Quando non si vuol sentire: din, don... dan!
IL CODICE DA VINCI ... KOYAANISQATSI !!!
Un omaggio al Presidente della Camera, e al Papa
di Federico La Sala
Al di là del giudizio specifico sulle opere di Dan Brown, c’è da dire che i suoi due lavori hanno il grande merito di sollecitare a riflettere, a livello planetario (dato il successo), sul problema dei problemi, quello antropologico (il più importante - come Kant insegna nella "Logica" - rispetto a quello etico, metafisico, e religioso!): l’equilibrazione del rapporto uomo-donna!
I due romanzi thrillers non a caso hanno una sola parola in comune, ed è della lingua degli americani Hopi: “koyaanisqatsi - la vita priva di equilibrio” (Il Codice da Vinci, p. 151; Angeli e demoni, p. 136).
Una parola ‘magica’ (su cui aveva già richiamato l’attenzione, nel 1982, Godfrey Reggio, con il suo importante film e la sua accorata denuncia per la vita stessa sul e del pianeta - con musiche di Phillip Glass - intitolato proprio “Koyaanisqatsi: Life Out of Balance”) come quella, passando dall’antropologia e dalla letteratura alla politica e a percorsi storici inediti “per la verità e la riconciliazione” (la Commissione istituita nel Sudafrica nel 1995, istituita da Nelson Mandela - con il motto “guariamo la nostra terra”), di “ubuntu”, una parola-concetto della antichissima lingua africana dal significato inequivocabile e di portata ‘biblica’: “le persone diventano persone attraverso altre persone”.
Per uscire dalla barbarie non ci sono altre strade: bisogna spezzare il cerchio vizioso della cecità e della follia e aprire gli occhi all’altro, all’altra, e a noi stessi e a noi stesse. E’ attraverso la mediazione delle cause interne che quelle esterne producono il loro effetto - questo ci hanno sempre detto i grandi saggi, e anche Freud. E, alla fine della sua vita (1938), lo dice in tutta chiarezza: Gesù è stato interpretato edipicamente - in modo tragico! Lo sapeva già anche Dante, che aveva ritrovato la strada alla, della, e nella Comoedìa!. E, oggi, lo sappiamo - tutti e tutte: Gesù non è Edipo!!! E la gerarchia della chiesa cattolico-romana - dopo la morte dell’ultimo vecchio papa, Giovanni Paolo II - non ha più storia. Il Libro è stato chiuso: non è più né madre né maestra, sulla via della vita e della verità!!! Dopo secoli di proposta di un modello di ‘sacra’ famiglia, con un semi-riconoscimento della paternità di Giuseppe, ora ha ‘sponsorizzato’ un modello di ‘sacra’ famiglia forte, biologicamente controllato dallo Stato. Non sapendo più nulla né della “camera nuziale” né della “camera reale”, si vorrebbero pure imitare i faraoni e ricostruire le piramidi, ma non sanno farlo ... e non sanno più risolvere nemmeno l’enigma della Sfinge di Tebe. I faraoni del vecchio Egitto, come del resto lo stesso Edipo, ne sapevano ben di più !!!
Federico La Sala
Sul tema, in rete, si cfr.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe" !!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
FLS
STORIA ARTE E LETTERATURA: IL CULTO DI MARIA MADDALENA, IL RICORDO DI UN’OPERA DEL POETA E SCRITTORE DEL REGNO DI NAPOLI, PAOLO SILVIO DI CONTURSI (SALERNO), E IL RESTAURO E IL RITORNO DEL DIPINTO DI ORAZIO #GENTILESCHI, "LA MADDALENA #PENITENTE", A #FABRIANO.
A) È tornata a Fabriano la Maddalena penitente di Orazio Gentileschi. Dopo 9 mesi di restauro, il dipinto raffigurante la santa patrona dei cartai è stata ricollocata nell’oratorio a lei intitolato (Marta Paraventi, "Il Giornale dell’Arte", 22 luglio 2024),
B) Pia Università dei Cartai: "[...] Il culto di Santa Maria Maddalena. La devozione dei cartai fabrianesi nei confronti della loro patrona Santa Maria Maddalena si rinnova inesauribile da oltre quattro secoli, più precisamente dal 22 luglio 1599 quando, per sua intercessione miracolosa, un operaio esce illeso da una pressa sotto alla quale è schiacciato. Il prodigio è illustrato in un ex voto conservato oggi nella sacrestia della chiesa omonima dedicata alla Santa. [...] Il culto verso la Santa è però ancora più antico. Lo testimonia un passo delle Riformanze comunali del 1453: la festa del 22 luglio è considerata obbligatoria e viene multato chiunque sia sorpreso a lavorare. È sconosciuta la ragione per cui i fabbricanti di carta fabrianesi scelgono Maria Maddalena come patrona, ma la causa può risiedere nella vicinanza tra la piccola chiesa e i primi mulini dedicati alla fabbricazione della carta, sorti lungo le sponde del fiume Giano. [...]" (cit.).
C) StoriaeLetteratura: "La Madalena penitente", un "poema eroico" di "Paolo Silvio (Napoli, 1599): "Paolo Silvio è un canonico lateranense nato a Melfi ["nacque a Contursi": cfr. Camillio Miniero Ricci, 1844] nel 1564 e morto a hashtag#Napoli nel 1624. Il poema in ottava rima La Madalena penitente costituisce la sua unica opera poetica, mentre il resto della sua non estesa produzione letteraria è composta da trattati teologici. L’edizione della Madalena penitente impressa a hashtag#Milano nel 1602 non è la princeps dell’opera, nonostante tutte le fonti più recenti la indichino come tale: le prime due stampe, oggi irreperibili, sono probabilmente realizzate a Napoli attorno al 1599. [...] il poema, che viene rimaneggiato e ampliato da Silvio in edizioni successive, si presenta diviso in tre parti, definite Pianti per il tema penitenziale che le impregna. [...] " (https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/i-cantieri-dellitalianistica-ricerca-didattica-e-organizzazione-agli-inizi-del-xxi-secolo-2016/SAMARINI.pdf).
D) Editoria e storiografia: Una ristampa dell’edizione del 1605 del "poema eroico" di Paolo Silvio, "La Madalena penitente", a cura di Felice Pagnani Raele, Digital Press, S. Maria di Castellabate (SA), luglio 2022.
NOTE;
Per approfondimenti sul tema, si cfr. Papa Francesco, Apostola degli apostoli. Maria di Màgdala nelle parole del Papa", Castelvecchi editore, 2017.
«La madre di Leonardo da Vinci? Schiava, esule nel Mediterraneo»
L’italianista Carlo Vecce narra la vita di Caterina in un libro che si fonda pure su molteplici scoperte di carattere scientifico, sul ritrovamento di documenti (ma non solo) in grado di riscrivere la storia dell’origine del genio
di Maria Pirro (Il Mattino, Martedì 14 Marzo 2023
Profuga, schiava, esule per il Mediterraneo. Così viene descritta la madre di Leonardo da Vinci nel romanzo storico firmato da Carlo Vecce per Giunti editore. L’italianista, professore universitario all’Orientale di Napoli, narra la vita di Caterina in un libro che si fonda pure su molteplici scoperte di carattere scientifico, sul ritrovamento di documenti (ma non solo) in grado di riscrivere, appunto, la storia dell’origine del genio, risolvendo un mistero lungo 600 anni.
APPROFONDIMENTI
Un’opera, "Il sorriso di Caterina", destinata ad aprire un dibattito importante tra i maggiori studiosi. «Tutto quello che c’è nel volume è reale, a partire dai loro nomi, la fiction interviene per connettere le loro storie», assicura l’autore, mostrando un manoscritto in latino, datato 2 novembre 1452, che ricostruisce la liberazione (con alcuni errori e sviste), ritrovato nell’archivio di Stato di Firenze e scritto da ser Piero da Vinci: suo padre dell’artista.
Com’è arrivata a Firenze Caterina? Grazie al marito della sua padrona, monna Ginevra: un vecchio avventuriero fiorentino di nome Donato, già emigrato a Venezia, dove aveva al suo servizio schiave provenienti dal Levante, dal Mar Nero e dalla Tana. Prima di morire, nel 1466, l’anziano lascia i suoi soldi al piccolo convento di San Bartolomeo a Monteoliveto, fuori Porta San Frediano, per la realizzazione della cappella di famiglia e della propria sepoltura. Il notaio di fiducia è sempre lui, Piero. E Leonardo esegue la sua prima opera proprio per quella chiesa: l’Annunciazione. «Non è un caso», è la tesi.
«Io, per primo, non avevo dato credito all’ipotesi che la madre di Leonardo potesse essere una schiava, e così mi sono messo a cercare, tentando di dimostrare il contrario», ammette Vecce. Per arrivare a sostenere, invece, che la ragazzina venne catturata alla Tana, ultima colonia veneziana alla foce del Don, dove iniziò il suo viaggio tra il mar Nero e il mare nostrum. «Una storia anche di oggi», aggiunge Vecce, che spiega così «l’urgenza di narrarla in questa maniera, per aprire gli occhi». Un legame evidente dalla foto di una profuga in copertina.
«A questo punto Leonardo è italiano solo per metà, e non lo è per la sua parte migliore, perché figlio di Caterina. Sì, è figlio di una straniera: una schiava al più basso gradino sociale. Una donna senza voce, scesa da un barcone, che a stento parlava la nostra lingua», conclude il professore, indicando le conseguenze che ha tutto questo sulla vita di Leonardo. L’idea di libertà assoluta, innanzitutto, e probabilmente l’amore immenso per la natura, visto che la mamma proviene da quel mondo selvaggio, per l’esattezza caucasico, in cui è molto diffusa l’attitudine proprio al disegno. Da qui deriva l’universalità di Leonardo, che non appartiene a una sola cultura e paese, «e lui lo sente. Lo sa, perché sa da dove proviene».
Alla presentazione del libro Paolo Galluzzi, accademico dei Lincei, con Antonio Franchini, direttore editoriale, e Sergio Giunti. E la storia continua anche ora, in questi giorni, oltre le pagine del volume. A Milano, dietro Sant’Ambrogio, nei lavori per la nuova sede dell’Università Cattolica, sta ricomparendo la cappella dell’Immacolata Concezione, quella della Vergine delle rocce dipinta da Leonardo: tornano alla luce il muro vicino all’altare, il pavimento della cripta, i frammenti del cielo stellato dipinto sulla volta dagli Zavattari. Confusi tra loro, resti umani di antiche sepolture. Forse anche quelli di Caterina, morta a Milano tra le braccia di suo figlio nel 1494, e sepolta in quello stesso luogo.
STORIA E LETTERATURA, FILOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
SISTO IV DELLA ROVERE (1471-1484), IL PAPA DELLA CAPPELLA SISTINA (1475 -1481), LA "CONFRATERNITA DELLA CONCEZIONE" DI MILANO E LEONARDO DA VINCI (1483). APPUNTI INTORNO A "IL SORRISO DI CATERINA" (CARLO VECCE):
A) "Leonardo a Milano, in un luogo segreto: la chiesa di S. Francesco Grande: [...] Nel 1477, in seguito all’istituzione della festa dell’Immacolata Concezione da parte del papa Sisto IV, viene dedicata qui una cappella [...], sotto la tutela della Confraternita della Concezione. E qui avviene la svolta per cui è ancora ricordata la chiesa che non c’è più. Leonardo da Vinci infatti, nel 1483 viene invitato a dipingere per questo luogo la tavola con la Vergine delle Rocce. [...]".
B) "[...] A Milano, dietro Sant’Ambrogio, nei lavori per la nuova sede dell’Università Cattolica, sta ricomparendo la cappella dell’Immacolata Concezione, quella della Vergine delle rocce dipinta da Leonardo: tornano alla luce il muro vicino all’altare, il pavimento della cripta, i frammenti del cielo stellato dipinto sulla volta dagli Zavattari. Confusi tra loro, resti umani di antiche sepolture. Forse anche quelli di Caterina, morta a Milano tra le braccia di suo figlio nel 1494, e sepolta in quello stesso luogo. "(Maria Pirro, «La madre di Leonardo da Vinci? Schiava, esule nel Mediterraneo», Il Mattino, 14.03.2023).
C) "La Vergine delle Rocce. La prima versione della Vergine delle Rocce è un dipinto a olio su tavola trasportato su tela (198x123 cm) [...], databile al 1483-1486 e conservato nel Musée du Louvre di Parigi, mentre la seconda versione è conservata alla National Gallery di Londra(...)".
La madre di Leonardo era schiava e straniera, del Caucaso. Trovato un documento che lo conferma
di Costanzo Gatta (Stile Arte, 14 Marzo 2023)
Un documento trovato nell’archivio di Stato di Firenze da parte del professor Carlo Vecce dell’Università di Napoli conferma le origini straniere di Caterina, la madre di Leonardo. La donna era una circassa, di origini Caucasiche, che fu portata a Firenze da un uomo di nome Donato. Il suo lungo viaggio, prima di arrivare alla capitale fiorentina, la portò, in stato di schiavitù, prima sul mare di Azov, in Russia, poi a Bisanzio, quindi a Venezia. Successivamente, Caterina fu acquistata dalla famiglia Da Vinci.
Il documento ritrovato riguarda un atto di affrancamento dalla servitù, emesso da Piero da Vinci, padre di Leonardo e compagno transitorio della donna. La rinunzia a Caterina come a un “oggetto di proprietà” avvenne sei mesi dopo la nascita del grande artista. Il ritrovamento conferma ciò che già indicavano le indagini sulle impronti digitali di Leonardo stesso, condotte nel passato. riproponiamo ora un’importante intervista.
di Costanzo Gatta
Sangue mediorientale nelle vene di Caterina, madre di Leonardo? Da un pezzo lo si diceva, senza dar eccessivo credito alla storia. Ora c’è un motivo in più per tornare a parlare delle origini orientali di quella donna: non una contadinotta della campagna toscana ma una giovane levantina che avrebbe avuto una relazione con ser Pietro, il padre del futuro genio da Vinci.
Già molti anni fa si diceva che la mamma fosse una delle tante schiave che nel ’400 erano state portate a lavorare in Toscana: una poveraccia senza alcun diritto, senza un patronimico, forse appena convertita. Una serva chiamata come mille altre: Catharina. Uno studioso toscano aveva frugato negli archivi per cercare contratti d’acquisto di schiavi. Voleva raccapezzarsi in questo mistero. Aveva ripercorso i vari flussi migratori ipotizzando che la donna fosse ebrea, circassa, araba. A quei tempi i risultati furono negativi.
E così, ai tanti misteri della vita di Leonardo, si aggiunse anche questo della madre, la povera Caterina, con la quale il donnaiolo ser Pietro faceva bellamente all’amore, nonostante stesse per portare all’altare Albiera, figlia dell’Amadori, notaio.
La storia - prima della scoperta del 2023 - dice poco. Si sa solo che quando la serva fu mandata - secondo il costume dei paesi sulle colline toscane - a sgravarsi nel casale che ancora oggi esiste, era l’aprile del 1452. Una camera dal soffitto basso con pagliericcio, attaccata alla cucina col camino, poche nicchie nel muro per riporvi ramaiole, caldaie e il pennato: qui la giovane Catharina attese, assieme alla levatrice, che si rompessero le acque. Non era misteriosa la relazione del giovane ser Pietro, uno dei tanti borghesi di Vinci, la cui casata sfornava rampolli notabili che alternativamente venivano avviati alla carriera legale o alla vita ecclesiastica.
Per i casi della vita la nascita del genio venne messa - nero su bianco - da Antonio, il nonno. “Nachue (nacque) un mio nipote, figliuolo di ser Piero mio figliuolo, a dì 15 d’aprile (1452) in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo...”. Il resto si può immaginare: quattro soldi di dote per mandar via Caterina contenta e poi il battesimo, senza nemmeno la mamma. Lo sappiamo ancora dal nonno, che ebbe a registrare con precisione i presenti attorno a quel fonte di pietra, tuttora intatto. “Battizzollo Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Torino, Pier di Malvolto, Monna Lisa di Domenico di Brettone”. Insomma c’erano tutti: prete, testimoni e intimi. Mancava Caterina, che ritroveremo poi sposata a tale Antonio del Vacha, detto Accattabriga, soprannome che non prometteva nulla di buono. In gioventù doveva essere stato un soldataccio di ventura.
Nelle note del catasto di Vinci per l’anno 1457 si trova che nonno Antonio, di 85 anni, abitava nel popolo di Santa Croce, era marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d’anni 30, sposato ad Albiera, ventunenne. Convivente con loro era “Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legiptimo nato di lui e della Chatarina, al presente donna d’Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, d’anni 5”. Albiera non poteva avere figli e Piero aveva accolto in casa l’illegittimo. Intanto Caterina lavorava con il marito un piccolo appezzamento di proprietà e i campi delle suore del convento di San Pier Martire. Nonno Antonio morì novantaseienne, nel 1468, e negli atti catastali di Vinci Leonardo, che ha diciassette anni, risulta suo erede insieme con nonna Lucia, il padre Piero, la matrigna e gli zii Francesco e Alessandra. L’anno dopo, la famiglia del padre, divenuto notaio della Signoria fiorentina, e quella del fratello Francesco, che era iscritto nell’Arte della seta, erano in una casa di Firenze, abbattuta già nel Cinquecento, nell’attuale via dei Gondi.
Madonna Litta Dell’Accattabriga si hanno invece notizie da un verbale di citazione durante un processo alla Curia vescovile di Pistoia. La data è il 26 settembre 1470, dopo i disordini verificatisi all’inizio del mese nella pieve di Santa Maria di Massa Piscatoria, nella palude di Fucecchio. Alcune persone, armate di lancia, capeggiate da due preti (uno della diocesi di Lucca, l’altro sotto la potestà del vescovo di Firenze) avevano disturbato la celebrazione durante la festa in onore della Madonna e interrotto la Messa. Antonio fu chiamato a testimoniare ma non si presentò.
Di Caterina si sa che fu donna prolifica, e da Accattabriga ebbe sicuramente almeno quattro femmine e un maschio. Rimasta sempre lontana da Leonardo, si ricongiungerà al figlio - pare certo - nel 1493 a Milano. E in una casa di Porta Vercellina, nel territorio della parrocchia dei Santi Nabore e Felice, morirà il 26 giugno 1494, dopo lunga malattia. Per le cure prima e poi per i funerali, Leonardo annotò le spese (eccessive per una servente, non certo per una madre): “Quattro chierici, cinque sotterratori, un medico, le candele...”. Oggi Caterina ritorna in scena. A parlarci di lei sono le impronte digitali del figlio, quei polpastrelli che hanno creato uno sfumato magico, inimitabile. Evocano la donna, quelle ditate rimaste fra il cielo e il fogliame che fa da sfondo al ritratto di Ginevra Benci o su un disegno della Battaglia di Anghiari, fra i capelli di Cecilia Gallerani o sulle pagine dei Codici voltate con mani sporche.
Gli studi sulle impronte di Leonardo sono stati illustrati da Luigi Capasso, direttore dell’Istituto di antropologia e del Museo di storia delle scienze biomediche dell’Università di Chieti e Pescara, e da Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale di Vinci.
Proprio nelle macchie d’inchiostro sono state scoperte numerose impronte digitali, anche se parziali, che hanno portato alla ricostruzione di un intero polpastrello dell’artista.
“L’impronta - ha aggiunto Capasso - ha tra l’altro una struttura a vortice con diramazioni a y, dette triradio: tale tipologia di impronte è comune a circa il 65% della popolazione araba”.
“A questo punto - ha affermato Vezzosi - si rafforza l’ipotesi che la madre del genio fosse orientale: nello specifico, secondo i miei studi, una schiava”.
Maria Maddalena: finalmente apostola!
Da quasi duemila anni era sotto gli occhi di tutti la presenza decisiva davanti al sepolcro vuoto di Maria Maddalena, la prima a dare la buona notizia della resurrezione: proprio lei, una donna. Nessuno però sembrava essersene accorto veramente. Nei secoli si sono persino formate storielle misogine, come quella che Gesù fosse apparso innanzi tutto a una donna perché le donne chiacchierano di più e così la notizia si sarebbe diffusa più in fretta. Inoltre, alcuni autorevoli commentatori si erano domandati come mai il risorto avesse trascurato sua madre, giungendo perfino a immaginare un’apparizione a Maria prima dell’incontro con la Maddalena, in modo da ristabilire una gerarchia che si considerava alterata.
Su Maria di Magdala, proprio per la sua evidente vicinanza con Gesù, erano sorte addirittura voci inquietanti, tanto da farla diventare simbolo della trasgressione sessuale, rilanciato da leggende tenaci, vive ancora oggi: molti ricordano la Maddalena del film di Martin Scorsese L’ultima tentazione di Cristo, e certo molti di più hanno letto Il codice da Vinci, best seller fondato proprio sul presunto segreto del matrimonio fra lei e Gesù.
Del resto Maddalena è l’unica protagonista importante della storia sacra a essere stata rappresentata nell’iconografia un po’ discinta, e quasi sempre con i capelli rossi, a lungo ritenuti segno di disordine sessuale. In sostanza, anche se veniva considerata una santa, era raffigurata quasi come simbolo opposto all’immagine verginale di Maria, vestita di bianco e di azzurro. Tanto che fra le femministe degli anni Settanta cominciò a diffondersi l’uso di chiamare Maddalena le loro figlie, come segno di ribellione alla tradizione religiosa. Più lungimirante è stata invece la tradizione popolare, che ha immaginato un suo viaggio per mare fino alle coste meridionali della Francia: per evangelizzare, proprio come gli altri apostoli, una parte del mondo allora conosciuto.
Tanto è stata lunga e difficile la strada che ha portato all’accettazione della verità, una verità semplice ma espressiva di un messaggio che molti non volevano ascoltare: e cioè che per Gesù le donne erano uguali agli uomini dal punto di vista spirituale, avevano lo stesso valore e le stesse capacità. Per questo era così difficile ammettere che Maddalena era un’apostola, la prima fra gli apostoli a cui si è manifestato il Signore risorto. Per questo proprio da lei, cioè dalla restituzione del posto che le spetta nella tradizione cristiana, può finalmente partire il riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa. Papa Francesco l’ha capito chiaramente, e ha avviato in questo modo un processo che non si potrà più fermare.
Colpisce che la data del documento sia quella del giorno in cui si festeggia il Sacro Cuore di Gesù: una devozione diffusa da una donna, Margherita Maria Alacoque, e rilanciata con passione da tante sante ottocentesche, come Francesca Cabrini. Altre conferme, queste, che le donne nella Chiesa ci sono sempre state, hanno svolto ruoli importanti e contribuito alla costruzione della tradizione cristiana.
Grazie allora a Papa Francesco da parte di tutte le donne cristiane del mondo, perché con la creazione della nuova festa di santa Maria Maddalena rende loro merito.
* FONTE. SPERARE PER TUTTI, 11/06/16
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Maria Maddalena, apostola degli apostoli
di ENZO BIANCHI (Osservatore Romano, 21 luglio 2016)
Maria di Magdala è una delle figure femminili più intriganti per il lettore. Presente in tutti i vangeli insieme alle altre discepole di Gesù, donne di Galilea, è da Giovanni particolarmente evidenziata come donna vicina a Gesù e come prima testimone della sua resurrezione. Significativamente, nel quarto vangelo appare presso la croce insieme alla madre di Gesù, alla sorella della madre, a Maria di Cleopa e al discepolo amato da Gesù. Nell’ora di Gesù, nell’ora dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (cf. Gv 3,14; 8,28) e della sua glorificazione (cf. Gv 12,23), sotto la croce sono presenti gli amici del Signore, quelli legati a lui da amore e ora chiamati a diventare la comunità di Gesù, nella scandalosa assenza dei discepoli, meno uno.
Ora Maria di Magdala è là sotto la croce, nell’ora estrema della vita di Gesù (cf. Gv 19,25), mentre tutti gli altri discepoli sono fuggiti abbandonandolo. Proprio lei e il discepolo amato sono gli unici testimoni della morte di Gesù e della sua resurrezione. Alla croce non dice e non fa nulla, ma il terzo giorno dopo la morte, cioè nel primo giorno della settimana ebraica, di buon mattino, mentre è ancora buio, Maria viene al sepolcro (cf. Gv 20,1-2.11-18). Secondo Giovanni la sua è un’iniziativa personale, ma di fatto in quel suo andare alla tomba, quale figura tipica ed esemplare rappresenta anche le altre donne che, secondo i sinottici, vi erano andate con lei; ecco perché parla al plurale, anche a nome loro: “Non sappiamo dove l’abbiano posto”.
Perché Maria, passato il sabato, appena possibile, va alla tomba? Il quarto vangelo non ci fornisce il motivo: non va per ungere il cadavere di Gesù (cf. Mc 16,1; Lc 24,1), né per osservare la tomba (cf. Mt 28,1), ma in modo totalmente gratuito. Possiamo solo dire che in lei c’è un desiderio di stare vicino al corpo morto di Gesù: colui che Maria ha amato è morto, ora il suo corpo è là nella tomba e Maria vuole stargli semplicemente vicino. È come torturata dall’“ardente intimità dell’assenza” cantata da Rainer Maria Rilke. Giunta alla tomba, vede la pietra rimossa e allora fa una corsa, va da Pietro e dal discepolo amato e dice loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro, e non sappiano dove l’abbiano posto”. All’udire ciò, i due discepoli corrono subito al sepolcro, e in quella corsa c’è una vera e propria con-correnza: il discepolo amato è più veloce e giunge per primo, poi arriva anche Pietro, che entra, vede le bende che giacciono a terra e il sudario avvolto in modo ordinato. Pietro è nell’aporia (cf. Gv 20,3-7), mentre il discepolo amato, entrato pure lui nel sepolcro, “vide e credette” (Gv 20,8).
Mentre attorno a Maria avviene tutto questo, ella, come se non se ne accorgesse, continua a piangere e, chinatasi verso il sepolcro, “scorge due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù”. Maria non fa molto caso neppure ai due angeli, che pure erano una manifestazione divina e avrebbero dovuto destare in lei timore (cf. Mt 16,5 e par.). No, Maria cerca Gesù, il suo Signore e - si potrebbe dire - degli angeli non sa che farsene. Proprio come Bernardo di Clairvaux che, commentando il Cantico dei cantici, esprime così la sua ricerca di Gesù: “Rifiuto le visioni e i sogni, ... mi infastidiscono anche gli angeli. Perché il mio Gesù li supera di molto con la sua bellezza e il suo splendore. Non altri, dunque, sia angelo, sia uomo, ma lui prego di baciarmi con i baci della sua bocca (cf. Ct 1,2)!” (Sermoni sul Cantico dei cantici II,1). Gli angeli luminosi le chiedono: “Donna, perché piangi?”, ma Maria continua ad affermare in modo ossessivo la sua ricerca di Gesù, che definisce “il mio Signore”. Gesù è il Signore, il Kýrios della chiesa, ma è da lei chiamato “il mio Signore”. C’è qualcosa di straordinario in questo amore persistente al di là della morte, che induce Maria a cercarlo, a soffrire per il suo non sapere dove sia il suo corpo morto... Il pianto testimonia il suo dolore reso eloquente da tutto il corpo: è la Maddalena, con tutto il suo essere, corpo, mente e cuore, che cerca il corpo di Gesù, il corpo dell’amato. A Maria non bastano né il ricordo, né le sue parole, né il sepolcro che è un memoriale (mnemeîon, così il sepolcro è definito in tutti i vangeli): vuole stare accanto al corpo di Gesù. Ricerca amorosa, fedele, perseverante, che fatica ad accettare la realtà della fine di un rapporto, perché per lei Gesù significava tutto.
Maria la madre di Gesù certamente viveva per Gesù, Maria di Magdala invece viveva grazie a Gesù. A lei è stato dato di fare quell’esperienza che alcuni nella propria vita fanno per straordinaria grazia: risalire, grazie a qualcuno, dall’ombra di morte, dal non senso, dall’essere preda del nulla, a una vita che conosce l’essere amati e l’amare. La Maddalena, infatti, è amata da Gesù e ama a sua volta Gesù, verso il quale si sente debitrice. Ecco perché il suo pianto è quello dell’amata-amante che ha perduto il suo amato-amante, come avviene nel Cantico dei cantici, dove la ragazza di notte cerca il suo amato, si alza, con audacia vaga nel buio per cercarlo, interroga le guardie notturne, e poi finalmente lo trova nel suo giardino (cf. Ct 3,1-4). E così avviene in quell’aurora primaverile, sul monte degli aromi (cf. Ct 2,17; 8,14), là dove c’era un giardino, luogo della sepoltura di Gesù.
Tra le lacrime, Maria risponde ai due angeli che l’hanno interrogata sul suo pianto: “‘Hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’abbiano posto’. Detto questo, si voltò indietro (estráphe eis tà opíso)”, dando inizio al dialogo con un altro personaggio, questa volta umano. Il suo voltarsi indietro ha un valore simbolico: Maria rilegge tutta la sua vita con Gesù, fa anamnesi del suo rapporto carico di amore con lui e quindi continua a piangere anche per la nostalgia per ciò che è stato e non potrà più ritornare. Nel suo dolore, si volta indietro, non guarda più la tomba né gli angeli, ma scorge un uomo, il quale le pone la medesima domanda: “Donna, perché piangi?”. Come Gesù pianse per Lazzaro morto (cf. Gv 11,35), così Maria piange per Gesù morto. Piange per amore e per dolore dell’amore, e non affatto i suoi peccati: Maria è la sola che piange per Gesù! È solo Pietro l’icona evangelica che piange i suoi peccati, la sua orrenda viltà, il suo amore breve come la rugiada del mattino (cf. Os 6,4). Pietro non piange su Gesù ma su di sé, per aver tradito l’amico (cf. Mc 14,72 e par.). Sì, Pietro dovrebbe essere icona del pentimento cristiano e Maria Maddalena icona dell’amore per Gesù!
Maria, pensando che colui che ora ha di fronte sia il giardiniere, il custode di quel giardino in cui Gesù era stato seppellito da Giuseppe di Arimatea e da Nicodemo, gli risponde: “Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”. Ma quell’uomo, che è Gesù, le chiede anche: “Chi cerchi?”, domanda analoga a quella da lui posta ai due discepoli del Battista: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38: le sue prime parole nel quarto vangelo!). In questo interrogativo c’è qualcosa che per Maria non è nuovo, perché è la domanda essenziale che Gesù poneva a chiunque volesse diventare suo discepolo: cercare è la condizione specifica del discepolo. A quel punto Gesù, con il suo volto contro il volto di Maria, le dice: “Mariám!”, la chiama per nome, e subito lei, “voltandosi” (strapheîsa) nuovamente verso di lui, il Gesù glorificato, è pronta a riconoscerlo e a dirgli: “Rabbunì, mio maestro!”. Quante volte era avvenuto quel dialogo tra lei e Gesù: lei, la pecora perduta ma ritrovata da Gesù (cf. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), chiamata per nome, riconosce la voce del pastore (cf.Gv 10,3-4). “Maria!”, una nuova chiamata, e, subito dopo, un invito: “Cessa di toccarmi”, cioè stacca le tue mani da me, perché non c’è più possibilità di incontro tra corpi come prima, essendo ormai il corpo di Gesù risorto nel seno del Padre. Maria, che poteva dire di essere tra quelli che “avevano udito, visto con i loro occhi, contemplato e toccato con le loro mani la Parola della vita” (cf. 1Gv 1,1), ora deve credere e amare Gesù in modo altro: il suo amore non muore, non verrà meno, ma altro è il modo in cui ora Maria deve amare Gesù! Si era voltata indietro verso il suo passato, ma ora, chiamata da Gesù, si volta verso di lui, il Risorto, senza più nostalgia del tempo precedente il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).
Questa pagina giovannea risulta molto “affettiva”, nel senso che è piena di sentimenti e, come tale, ispira anche la nostra immaginazione nel pensare il rapporto d’amore con il Signore Gesù. È una pagina che ha chiaramente in sottofondo il già ricordato Cantico dei cantici, nel quale in un giardino avviene un dialogo d’amore tra i due partner (cf. Ct 4,16; 5,1; 6,2), che si perdono, si cercano e si ritrovano (cf. Ct 3,1-4; 5,1-8). Come la donna del Cantico, Maria di Magdala è donna del desiderio, un desiderio talmente forte e tenace che consente solo a lei, rimasta al sepolcro per cercare Gesù, di poterlo vedere. Ma ciò che in particolare mi preme mettere in evidenza è il fatto che questa ricerca, questa perseveranza, questa individuazione della presenza del corpo sono tratti tipicamente femminili, essenziali nell’amicizia tra uomini e donne. Nello stesso tempo, questa pagina giovannea è dangereuse, pericolosa, per chi non sa capire l’amore con occhi puri, fino a essere indotto a molte fantasie sul rapporto tra Gesù e la Maddalena. Si tratta di una reazione non nuova, già avvenuta nella storia e testimoniata in testi apocrifi, soprattutto nel vangelo di Filippo: deriva dovuta al prurito di chi non sa se non attribuire a Gesù i propri modesti desideri!
In quell’incontro con il Risorto, Maria di Magdala è subito resa apostola, inviata ai discepoli, ai fratelli di Gesù, per portare loro l’annuncio pasquale. Ed essa, in piena obbedienza, dichiara: “Ho visto il Signore” e riferisce ciò che egli le ha detto. Sì, all’origine della fede pasquale vi è innanzitutto Maria di Magdala (e le donne discepole da lei rappresentate), una donna che ha creduto nel Signore Gesù e lo ha amato. Purtroppo però in occidente Maria ha conosciuto una triste ma non strana vicenda ed è stata sottoposta a una serie di equivoci: è diventata anche la peccatrice, la prostituta di Luca, anche Maria di Betania, e la si è dipinta nell’atto di piangere i suoi peccati, dei quali nessun vangelo ha mai parlato. Infatti, che Gesù “avesse scacciato da lei sette demoni” (cf. Mc 16,9; Lc 8,2) indica solo il suo essere liberata da una grave situazione di malattia (sette è un numero che indica pienezza, dunque malattia grave), non i suoi peccati! L’incontro con Gesù aveva significato per lei guarigione, liberazione da queste forze oppressive, rinascita e possibilità di una vita nuova, sensata: da donna “morta” quale era, era stata rialzata e riportata da Gesù alla vita piena, quella in cui si vivono affetti, relazioni, amore, comunione, gioia, insieme alla fatica del duro mestiere di vivere.
Va però riconosciuto che, se è vero che Maria di Magdala ha beneficiato in oriente del titolo di “iso-apostola”, uguale agli apostoli, e in occidente di quello di “apostola degli apostoli”, in realtà non le sono mai stati riconosciuti nessun valore ecclesiale e nessuna qualità ministeriale. Siamo ben lontani dall’aver preso sul serio le parole di Rabano Mauro, un monaco e vescovo vissuto tra l’VIII e il IX secolo, il quale nella sua biografia di Maria di Magdala commenta l’apparizione a lei di Gesù risorto, mettendo in risalto come tale evento conferisca una decisiva funzione ecclesiale a questa donna discepola:
Maria crede al Cristo, attingendo la fede in lui dall’ascolto della desiderata voce del Signore, e dalla sua stessa presenza così desiderabile ... Credette fermamente che il Cristo Figlio di Dio, che lei vedeva risorto, era vero Dio, colui che ella aveva amato da vivo; che veramente era risuscitato dai morti colui che aveva visto morire ... Il Salvatore, persuaso che quello di Maria era purissimo amore, ... la elesse apostola della sua ascensione ... come poco prima l’aveva istituito evangelista della resurrezione ... Ella, innalzata a tanta e così alta dignità d’onore e di grazia, dallo stesso Figlio di Dio e Salvatore nostro, ... non indugiò a esercitare il ministero di apostola del quale era stata onorata ... Maria, con i suoi co-apostoli, annunciò il Vangelo della resurrezione di Cristo con le parole: “Ho visto il Signore” (Gv 20,18), e profetizzò la sua ascensione con le parole: “Ascendo al Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17).
Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon
Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?
Magdala
Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù.
Gli equivoci sull’identità
Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente - il capitolo 7 di Luca - si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.
Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea».
La liberazione dal male
Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.
Sotto la croce
Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana - si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni - torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore.
L’incontro con il Risorto
Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).
Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca».
Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
La maternità della Maddalena
«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.
La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto».
Nella storia dell’arte: la mirofora
Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto - afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».
La penitente
Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché - spiega Verdon - secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».
L’addolorata
Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».
Chiamata per nome
Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».
*
fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 20/07/2016 (senza foto)
The Lost Gospel, Gesù e Maria Maddalena sposi e genitori nel libro di Wilson
Il docente canadese di studi religiosi sostiene, insieme a Simcha Jacobovici, scrittore israelo canadese, di aver portato alla luce un nuovo documento del 570 d.C secondo il quale dalla relazione tra il Figlio di Dio e Maria di Magdala nacquero Manasseh e Ephraim
di Elisa D’Ospina (Il Fatto, 11 novembre 2014)
Un nuovo libro che parla che della relazione tra Gesù Maria Maddalena, della loro famiglia e dei loro figli. Gli autori del nuovo libro intitolato “The Lost Gospel” sostengono di aver portato alla luce un nuovo documento che risale al 570 dc che sostiene che Gesù Cristo avrebbe avuto due figli da Maria Maddalena, donna che avrebbe sposato. Uno dei due figli sarebbe stato un suo grande seguace e sarebbe stato presente al momento della crocefissione e al momento della scoperta della sua tomba vuota. Il manoscritto rinvenuto è stato scritto in siriaco - lingua usata in Medio Oriente tra il IV e l’ XVIII secolo - con delle parti in aramaico, lingua di Gesù.
Il libro scritto da Barrie Wilson, docente canadese di studi religiosi, e Simcha Jacobovici, scrittore israelo canadese, sta suscitando non poche polemiche. Dopo anni di studio gli autori sostengono che ci sia parte di verità in quel manoscritto che per anni è stato negli archivi della British Library di Londra.
I due personaggi principali Giuseppe e Aseneth altro non sarebbero che Gesù e Maria Maddalena. Altri testi della letteratura, uno su tutti Il Codice da Vinci, avevano avanzano ipotesi simili attirando le ire dei vertici ecclesiastici. Javobovici dichiara che il manoscritto, che è composto da ventinove capitoli, sarebbe un nuovo Vangelo. Il testo racconta di un matrimonio durato sette giorni con la benedizione del faraone d’Egitto che guardando Aseneth avrebbe dichiarato:” Beati voi dal Signore Dio di Giuseppe, perché egli è il primogenito di Dio, e sarai chiamata la Figlia di Dio Altissimo e la sposa di Giuseppe ora e per sempre ” Negli anni successivi Aseneth avrebbe concepito due figli: Manasseh e Ephraim. Jacobovici spiega che dopo che l’imperatore romano Costantino ordinò di distruggere tutti i vangeli, resistettero al filone cristiano sostenuto dall’imperatore solo quelli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni. Pubblicità
Il documento rinvenuto è preceduto anche da una lettera di presentazione, scritta nel VI ° secolo, che sostiene che il documento ha un ‘significato interiore’ su ‘il nostro Signore, il nostro Dio, il Verbo’. Gli autori del nuovo libro sottolineano che su alcune pagine del manoscritto c’è una linea che in siriaco stava ad indicare censura. Negli anni il dibattito è sempre stato molto vivo sulla storia di Gesù. Nel 1213, per esempio, la cronaca registra che gli abitanti di Béziers, nel sud della Francia, erano stati bruciati vivi quattro anni prima per ‘la loro scandalosa affermazione che Maria Maddalena e Cristo erano amanti’. Solo due anni fa, il professore di Harvard Karen L. King ha dichiarato che aveva trovato un frammento di papiro - probabilmente proveniente dall’Egitto - chiamato ” Il Vangelo della moglie di Gesù”. In esso, ci sono delle parole scritte in copto (una lingua egiziana), dicendo: ‘Gesù disse loro: “Mia moglie. . . “‘
Altro spunto intrigante del libro è il passo dove Jacobovici e Wilson sostengono c’era un complotto per uccidere Gesù da un rivale d’amore 13 anni prima della Crocifissione. Nel manoscritto pare che vi sia specificato che il figlio del faraone voleva sposare Aseneth e avrebbe pianificato di uccidere Giuseppe e i loro figli, ma è stato sventato dai fratelli di Giuseppe. Jacobovici identifica l’uomo come figlio adottivo di Tiberio imperatore romano, che era in Galilea, quando Gesù era lì. La Chiesa in Inghilterra sostiene che il manoscritto è frutto della fantasia e non può essere un Vangelo. Gli autori rispondono :”Non si può ignorare l’evidenza, le prove ci sono.’” “The Lost Gospel” di Simcha Jacobovici e Barrie Wilson è stato pubblicato da Pegasus Books.
"Gesù sposò Maria Maddalena ed ebbe due figli". Il mito complottista nel libro "Lost Gospel", basato su un antico manoscritto
di Ilaria Betti (L’Huffington Post, 10/11/2014)
È possibile che Gesù abbia sposato Maria Maddalena e con lei abbia fatto dei figli? Secondo gli autori del nuovo libro, "The Lost Gospel" ("Il vangelo perduto"), non è solo plausibile, ma è anche assai credibile. Il professore canadese di studi religiosi Barrie Wilson e lo scrittore israelo-canadese Simcha Jacobovici hanno tradotto dall’aramaico un antico manoscritto, la ’Storia ecclesiastica di Zaccaria il Retore’, risalente a circa 1500 anni fa. Tra le pagine di questo testo, conservato alla British Library, secondo gli studiosi, ci sarebbe la prova definitiva che Gesù fu effettivamente sposato e che la Vergine Maria originale altro non è che Maria Maddalena, compagna e non madre di Gesù.
Il libro, non ancora pubblicato, avrebbe giù scatenato delle polemiche. Secondo il Sunday Times, la Chiesa d’Inghilterra e molti famosi ricercatori di studi religiosi avrebbero criticato l’ennesima "scoperta" acchiappa-lettori, simile a quelle che riempiono libri come il "Codice da Vinci" di Dan Brown. I ricercatori, però, sono convinti di avere tra le mani una vera e propria rivelazione e hanno ottenuto l’autorizzazione a presentare ai giornalisti, nelle sale della British Library, il loro volume, del quale riveleranno i dettagli. Durante l’evento, renderanno noti anche i nomi dei figli di Gesù, così come riportati dal testo.
Il manoscritto risale al 570 d.C ed è rimasto archiviato nella British Library per oltre vent’anni, dopo che era stato acquistato dal British Museum nel 1847 da un uomo che diceva di averlo ottenuto dal Monastero di San Macario in Egitto. Negli ultimi 160 anni, il documento è stato studiato, ma giudicato "irrilevante". Fino a quando non è passato tra le mani dei ricercatori Wilson e Jacobovici, che lo hanno tradotto e "spulciato" per ben sei anni prima di convincersi che contenesse qualche verità.
Nel suo nuovo saggio Vito Mancuso analizza l’emozione umana più forte
E svela i limiti della morale sessuale cattolica
Il patto mancato tra amore sacro e amor profano
La dottrina ecclesiastica assegna il primato alla biologia, negando la libertà di scelta
La Chiesa si apra alla contraccezione ai rapporti pre-nuziali e ai matrimoni gay
di Vito Mancuso (la Repubblica, 18.09.2014)
LA PRIMA elementare critica che occorre muovere alla morale sessuale cattolica è che semplicemente non funziona, come dimostra il fatto che la gran parte dei cattolici la disattende. L’etica autentica nasce dalla concretezza della vita e torna alla concretezza della vita. L’attuale etica sessuale ecclesiastica invece si rivela astratta, scolastica, libresca, non nasce dalla vita ma dal desiderio di conformità alle decisioni magisteriali del passato.
In questa prospettiva per la morale sessuale ecclesiastica il ruolo decisivo spetta al concetto di lex naturalis, nella convinzione che obbedire alla natura e ai suoi cicli equivalga a obbedire a Dio. La natura è assunta come criterio di legislazione etica, natura come legge, da cui procede una legge ritenuta naturale.
Le cose però non stanno così. Oltre al logos la natura conosce anche il caos, e per questo essa non è la longa manus di Dio, e obbedire alla natura non equivale necessariamente a obbedire a Dio. Chi ritiene il contrario deve essere coerente e istituire la diretta connessione Dio-natura non solo per le manifestazioni naturali benigne, ma anche per quelle maligne, le malattie e le sciagure naturali. La lettura astratta e ideologica della natura ha condotto a un duplice risultato: da un lato alla trasformazione della morale in moralismo; dall’altro alla perdita di contatto con la coscienza contemporanea per la quale il concetto di legge naturale risulta del tutto vuoto.
Conosce solo la biologia.
Il fatto di concepire la natura come governata direttamente da Dio e quindi tale da assumere valore di lex naturalis ha condotto la morale ecclesiastica ad assegnare un primato indiscusso alla biologia e ai suoi ritmi, a scapito della coscienza e della sua spiritualità. Ne è scaturita una morale sessuale contrassegnata da una visione biologistica della sessualità, intendendo con ciò la riconduzione del sesso pressoché solo alla procreazione. Il primato della funzione biologica procreativa ha avuto nei secoli anche un altro effetto negativo: quello di concepire la donna quasi esclusivamente in funzione della generazione dei figli.
Non conosce bene la biologia.
La morale sessuale ecclesiastica parla così tanto di natura e di natura umana, ma in realtà, a causa della sua astrattezza e del suo dogmatismo, mostra di non conoscere adeguatamente la natura umana, in particolare la natura femminile. Stante l’assunto dell’inscindibilità tra amplesso e procreazione, essa propone ai coniugi che intendono evitare una gravidanza di ricorrere ai periodi infecondi per fare l’amore e di astenersi nei periodi fecondi, ma viene a rappresentare in questo modo una potente quanto nociva mortificazione dell’istinto naturale.
Infatti il periodo in cui nella donna è più forte il desiderio di rapporti sessuali è proprio quello dell’ovulazione, nel pieno del periodo fertile quando la donna risulta più disposta e più disponibile, più attratta e più attraente.
Gli specialisti spiegano che ciò avviene perché nei giorni fertili gli ormoni sessuali femminili risultano più concentrati. Quasi tutte le persone, cattolici compresi, naturalmente si guardano bene dal prendere in considerazione tali precetti elaborati da una morale di uomini celibi, e infatti secondo la rivista scientifica «Human Reproduction» della Oxford University Press durante l’ovulazione la frequenza dell’attività sessuale risulta aumentata del 24%.
Ignora il primato della coscienza.
Occorre chiedersi che cosa sia più umano: la libertà che comprende, vuole e decide, oppure la sottomissione a una necessità biologica che impone se stessa quale criterio dell’agire e del non-agire? Io credo che la dignità della persona umana consista nell’uso libero e responsabile della propria intelligenza e della propria volontà. Io credo che la vera natura della persona umana non sia espressa dal ritmo del ciclo biologico, ma dall’intelligenza e dalla volontà responsabili. Io credo, in altri termini, nel primato della coscienza. E dicendo questo, non faccio che esprimere il senso più profondo della tradizione giudaico- cristiana.
Non rispetta il dato biblico.
Con ciò non intendo ovviamente le considerazioni spesso arretrate sulla donna e sulla vita sessuale contenute nei vari libri biblici. Intendo piuttosto la logica complessiva del messaggio biblico, ovvero la sua dinamica evolutiva. All’interno della Bibbia infatti si ritrovano affermazioni a favore della poligamia e altre a favore della monogamia, e così è per la dissolubilità e l’indissolubilità del matrimonio, la fecondità e la verginità, l’inferiorità e la parità della donna, la svalutazione e l’esaltazione del corpo. Tutto ciò costituisce un preciso insegnamento sulla imprescindibilità del contesto storico. Ma c’è un’altra importante considerazione. Nel libro biblico interamente dedicato all’amore erotico, il Cantico dei cantici, nel quale la sessualità costituisce il centro specifico del messaggio. Non vi è neppure un minimo accenno alla funzione riproduttiva della sessualità e l’amore erotico non ha altra giustificazione che non se stesso, in quanto manifestazione della più generale fioritura dell’essere.
Conclusione.
La morale sessuale della Chiesa cattolica vorrebbe essere fondata sull’oggettività di una presunta legge naturale su cui il soggetto dovrebbe normare la propria particolare situazione. Alla prova dei fatti però essa risulta un peso troppo gravoso da portare: lo è a livello pratico, per l’impossibilità di attuarla con efficacia e con coerenza; e lo è a livello intellettuale, per il massiccio ricorso a ciò che Rahner chiamava «cattiva argomentazione in teologia morale».
Occorre intraprendere un profondo percorso di rinnovamento in materia di etica sessuale, analogo a quello compiuto nell’ambito della morale sociale dove la Chiesa è passata dal ragionare sulla base di un astratto criterio oggettivo (i diritti della verità) a un più concreto criterio soggettivo (i diritti della persona), cambio di prospettiva che l’ha condotta dall’Inquisizione al rispetto della libertà religiosa della coscienza. Il medesimo criterio applicato nell’ambito dell’etica sessuale porterebbe la Chiesa cattolica alle seguenti necessarie aperture: sì alla contraccezione; sì ai rapporti prematrimoniali; sì al riconoscimento delle coppie omosessuali.
Qualcuno a questo punto si chiederà se si possa ancora parlare di etica cattolica. E io rispondo che in realtà non esiste una specifica etica cattolica, l’etica è la scienza teorica e pratica del bene, e il bene, per definizione, è universale. Ne consegue che non si tratta di preoccuparsi di salvaguardare lo specifico dell’etica cattolica, si tratta di voler pensare in prospettiva universale, cioè veramente cattolica, aggettivo che com’è noto significa proprio universale (dal greco katholikós formato dalla preposizione katà, «verso», e dall’aggettivo hólos, «tutt’intero»).
Parla Karen King, storica della cristianità ad Harvard
“Così ho trovato il papiro sulla moglie di Gesù”
“C’è un frammento su di lei. Ma Dan Brown non c’entra”
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 20.09.2012)
CITTÀ DEL VATICANO «Questo frammento non prova che Gesù fosse sposato. Tuttavia ci dice quanto nella Chiesa, fin dai primi secoli, la questione del matrimonio e della sessualità fosse già aperta». Getta acqua sul fuoco - come è giusto - Karen L. King, docente a Harvard, inseguita da torme di giornalisti, cameramen e fotografi dopo il suo annuncio del ritrovamento di un piccolo pezzo di papiro in lingua copta in cui Gesù si riferirebbe a «mia moglie». Una frase appena accennata, però niente affatto di poco conto. Capace anzi di spalancare un dibattito su più fronti: in sede storica e religiosa innanzitutto, ma senza trascurare la fiction comunque cara ai tanti lettori nel mondo di Dan Brown, che nel Codice da Vinci sostenne l’ipotesi che Gesù avesse dei figli e una moglie di nome Maria Maddalena. La studiosa, 58 anni, insegnante di Divinità e prima donna a ricoprire la cattedra più antica degli Stati Uniti, ammette che la sua ricerca è solo all’inizio ed è in ogni caso appassionante. L’altro giorno ha annunciato la sua scoperta al Decimo congresso internazionale di studi copti, organizzato dal professor Alberto Camplani della Sapienza, e inaugurato con un saluto del rettore Luigi Frati e del prorettore Antonello Biagini.
Professoressa King, come è entrata in possesso di questo documento?
«Nel 2010 ho ricevuto una email da un collezionista privato che conosceva i miei libri e che mi chiese di tradurlo».
Chi era?
«È una persona che ha una collezione di papiri greci, arabi e copti. Preferisce non essere identificato perché non desidera essere assalito da possibili acquirenti».
Ma lui dove lo aveva acquisito?
«Nel 1997, da un collezionista tedesco, da una partita di papiri. Il documento aveva con sé una nota a mano che citava di un professore di Egittologia a Berlino, ora deceduto, il quale lo indicava come il solo esempio di un testo in cui Gesù parlasse di una moglie».
E lì è cominciata la sua ricerca?
«Il collezionista mi portò il frammento nel dicembre 2011. Il marzo seguente giravo con il documento chiuso nella mia borsetta per mostrarlo a due papirologi, il professor Roger Bagnall, dell’Università di New York, e Anne Marie Luijendijk, docente di religione a Princeton».
Com’è composto?
«È di circa 4 centimetri per 8, non più grande di una carta di credito. È del IV secolo d.C., scritto per l’esattezza in copto sahidico, un dialetto del sud dell’Egitto che usava caratteri greci. Ci sono otto righe di scrittura in inchiostro nero, leggibili solo con la lente di ingrandimento ».
Cosa c’è scritto?
«Gesù disse loro, “Mia moglie...”» .
Una frase che non c’è nelle Scritture. E gli studiosi che cosa le risposero circa l’eventuale autenticità?
«Volli ascoltare anche l’opinione di Ariel Shisha-Halevy, dell’Università di Gerusalemme, uno dei due-tre studiosi al mondo che conoscono a perfezione la lingua copta. Lo scorso settembre mi ha spedito una e-mail in cui scriveva: “Ritengo - sulla base della lingua e della grammatica - che il testo sia autentico”».
Ma le prove tecniche?
«Quello che ha convinto gli studiosi della sua genuinità è la dissolvenza dell’inchiostro sul papiro, e le tracce di scrittura che aderiscono alle fibre curvate sui bordi lacerati. Mi hanno risposto: fabbricarlo è impossibile».
Altre frasi?
«Lei sarà in grado di essere mia discepola».
E nella parte posteriore?
«È così fioca che si leggono solo cinque parole: “mia madre”, “tre”, e “merita che”. Potrebbero significare: “Mia madre mi ha dato la vita”, e “Maria lo merita”».
Però il documento è del IV secolo dopo Cristo.
«Sì, l’ipotesi è dunque che si tratti di una copia basata su un testo originale in greco risalente al II secolo d.C.».
Dunque non è coevo di Gesù di Nazareth?
«No. Ma fornisce la prova che fra i primi cristiani alcuni credevano che Gesù fosse sposato. Era dunque già presente un dibattito sulla questione se dovessero sposarsi e avere rapporti sessuali».
Potrebbe aprirsi ora un dibattito sul celibato dei sacerdoti. Ha ricevuto reazioni ufficiali da parte della Chiesa cattolica?
«Non ancora. So che questo frammento adesso causerà discussioni su sessualità e celibato, che negli Stati Uniti sono già a uno stadio avanzato».
Ha aspettato di essere a Roma per annunciare la scoperta?
«È un puro caso. Quattro anni fa il congresso di studi copti si svolse al Cairo».
Dan Brown allora aveva ragione?
«Il frammento non lo dimostra. Brown ha scritto un romanzo. Qui si tratta di storia, e siamo appena all’inizio della ricerca».
C’è un papiro che cita la moglie di Gesù
ROMA - In un frammento di papiro in copto del quarto secolo conterrebbe una frase mai esistita nelle Sacre Scritture: «Gesù disse loro: “Mia moglie...». Stavolta Dan Brown non c’entra niente ma la scoperta è di una storica della Cristianità antica alla Harvard Divinity School, Karen L. King e il frammento è stato presentato nel corso di un convegno internazionale di Studi Copti a Roma. La notizia è riportata sulla prima pagina del New York Times on line (c’è anche l’immagine del piccolo frammento il cui proprietario ha chiesto l’anonimato). La King ha dichiarato che non è certo la prova che Gesù fosse realmente sposato (il testo è stato scritto secoli dopo) ma la scoperta confermerebbe: «Antiche tradizioni secondo cui Gesù era stato sposato».
* la Repubblica, 19.09.2012
L’essere fuori luogo secondo Derrida
Il filosofo francese accosta il nostro tempo a quello ́sconnesso di Amleto. Epoca ambigua dove tutto è fuori asse
di Beppe Sabaste (l’Unità, 09.10.2010)
In un’epoca in cui sempre più violentemente si assiste a una messa al bando delle idee, della scrittura, della memoria, della gratuità, quindi della vita, Jacques Derrida teneva alta la complessità del pensare e della lingua, e assicurava con la sua statura e la sua fama una sorta di barriera difensiva sia che parlasse di Sant’Agostino, dell’essere marrani, di scrittura e teologia apofatica, del concetto di democrazia, del divario tra giustizia e diritto, tra legge e forza, o del concetto di Stato-canaglia. Per dirlo con parole povere, Derrida allargava costantemente l’area del pensiero e della teoria, come i migliori scrittori allargano l’area del narrare.
Nel 2004 Derrida aderì a un appello «contro la guerra all’intelligenza» lanciato dalla rivista Les Inrockuptibles: pur esprimendo riserve su quel soprannome, esso disse Derrida «designa chiaramente una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato, a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale, l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia. Nella sua forma caricaturale, ciò che viene denunciato è un economicismo miope, quelli che ne soffrono sono invece tutti i cittadini, la società civile, lo Stato e anche l’economia».
Insomma, Jacques Derrida parlava molto del proprio tempo (che è il nostro), anche se agli antipodi dell’esaltazione del «presente vivente» con cui Jean-Paul Sartre inaugurava nel 1948 Les Temps Modernes (...).
DA SHAKESPEARE A PHILIP DICK
Il nostro tempo, ha suggerito Derrida in Spettri di Marx (Cortina 1994), è molto simile al tempo sconnesso di Amleto, quando grazie allo spettro conosce la vera ragione del nuovo ordine del regno e prende atto che «The time is out of joint». Analoga profetica disgiuntura fu annunciata da Marx, della cui descrizione economico-antropologica del capitalismo dell’alienazione tramite il feticcio della merce, del valore del valore e altri spettri, che non era già mai solo alienazione del lavoro, ma alienazione dell’uomo e «della specie» si traggono soprattutto oggi le conseguenze.
È il tempo out of joint del liberismo selvaggio e della crescente esclusione dalla vita democratica, della disseminazione di armi atomiche e degli «Stati-fantasma», come la mafia, il consorzio della droga, ecc.
Scrive Derrida: «(I)l tempo è disarticolato, lussato, sconnesso, fuori posto, il tempo è serrato e disserrato, disturbato, insieme sregolato e folle. Il tempo è fuori di sesto (hors de ses gonds), il tempo è deportato, fuori di sé, disaggiustato. Dice Amleto». Derrida passa in rassegna le traduzioni di questo verso di Shakespeare (...)fino a quella magniloquente di Gide, «cette époque est déshonorée». Altrettante versioni esistono in italiano. Derrida non ha letto, credo, lo scrittore americano Philip K. Dick, e in particolare il suo romanzo del 1959 dal titolo Time out of joint.
Interessante è la variante del traduttore italiano per Sellerio, del resto assolutamente fedele al senso del romanzo: «Tempo fuori luogo». Come tutte le storie di Dick parla di un dis-astro, un deragliamento, un andare fuori asse del tempo che comincia in modo impercettibile e deve assolutamente trasformarsi.
Narra di quella situazione così letteraria del percepire qualcosa fuori posto, sconnesso, disaggiustato nell’ordine delle cose (...); un oscuro disagio il cui crescendo spettrale ricorda la situazione filosofica dell’aporia descritta da Derrida in, appunto, Aporie.
Tralascio la trama. Il problema narrativo, qui come nel genere di romanzi detta dei «mondi possibili», è sempre l’amletico problema di Hamlet, vorrei dire dell’homeless: quello di tornare a casa. Come tornare, e come «sentirsi» a casa. Nello spettro dell’abitare, lo sappiamo, hanter, «infestare», è una delle non tantissime modalità.
Il «fuori luogo» dice la dislocazione, la dis-giuntura su cui indugia Derrida nel libro su Marx; ciò che Amleto chiama il tra, l’interim, ovvero il passaggio impossibile, l’aporia; percorso dal Ghost al Guest e viceversa, secondo l’etica dell’ospitalità e dell’accoglienza più volte ribadita da Derrida.
Fuori luogo sono i discorsi inattesi e paradossali (come criminale, poiché «essere clandestini» oltre a un pleonasma è un reato). Il fuori luogo, faglia o rottura spazio-temporale, è la sensazione così attuale di essere ovunque e in nessun luogo al tempo stesso, come in una diaspora universale in cui si è dappertutto ma mai a casa (forse per questo abbiamo bisogno di una home page). È una dislocazione (o «delocazione», come le opere straordinarie di Claudio Parmiggiani ottenute col fumo e le tracce dell’assenza delle cose), che connette la questione dello spettro e dello spettrale alla speculazione e la scrittura delle storie di fantasmi alla scrittura fantasma, ghost writing. (Questione in sospeso, quindi, di cosa e come sia una lingua di fantasmi).
La disgiuntura, il «tempo fuori luogo», dice l’urgenza, come ha scritto altrove Derrida, «faticosamente, dolorosamente, tragicamente, (Di) un nuovo pensiero delle frontiere, una nuova esperienza della casa, del chez-soi e dell’economia». Questa nuova esperienza dell’abitare è naturalmente anche una nuova esperienza del linguaggio: leggendo Shakespeare (ma anche leggendo Derrida, Marx e Philip K. Dick), il lettore investito da questa dislocazione è trasformato in un guest-writer. Ovvero, per esempio, un testimone, che è sempre un, o il, fantasma revenant, colui che ritorna. Un arrivante, un ritornante, un superstite.
(...) In realtà è un’esperienza molto antica. È quella dell’unica vera avventura, di fronte alla quale ogni altra ne è solo l’insoddisfacente surrogato, del «parlare con i morti», su cui da anni sto scrivendo il mio, chiamiamolo così, «romanzo», e che ritrovo, sempre in anticipo e insieme in differita, in différance, in Derrida.
Trasformare il ritorno in rivolta, ha scritto Derrida, a proposito di Marx, e dello spettro del comunismo. Il tempo del fantasma (come l’archivio) è l’avvenire, ha scritto altrove Derrida, e la sopravvivenza è «la vita più intensa che sia possibile».
Dibattito sul più famoso capolavoro LEONARDESCO
Dal Codice Da Vinci agli studi degli esperti
Il giallo della donna ritratta nel Cenacolo
Sforza Galizia: San Giovanni con tratti femminili.
La Haziel: nessun travestimento, scelse proprio una donna
MILANO - Il Cenacolo di Leonardo è uno dei capolavori più noti e studiati al mondo. Il lungo restauro, le condizioni di difficile conservazione dovute ai «vizi d’origine» della parte sulla quale è stato realizzato l’affresco, sono tra gli elementi che negli anni lo hanno riportato all’attenzione del pubblico.
Ma c’è poi un versante legato alle interpretazioni del «linguaggio» di Leonardo che ha attratto,da sempre, molti studiosi. Un filone che, per la quantità di misteri che sembra racchiudere, ha perfino avuto una traduzione «popolare» di grande successo grazie al libro (e al film che ne è stato tratto) Il Codice da Vinci di Dan Brown. Un successo mondiale, quello dello scrittore americano, che ha indirizzato anche le principali attenzioni del pubblico su alcuni particolari dell’affresco. Non necessariamente i più importanti, però. Come quello della «figura femminile» accanto a Gesù, molto funzionale alla ricostruzione di Dan Brawn per la tesi del matrimonio tra Cristo e la Maddalena e la successiva discendenza, mantenuta segreta e protetta dai Templari. Il romanzo fa riferimento sia alla simbologia (la V che si forma tra San Giovanni e il Cristo) sia alla rappresentazione, effettiva, di una donna (la Maddalena) e non dell’evangelista, alla destra di Gesù. Ovviamente la verità romanzata, che pure si basa su ipotesi di studio consultate da Dan Brawn, affascina. Ma davvero, nel suo affresco, Leonardo ha dipinto una donna al posto di San Giovanni?
LO STUDIO SULL’ARAZZO - Panorama, questa settimana, pubblica un’intervista a Sabrina Sforza Galizia, studiosa che pubblica ora un libro intitolato «Il Cenacolo di Leonardo in Vaticano. Storia di un Arazzo in seta e oro», aggiunge nuovi particolari sia sulle profezie astronomiche che la versione leonardesca dell’Ultima Cena conterrebbe, sia sul particolare della figura femminile. La novità è che gli elementi sui quali ha potuto basarsi la studiosa derivano (anche) da un arazzo, copia esatta del Cenacolo commissionata a Leonardo da Luigi XII, custodito ora in Vaticano. In base all’esame dell’arazzo, risultano più chiari tanti indizi sulle profezie «cifrate» nel capolavoro, in particolare il calcolo sulla fine del mondo. E, anche, sulla figura femminile. «Quello di Dan Brawn - dice a Panorama Sforza Galizia - è un pasticcio che ha suggestionato milioni di persone, ma non offre un cifrario per decrittare il messaggio del Cenacolo. Leonardo dipinge davvero San Giovanni con tratti somatici di una donna e lo fa volutamente, perché nel linguaggio che usa San Giovanni è "femmina"».
Il motivo? Perché, secondo la studiosa «utilizza la tradizione pittorica che fa uso della dualità maschio-femmina per simboleggiare una disgiunzione astrononomica necessaria per il calcolo dei tempi (...). Complicato? Forse, ma nulla è semplice negli studi su Leonardo. E poi, spiega, la terminologia maschio-femmina vige tuttora anche tra i nostri falegnami ed elettricisti e rispecchia un termine tecnico applicato anche all’astronomia».
«GIOVANNINA , VISO FANTASTICO» - Certamente i lettori di Dan Brawn e quanti che hanno visto il film si saranno sorpresi di sapere che nel Cenacolo fosse rappresentata una donna. Magari hanno pensato anche a una forzatura romanzesca. Invece la «presenza» femminile era già nota agli studiosi. Diversa cosa è attribuirle poi significati precisi e legati a messaggi cifrati. Le spiegazioni per la presenza della figura femminile possono essere anche altre. E persino molo più semplici, perché lasciate dallo stesso maestro nei suoi scritti. «Per trovare i volti degli apostoli - spiega infatti Vittoria Haziel, studiosa dell’opera leonardesca - Leonardo girava per le strade di Milano e segnava appunti sui suoi manoscritti sulle figure incontrate. Per una di queste egli scrive chiaramente che si tratta di "Giovannina, viso fantastico sta a Santa Caterina allo spedale"». Non si sa se si trattasse di un’infermiera o di una malata. Ma secondo la Haziel, che ha pubblicato di recente il libro «La Confessione di Leonardo» è proprio lei che dà origine alla figura alla destra di Gesù. «Questo appunto si trova infatti proprio sotto a quello della figura che ispira Cristo, o meglio Crissto, con due esse, come scrive Leonardo: "Giovan Conte, quello del cardinale del Mortaro". «Nessun apostolo "travestito" da donna quindi - conclude la Haziel - ma una donna vera e propria».
Redazione Online
IL CASO
Leonardo ha copiato da san Giovanni?
di Giacomo Maria Prati (Avvenire, 26 maggio 2011)
L’opera d’arte più studiata al mondo resta un territorio vergine dal punto di vista dei significati, della spiritualità dell’immagine. Incredibilmente gli studiosi non leggono il Cenacolo di Leonardo quale opera di arte sacra, ricchissima di citazioni scritturali. Si fermano nel ripetere il punto di partenza; cioè il fatto, indubitabile, che il dipinto visualizzi la situazione seguente l’annuncio del tradimento da parte di Gesù. Ma nell’opera c’è molto di più, a patto di assumere un approccio di «iconologia spirituale», alla Panofsky, alla Colasanti o alla Calvesi. Il capolavoro appare specialmente influenzato dall’Apocalisse e dal Vangelo di Giovanni, l’unico a descrivere lo stato interiore di Gesù al momento del drammatico annuncio (Gv 13, 21), con un verbo greco che ricorre anche nel turbamento di Gesù davanti al sepolcro di Lazzaro e al Getsemani, come ha evidenziato Benedetto XVI in Gesù di Nazaret II.
L’apertura dietro al Signore è una porta (Gv 10, 9) non una finestra, mentre il vassoio sotto il petto di Gesù è vuoto, come i piatti degli apostoli, perché è Gesù l’Agnello di Dio (Gv 1, 29). La Cena sembra post-eucaristica, perché il pane è già in parte spezzato e il vino versato, ma resta agli inizi quanto al cibo, il cristico pesce o l’analoga anguilla, e un vassoietto lo mostra tagliato in quattro parti da tre tagli, allusione ai tre chiodi della croce e alle vesti di Gesù spartite in quattro (Gv 19, 23). Anche la posizione di Cristo è scritturale in quanto appare il settimo, Signore del Sabato (Mc 2, 27-28 e Ap 1, 20), visto sia da destra che da sinistra e anche rispetto alle sette lesene del soffitto a cassettoni.
La triangolarità iconica del Cristo, rafforzata dalle tre aperture sul fondo, e ribadita dai tre vassoi sulla tavola, ci parla della giovannea ora di Gesù (Gv 2, 4 e 13, 1) e della reciproca glorificazione trinitaria fra il Figlio e il Padre (Gv 13, 31). Più precisamente il tempo narrativo è quello simbolico della «metà di sette» già presente in Daniele e poi nell’Apocalisse, (e allusa anche nell’apocalittica Melanconia I di Durer), cioè il tempo del dominio dell’anticristo: 3 anni e mezzo, 42 mesi, 1260 giorni. (Ap 11, 2-3 e 13, 5).
Non a caso il soffitto è un quadrato simbolico che reca per tre volte il numero 6, alludendo al numero della bestia (Ap 13, 18). Su Gesù incombe l’impero della tenebra di cui parla Luca (Lc 22, 53). La pietra sulla tunica di Gesù è verde, segno di Dio quale pietra viva, roccia di salvezza, ma anche allusione allo smeraldo riassumente l’iride attorno al trono di Dio (Ap 4, 3). La successione apostolica quale iride mistica, mandorla cristica tipica del Cristo glorioso, pantocratore.
Ricordiamo il Gesù di Giotto agli Scrovegni, il Trittico del Giudizio di Hans Memling e «Il creato adora l’Eterno» in Postillae in Pentateucum di Nicola da Lira. Molti apostoli presentano anch’essi una pietra sulla tunica, e il simbolismo rinvia alle 12 pietre della nuova Gerusalemme (Ap 21, 19-20) come al pettorale di Aronne (Es 28, 17-21) articolato in 4 serie di 3 pietre, come i 4 gruppi apostolici. Ne abbiamo conferma nella pietruzza che reca Matteo, citazione della pietra bianca che Gesù promette alla Chiesa di Pergamo (Ap 2, 17), o della perla a cui si paragona il Regno di Dio (Mt 13, 45-46). La serie apostolica inizia con Simone il cananeo e termina con Bartolomeo di Cana. Segno giovanneo.
E a Simone segue Taddeo, entrambi predicatori in Armenia e Persia, indice di fedeltà alle tradizioni ecclesiali e allusione, con Matteo (Etiopia) e Tommaso (India), all’Eden. Leonardo sottolinea il ruolo del prediletto Giovanni (Gv 13, 23) e di suo fratello Giacomo, posti alla destra e alla sinistra del Signore, come richiesto dalla madre dei figli di Zebedeo (Mt 20, 20-21). Una «prima cena» che è già banchetto regale.
Allusa in Giovanni vi è una donna, Maria, associata a Giovanni da Gesù crocifisso (Gv 19, 26-27). Ancora giovanneo Leonardo è nel Pietro che chiede all’evangelista chi sia il traditore (Gv 13, 24), mentre biblico si rivela il sale rovesciato da Giuda (Lv 2, 13).
Il volto di Giovanni manifesta la partecipazione mistica del discepolo al dolore di Cristo (Gv 13, 25), ma pure è mutuata dai modelli iconici e tipologici di Maria con Gesù bambino, ai piedi della croce, alla deposizione. Non a caso la contemporanea Pietà di Michelangelo ci mostra una Madonna simile nell’espressione. Nelle icone orientali più antiche Maria ha il mantello rosso apocalittico e la tunica celeste, come nel Giovanni dell’ultima cena, e spesso presenta i medesimi canoni melanconici del volto (la futura Madonna di Kazan o della tenerezza).
Ma pure ritroviamo la stessa postura in infinite opere d’arte fra le quali il «Cristo d’Ognissanti» di Giotto a Firenze o la Madonna in trono con bambino del Perugino. Una Madonna che già partecipa al dolore della Croce. Giacomo invece, nel suo dolore carnale, fisico, ricorda gli angeli della crocifissione e della deposizione del Giotto degli Scrovegni e della crocifissione di Simone Martini. Giovanni e Giacomo, cioè il sole e luna ai lati della Croce, altro topos diffusissimo. Lo stesso scambio mistico-cromatico fra le vesti di Giovanni e di Gesù c’è già nell’ultima cena di Pietro Lorenzetti nella Basilica di Assisi.
Dopotutto Leonardo si forma in una Firenze in cui non erano cessati gli effetti del revival grecista-neobizantino derivante dal Concilio di Firenze e dal mecenatismo eclettico di Cosimo de Medici. Le vesti di Gesù, rosso-blu, indicano i giovannei segni del sangue e dell’acqua (Gv 19, 34) e il suo distacco dai due lati delle schiere degli apostoli rinvia a Mosè nel Mar Rosso come allo squarcio del velo del Tempio (Lc 23, 45).
Metafora presente nel Rinascimento nell’identificazione fra la ferita al costato di Cristo e il biblico Mar Rosso, come si vede nel mappamondo della Scuola di Atene di Raffaello. Il Cristo triste di Leonardo guarda verso sinistra, il lato della trafittura (Gv 19, 34).Nella condensazione narrativa di Leonardo ci sono molte altre anticipazioni, fra cui il coltello (makaira) di Pietro con cui taglierà l’orecchio a Malco (Gv 18, 10). Leonardo inverte il rapporto fra simbolo e persona umana. Opera cioè nell’arte l’inversione di valore indicata nei Vangeli fra il "Sabato" e l’"Uomo" (Mc 2, 27). Lo fa non seguendo un’ideologia rivoluzionaria o neopagana ma rinnovando creativamente gli elementi che vengono dalla Tradizione dell’arte sacra della Cristianità.
Addirittura nel Cenacolo, come nelle icone, c’è il lapislazzulo per il blu del mantello di Gesù! Spiritualmente è probabile che Leonardo abbia risentito, fra gli altri, anche degli influssi apocalittici del domenicano Girolamo Savonarola, ancora oggetto di ammirazione in molti ambienti culturali dell’epoca. Ma si può andare oltre pensando a un influsso della "mistica del Cuore" e della mimesi affettiva cristico-mariana del domenicano Enrico Suso. E siamo ancora agli inizi!
Giacomo Maria Prati
Prima mondiale del kolossal di Dan Brown con Tom Hanks, diretto da Ron Howard
Un thriller esplosivo e dietrologico, arricchito dalla bellezza della "città eterna"
Adrenalina, riti e il fascino di Roma
’Angeli e demoni’, quante pressioni
Il regista respinge le critiche cattoliche: "E’ frustrante, ci giudicano senza vedere il film" E poi accusa: "Ci hanno condizionati anche quando giravamo nella capitale..."
di CLAUDIA MORGOGLIONE *
ROMA - Adrenalina, suspence, esplosioni, sangue, corsa contro il tempo per evitare una catastrofe. E poi il fascino arcano della Santa Sede: la rottura dell’anello alla morte di un Papa, il Conclave nella Cappella Sistina, i rituali della Guardia svizzera. E ancora la bellezza mozzafiato di Roma, con le sue chiese e i suoi enigmi. Tre aspetti diversi per un unico superfilm: "Angeli e demoni", tratto dall’omonimo libro di Dan Brown, con Tom Hanks protagonista. Una pellicola che svela i suoi segreti nel pieno di una polemica "preventiva" da parte cattolica, come già accaduto col "Codice da Vinci". "La cosa più frustrante - dichiara il regista, Ron Howard - è che chi critica non lo ha visto, né andrà a vederlo. Pazienza: tanto nella lista delle cartoline d’auguri del Vaticano non ci sono mai stato...".
L’occasione, per parlare con autori e interpreti del film, è la prima mondiale riservata alla stampa che si è tenuta ieri sera al cinema Warner Moderno di Roma. Seguita, oggi, dalle interviste ai protagonisti, e domani dalla proiezione ufficiale, con le star a sfilare sul tappeto rosso. E con grande spiegamento di mezzi: presenti 260 giornalisti di paesi diversi, per una campagna promozionale che, nel complesso, è costata la cifra record di 4,1 milioni di dollari.
Differenze col libro. Anche coloro che non hanno amato la trama per molti aspetti inverosimile di "Angeli e demoni" romanzo, scopriranno che il film, almeno per chi apprezza il genere thriller e colpi di scena, regge. Forse perché in sede di sceneggiatura alcune della assurdità più palesi del libro sono state tolte. Anche l’elemento più controverso rispetto alla sensibilità cattolica, e cioè la scoperta che il Papa ha un figlio naturale, qui sparisce. "Nel ’Codice’ sono stato forse un po’ troppo fedele al romanzo - ammette Howard - stavolta ci siamo presi grande libertà creativa. Ma mai per compiacere le gerarchie ecclesiastiche". Concetto ribadito da Dan Brown: "Eravamo al servizio della storia, senza porci problemi etici o opportunistici".
La trama. Dal Cern di Ginevra viene rubato un cilindro di antimateria: a farlo sono gli eredi di un’antica setta anti-cattolica, gli Illumati. Che proprio mentre sta per svolgersi il conclave per eleggere il nuovo Papa rapisce i quattro cardinali in pole position, per il soglio pontificio e minaccia di far saltare in aria San Pietro. A tentare di fermarli ci pensano il camerlengo (Ewan McGregor) del Pontefice appena morto; il capo della Guardia svizzere (il divo svedese Stellan Skarsgard); il capo della gerdarmeria vaticana (Pierfrancesco Favino); una scienziata italiana del Cern (l’attrice Israeliana Ayelet Zurer). E naturalmente lui, Robert Langdon, l’esperto di simboli interpretato ancora una volta - dopo il "Codice"- da Tom Hanks.
Cartoline romane. Anche chi vive nella capitale d’Italia resterà colpito dall’amore con cui la città viene mostrata, nel film. Affascinante, a tratti oscura, all’altezza della sua storia millenaria e per certi versi misteriosa. "Far risaltare la sua incredibile bellezza, antica e moderna insieme era uno dei nostri obiettivi", ammette Howard. Che aggiunge però come nel girare in città, e in prossimità delle chiese, qualche problema ci sia stato: "Forse dal Vaticano è stata fatta pressione" dice, ma senza specificare meglio di che tipo. L’italiano Favino, comunque, si dice convinto della bontà dell’operazione: "Spero che la pellicola possa essere uno straordinario spot pubblicitario per Roma, a livello internazionale".
Polemiche. Già un mese e mezzo fa il quotidiano dei vescovi, l’Avvenire, aveva anticipato che il Vaticano non avrebbe "approvato" il film. Poi l’invito a non vederlo è giunto dai cattolici americani. E adesso il vescovo di Potenza Antonio Rosario Mennonna, di 103 anni, ha presentato una denuncia presso le procure della Repubblica di Roma e del capoluogo lucano, sostenendo che "Angeli e demoni" diffama la Chiesa.
Le repliche. Comincia Howard, respingendo le critiche al mittente. Educatamente, ma con decisione: "Rivendico la libertà artistica con cui abbiamo affrontato questa materia - attacca - l’unica frustrazione è che nessuno di quelli che ci punta l’indice contro ha visto il film. Molti personaggi della gerarchia cattolica sono stati invitati all’anteprima vip di domani, ma tutti hanno rifiutato. Certo, in parte mi aspettavo complicazioni, ma sono più interessato al pubblico che alle reazioni vaticane. E poi vari preti o teologi con cui ho parlato mi hanno detto che pur non condividendo le tesi del film sono contenti perché la gente è spinta a pensare a ciò in cui crede. Per non parlare del valore pubblicitario di simili controversie". Più sbrigativo Hanks: "Non piace questo genere? Benissimo. Chi non lo apprezza non vada a vedere il film: il cinema non deve essere una forma di tortura...".
Il prossimo libro. Dan Brown mantiene la bocca cucita sul romanzo che sta per pubblicare: "Posso dire solo che si svolge nell’arco di dodici ore, e che Ron Howard (che non lo ha ancora letto, ndr) ne potrebbe trarre trarrà un film grandioso". "Fantastico - ribatte Tom Hanks - ma per favore, stavolta potremmo ambientarlo alle Bahamas?".
* la Repubblica, 3 maggio 2009
Dal 13 maggio in Italia
’Angeli e demoni’, polemica con il Vaticano. Il regista Ron Howard: "Non ci hanno permesso di girare"
Duro attacco del cineasta che dice di "essere stato avvertito che avrebbero avuto problemi a girare il film, tratto dall’omonimo best-seller di Dan Brown". L’attore Tom Hanks: "Se non siete d’accordo, non andate a vederlo"
Roma, 3 mag. - (Ign) - "Abbiamo girato ’Angeli e demoni’ anche a Los Angeles perché il Vaticano con la sua influenza non ci ha permesso di continuare le riprese in varie location capitoline". E’ duro l’attacco del regista Ron Howard del film ’Angeli e Demoni sullo stesso filone del best seller ’Il Codice da Vinci’ di Dan Brown. Il filmato sarà nelle sale il 13 maggio in Italia, distribuito dalla Sony Pictures. Domani la prima mondiale all’Auditorium Parco della Musica nella capitale. "Da subito ci hanno spiegato - racconta - che avremmo avuto problemi a girare in varie location romane. E così è stato". Rivela poi che non è stato possibile avere neanche una sala per il ricevimento che avrebbero voluto con vista sul Vaticano, mentre hanno avuto il permesso di fare delle riprese a Castel Sant’Angelo.
Il film è ambientato a Roma, in Vaticano e in diverse Chiese, oltre che a Ginevra, si è visto infatti rifiutare il permesso di girare nei luoghi santi della Capitale. La produzione ha dovuto utilizzare allora la Reggia di Caserta, e si è ’arrangiata’, mobilitando finti turisti che sono andati a fare filmati e fotografie nei luoghi sacri. Riprese, fatte di nascosto, che sono servite una volta negli studios di Los Angeles per ricostruire una ’piccola Roma’ aI punto che Hollywood Park è stata trasformata in Piazza Navona. Il regista respinge poi ogni possibile attacco su un utilizzo strumentale della polemica con il Vaticano. "Non abbiamo cercato di alimentare la controversia - ha assicurato Howard - diciamo che sono contento se si parla bene o male di me, oltre che del mio film". "Purché se ne parli" aggiunge sorridendo.
Torna sulla polemica con il Vaticano anche l’attore Tom Hanks che nel film è il protagonista Robert Langdon: "Se i preti non sono d’accordo con il nostro film semplicemente possono non venire a vederlo". Il premio Oscar si lascia andare poi a una battuta con un giornalista messicano. "Siamo sicuri per l’influenza suina? Sarà mica contagioso?" ha chiesto scoppiando in una fragorosa risata e invitando tutti ad andare a vedere il suo contestatissimo film.
«Angeli e demoni» invadono Roma
di Cesare Buquicchio *
Il film blockbuster “Angeli e demoni”, secondo film di Ron Howard tratto da un libro di Dan Brown (secondo i punti di vista, prequel o sequel de Il codice da Vinci) sbarca a Roma, a pochi passi da quel Vaticano dove buona parte del libro è ambientata e che ha rifiutato i permessi per girare molte delle scene del film. E, intanto, scatta la corsa ai tour organizzati tra le chiese di Roma sulle tracce del libro e della pellicola.
Nella Capitale si svolge in questi giorni l’anteprima internazionale del film, in uscita il 13 maggio, con tanto di proiezione, incontri stampa e, infine, all’Auditorium Parco della Musica alle 20 la prima internazionale con red carpet e parterre ricco di ospiti.
Presente a Roma, oltre al regista premio Oscar e Dan Brown, parte del cast. Ovvero: il premio Oscar Tom Hanks, Ewan McGregor, Ayelet Zurer e l’italiano Pierfrancesco Favino. Per questa prima mondiale di Angeli e demoni, che uscirà in 800 copie distribuite dalla Sony Pictures, si muoveranno da tutto il mondo oltre 200 giornalisti sia della carta stampata che televisivi. Per questi ultimi la Sony ha pensato di far fare a cast e regista photo-call e interviste a Castel Sant’Angelo, dove sono state girate molte scene del film. A pochi passi, dunque, da quella Città Vaticana che ha invece rifiutato i permessi per utilizzare varie location.
Tra gli ospiti della serata ci saranno sul red carpet anche la sposa che è stata aiutata da Tom Hanks, a giugno dell’anno scorso, a raggiungere in abito bianco il suo futuro marito in una piazza del Pantheon occupata dal set del film, il presidente di Sony Italia Paulo Simoes e il presidente della Sony mondo Sir.Howard Stringer.
Intorno al film si annuncia, come era prevedibile, una grossa campagna pubblicitaria. È il caso di Un angelo, 200 demoni, la nuova campagna Lancia. Le immagini del film sono state infatti utilizzate dall’agenzia Armando Testa per realizzare una campagna che unisce le inquadrature del thriller all’anima della Delta: angelica, ma con all’interno i 200 demoni-cavalli del motore.
C’è anche chi ha pensato di sfruttare l’effetto promozionale per la città di Roma, dopo le parole del regista, Howard, secondo cui, più che essere un film anti-cattolico, il film mostra una Roma inedita e misteriosa e invoglierà ancora più turisti a visitarla. Così, ad esempio, il gruppo The Westin Excelsior Rome propone ai suoi clienti un pacchetto Angels & Demons con tanto di tour sui luoghi del film.
Cenacolo, quell’Apostolo è una Donna
di Dario Fo
Anticipiamo, in un pezzo che parte dalla prima pagina del giornale, un brano della lezione che Dario Fo terrà domenica sera all’Auditorium Parco della Musica di Roma (ore 20). Il premio Nobel presenterà il volume «Leonardo, l’Ultima Cena-Indagini, ricerche, restauro» (a cura di Giuseppe Basile e Maurizio Marabelli, Nardini Editore) e subito dopo terrà una lezione-spettacolo sullo stesso argomento. *
Quasi tutte le guide che illustrano ai visitatori il Cenacolo di Leonardo si soffermano abbondantemente sulla scansione dei personaggi: «Osservate come gli apostoli siano radunati a gruppi di tre, mentre nel mezzo, quasi isolato e inscritto in un perfetto triangolo equilatero, sta il Cristo come assorto con le mani stese, quasi abbandonate sul tavolo».
Ancora descrivono le guide: «Alla destra di Gesù vediamo l’immagine di quello che è comunemente chiamato Giovanni o l’apostolo prediletto del Salvatore».
Osservandolo però con attenzione viene il fiero dubbio si tratti di una giovane donna. A questo riguardo sono nate dispute alle volte feroci. Uno dei libri di maggior successo degli ultimi vent’anni, che ha fatto grande scandalo, Il codice da Vinci di Dan Brown, si muove proprio dal presupposto che questo apostolo sia di sesso femminile, anzi più esattamente sia la Maddalena, che la tradizione popolare e più di un Vangelo apocrifo indicano come la moglie di Gesù.
Qualche anno fa, a Palazzo Reale a Milano, fu allestita una grande mostra dal titolo Il genio e le passioni in cui venivano esposti diecine di dipinti, tutti raffiguranti l’Ultima Cena, eseguiti da allievi ed epigoni di Leonardo; inoltre nella prima parte della mostra erano esposte tavole, miniature e strappi di affreschi realizzati da artisti vissuti prima di Leonardo. Nella gran parte di queste Ultime Cene si nota sempre la presenza di una donna vicino a Gesù, evidentemente la Maddalena che spesso si ritrova abbandonata fra le braccia del Messia.
Tornando all’Ultima Cena di Leonardo, le figure, con la loro gestualità e in particolare col movimento delle braccia, del corpo e delle mani, producono un agitarsi quasi di onde marine che disegnano archi distesi e spezzati, arabescanti su se stessi.
Flutti che scendono e riprendono, sorpassando, la figura di Cristo che sta immobile come inscritta dentro una piramide.
* l’Unità, Pubblicato il: 22.02.08, Modificato il: 22.02.08 alle ore 8.17
ONORI SATANICI PER SIR RUSHDIE *
Il Parlamento pakistano ha approvato all’unanimità una mozione di condanna nei confronti della decisione della regina Elisabetta che, solo pochi giorni fa, aveva conferito a Salman Rushdie il titolo di baronetto.
«L’Assemblea nazionale - si legge nel documento diffuso dal ministro per gli Affari parlamentari Sher Afgan Khan Niazi - è costernata per il titolo concesso al blasfemo Salman Rushdie dal governo britannico per il suo libro ’I versetti satanici’, che mira alla profanazione del Corano e della Sunna».
Ma il rappresentate del governo pakistano si è spinto ancora più in là, affermando che i libri del «miscredente» Rushdie giustificano milioni di «attacchi suicidi». È l’occasione, ha rincarato la dose Mohammed Ijaz ul-Haq, ministro per gli affari religiosi, affinché «un milione e mezzo di musulmani considerino con gravità questa decisione. L’Occidente accusa i musulmani di terrorismo, ma se qualcuno si facesse saltare in aria con una bomba addosso sarebbe nel giusto, a meno che il governo inglese non chieda solennemente scusa e ritiri il titolo di sir».
* il manifesto, 19.06.2007
KO - YAA - NIS-QATSI - LA VITA SENZA EQUILIBRIO - LIFE OUT OF BALANCE
La vita senza equilibrio di Stefano Andreoli
Koyaanisqatsi
[.... ] Il titolo mi parve talmente strano che me lo feci dettare lettera per lettera, non avendo ben compreso se si trattasse effettivamente di un film a me sconosciuto o se la pronuncia ("coianniscazzi") fosse un gioco di parole di un personaggio interpretato da Alvaro Vitali!
Esclusa la seconda ipotesi e non sapendo cosa dire, chiesi se era un film che trattasse di handicap. "Se l’handicap è uno dei tanti modi di stare al mondo, questo è un film che parla di handicap. Guardalo e poi scrivimi cosa ne pensi".
[....]
"Ko-Yaa-Nis-Katsi" è un’espressione del linguaggio indiano "hopi" e significa "la vita senza equilibrio". Un titolo che decontestualizzato dal film - un apologo ecologista "sponsorizzato" da Francis Ford Coppola e diretto dal regista indipendente Godfrey Reggio - potrebbe benissimo sintetizzare la condizione di vita di molti distrofici [....] obbligati ad assumere determinate posture per non cadere dalla carrozzina col tronco in avanti o di lato. L’"equilibrio" del titolo è riferito invece all’unica attrice, Madre Natura, e agli scempi che l’uomo ha causato ad essa tramite uno sviluppo industriale scellerato.
Koyaanisqatsi è un film inclassificabile ed è possibile definirlo solo in via negativa: non è una pellicola di finzione con una storia e degli attori, non è un documentario con le immagini che fungono da supporto per il commento. Film astratto, futurista, d’avanguardia? Forse, ma nessuna di queste parole è adatta per definirlo.
Le parole, ecco un buon punto di partenza. La colonna sonora è completamente priva di parole. Un film muto, allora? Niente affatto. Koyaanisqatsi è un film sonoro non parlato, costituito solo da immagini e da suoni (le musiche elettroniche del compositore minimalista Phillip Glass). Due immagini in particolare - i graffiti primitivi e la partenza dello Space Shuttle nel 1982 - utilizzate come prologo ed epilogo, racchiudono il senso politico dell’opera: l’apparente evoluzione dell’uomo dallo stato di "natura" allo stato "progredito" e ritorno; nel finale, infatti, alla navetta spaziale in caduta libera (la missione del 1982 si concluse tragicamente pochi minuti dopo il lancio), segue l’immagine dei graffiti primitivi. Il tono apocalittico è inoltre suggellato dalla voce cavernosa di un basso che ripete di continuo la parola del titolo.
Il resto del film, un alternarsi di immagini naturali e urbane (montate seguendo il ritmo della musica), amplifica la dicotomia natura/progresso, sfruttando al massimo le possibilità di manipolazione spaziale e temporale offerte (nel 1982) dal cinema. Tutte le riprese sono state effettuate utilizzando la tecnica per cui variando la velocità della macchina da presa rispetto a quella standard di 24 fotogrammi al secondo, il movimento dei soggetti inquadrati risulta in fase di proiezione, accelerato o rallentato.
Per esempio, l’effetto di accelerazione rende quasi indistinguibili il movimento della sabbia del deserto o delle nuvole da quello delle onde marine; ripreso di notte, il traffico di una grande metropoli si trasforma in un scia di linee luminose che si sovrappongono, si alternano, si incrociano, tra i volumi dei grattacieli, finendo per somigliare alla pittura astratta o informale. Persone per strada o all’interno della Borsa, inquadrate con un obiettivo grandangolare e "accelerate", sembrano formiche, mentre fotografate con il teleobiettivo e al rallenty, sembrano goffi burattini.
In Koyaanisqatsi ogni soggetto cessa di essere quello che oggettivamente è (nuvola, automobile, montagna, catena di montaggio ecc.), diventando una forma in continua mutazione. La tecnica impiegata, scardinando la visione spazio-temporale del nostro occhio, stimola nello spettatore una nuova percezione della realtà, che rende molto più efficacemente di qualunque reportage l’idea di quanto caotica, frenetica, priva di "equilibrio" sia la vita in un grande città. [....]
Ripensando al monito del film contro le sorti magnifiche e progressive dell’umanità, mi viene in mente un’intervista di Gigi Marzullo all’editorialista/scrittore liberal Massimo Fini. Alla domanda di Marzullo `Lei si considera un rivoluzionario o un reazionario?’, Massimo Fini rispose: `Mi considero un reazionario, nel senso che sono contro la rivoluzione industriale’.
Questa battuta, che ha aggirato in modo elegante la banalità del quesito, potrebbe benissimo essere una dichiarazione anche dell’autore del film, Godfrey Reggio.
Comunque, riflettendoci, l’autore di Koyaanisqatsi ci ha inconsapevolmente detto qualcosa sulla disabilità; fare un film sonoro non parlato è dimostrare che quello che viene comunemente ritenuto un grave handicap (il mutismo) è in questo caso uno dei principali punti di forza dell’opera. Un solo secondo di commento o di dialogo avrebbe rovinato tutto.
E, a proposito di film sonori non parlati, mi sono ricordato di due titoli (Tempi moderni e Il pianeta azzurro), entrambi con qualcosa in comune con Koyaanisqatsi. Le sequenze della fabbrica in Tempi moderni, capolavoro di Charlie Chaplin del 1936, in cui Charlot viene "mangiato" dalla macchina, non possono non avere ispirato le immagini di Koyaanisqatsi riguardanti il lavoro alla catena di montaggio.
Invece, Il pianeta azzurro, girato da Franco Piavoli nella Val Bruna, nello stesso periodo in cui Reggio a 15.000 chilometri di distanza realizzava la sua opera, segue l’evolversi della natura nel corso delle stagioni. Anche se la tecnica impiegata da Piavoli è diversa rispetto a quello adottata da Reggio, i due film sono accomunati - oltre che dalla tematica ecologista - da una concezione antinaturalistica dell’immagine e della natura.
Koyaanisqatsi mi ha inoltre ricordato un terzo film, anch’esso guarda caso poco parlato, 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Il prologo e l’epilogo con i graffiti primitivi e lo Space Shuttle sembrano la stilizzazione delle due parti di 2001, l’alba dell’uomo e la stazione orbitante nello spazio. Anche le immagini notturne di Koyaanisqatsi ricordano il finale di 2001, con le pareti del corridoio spaziale attraversato dall’astronauta Bowman, piene di forme di luce colorata e cangiante.
Dall’ articolo tratto da DM 139 - agosto 2000. DM è un trimestrale edito dalla Direzione Nazionale dell’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare. La Redazione di DM ha sede in: Via P.P. Vergerio, 19 - 35126 Padova, Tel. (049) 8021002 - Fax (049) 8022509 e-mail: redazionedm@uildm.it
dalla rete http://www.uildm.org/dm/139/rubriche/74koya.htm
(www.libreriadonna.com)
Celibato di Cristo “IL CODICE DA VINCI”: UN FALSO PROBLEMA
di p. Ortensio da Spinetoli
Il noto biblista, p. Ortensio da Spinetoli, partendo da un commento al famoso testo di Dan Brown, interviene autorevolmente su una questione d’attualità: “Il problema della famiglia di Gesù, dato abitualmente per risolto, potrebbe darsi che sia da considerare ancora aperto”.
Molto interessante, caro Prof. ! Mi piacerebbe conoscere il tuo pensiero a riguardo.
Cordiali saluti e grazie. Biasi
Alla XII assemblea del sinodo dei vescovi
Vaticano: ’’Per evangelizzare usare anche internet’’
La proposta del cardinale Marc Ouellet: ’’Bisogna incoraggiare la trasmissione delle Sacre Scritture attraverso i nuovi media che aspettano di servire la Parola di Dio’’
Città del Vaticano, 6 ott. (Adnkronos) - Il sinodo dei vescovi, apertosi questa mattina in Vaticano, deve incoraggiare le nuove forme di evangelizzazione e trasmissione della Parola di Dio anche attraverso i nuovi media, a cominciare da Internet. E’ quanto ha detto questa mattina il cardinale Marc Ouellet, relatore generale della XII assemblea del sinodo dei vescovi in corso in Vaticano.
’’In un mondo in via di globalizzazione - ha detto l’arcivescovo di Quebec - con i nuovi mezzi di comunicazione, il campo della missione è aperto a nuove iniziative di evangelizzazione in uno spirito di autentica inculturazione’’. ’’Siamo nell’era di Internet - ha aggiunto il porporato canadese - e le possibilità di accedere alla Sacra Scrittura si sono moltiplicate. Il sinodo deve ascoltare, discernere e incoraggiare i progetti di trasmissione e di trasposizione delle Sacre Scritture in tutti questi nuovi linguaggi che aspettano di servire la Parola di Dio’’.
Il porporato canadese ha poi elogiato il libro su Gesù scritto dal Papa, definendolo uno strumento utile per contrastare opere che diffondono confusione come ’Il Codice da Vinci’ di Dan Brown. ’’La pubblicazione del libro di Gesù di Nazareth - ha detto il cardinale - rappresenta un grande evento che libera l’accesso alla figura autentica di Gesù’’. Questo libro, ha spiegato ancora il porporato, che non è in alcun modo un atto magisteriale come ha spiegato il Pontefice, ’’rimane comunque un faro che protegge dagli scogli e dai naufragi. La sua testimonianza avvicina la teologia e l’esegesi mediante l’unione armoniosa della competenza scientifica e della testimonianza personale di un’autorità ecclesiale’’. ’’Va da sé - ha affermato ancora Ouellet - che un’opera simile aiuta a dissipare la confusione propagata da alcuni fenomeni mediatici e a rilanciare il dialogo della Chiesa con la cultura contemporanea’’. Questo passaggio della relazione è segnato da una nota che rimanda appunto al testo di Dan Brown, ’Il Codice da Vinci’.