio alla natura divina del Cristo.
E infine l’uccello che, nella pittura cristiana, mantiene il simbolismo che già aveva in quella pagana, ovvero rappresenta l’anima umana che vola via alla morte del corpo. Spesso è un cardellino perché il suo piumaggio colorato lo rendeva particolarmente attraente agli occhi dei bambini e anche perché, secondo una leggenda, la macchia rossa sul capo sarebbe stata un residuo del sangue di Cristo con cui il cardellino si macchiò volando sopra la testa incoronata di spine di Gesù mentre questi saliva al Calvario.
Sepe: traduciamo la Scrittura in opere di carità concreta *
Pubblichiamo una sintesi dell’intervento tenuto dal cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli alla Settima Congregazione generale.
Incarnare la Parola di Dio nel tempo e nella storia che ci troviamo a vivere, poiché solo in questo modo la si rende efficace e creatrice di conversione e di carità.
Osservare la Parola significa innanzitutto, come ci ha insegnato la predicazione di Gesù, testimoniarla con la propria vita e tradurla in opere di carità. Anche i tanti approfondimenti esegetici, le molteplici iniziative catechetiche e tutti gli sforzi rivolti a una maggiore conoscenza rischiano di non portare frutto se la Parola non viene vissuta con coerenza nella vita quotidiana.
Per superare il dramma della separazione tra fede e vita e per fare in modo che dalla Parola scaturiscano gesti e opere di carità, occorre andare alle sorgenti, ossia alla carità: solo essa, se vissuta e praticata, può cementare il tessuto ecclesiale e aprire la strada alla concretezza dell’amore. I tanti malati nel corpo e nello spirito, i poveri che affollano le strade delle nostre città, i luoghi di sofferenza, come gli ospedali, le carceri rappresentano altrettante prove concrete della fedeltà alla Parola e della nostra capacità di conformare la nostra esistenza su quella del «Vangelo vivente», più eloquente di tante parole perché è diventato «carne e sangue».
«L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni», ha scritto Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi (n. 41).
Questa verità elementare, ma di frequente ignorata, deve essere ribadita affinché i vescovi, ma anche i sacerdoti, i diaconi e i catechisti avvertano sempre più l’urgenza di confrontarsi seriamente con la Parola di cui sono servitori.
Immagine perfetta dell’Incarnazione è la Vergine Maria, la donna del «sì» che ha concepito il Verbo nel suo cuore, prima ancora che nel suo seno. Il Mistero dell’Incarnazione della Parola di Dio deve continuare a realizzarsi nell’oggi della Chiesa attraverso il «sì» dei suoi figli che incarnano, nella vita, la Parola salvatrice di Dio.
* Avvenire, 11.10.2008, p. 18
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO DEI VESCOVI 2008: L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO - AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
Maroni: "Guerra civile della camorra
lo Stato deve rispondere con ogni mezzo"
ROMA - Siamo di fronte a una "guerra civile che la camorra ha dichiarato allo Stato e questo deve rispondere con tutti i mezzi". Lo ha detto il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, nel corso della sua audizione a Palazzo Madama.
L’eccidio di Castelvolturno, ha aggiunto il titolare del Viminale, "è stato un atto di autentico terrorismo con cui la camorra ha voluto ribadire il controllo del territorio, lanciando un segnale allo Stato" e "per diffondere terrore" tra la popolazione con la morte in due agguati camorristici di sette persone lo scorso 18 settembre.
Per questo motivo, ha continuato Maroni, "il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato un decreto legge con nuove misure urgenti per il contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina con il quale si dispone tra l’altro l’invio di 500 militari nelle aree dove di ritiene necessario assicurare un più efficace controllo dei territori particolarmente colpiti da fenomeni di emergenza criminale".
Maroni ha anche lanciato un appello al parlamento per "studiare, assieme al governo, le iniziative necessarie per la riduzione dei benefici carcerari a tutti coloro che sono accusati di reati di mafia". Nel solo comune di Castelvolturno, ha sottolineato Maroni, sono ben 118 le persone agli arresti domiciliari e ciò rende difficili i controlli.
"Sulla vicenda di Alfonso Cesarano, l’uomo agli arresti domiciliari ritenuto uno degli autori della strage dello scorso 18 settembre - ha spiegato Maroni - ci sono state accuse ingenerose alle forze di polizia adombrando una mancanza di controllo nei confronti di questo spietato killer. Io dò il pieno apprezzamento alle forze del’ordine. E’ - ha aggiunto - difficile operare in quell’area. A Castelvolturno ci sono due stazioni di carabinieri che vigilano anche su coloro che sono ai domiciliari, con 17 ispezioni al giorno. Ma nel solo Castelvolturno sono 118 le persone ai domiciliari; è quindi evidente che la concessione di questi benefici ad un numero spropositato di persone rende difficile il controllo".
* la Repubblica, 24 settembre 2008.
Si aggrava il bilancio dell’agguato a Castelvolturno: muore uno dei ricoverati
Per gli inquirenti un’azione punitiva contro gli immigrati che non pagavano le tangenti ai Casalesi
Strage nel Casertano, un altro morto
Il prefetto: "Potrebbe arrivare l’esercito"
Gli amici delle vittime innalzano barricate e sfilano in corteo: "Siete razzisti"
CASERTA - Volevano spacciare nella terra dei Casalesi senza pagare la tangente al clan. Per gli investigatori non ci sono altre spiegazioni alla strage di extracomunitari ieri sera nel Casertano. Una feroce "punizione" contro chi non voleva rispettare le regole imposte dalle cosche.
Il bilancio di morte si è aggravato. Sette le vittime in due agguati. Sei i morti nella mattanza di Castelvolturno, sulla Domiziana: tre ghanesi, un liberiano e un immigrato del Togo morti sul posto; un altro liberiano morto stamane in ospedale. Resta in gravi condizioni un altro straniero. E poi c’è il titolare della sala giochi di Baia Verde, massacrato con venti colpi di mitraglietta 20 minuti prima dell’esecuzione degli immigrati. "Due episodi collegati", ripetono le forze dell’ordine.
Rafforzata la sicurezza. Per affrontare l’emergenza si è riunito il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza a Caserta. "Il quadro è allarmante. E’ stata esaminata la possibilità di irrobustire presidio del territorio in parallelo all’attività investigativa già in corso - ha spiegato il direttore centrale del servizio anticrimine della Polizia di Stato Francesco Gratteri -. Sono previsti carabinieri, finanzieri e poliziotti. In seguito, ci saranno riunioni tecniche per definire nel dettaglio il dispositivo di intervento".
Non esclude l’intervento dell’esercito il prefetto di Caserta Ezio Monaco, dopo aver contattato telefonicamente il capo della Polizia Manganelli. "Stiamo riflettendo anche sulla possibilità di usare l’esercito. Quello che è successo è il massimo, ma ci sono stati episodi simili che si sono verificati prima di questo commessi in tranquillità. Siamo di fronte a una emergenza criminale".
Perquisizioni e interrogatori. All’alba, agenti del commissariato di Castelvolturno e della Squadra Mobile di Caserta hanno perquisito le case di parecchi spacciatori d’origine africana e interrogato alcuni pregiudicati affiliati al clan dei Casalesi, "padroni" nella zona dove spacciavano gli extracomunitari uccisi la scorsa notte. Nessun fermo finora, ma le indagini puntano dritto verso il clan egemone nel Casertano.
Indagini su tre latitanti. Le autorità concentrano gli sforzi investigativi su tre latitanti dei Casalesi, Alessandro Cirillo, detto ’o sergente’ , Giuseppe Setola e Giuseppe Letizia detto ’o zuoppo’. I tre, insieme con i boss Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono considerati tra i latitanti più pericolosi d’Italia. Da mesi stanno portando avanti, tra Villa Literno, Casal di Principe ed il litorale domiziano, una vera strategia del terrore.
Sette i killer. La notte scorsa i killer erano almeno 6 o 7. Hanno sparato più di cento colpi: una pioggia di piombo contro il nuovo clan degli immigrati. I sicari indossavano i giubbetti dei carabinieri. Sono piombati dentro la sartoria retta dagli extracomunitari intorno alle nove e mezza di sera e hanno sparato con kalashnikov e pistole calibro 9. Non hanno lasciato scampo neppure a un giovane di colore che era a bordo di un’auto ferma lì vicino: i carabinieri lo hanno trovato ancora seduto al volante, la cintura di sicurezza ancora allacciata.
Barricate in piazza: "Siete razzisti". "Noi con la camorra non c’entriamo niente, lavoriamo dalla mattina alla sera", si disperano gli amici delle vittime. Davanti al negozio Ob Ob exotic Fashions, teatro dell’agguato, c’è anche lo zio di una delle vittime. Steven, ghanese, fa il giardiniere: "Mio nipote Giulios non ha mai fatto nulla di male", dice mostrando le mani indurite dalla fatica per dimostrare che "noi non siamo camorristi". "Siete razzisti", gridavano stamane gli amici nordafricani delle vittime. Davanti al negozio della strage, hanno bloccato la Domiziana costruendo una barricata con cassonetti della spazzatura, materassi e vecchi mobili ed hanno dato vita ad un corteo spontaneo. Nella protesta sono state ribaltate due auto e distrutte le vetrine di un negozio "Ci vogliono cacciare, ce l’hanno con noi. E’ razzismo; noi non siamo camorristi".
Le parole del Cardinale. Durante le celebrazioni di San Gennaro, il Cardinale Crescenzio Sepe, Arcivescovo di Napoli, ha lanciato un duro monito alla camorra e ai sicari, definendoli "serpenti velenosi". "Deponete le armi, queste armi con cui uccidete domani uccideranno anche voi, le vostre famiglie e i vostri figli. Questa terra, questa città, non può morire e non morirà. Lo ripeto con forza e con convinzione perchè il popolo napoletano ha con sè il coraggio delle sue radici e della sua identità".
Agguato nella sala giochi. Poco prima della mattanza a Castelvolturno, i sicari erano passati dalla sala giochi in via Giorgio Vasari a Baia Verde. Avevano il volto coperto, erano armati di pistole dello stesso calibro di quelle usate contro i sette immigrati. Hanno esploso 20 colpi contro il titolare del locale, Antonio Celiento, 53 anni, ritenuto affiliato al clan degli Schiavone. Era solo; l’hanno centrato all’addome e alla testa. E’ morto poco dopo in ospedale senza più riprendere coscienza.
Così ho avvelenato Napoli
Le confessioni di Gaetano Vassallo, il boss che per 20 anni ha nascosto rifiuti tossici in Campania pagando politici e funzionari
di Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi *
Temo per la mia vita e per questo ho deciso di collaborare con la giustizia e dire tutto quello che mi riguarda, anche reati da me commessi. In particolare, intendo riferire sullo smaltimento illegale dei rifiuti speciali, tossici e nocivi, a partire dal 1987-88 fino all’anno 2005. Smaltimenti realizzati in cave, in terreni vergini, in discariche non autorizzate e in siti che posso materialmente indicare, avendo anche io contribuito... Comincia così il più sconvolgente racconto della devastazione di una regione: venti anni di veleni nascosti ovunque, che hanno contaminato il suolo, l’acqua e l’aria della Campania. Venti anni di denaro facile che hanno consolidato il potere dei casalesi, diventati praticamente i monopolisti di questo business sporco e redditizio. La testimonianza choc di una follia collettiva, che dalla fine degli anni Ottanta ha spinto sindaci, boss e contadini a seminare scorie tossiche nelle campagne tra Napoli e Caserta. Con il Commissariato di governo che in nome dell’emergenza ha poi legalizzato questo inferno.
Gaetano Vassallo è stato l’inventore del traffico: l’imprenditore che ha aperto la rotta dei rifiuti tossici alle aziende del Nord. E ha amministrato il grande affare per conto della famiglia Bidognetti, seguendone ascesa e declino nell’impero di Gomorra.
I primi clienti li ha raccolti in Toscana, in quelle aziende fiorentine dove la massoneria di Licio Gelli continua ad avere un peso. I controlli non sono mai stati un problema: dichiara di avere avuto a libro paga i responsabili. Anche con la politica ha curato rapporti e investimenti, prendendo la tessera di Forza Italia e puntando sul partito di Berlusconi.
La rete di protezione
Quando Vassallo si presenta ai magistrati dell’Antimafia di Napoli è il primo aprile. Mancano due settimane alle elezioni, tante cose dovevano ancora accadere. Due mesi esatti dopo, Michele Orsi, uno dei protagonisti delle sue rivelazioni è stato assassinato da un commando di killer casalesi. E 42 giorni dopo Nicola Cosentino, il più importante parlamentare da lui chiamato in causa, è diventato sottosegretario del governo Berlusconi.
Vassallo non si è preoccupato. Ha continuato a riempire decine di verbali di accuse, che vengono vagliati da un pool di pm della direzione distrettuale antimafia napoletana e da squadre specializzate delle forze dell’ordine: poliziotti, finanzieri, carabinieri e Dia. Finora i riscontri alle sue testimonianze sono stati numerosi: per gli inquirenti è altamente attendibile.
Anche perché ha conservato pacchi di documenti per dare forza alle sue parole. Che aprono un abisso sulla devastazione dei suoli campani e poi, attraverso i roghi e la commercializzazione dei prodotti agro-alimentari, sulla minaccia alla salute di tutti i cittadini. Come è stato possibile?
"Nel corso degli anni, quanto meno fino al 2002, ho proseguito nella sfruttamento della ex discarica di Giugliano, insieme ai miei fratelli, corrompendo l’architetto Bovier del Commissariato di governo e l’ingegner Avallone dell’Arpac (l’agenzia regionale dell’ambiente). Il primo è stato remunerato continuativamente perché consentiva, falsificando i certificati o i verbali di accertamento, di far apparire conforme al materiale di bonifica i rifiuti che venivano smaltiti illecitamente. Ha ricevuto in tutto somme prossime ai 70 milioni di lire. L’ingegner Avallone era praticamente ’stipendiato’ con tre milioni di lire al mese, essendo lo stesso incaricato anche di predisporre il progetto di bonifica della nostra discarica, progetto che ci consentiva la copertura formale per poter smaltire illecitamente i rifiuti".
Il gran pentito dei veleni parla anche di uomini delle forze dell’ordine ’a disposizione’ e di decine di sindaci prezzolati. Ci sono persino funzionari della provincia di Caserta che firmano licenze per siti che sono fuori dai loro territori. Una lista sterminata di tangenti, versate attraverso i canali più diversi: si parte dalle fidejussioni affidate negli anni Ottanta alla moglie di Rosario Gava, fratello del patriarca dc, fino alla partecipazione occulta dell’ultima leva politica alle società dell’immondizia.
L’età dell’oro
Vassallo sa tutto. Perché per venti anni è stato il ministro dei rifiuti di Francesco Bidognetti, l’uomo che assieme a Francesco ’Sandokan’ Schiavone domina il clan dei casalesi. All’inizio i veleni finivano in una discarica autorizzata, quella di Giugliano, legalmente gestita. Le scorie arrivavano soprattutto dalle concerie della Toscana, sui camion della ditta di Elio e Generoso Roma. C’era poi un giro campano con tutti i rifiuti speciali provenienti dalla rottamazione di veicoli: fiumi di olii nocivi.
I protagonisti sono colletti bianchi, che fanno da prestanome per i padrini latitanti, li nascondono nelle loro ville e trasmettono gli ordini dal carcere dei boss detenuti. In pratica, accusa tutte le aziende campane che hanno operato nel settore, citando minuziosamente coperture e referenti. C’è l’avvocato Cipriano Chianese. C’è Gaetano Cerci "che peraltro è in contatto con Licio Gelli e con il suo vice così come mi ha riferito dieci giorni fa".
Il racconto è agghiacciante. Sembra che la zona tra Napoli e Caserta venga colpita dalla nuova febbre dell’oro. Tutti corrono a sversare liquidi tossici, improvvisandosi riciclatori. "Verso la fine degli Ottanta ogni clan si era organizzato autonomamente per interrare i carichi in discariche abusive. Finora è stato scoperto solo uno dei gruppi, ma vi erano sistemi paralleli gestiti anche da altre famiglie".
Ci sono trafficanti fai-dai-te che buttano liquidi fetidi nei campi coltivati in pieno giorno. Contadini che offrono i loro frutteti alle autobotti della morte. E se qualcuno protesta, intervengono i camorristi con la mitraglietta in pugno.
La banalità del male
Chi, come Vassallo, possiede una discarica lecita, la sfrutta all’infinito. Il sistema è terribilmente banale: nei permessi non viene indicata l’esatta posizione dell’invaso, né il suo perimetro. Così le voragini vengono triplicate. "Tutte le discariche campane con tale espediente hanno continuato a smaltire in modo abusivo, sfruttando autorizzazioni meramente cartolari. Ovviamente, nel creare nuovi invasi mi sono disinteressato di attrezzare quegli spazi in modo da impermeabilizzare i terreni; non fu realizzato nessun sistema di controllo del percolato e nessuna vasca di raccolta, sicché mai si è provveduto a controllare quella discarica ed a sanarla". In uno di questi ’buchi’ semilegali Vassallo fa seppellire un milione di metri cubi di detriti pericolosi.
L’aspetto più assurdo è che durante le emergenze che si sono accavallate, tutte queste discariche - quelle lecite e i satelliti abusivi - vengono espropriate dal Commissariato di governo per fare spazio all’immondizia di Napoli città. All’imprenditore della camorra Vassallo, pluri-inquisito, lo Stato concede ricchi risarcimenti: quasi due milioni e mezzo di euro. E altra monnezza seppellisce così il sarcofago dei veleni, creando un danno ancora più grave.
"I rifiuti del Commissariato furono collocati in sopra-elevazione; la zone è stata poi ’sistemata’, anche se sono rimasti sotterrati rifiuti speciali (includendo anche i tossici), senza che fosse stata realizzata alcuna impermeabilizzazione. Non è mai stato fatto uno studio serio in ordine alla qualità dell’acqua della falda. E quella zona è ad alta vocazione agricola".
L’import di scorie pericolose fruttava al clan 10 lire al chilo. "In quel periodo solo da me guadagnarono due miliardi". Il calcolo è semplice: furono nascoste 200 mila tonnellate di sostanze tossiche. Questo soltanto per l’asse Vassallo-casalesi, senza contare gli altri i boss napoletani che si erano lanciati nell’affare, a partire dai Mallardo.
"Una volta colmate le discariche, i rifiuti venivano interrati ovunque. In questi casi gli imprenditori venivano sostanzialmente by-passati, ma talora ci veniva richiesto di concedere l’uso dei nostri timbri, in modo da ’coprire’ e giustificare lo smaltimento dei produttori di rifiuti, del Nord Italia... Ricordo i rifiuti dell’Acna di Cengio, che furono smaltiti nella mia discarica per 6.000 quintali. Ma carichi ben superiori dall’Acna furono gestiti dall’avvocato Chianese: trattava 70 o 80 autotreni al giorno. La fila di autotreni era tale che formava una fila di circa un chilometro e mezzo".
Un’altra misteriosa ondata di piena arriva tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002: "Si trattava di un composto umido derivante dalla lavorazione dei rifiuti solidi urbani triturati, contenente molta plastica e vetro". Decine di camion provenienti da un impianto pubblico: a Vassallo dicono che partono da Milano e vanno fatti scomparire in fretta.
Il patto con la politica Uno dei capitoli più importanti riguarda la società mista che curava la nettezza urbana a Mondragone e in altri centri del casertano. È lì che parla dei fratelli Michele e Sergio Orsi, imprenditori con forti agganci nei palazzi del potere: il primo è stato ammazzato a giugno. I due, arrestati nel 2006, si erano difesi descrivendo le pressioni di boss e di politici.
Ma Vassallo va molto oltre: "Confesso che ho agito per conto della famiglia Bidognetti quale loro referente nel controllo della società Eco4 gestita dai fratelli Orsi. Ai fratelli Orsi era stata fissata una tangente mensile di 50 mila euro... Posso dire che la società Eco4 era controllata dall’onorevole Nicola Cosentino e anche l’onorevole Mario Landoldi (An) vi aveva svariati interessi. Presenziai personalmente alla consegna di 50 mila euro in contanti da parte di Sergio Orsi a Cosentino, incontro avvenuto a casa di quest’ultimo a Casal di Principe. Ricordo che Cosentino ebbe a ricevere la somma in una busta gialla e Sergio mi informò del suo contenuto".
Rapporti antichi, quelli con il politico che la scorsa settimana ha accompagnato Berlusconi nell’ultimo bagno di folla napoletano: "La mia conoscenza con Cosentino risale agli anni ’80, quando lo stesso era appena uscito dal Psdi e si era candidato alla provincia. Ricordo che in quella occasione fui contattato da Bernardo Cirillo, il quale mi disse che dovevamo organizzare un incontro elettorale per il Cosentino che era uno dei ’nostri’ candidati ossia un candidato del clan Bidognetti. In particolare il Cirillo specificò che era stato proprio ’lo zio’ a far arrivare questo messaggio".
Lo ’zio’, spiega, è Francesco Bidognetti: condannato all’ergastolo in appello nel processo Spartacus e, su ordine del ministro Alfano, sottoposto allo stesso regime carcerario di Totò Riina e Bernardo Provenzano. L’elezione alla provincia di Caserta è stata invece il secondo gradino della carriera di Cosentino, l’avvocato di Casal di Principe oggi leader campano della Pdl e sottosegretario all’Economia. "Faccio presente che sono tesserato ’Forza Italia’ e grazie a me sono state tesserate numerose persone presso la sezione di Cesa. Mi è capitato in due occasioni di sponsorizzare la campagna elettorale di Cosentino offrendogli cene presso il ristorante di mio fratello, cene costose con centinaia di invitati. L’ho sostenuto nel 2001 e incontrato spesso dopo l’elezione in Parlamento".
Ma quando si presenta a chiedere un intervento per rientrare nel gioco grande della spazzatura, gli assetti criminali sono cambiati. Il progetto più importante è stato spostato nel territorio di ’Sandokan’ Schiavone. Il parlamentare lo riceve a casa e può offrirgli solo una soluzione di ripiego: "Cosentino mi disse che si era adeguato alle scelte fatte ’a monte’ dai casalesi che avevano deciso di realizzare il termovalorizzatore a Santa Maria La Fossa. Egli, pertanto, aveva dovuto seguire tale linea ed avvantaggiare solo il gruppo Schiavone nella gestione dell’affare e, di conseguenza, tenere fuori il gruppo Bidognetti e quindi anche me".
Vassallo non se la prende. È abituato a cadere e rialzarsi. Negli ultimi venti anni è stato arrestato tre volte. Dal 1993 in poi, ad ogni retata seguiva un periodo di stallo. Poi nel giro di due anni un’emergenza che gli riapriva le porte delle discariche. "Fui condannato in primo grado e prosciolto in appello. Ma io ero colpevole". Una situazione paradossale: anche mentre sta confessando reati odiosi, ottiene dallo Stato un indennizzo di un milione 200 mila euro. E avverte: "Conviene che li blocchiate prima che i miei fratelli li facciano sparire...".
Oggi il premier nel capoluogo campano: incontra il cardinale e dopo i vertici
della magistratura cittadina. E la situazione, nelle strade, resta drammatica
Berlusconi a Napoli, tanti incontri
La città invasa dall’immondizia
Sepe gli dice in dialetto: "’A Maronna v’accumpagna", lui risponde in milanese
Veltroni: "Il problema è la difficoltà di decidere, nel centrodestra e centrosinistra"
NAPOLI - Silvio Berlusconi è tornato oggi nel capoluogo campano. Ma se nella sua visita precedente, lo scorso 30 maggio, la città fu ripulita, oggi è rimasta - a cominciare dal centro - stracolma di spazzatura. Dalla zona della Stazione centrale, in piazza Garibaldi, al corso Garibaldi, passando per l’area vicina alla sede del Municipio: una teoria ininterrotta di immondizia. Intanto, il presidente del Consiglio ha incontrato le autorità cittadine: dal cardinale Crescenzio Sepe, con cui il premier ha avuto uno scambio di battute in napoletano (" A Maronna v’accumpagna", gli ha detto l’arcivescovo), alla riunione in Prefettura col presidente della corte d’appello, Raffaele Numeroso, e il procuratore generale Vincenzo Galgano.
Sul tavolo dell’incontro, gli assetti della superprocura per i reati ambientali che il decreto sull’emergenza rifiuti istituisce a Napoli. Agli industriali napoletani, durante l’incontro in Prefettura, ha detto: "Ho bisogno del vostro contributo, perché serve l’apporto di tutti" per uscire dall’emergenza.
Ma da Napoli, oggi, di rifiuti parla anche Walter Veltroni, intervenuto all’assemblea dei parlamentari del Pse. "Il problema dipende da un complesso di motivi - spiega il segretario del Pd - ma quello fondamentale è la difficoltà di decidere, che ha riguardato sia il centrodestra che il centrosinistra".
Nel frattempo la situazione continua a essere grave, come dimostrato dai dati: sono ben 2.500 le tonnellate di immondizia nelle strade della città. Sempre molto grave anche la situazione sul fronte incendi: ce ne sono stati 53 tra le 6,30 di ieri e quelle di oggi, tra Napoli e provincia. Altri 15 roghi nel casertano. La pulizia in occasione della visita di Berlusconi non è stata nemmeno tentata: Napoli infatti non può conferire i rifiuti nell’impianto di Cdr di Giugliano, bloccato da alcuni giorni. E sono stati anche rallentati i carichi sui treni per la Germania, a causa dei controlli accentuati sul materiale da trasportare (dopo la scoperta, la scorsa settimana, di tracce radioattive). Pesante la situazione in provincia: gravissimi disagi in alcune zone come Pozzuoli, Casoria e l’area flegrea.
In questo clima, si è svolto l’incontro di circa 50 minuti tra il premier e il cardinale. Alla ormai nota invocazione del cardinale ’A Maronna v’accumpagna, il premier ha affiancato una invocazione in milanese che suona con ’’la Madonna ti aiuti a lavorare’’. Il tema della speranza per Napoli e’ stato implicitamente sottolineato da Berlusconi che all’uscita dalla sede della Curia, invece di rispondere ad una giornalista che chiedeva a gran voce ’’presidente, c’e’ ancora speranza per Napoli?’’, ha alzato il libro scritto dal cardinale dal titolo ’’Non rubate la speranza’’.
Fermandosi a scambiare alcune battute con i giornalisti, il cardinale Sepe ha parlato di un incontro ’’molto concreto’’ aggiungendo: ’’Sono pieno di speranza’’. Fra gli argomenti toccati nel corso del colloquio la situazione dell’emergenza rifiuti (rispetto alla quale, senza entrare nel merito del decreto del governo, il cardinale ha espresso preoccupazione per le reazioni della gente di Chiaiano), le problematiche giovanili, lo status della sicurezza e dell’occupazione.
* la Repubblica, 11 giugno 2008
Card. Sepe: temi anti-rom? Ideologie estremiste
Si respira aria nuova da quando governa la destra in Italia. A Napoli, anche se è un po’ meno buona, l’aria è la stessa: è quella dell’intolleranza, della caccia al diverso. Perché sporca, ruba, disturba chiedendo l’elemosina, inquina anche gli occhi con i suoi cenci in giro. Invece di pensare all’integrazione di tutte le forme di disagio, la parola d’ordine, naturalmente non detta ma ispirata, è "impunità verso chi aiuta partecipa alla caccia". Così un altro campo rom è stato incendiato, stavolta a Napoli, ma nello stesso quartiere della rivolta della settimana scorsa.
«È doloso», conferma la polizia. È stato sufficiente buttare un fiammifero nelle baracche abbandonate, dove i nomadi avevano lasciato vestiti ed effetti personali. Aveva accolto una settantina di rom, il campo nomadi di via Virginia Woolf, ed era uno dei pochi dell’area a non aver ancora subito agguati incendiari. È nel rione popolare di Ponticelli, nella periferia est della città partenopea. Nei giorni scorsi la popolazione aveva attaccato i campi dei nomadi, armandosi di molotov spranghe e sassi, dopo il tentato rapimento di una bimba di pochi mesi da parte di una ragazzina rom, poi arrestata. Proprio in seguito a queste manifestazioni d’intolleranza, i campi dell’area sono stati sgomberati e i nomadi si sono dispersi sul territorio.
Ma la "cultura" di destra è ormai passata e quindi è giusto bruciare i rom, come fece Hitler prima di dedicarsi agli ebrei (e poi ai minorati mentali, ai disabili, ai dissidenti politici, ai cattolici, ai luterani...). Lo dicono anche i bambini napoletani, nei loro temi. Nella scuola San Giovanni Bosco, ragazzini dai 9 agli 11 anni, nei loro temi hanno scritto frasi come: «Hanno fatto bene e visto che non se ne sono andati con le buone, abbiamo dovuto usare le maniere forti». Oppure: «Io penso che noi napoletani abbiamo fatto bene a cacciarli via». «La gente fa bene a bruciare i campi rom, perché abbiamo già troppi problemi e ci bastano». «Non siamo razzisti, è che loro si sono presi troppo la mano». Ricordano molto frasi di alcuni comici che una decina d’anni fa dicevano: «Non siamo razzisti. Sono loro che sono napoletani»...
Gli insegnanti sottolineano come, nonostante il lavoro svolto nelle classi, i bambini abbiano assistito, molto spesso, agli attentati incendiari nei confronti dei campi e hanno visto i propri familiari lanciare pietre e abbattere con calci e pugni le baracche. «Questi bambini sono stati coinvolti in pieno. Alcuni hanno raccontato di aver preso parte ai raid e, anche dopo, hanno ribadito con fermezza la loro posizione», spiega la preside dell’Istituto.
Nelle violenze contro i campi rom c’è la mano della camorra e di un’ideologia estremista. «A Ponticelli -ha detto il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli - ci sono state strumentalizzazioni ideologiche, c’è anche chi ha pescato nel torbido al di là dei rom sfruttando il disagio sociale; poi c’è la coincidenza con l’azione camorristica nella zona». Dal punto di vista dell’estremismo ideologico, ha sottolineato il cardinale, ha influenzato negativamente la popolazione «un forte richiamo al nazionalismo, al provincialismo, al campanilismo. Si è voluto in questo modo dar sfogo alla preoccupazione della gente».
«I temi dei bambini sono spaventosi», ha spiegato Sepe, «perché fanno capire che c’è un certo estremismo ideologico che riesce a colpire anche nelle menti dei bambini». Ai giornalisti, poi, il cardinale ha confidato: «Quelli di Ponticelli non sono bambini, sono adulti cresciuti improvvisamente». «Non sono i bimbi che scrivono. Loro sono tramite inconscio di una situazione. Andrebbero avvicinati e andrebbe fatto loro capire cos’è successo realmente», ha detto Sepe. Il vero problema, infatti, secondo l’arcivescovo di Napoli, sono le famiglie. «Bisogna cominciare - ha affermato - dalle loro mamme e dai loro padri. È inoltre necessario - ha concluso - fare in queste scuole degli incontri con tutti i bambini e spiegare loro il valore della dignità della persona».
* l’Unità, Pubblicato il: 28.05.08, Modificato il: 28.05.08 alle ore 19.25
Carità vaticana
Spesi più di 1,5 milioni di euro per la visita del papa a Napoli
di FLAVIA AMABILE (La Stampa, 21/10/2007)
Uno legge le parole del cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe, in un’intervista rilasciata proprio a ’La Stampa’ e pubblicata sabato 20. Si parla delle scritte contro il papa alla vigilia della sua visita a Napoli. Che cosa direbbe ai responsabili, chiede l’intervistatore. E il cardinale: ’Direi: questa è una scuola di violenza, di odio. E gli direi: ti insegno un’altra scuola, la scuola della convivenza, della carità, della solidarietà’.
Uno poi legge il conto finale delle spese che tutti noi sosteniamo per permettere proprio la visita di papa Benedetto XVI a Napoli. E scopre che per dodici ore di trasferta in totale, duecento chilometri di viaggio, si superano i 1,5 milioni di euro. Più in dettaglio: 750 milioni di euro stanziati da palazzo Chigi (a Napoli per l’occasione arriva anche Prodi), 350 mila euro dal Comune, 400 mila dalla Regione per addobbi floreali, accoglienza, interventi strutturali. A questi vanno aggiunti 120 mila euro previsti dall’Autorità portuale per l’atterraggio con l’elicottero.
Ora, è vero che la visita fa parte di una kermesse di tre giorni di dialogo interreligioso ma è anche vero che questi fondi servono soprattutto a garantire la sicurezza e il funzionamento della città durante la visita del papa visto che ci saranno centinaia di migliaia di persone in strada.
E, allora, se per esempio il Vaticano pronunciasse la classica frase ’non fiori ma opere di bene’ riferendosi agli addobbi floreali in strada e in chiesa, oppure ’niente pranzo per noi’ o qualcosa del genere, uno potrebbe trovare più credibili le parole del cardinale Sepe e condannare con maggiore forza le scritte contro il papa sui muri della città.
Ansa» 2007-10-21 16:06
PAPA: SALVIAMO GIOVANI DA CAMORRA, CATTOLICI IMPEGNATEVI
di Elisa Pinna
NAPOLI - Contro la camorra e una violenza divenuta ormai "mentalità diffusa", papa Ratzinger , da piazza del Plebiscito a Napoli, ha chiesto azioni politiche e una strategia di prevenzione, articolata in scuola e lavoro, per salvare i giovani. Nella sua visita oggi nel capoluogo campano, Benedetto XVI ha rinnovato inoltre un forte appello ai cattolici italiani perché si impegnino in politica e nel sociale e - incontrando 300 leader di tutte le religioni del mondo, qui convenuti per un convegno di Sant’Egidio - ha auspicato che cessino gli odii e le intolleranze nel nome di Dio. Nella città di ’O Sole mio’, Ratzinger ha trovato oggi una pioggia impietosa, un freddo pungente e strade per lo più deserte. Il maltempo non ha impedito però a circa 20 mila persone, infagottate in impermeabili di emergenza, di affollarsi in Piazza del Plebiscito, dove il pontefice ha celebrato una solenne messa, affiancato dal cardinale Crescenzio Sepe, da 77 vescovi e 700 sacerdoti. In prima fila , tra i fedeli, autorità politiche nazionali e locali: il presidente del Consiglio Romano Prodi, che aveva accolto Benedetto XVI al suo arrivo in elicottero alla Stazione Marittima, ha poi preso l’ostia consacrata, al momento della comunione, dalle mani del Pontefice. Con lui anche il ministro della Giustizia Clemente Mastella, il governatore campano Antonio Bassolino, il sindaco Rosa Russo Iervolino. Sul palco dell’altare, eretto davanti alla imponente Basilica di san Francesco di Paola, copia neoclassica del Pantheon di Roma, sedeva una delegazione di fratelli "separati" cristiani: patriarchi ortodossi orientali, con i loro copricapo a cilindro, armeni incappucciati, protestanti.
Nell’omelia, Benedetto XVI ha parlato con chiarezza dei "mali" di Napoli ed ha esortato ad una riscossa morale, intellettuale e spirituale, rivolgendosi sopratutto alle nuove generazioni. "Per molti - ha rimarcato, senza giri di parole - vivere non è semplice : sono tante le situazioni di povertà, di carenza di alloggio, di disoccupazione, di mancanza di prospettive future. C’é poi il triste fenomeno della violenza". "Non si tratta - ha proseguito rivolgendosi ai napoletani - solo del deprecabile numero di delitti della camorra, ma anche del fatto che la violenza tende purtroppo a farsi mentalità diffusa, insinuandosi nelle pieghe del vivere sociale, nei quartieri storici del centro e delle periferie nuove e anonime, con il rischio di attrarre specialmente la gioventù, che cresce in ambienti nei quali prospera l’illegalità, il sommerso, l’arte di arrangiarsi". "Quanto è importante allora - ha esortato - intensificare gli sforzi per una seria strategia di prevenzione, che punti sulla scuola, sul lavoro e sull’aiutare i giovani a gestire il tempo libero".
"E’ necessario - ha insistito - un intervento che coinvolga tutti nella lotta contro ogni forma di violenza, partendo dalla formazione delle coscienze e trasformando le mentalità, gli atteggiamenti, i comportamenti di tutti i giorni". Alla fine della messa, poi il Papa ha chiesto un "forte impegno" dei cattolici italiani in politica. "Molti - ha detto - sono i problemi e le sfide che stanno davanti a noi". Dalla piovosa piazza del Plebiscito, alle 12:00 Benedetto XVI si è trasferito in papamobile nel seminario collinare di Capodimonte. Qui ha incontrato i 300 capi religiosi - cristiani, musulmani, ebrei - che parteciperanno, da stasera a martedì, al convegno di Sant’Egidio. Mai il nome di Dio sia invocato per "giustificare il male e la violenza"; mai le religioni diventino "strumento di odio", ha implorato - davanti a loro - Benedetto XVI, riprendendo lo "spirito di Assisi": un omaggio al suo predecessore Wojtyla che, nel 1986, organizzò nella città di San Francesco il primo incontro tra le fedi del mondo per pregare insieme contro i pericoli dell’olocausto nucleare derivanti dalla guerra fredda. Dopo un pranzo con i capi religiosi, a cui è stato invitato anche il premier Prodi, Ratzinger si è concesso qualche momento di riposo. Nel pomeriggio, prima di ripartire per Roma, é previsto un suo omaggio, in Duomo, alle reliquie di San Gennaro, patrono ed eroe dei napoletani.
Ansa» 2007-10-21 11:12
PAPA A NAPOLI, AMORE PUO’ VINCERE VIOLENZA
NAPOLI - Cinquantuno leader religiosi faranno di Napoli da oggi fino a martedì un crocevia del dialogo interreligioso e un ponte per la pace. Con loro il Papa Benedetto XVI che incontrerà i leader di tutte le fedi in occasione della sua visita pastorale, prologo all’evento organizzato dalla comunità di Sant’Egidio e dalla diocesi di Napoli. Anche Prodi sarà a Napoli, in una giornata interamente dedicata alla visita del Papa. Alla chiusura del meeting sarà presente il Presidente Napolitano.
"L’amore può vincere la violenza": lo ha detto papa Benedetto XVI, prima di dare inizio alla solenne messa in piazza del Plebiscito a Napoli. Il pontefice, con queste parole, ha risposto ad un saluto del cardinale Crescenzio Sepe, che aveva parlato dei mali che affliggono il capoluogo campano, ma anche della sua voglia di guardare avanti.
Papa Benedetto XVI, durante la messa celebrata oggi in Piazza Plebiscito a Napoli, ha denunciato con parole forti la povertà, la disoccupazione, la violenza, la criminalità diffusa che deturpano i l volto del capoluogo campano, ed ha invocato "atti politici", ma anche un profondo rinnovamento spirituale. Nell’omelia, pronunciata davanti ad una piazza gremita di folla, nonostante il maltempo, Ratzinger ha esortato innanzitutto i napoletani a riscoprire il valore della preghiera, ma ha anche affermato che la città ha bisogno di "adeguati interventi politici" e prima ancora "di un profondo rinnovamento spirituale". Ad ascoltarlo, in prima fila, il presidente del Consiglio, Romano Prodi, il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, il governatore campano, Antonio Bassolino e il sindaco della città Rosa Russo Iervolino.
Papa Ratzinger, durante la messa in Piazza del Plebiscito a Napoli, ha esortato a varare una "seria strategia di prevenzione" , che "punti sulla scuola e sul lavoro", per salvare i giovani dai rischi della violenza, della camorra e della criminalità diffusa.
PAPA CELEBRA MESSA SOTTO PIOGGIA BATTENTE
La pioggia battente e le folate di vento gelido stanno costringendo una parte dei fedeli ad allontanarsi dal centro di piazza del Plebiscito dove è in corso la celebrazione della Santa Messa presieduta da Papa Benedetto XVI. Alcuni fedeli, infreddoliti, si stanno spostando alla ricerca di un riparo dove poter seguire la messa attraverso i maxischermi installati nelle adiacenze della piazza.
SONO 42 I LEADER RELIGIOSI ALLA MESSA
Sono in tutto 42 i leader delle varie religioni presenti questa mattina alla messa di Benedetto XVI in Piazza del Plebiscito, a Napoli, che inaugura il Meeting interreligioso "Per un mondo senza violenza" organizzato nel capoluogo campano dalla Comunità di Sant’Egidio. Tra i rappresentanti delle Chiese ortodosse e delle antiche Chiese orientali, sono presenti il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, l’arcivescovo di Cipro Chrysostomos II, il catholicos libanese Aram I, l’arcivescovo Filipp del patriarcato ortodosso di Mosca, il vescovo Athanasios della Chiesa ortodossa greca, il metropolita siro-ortodosso Gregorios. Per le altre Chiese cristiane, sono presenti, tra gli altri, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, primate anglicano, Ishmael Noko, segretario della Federazione luterana mondiale, Wolfgang Huber, presidente della Chiesa evangelica di Germania, George Freeman, segretario del Consiglio metodista mondiale, Jean-Arnold de Clement, presidente della Conferenza della Chiese d’Europa, Samuel Kobia, segretario generale del Consiglio ecumenico della Chiese.
In rappresentanza della religione ebraica sono presenti, tra gli altri, il rabbino capo d’Israele Yona Metzger, il rabbino Israel Singer del World Jewish Congress, il rabbino di Colonia Natanel Teitelbaum, il rabbino capo di Turchia Itzhak Haleva, il presidente della comunità ebraica di Roma Leone Paserman. Per l’Islam sono presenti, tra gli altri, il teologo saudita Mohammed Esslimani, l’altro teologo marocchino Mohammed Amine Smaili, il consigliere politico del gran muftì libanese, la decana della facoltà di Sharia e Studi islamici del Qatar Aisha Al-Menn’ai. Presenti anche esponenti buddisti, induisti, shintoisti e zoroastriani. Tra le personalità politiche, oltre al presidente del Consiglio italiano Romano Prodi e al ministro Clemente Mastella, ci sono l’ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, il presidente della Tanzania Jakaya Mrisho Kikwete, il presidente dell’Ecuador Rafael Correa Delgado.
Ansa» 2007-10-21 10:23
PAPA A NAPOLI, AMORE PUO’ VINCERE VIOLENZA
NAPOLI - Cinquantuno leader religiosi faranno di Napoli da oggi fino a martedì un crocevia del dialogo interreligioso e un ponte per la pace. Con loro il Papa Benedetto XVI che incontrerà i leader di tutte le fedi in occasione della sua visita pastorale, prologo all’evento organizzato dalla comunità di Sant’Egidio e dalla diocesi di Napoli. Anche Prodi sarà a Napoli, in una giornata interamente dedicata alla visita del Papa. Alla chiusura del meeting sarà presente il Presidente Napolitano.
AMORE PUO’ VINCERE VIOLENZA "L’amore può vincere la violenza": lo ha detto papa Benedetto XVI, prima di dare inizio alla solenne messa in piazza del Plebiscito a Napoli. Il pontefice, con queste parole, ha risposto ad un saluto del cardinale Crescenzio Sepe, che aveva parlato dei mali che affliggono il capoluogo campano, ma anche della sua voglia di guardare avanti.
IL PAPA A NAPOLI, DOMANI PRODI A PRANZO CON BENEDETTO XVI
Il presidente del Consiglio Romano Prodi parteciperà domani al pranzo con papa Benedetto XVI che avrà luogo al seminario arcivescovile di Capodimonte, durante la visita del Pontefice a Napoli. Prodi accoglierà domani mattina il Papa all’arrivo nella stazione marittima del capoluogo campano. Quindi presenzierà in Piazza del Plebiscito alla messa presieduta da papa Ratzinger, che inaugurerà l’incontro interreligioso per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla diocesi partenopea. Al termine della visita papale, nel pomeriggio il presidente del Consiglio sarà nuovamente alla stazione marittima per salutare il Papa in partenza per Roma. Al convegno delle religioni, in programma fino a martedì, è prevista la partecipazione anche del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, del vicepremier Massimo D’Alema e del ministro Clemente Mastella.
* Avvenire, sabato 20 ottobre 2007 17.33
ansa» 2007-10-20 19:13
Papa, domani pranzo con Prodi
Lettere dei bambini napoletani: "cambia cose brutte citta’"
(ANSA) - NAPOLI, 20 OTT - Il premier Prodi partecipera’ domani al pranzo con Benedetto XVI a Capodimonte, durante la visita del pontefice a Napoli. Intanto, i bambini partenopei hanno scritto al pontefice: "Napoli e’ una citta’ molto bella, pero’ qualche volta ci sono persone che uccidono. Tu puoi cambiare queste persone e convincerle a non fare del male agli altri". Le lettere dei bambini delle elementari e medie hanno quasi tutte un’invocazione a cambiare "le cose brutte della citta’".
Papa: Napoli, 600 giornalisti
86 quotidiani e periodici, 49 agenzie, 32 tv, 10 radio
(ANSA) - NAPOLI, 20 OTT - Centonovantadue testate accreditate e quasi 600 tra giornalisti e fotoreporter seguiranno domani la visita del Papa a Napoli. I giornalisti provengono anche da paesi lontani come il Kazakistan e l’Ecuador. Il papa a Napoli avviera’ anche i lavori dell’incontro interreligioso. Sono 86 i quotidiani e i periodici accreditati, 49 le agenzie di stampa e di foto, 32 le televisioni e le agenzie televisive, 10 le radio. La Rai seguira’ la cerimonia in diretta tv.
Lo «spirito di Assisi» soffia nel convento di Mergellina.
Una mostra fotografica sul cammino iniziato nel 1986
(Avvenire, 17.10.2007)
NAPOLI. In un angolo del convento dei Cappuccini a Mergellina è racchiuso quello «spirito di Assisi» che tra qualche giorno spirerà su Napoli con il Meeting «Uomini e religioni» promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. Un spirito che prese a soffiare nel 1986, quando Giovanni Paolo II aprì una «nuova porta» al mondo perché lasciasse entrare e accogliesse parole di pace».
Uno spirito che - domenica a Napoli - Benedetto XVI rilancerà incontrando i delegati di altre Chiese cristiane, religioni e culture. Gli apre la via la serie di fotografie - in mostra nel convento - che con tutta l’eloquenza, suggestione dell’immagine, ripercorre e racconta la storia degli Incontri di Preghiera, attesi e vissuti con speranza, diventati parte della vita di Giovanni di Paolo II, della Chiesa cattolica e di tanti credenti e uomini di buona volontà. Quelle foto le ha raccolte padre Stanislao Iwanczak, da dieci anni guida spirituale della comunità polacca a Napoli «Divina Misericordia», allestendo una mostra inaugurata domenica scorsa dal padre provinciale Leonardo Izzo. È ospitata nelle sale che il superiore padre Pietro Zarrella ha messo a disposizione della comunità polacca: spazi diventati testimonianza dell’affetto che lega la Polonia a Napoli.
La mostra ripercorre la genesi degli Incontri interreligiosi, che risale a molto prima del 26 ottobre 1986 e ad un luogo ben più lontano di Assisi. «A Fatima e al cosiddetto ’secondo segreto’, in particolare nella parte in cui la Madonna chiede la consacrazione della Russia - spiega padre Stanislao, appassionato studioso del legame tra Maria e Wojtyla -. Il Papa è stato ispirato da quelle parole: il 25 marzo 1984 consacrò la Russia e il mondo intero al Cuore Immacolato della Madonna e uno dei primi, immediati frutti fu lo straordinario e storico incontro interreligioso ad Assisi nel 1986. Poi molte cose sono cambiate». Anche se il mondo rincorre ancora la pace nonostante l’auspicio di Giovanni Paolo II che il 24 febbraio 2002 inviò una lettera ai capi di Stato presentando loro il «Decalogo di Assisi per la pace» sottoscritto il mese prima da 60 esponenti delle più grandi religioni del mondo.Tutto è testimoniato nella mostra che si inserisce in un percorso articolato e lungo - anche fisico, snodandosi per scale e stanze - che ripercorre la vita di Wojtyla. E si scopre che la sua prima visita a Napoli avvenne il 21 ottobre 1979. Nello stesso giorno, 28 anni dopo, giungerà, e per la prima volta, Benedetto XVI.
Valeria Chianese
Il Papa a Napoli, «segno» di pace
di LORENZO ROSOLI (Avvenire, 17.10.2007)
La Messa e l’Angelus nell’abbraccio dell’emiciclo neoclassico di Piazza del Plebiscito. L’incontro - nell’aula magna del Seminario arcivescovile a Capodimonte - con i capi delle delegazioni che partecipano al meeting internazionale per la pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio con l’arcidiocesi di Napoli. L’adorazione del Santissimo e la venerazione delle reliquie di san Gennaro, nell’omonima cappella del Duomo di Napoli.
Ecco gli appuntamenti cruciali della visita pastorale che Benedetto XVI terrà a Napoli domenica 21 ottobre. Il programma è stato ufficializzato ieri dalla Sala stampa vaticana. Otto ore intense nel capoluogo campano; un itinerario che costituisce l’ottavo viag- gio compiuto da Papa Ratzinger in Italia dopo quelli di Bari nel 2005, Manoppello e Verona nel 2006, Vigevano-Pavia, Assisi, Loreto e Velletri in questo 2007.
Il Pontefice partirà alle 8,15 di domenica dall’eliporto vaticano. Alle 9,15 l’elicottero lo depositerà sul piazzale della Stazione Marittima, nel porto di Napoli, dove verrà accolto dall’arcivescovo, il cardinale Crescenzio Sepe, dal nunzio in Italia Giuseppe Bertello, dal sindaco di Napoli Rosa Russo Jervolino, dal presidente della Regione Campania Antonio Bassolino e da altre autorità. Da qui un’auto panoramica lo porterà fino a Piazza del Plebiscito, mirabile spazio urbano e scenario architettonico recuperato nel 1994 in occasione dell’allora G7, talvolta utilizzato per manifestazioni, concerti e installazioni d’arte contemporanea. Stavolta tocca al Papa: che vi giungerà alle 9,45 mentre alle 10 - dopo aver indossato i paramenti liturgici nella basilica di San Francesco di Paola - inizierà a presiedere la concelebrazione eucaristica. Ratzinger terrà l’omelia; dopo la Messa, guiderà la recita dell’Angelus e terrà un discorso.
Dopo il rito alle 12,15 - sempre con l’auto panoramica - il Papa verrà portato al Seminario arcivescovile, dove alle 13 riceverà i capi delle delegazioni giunte a Napoli per partecipare all’incontro «Per un mondo senza violenza. Religioni e culture in dialogo». Il programma dell’incontro promosso da Sant’Egidio con la Chiesa di Napoli si apre proprio domenica mattina con la partecipazione alla Messa in Piazza del Plebiscito, alla quale saranno presenti anche alcuni «rappresentanti ecumenici», e prosegue fino a martedì 23 ottobre: saranno tre giorni di incontro e dialogo fra gli esponenti delle Chiese cristiane, delle grandi religioni e di differenti culture per rilanciare lo «spirito di Assisi» nel cuore del Mediterraneo. Con il suo saluto ai delegati nell’aula magna del Seminario, anche Papa Ratzinger offrirà il suo autorevole contributo a un cammino di pace che, avviato nel 1986 da Giovanni Paolo II, oggi «assume il carattere di una puntuale profezia» - come disse lo stesso Benedetto XVI nel messaggio inviato all’incontro di Assisi del settembre 2006.
Alle 13,30 - sempre in Seminario - il Papa pranzerà con i cardinali e i vescovi della Campania e con i partecipanti al meeting internazionale per la pace. Alle 16 il trasferimento in auto panoramica al Duomo dove - alle 16,30 - è prevista l’adorazione del Santissimo Sacramento e la venerazione delle reliquie di san Gennaro nella cappella intitolata al patrono di Napoli, tanto caro al popolo della Chiesa partenopea. Alle 17 l’auto lo ricondurrà alla Stazione Marittima, dove alle 17,30 si alzerà in volo l’elicottero che alle 18,30 giungerà all’eliporto vaticano.
L’EVENTO
Sepe: «Il Papa a Napoli è un’iniezione di fiducia»
Presentato il programma della visita di Benedetto XVI prevista per il 21 ottobre, in occasione del Meeting del dialogo interreligioso per la pace organizzato nel capoluogo campano dalla Comunità di Sant’Egidio
Da Napoli Valeria Chianese (Avvenire, 30.08.2007)
La presenza del Papa all’Incontro internazionale per la Pace organizzato a Napoli dalla Comunità di Sant’Egidio a ottobre non ha più i contorni sfumati dell’attesa, ma la certezza che danno i luoghi e le ore. Il programma della visita, che si svolgerà nel primo giorno del Meeting, domenica 21 ottobre, è quasi del tutto definito come ieri ha annunciato il cardinale Crescenzio Sepe. Sette ore intense, di incontro con i rappresentanti delle varie religioni e con le autorità civili, ma soprattutto con i napoletani ed i campani che Benedetto XVI ha più volte incontrato nel passato, nelle sue frequenti visite da cardinale in varie località della regione, e che in questa occasione lo accoglieranno e lo saluteranno per la prima volta come Papa.
«Conoscendo i napoletani, la loro religiosità, la loro devozione al patrono San Gennaro - ha osservato l’arcivescovo sottolineando il legame tra Benedetto XVI e Napoli - il Papa nel pomeriggio di domenica si recherà in Cattedrale per pregare sulle reliquie del santo martire. Egli vuole così dare un segno particolare della sua predilezione, del suo amore per la diocesi di Napoli e, quindi, portare il suo saluto, la sua preghiera, e soprattutto incitare questa Chiesa, questa comunità, a mantenere viva la fede nel Cristo, nella Chiesa. Il Papa certamente darà un’iniezione di fiducia a tutti noi che lavoriamo in un contesto bello, ma spesso non facile». Benedetto XVI giungerà a Napoli in elicottero la domenica mattina alla Stazione Marittima di Napoli alle 9,15 accolto dal Cardinale Sepe e dalle autorità civili e militari. Sulla piazza del Plebiscito, trasformata in una suggestiva Cattedrale a cielo aperto, i fedeli potranno pregare con il Papa che sullo sfondo della basilica di San Francesco di Paola celebrerà l’Eucaristia con i cardinali ed i vescovi campani. La Messa si concluderà con la recita dell’Angelus. Quindi il Papa attraverserà la città per ricevere più da vicino l’affetto ed il saluto dei napoletani e di chi è giunto in città per il Meeting raggiungendo il Seminario Maggiore «Alessio Ascalesi» a Capodimonte, dove saluterà i capi religiosi e di Stato. Dopo il pranzo ed un breve riposo, prima di riprendere il volo per il Vaticano, Benedetto XVI si recherà appunto in Cattedrale per pregare in forma privata nella Cappella di San Gennaro.
È la conclusione di una parte della giornata che la prefettura di Napoli e la Regione Campania hanno chiesto al governo di riconoscere come grande evento nazionale e che ha messo in moto una macchina organizzativa che esige attenzione e precisione per ogni aspetto, dalla sicurezza a quello sanitario, dal catering a quello delle traduzioni. È dopo la partenza del Papa che avrà ufficialmente inizio al Teatro San Carlo l’Incontro Internazionale per la Pace che per la sua 21ª edizione ha come titolo «Religioni e culture: dialogo per un mondo senza violenza» e che si presenta, rispetto anche alle passate edizioni «come un convegno ricco ed interessante, con un livello di rappresentanza, sia religiose sia civili sia culturali, molto elevato» - ha precisato monsignor Ambrogio Spreafico, rettore dell’Università Urbaniana e responsabile della Comunità di Sant’Egidio per l’organizzazione dell’Incontro. Il tema della violenza si dipanerà variamente esaminato lungo le 23 tavole rotonde che animeranno i due giorni più intensi del Meeting, che si concluderà martedì 23 ottobre, e che vedrà i capi religiosi cristiani e non cristiani recarsi anche nelle altre diocesi della Campania. Qualcuno per ritrovare le radici della propria fede come il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I che lunedì 22 andrà ad Amalfi per venerare nel Duomo le reliquie di sant’Andrea. Dal Meeting ci si aspetta molto. L’assessore regionale Teresa Armato spera in un rilancio dell’immagine di Napoli e della Campania mentre il cardinale Crescenzio Sepe si augura che «dopo possa continuare a soffiare lo spirito di Napoli, ponte sul Mediterraneo verso altre religioni e altre culture, perché il dialogo non si fermi a questi tre giorni».
Ratzinger a Napoli il 21 ottobre
Sarà all’apertura dell’incontro di preghiera per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. L’ha annunciato lo stesso Papa ieri all’Angelus
Da Napoli Valeria Chianese (Avvenire, 30.06.2007)
Ora sarà solo attesa amorevole fino al 21 ottobre, quando Benedetto XVI sarà a Napoli nel giorno che apre la Giornata mondiale di preghiera per la pace. Lo ha detto ieri all’Angelus lo stesso Pontefice: «Sono lieto di annunciare che, accogliendo l’invito dell’arcivescovo, il cardinale Crescenzio Sepe, domenica 21 ottobre prossimo mi recherò in visita pastorale a Napoli. Saluto con affetto la cara comunità napoletana che invito a preparare l’incontro nella preghiera e nella carità operosa».
Sepe: «Segno d’affetto»
Per i napoletani era più d’una speranza - assecondata e sorretta con eguale spirito da Sepe - quella che Ratzinger potesse partecipare all’evento. Il 21 ottobre - la prima delle tre giornate dell’incontro di preghiera - vedrà la presenza di numerosi leader religiosi e di capi di Stato, fra cui il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano. Nella diocesi di Napoli e nelle Chiese della Campania l’annuncio della visita del Papa ha subito suscitato grande gioia. Il cardinale Sepe ha particolarmente gradito il fatto che il Papa abbia voluto dare l’annuncio di persona, a dimostrazione dell’affetto e dell’attenzione verso Napoli e la Campania.
La bella novità intanto dà ulteriore entusiasmo all’impegno della "macchina organizzativa" dell’evento promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, che tiene vivo e diffonde quello «Spirito di Assisi» legato all’incontro interreligioso del 1986 voluto da Giovanni Paolo II. Da allora Sant’Egidio porta avanti un vero e proprio «pellegrinaggio di pace» che ha toccato diverse città d’Europa e dell’area mediterranea, fino a giungere a Napoli «crocevia di mondi differenti, centro dove convergono religioni, culture, civiltà e problemi del Mediterraneo», osserva Andrea Riccardi, fondatore della Comunità. Per Sepe, Napoli «è città aperta» dove affrontare col dialogo, nella specificità di ciascuno, le insidie contro la pace: «Non siamo condannati al pessimismo e alla violenza - ribadisce - e Napoli può farsi interprete di questo messaggio».
Un «grazie» corale
I rappresentanti delle istituzioni campane hanno subito dato voce alla gioia delle loro comunità. «È davvero una bella notizia - commenta il presidente della Giunta regionale, Antonio Bassolino -; sarà l’occasione per i cittadini campani per esprimergli tutta la loro vicinanza, la loro fede e il loro affetto. Siamo certi che Napoli e la Campania sapranno accoglierlo nel modo migliore». Un «grazie di cuore» al Papa «per l’attenzione che dedica alla nostra terra» arriva dal presidente della Provincia di Napoli, Dino Di Palma, che afferma: la sua visita è «un forte segnale di affetto e vicinanza al nostro territorio e va preparata con coscienza e impegno da parte di noi tutti, cittadini e istituzioni».
Il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, ha appreso la notizia «con grande gioia. Una lieta circostanza che onora profondamente la città». Ieri sera in Cattedrale, Sepe ha ringraziato il Papa durante la Messa della festa dei santi Pietro e Paolo, per la quale aveva già invitato a pregare per il Pontefice. Domani si compie il primo anno di ministero pastorale nella Chiesa partenopea del cardinale Sepe: un anniversario allietato ulteriormente dalla notizia della visita di Ratzinger.
Ercolano, la frequenza 95.10 usata per parlare coi detenuti
Le dediche erano in realtà complimenti per le scarcerazioni
Camorra, sequestrata una radio
"In onda messaggi in codice dei clan"
Il blitz ha portato anche a 53 arresti legati a una faida*
NAPOLI - La camorra in onde medie. Una stazione radio privata è stata messa sotto sequestro nel Napoletano durante un blitz contro la criminalità organizzata. Il sospetto, infatti, è che i clan usassero la scaletta di "Radio Nuova Ercolano" per scambiarsi messaggi e comunicare con i detenuti.
Dalle indagini sulla faida tra gli Ascione-Montella e sugli Iacomino-Birra è infatti emerso che la radio libera nascondeva probabilmente, tra dediche e musica, veri e propri comunicati in codice per i detenuti di Poggioreale. Ai familiari degli Iacomino-Birra qui reclusi bastava sintonizzarsi sulla frequenza 99.10 per ascoltare dediche che in realtà erano complimenti per le scarcerazione di affiliati o "direttive" nascoste nei brani musicali.
I locali e gli impianti di trasmissione di "Radio Nuova Ercolano", chiusa altre volte in passato con l’accusa di occupare frequenze che non le spettavano, sono ora sotto sequestro, assieme ad altri beni dei clan per un valore totale di 8 milioni di euro. La guerra tra i due clan, che conta 18 omicidi e diversi tentativi di omicidio, ha avuto inizio dall’uccisione di Mario Ascione e Ciro Montella, rispettivamente reggente e gregario degli Ascione, avvenuta a Ercolano l’11 marzo del 2003.
* la Repubblica, 11 giugno 2007
All’indomani della telefonata per l’emergenza rifiuti
Napolitano: «Amore e ansia per Napoli»
Il capo delle Stato riceve i protagonisti della «Partita del cuore» che si giocherà stasera nello stadio partenopeo *
ROMA - «Noi napoletani abbiamo non soltanto molto amore per Napoli ma anche molta ansia». Così Giorgio Napolitano ritorna a occuparsi della sua città all’indomani della telefonata al sindaco di Montecorvino Pugliano, Domenico Di Giorgio, per l’emergenza rifiuti. L’occasione è l’incontro al Quirinale con i protagonisti della «Partita del cuore» che si giocherà stasera a Napoli allo stadio San Paolol Il presidente della Repubblica ha accennato anche alle «molte facce» della città, chiedendo di non sottovalutare quelle più positive. «È stato un anno anche difficile per il mondo del calcio, e sappiamo per quali motivi. Mi pare comunque ci sia qualche sforzo di ritorno alla normalità e anche di prosecuzione del risanamento del mondo del calcio», ha osservato il capo dello Stato.
* Corriere della Sera, 28 maggio 2007
LINGUA ITALIANA: LA PAROLA PIU’ BELLA E’ AMORE PER GLI ABITANTI DEL BELPAESE
Roma, 20 dic.- (Adnkronos) - Non c’e’ dubbio: e’ ’amore’ la parola piu’ bella per gli italiani. E’ quanto emerge da una ricerca di Gfk Eurisko riportata nell’ ’Annuario 2006’ della Dante Alighieri, il piu’ completo vademecum della lingua e cultura italiana, curato da Paolo Peluffo e Luca Serianni.
A indicarla il 22% degli intervistati, soprattutto operai (32%). A grande distanza al secondo posto c’e’ naturalmente ’mamma’, citata dall’8%. Al terzo ’pace’ seguita ad un punto di distanza da ’liberta’’. Tra le altre parole piu’ gettonate anche ’famiglia’, ’amicizia’, ’figli’ e ’felicita’. Nella top ten a pari merito: ’ciao’, ’sole’, ’rispetto’, ’vita’, ’democrazia’ e ’Italia’.
* ADNKRONOS, 20.12.2006
VISITE AD LIMINA
L’arcivescovo di Napoli racconta le sfide della regione che da oggi incontra Benedetto XVI:«Non lasciamoci andare al pessimismo, ma condividiamo lo sguardo sul futuro»
«Con noi dal Papa la Campania della speranza»
Il cardinale Sepe: «Nonostante i mutamenti in atto, la Chiesa qui è un riferimento cercato nella vita personale e comunitaria C’è una vitalità tutta da rivalutare»
Da Roma Mimmo Muolo (Avvenire, 11.01.2007)
Al di là di quello che si legge ogni giorno sui giornali, la Campania si presenta alla visita ad limina, che inizia oggi, come «un laboratorio di speranza». I «motivi per sperare sono tanti», dice il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli. E il presidente della Conferenza episcopale campana li enumera in questa intervista, in cui ricorda anche la capillarità dell’iter che ha preceduto l’appuntamento con il Papa. In sostanza non solo i vescovi si sono preparati. «Ognuno ha offerto il proprio specifico contribuito per dare profondità e significato alla lettura della realtà sociale, culturale, religiosa ed ecclesiale, condotta dalle comunità diocesane».
E dunque, eminenza, con quale volto la Chiesa di Campania si presenta all’incontro con il Pontefice?
«Con il volto di una regione in cui la presenza della Chiesa è avvertita ancora come importante e rimane, nonostante i mutamenti in atto, un riferimento cercato, molte volte invocato, nella vita personale o comunitaria; la gente considera la Chiesa un punto di riferimento umano e morale, oltre che religioso e spirituale e attende molto dai suoi membri, in termini di servizio e di testimonianza, di trasparenza e di santità. Un legame che può essere preziosa occasione per una rinnovata evangelizzazione».
Eppure spesso si parla della Campania solo in relazione ai problemi. Dove sono le forze della Campania positiva?
«Il fiorire di esperienze di volontariato e il nascere di forme di cooperazione sociale, la forte esigenza di riscoprire il senso dell’impegno civico, una nuova richiesta di formazione politica, specie tra i giovani, l’attenzione agli ultimi e ai poveri attraverso una rinnovata carità cristiana, l’attualizzazione di una pastorale missionaria che avvicina la Chiesa alla gente, sono segni di speranza chiari ed evidenti che mostrano il volto vero della nostra Regione, espressione di un popolo che lavora, che vive nella normalità, che ha voglia di riscatto». < B>Quanto sarà importante, in questo riscatto, il ruolo di un laicato adulto nella fede?
«Sarà importante quanto il lavoro generoso ed instancabile dei nostri sacerdoti e dei religiosi, presenti sul territorio. Il loro impegno implica, tra le altre cose, la formazione di un laicato capace di vivere la propria fede non come qualcosa di intimistico o di spiritualistico, che favorisce o giustifica una fuga dalla storia e un’indifferenza o distacco dalle questioni sociali, ma come principio di testimonianza incisiva che si misura con i problemi della realtà alla luce del Vangelo. Di qui la necessità di riproporre all’attenzione delle comunità ecclesiali e della società civile la conoscenza della Dottrina sociale della Chiesa, ma anche l’importanza di ricollocare al centro dell’azione pastorale la formazione delle coscienze».
Giovanni Paolo II, in una delle sue visite a Napoli, invitava ad «organizzare la speranza». A che livello di realizzazione è questo invito?
«È la speranza che ci consente di operare nelle condizioni e nella situazione di oggi guardando con serenità al futuro. La prima cosa da fare è purificare lo sguardo per vedere i motivi di speranza, che sono abbondanti anche in situazioni che ad una visione superficiale potrebbero sembrare pochi. C’è una vitalità nelle nostre Chiese, espressione di comunità operose e non ripiegate su se stesse, da rivalutare. Tra i segni di speranza possiamo annoverare la presenza di un laicato più maturo e partecipe, il suo impegno educativo; la fede e la devozione di tante persone di ogni ceto sociale e di ogni età; le vocazioni sacerdotali e religiose, meno numerose che in passato, ma pur sempre presenti, vero miracolo della grazia. Di qui, allora, l’invito a non disperdere le energie, a non lasciarsi andare ad atteggiamenti e sensazioni di smarrimento, di confusione e di pessimismo, per condividere "assieme" la grande responsabilità di creare un futuro migliore».
E la visita ad limina può incoraggiare questo dinamismo?
«La visita ad limina ci aiuterà a riscoprire, nella prospettiva della conversione a Cristo e in Cristo, in modo più autentico e vitale, le nostre radici cristiane. Certamente il Santo Padre ci indicherà come muoverci nel futuro, ma soprattutto ci incoraggerà a continuare nell’impegno di diffondere l’inesauribile messaggio della salvezza di Cristo. Per quanto le situazioni siano complesse e problematiche, ci esorterà, a non perdere la fiducia, ad essere sempre attenti a scorgere e ad incoraggiare ogni segno positivo di rinnovamento personale e sociale, a favorire con ogni mezzo la coraggiosa costruzione della giustizia e della pace. Nel cuore dell’uomo non deve mai morire il germe della speranza».
Ci sono, da questo punto di vista, punti di contatto e di continuità con il recente convegno di Verona?
«A Verona è emersa in modo chiaro la necessità e la capacità nostra, come Chiesa, di parlare al cuore della gente e di inculturare, nelle varie e molteplici tradizioni popolari, la fede cristiana. Si avverte l’esigenza di assumere con decisione la progettualità come stile della pastorale e la necessità di una trama coerente delle azioni della pastorale ad ogni livello, superando una certa frammentarietà che persiste talvolta anche nel moltiplicarsi delle iniziative. Il Convegno di Verona, alla stregua della visita ad limina, ci chiede di consolidare e qualificare ulteriormente questa esperienza di dialogo e di conoscenza intraecclesiale. In tal senso sarebbe sicuramente profetica l’azione ecclesiale che, superando forme di parcellizzazione anche e soprattutto nelle stesse strutture pastorali, promuova di fatto concrete vie di comunione, di comunicazione e di collaborazione nella realtà sociale complessa e frammentata della Regione Campania. Si esige, in definitiva, un cambio di mentalità: da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria e di primo annuncio».
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Tre metropolie e 1829 parrocchie
(M.Mu.)
Con 25 circoscrizioni ecclesiastiche, la Campania vanta il record della Conferenza episcopale regionale più numerosa d’Italia. Quasi sei milioni di abitanti, 1.829 parrocchie, 2.293 sacerdoti e 1.392 religiosi, oltre 468 diaconi permanenti sono - secondo i dati dell’Annuario 2006 della Cei - alcuni dei numeri più significativi di questa Chiesa, che vanta diocesi antichissime, con radici profonde nel tessuto sociale. Tra i santi campani, infatti, non si possono non ricordare, oltre a san Gennaro, figure come quelle di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, autore tra l’altro di «Tu scendi dalle stelle», san Giuseppe Moscati, il medico dei poveri, san Paolino da Nola, il beato Bartolo Longo, fondatore della nuova Pompei, i martiri puteolani e diversi altri, che non a caso sono i patroni delle diocesi campane. Dal punto di vista territoriale, la Regione è divisa in tre metropolie. Alla sede arcivescovile di Napoli fanno capo Acerra, Alife-Caiazzo, Aversa, Capua (che è arcidiocesi), Caserta, Ischia, Nola, Pozzuoli, Sessa Aurunca, Sorrento-Castellammare di Stabia (arcidiocesi), Teano-Calvi e Pompei, che è una prelatura territoriale. Sono, invece, suffraganee di Benevento Ariano Irpino-Lacedonia, Avellino, Cerreto Sannita-Telese-S. Agata dei Goti e Sant’Angelo de’ Lombardi-Conza-Nusco-Bisaccia (arcidiocesi). Sempre al capoluogo sannita fa riferimento l’Abbazia territoriale di Montevergine. La Metropolia di Salerno-Campagna-Acerno, infine, abbraccia l’arcidiocesi di Amalfi-Cava de’ Tirreni, le diocesi di Nocera-Sarno, Teggiano-Policastro, Vallo della Lucania e l’Abbazia ter-ritoriale di SS. Trinità di Cava de’ Tirreni.
Napoli, in 100mila al corteo dei sindacati contro la camorra *
«Non molleremo, nessuna rassegnazione, non chiniamo la testa. Non chiudiamo gli occhi e le orecchie. Siamo in campo e ci resteremo». Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, conclude con queste parole la manifestazione nazionale organizzata a Napoli dai sindacati confederali per dire no alla camorra.
Nel nome di «legalità e sviluppo per la Campania, il Mezzogiorno e l’Italia», almeno 100mila persone hanno aderito al corteo che ha attraversato il centro cittadino mentre uno sciopero di 8 ore, esteso a tutta la Campania, bloccava scuole, trasporto pubblico, uffici, banche, per testimoniare, come ha sottolineato il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, «l’avversione dei lavoratori campani e di tutti i lavoratori italiani verso i poteri criminali, che non solo creano squilibri nelle comunità perché con la violenza intimidiscono le persone, ma ipotecano anche lo sviluppo».
Secondo dati forniti dai sindacati l’astensione dal lavoro al porto è stata del 90%, alla Whirpool, alla Seda, all’Alenia, alla Firemar e alla Marconi del 70%, all’Ansaldo del 90% e alla Fincantieri del 95%. Il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino, che, come il presidente della Campania Antonio Bassolino e quello della Provincia Dino Di Palma, ha partecipato camminando con il corteo per un tratto di strada, ha abbracciato Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti ringraziandoli per le iniziative messe in campo per la città.
«La battaglia per la legalità unisce - ha detto il numero uno della Cgil - non può essere come pensa qualche politico del Nord che è qualcosa che deve dividere dal resto del Paese. La dimostrazione è oggi qui, in questa manifestazione che ci vede tutti uniti».
Formazione, scuola, ricerca, università: sono questi per Epifani «i terreni essenziali per combattere la criminalità organizzata». Poi un messaggio dal segretario della Cgil al Governo: «Dopo la Finanziaria si ricominci da qui, dal lavoro, dagli investimenti, dal Mezzogiorno».
Appello alle istituzioni anche da Luigi Angeletti: «Ci siamo stufati, vogliamo vedere i fatti - dice con fermezza il numero uno della Uil a proposito del piano della sicurezza promosso dal governo lo scorso novembre, uno strumento voluto dal ministro degli Interni Giuliano Amato per contrastare la situazione di emergenza che, con una escalation di violenza, ha colpito Napoli dall’inizio dell’autunno- Probabilmente il piano sicurezza è un buon piano ma bisogna andare oltre. Abbiamo diritto di vedere che le cose stanno cambiando».
«Amato ha fatto molto bene, ha ragione quando dice che i camorristi fanno schifo» sono state le parole di Bassolino al momento di prendere parte al corteo. Secondo il presidente della Regione è importante avere fatti simbolici, ma soprattutto «bisogna essere inflessibili e implacabili contro i santuari della camorra». Per il governatore «questa dimostrazione dimostra che stiamo reagendo, che si combatte e che lo si fa in modo giusto, e che il mondo del lavoro e della democrazia sono più forti della camorra e della criminalità organizzata».
* l’Unità, Pubblicato il: 15.12.06, Modificato il: 15.12.06 alle ore 19.23
NAPOLITANO: ’LASCIO NAPOLI CON PIU’ SPERANZA E FIDUCIA’ *
NAPOLI - Giorgio Napolitano ha concluso la visita a Napoli alla Università Federico II assistendo alla cerimonia di inaugurazione dell’ Anno Accademico. Congedandosi ha fatto con i giornalisti un bilancio di questi quattro giorni dicendo che riparte con "motivi rafforzarti di speranza e di fiducia" nelle possibilità della città. Ha anche confermato l’ impegno suo e di tutte le istituzioni per risolvere i gravi problemi del capoluogo partenopeo. "Ringrazio tutti i napoletani - ha detto il presidente della Repubblica - che mi hanno accolto così affettuosamente in questi giorni. Da questa esperienza e dalle iniziative con le quali sono entrato in contatto traggo motivi rafforzati di speranza e di fiducia e naturalmente anche di impegno per quanto riguarda me stesso ed anche il complesso delle istituzioni".
Anche la signora Clio ha manifestato entusiasmo dichiarandosi "emozionata" da queste giornate e non ha escluso di trascorrere il prossimo Capodanno a Napoli. Il bilancio del soggiorno partenopeo per la moglie del presidente della Repubblica Clio Napolitano è così positivo da lasciare aperta la possibilità di un Capodanno a Napoli. La coppia presidenziale lascia la Facoltà di Economia e commercio di Napoli e Clio commenta: "Questi quattro giorni sono stati molto emozionanti". A chi domanda a come ha trovato la Napoli bistrattata dai media, la signora risponde: "Quella che ho visto io ha soltanto molti aspetti positivi. Capisco però che per chi ci vive ci siano anche altri elementi". In conclusione, quindi, il Capodanno 2007 vedrà la coppia presidenziale di nuovo a Napoli? "Forse", risponde con un sorriso.
IERVOLINO, C’E’ CITTA’ CHE RISORGE CON FORZA
Adesso tocca a loro, alle amministrazioni locali, "realizzare di corsa" quanto reso possibile dall’esecutivo centrale e dalla presenza del Capo dello Stato a Napoli. Il sindaco Rosa Russo Iervolino è più che soddisfatta dei quattro giorni che Giorgio Napolitano ha trascorso nel capoluogo partenopeo. "Adesso dobbiamo andare di corsa, per cercare di realizzare le possibilità che ci sono state date", risponde a margine dell’inaugurazione dell’anno accademico 2006-2007 dell’ateneo Federico II. E mette tutto assieme: le parole di Riccardo Muti e il pallone d’oro a Fabio Cannavaro, le risorse per le scuole aperte e l’arresto del boss Mazzarella. I fondi ottenuti dal ministro Fioroni: "quando mai abbiamo avuto un po’ di risorse per aprire le scuole nel pomeriggio?" Il pallone d’oro che ha premiato Fabio Cannavaro, che potrebbe portarlo il 23 dicembre ai bambini di Forcella: dimostrazione che "un ragazzo di Napoli ce la può fare, e una volta che ce la fa, torna nella sua città". L’arresto del boss Mazzarella: "e nei prossimi giorni qualche altra cosa dalle forze dell’ordine". Il tutto nella cornice fornita dalla panoramica sulla Napoli positiva e competitiva che ha ricevuto in questi giorni Giorgio Napolitano. "C’é una Napoli che risorge con forza: se la gente é in buona fede dovrà registrarlo - ha detto lasciando la Facoltà di Economia della Federico II, dove oggi il capo dello Stato ha inaugurato l’anno accademico - mi riferisco a quelli che costruiscono certe trasmissioni televisive".
"Quattro giorni di esperienze positive", sintetizza. E poi elenca: il Cnr, e i ricercatori, il tavolo della legalità.Il Presidente ha visto già consolidate e quelle che stanno per consolidarsi, tutte realtà di speranza. E poi: l’omaggio che Riccardo Muti ha reso, ieri al teatro San Carlo, alla sua città: "Muti che ha ricordato di essere nato a Napoli, in via Cavallerizza a Chiaia al civico 14, e di incavolarsi quando si parla male della sua citta". Oggi, aggiunge il sindaco, ci sarà una riunione con il sovrintendente del teatro "per vedere se le scarse finanze del San Carlo ci permettono di averlo ancora una volta".
* ANSA » 2006-11-28 11:53
IL PRESIDENTE A NAPOLI
Terzo giorno di visita del capo dello Stato nella sua città natale Incontro al rione Sanità
Chiesa e Stato insieme per i giovani
Napolitano: comune missione educativa«Non bisogna mai perdere la speranza di recuperare chi ha preso una strada malsana e pericolosa»
Da Napoli Valeria Chianese (Avvenire, 28.11.2006)
Lo Stato e la Chiesa hanno «una comune missione educativa» e sono «chiamati a servire gli stessi valori di moralità e di eticità» soprattutto nelle situazioni sociali più difficili. Lo ha detto ieri Giorgio Napolitano durante la visita nel rione Sanità, culminata nella cerimonia svoltasi nella monumentale chiesa di Santa Maria in occasione dell’inaugurazione del primo sportello telematico. Lo avevano accolto le campane a festa e l’affetto della folla che innalzava come bandiere le magliette con la scritta Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli. «Negli anni si è perso qualcosa», ha detto il presidente della Repubblica durante la cerimonia e rivolgendosi in particolare al cardinale Crescenzio Sepe, al parroco don Antonio Loffredo e ai numerosi ragazzi e giovani che affollavano il santuario. «La morale del lavoro presupponeva che ci fosse il lavoro. La morale della solidarietà è effettivamente difficile se corre il sangue. Ma se vogliamo, dobbiamo e possiamo ritrovarla. La politica deve fare la sua parte per evitare che voi ragazzi dei quartieri siate costretti ad andare via o addirittura a perdervi».
Ha quindi risposto alle domande puntuali dei giovani che riguardavano, appunto, come fare a restare a Napoli, come ritrovare la speranza. Il capo dello Stato allora ha citato il racconto di una mamma il cui figlio di 16 anni aveva abbandonato la scuola e stava per perdersi. È stata la scuola a recuperarlo, aveva rivelato. «Queste storie ci dicono - ha commentato il presidente - che non bisogna mai perdere la speranza di recuperare chi ha preso una strada malsana e pericolosa». Purtroppo esiste anche il potere di suggestione sui giovani da parte di "bande spietate". Bisogna impegnarsi perché è un rischio grave se i modelli di comportamento della criminalità «cominciano a diffondersi tra ragazzi che nulla hanno a che fare con l’illegalità. La politica - ha aggiunto - ha le sue responsabilità e deve fare la sua parte. Questi sportelli telematici sono delle prime risposte. A ltre devono venire dagli Enti locali e dai cittadini attraverso le loro associazioni. Bisogna cercare di non fare andare via da Napoli chi ha studiato e si è formato qui e possibilmente di offrire delle occasioni per tornare a chi se n’è già andato».
Il presidente, nel suo terzo giorno di visita, era accompagnato dalla moglie signora Clio, dal ministro per l’Innovazione tecnologica, Luigi Nicolais, dal presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, dal presidente del Consiglio regionale, Sandra Lonardo, dal sindaco, Rosa Russo Iervolino, dal presidente della Provincia, Dino Di Palma. Ieri mattina in prefettura è stato firmato il protocollo d’intesa tra ministero dell’istruzione, Regione Campania ed enti locali, che permetterà a 70 scuole di restare aperte anche al pomeriggio, grazie a un finanziamento del governo di 4 milioni di euro che si andranno a sommare ai fondi messi a disposizione dalla Regione.
Il Presidente Napolitano ha voluto sottolineare come «la realtà napoletana è fatta anche di difficoltà, criticità e nodi da sciogliere, ma sarebbe assurdo, insensato per Napoli e per il Paese, suicida, mettere l’accento solo su quello che va corretto, su quello che non si è riuscito a risolvere». Il capo dello Stato, riferendosi poi ai giovani, ha sottolineato che «i progetti non vengono solo dalle istituzioni, si fanno anche dal basso. Bisogna saper valorizzare tutte queste realtà: i giovani, i precari e i ricercatori». Ha poi rivolto parole d’elogio ai docenti: «Ho sempre creduto che gli insegnanti, a partire da quelli della scuola dell’obbligo, siano una delle più grandi energie istituzionali. Oggi hanno un compito educativo fondamentale, soprattutto a Napoli». E agli educatori ha ricordato: «Anche il problema che ci angoscia, ci assilla, della lotta alla criminalità, che è sicuramente di spettanza dello Stato e delle Forze dell’ordine, ha un carattere sociale e culturale. Deve crescere l’accoglienza civile, l’adesione ai valori della legalità, ai valori morali e della Costituzione a cui tutti devono collaborare».
NAPOLITANO: POLITICA OPERI PER EVITARE CHE RAGAZZI SI PERDANO
"La politica deve fare la sua parte per evitare che voi ragazzi siate costretti ad andare via o a perdersi". Il monito viene dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che dialoga via internet, inaugurando il primo centro multimediale in una parrocchia di Napoli, con i ragazzi riuniti nella postazione del rione Salicelle ad Afragola. Napolitano, collegato con loro dalla parrocchia del popolare quartiere Sanita’ risponde alla domanda di Gaetano che gli ha raccontato come insieme ad altri li’ al rione Salicelle abbia deciso di rimanere "e di costruire qualcosa. E’ della politica il compito di darci una mano?", lo interroga. "Non dobbiamo mai perdere la speranza di recuperare anche chi ha preso una strada malsana e pericolosa", aggiunge Napolitano, facendo riferimento poi alle "bande spietate che imperversano sul nostro territorio". "Guai se si assumessero modelli e modi di comportamento della criminalita’ organizzata", sottolinea. "La politica ha le sue responsabilita’ - ribadisce - ma questi sono segni effettivi di impegno della politica", dice alludendo al progetto inaugurato. "Altri devono venire dalle istituzioni locali, regione, comune e provincia, e dalle realta’ associative dei cittadini che devono dare risposte". "Senza nulla togliere alle responsabilita’ della politica, il futuro e’ nelle vostre mani - conclude il Capo dello Stato rivolgendosi ai giovani - nelle vostre e nelle nostre mani. Non siamo due cose diverse; siamo insieme, giovani, Stato e Chiesa, nella stessa battaglia. E sono sicuro che questa battaglia anche in quartieri cosi’ difficili la vinceremo".
Napoli, 19:01. la Repubblica, 27.11.2006
Napolitano: "Stato e Chiesa una comune missione educativa"
NAPOLI - Lo Stato e la Chiesa hanno "una comune missione educativa" e sono "chiamati a servire gli stessi valori di moralità e di eticità", soprattutto nelle situazioni sociali più difficili. Lo ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Napoli, nella basilica di Santa Maria della Pietà, nel rione Sanità, dove ha preso la parola dopo il cardinal Crescenzio Sepe, vescovo di Napoli. Collegato in videoconferenza con i giovani della parrocchia di Salicelle, uno dei quartieri della città considerati "problematici", il capo dello Stato ha ribadito: "Il futuro è nelle vostre mani, nelle vostre e nelle nostre. Non siamo due cose differenti, i giovani, i ragazzi, e lo Stato e la Chiesa. Siamo impegnati nella stessa battaglia. E sono convinto che la vinceremo, anche in un quartiere in condizioni così difficili come il vostro".
(la Repubblica, 27-11-2006)
Visita di 4 giorni del capo dello Stato nel capoluogo campano. "Ho l’impressione che si stia trovando la via per alleggerire la situazione delle Fs"
Napolitano: "Mai perso la fiducia in Napoli. Ho dato la scossa, il governo si è mosso"
NAPOLI - "La mia fiducia nel destino di Napoli non è mai venuta meno", annuncia il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul treno ad alta velocità che, stamattina, lo ha portato a Napoli. Il capo dello Stato, che sarà per 4 giorni nella sua città, fa riferimento all’emergenza criminalità e dice: "Ho dato una scossa e il governo ha preso impegni".
"Non sto facendo l’elogio del governo - continua il Capo dello Stato rivolgendosi ad una platea di studenti e di insegnanti delle scuole di Bagnoli - ma registro la promessa rappresentata dall’impegno del ministro degli Interni a venire qui ogni mese".
Il presidente, però, pur non nascondendo "i punti critici che permangono" se la prende con chi vuole dare un’immagine negativa a senso unico della città: "Giornali e tv ne parlano poco e spesso danno una rappresentazione ingiusta e tendenziosa. Questa cosa ci ferisce. Reagiamo".
Davvero tanta la gente che ha accolto il capo dello Stato nella sua città natale e Napolitano ha salutato la folla che si era radunata ad attenderlo. I rappresentanti della sigla "Napoli è viva" gli hanno consegnato la maglia a lui dedicata con su scritto "Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli". Il capo dello Stato, poi, si è avvicinato alle transenne disposte dal servizio d’ordine e non ha deluso le aspettative di chi gli gridava "Napoli è viva, Napoli è con te".
Ferrovie. Napolitano, che era accompagnato dal presidente delle Fs Innocenzo Cipolletta, ha poi commentato la difficile crisi che stanno attraversando le Ferrovie: "Ho l’impressione che si stia obiettivamente trovando la via per alleggerire la situazione, altrimenti insostenibile".
Dissaporti con Bassolino. E a proposito dei presunti dissapori nel recente passato con il presidente campano Antonio Bassolino (dopo la dichiarazione del capo dello Stato su "i giorni peggiori che Napoli ricordi"), Napolitano ha replicato secco ai giornalisti: "Lo avete inventato tutto voi".
La protesta dei fotografi. Da registrare la protesta dei fotografi che hanno abbandonato Castel Capuano, prima tappa del viaggio presidenziale, lamentandosi di essere stati piazzati in un posto da dove era praticamente impossibile vedere e fotografare Napolitano.
Visita di 4 giorni del capo dello Stato nel capoluogo campano. "Ho l’impressione che si stia trovando la via per alleggerire la situazione delle Fs"
Napolitano: "Mai perso la fiducia in Napoli. La crisi delle Fs? In via di soluzione"
NAPOLI - "La mia fiducia nel destino di Napoli non è mai venuta meno", annuncia il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul treno ad alta velocità che lo ha portato a Napoli. Il capo dello Stato, che sarà per 4 giorni nella sua città, chiede di "fare leva" sulle risorse di cui la città dispone e sulle esperienze significative di governo locale.
Certo, la fiducia "non è mai stata separata dalla consapevolezza dei punti critici che permangono". E allora "è essenziale sapere fare leva sulle risorse importanti che esistono e sulle esperienze significative che si sono fatte nel governo della città e della Regione per trarne la forza di volontà e l’impegno operativo indispensabili al fine di risolvere i nodi che ancora ostacolano la vita civile e la crescita economica e sociale nella città".
Un bagno di accolto il capo dello Stato e Napolitano ha salutato la folla che si era radunata ad attenderlo. I rappresentanti della sigla "Napoli è viva" gli hanno consegnato la maglia a lui dedicata con su scritto "Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli". Il capo dello Stato, poi, si è avvicinato alle transenne disposte dal servizio d’ordine e non ha deluso le aspettative di chi gli gridava "Napoli è viva, Napoli è con te".
Napolitano, che era accompagnato dal presidente delle Fs Innocenzo Cipolletta, ha commentato la difficile crisi che stanno attraversando le Ferrovie: "Ho l’impressione che si stia obiettivamente trovando la via per alleggerire la situazione, altrimenti insostenibile".
E a proposito dei presunti dissapori nel recente passato con il presidente campano Antonio Bassolino (dopo la dichiarazione del capo dello Stato su "i giorni peggiori che Napoli ricordi"), Napolitano ha replicato secco ai giornalisti: "Lo avete inventato tutto voi".
Da registrare la protesta dei fotografi che hanno abbandonato Castel Capuano, prima tappa del viaggio presidenziale, lamentandosi di essere stati piazzati in un posto da dove era praticamente impossibile vedere e fotografare Napolitano.
T-shirt per l’arrivo di Napolitano: "La città è viva"
"Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli", questa la scritta sulle maglie dei rappresentanti dell’associazione "Napoli è viva" che raccoglie sei associazioni di volontariato. Dopo la manifestazione di piazza Carità dove hanno distribuito delle t-shirt con su scritto "Napoli è viva ed io la difendo", i volontari di alcune associazioni napoletane si sono presentati alla stazione di Piazza Garibaldi per salutare il presidente Napolitano al suo arrivo e consegnargli la maglia a lui dedicata
Napolitano in visita a Napoli: «Mai persa la fiducia nella citta»
Il Presidente della Repubblica interviene anche sulla crisi delle ferrovie: «Una soluzione è vicina»
NAPOLI - Una soluzione per la crisi delle Ferrovie dello Stato è vicina. Ne è convinto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che, parlando con i vertici delle FS, il presidente Innocenzo Cipolletta e l’amministratore delegato Mauro Moretti, a bordo del treno Eurostar ad alta velocità che lo ha condotto da Roma a Napoli, dove oggi inizia la sua visita di quattro giorni, ha affermato che si sta trovando una soluzione per «alleggerire la situazione altrimenti insostenibile del gruppo Ferrovie dello Stato». Napolitano che, per la terza volta nello spazio di pochi mesi dall’inizio del suo settennato, ha scelto il treno per raggiungere una città italiana, ha spiegato che «in questi giorni si è discusso molto delle condizioni finanziarie delle Ferrovie dello Stato e - sottolinea - abbiamo letto anche recenti interventi del presidente Cipolletta giustamente preoccupato. Io ho l’impressione - ha rilanciato il capo dello Stato - che si sta obiettivamente trovando la via per alleggerire la situazione altrimenti insostenibile del gruppo Ferrovie dello Stato. Mi auguro che di qui a poco il presidente Cipolletta possa fare una nuova intervista più rassicurante».
Napolitano ha quindi lodato il «particolare sforzo» che le Ferrovie dello Stato stanno facendo per dotare le regioni del Mezzogiorno d’Italia di un sistema infrastrutturale funzionante. Uno sforzo che «ha davvero un valore strategico per il Mezzogiorno e per Napoli» e per lo sviluppo del Sud del Paese.
Il Capo dello Stato si è soffermato poi su Napoli mostrando ottimismo sul futuro della città, che sta attraversando una difficile emergenza criminale, ma anche ambientale e sociale: «La fiducia non è mai venuta meno, la fiducia nel destino di Napoli, nel suo futuro, nella sua capacità di sviluppo». Napolitano ha spiegato che la sua è una fiducia ragionata e non un ottimismo di maniera perché «in me questa fiducia non è mai stata separata dalla consapevolezza dai punti critici che permangono». Ma «l’essenziale - ha proseguito - è saper fare leva sulle risorse importanti che esistono e sulle esperienze significative che si sono fatte nel governo della città e della regione per trarne la forza di volontà e l’impegno operativo indispensabili al fine di risolvere i nodi che ancora ostacolano la vita civile e la crescita economica e sociale di Napoli».
* La Stampa, 25.11.2006
L’intervento del cardinale Sepe
«Facciamo emergere la speranza, rimbocchiamoci le maniche»
«Coraggio, resta poco della notte». È questo l’incoraggiamento dell’arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe, in un messaggio agli Stati generali dell’antimafia, organizzati da "Libera", l’associazione presieduta da don Luigi Ciotti. A Napoli e nei territori segnati dalla presenza della malavita, «nel buio della notte è necessario far emergere la forza della speranza», afferma il cardinale, evocando «la forza del potere dei segni» che può ergersi contro «la logica dei segni del potere». Essi sono infatti «un modo concreto ed evangelico per ridonare la piena giustizia, la speranza di riuscire in questa lotta contro il male».
Nel messaggio, Sepe esorta i credenti a collaborare «mano nella mano, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà». «Di fronte a questa notte - scrive - dobbiamo sentirci come la sentinella che aspetta l’aurora con animo fiducioso: potremo dire a noi stessi e perfino ai carnefici di avere coraggio perché resta poco della notte. Un messaggio di speranza che ci sollecita a denunc iare inerzie e ritardi e a rimboccarci le maniche perché la mafia non va soltanto combattuta: deve essere sconfitta».
Commentando la lettera del cardinale Sepe, don Ciotti ha sottolineato il punto in cui «sollecita ad essere ancora più vicini alle vittime ma nello stesso tempo a denunciare inerzie e ritardi e a rimboccarci le maniche perché la mafia non va soltanto combattuta: deve essere sconfitta».
Sul convegno di "LIBERA", cfr, sul sito, "CONTROMAFIE": GLI STATI GENERALI
Papa: "No alla corruzione e ai guadagni disonesti" *
ROMA - "Maria ci dia il coraggio di dire no alla corruzione, ai guadagni disonesti, all’egoismo e alla violenza". E’ questa l’invocazione alla Vergine rivolta questo pomeriggio da Benedetto XVI davanti alla colonna della Madonna in Piazza di Spagna a Roma dove si è svolta come ogni anno la celebrazione per l’Immacolata concezione.
Il Papa implora i cristiani a dire "no agli inganni del potere, del denaro, del piacere; ai guadagni disonesti, alla corruzione e all’ipocrisia, all’egoismo e alla violenza". Dicendo ’’’no al Maligno, principe ingannatore di questo mondo" e ’’’si" a Cristo, che distrugge la potenza del male con l’onnipotenza del bene", spiega Benedetto XVI, si può "costruire un futuro migliore per tutti".
Il Papa ha nuovamente citato Dante, come aveva fatto durante l’Angelus di questa mattina, sempre il XXXIII canto del Paradiso, per rivolgersi a Maria come "di speranza fontana vivace" "per noi mortali".
*(la Repubblica, 08-12-2006)
Caro Cardinale Sepe ... presto, presto!!! Altrimenti va tutto a fuoco, e non nel senso che Lei e tutte le persone di buona volontà desiderano!!! Federico La Sala
PARROCO ARRESTATO A NAPOLI, ACCUSATO DI ABUSI SU UNA BAMBINA *
NAPOLI - L’ex parroco sessantenne di una chiesa di Pianura, quartiere alla periferia occidentale di Napoli, è stato arrestato dai carabinieri per presunti abusi sessuali su una ragazzina di 10 anni. Nei suoi confronti è stata emessa una ordinanza di custodia agli arresti domiciliari su richiesta della procura di Napoli. I militari lo hanno rintracciato a Grottole, comune in provincia di Matera, dove il sacerdote era andato a trovare i familiari, e lo hanno condotto agli arresti nella sua abitazione napoletana.
Secondo quanto emerso dalle indagini, coordinate dal procuratore aggiunto di Napoli Alessandro Pennasilico, gli abusi sarebbero avvenuti "con frequenza quotidiana" nella sacrestia dove il sacerdote, secondo l’accusa, palpeggiava la ragazzina. Il sacerdote era stato già condannato per reati di violenza sessuale avvenuti in Sicilia nel 1995 quando il sacerdote era direttore di un istituto di assistenza. Nell’istituto siciliano avrebbe avuto rapporti sessuali con una donna ricoverata per problemi di salute mentale.
L’indagine è stata avviata il 19 settembre scorso quando nella caserma dei carabinieri di Pianura si recarono i genitori della ragazzina per presentare denuncia dopo che la figlia aveva confidato in famiglia i presunti abusi. La notizia dell’arresto di un parroco con l’accusa di pedofilia è stato accolto con profondo dolore e amarezza da monsignor Gennaro Pascarella, vescovo di Pozzuoli, la diocesi nel cui territorio ricade il quartiere partenopeo di Pianura. Nessun commento ufficiale della curia di Pozzuoli, che mantiene sulla vicenda uno stretto riserbo. T.T.A., il sacerdote al centro dell’inchiesta, era già stato trasferito ad altro incarico e in un’altra diocesi da un paio di settimane.
L’ex parroco apparterebbe all’ordine religioso dei Vocazionisti, congregazione fondata da don Giustino Russolillo, per il quale è in corso il processo di canonizzazione. A Pianura si trova la casa madre dei Vocazionisti. Il superiore della casa, don Giacomo Caprara, ha detto di "non aver nulla da dire" sull’episodio. L’arresto ha fatto scattare la sospensione del religioso dall’ufficio di parroco. Per ulteriori provvedimenti da parte dell’autorità ecclesiale si attendono gli sviluppi dell’inchiesta della magistratura.
* ANSA » 2006-11-16 16:59
Sulla cecità e la follia che ispira il Vaticano a riguardo, cfr., sul sito, la nota sul TRADIMENTO STRUTTURALE DELLA FIDUCIA E DEL MESSAGGIO EVANGELICO!!! e sul MESSAGGIO EVANGELICO
NON INSEGNATE AI BAMBINI
di Giorgio Gaber
Non insegnate ai bambini
non insegnate la vostra morale
è così stanca e malata
potrebbe far male
forse una grave imprudenza
è lasciarli in balia
di una falsa coscienza.
Non elogiate il pensiero
che è sempre più raro
non indicate per loro
una via conosciuta
ma se proprio volete
insegnate soltanto la magia della vita.
Giro giro tondo cambia il mondo.
Non insegnate ai bambini
non divulgate illusioni sociali
non gli riempite il futuro
di vecchi ideali
l’ unica cosa sicura
è tenerli lontano
dalla nostra cultura.
Non esaltate il talento
che è sempre più spento
non li avviate al bel canto,
al teatro alla danza
ma se proprio volete
raccontategli il sogno di
un’ antica speranza.
Non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi
il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all’ amore
il resto è niente.
Giro giro tondo cambia il mondo
giro giro tondo cambia il mondo.
Criminalità a Napoli
Omelia del cardinale Crescenzio Sepe arcivescovo di Napoli
Veglia di preghiera in cattedrale 07 novembre 2006 *
“Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io ve la do. Non sia turbato il cuore e non si abbatti” (Gv. 14,27).
Cari fratelli e sorelle,
siamo riuniti questa sera nella nostra Chiesa Cattedrale per pregare il Dio della pace, perché conceda a questa nostra amata e martoriata Diocesi la vera pace, la Sua pace, che non è quella del mondo, fatta di violenza, soprusi e criminalità. Per tutti noi, sono giorni di grande sofferenza e di forti tensioni. Come già in passato, noi Napoletani, credenti in Cristo, ci riuniamo per pregare, certi che il Signore, soprattutto in questo momento difficile e drammatico, non ci ha voltato le spalle, ma sta in mezzo a noi e ascolta il nostro grido di angoscia e di dolore, pronto a chinarsi sulle nostre ferite per guarirci e infonderci speranza. La recrudescenza della violenza, che infanga le nostre strade e abbruttisce il volto bello delle nostre città, non può e non deve lasciarci indifferenti, ma indurci a gridare il nostro NO contro tutto ciò che offende Dio e opprime la dignità dell’uomo.
Di fronte al male e al peccato, noi credenti in Gesù Cristo, abbiamo l’arma della preghiera che riesce a sconfiggere qualsiasi tracotanza o mentalità perversa, fondati sulla certezza che il Signore della storia e degli uomini ha vinto il mondo morendo e risuscitando per offrire a tutti il suo perdono e la sua salvezza.
Col Battesimo, siamo diventati nuove creature e siamo stati rivestiti da Cristo con l’elmo della fede, la corazza della speranza e la spada della carità.
Con queste armi, vogliamo combattere la buona battaglia contro chi vuole soffocare le leggi dell’amore e della pacifica convivenza, contro chi scandalizza i nostri bambini, i nostri giovani, le nostre famiglie, causando violenza e morte. Il nostro Maestro ce l’ha raccomandato esplicitamente, senza ipocrisia e senza mezzi termini quando ci ha invitati a diffondere il Suo regno di giustizia e di pace: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49).
Certamente quello che sta accadendo nelle nostre città, questa esplosione di violenza e di morte, organizzata o meno che sia, ci interpella tutti: istituzioni civili, Chiesa e tutti i cittadini di buona volontà.
Ben vengano, perciò, progetti a breve e lungo termine che siano capaci di estirpare efficacemente e radicalmente i mali profondi che deturpano la bellezza materiale, morale e religiosa del nostro popolo.
Ma ognuno di noi, soprattutto se cristiano, deve assumersi le proprie responsabilità senza delegare ad altri la soluzione di ogni problema. Dobbiamo confessare che forse anche noi, invece di testimoniare la carità e la speranza contro le tante forme di sfiducia e di disfattismo, di apatia, di indolenza o, peggio ancora, di omertà, ci siamo resi colpevoli di quel peccato sociale non opponendoci con coerenza e determinazione, a quella cattiva condotta civile che hanno fatto del furto, dello strozzinaggio, della violazione delle regole del vivere onesto e civile quasi una mentalità che giustifica i propri atteggiamenti illegali con l’alibi che “così fan tutti”. Tutti dobbiamo rispettare le regole, comprese le istituzioni, le quali sono tenute ad esigere che esse siano osservate da tutti i cittadini. Ma non si può parlare di Napoli senza parlare dei giovani.
Voi, carissimi, venite indicati - e lo siete davvero - come il futuro della città. Oggi siete chiamati ad essere qualcosa in più. Vi si chiede di essere anche il presente, l’oggi, la realtà più viva di una città che dovete sentire vostra più che mai, ora che ha più bisogno del vostro amore, delle vostre energie e del sano orgoglio di sentirvi napoletani, cittadini di una comunità che, pur nei momenti più drammatici, ha saputo mettere mano alla propria storia e costruirla grande, e degna di essere vissuta e ammirata.
In una parola, carissimi giovani, siete chiamati, non solo a rappresentare ma ad essere il volto autentico di Napoli. Non è questione di immagine: sappiamo bene che, come il volto della città - oggi sfigurato dalla violenza e dalla sopraffazione - anche le vostre facce sono rattristate dai sorrisi che mancano o sono spenti. Non può che essere così perché voi vivete appieno la vita della città e, insieme alle gioie, ne assorbite anche i veleni. Come e più di Napoli voi siete le vittime di una violenza sempre più cupa che cerca disperatamente di portare sfregio non solo ai volti, ma all’anima della città e dei suoi giovani. Se siamo qui è per affermare, e gridare a voce alta, che le forze del male - la camorra, il , la malavita organizzata e no, i cultori, grandi e piccoli, dei soprusi quotidiani- troveranno il passo sbarrato.
Davanti alla vostra generosità e ai vostri impegni abbiamo il dovere di dare ragione della nostra speranza. La Chiesa di Napoli vi parla dall’altare, perché è nella casa del Signore che sperimentiamo anche visibilmente la vicinanza alla fonte di ogni nostra speranza, il Cristo redentore e salvatore del mondo.
Dall’altare si parla innanzitutto ai cuori. E le parole che oggi pronunciamo, i propositi che ci scambiamo, non possono restare circoscritti in questa nostra assemblea di preghiera.
La comunità si estende anche fuori, nelle strade, nella case, e in tutti i luoghi dove Napoli opera e vive. Della comunità fanno parte - a loro modo, tradendola dal di dentro- anche gli uomini dediti alla violenza. Anche ad essi deve arrivare il soffio, il calore di questa nostra preghiera - perché nessuno è mai perduto alla causa di Dio. Ma niente potrà attutire il grido di un’umana condanna che sentiamo di pronunciare con la forza e la solennità che vengono da questo stesso luogo, accanto a un altare dove si esercita il servizio di amore e di salvezza per i fratelli.
La condanna che la Chiesa di Napoli esprime contro ogni forma di violenza e di malaffare è senza limite, come è senza limite la sua capacità di amare. E’ per questo che non daremo tregua, con la parola, con la denuncia, con il contrasto delle opere, a chi attenta, con la violenza e il malaffare, alla speranza e al futuro della città.
Quel «Mai più la violenza » pronunciato da Giovanni Paolo II a Scampia, sarà il marchio a fuoco del nostro impegno. E continueremo, come Chiesa, con l’apporto dei nostri sacerdoti, a percorrere la città passo per passo per esserle più accanto e per capire meglio i suoi bisogni, pronti a colmare anche i nostri ritardi.
Non daremo tregua, insomma, neppure alla nostra capacità di amare, consapevoli che Napoli - la sua storia e la sua gente - ha diritto a un impegno alto e totale. E’ questo che si chiede oggi, in vista di un autentico riscatto morale e sociale; e per questo, a partire da me, suo Pastore, siamo oggi convocati.
Cari fratelli e sorelle,
come vorrei che, da questa sera, quel fuoco che Cristo è venuto a portare sulla terra accendesse i nostri cuori! Come vorrei che questa città, dalla storia martoriata, ritrovasse nell’unità del suo popolo, nell’unità di noi cristiani, dei credenti e non credenti, la forza di reagire, di essere messaggera di pace e di giustizia, sentinella nella notte, in attesa del nuovo giorno! La vostra presenza qui, questa sera, in questa accorata veglia di preghiera, mi conforta e mi lascia sperare che siamo pronti ad alzarci e ad andare per le nostre città, le nostre piazze, i nostri quartieri, i nostri vicoli per gridare a tutti l’amore e la pace di Cristo.
Signore Gesù, ti preghiamo di ascoltare questo grido di dolore e di speranza perché sia restituita alla nostra città e a tutti gli abitanti di questa provincia e regione, quella dignità e bellezza che tu ci hai donato. Ai tuoi piedi, rinnoviamo l’impegno di fedeltà al messaggio perenne del tuo vangelo:
mai più offese contro i nostri fratelli,
mai più ricorsi alla logica della violenza,
mai più discriminazioni, esclusioni o oppressioni,
mai più disprezzo del povero e dell’abbandonato.
A tutti vogliamo annunziare la Buona Novella della civiltà dell’amore!
Ci accompagnino in questo cammino la Madonna Santa, Regina di Napoli, e il Santo Martire, nostro protettore, Gennaro. E Tu, Signore, morto e risorto per noi, donaci la grazia di portare a compimento questi propositi, perché possiamo vivere giorni di pace, di giustizia e di prosperità. Amen!
www.ildialogo.org, Mercoledì, 15 novembre 2006
Caro Cardinale Sepe, me lo consenta, "sapere aude!": mediti sulla lezione antropologica, nea-politana!!!, di ’CIENT’ANNE’ di Mario Merola e di Gigi D’Alessio - è una "santa" e buona-indicazione !!! (13.11.2006) M. cordiali saluti, Federico La Sala
Volto unico e leader di una citta’ ed una cultura, tanto calda quanto spaesata, la figura di Mario Merola restera’ scolpita nella memoria del popolo italiano come simbolo della cultura musicale partenopea, della sceneggiata, e di una tradizione artistica molto apprezzata anche all’estero.
Un pellegrinaggio e un affetto senza limiti di eta’ ha accompagnato lo spirare di questa grande icona, piu’ volte al confine tra il mito e la realta’.
Sempre in prima fila, subito accorso all’ospedale alla notizia della sua malattia, Gigi D’Alessio, ’leggittimo figlio d’arte’ di Merola. D’Alessio viene infatti lanciato alla ribalta dal maestro grazie al brano interpretato da entrambi, ’Cient’anne’: un successo strepitoso che segna il passaggio del giovane Gigi dal “dietro le quinte” alla platea nella veste di cantautore.
“Cient’anne”
MARIO MEROLA
stasera t’aggia ricere na cosa
ca tanto tiempo te vuleve di
a ’napule aggiu fatte tutt’e cose
si ’marrapuose
nun a fa suffrì
miettele sempre rint’a na canzona
comme pe cinquant’anne aggie fatt’ ì
e quan’ ’ncontra a chi ne parle male
cantale sta canzona e po capi’
si ’o vere me prumiett’e fa sti cose’
pe nat’ e cinquantann’e a fai campa’
GIGI D’ALESSIO
No, senz’e te
fernesce Napule
sultante tu ta sai difennere
si sulu tu
si pari e sta citta’
stann’ emigranne a t’aspetta’
pe sunna’
no
sient’a me
nu po’ mai nascere
niscune te puo’ assumiglia’
l’e’ ritte sempe
Napule e mamma
ma ce vuo tu
pecche’ tu si papa’
MARIO MEROLA
si e vote pe fatiche mai luntane
n’a cartuline appriesso ti a purta
te serve spicialmente rind’a nuttata
quanne te siente sulo e vuo’ turna
fanne tesore e tutte sti cunsigli
pecche’ niscune mai
l’a rata ’mme
lasse pavata assai na cartuline
quann’ in da nebbia a forza era canta’
guaglio’
si o vere me prumiette e fa sti cose
pe nate e cinquant’anne a fai canta’
GIGI D’ALESSIO
No, senz’e te
fernesce Napule
sultante tu ta sai difennere
si sulu tu
si pari e sta citta’
stann’ emigranne a t’aspetta’
pe sunna’
no
sient’a me
nu po’ mai nascere
niscune te puo’ assumiglia’
l’e’ ritte sempe
napule e mamma
ma ce vuo tu
pecche’ tu si papa’
guaglione nun t’ho scurda’
quanne vai pe fore
na cartulina te li ’a purta’
rint’a nuttata
te viene a nostalgia vuo turna
nun t’o scurda’
mo puo’ parti va va.....
cient’anne..... cient’anne....cient’anne.
A immortalare inoltre il passaggio di testimone fra i due, la pellicola intitolata ’Cient’anne’, commedia di Nini’ Grassia in cui Merola, che interpreta se stesso, e’ il padre adottivo di D’Alessio. Nel cast anche Giorgio Mastrota: ’Merola a Napoli e’ trattato come un papa - ha detto l’attore milanese - ’quando cammina per le strade del centro gli chiedono di benedire i bambini’.
Cient’anne (1999)
Un film di Nini Grassia. Con George Hilton, Gigi D’Alessio, Mario Merola, Giorgio Mastrota, Cristina Parovel, Alessandra Monti, Angelo Maresca. Genere Drammatico, colore, 110 minuti. Produzione Italia 1999.
* ANSA » 2006-11-13 12:05
L’ADDIO ALL’ARTISTA L’intera città si stringerà stamane attorno al cantante e attore padre della sceneggiata, morto domenica sera dopo sei giorni di agonia, per l’ultimo saluto nella chiesa del Carmine Maggiore
Napoli piange l’amico Merola
di Virgilio Celletti (Avvenire, 14.11.2006)
Tutta Napoli darà l’ultimo addio questa mattina alle 11 a Mario Merola. La chiesa del Carmine Maggiore e la grande piazza Mercato saranno troppo piccole per la folla che lo piange da domenica sera, quando la morte ha chiuso nell’ospedale di Castellammare di Stabia un’agonia durata sei giorni. La chiesa è la stessa in cui 39 anni fa si svolsero i funerali di un altro grande napoletano, Totò. Ma la scelta è piuttosto da collegare al fatto che della Madonna a cui è dedicata, Merola era particolarmente devoto. E qui, dove la sua salma è esposta, ieri c’è stato un incessante afflusso di gente, aperto dalla visita del sindaco Rosa Russo Iervolino.
Tutti attorno alla vedova Rosetta e ai figli. Questa partecipazione massiccia (il traffico a Napoli ieri è andato in tilt, persino sulle tangenziali) è la dimostrazione di quanto Merola fosse un personaggio. Lui, che il successo l’aveva ottenuto quasi per caso, quando aveva già superato i trent’anni. Di origini umili, aveva trascorso la giovinezza secondo l’arte di arrangiarsi, ma senza mai infrangere il diaframma che separa l’onestà da tutto il resto, ignorando gli ambienti che saranno solo il contesto delle sue "sceneggiate". Aveva fatto i mestieri più disparati per sopravvivere, coniugando alla lettera il verbo lavorare che nel dialetto partenopeo si traduce con faticà: dall’aiutante cuoco allo scaricatore di porto.
Nessuno si sarebbe azzardato ad usare per lui il termine artista, eppure è diventato un numero uno. Oggi nessuno può negare a Merola la definizione di artista, sia pure di quella particolarissima forma d’arte che è la sceneggiata: un unicum a cui Merola arriva quasi interpretando la propria vita; e un genere che fonde la tradizione popolare con una forte dose di melodramma, e dove la componente sentimentale delle vicende narrate (e delle canzoni) si unisce a un pesante fatalismo e persino alle impennate della malavita.
Sceneggiata che Merola è riuscito a portare anche al cinema con p ellicole come L’ultimo guappo, Da Corleone a Brooklyn, Carcerato, Guapparia e, soprattutto, Zappatore. Con Merola il genere esce dallo stretto ambito degli appassionati e si afferma anche nel continente americano, soprattutto in Usa, patria di tanti italiani, tanto che ieri i maggiori giornali italiani del Nord America (America Oggi e il Corriere Canadese) sono usciti listati a lutto per la sua morte.
L’emergenza criminalità aveva colpito al cuore in questi giorni Merola. «Adesso - aveva detto - voglio rappresentare soltanto la Napoli del dolore, di chi esce ogni mattina per guadagnarsi la giornata, della mamma che si mette tra il figlio e il proiettile del delinquente che spara a un altro come lui; la Napoli dei lavoratori, che soffrono veramente».
"PER UN FUTURO OLTRE QUESTA NOTTE"
Nelle Voci di dentro di Eduardo De Filippo qualcuno ha "ucciso il sonno" [...] Soltanto un personaggio conosce sonni tranquilli, se non felici [...] Gli altri personaggi [...] non dormono: o dormono male, con sonni brevi, interrotti, spezzati [... ] e la mattina si svegliano colle ossa rotte e le membra sudate. Mentre dormono, i sogni li assaltano: l’immenso mondo infero guarda il nostro mondo, lo spia, lo ascolta, si insinua dentro di esso e lo aggredisce con violenza. [...] Quando non invia i sogni, il mondo infero manda in terra i morti ammazzati". Così scrive, con la sua solita grande sensibilità e intelligenza, Pietro Citati, oggi (15.11.2006), sulla Repubblica (pp. 54-55), nel commentare (UNA NAPOLI CHE SEMBRA PIETROBURGO)la commedia di Edoardo, messa in scena da Luca De Filippo.
Nella stessa Repubblica, di oggi e a partire dalla prima pagina, c’è un articolo (qui sotto riportato) di Giuseppe D’Avanzo, sui funerali di Mario Merola, che esprime opinioni - a mio parere - ovvie e convincenti, ma che - sempre a mio parere, e a ben vedere - alquanto sfocate rispetto all’evento stesso. Mi sembra che dica solo mezze verità (per di più del passato) e finisca per non cogliere quanto di anomalo e tuttavia di possibile-nuovo c’ è stato e c’ è nel fatto che il "re della sceneggiata" abbia potuto e saputo portare il suo spettacolo nel "centro" di Napoli e abbia "invitato" a prendervi parte gli stessi Attori (al di là delle loro "debolezze") delle Istituzioni democratiche , manca proprio la sensibilità e l’intelligenza (culturale e politica) per capire la complessa realtà napoletana ... e nea-politana. Nella "rappresentazione malinconica della finis Neapoli" non tutto era morto .... alla fine - come scrive Citati ne lsuo articolo - la scena è stata "illuminata" dai bengala verdi del sogno".
In breve. NAPOLI SIAMO NOI .... QUESTO "OCCORRE CAPIRE", SE VOGLIAMO CAPIRE PERCHE’ MEROLA e’ DIVENTAto UN EROE. Se NON ABBIAMO ANCORA CAPITO IL FASCISMO E IL BERLUSCONISMO (abbiamo ancora in giro un partito che si chiama "forza Italia", con tutti i suoi ben noti "alleati"), e TUTTI SIAMO ANCORA SUCCUBI DELLA CULTURA DI "MAMMASANTISSIMA", e, ancora, NON SAPPIAMO PIU’ ne’ dormire ne’ SOGNARE, E’ chiaro ... che alla fine sappiamo solo SPARARE - NEL BUIO - CONTRO noi stessi"!!! Boh e bah!
Federico La Sala
Se Merola diventa un eroe
Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 15.11.2006)
Se c’era bisogno (e non ce n’era bisogno) di una rappresentazione malinconica della finis Neapolis, la città ha inflitto a se stessa anche un’ultima desolante scena con i funerali di Mario Merola. Decine di migliaia di persone teatralmente dolenti in piazza del Carmine, palloncini sospesi in aria con fili viola a precedere il feretro, lacrime, grida, canti, gorgheggi improvvisati, ressa, cantanti, calciatori, emigranti fasulli, impostori sperimentati, "zappatori" improbabili, il ricordo dell’ultimo chemin de fer di un tale chiamato "Saint Vincent" (e sabot sistemato sulla bara).
E alla fine, per non far mancare nulla all’indimenticabile occasione storica, fuochi d’artificio come a Piedigrotta nell’illusione collettiva e tragica che questa recita, la contemplazione soddisfatta di se stessi, possa ancora incantare qualcuno dentro e fuori la città. Come se questa rappresentazione di napoletaneria potesse produrre qualcosa di diverso dalla stanchezza, lo sconforto, la vergogna. Mario Merola, con tutta l’indecorosa ammuina, non c’entra nulla. Dicono fosse un uomo buono. Con chi ne aveva bisogno, generoso di sé e delle proprie ricchezze. Pace trovi, ora, e riposo: avrebbe meritato più rispetto e silenzio nell’ora dell’addio. La Napoli plebea e ormai culturalmente egemone si è come aggrappata alle sue spoglie per trovare ragione di se stessa, una nobiltà nella miseria dell’oggi, un’identità forte nella battaglia per il domani, la volontà di ripetere ancora in faccia a tutto il mondo e a tutti i napoletani spaventati: questa è Napoli e Napoli siamo noi.
Raffaele La Capria dice spesso che «sapere "dove si è" non è certo facile a Napoli». Da oggi, non è più legittimo pensarlo. Non è più possibile pensarlo. Sappiamo dov’è Napoli perché mai con tanta clamorosa visibilità le istituzioni cittadine, il ceto politico, gli intellettuali hanno accettato di riconoscere, inchinandosi, la maligna mutazione lazzara che distrugge Napoli, sotto gli occhi di tutti, nel silenzio impaurito di molti, nell’inerzia di troppi. Per accettare quest’atto di sottomissione, le élites cittadine hanno dovuto santificare Mario Merola, trasformarlo in un’icona culturale della città, del suo spirito morale e civico, del suo pensiero, delle sue attitudini, del suo stare nel mondo.
Si è assistito a una corsa patetica e trafelata alla retorica "monumentalizzazione" del cantante. «Merola è un grande punto di riferimento, un grande simbolo per Napoli e il Mezzogiorno» (Antonio Bassolino). «Il cantore della Napoli verace» (Clemente Mastella). «Un ambasciatore positivo della migliore tradizione popolare napoletana» (l’assessore alla cultura, Nicola Oddati, un Bassolino in erba e rampatissimo). Si è superata Rosa Russo Iervolino, la sindaca della città: «Merola era un prepotente buono. Dobbiamo recuperare la guapparia nella misura in cui è orgoglio».
Ci può essere un prepotente buono? E che cosa è un guappo? Che "cultura" era quella di Mario Merola? Quando sul finire della prima guerra mondiale fu scritta Guapparia (nello stesso periodo si celebrava a Viterbo il processo Cuocolo, il primo processo alla camorra), il guappo - sono parole di Domenico Rea - «era uno dei protagonisti principali della vita della città, uno dei più ambìti ideali femminili, il paladino plebeo, il giustiziere, circondato di omertà e di protezione, al di sopra della giustizia statale». Nelle sceneggiate, che lo hanno visto protagonista, Mario Merola «ha soltanto provato a giustificare i comportamenti delinquenziali con la necessità del sopravvivere, a fare intravedere una "morale" nell’uomo delinquente, una sua sostanziale bontà e un attaccamento alla famiglia e ai figli da difendere anche a costo di rompere e infrangere le regole sociali e dello Stato» (Isaia Sales, Le strade della violenza). Il guappo di Merola, che non si fa scrupolo di uccidere, di presentarsi al pubblico plaudente con le mani sporche di sangue, chiede comprensione se vive nell’illegalità, scava un solco tra l’illegalità e la criminalità. Sono gli stessi argomenti lamentosi e ipocriti che si raccolgono a Scampia, Melito, Secondigliano. Spacciare droga non è "criminale", dicono tante sante madri di Napoli che adorano i figli piezz’e core, è soltanto un modo per andare avanti. Illegale sì, ma ci dobbiamo arrangiare.
Può essere l’illegalità tenuta al riparo dalla criminalità? Può essere l’illegalità un valore culturale da esibire, evocare, esaltare nella Napoli violenta di oggi? Può avere un qualche senso sventolare il vessillo di una sceneggiata che racconta come sia sempre la donna, femmina pittata e traditrice, a mettere l’uomo nei pasticci, a costringerlo a ucciderla per salvare il proprio onore, il valore supremo della comunità del vicolo? Non è che Mario Merola, pace all’anima sua, non aderisse a questo armamentario sottoculturale. Nella sua biografia «Napoli solo andata... il mio lungo viaggio», spiega che «l’uomo può sbagliare, si può prendere una sbandata, ma poi deve tornare in famiglia. Diverso, quando a sbagliare è la donna. No, non lo accetto. Se sbaglia una donna è finita. Nella mia comportazione, e in quella di tutto il popolo che conosco e frequento, ‘a femmina che sbaglia ha due scelte: o se ne va o vene accisa o perlomeno sfriggiata (sfregiata)».
Indignarsi per il triste spettacolo offerto dalle élites napoletane, con le loro parole o con la loro imbarazzata indifferenza, è a buon mercato e serve a poco. Occorre capire. È necessario che soprattutto capiscano i napoletani come quel ceto politico, quelle istituzioni pubbliche cittadine siano ormai - per cinismo, per opportunismo, per viltà, per timore - "conquistate", colonizzate, incapaci di comprendere (e quindi giudicare) il passato, inabili anche soltanto a immaginarlo, un futuro oltre questa notte.
Napoli, Amato scopre l’evasione dall’obbligo scolastico
E intanto Castellammare di Stabia acquista 2.100 copie del libro Gomorra di Saviano da donare agli istituti di scuola superiore della città, dove saranno attivati laboratori didattici sul testo
di Antonella Palermo (Liberazione, 15.11.2006)
Napoli nostro servizio- La Calabria come Napoli. Un patto per la Calabria sicura come il Patto per Napoli Sicura. E’ l’idea che si esporta fuori regione. Ma come va all’ombra del Vesuvio a dieci giorni dalla firma del Patto? L’80% delle misure contenute nel patto per la sicurezza avrà un’immediata attuazione, mentre, il restante 20% sarà «cadenzato nel tempo», assicura il viceministro all’Interno, Marco Minniti, nel corso di una audizione alla Commissione Affari costituzionali della Camera.
Così la cronaca della giornata di ieri racconta subito di un omicidio mancato e di diversi arresti. I carabinieri della Compagnia Napoli Centro hanno fermato per tentato omicidio, Gaetano Russo, 33 anni, ritenuto a capo dell’omonimo clan camorristico operante nei quartieri Spagnoli e un affiliato al clan, Vincenzo Melotti, 38 anni, dopo una sparatoria in pieno centro. Sullo sfondo, come sempre, il controllo del narcotraffico. I due, per acquisire il controllo dello smercio di droga in un’area dei quartieri, avevano sparato dieci colpi di arma da fuoco contro un pregiudicato 39enne della zona che è riuscito, però, a sfuggire all’agguato. Nel corso delle prime indagini i carabinieri hanno già sequestrato nella casa di Melotti le due pistole semiautomatiche usate per compiere il raid.
Ancora in pieno centro, nella bella villa comunale, una pattuglia di poliziotti a cavallo, ha arrestato Rosario Villacidro, di 39 anni, per il reato di tentato furto aggravato. Gli agenti del reparto a cavallo hanno notato l’uomo mentre stava cercando di rubare un’auto parcheggiata alla Riviera di Chiaia. Boss e ladruncoli, macro e microcriminalità per una Napoli sotto i riflettori della cronaca e della politica dopo l’ennesima escalation di violenza. Così è arrivato Prodi, e poi è arrivato Amato, e con loro il Patto per una città più sicura mentre non sono più sicuri i cittadini che, forse anche per questo, gradiscono, secondo i dati dell’Ipr Marketing, meno di un anno fa l’attuale classe dirigente.
«Obiettivo del piano - ha spiegato Minniti - è dare risposte organiche, strutturali e permanenti nel tempo e non legate all’emergenza». E così ora l’arrivo dei mille uomini in più lo vedi quasi ad ogni angolo di strada. Ma le risposte organiche, strutturali e permanenti non vanno né in gazzella né a cavallo, né sulle moto nuove acquistare per inseguire malviventi nei vicoli dei quartieri. Lo sa pure il ministro Giuliano Amato che, in commissione affari costituzionali, dice: «Il solo intervento delle forze dell’ordine a Napoli non basta pur essendo necessario». Ci vogliono le scuole, dice ancora l’inquilino del Viminale. E ci vuole lavoro.
A Napoli e nel suo hinterland, riferisce in commissione, «esiste a Napoli un problema di adempimento dell’obbligo scolastico», che pretenderebbe «un incremento delle ore di lezione per i bambini in modo da tenerli in un ambiente più idoneo a dare loro il senso di un’educazione collettiva che non trovi più nel camorrista il modello di riferimento». Poi, continua il ministro, «c’è una situazione del mercato del lavoro, in cui la criminalità è molto spesso nelle condizioni di offrire ciò che non si trova altrimenti». Sarà anche per questo che proprio l’altro ieri Romano Prodi ha firmato l’Unità per lo sviluppo di Napoli e della Campania, lavoro sinergico tra Stato ed Enti locali, che ha lo scopo «di incrementare il tasso di occupazione e dotare la città delle risorse infrastrutturali necessarie a garantirne lo sviluppo».
Le polemiche ci sono e non mancano mai. La riduzione dei commissariati e l’istituzione dei presidi, previste dal patto, hanno fatto storcere il naso dei sindacati. A loro Amato manda a dire: «Bisogna saper accettare moduli organizzativi che comportano qualche sacrificio, evitando che venga dipinto come un sacrificio alla sicurezza. Abbiamo pensato che si potessero utilizzare meglio le articolazioni che avevamo in città con 20 commissariati, trasformandone una metà in presidi, il che permette di moltiplicare le pattuglie sulle strade, mantenendo il presidio che dà alla popolazione la certezza del luogo fisico dove incontrare la polizia».
Più poliziotti, più lavoro e più maestri, dunque. E intanto il Comune di Castellammare di Stabia ha acquistato 2.100 copie del libro Gomorra, di Roberto Saviano, da donare agli istituti di scuola superiore della città, dove saranno attivati laboratori didattici sul testo.
ITALIA: NAPOLI, “PER UN FUTURO OLTRE QUESTA NOTTE” (2)
Dove sta “la fiera della volgarità”? A “Napoli” o a “Roma”?!
a c. di Federico La Sala
Ma non si può buttare il bambino e l’acqua sporca, come si suole dire! La logica politica ed economica di lunga durata interna ed esterna (con le loro egemonie - in cui è stata progressivamente trascinata anche la sx) hanno “compromesso” e fatto pagare (e non è affatto ancora finita!) un caro-prezzo (“caritas”) a Napoli e all’intero Sud!!! Pur, nella condivisione delle cose dette da D’Avanzo, mi sembra che abbia peccato proprio di poca sensibilità e di poca intelligenza nell’analisi. “Miseria e Nobiltà”: il collegamento di Eduardo De Filippo con Mario Merola è nella realtà e nella storia delle “due” Napoli, a partire almeno da Vincenzo Cuoco. D’Avanzo, mi sembra che abbia fatto come i rivoluzionari napoletani (del ’99) che amavano guardare solo all’Europa e, con le idee dell’ Europa, “negavano” e si impedivano di conoscere la loro stessa “altra” Napoli.
Oggi la realtà è cambiata: e non è più il tempo della “camorra”, ma del “Sistema”! “Gomorra” di Saviano insegna ... se si vuoi capire un po’ di più la globalizzazione, le trasformazioni avvenute e in atto, ecc. ... Contrariamente a quanto si pensa, NAPOLI ha fatto resistenza .... e la Resistenza (anche al berlusconismo) !!! E sono convinto che, pur condividendo molta parte del discorso di D’Avanzo, che il "Mario Merola" da lui tratteggiato (se non sbaglio e se non abbiamo la memoria cortissima) è più simile a chi è diventato un eroe .... a ROMA - in ITALIAndia, ma non a NAPOLI e nemmeno in ITALIA!!!
A Napoli, Mario Merola era, è stato, ed è Mario Merola ... e ha saputo conquistarsi non solo fiducia e apprezzamento non solo dai “suoi”, ma ha anche saputo aprirsi al dialogo con l’ “altra” parte della città e della società!!! Se è così, come mi pare e forse ... è, dove è stata e dove sta "la fiera della volgarità"?!
A “Napoli” o a “Roma”?! (Federico La Sala, 18.11.2006)
La fiera delle volgarità
di Furio Colombo *
Non so se sia vero che Vannino Chiti ha offerto un dialogo alla Lega, la Lega Nord, quella di Bossi e del tricolore nel cesso, quella di Calderoli e delle forbici da giardiniere per immigrati, quella di Borghezio, che ha dato fuoco a dei poveretti che dormivano sotto i ponti a Torino, quella di Gentilini, sindaco e prosindaco della ricca ma disonorata Treviso, dove va parlando di vagoni piombati e di trattamento da cacciagione per i lavoratori che a lui non sembrano veneti. Non so se sia vero che ha detto, come riporta La Padania del 16 novembre in prima pagina, «spero che diventi come il partito catalano. Utile al Paese e anche al centrosinistra».
So, per testimonianza oculare, che quello stesso 16 novembre, al Senato, i due leghisti Castelli e Calderoli si sono impegnati a staffetta per mostrare quanto si possa essere volgari nei confronti del Premio Nobel Senatore a vita Rita Levi Montalcini e dei due ex Presidenti della Repubblica Ciampi e Cossiga. Sia chiaro che i due non erano isolati in un’aula in cui destra e sinistra condividevano costernazione per un simile comportamento, molto al di là di ogni possibile polemica o scontro parlamentare, una vera piazzata.
Lo spettacolo era questo. Buona parte della intera ex Casa delle Libertà era in piedi a urlare insulti ai Senatori a vita (il grido più mite era «vergogna, vergogna»), salvo alcuni di cui vedevi bene disagio e imbarazzo e la voglia di essere altrove.
Vorrei spiegare la ragione del senso di disorientamento che si prova in un Senato che diventa improvvisamente violento, mentre sono disponibili tutte le possibilità espressive, incluso, ovviamente, il più netto dissenso.
Nonostante l’ordine del giorno recasse l’approvazione urgente di una legge (che infatti non si è potuta approvare), il presidente Marini ha dato la parola a ciascun gruppo (misteriosamente, due per i leghisti).
Nonostante il livello imbarazzante del comportamento, non c’è stato, anche per l’esperienza ormai maturata nel centrosinistra, alcun tentativo di cadere nella trappola della controdimostrazione.
Nonostante la clamorosa divaricazione fra le opinioni dei Senatori comizianti e quanto è scritto nella Costituzione e nel regolamento del Senato, le disperate corde vocali dei nostri oppositori continuavano a urlarci che i Senatori a vita non hanno diritto di voto, come se fossero privi dei diritti civili.
Nonostante l’intervento netto di Anna Finocchiaro, capogruppo dell’Ulivo, avesse fatto notare che i nostri oppositori erano stati battuti anche senza contare gli onorati e graditissimi voti dei Senatori a vita, la manifestazione di alta inciviltà è continuata a lungo mentre dalle tribune il pubblico (di solito scuole e visitatori stranieri) si affaccciava incredulo o temeva il colpo di Stato.
Ci sono in questa storia alcuni dettagli particolarmente sgradevoli. Uno è che, più ancora di quanto non si noti in televisione, l’aula del Senato è piuttosto piccola. I Senatori a vita siedono davanti, in un banco nell’emiciclo. In questo modo, come in un film espressionista, le facce stravolte di coloro che gridano e conducono l’insensata rivolta ti appaiono di fronte e a pochi metri, aggiungendo alla scena sgradevole uno spunto di particolare imbarazzo.
Scene del genere erano tipiche ai tempi del "Teatro dell’assurdo" da Genet a Pinter, dal Living Theatre all’Open Theatre. Raramente (diciamo pure: mai) avvengono in quella Camera Alta che esiste in molte democrazie e che si chiama Senato. Che sia per questo - ovvero, conoscendo se stessi - che gli uomini di Berlusconi si erano dati da fare per ridurre il Senato a un accampamento di leghisti?
Ma c’è un fatto in più e vale la pena di ricordarlo. Il Senatore di An Ramponi aveva chiesto fin dall’inizio della seduta di parlare a proposito di allarmanti notizie sul riarmo del Libano. Quando ha parlato, si è capito che si trattava di una comunicazione importante. Ma ha parlato alla fine della mattina. Il rischio del Libano e la notizia di nuovi passaggi di armi ha dovuto aspettare che, da Storace in là, quella parte del Senato esponesse, con strati di urla sovrapposte, il concetto che i Senatori a vita non devono sapere, pensare. Possono, eventualmente, parlare nelle ricorrenze.
Purtroppo le televisioni dipendono, per le riprese, dalle telecamere di tipo bancario del Senato. Altrimenti sarebbe stato interessante suggerire un montaggio in cui le immagini della manifestazione urlata che si è autonegata ogni buon senso, si alternano con i volti di Rita Levi Montalcini, di Carlo Azeglio Ciampi, di Francesco Cossiga.
Erano tre espressioni diverse. Cossiga appariva ironico e aveva infatti di riserva un breve discorso per ciò che pensava dello "happening". Ciampi era incredulo. Rita Levi Montalcini sorrideva, non tanto agli urlatori stremati quanto a qualche suo pensiero un po’ più meritevole di attenzione.
Ma resta la frase attribuita a Chiti. A chi avrà pensato parlando di "partito catalano" e dunque di persone che erano già attive negli ultimi anni del franchismo, uniti dall’impegno di creare insieme democrazia e autonomia?
Quelli di noi che li hanno conosciuti ai tempi in cui il Gruppo 63 si riuniva a Barcellona, ricordano ammirazione e invidia. Cosa c’è di catalano nel gridare «vergogna» a Rita Levi Montalcini?
S’intende che capisco l’ansia di Chiti. È - come accade nei brutti momenti - la speranza di un miracolo. Questo miracolo in Senato, finora, non è accaduto.
* l’Unità, 17.11.2006
Napoli, Merola, giacobini e sanfedisti
di Peppe De Cristofaro (Liberazione, 18.11.2006)
Ha ragione Giuseppe D’Avanzo, sulle colonne di Repubblica di qualche giorno fa, a denunciare la subcultura plebea e reazionaria che ha fatto da sfondo alle esequie di Mario Merola. E ha ragione, se possibile ancora di più, a stigmatizzare le dichiarazioni di quelle istituzioni locali, certamente oggi in difficoltà, che ne hanno salutato la scomparsa in maniera retorica e finanche patetica. Quella stessa classe politica capace, fino a qualche anno fa, di opporre agli aspetti più deteriori della napoletanità, una inedita ed importante ricerca, innovativa ed avanzata (e, forse, talvolta, persino eccessiva), che per esempio ha reso Napoli una capitale dell’arte contemporanea, sembra adesso subire il ritorno di quella egemonia culturale che la città sembrava essersi messa alle spalle: la solita rappresentazione fatta di luoghi comuni e stereotipi, della sceneggiata e della guapparia, che rappresentano, certamente, l’immagine meno significativa e più deteriore della tradizione. Eppure, vorrei dire a D’Avanzo che bisognerebbe cercare di mettere a tema come si possa sconfiggere questa subcultura reazionaria, evitando però la tentazione della critica elitaria, dell’isolamento, della separatezza tra classe dirigente ed intellettuale e popolo, che resta, a Napoli, il nodo più rilevante e complesso, almeno dal 1799 ad oggi. E’ mai possibile che Napoli debba essere ancora divisa tra un sanfedismo volgare, amico dell’oscurantismo e della reazione, e un giacobinismo progressista e portatore di idee, ma incapace di costruire una vera connessione sentimentale col popolo?
L’impressione è che questa frattura non sia ancora sanata, forse anche per come si è determinato, dall’unità d’Italia e poi per tutto il Novecento, lo sviluppo economico e sociale della città. La stessa presenza di un proletariato industriale propriamente detto, a Napoli, ma in realtà nell’intero Mezzogiorno, ha avuto un carattere di breve termine, e concentrato in alcune aree determinate, che non a caso facevano parlare di “cattedrali nel deserto” e non di “modello di sviluppo”. La borghesia poi, la stessa che in altre parti d’Europa ha contribuito a formare l’idea stessa dello Stato moderno, ha fatto tutto fuorché esercitare un ruolo dirigente e trainante, abbandonata com’era (e com’è) nella ricerca del piccolo privilegio, e, talvolta, nel ladrocinio. Sanare questa frattura dovrebbe essere il primo obiettivo. E dovrebbe esserlo ancor di più oggi, alla luce dei mutamenti in atto. Quel gigantesco passaggio di ciclo che abbiamo chiamato globalizzazione, ha reso il Mezzogiorno, e Napoli in esso, un laboratorio avanzato di una perversa modernità, un luogo di sperimentazione di politiche aggressive e destrutturanti, che hanno reso ancora più fertile il terreno per la semina delle camorre e della criminalità.
Torna urgente il tema della costruzione dei rapporti sociali di massa e la necessità di immaginare, di fronte a problemi strutturali, interventi che sfuggano alla tentazione di dare risposte episodiche, di provvedimenti tampone incapaci, peraltro, di fronteggiare l’emergenza. Le risposte presentate finora per il sud, dopo i cinque anni di abbandono delle politiche del precedente governo, sono una prima inversione di tendenza, ancora largamente insufficienti. Non appaiono ancora come una idea complessiva per rilanciare un modello di sviluppo per quei territori in cui i fatturati delle bande criminali rappresentano un terzo del prodotto interno lordo. Forse questa è la risposta alla domanda iniziale. La frattura si sana ricostruendo quel tessuto democratico lacerato da troppi anni di politiche incapaci di far diventare il sud una questione nazionale. Si sana cercando di prosciugare quel mare sporco in cui la camorra nuota e cresce.
Ma la frattura si sana anche sporcandosi le mani. Come provò a fare Elenora Fonseca, la più illuminata del gruppo dirigente giacobino, in quel, nemmeno troppo lontano, 1799. Eleonora non condivise, nei primi mesi della Repubblica partenopea, la presenza delle truppe francesi a Napoli, comprese che la democrazia non si esporta sulla punta delle baionette, cercò, in tutti i modi, di costruire quella stessa connessione col popolo di cui avrebbe parlato, oltre cento anni dopo, Antonio Gramsci. Comprese che anche le idee più progressiste e rivoluzionarie servono a poco se non sono accompagnate da un processo di partecipazione collettiva. Se sono imposte e non determinate dal basso. Certo, anche lei finì impiccata a piazza Mercato, la stessa che ha salutato Merola tra fuochi d’artificio e lacrime napoletane, da quello stesso popolo a cui aveva dedicato l’esistenza, ma certamente la sua lezione è ancora una tra le più interessanti chiavi di lettura per comprendere Napoli e l’intero Mezzogiorno. Allora, se tutto questo è vero, le critiche giuste di D’Avanzo andrebbero rivolte, oltre che alla plebe dei lazzari, dei vicoli e della violenza, anche e soprattutto a quella stessa borghesia incapace di svolgere il ruolo che avrebbe dovuto avere.
Bagnoli, dopo la Fabbrica niente
di Enrico Fierro *
Quando a Napoli c’era lei, la fabbrica. E il popolo era «classe», operaia, s’intende. E le famiglie vivevano di un salario che certo non bastava mai, ma c’era. Era pane sicuro. I figli vedevano i padri svegliarsi all’alba per andare a fare quel lavoro duro, tra i fumi e le fiamme della colata, e sognavano di poter entrare anche loro, un giorno, «dentro la fabbrica». E i padri, invece, si «facevano nu mazzo accussì» per farli studiare i figli. Anche all’università. La fabbrica vomitava ogni giorno 800mila tonnellate di ghisa e 820mila di acciaio. Un mostro. Che divorava la spiaggia, ammorbava l’aria di un fumo grigio e fetente, impestava il dolce mare flegreo. Eppure nonostante quelle acque scure e l’aria nera, gli altoforni hanno sfamato famiglie per decenni, formato generazioni di operai e tecnici, plasmato un quartiere, Bagnoli. La fabbrica, l’Italsider o Italsidèr (con la lingua che batte forte sulla "e", come usa da queste parti) per tutto il Novecento è stata l’anima civile di Napoli. La forza della sua democrazia. Una parte fondamentale della sua cultura migliore. Il muro più solido contro il dilagare di quell’anima plebea, disperata e pronta a tutto che oggi terrorizza i napoletani onesti (la stragrande maggioranza) e rischia di uccidere il futuro della città. Una barriera invalicabile contro «’o sistema», la camorra, la sua ideologia predatoria, la sua cultura che «con la fatica non si fanno i danari. Con la droga sì, e tanti».
Era il 19 giugno del 1910 quando venne acceso il primo altoforno del "mostro", ottanta anni dopo quei forni si spensero per sempre. L’acciaio non era più competitivo, la grande industria neppure. La cultura della deindustrializzazione era diventata Vangelo per economisti e politici. Napoli perdeva un pezzo importante di sé. Alla città sconvolta dalle guerre di camorra, quando i morti si contavano a centinaia, piegata dall’ignavia e dalla immoralità delle sue classi dirigenti, fu amputato un arto. Gli operai, i tecnici vennero strappati dal lavoro. Prepensionati. In mobilità. La fabbrica era morta. Nelle grandi manifestazioni civili per le strade di Napoli non si sarebbero visti mai più i caschi gialli degli operai dell’acciaio. Una storia era finita. La città perdeva il suo pilastro.
Abbiamo incontrato persone che hanno vissuto quella esperienza e ce la raccontano. Si tratta di gente comune. Gente di Napoli che nessun media in questi giorni ha chiamato a parlare di Napoli. Com’era e come è diventata. Com’era la città una volta. Ai tempi dell’Italsidér (con la lingua che batte sulla e).
PIETRO: «Quando nel 1962 venni assunto all’Italsider mio suocero mi disse che ero fortunato. Sei entrato nella ferriera e mo chi ti caccia più. Il mio primo stipendio era di 60mila lire. Io ero impiegato, gli operai guadagnavano di meno e non gli pagavano i primi tre giorni di malattia. Ho visto uomini che stavano di fronte alla colata venire a lavorare con la febbre. Poi facemmo gli scioperi e conquistammo il diritto alla malattia. Per me la fabbrica era una cattedrale, io la vedevo così. Il lavoro degli operai era infernale, i turni con il caldo e il fumo che ti bruciavano i polmoni. Ma era la vita: negli anni d’oro a Bagnoli lavoravano 10mila persone. Ventimila con l’indotto. Decine di migliaia di stipendi sicuri. Di famiglie che avevano poco ma avevano. Io non ho mai mitizzato i caschi gialli, per carità. Mi iscrissi al Pci nel ‘68 e la fabbrica è stata la mia scuola di formazione politica. Ma dico che chi lavorava all’Italsider aveva una identità forte che riusciva a trasmettere al quartiere di Bagnoli e alla città intera. Certo che anche negli anni Sessanta, Settanta, c’era la camorra, ma era un’altra cosa. Non debordava come oggi. Non era quella sorta di fiume che allaga l’intera città senza trovare un argine. Noi eravamo l’argine. Quando parlo di identità penso alle case costruite per gli operai, al fatto che le famiglie vivevano tutte insieme, penso alle sedi dei sindacati, ai partiti, al nostro circolo aziendale. Quando nel ’90 la fabbrica ha chiuso ho visto operai piangere. Ci guardavamo negli occhi e sapevamo che da quel momento non sarebbe stato più lo stesso. Ho perso il lavoro che avevo 50 anni. Mi si è stretto il cuore ma ho guardato avanti. Spero che lo faccia anche Napoli». Pietro Postiglione è stato per trent’anni impiegato all’Italsider. Vive a Napoli.
TANIA: «La grande fabbrica è entrata nella mia casa quasi trenta anni fa, portandosi dietro il nero negli occhi di mio padre per le colate di acciaio, la tranquillità del lavoro fisso e la sensazione di appartenere a qualcosa di grande e di importante. Mio padre senza la fabbrica non avrebbe imparato la disciplina, la solidarietà e il senso di appartenenza di classe. Questo lo ha potuto apprendere giorno dopo giorno seguendo i ritmi disumani di una fabbrica che produceva acciaio per costruire la nuova Italia. La dignità, il rispetto del lavoro altrui, la condivisione per affrontare meglio i problemi, mio padre li ha imparati in fabbrica e li ha trasmessi a noi. Quattro figli in un vicolo assediato da contrabbandieri, papponi e ladri. Eravamo intoccabili dal marcio e dal corrotto che ci circondava perché il rispetto superava le insidie. Noi vivevamo come protetti da un’aura particolare: papà faticava all’Italsider. Usciva alle 4,30 di mattina. Faceva le notti. A volte lavorava per 16 ore continue; e me le ricordo tutte le manifestazioni contro le "16 ore". È cominciata la cassa integrazione. E i silenzi tristi di mio padre. Non era la preoccupazione per il "posto". Nessuno si è chiesto quanto stesse perdendo in realtà della sua vita. È un uomo fortunato, mio padre, la sua semplicità non ha permesso che venisse amputato l’amore per la vita, anche senza la "sua" fabbrica». Tania Melchionna si occupa di comunicazione. Rimase colpita dalla lettura del bel libro di Ermanno Rea, «La dismissione», e decise di scrivere questa lettera pubblica a suo padre.
GUGLIELMO: «Lo vuoi vedere l’ultimo reparto della fabbrica ancora in funzione? Eccolo: il Circolo dell’Italsider. L’Italsider ha chiuso, il circolo aziendale no. Qui, nella vecchia sede di Coroglio, abbiamo ancora duemila iscritti, organizziamo di tutto, sport, teatro, gite, siamo una realtà solida. Quando c’era la fabbrica non c’era delinquenza a Bagnoli. Poca roba, un po’ di contrabbando di bionde, ma niente di più. Certo, erano altri tempi, ma quando in una famiglia il figlio vedeva il padre uscire alle 4 del mattino, rientrare la sera, rispettare orari e tempi, beh era difficile che sbagliasse strada. Oggi, ci sono intere famiglie dove il padre non ha un lavoro, la tv bombarda i ragazzi con l’ideologia del danaro facile, i "renari" a tutti i costi, e allora vince la cultura del malaffare. Ha ragione Rea: la fabbrica ha bonificato i quartieri di Napoli, poi c’è stata la dismissione, e i quartieri di Napoli hanno bonificato la fabbrica. L’Italsider ha preservato l’area flegrea dalla speculazione edilizia, la fabbrica non c’è più puntiamo sul risanamento del territorio, progettiamo nuove occasioni di sviluppo e di lavoro. Napoli ce la farà. Non mi piacciono i Gava e i Pomicino che in questi giorni parlano e danno lezioni. Io me le ricordo le facce che giravano al Comune e alla Regione nei loro anni. Oggi no, alla Iervolino e a Bassolino si possono fare miliardi di critiche, ma oggi la camorra è fuori dalle nostre istituzioni. La sindaca e ’o Presidente sono autorità morali sulle quali Napoli può contare». Guglielmo Santoro, figlio di un operaio dell’Italsider, ha lavorato in quella stessa fabbrica per 30 anni.
* www.unita.it, Pubblicato il: 12.11.06 Modificato il: 12.11.06 alle ore 7.24
Nino D’Angelo: "Speranza e lavoro, così si salvano gli scugnizzi"
di Sandra Amurri *
«Napoli è ‘na creatura fragile e forte e io so’ figlio suo. Un figlio vero che cerca di restituirgli tutto quello che ha preso». Usa le parole del cuore Nino D’Angelo per raccontare il dramma della sua città: «Non servono le scarpe di 500 euro, l’importante è camminare, perché è camminando che si incontra la vita». Per dire ai quei ragazzi che incontra nei bar, nei vicoli che bisogna apprezzare il senso della vita pur nella fatica del vivere a cui sono condannati.
Cos’è la vita per questi ragazzi che si sentono più protetti da un coltello nella tasca che dai sogni e dalle idee?
«Cos’è la vita vissuta in quei casermoni dove sono nati, dove vive tutta gente uguale, dove non c’è contagio con altri pensieri, con parole diverse, dove il carcere è un’esperienza che prima o poi farai per forza, un’abitudine perché quando uscirai non sarai cambiato perché non ti fanno cambiare mai e sarai costretto a rifare quello che hai fatto e a tornarci perché ti hanno messo il nero in faccia e ce l’avrai per sempre? Dove la prima parola che impari a pronunciare perché è la prima che senti è: disoccupazione? Disoccupazione, sinonimo di rassegnazione. Di ingiustizia sociale. Io con questi ragazzi ci parlo, ci vivo, li annuso. Vivono rassegnati e quando vivi rassegnato non vivi. Che senso ha allora parlare di vita sbagliata quando manca la vita?».
Una Napoli ammalata di cosa?
«Di ingiustizia sociale. E la cura non può prescindere da una profonda analisi del male. Sento parlare del sociale, della necessità di investire sul sociale e mi chiedo se questo fosse avvenuto Napoli sarebbe già guarita. Invece non è così perché se ne parla e basta. Se tutti ‘sti guaglioni tengono ‘sti problemi ci sarà un motivo e il motivo è che il sociale non esiste. Così come non esiste la giustizia sociale. La vita è un diritto ma finchè non esiste una giustizia uguale per tutti questo diritto viene negato e a confronto cosa vuoi che sia uno scippo, diventare corriere della droga o killer per la camorra?».
Servirebbero scuola, cultura, ma anche il Teatro Trianon Viviani a Forcella lei che dirige...
«Quello che è successo qua a Forcella - quartiere a rischio - è un miracolo. Qua le famiglie, quelle più fortunate che hanno un lavoro, arrivano a malapena a fine mese e i giovani sono quasi tutti disoccupati. Come facevano a spendere 65 euro per un abbonamento a teatro? Da quando è diventato il Teatro del popolo - con un cartellone popolare e un abbonamento costa 10 euro - abbiamo raggiunto 3 mila abbonamenti. Che vuol dire? Che se dai a questi ragazzi qualcosa in cui credere, credono. Se gli dai delle alternative le scelgono. Certo non basta un Teatro a salvare un quartiere, una città ma di certo contribuisce a sconfiggere la rassegnazione. Un segno importante ma io continuo a sentirmi in colpa perché la mia generazione, quella dei cinquantenni, ha fallito. Non ha saputo fare la madre, il papà, non ha saputo insegnare il rispetto. Io sono stato fortunato ho una moglie e due figli, uno che fa il regista e uno il giornalista, il primo laureato della famiglia D’Angelo. Per andare a Roma a festeggiare la sua laurea siamo andati in pullman perché era la vittoria più bella che avevo raggiunto. Perché qua a Napoli li scugnizzi partono sempre dieci metri indietro e la vittoria diventa ‘nu miracolo. I napoletani, non sono diffidenti, non sono invidiosi, sono sensibili, hanno le antenne. Non si fidano della politica che non si sente parte dei loro bisogni. Ca’ non sapimmo più ninte, troppo spesso la sinistra pare la destra!»
Quale è la risposta possibile?
«La risposta si chiama strutture. Che vuol dire ricordarsi che questi ragazzi sono persone che non hanno un presente perché non hanno un futuro. La violenza a cui ricorrono, che esercitano e che subiscono è il segno del nulla che hanno dentro, del non sentirsi nessuno, del non avere alternativa al nulla, dal non sentirsi parte di uno Stato, non che non si occupa di loro ma che non si preoccupa per loro. E la camorra lo fa. Lo fa offrendo la morte ma lo fa. E la morte dove non c’è vita diventa un modo per vivere».
* www.unita.it, Pubblicato il: 04.11.06 Modificato il: 04.11.06 alle ore 9.32
La guerra di camorra ha ridotto la città alla «Baghdad d’Italia»? Gli intellettuali reagiscono e chiedono una svolta morale
Napoli, scrittori oltre l’emergenza
Erri De Luca: «Si vive in uno stato di continua tensione e vulnerabilità». Perrella: «Il ceto medio si nasconde»«Il caso di Roberto Saviano minacciato di morte ha riportato al massimo clamore una questione che si sta allargando anche al Nord» Matino: «Rinascimento o decadenza? Qui ci vuole più legalità». Picone: «Non è servito ripulire le piazze e le cartoline turistiche»
di Fulvio Panzeri (Avvenire, 03.11.2006)
«Niente di più difficile che cercare di ricostruire un’immagine di Napoli che di immagini e immaginario è satura, standoci dentro. Napoli è un prisma e riflette tutte le descrizioni, le può restituire moltiplicate». Lo scrive Antonella Cilento, in Napoli sul mare luccica, ritratto di una città, appena uscito da Laterza. Eppure oggi, dai mass media, emerge un’immagine precisa di Napoli, quella apocalittica, ridotta alla resa. E allora ci si chiede: come vive la Napoli di oggi? In che consiste quest’emergenza di cui ci parlano i mass media? E’ così drammatica la situazione, da invocare l’intervento dell’esercito?
Eppure chi Napoli la vive e la interpreta nei suoi libri non la vede in una situazione così drammatica. Ad esempio Erri De Luca esclude categoricamente che quella di oggi si possa chiamare "emergenza" e dice: «Semplicemente a Napoli si vive in un continuo stato di tensione e di vulnerabilità. Le statistiche degli omicidi sono al di sotto degli anni precedenti. Credo che questa strillata d’allarme sia scattata senza un fondato motivo. Non sono questi gli anni difficili della Napoli del terremoto, con la guerra di camorra, che continuava da fuori nelle prigioni, con una violenza inaudita. A mio parere siamo lontanissimi da quella temperatura». E aggiunge: «Il problema vero è quello della vulnerabilità fisica dei cittadini, per cui si è continuamente sotto tensione per una possibile aggressione, anche se il cittadino napoletano è allenato. Ha attivato una sorveglianza su di sé e attorno a sé, che pareggia il rischio di aggressione. Agisce con destrezza, così che l’aggressore non potrà contare sull’effetto sorpresa».
Però uno scrittore come Roberto Saviano, che in Gomorra (Mondadori), attacca senza mezzi termini il sistema camorristico, viene minacciato di morte e deve allontanarsi dalla città. Commenta De Luca: «Saviano ha cambiato il tono con cui l’intellettuale napoletano parla della criminalità organizzata, usando una sfrontatezza e un coraggio fisico che non ha nessun precedente e questo lo espone e lo rende più vulnerabile. Credo anche che in realtà la camorra non si senta disturbata nei suoi affari da un libro. Quando parliamo di camorra, ci riferiamo a più di cento famiglie che operano sul territorio, in rivalità continua. C’è uno stato di suddivisione del territorio che non permette sconfinamenti».
Anche lo scrittore Silvio Perrella, che ha scritto un bel romanzo, Giùnapoli (Neri Pozza), non concorda con questa descrizione apocalittica, di «una città morta e in putrefazione» che viene data della città. E sottolinea, citando il libro di Saviano, come la questione camorristica non sia limitabile solo a Napoli, ma coinvolge anche il Nord, con il traffico di rifiuti pericolosi, con certe operazioni finanziare. E dice: «Napoli viene descritta come Baghdad, ma non lo è; è, sì, una città complessa che dà il meglio di sé quando i vari strati della città riescono a connettersi, ad andare al di là della politica, individuo per individuo. Ci sono situazioni di emergenza, è innegabile, ma anche la paura del ceto medio che si rintana nei propri luoghi e non prova a conoscere. C’è la plebe barbarica di tipo camorristico, nichilista e ipercapitalista perché guadagna un sacco di soldi, mettendo in crisi la misura della realtà. Però c’è anche la vita quotidiana normale che non è diversa da quella che si fa mediamente in Italia. Nella lettera pastorale che ha inviato alla città il nuovo cardinale, da napoletano, si dimostra molto consapevole della molteplicità della città. Bisogna conoscersi. E’ l’emergenza conoscitiva il vero problema, oggi di Napoli. La non conoscenza crea emozioni e sensazioni, quello che in pratica ci passano i mass media in questo momento. La scelta di inviare l’esercito non è soluzione. Non ce n’è bisogno. Però indica quanto Napoli sia considerata come l’ombra dell’Italia ed è come se l’Italia volesse liberarsi di quest’ombra di Napoli».
Per il critico e scrittore Generoso Picone, autore de I napoletani , una curiosa storia di chi ha cercato utopie per cambiare la città, siamo di fronte ad una crisi della politica che constata dopo tredici anni dal cosiddetto "Rinascimento napoletano" una sorta di fallimento. «Non è servito a niente ripulire le piazze e le cartoline turistiche. Sono mancate le riforme strutturali e non si vedono forze dinamiche sociali di cambiamento».
Qualcosa si potrà fare? Per Picone l’utopia più vicina è senz’altro quella dei maestri di strada, perché è necessario ritornare a ragione sulla questione dei giovani, dell’infanzia senza sostegno, con la concretezza del fare. Eppure, dice Picone, «Marco Rossi Doria che guida quest’esperienza è costretto a fare giri di burocrazia incredibili per continuare il progetto. Si pensi che quest’anno la necessità riguarderebbe 450 ragazzi, ma si potrà farne studiare solo settanta o ottanta».
Per il teologo e scrittore Gennaro Matino invece «Rinascimento o decadenza, se ci sono, devono fare i conti con i valori, con il ripristino della legalità, non solo nell’ambito della grande criminalità. Infrangere le piccole regole qui è pane quotidiano e paternalisticamente si tende a giustificare. E’ diventato un brodo di cottura che permette alle grandi organizzazioni criminali di sopravvivere». La crisi riguarda tutti, non è questione di criminalità, è di stile di vita. Per Matino «più aumenta il rischio della denuncia fine a se stessa, come avviene in questi giorni, più cala il sipario sulla necessità che ognuno ha di mettere mano alla salvezza di questa terra».
RADIO 3 - FAHRENHEIT, 31/10/2006.
A NAPOLI LA VITA NON VALE NULLA?
Queste le dichiarazioni del pubblico ministero del pool anticamorra di Napoli. La camorra non ha mai smesso di sparare: a Scampia, dove la guerra tra bande finita ma l’odio tra le fazioni contrapposte è destinato a non morire mai; alla Sanità dove un conflitto che sembrava archiviato è ricominciato appena ieri; nell’area occidentale, dove un nuovo gruppo tenta di farsi largo. La città è nuovamente piombata nel degrado totale? Ne parliamo con Rita Pennarola, condirettore de "La voce della Campania", e con Cesare Moreno, coordinatore di uno dei moduli del progetto "Chance", Maestri di strada a Napoli.
Sconfiggere Gomorra
di Vezio De Lucia *
Sono d’accordo con Enrico Fierro, l’esercito non serve, è una parata inutile, uno spreco. Ha ragione Enrico Pugliese, servono maestri, non soldati. In molti sulla stampa, in questi giorni, si sono chiesti com’è stato possibile passare, in meno di dieci anni, dal rinascimento alla città che muore. Provo ad aggiungere qualche modesta riflessione. Che cosa fu il rinascimento di Napoli? Secondo me fu la speranza che demmo ai napoletani di diventare cittadini normali, abitanti di una città normale. «Sindaco, ci avete levato lo scorno dalla faccia», dicevano in tanti. Lo dicevano, quando inauguravamo scuole, parchi e biblioteche nei favolosi primi cento giorni e nei primi anni dell’amministrazione Bassolino. Simbolo del rinascimento fu la restituzione alla città di una splendente piazza del Plebiscito. "Napoli la deforme, Napoli l’incurabile, la disperata, il recinto ribollente, amarissimo del degrado. E adesso, di colpo, Napoli la rinata, Napoli la sfolgorante. La sue sterminate difficoltà sopravvivono, tutte. Ma da qualche settimana questo luogo di fastose meraviglie ritrovate sembra somigliare pochissimo alla patria dei De Lorenzo e dei Pomicino. Si intuiscono le emozioni di un riscatto non solo di superficie ma di coscienze", così scrisse Donata Righetti su La Voce, allora diretta da Indro Montanelli, quando la piazza fu inaugurata. Più ancora di piazza del Plebiscito, simbolo del rinascimento e della speranza fu il progetto Bagnoli. L’idea era di trasformare l’Italsider in occasione per risarcire la città degli spazi e delle qualità urbane negate da quarant’anni di uno sviluppo urbano criminale, fatto di cemento e di asfalto (le sostanze che nella coscienza nazionale definiscono l’identità di Napoli moderna).
Ci volle coraggio (come ce n’era voluto per piazza del Plebiscito). Non fu facile far accettare la nostra impostazione da una cultura politica che vedeva lo sviluppo solo nella conferma di improbabili attività industriali. L’idea vinse a furor di popolo, per primi gli operai e il sindacato. Ma sono passati dieci anni dall’approvazione del progetto e della nuova Bagnoli non c’è traccia. Procede stentatamente un’operazione di bonifica che non finisce mai. La speranza è diventata uno scandalo. Da tempo ho il sospetto, forse un po’ più del sospetto, che, in effetti, il mondo politico napoletano aspetta la volta buona per rimettere tutto in discussione. Tre anni fa, la candidatura di Napoli a ospitare la Coppa America pareva fatta a posta per far saltare, impunemente o quasi, il progetto Bagnoli. Una caterva d’incompetenti, economisti, giornalisti, architetti in lista d’attesa, da allora continua a divulgare sconfortanti vacuità, a ripetere che 120 ettari di parco pubblico a Bagnoli sono un’esagerazione, che quello spazio deve essere dato subito a chi sa farlo fruttare, che il portafoglio viene prima del verde pubblico, che il comune di Napoli non può sprecare le poche risorse di cui dispone per contentare i capricci di qualche anima bella. Perciò è morta la speranza. Le ragioni di ciò che sta succedendo a Napoli sono complesse e sarei uno stolto se pensassi che basta rimettere mano con determinazione al progetto Bagnoli per trovare il bandolo della matassa. Bagnoli è solo un esempio.
Ma serve per ricordare che a Napoli c’è stata una radicale mutazione del pensiero politico, che io non so spiegarmi. Capisco che gestire (peraltro male) l’esistente è più facile che costruire un difficile futuro e che ci si è illusi così di rischiare meno, ma mi pare una spiegazione troppo semplice. Certamente non è possibile tornare indietro e sono convinto che siano ormai indispensabili dolorosi cambiamenti, anche al vertice del potere locale, per restituire credibilmente ai napoletani la legittima aspirazione a vivere in una città normale. Senza di che non è possibile fuggire da Gomorra
* www.unita.it, Pubblicato il: 02.11.06 Modificato il: 02.11.06 alle ore 10.53
CRIMINALITA’ NAPOLI: PRODI, CON L’ESERCITO NON SI VINCE *
BOLOGNA - "Non è con l’uso centrale dell’esercito che si vincono questi problemi. Io non sono favorevole a un uso forte e generale dell’esercito". Così ha risposto il presidente del Consiglio Romano Prodi a una domanda dei cronisti sul problema della criminalità a Napoli e sull’ipotesi di inviare l’esercito. "Lavorare per un ripristino della legalità perché la delinquenza è figlia dell’illegalità".
Con questo obiettivo principale il presidente del Consiglio Romano Prodi sarà domani a Napoli all’incontro in programma con le istituzioni locali per affrontare il tema della criminalità.
"Andiamo a incontrare le istituzioni per un discorso generale e di ampio respiro. Venerdi’ sarà il ministro dell’Interno che ci andrà su un piano preciso che riguarda la criminalità a Napoli e nella sua area: sono due giornate con lo stesso obiettivo, ma con strumenti diversi. Dobbiamo lavorare per un ripristino della legalità nella vita economica e sociale di tutto il Paese".
"E’ necessaria la riorganizzazione della vita civile - ha detto Prodi - il controllo sulle attività economiche, il coinvolgimento delle istituzioni, delle associazioni laiche e religiose e di tutta la società civile, soprattutto nei confronti dei giovani".
COLLOQUIO PRODI-NAPOLITANO Giorgio Napolitano, dopo aver reso nota la sua angoscia personale per i tristi giorni che sta vivendo Napoli, ha avuto numerosi colloqui con autorita’ politiche e istituzionali di Roma e di Napoli. La notizia di una telefonata tra il presidente del Consiglio Romano Prodi e il presidente della Repubblica e’ stata confermata da fonti del Quirinale.Breve visita domani a Napoli per il presidente del Consiglio. Prodi raggiungera’ in tarda mattinata, intorno alle 12, il capoluogo campano dove avra’ una serie di incontri istituzionali fino al primo pomeriggio per fare il punto sull’emergenza criminalita’. In programma, tra l’altro, incontri con il presidente della Regione Antonio Bassolino e con il sindaco Rosa Russo Jervolino.
CESA: CALDEROLI? BECERO E INQUALIFICABILE "Le parole e il progetto di Calderoli sono inqualificabili. Una cosa, come fa l’Udc, è accusare di totale fallimento il centrosinistra che governa tutte le istituzioni della Regione in un’ottica clientelare, una cosa è sollecitare una profonda autocritica del centrodestra, altra è sconfinare nel qualunquismo più becero e immotivato". Così il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa commenta le parole del senatore della Lega che ha definito la situazione nel capoluogo campano "una fogna da bonificare". "La Campania - prosegue - vive una condizione di agonia ma la strada migliore per lasciare le cose come sono è proprio quella imboccata da Calderoli: attaccare tutto e tutti senza distinguere le responsabilità della classe dirigente dai diritti dei cittadini che meritano di vivere in ben altre condizioni di civiltà". "Lontano da tentazioni razziste - conclude Cesa - ognuno deve dare il proprio contributo. I cittadini di Napoli e della Campania meritano solidarietà, risorse e accertamento delle responsabilità".
BASSOLINO, IMPORTANTE INIZIATIVA SINDACATI Il presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, esprime "forte apprezzamento" per la manifestazione nazionale a favore della legalità proposta, a Napoli, da Cgil, Cisl e Uil.
"Dal mondo del lavoro e dell’impegno sindacale e civile può e deve arrivare un forte messaggio di contrasto alla criminalità organizzata e alle forze che vogliono riportare indietro questa città", rileva Bassolino. "Siamo impegnati in prima linea per promuovere il pieno recupero della legalità e per favorire lo sviluppo economico e sociale di Napoli. Stiamo vivendo giorni difficili, ma abbiamo l’animo e la forza per ripartire e per superare le difficoltà. Siamo convinti che saranno tante e tante le persone che scenderanno in piazza per la manifestazione proposta dai sindacati. Noi ci saremo, per portare avanti il nostro messaggio di speranza", conclude il governatore.
AGGUATO T.GRECO, SI TEMONO NUOVI RAID Una guerra per conquistare l’egemonia del malaffare in un’ampia fetta del territorio dell’hinterland vesuviano, con al primo posto il controllo dello spaccio di droga. In questo contesto sarebbe maturato l’agguato di ieri a Torre del Greco (Napoli) nel quale sono stati uccisi due pregiudicati, ennesimo capitolo della saga di sangue nelle strade di Napoli e della sua provincia. C’e’ preoccupazione perche’ nella zona gli equilibri criminali sarebbero saltati e piu’ d’uno teme che le armi possano tornare a sparare in una situazione cosi’ precaria. La pioggia caduta questa mattina in maniera sempre piu’ insistente ha lavato via Alcide De Gasperi a Torre del Greco (Napoli).
Con se’ l’acqua si e’ portata via anche la segatura usata per asciugare il sangue che ieri sera ha macchiato la strada che da Sant’Antonio (popoloso quartiere torrese) conduce in via Litoranea, arteria quest’ultima presa d’assalto d’estate e assai frequentata dai giovani anche nelle serate tiepide di quest’autunno. In via De Gasperi hanno perso la vita Adriano Cirillo e Pasquale Pecoraro, due pluripregiudicati freddati con numerosi colpi di arma da fuoco in una curva dell’arteria che nella parte iniziale porta alla sede del Comune, a poche decine di metri dalla caserma della guardia di finanza. Una risposta - sono convinti gli inquirenti - al delitto di cinque giorni prima in via Circumvallazione di Luciano Loffredo, ucciso venerdi’ mattina in una strada centrale e a pochi passi dalla stazione del carabinieri di ’Torre centro’.
Loffredo era considerato il reggente del clan Falanga. Cirillo - forse il vero obiettivo dell’ultimo agguato, libero di recente grazie all’indulto dopo essere stato condannato per rapina - era invece ritenuto un elemento di spicco dei cosiddetti ’emergenti’, una branca del clan con a capo Gaetano Di Gioia. E proprio attorno all’imminente ritorno in liberta’ di Gaetano ’o tappo’ (il soprannome con cui e’ conosciuto), attualmente in soggiorno obbligato in Piemonte ma ancora per poche settimane prima della definitiva liberazione, potrebbe ruotare questa sanguinosa faida torrese. Che coinvolgerebbe - ne sono sempre convinti gli inquirenti che indagano sui tre delitti avvenuti tra venerdi’ e ieri - anche i clan della vicina Torre Annunziata, con i quali il clan Falanga avrebbe stretto una particolare alleanza.
Ci sarebbe dunque, secondo gli investigatori, una vendetta del clan Falanga alla base del duplice omicidio di pregiudicati ritenuti inquadrati tra gli scissionisti della cosca. Ancora senza nome anche gli autori dell’altro omicidio di ieri nel Napoletano a Sant’Antimo, dove e’ stato ucciso il 39enne Rodolfo Pacilio, proprietario di un deposito all’ingrosso di videogiochi. L’assassinio potrebbe essere una vendetta del racket o una ’punizione’ dei malavitosi che intendono controllare il mercato dei videopoker
* ANSA
Se io fossi san Gennaro non sarei cosi’ leggero
Con i miei napoletani io m’incazzerei davvero
Come l’oste fa i conti dopo tanto fallimento
Senza troppi complimenti sarei cinico e violento
Vorrei dire al costruttore del centro direzionale
Che ci puo’ solo pisciare perche’ ha fatto un orinale
Grattacieli di dolore un infarto nella storia
Forse e’ solo un costruttore che ha perduto la memoria
Nei meandri dei quartieri di madonne e di sirene
Paraboliche ed antenne sono aghi nelle vene
E nei vicoli dei chiostri di pastori e vecchi santi
Le finestre anodizzate sono schiaffi ai monumenti
E’ come sputare in faccia ai D’angio’ agli Aragona
Cancellare via le tracce di una Napoli padrona
E’ lo sforzo di cagare dell’ignobile pappone
Sulle perle date ai porci da Don Carlo di Borbone
E’ percio’ che mi accaloro coi politici nascosti
Perche’ solamente loro sono i veri camorristi
A cui Napoli da sempre ha pagato la tangente
E qualcuno l’ha incassata con il sangue della gente
E per certi culi grossi il traguardo e’ la poltrona
E per noi poveri fessi basta solo un Maradona
E il miracolo richiesto di quel sangue rosso chiaro
Lo sa solo Gesu’ Cristo che quel sangue e’ sangue amaro
Lo sa il Cristo ch’e’ velato di vergogna e di mistero
Da quel nobile alchimista principe di Sansevero
E con lui lo sa Virgilio il sincero Sannazzaro
Giambattista della Porta che il colpevole e’ il denaro
E nessuno dice basta per il culto della festa
E di Napoli che resta sotto gli occhi del turista
Via i vecchi marciapiedi che hanno raccontato molto
Pietre laviche e lastroni seppelliamoli d’asfalto...
...l’appalto
Ma non posso piu’ accettare l’etichetta provinciale
E una Napoli che ruba in ogni telegiornale
Una Napoli che puzza di ragu’ di malavita
Di spaghetti cocaina e di pizza margherita
Di una Napoli abusiva paradiso artificiale
Con il sogno ricorrente di fuggire e di emigrare
E di un popolo che a scuola ha creato nuovi corsi
E la cattedra che insegna qual’e’ l’arte di arrangiarsi
Io non posso piu’ accettare l’etichetta di terrone
E il proverbio che ogni figlio e’ nu bello scarrafone
E mi rode che Forcella e’ la kasba del furbone
Che ti scambia con il pacco uno stereo col mattone
Se io fossi San Gennaro giuro che vomiterei
La mia rabbia dal Vesuvio farei peggio di Pompei
E poiche’ c’ho preso gusto con la scusa del santone
Io ritengo che sia giusto fare pure qualche nome
Chiedere a Pino Daniele che fine ha fatto terra mia
Siamo lazzari felici quanno chiove ’a pecundria
Napule e’ ’na carta sporca Napule e’ mille paure
Ma pe’ chhiste viche nire so’ passate ’sti ccriature
Da Pontano a Paisiello Giulio Cesare Cortese
Da Basile a Totonno Petito fino a Benedetto Croce
Da Di Giacomo a Viviani poi Caruso coi Parisi
Da Toto’ ai De Filippo fino a Massimo Troisi
C’e’ passato Genovesi e Leopardi con orgoglio
La romantica Matilde e il mattino di Scarfoglio
Filangieri Cardarelli tutto l’oro di Marotta
C’e’ passata la madonna che ora vedi a Piedigrotta
Un Luciano De Crescenzo Bellavista di Milano
E Sofia che da Pozzuoli oggi parla americano
Un Roberto De Simone che le ha preso pure il cuore
Ora cerca di sfruttarala Federico Salvatore
Ma non posso tollerare chi si arroga poi il diritto
Di cambiare e trasformare tutto cio’ che e’ stato fatto
Di chi vuol tagliar la corda con la vecchia tradizione
Di chi ha messo nella merda la cultura e la canzone
Io non posso sopportare che un signore nato a Foggia
Porta Napoli nel mondo e la stampa lo incoraggia
E che il critico ha concesso al neomelodico l’evento
Di buttare in fondo al cesso Napoli del novecento
Perche’ ancora io ci credo e mi incazzo ve lo giuro
Che Posillipo e Toledo li divide un vecchio muro
Come quello di Berlino che ci spacca in due meta’
Uno e’ figlio ’e bucchino l’altro e’ figlio ’e papa’
Se io fossi San Gennaro giuro che mi vestirei
Pulcinella Che Guevara e dal cielo scenderei
Per gridare alla mia gente tutto cio’ che mi fa male
E finire da innocente pure io a Poggioreale
Perche’ come Gennarino sono vecchio in fondo al cuore
La speranza Iervolino puo’ lenire il mio dolore?
Io ho capito che la vita e’ solo un viaggio di ritorno
Che domani e’ gia’ finito e che ieri e’ un nuovo giorno
Sembra un gioco di parole ma mi sento piu’ sicuro
Coi progetti dal passato e i ricordi del futuro
E alla fine del mio viaggio chiedo a Napoli perdono
Se ho cercato con coraggio di restare come sono
( Se io fossi San Gennaro, di Federico Salvatore)
L’INTERVENTO
«Napoli ha bisogno del suo cuore, della sua storia, delle sue radici». In una nota dai toni forti e accorati l’arcivescovo napoletano ribadisce la necessità di fare fronte comune al dilagare del male e rifiuta l’etichetta di luogo senza speranza. Il cardinale richiama anche la politica alla sua responsabilità, sollecitando un progetto per la città «per rimettere in sesto ciò che oggi è nascosto»
«Dio non ha voltato le spalle a Napoli»
«Napoli non è un grumo di cronaca nera. Occorre ricordarlo - e rivendicarlo - proprio mentre l’assedio serra le fila, intensificando i colpi di una violenza sempre più cieca e scellerata, spargendo a piene mani il veleno della sopraffazione consueta e ordinaria.»
«La Chiesa è pronta a fare ogni giorno di più ciò che ha già fatto. Lo stato di mobilitazione tra le file dei suoi sacerdoti e dell’intera comunità, è una condizione ordinaria del suo operare tra le gente. I suoi "agenti" sono già schierati e indossano la divisa mai usurata della speranza.»
Cardinale Crescenzio Sepe
Pubblichiamo il testo integrale della nota diffusa ieri dall’arcivescovo di Napoli, cardinale Crescenzio Sepe sulla situazione della criminalità nel capoluogo campano.
No. Dio non ha voltato le spalle a Napoli. Se anche questa- perfino questa - può essere la domanda che, allo stremo di ogni speranza, può sorgere nell’animo di chi vede la città piegata e piagata dalla violenza, ciò che occorre è mettere un punto fermo alla risposta e dare conto dell’angoscia che viene da un interrogativo così estremo. Nessun male è tanto grande da far velo alla misericordia di Dio. E Napoli non è un male, neppure quando i riflettori continuano a non darle requie e a mettere a fuoco, impietosamente, una a una, le sue molte piaghe; neppure è il corollario dei suoi tanti, troppi aggettivi: sporca, violenta, spietata. No. Napoli resta sempre il soggetto di una grande storia che fatica a farsi luce tra le tinte fosche che avvolgono molte sue vicende quotidiane. Napoli non è un grumo di cronaca nera. Occorre ricordarlo- e rivendicarlo - proprio mentre l’assedio serra le fila, intensificando i colpi di una violenza sempre più cieca e scellerata, spargendo a piene mani il veleno della sopraffazione consueta e ordinaria, rendendo, inoltre, sempre più sfumato il concetto di normalità applicato alla vita quotidiana. Intorno ai mali di Napoli si estende un territorio senza più confini. Molte (troppe) analisi hanno cercato, negli anni, di esplorarlo, ma senza successo. Proprio come un corpo malato, Napoli appare oggi sfinita da troppe cure mal riuscite.
Non è questo il tempo per allungare la già smisurata lista delle diagnosi: si tratta ora di affrontare, con lucidità e saggezza quella che appare come l’ennesima emergenza, ma avendo bene in mente che l’emergenza è un problema che ha messo radici e non la febbre di un momento.
I tentativi di mettere rattoppi alla realtà sono naufragati uno dopo l’altro e hanno lasciato non solo tracce ma vere e proprie cicatric i nel tessuto già sfibrato della città.
Quando si parla di Napoli bisogna fare i conti anche con la corrosione delle parole, tanto che si prova quasi imbarazzo a introdurre un termine - quello di progetto - che gli strumenti della politica hanno usurato, fino alla completa insignificanza. Il punto è questo: Napoli è stata lasciata vivere alla giornata e non poteva che vivere male, avvolta ogni giorno di più nella spirale dei suoi drammi vecchi e nuovi. Anche la storia della città - pur luminosa e di grande spessore - è andata via via dissolvendosi sotto il peso degli affanni di una quotidianità senza radici e senza regole. La politica - a tutti i livelli, nazionale e locale - non ha potuto dare ciò che non aveva: la capacità di guardare avanti e lontano. E quando Napoli non vede davanti a sé orizzonti larghi è una città a cui viene a mancare il respiro e, talvolta, la ragione.
Napoli ha bisogno di ritrovare i suoi orizzonti. Ecco il punto d’arrivo, ecco il progetto, ecco anche la strategia. Un orizzonte non si costruisce, esiste già. Ma può essere ostruito, come avviene a Napoli, dove la visuale appare negata più che nascosta.
Il primo punto di un progetto per la città non può che puntare a rimettere in sesto ciò che oggi è nascosto o soltanto appannato. Anche il «cuore di Napoli» ( quello vero, nobile e antico, e non l’altro mitizzato dal colore a buon mercato ) in questa saga degli orrori quotidiani, può apparire malato, e forse lo è. Ma proprio questo rende più urgente rimuovere le scorie perché riprenda il suo flusso vitale. Napoli ha bisogno del suo «cuore» - della sua storia, delle sue radici - molto più che di nuovi contingenti di soldati per strada. Sia chiaro: è prezioso l’apporto delle forze dell’ordine e il loro ruolo nella lotta al crimine e nel ripristino della legalità è indispensabile. Ma trattare Napoli semplicemente come un problema di ordine pubblico non può essere vero oggi e non sarà vero domani. Pur sotto il peso di riflet tori che trasmettono al mondo l’immagine della città-violenta, Napoli è tuttavia un grido alla coscienza di tutto il Paese, affinché la deriva della storia e delle radici non trasformi tutto, non solo Napoli, in un problema di ordine pubblico. Gli orizzonti sono appannati un po’ dappertutto, e a Napoli corre l’obbligo di liberare più in fretta possibile la linea del proprio orizzonte. Il dramma è diventato la sua rappresentazione quotidiana. Ma il primo dramma da tenere lontano è quello della rassegnazione e del cedimento. A tutti i livelli. La mobilitazione che in questi giorni ha interessato le istituzioni e la società civile - anche al di là delle diverse posizioni - significa qualcosa in più della semplice reazione alla nuova offensiva criminale.
Da parte sua la Chiesa è pronta a fare ogni giorno di più ciò che ha già fatto. Lo stato di mobilitazione, tra le file dei suoi sacerdoti e dell’intera comunità ecclesiale, è una condizione ordinaria del suo operare tra la gente. I suoi «agenti» sono già schierati e indossano la divisa mai usurata della speranza. Una speranza che non ha niente a che fare con la consolazione o con il pietismo, e che non impedisce di guardare in faccia la realtà in tutti i suoi aspetti. In questo senso non mancherà - e semmai avrà più forza - la denuncia che continuerà ad essere dura e implacabile nei confronti di chi, attraverso la violenza e il malaffare, infanga se stesso e la città. Né mancherà una cura più attenta ai bisogni di una comunità che vive con disagio questa nuova offensiva del crimine, organizzato e no. Come un’eredità sempre più preziosa ritorna il ricordo della consegna che Giovanni Paolo II affidò a Napoli nel corso della sua storica visita di sedici anni fa: «organizzare la speranza», e organizzarla a partire da un «Mai». «Non arrendetevi al male. Mai». Sono parole per l’oggi e anche per il domani della città. Sono parole sulle quali ri-costruire il nostro futuro. È questo il senso della speranza che diffon de la Chiesa di Benedetto XVI e che riporta alla vicinanza di Dio, anche alla Napoli di questi giorni. No. Dio non ha voltato le spalle a Napoli.
Un altro dato nell’allarme criminalità dai dati del Ministero: sono il triplo di Roma. Solo una parte "ritirati" dalle famiglie, e non sempre per cambiare scuola
Napoli, ogni anno dalle aule "scompaiono" 10mila ragazzini
di SALVO INTRAVAIA *
Ogni anno, in provincia di Napoli, quasi diecimila studenti abbandonano le aule scolastiche. I "desapacecidos" della scuola pubblica napoletana sono ragazzini delle medie, e soprattutto dei primi due anni della scuola secondaria di secondo grado, che nel bel mezzo dell’anno scolastico decidono che la loro carriera scolastica può considerarsi conclusa.
La maggior parte di loro prende la via di lavori, spesso precari e in nero, utili a racimolare qualche decina di euro da tenere in tasca per sentirsi ’grandi’. Altri incappano nelle maglie della microcriminalità e diventano corrieri della droga o il braccio di una piccola manovalanza del crimine che in questi giorni insanguina Napoli e dintorni. Alcuni chiedono ’asilo’ alle scuole private.
Il ministero della Pubblica istruzione li censisce tra coloro che, iscritti regolarmente a scuola, non vengono poi valutati durante gli scrutini finali per due ordini di motivi: interruzioni della frequenza ’formalizzate’ dalla famiglia e interruzioni ’non formalizzate’. Di questi ultimi la scuola perde completamente ogni traccia e nessuno sa quale strada abbiano preso.
I dati. Il numero di interruzioni della frequenza scolastica che riguardano la provincia di Napoli sono impressionanti, soprattutto se confrontati con quelli di altre grosse province italiane. I dati si riferiscono all’anno scolastico 2004/2005, l’ultimo di cui i dati sono noti. In tutto sono 9.042 gli adolescenti delle scuole di Napoli e provincia che i professori non hanno potuto valutare a fine anno. Di questi, ben 2.706 figurano fra coloro che hanno interrotto il rapporto con la scuola senza spiegare il perché a nessuno.
Questi numeri acquistano ancora valore più se vengono messi a confronto con quelli di altre grandi province italiane. In quella di Milano, si contano in totale 3.708 ragazzini che gettano la spugna, in provincia di Roma ne sono stati censiti 4.451 e in quella di Palermo 3.758. Ma il dato che salta all’occhio è quello relativo degli abbandoni alla scuola media. In provincia di Napoli sfiorano le 2 mila unità, contro - ad esempio - i 525 di Roma.
La dispersione scolastica. I cosiddetti abbandoni costituiscono forse la voce più preoccupante della dispersione scolastica che contabilizza anche coloro che vengono bocciati e gli evasori: i ragazzini che avrebbero dovuto frequentare le lezioni e a scuola non si sono mai presentati. Chi abbandona difficilmente ritorna a scuola e allunga la schiera di coloro che, senza un titolo di studio, contribuiranno a fare precipitare in basso nelle classifiche internazionali l’Italia. Ma, soprattutto, resta in balia di un destino non sempre sicuro.
In sole otto province italiane (Napoli, Palermo, Milano, Roma, Firenze, Genova e Bari) si contano oltre 30 mila abbandoni l’anno e nel totale delle 103 province se ne possono stimare qualcosa come 150 mila. Un numero che tradotto in cifre manda in fumo qualcosa come 2 miliardi di euro l’anno: il 5 per cento dell’intero bilancio del ministero della Pubblica istruzione che si aggira attorno ai 40 miliardi. (1 novembre 2006)
* www.repubblica.it, 01.11.2006
Si è parlato dei problemi dell’occupazione e dei giovani in generale.
Sepe: «A Napoli serve aiuto per risollevarsi»
Il cardinale si è detto soddisfatto dell’incontro con Romano Prodi: «C’è una forte volontà di impegnarsi concretamente, ci rivedremo»
NAPOLI - Il presidente del Consiglio Prodi «sta lavorando su progetti concreti in temi di occupazione e giovani e che vuole confrontare con le autorità del territorio. Speriamo che ci sia qualcosa di concreto». Lo ha detto il cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe, al termine dell’incontro di circa mezz’ora con il premier nella sede della cura arcivescovile. «Ho voluto sottolineare - spiega Sepe - soprattutto la questione dell’occupazione in genere e dei giovani in particolare e ho trovato il presidente molto sensibile. Abbiamo passato in rassegna i vari problemi che il presidente conosce benissimo e con una forte volontà di impegnarsi concretamente». Secondo Sepe «la sua visita è certamente segno di un momento importante per una ripresa di speranza per una Napoli che ha bisogno di essere aiutata a risollevarsi». Il cardinale ha riferito di aver consegnato a Prodi il messaggio reso noto nei giorni scorsi e cioè che, in questi giorni di emergenza criminale, «Dio non ha voltato le spalle a Napoli». A giudizio del cardinale «Napoli ha tali potenzialità che non solo può risollevarsi ma risplendere di quella sua bellezza propria, del passato e del presente». Sepe ha concluso che lui e Prodi si sono ripromessi di incontrarsi ancora. 02 novembre 2006
* www.corriere.it, 02.11.2006
Il disegno di Ratzingher per battere i teo-con e i cattolici progressisti
Quelle parole del papa a Ratisbona erano ben calcolate. Vi spiego perché
di Daniele Menozzi * (Liberazione, 23.09.2006)
I passi del discorso di Benedetto XVI a Ratisbona che hanno suscitato indignate reazioni nel mondo islamico sono stati talora presentati come un “errore di comunicazione”. Il rammarico espresso dal segretario di stato e poi dallo stesso pontefice per l’interpretazione che ne è stata data ha confermato a molti osservatori che si è trattato di una scivolata nella tradizionale sorvegliata cautela del discorso vaticano sui temi della politica internazionale. L’enfatizzazione mediatica sulle scuse - mai in realtà espresse dal pontefice - ha fatto passare l’intervento di Ratzinger come una vera e propria “gaffe” diplomatica. Si tratta di valutazioni corrette? Se ne può dubitare.
In primo luogo occorre tener presente che i brani citati da un’opera dell’imperatore bizantino Manuele II Paleologo sulla connaturalità tra guerra santa e islam costituiscono un passo sì breve, ma non marginale. Sono infatti un tassello fondamentale nella struttura complessiva del discorso del papa. L’insieme del suo intervento, spesso eluso nei commenti apparsi sulla stampa, anche internazionale, va invece attentamente considerato per attribuire alle parole di Ratzinger il loro effettivo significato.
Benedetto XVI inizia con quella citazione per ricordare che esiste nel mondo islamico una assolutizzazione della trascendenza di Dio, che, a suo avviso, apre la porta all’imposizione della religione tramite la violenza. Non è però l’unica e necessaria conseguenza che se ne può trarre. A suo avviso è presente in quella cultura anche una corrente moderata, che segue un’altra strada. Come mostrano alcuni passi del Corano - dal pontefice esplicitamente richiamati - vi alberga pure una posizione tollerante verso l’altro. Ma questi settori dell’islam esprimono nei loro convincimenti l’esistenza di un nesso inscindibile religione e ragione. Non possono perciò sviluppare alcun dialogo con l’Occidente, in quanto qui prevale una “ragione moderna” che si è costitutivamente posta come autonoma dalla religione.
E’ sulla base di questa premessa che il pontefice sviluppa la parte più ampia ed argomentata del suo discorso. Vuole mostrare che il fondamento dell’orientamento fondamentalista del mondo islamico trova in qualche modo una corrispondenza in quelle concezioni dell’Occidente che mirano anch’esse - certo sulla base di ben diversi postulati, ma con esiti analoghi - a separare la fede dalla ragione. Ratzinger ne individua tre componenti via via succedutesi nella storia della cultura europea: il protestantesimo (che porta a culmine questa tendenza tra Ottocento e Novecento con la sua versione liberale); l’illuminismo, almeno nelle sue tendenze più radicali; quei settori del cattolicesimo progressista che propongono una de-ellenizzazione del cristianesimo in nome della sua inculturazione in ogni tipo di civiltà umana.
Se le cose stanno così, cullarsi nelle tesi della gaffe o dell’ingenuità del professore diventato papa serve a poco. Naturalmente quando ci si interroghi sulla linea effettiva di questo pontificato. Chiara appare la proposta che emerge alla fine dal discorso pontificio: se l’Occidente vuole trovare un qualche terreno di intesa con il mondo islamico deve abbandonare quella modernità che ha portato all’autonomizzazione della ragione dalla fede. Deve ritrovare invece quella tradizione - e per il papa è la genuina tradizione cattolico-romana - che ha saputo individuare nella “retta ragione”, cioè in una ragione in ultima analisi sorretta e guidata dalla chiesa, il fondamento del suo sviluppo civile. Insomma, per evitare un apocalittico scontro di civiltà, occorre un “taglio delle ali”. Da un lato l’Occidente deve ritrovare la sua identità profonda nel cattolicesimo, differenziandosi dai protestanti teo-con; dagli alfieri, laici e cattolici “progressisti”, della modernità illuministica; e dai credenti che propongono una teologia dell’inculturazione. Dall’altro lato l’islam moderato deve liberarsi delle correnti fondamentaliste. Il comune terreno d’incontro risulta quel rapporto tra fede e ragione che, aspetto imprescindibile della cultura islamica tollerante, in Occidente si manifesta nella “retta ragione”diretta dalla chiesa, producendo il ripudio della violenza nell’apostolato proselitistico e il rifiuto della legittimazione religiosa dei conflitti.
In questa prospettiva il nucleo centrale del programma papale appare il ristabilimento di uno stretto legame tra chiesa e società in Occidente. Sullo sfondo sembra di intravedere la presentazione del cattolicesimo romano come sua religione civile. In ogni caso, ben più che all’islam, è all’ interlocutore occidentale che si rivolge Ratzinger. A suo giudizio solo dopo che è stato recuperato il ruolo centrale del cattolicesimo nella vita collettiva - espungendo a destra i teo-con e a sinistra i credenti “progressisti” - il mondo occidentale potrà elaborare con successo un costruttivo rapporto con il mondo islamico che escluda la guerra santa.
Alla luce di questo quadro complessivo siamo proprio sicuri che Benedetto XVI non prevedesse le reazioni dei fondamentalisti islamici alla citazione di Manuele II Paleologo? E’ vero che ha fatto a lungo il professore universitario, ma in genere le lotte accademiche - cui Ratzinger non è stato nei torridi giorni del Sessantotto estraneo - non rendono particolarmente ingenui, anzi. E la curia romana - dove egli ha compiuto una felice carriera - non pare un ambiente in cui uno sprovveduto docente possa arrivare (e forse costruirsi la scalata) al trono di Pietro. Non è allora più verosimile ritenere che quella citazione sia stata intenzionale e ben calcolata? Né del resto c’è stata alcuna ritrattazione, ma solo rammarico per la sua errata interpretazione. L’ammissione, per ovvie ragioni diplomatiche, che quelle frasi si prestavano all’equivoco non cambia la sostanza delle cose.
In effetti l’esito di quel discorso dimostra che la tendenza alla guerra santa è nel mondo islamico tanto forte che le parole papali - un palese ed esplicito invito al dialogo, anche se a certe condizioni - vengono sistematicamente fraintese. Ne scaturisce un inevitabile richiamo all’Occidente a compattarsi lungo quella linea e quella strategia che Benedetto XVI ha enunciato. Il recente discorso di Ruini alla CEI pare la dimostrazione che questo risultato è stato, almeno all’interno della gerarchia italiana, acquisito. In effetti i termini in cui il presidente dei vescovi italiani ha ripreso il discorso di Ratisbona contengono un dato rivelatore: le reazioni ai passi così discussi vengono presentate come una ulteriore sollecitazione ad introiettare profondamente e a diffondere la proposta di Ratzinger. Questa posizione - al di là dei successivi edulcoramenti diplomatici - non è forse l’interpretazione autentica della intenzionalità che soggiaceva alla loro enunciazione?
Se le cose stanno così, cullarsi nelle tesi della gaffe o dell’ingenuità del professore diventato papa serve a poco. Naturalmente quando ci si interroghi sulla linea effettiva di questo pontificato.
* Daniele Menozzi è un esponente del comitato scientifico della Fondazione “Murri” ed è docente di storia contemporanea alla Normale di Pisa
-01 ottobre 2006 - dal blog di Sandro Magister *
Fuoco senza quartiere sul papa, da un altro gesuita islamologo
Lunedì 25 settembre, mentre Benedetto XVI parlava ai rappresentanti diplomatici dei paesi musulmani, un dotto gesuita islamologo spiegava a una vasta platea di musulmani che il papa aveva sbagliato tutto.
Lo spiegava in diretta radiofonica sul sito on line multilingue dello sceicco Yusuf Qaradawi: l’opinion maker più ascoltato del mondo arabo, star della tv Al Jazeera, ideologo dei Fratelli Musulmani, esaltatore del "martirio" degli uomini bomba.
Questo gesuita è Thomas Michel, canadese trapiantato a Roma, dal 1981 al 1994 l’islamologo più autorevole del pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, di cui resta consultore, attualmente responsabile ufficiale del dialogo con l’islam per la Compagnia di Gesù e per la federazione delle conferenze episcopali dell’Asia.
Rispondendo alla prima domanda, padre Michel ha subito ricordato che Giovanni Paolo II faceva sempre controllare in anticipo da lui i propri discorsi riguardanti l’islam: "In qualche occasione trovavo delle frasi che mi sembravano offensive, lo facevo notare al papa e lui sempre le cancellava dal testo". Cosa che invece - ha aggiunto - Benedetto XVI non fa.
La trascrizione completa in inglese del botta e risposta tra padre Michel e i suoi interlocutori la trovi nel sito www.islamonline.net, sotto il titolo "Fr. Thomas Michel. Ask a Vatican Official".
Eccone qui di seguito alcuni passaggi:
"A Ratisbona, Benedetto XVI ha esposto il suo punto di vista personale. Non c’è dubbio che in Vaticano alcuni sono d’accordo con lui, ma ce ne sono anche molti che non concordano affatto con le vedute personali del papa".
"Sì, penso che utilizzando un autore mal informato e carico di pregiudizi come Manuele Paleologo il papa abbia seminato mancanza di rispetto nei confronti dei musulmani. Noi cristiani dobbiamo ai musulmani delle scuse".
"Il papa probabilmente ragionava come un accademico e non ha capito che così tanta gente avrebbe ascoltato quello che diceva. In questo caso, penso che il papa avrebbe dovuto avere migliori consiglieri, i quali gli avrebbero detto che quelle sue parole distruggevano anni di fiducia e di apertura tra cristiani e musulmani".
"La citazione del Paleologo è stata una pessima idea. Il mio pensiero è che ogni volta che usiamo un esempio negativo noi dovremmo prenderlo dalla nostra storia piuttosto che da quella degli altri. Il papa avrebbe potuto usare le Crociate, per esempio, se voleva criticare la violenza ispirata dalla religione e non recare offesa ad altri".
"Non credo che le parole del papa siano state sagge. Qualcuno in Vaticano avrebbe dovuto dirglelo prima che egli rendesse pubblico il suo pensiero. La rabbia che è esplosa sarebbe stata evitata se i consiglieri e gli assistenti del papa avessero fatto bene il loro lavoro. Spero che le parole del papa, che non sono state sagge, non diano alimento ad altra violenza. Spero che i musulmani accettino le sue scuse e perdonino. Ma ci vorrà molto tempo per ricostruire la fiducia che c’era stata con papa Giovanni Paolo II".
"Ho lavorato in Vaticano come capo dell’ufficio per l’islam tredici anni, dal 1981 al 1994. Ora non ho più questa carica, ma sono un ’consultore’’. Amici in Vaticano mi hanno detto che il papa non li ha chiamati per spiegare loro che cosa intendeva dire nel suo discorso. Fin dall’inizio il suo messaggio non era chiaro a tutti i dirigenti vaticani. La grande maggioranza di loro non ha neppure visto il testo fino a che ne hanno letto qualcosa sui giornali. I pochi che erano vicini al papa dissero ai giornalisti - a condizione di restare anonimi - che essi avevano espresso delle riserve sul testo".
"Quello che i musulmani hanno chiesto è stata una precisa, diretta richiesta di scuse, una volta per tutte, niente di più. E’ ciò che anch’io vorrei vedere. Tra uomini, ciò che comincia come una richiesta di scuse spesso diventa una autogiustificazione. Per esempio: ’Mi dispiace di essere arrivato in ritardo, ma ho ricevuto troppo tardi il vostro messaggio e poi non mi avete detto con chiarezza dove ci si doveva incontrare...’. Simili ’scuse’ tendono a non essere accettate e i cattivi sentimenti continuano".
*
http://blog.espressonline.it/weblog/stories.php?topic=03/04/09/3080386
A Napoli ha vinto la camorra
di Giorgio Bocca *
La violenza dilaga. Il sistema criminale impera. I cittadini non si ribellano. E sembra ormai quasi scontato accettare la sconfitta dello Stato. Con dolore e pietà
Mi scrive un lettore napoletano che si firma Giovanni Aiello: "Napoli la grande città che dovrebbe ribellarsi alla occupazione camorrista in larga parte costituita da ’napulegni’ ovvero da cittadini impigliati nel vizio delle forze delinquenziali. Napoli insomma dovrebbe ribellarsi contro se stessa e questo è francamente impensabile. I potenziali ribelli, i ’napoletani buoni’ come li chiama lei, sono davvero pochissimi. Le persone non affiliate, non colluse, non direttamente complici, non economicamente dipendenti, non simpatizzanti o anche non culturalmente contaminate, si contano ormai secondo una mia personale stima nell’ordine delle decine di migliaia. A fronte invece di un esercito fatto di arroganti, insolenti, ignoranti, ipocriti, presuntuosi e sempre più spesso violenti.
Insomma non è che non si voglia ma sono proprio troppi per combatterli. Il tessuto culturale di base è fatto da una trama simile a quella camorristica. E ci se ne accorge semplicemente entrando nei negozi, negli uffici, guidando la macchina o facendo lo slalom fra le merde di cane nelle strade più belle della città.
A Napoli ’l’altro’ è quasi sempre percepito come un intralcio, come un ostacolo alla propria presunta libertà. Tutti si odiano e ciascuno si crede vittima di tutti gli altri. Inoltre questa mentalità è assolutamente trasversale, riguarda i più umili come i più istruiti e si ripropone in tutti gli ambienti, partendo dal profondo e poi ricadendo a cascata sulla città, come una fontana o come farebbe un vulcano. È forse per questo che anche le immondezze che arredano le strade non ci fanno un grande effetto perché Napoli è una città normalmente sudicia e trasandata.
In definitiva io credo che almeno per ora la criminalità abbia vinto. E non perché ci abbia sopraffatto, ma perché noi esprimiamo questo, siamo così. Ma le domando: perché tutti si accaniscono con la mia città? Fa schifo è vero, siamo in cima alle peggiori classifiche, ma lezioni e consigli della Milano dei berluschini e della Roma dei ladroni non ne possiamo accettare. Nessuno mi pare che in Italia abbia ormai il titolo per aprire bocca su nessun altro. Perché Napoli non è un’isola. Siamo tutti in parte corresponsabili dello stesso paese abbandonato".
Ma questo Giovanni Aiello non sarà per caso un mio nom de plume, non sono io che ho intitolato il mio saggio ’Napoli siamo noi’? Dicono che occuparsi della tragedia urbana di Napoli sia opera impossibile. Questa impossibilità sta dietro al rifiut o di molti napoletani di accettare le critiche dei foresti. "Non so cosa sia Napoli dopo cinquemila anni che ci vivo", scrive Rea e ha ragione ma i morti e le immondezze per la strada non può non vederle anche lui. Chi si occupa di questa meravigliosa e orrida città non può separare una cosa dall’altra, non può indagare i misteri e gli accumuli della storia (a Napoli, ha scritto Benedetto Croce, dobbiamo ancora rimuovere le macerie del Duecento) e ignorare i mali assurdi del presente: la città coperta di lordure, gli assassinati per i più futili motivi, le regole del ’sistema’ che continua a produrre miseria e la sordida ricchezza dei violenti. Non c’è altro da fare, si direbbe, che accettare questa fine del mondo sempre rinviata, questa anarchia sempre in qualche modo tenuta assieme dalla natura si direbbe più che dagli uomini.
Con dolore e pietà più che con rassegnazione.
L’Espresso, 09.11.2006
Emergenza illegalità nell’area napoletana:
di Agenzia NEV del 4-11-2006
La XIV Assemblea della Federazione delle chiese evangeliche si esprime a sostegno della lotta contro la criminalità e delle chiese impegnate nell’area *
Roma, 4 novembre 2006 (NEV-CS84) - “Cercate il bene della città... e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene”. Esordisce con un versetto di Geremia (29: 7) l’ordine del giorno approvato nella tarda serata di ieri dalla XIV Assemblea della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) sulla “gravissima situazione di violenza camorristica e di microcriminalità diffuse sul territorio di Napoli e dell’hinterland napoletano”.
I delegati delle chiese membro della FCEI, votando con alzata in piedi e all’unanimità l’ordine del giorno, denunciano “la situazione di illegalità diffusa che affonda le radici in mali endemici, riconducibile all’inadeguatezza di una politica di prevenzione e di messa in sicurezza del territorio”.
L’ordine del giorno sollecita quindi “le autorità civili e politiche a mettere in atto tutte le iniziative possibili per una politica di sviluppo e di occupazione, rivolta soprattutto alle nuove generazioni, allo scopo di sottrarle al richiamo di attività illegali e di facili guadagni”. Inoltre, rivolgendosi alle proprie chiese che operano nel napoletano le invita a “tenere al centro della propria predicazione ed azione la proclamazione della giustizia di Dio e la conversione dei cuori, unite ad una cittadinanza condivisa fondata su comuni valori etici e civili”; e chiede a tutte le chiese membro della FCEI a “sostenere in ogni forma il difficile lavoro di presenza e di testimonianza sul territorio svolto da fratelli e sorelle impegnati nelle chiese e nelle opere di diaconia”.
La FCEI fu costituita a Milano il 5 novembre 1967, avendo come membri effettivi le chiese battiste, luterane, metodiste e valdesi. In seguito sono entrate a farne parte l’Esercito della Salvezza, la Chiesa apostolica italiana, la Comunione di chiese libere, la chiesa pentecostale “Fiumi di Vita” di Napoli e la Comunità elvetica di Trieste, la comunità St. Andrew della Chiesa di Scozia. Da questa Assemblea sono entrati a farne parte come osservatori l’Unione delle chiese cristiane avventiste del 7° giorno (UICCA) e la Federazione delle chiese pentecostali (FCP).
L’Asemblea chiude oggi i suoi lavori con l’elezione dei nuovi esecutivi e del nuovo presidente per il prossimo triennio.
* www.ildialogo.org, Domenica, 05 novembre 2006
Catania: la santa e gli assassini
di Claudio Fava *
Accadrà domattina, infallibilmente: i randellatori dello stadio Cibali, i fabbricanti di bombe carta, gli appiccatori di incendi, i «boia chi molla» urlati in faccia ai celerini riporranno i passamontagna in fondo all’armadio, s’infileranno nelle loro tuniche bianca lunghe fino ai piedi, prenderanno in mano ceri votivi al posto delle spranghe e così acconciati, con il viso devoto, accompagneranno sant’Agata patrona in giro per la città, come ogni 5 febbraio da che la memoria ci accompagna. Il tempo della vergogna e del lutto (un poliziotto scannato, cento feriti) sarà durato lo spazio di una notte, giusto il necessario per compilare dichiarazioni di sdegno e necrologi. Poi Catania tornerà alla sua beata irresponsabilità.
Non è un calembour: è il ritratto della mia città, la sua corda morale. L’idea cioè che esista un tempo per gli stadi e uno per i santi, che il poliziotto morto si possa seppellire, la piazza della battaglia ripulire dalle macerie e il giorno dopo ritrovarsi tutti fedeli, tutti cresimati, con lo sguardo ripulito, a sfilare dietro il fercolo della patrona. Fingendo di non sapere che quello stadio e quella santa, le botte e la processione fanno parte della stessa città.
Sarebbe stato un gesto bello e civile chiedere alla santa di rimanere in chiesa a vegliare anche lei questo povero morto. Sarebbe stato un gesto forte e carico di buon senso se il sindaco di Catania, il suo vescovo e le altre (come si usa dire in questi casi) “autorità civili e religiose” avessero deciso che non bastava sospendere la gara podistica e i fuochi d’artificio ma che, di fronte allo scempio e alla follia collettiva di venerdì notte, andava annullata ogni cerimonia religiosa. Anche per costringere questa città, così irriverente, così smemorata, a guardarsi per una volta allo specchio. Senza i paramenti del sacro. Senza i ceri e le candelore.
Invece s’è deciso che tutto continui: tanto, che c’entra la santa con il calcio? La santa non c’entra. I devoti, sì. Uno o due anni fa, tra i fedelissimi intabarrati di bianco ci furono anche pistolettate, e un tale rimase gambizzato proprio mentre i botti per la patrona coprivano quelli del revolver. Il giornali ne riferirono come d’un dettaglio, una cosa curiosa, pittoresca.
Ecco la tragedia: l’idea che questo spazio tra sacro e profano non debba mai essere riempito, che il mafioso possa scannare i picciriddi nelle botti d’acido e poi farsi la comunione in chiesa, che il tifoso possa sparare una bomba carta in faccia al poliziotto e il giorno dopo accompagnare la santa con la candelora del proprio rione. L’idea, insomma, che tutto si possa tenere perché tutto - in fin dei conti - è consentito.
Scriveva venerdì, alla vigilia della partita, il quotidiano locale che Catania è città «sperta». Ovvero si fa rispettare: sempre. Era il loro modo per presentare il derby, per sciacquarlo nei sapori di vecchie furbizie, il solito modo per risolvere tutto con il rumore di una risata. La città è fabbricata su questo tenace concetto di impunità, la nostra “spertezza”, la sana rivolta contro qualcosa d’altro: lo Stato, i suoi poliziotti, i suoi giudici, le sue leggi, le sue regole...
Il calcio non c’entra più, e nemmeno la rivalità tra Palermo e Catania che è una barzelletta, letteratura, cose da gattopardo. C’entra quest’idea malata che laggiù, nell’isola, tutto possa convivere, che tutto si tenga sempre sul palmo della stessa mano, botte e carezze, santi e assassini, spranghe e ceri votivi. In attesa che qualcuno trovi il coraggio per dire che la ricreazione è finita.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.02.07, Modificato il: 04.02.07 alle ore 15.08
Alle porte di Napoli spunta un quartiere È abusivo, ma nessuno se ne accorge
29 palazzi costruiti a tempo di record, altri 21 edifici e una ventina di villette a schiera. Gli appartamenti vengono venduti, i notai registrano e le banche danno i mutui. Né il comune di Casalnuovo né le forze dell’ordine muovono un dito. Il 5 marzo una manifestazione di cittadini per la legalità
di Francesca Pilla (il manifesto, 24.02.2007)
Casalnuovo (Napoli) «È incredibile, dalla mia casa ho visto per mesi i lavori in corso di quei 29 palazzi, ma non avrei mai immaginato che fossero abusivi». E’ ancora incredula, come tutti a Casalnuovo, Fortuna Tizzano, candidata alle scorse amministrative per il Pdci proprio a Casarea, dove si è compiuto quello che nessuno credeva possibile. Ventinove palazzi, circa 300 appartamenti, eretti pietra su pietra a tempo di record, 21 stabili piantati invece a via Filighito in una zona centrale e un’altra ventina di villette a schiera in periferia, sono spuntati come funghi, molti già venduti con tanto di permessi, autenticazioni del catasto, firme notarili e accessi ai mutui. Un giro di connivenze enorme, un caso scoppiato da qualche settimana nel clamore generale e ora messo in sordina, mentre la magistratura lavora e la patata bollente politica è rimasta nelle mani dei circa 53 mila abitanti di questo comune alle porte di Napoli. Anello metropolitano dove la camorra opera senza dover spacciare in strada o ricorrere al pizzo, ma più strisciante si è inserita nell’imprenditoria edilizia e la fa da padrona.
«Quanto accaduto non è alla nostra portata», sostiene quella parte onesta della città che si è riunita giovedì sera nella chiesa di padre Tommaso a Licignano, per organizzare una manifestazione per la legalità e cercare di riprendere il filo della matassa. Ma è troppo ingarbugliato. «Vi rendete conto, di noi ha parlato la stampa nazionale e internazionale e perfino il New York Times - spiega Giuseppe Pelliccia, per anni consigliere comunale, attualmente esponente della Margherita - ora però qui non ci viene nessuno delle istituzioni. Vogliamo fare un corteo? Dobbiamo renderlo regionale o addirittura nazionale».
Il timore del neonato comitato dei cittadini è che il 4 marzo (data ancora provvisoria) in piazza non venga nessuno per paura. Così Pelliccia, preso dall’enfasi, propone addirittura un referendum per spostare l’area di Casarea sotto l’amministrazione di Volla. Ma Casarea non è una zona disgraziata da sbolognare a qualche altro comune, la distanza con il centro di Casalnuovo è di qualche km e lo stesso comune non è una terra di nessuno: raggiungibile da Napoli solo con un quarto d’ora di macchina, «ospita» uno dei centri commerciali più grandi dell’hinterland, sede di importanti catene di distribuzione nazionali e internazionali e di una mega multisala.
«La verità è che ci hanno abbandonato - dice un cittadino deluso - è un giro troppo grande, qui andrebbero destituiti tutti, dal sindaco alle forze dell’ordine, passando dalla Guardia di finanza. Durante i lavori in corso ho chiamato personalmente tutti e la risposta è stata sempre la stessa: non è di nostra competenza». «E’ certo - lo interrompe una signora - se anche andiamo dai vigili urbani per denunciare l’abusivismo nel mercato comunale, loro se ne fregano perché fanno la spesa gratis. Figurati con i palazzi».
Ma il sindaco, il consiglio comunale come rispondono a quanto è successo? «Dicono di non saperne niente», spiega Antonio Pelliccia, candidato del centrosinistra a primo cittadino, sconfitto da Antonio Manna del centrodestra che ha ottenuto un plebiscito del 75%, mentre la sua coalizione ha incassato addirittura l’80% nelle votazioni dello scorso maggio. «E’ un po’ strano - continua - se si pensa che alle politiche il Polo si era attestato al 35%. Il punto, lo abbiamo denunciato anche in campagna elettorale, è che Manna ha vinto grazie a consensi poco chiari. Noi a Casarea non abbiamo potuto organizzare nessuna manifestazione elettorale, i miei attacchini si rifiutavano di andare lì perché erano minacciati. Ora dovrà decidere la magistratura». Un compito difficilissimo, visto che sotto accusa si trova un’intera classe dirigente comprese le forze dell’ordine, la Finanza, i vigili urbani e chiunque non si sia accorto che era spuntato dal nulla un quartiere sano. Poi sono sotto accusa i tecnici del comune che hanno fornito i timbri per gli attestati di condonabilità degli immobili, i notai che hanno apposto le firme per legalizzare le compravendite, le banche che hanno concesso i mutui e infine la solitudine dei cittadini truffati che potrebbero trovarsi indebitati e in mezzo a una strada se dovesse passare la linea dell’abbattimento degli edifici. L’inchiesta è nelle mani della procura di Nola e per il momento si sa che uno dei costruttori si chiama Domenico Pelliccia, a capo della ditta Visagi.
«Quanto accaduto è il frutto di un patto scellerato tra imprenditoria, politica e camorra», ne è convinto Mario Sannino, segretario del Prc e operaio in un’azienda calzaturiera. «Sono gli edili i veri padroni di Casalnuovo - continua Sannino - le persone ora hanno paura perché quasi ogni famiglia ha ottenuto un lavoro nel settore. Per questo nessuno parla». Eppure fino agli anni ’80 Casalnuovo era una città operaia, qui solo l’Exide, la Tamoil e la Bibigas davano lavoro a una grossa fetta degli abitanti. «Non siamo un popolo di omertosi e abusivi - afferma Ignazio Ponticelli, Ds, uno dei 5 consiglieri all’opposizione - non siamo Corleone, con tutto il rispetto per i siciliani. Eppure lo stesso Antonio Bassolino qui non è mai venuto, nemmeno dopo lo scandalo. Ora ci serve aiuto». Ma giovedì sera alla riunione del comitato per la legalità c’era solo Bernardo Tuccillo, assessore provinciale del Prc.
Gli sconcertanti dati della Confesercenti sugli affari criminali
"La ’Mafia ’Spa è l’industria italiana che risulta più produttiva"
"La mafia? E’ la prima azienda italiana"
Per Sos Impresa 90 mld di utili l’anno
ROMA - Con un utile annuo pari a 90 miliardi di euro, una cifra equivalente a cinque manovre finanziarie o, se si preferisce, alla somma di otto "tesoretti", l’"azienda mafiosa" si classifica al primo posto nella classifica dell’imprenditoria italiana. Un primato difficile da spodestare, dato che il giro d’affari che ruota intorno a sfruttamento della prostituzione, traffico di droga e armi, estorsione, rapine e usura non sembra conoscere crisi.
Il rapporto sulla criminalità di "Sos Impresa" della Confesercenti delinea un quadro drammatico. In base ai dati raccolti, l’usura rappresenta la principale fonte di business criminale per la mafia, con circa 30 miliardi di fatturato. Il racket frutta ai clan 10 miliardi, 7 miliardi arrivano dai furti e dalle rapine, 4,6 dalle truffe, 2 dal contrabbando, 7,4 dalla contraffazione e dalla pirateria, 13 dall’abusivismo, 7,5 dalle mafie agricole, 6,5 dagli appalti e "solo" 2,5 dai giochi e dalle scommesse.
Dati che fanno ancora più impressione, se messi in relazione a tutti gli organismi e ai cittadini coinvolti nel giro dell’illegalità. Il racket delle estorsioni coinvolge 160 mila commercianti italiani, con una quote di oltre il 20 per cento dei negozi e punte dell’80 per cento negli esercizi di Catania e di Palermo. I commercianti e gli imprenditori subiscono 1.300 reati al giorno, praticamente 50 l’ora.
La collusione degli imprenditori. "Uno degli elementi che colpisce maggiormente - sottolinea il documento - è l’espansione della cosiddetta "collusione partecipata", un fenomeno che investe il gotha della grande impresa italiana, soprattutto quella impegnata nei grandi lavori pubblici. Gli imprenditori preferiscono venire a patti con la mafia piuttosto che denunciare i ricatti".
Confesercenti fa anche alcuni nomi di aziende che hanno "ceduto" alla criminalità. "Il colosso Italcementi - si legge nel rapporto - è uno di quelli che ha ceduto alla morsa, supportando maggiori costi, assumendosi numerosi rischi ed agevolando, così, l’espansione economica della cosca dei Mazzagatti.
Anche per i lavori della Salerno-Reggio Calabria gli imprenditori sono stati costretti a trattare con le cosche calabresi. La Impregilo - sempre secondo Sos Impresa - aveva insediato nelle società personaggi che, secondo gli inquirenti "da sempre avevano avuto a che fare con esponenti della criminalità organizzata e con imprese di riferimento alle cosche".