Intervista a Alexander Sokurov
“Ho visto il Diavolo è solo un usuraio”
Il regista di “Faust” Leone d’Oro a Venezia: il Male non si combatte con la religione ma con la cultura
"LA MORTE DELL’ANIMA «Oggi quasi non esiste più, ogni impegno spirituale è malvisto, è il non-trionfo della ragione»"
"UN FILM SULLA DIVINA COMMEDIA «Ci sto pensando da anni mi chiedo come mai nessun italiano l’abbia già fatto»"
Dante e Putin
«Il suo è uno dei libri più grandi da cui imparare per la ricerca nell’animo umano, una carovana di emozioni profonde»
«Gli ho detto che è sua responsabilità aiutare il cinema che, per gretti interessi economici rischia di scomparire»
di Fulvia Caprara (La Stampa, 08.10.2011)
Il diavolo, sicuramente, non è mai stato raccontato meglio che nel Faust di Aleksander Sokurov, vincitore del Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia e il 26 ottobre sui nostri schermi: «Nell’epoca del 3D - dice il presidente dell’Ente dello Spettacolo Dario E. Viganò che al maestro è legato da un rapporto «fertile e di lunga data» - i suoi film sono 4D: inesausta e ardente ricerca della dimensione spirituale». Dalla Russia, dove sta già lavorando a nuovi progetti, Sokurov si racconta, parlando dell’anima, star di tutto il suo cinema.
Vendere l’anima al diavolo, ovvero tradire se stessi. Rispetto ai tempi del Faust di Goethe, l’uomo contemporaneo è forse più abituato a farlo. Che cosa significa oggi, vendere l’anima al diavolo?
«Oggi il concetto di anima quasi non esiste più. L’anima singola si sta svilendo. E la responsabilità dell’individuo c’entra molto. Se l’anima nel Novecento avesse avuto più valore, gli stessi tedeschi avrebbero appoggiato Hitler? E i russi avrebbero appoggiato Lenin e Stalin? L’anima secondo me non viene data alla nascita, bisogna coltivarla, nutrirla, farla crescere, insomma, impegnarsi per averla. Oggi ogni impegno spirituale è mal visto e persino il cinema ci abitua a non usare l’intelletto. E’ l’assoluto non trionfo della ragione. Quindi vendere l’anima per l’uomo contemporaneo non è più importante: il nostro tempo è fondato sugli affari fasulli, sulla vendita al limite della truffa delle cose inesistenti. Ecco, vendere l’anima, oggi, è una truffa perché il capitale è inesistente. Figuriamoci se ci possono essere dei poveri diavoli interessati a comprare una cosa inesistente...».
Gli uomini politici sembrano i più propensi a quel tipo di affare, per loro vendere l’anima può vuol dire restare a galla. E’ d’accordo?
«Indubbiamente gli uomini di potere farebbero di tutto. Ma hanno un’anima? Hanno la cultura che permette all’anima di sopravvivere, di pulsare dentro l’uomo? Mi chiedo spesso se quelli che noi definiamo "potenti" siano persone potenti nello spirito, se hanno il tempo per la cultura. Tutto quello che sta accadendo oggi sembra dimostrare che non conoscono il valore della cultura. Non possono quindi conoscere il valore dell’anima. O non tratterebbero così la cultura che ha bisogno di sostegno».
La fede religiosa è ancora un’arma fondamentale per proteggersi dalle tentazioni di Mefistofele?
«Il mio Mefistofele non è un diavolo, è un usuraio. Non fa nulla di sovrannaturale. Nulla che non si possa rivelare come abilità di un bravo giocoliere. Il male non è sovrannaturale. Lo si crede tale in una società moralmente degradata e forse in Russia siamo messi peggio che in Europa, il degrado sembra irreversibile. Cosa si può fare? È necessario un cambio delle priorità, comprendere cosa significa la cultura. Perché solo la cultura può allontanare un popolo dallo stato selvaggio. Non basta la religione. Non ci sono altri fili se non quelli della cultura che possano legare la gente al bene e all’ amore verso il prossimo».
Con il suo film, a Venezia, ha vinto l’arte nella sua accezione più completa. Secondo lei il cinema deve prima di tutto essere espressione artistica, e perché?
«Grazie per questa definizione. Che dire? Sono in difficoltà perché non considero il cinema la settima arte, non è ancora arrivato alla maestria della pittura, alla forza della musica, alla potenza della letteratura».
Il suo non è un film facile, che cosa chiede al pubblico che lo andrà a vedere?
«Forse di legare questo film all’intera tetralogia. Sarebbe troppo? Sono comunque molto grato ad ogni spettatore per il tempo che spenderà a vedere il mio film, per il lavoro della comprensione».
E’ vero che la prima telefonata di auguri dopo la vittoria è stata quella di Putin? Che cosa vi siete detti?
«Sì, non abbiamo parlato a lungo. Ho ribadito subito che questo Leone significa che si deve imperversare nella lotta per il sostegno del cinema che, a causa di gretti interessi economici, rischia di scomparire. La mia responsabilità come artista è fare un film dignitoso, quella dei potenti è difendere la cultura. Durante la premiazione mi sono dimenticato di ringraziare il presidente di giuria Aronofsky, il suo discorso mi aveva colpito e commosso, e non sono riuscito a stringere la mano neanche ad altri membri della giuria, ero stanco e stordito. Mi dispiace. Mi hanno portato l’ultimo film di Mario Martone, lo guarderò, e approfitto ora per ringraziarlo, insieme all’attrice italiana, Alba Rohrwacher, un viso delicato che mi ha incuriosito molto».
Ha girato in Islanda. Perché?
«Avevo visitato l’Islanda diverse volte, ammiro quel paesaggio austero. Mi sembrava il più adatto per il film. In Islanda regna un’atmosfera visuale particolare. L’ostilità della natura spoglia che irrompe con la forza dell’acqua dei geiser, quella nebbiolina acquosa dei vapori, quella luce, era l’ambiente giusto».
Sta già lavorando al suo prossimo progetto?
«Sto preparando un documentario sull’occupazione tedesca del Louvre, a novembre andrò a Parigi. Sto anche preparando un documentario in Russia, e sto riflettendo sul prossimo lungometraggio, forse da fare in Italia...».
Una volta ha dichiarato che le piacerebbe girare una versione cinematografica della Divina Commedia. E’ ancora così, e perchè?
«Ci sto pensando da anni. Per noi russi la letteratura europea ha avuto un ruolo fondamentale per la comprensione del "vecchio mondo", ci ha dato l’idea di quella profondità e delle radici del pensiero europeo. Pensare che Dante aveva affrontato temi così profondi già allora, mentre in Russia non avevamo ancora la letteratura come tale... E’ uno dei libri più grandi da cui imparare. Parlo non della dimensione politica ma della ricerca nell’animo umano, mi eccita molto l’idea di metterlo sullo schermo. Rigorosamente in italiano. Mi chiedo come mai nessun regista italiano l’abbia fatto già».
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
"DUE SOLI".... Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", Così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!!
"Deus caritas est" (2006). Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, il "Logo" del Grande Mercante!!!
Di cosa parliamo quando parliamo d’Europa: ancora su “Francofonia” di Sokurov
di Nicola Lagioia
Di cosa parliamo quando parliamo d’Europa?
È questa una delle domande che più risuona nella testa dopo aver visto Francofonia di Aleksandr Sokurov, uscito in quel 2015 che (tra crisi greca, populismi, emergenza migranti, terrorismo, deficit democratico, mancanza di una seria leadership) ha mostrato più ancora degli anni precedenti l’avvilente crisi d’identità di cui soffre il Vecchio continente.
Ancora l’arte, di nuovo un museo. Francofonia, tutto incentrato sul Louvre e sul racconto di come i suoi tesori vennero salvati durante la II guerra mondiale, potrebbe far pensare a un seguito di Arca Russa. Lì c’era l’Hermitage di San Pietroburgo, raccontato in quattro dimensioni (l’esplorazione degli spazi espositivi era anche un viaggio verticale nel tempo) attraverso un unico stupefacente piano sequenza. In realtà si tratta di opere distinte, o se si vuole Francofonia approfondisce, e di molto, il discorso cominciato con Arca russa, perché lì l’elemento contemplativo era dominante, mentre qui l’arte diventa rievocazione storica, ragionamento politico, riflessione filosofica per poi tornare al proprio nucleo irriducibile, dentro il quale sarebbe custodito un segreto sulla nostra identità di europei e occidentali (e forse persino di uomini tout court) che né la Storia né la filosofia riescono da sole a cogliere in pieno.
Ecco allora che in superficie Francofonia è il racconto di come, durante l’occupazione nazista, un cittadino francese (il conservatore del Louvre Jacques Jaujard) e un funzionario del Terzo Reich (il conte Franz Wolff-Metternich) abbiano collaborato per evitare che la follia della guerra divorasse tanti capolavori a cui anche l’identità di entrambi doveva tutto o quasi. Benché nemici nel più mostruoso conflitto che la storia dell’umanità abbia prodotto, Jaujard e Wolff-Metternich sentono (senza elaborarlo ideologicamente, e senza che Sokurov trasformi mai questa istintiva consapevolezza in manifesto o didascalia) che l’arte possiede qualcosa in grado di trascendere non solo la politica, ma anche la Storia, qualcosa che - benché sviluppatasi nel tempo storico, che è anche il tempo e i luoghi forgiati da quelle macchine del mondo che sono la politica, la guerra, la cultura - gli appartiene da prima ancora che l’uno o l’altro svolgano i propri compiti sotto una determinata bandiera o al servizio di un particolare paese.
In cosa consiste questa anteriorità dell’arte?
A un certo punto del racconto, mentre la cinepresa si aggira per il Louvre, la voce fuori campo di Sokurov riflette su come la cultura europea, a differenza dell’Islam iconoclasta, abbia sviluppato ad esempio un’ossessione per il ritratto. “Cosa sarebbe stata la cultura europea senza l’arte del ritratto?” La cinepresa si sofferma sui dettagli di volti realizzati da pittori rinascimentali, e mentre lo spettatore osserva un naso, un occhio, un’impercettibile piegatura delle labbra, viene in mente prima quel tortuoso percorso di conoscenza di sé che senza il cristianesimo sarebbe stato assai diverso (si pensi anche solo ad Agostino), e poi il vertiginoso avventurarsi in determinati coni d’ombra di cui a un certo punto si incaricò la psicanalisi, segnando insieme culmine e fine della modernità.
In quest’auto-osservarsi scintilla pericolosamente il delirio di onnipotenza (la tensione alla conquista e alla colonizzazione che è una delle malattie ontologiche del pensiero europeo), ma anche quel bisogno di conoscenza (che gioca a rimpiattino tra Faust e Galilei), quella forza compassionevole (Cristo), quel bisogno di nobilitarsi e nobilitare attraverso una restituzione di dignità (Marx), quel risplendere della ragione (l’illuminismo) che tutti insieme sono i punti cardinali dell’esperimento europeo, e che in equilibrio perfetto tra di loro - cariche positive in grado di neutralizzare le negative - darebbero vita addirittura a un ideale d’uomo in grado forse di valere a livello universale, e che l’arte non si limita a spiegare (come potrebbe fare il pensiero dei filosofi) ma prova, ne è per certi versi la dimostrazione.
Che cosa resta oggi di questo sogno?
Molti tradimenti e, di conseguenza, molte recriminazioni, sembra dire Sokurov. Per ammonirci sulla terribile amnesia di cui sembra essere vittima il nostro continente, il regista (ecco un altro motivo di interesse di questo notevolissmo film) cambia all’improvviso prospettiva, e guarda l’Europa con gli occhi di quella terra - geografica e spirituale - che da una parte le appartiene e dall’altra le dà le spalle, fuggendo verso un altrove che (a seconda di come la lezione europea risuoni o crolli su se stessa) potrebbe esserne la realizzazione utopica o il suo rovescio: vale a dire la Russia. È la Russia che, a costo di milioni di morti, liberò l’Europa dal nazismo. Ma anche la Russia di Dostoevskij, l’anima di un popolo che in ragione del suo splendore primitivo aveva forse la capacità di redimere il mondo intero. Per farlo, tuttavia, aveva bisogno che la sua sorella maggiore e insieme il suo faro (l’Europa e il pensiero europeo, che dà allo spirito una bussola e un completamento) splendesse su di sé. Se il faro dell’Europa smette di dare luce, anche la Russia perde la rotta. Il che, conclude Sokurov, è ciò che purtroppo è accaduto.
Un continente sviluppato su tesori inestimabili (se non precisamente l’arte, l’ineffabile di cui è dimostrazione e testimonianza) che negli ultimi decenni si ostina a reputarsi fondato solo su una banca, una moneta senz’anima, un apparato burocratico demenziale: ecco l’attuale perversione europea, da cui l’intero mondo dovrebbe sentirsi danneggiato. In attesa di un risveglio (e nella speranza che non sia, un’altra volta, troppo tardi) le opere del Louvre testimoniano che quello spirito esiste, manifesto nella rappresentazione artistica, ma semplice fantasma quando si tratta di incarnarsi in un motore della Storia, che - rispetto agli ideali che ci appartengono e da cui dovremmo sentirci mossi - nel XXI secolo sta girando a vuoto. Bisogna capire se all’Europa è sufficiente oggi trarre ispirazione dal “fantasma” per renderlo di nuovo reale e ritrovare se stessa.
Su questo, il film Sokurov ritiene di non poter offrire garanzie.
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minima & moralia, lunedì, 15 febbraio 2016
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Nicola Lagioia, Sokurov, l’arte, la memoria
Lo Straniero N. 188 11/02/2016,
Aleksandr Sokurov
Il naufragio della bellezza
di Roberto Escobar (Il Sole-24 Ore, 20.12.2015)
«Senza ragione e senza pietà», così sono le forze del mare e della storia secondo il narratore di Francofonia - Il Louvre sotto occupazione (Le Louvre sous l’Occupation, Francia, Germania e Olanda, 2015, 88’). Nell’edizione originale, la sua voce accorata è dello stesso Aleksandr Sokurov. Di fronte a un computer, l’autore russo tenta di comunicare con il comandante di un cargo preso in una tempesta. Il collegamento è instabile. Talvolta le immagini si dissolvono sullo schermo, talvolta si interrompe anche il sonoro. Dirk, così si chiama il comandante, si è messo in mare con un carico di container pieni di opere d’arte. Le previsioni del tempo lo avrebbero sconsigliato, e ora anche la ragione e la pietà sono in balìa dell’oceano e della sua furia.
La narrazione di Francofonia è doppia. La sua parte più superficiale riguarda un tempo non lontano. Il 14 giugno 1940 i tedeschi occupano Parigi. Due giorni dopo, il vecchio maresciallo Philippe Pétain guida una Francia alleata della Germania nazista. Su questo sfondo cupo, le sorti del museo sono affidate a due nemici: il conte Franziskus von Wolff Metternich (Benjamin Utzerath), Kunstschutz (curatore d’arte) della Wermacht in Francia, e il curatore del Louvre Jacques Jaujard (Louis-Do de Lencquesaing).
Colto e raffinato, il primo teme al pari del secondo che il museo sia depredato dai gerarchi nazisti. D’accordo con il collega francese, e rischiando, rimanda di anno in anno il trasferimento in patria di quadri e statue. In questo modo, commenta la voce fuori campo, la Germania «rispetta il diritto di esistere della Francia». Non c’è popolo, spiega Sokurov, se non c’è un luogo in cui possa custodire la propria arte. Diverso, continua, è stato il destino dell’Est europeo, dove i nazisti non ebbero alcun rispetto, né per gli esseri umani né per l’arte.
Sotto questo livello narrativo ce n’è poi un secondo ben più radicale, che Sokurov affida ai quadri e alle statue del Louvre. Il suo tempo è indefinito, e sconfinato più di un mare in tempesta. Ogni popolo, argomenta il narratore, è circondato da un oceano, e ogni individuo ha un oceano in sé. Ma noi viviamo «come se l’oceano non ci fosse». Che cos’è la costruzione della bellezza, se non un continuo produrre l’illusione di questo come se? In tale costruzione, azzarda Sokurov, la mano ha preceduto lo spirito: il nostro fare - il nostro dar vita materiale a simulacri “duraturi” di noi stessi - ha anticipato la consapevolezza critica della nostra precarietà.
D’altra parte, anche la nostra bellezza “manufatta” partecipa della furia della storia, come il cargo di Dirk partecipa della tempesta. Ed ecco che, muovendosi per i corridoi e le sale del Louvre, la macchina da presa scopre frammenti di “come se” emersi dal naufragio nel tempo. Un fregio imponente d’un palazzo reale assiro, nel cui marmo è ancora ben viva la paura per il potere, insieme con la paura del potere. O una figura umana in pietra, che dopo novemila anni continua la sua sfida alla precarietà. O la mummia d’un antico egizio avvolto in teli dalla trama fitta: verso la sua mano, fissa nell’illusione dell’eternità, si tende quella guantata di nero di un ufficiale nazista. O ancora, ben più recente, il ritratto di Napoleone che, in un quadro di Paul Delaroche, attraversa le Alpi sopra un asino (o un mulo). Poi, di nuovo lui (Vincent Nemeth), che di fronte alla Gioconda afferma certo: «Questo sono io». E se qui si tratta della megalomania di ogni potente, per il Louvre in genere si tratta di un fatto che l’Empereur, almeno quello di Sokurov, rivendica con orgoglio: perché avrei fatto la guerra, se non per depredare il mondo d’opere d’arte?
E il cargo? Quello naufraga tra i marosi, lasciando che i suoi container sprofondino nell’abisso. La precarietà vince. Né potrebbe essere altrimenti. Alla lunga, la magnifica illusione dei nostri “come se”, anche dei più grandi, niente può contro la tempesta sconfinata del tempo. È questo il più paradossale dei motivi, e il più solido, per averne cura.
Sokurov e quel viaggio nell’arte
Il Louvre cuore dei valori europei
Il regista nelle sale del museo parigino tra Napoleone e i fantasmi del nazismo
di Paolo Mereghetti (Corriere della Sera, 15.12.2015)
Film saggio, a metà tra la riflessione storica e la privatezza diaristica, dove la cinepresa diventa un’autentica caméra-stylo che mescola formati e percorsi con straordinaria (e affascinante) libertà, questo Francofonia - che nelle intenzioni dichiarate doveva essere un film dedicato al museo parigino del Louvre, un po’ come Arca russa lo era stato sull’Ermitage di San Pietroburgo - nasconde dentro di sé suggestioni che si svelano allo spettatore a ogni visione.
A Venezia, dove il film era stato presentato e dimenticato dalla giuria (perché Sokurov aveva già vinto un Leone d’oro nel 2011 con Faust) mi aveva colpito l’intreccio di stili, di tempi e di toni, quasi una specie di prolungamento più articolato e concreto delle «elegie» girate a cavallo degli anni Novanta sul dissolvimento di un mondo e dei suoi valori: il Louvre e più in generale l’arte come baluardo della cultura in nome del quale la coerenza personale poteva mettere in discussione anche la fedeltà politica.
Rivisto dopo sei mesi (e dopo l’incrudelirsi degli attacchi dell’Isis ai simboli dell’Occidente), Francofonia rivela una più radicale lettura dell’arte custodita al Louvre e nei musei europei e la difesa di un’idea dichiaratamente occidentale dei valori culturali. «Cosa saremmo senza l’Europa?» si sente all’inizio del film, cui fa eco, più avanti, l’elogio della galleria di ritratti conservata al Louvre, un genere - quello della pittura del volto umano - che solo l’Occidente ha coltivato. E di cui Sokurov sottolinea appunto l’esclusività antropologica e geografica.
Il film, che ha avuto una lunga e tormentata gestazione proprio perché i responsabili del museo parigino hanno faticato ad accettarne la struttura, è costruito intorno a tre «coppie» che dialogano tra di loro e si intrecciano secondo una logica che è più poetica che narrativa: il regista e il capitano di un cargo in navigazione; Napoleone (Vincent Nemeth) e Marianna (Johanna Korthals Altes) che si aggirano per il Louvre; Jacques Jaujard (Louis-Do de Lencquesaing), il direttore del museo parigino al tempo dell’invasione nazista, e Franziskus Wolff-Metternich (Benjamin Utzerath), plenipotenziario del Führer per il Kunstschutz (la «conservazione delle opere d’arte», una dottrina dietro cui si nascondeva l’intenzione di trasportare in Germania i capolavori dei Paesi sconfitti).
Il dialogo tra i primi due, che comunicano attraverso un disturbatissimo videotelefono, riguarda il destino di un cargo su cui sono stati imbarcati i tesori di un museo non ben identificato e che si trovano a sfidare la furia del mare in tempesta: «sballottare l’arte sull’oceano è disumano» dice il capitano, ed è evidente il valore metaforico di queste immagini dove la forza del mare diventa quella della Storia, che si accanisce «senza ragione né pietà».
Per questo a Sokurov interessa Napoleone, perché il suo trionfo servì anche a creare il nucleo principale del museo del Louvre, tra le cui stanze si pavoneggia di fronte a quadri e ritratti, incrociando una timida Marianna che di fronte alle tele declama, non a caso, le parole chiave della democrazia francese: «libertà, uguaglianza, fratellanza». Così, lungo un percorso che privilegia il tema della conservazione/salvataggio delle opere sulla loro fruizione, ecco la ricostruzione degli anni Quaranta, con l’invasione tedesca e il testardo lavoro del direttore del Louvre per salvare le opere del museo dalla guerra e dall’avidità nazista (con l’aiuto di Wolff-Metternich).
Che cosa tiene uniti questi tre piani così diversi? Per Sokurov è l’idea della sacralità dell’opera d’arte e della sua funzione fondativa rispetto alla cultura occidentale, in nome della quale si può morire (ecco il riferimento all’assedio di Leningrado) oppure «tradire» (Jaujard aderì a Petain ma sostenne la Resistenza, Wolff-Metternich ostacolò i gerarchi che volevano spogliare il Louvre) e in cui il regista vede un legame anche con la cultura russa (ecco l’omaggio a Tolstoj e Cechov, «addormentati» cioè inascoltati nel Novecento comunista).
Ne esce un viaggio pieno di fascino ed emozione, tra metafore marinare e ricordi della Storia, dove i musei («cosa sarebbe la Francia senza Louvre?» ci chiede il film) diventano il cuore di una civiltà orgogliosamente occidentale. Forse troppo.
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Visioni
Sokurov nel cuore trafitto dell’Europa
Al cinema. Da domani nelle sale «Francofonia» del regista russo presentato alla Mostra di Venezia
di Silvana Silvestri (il manifesto, 16.12.2015)
Carico di interrogativi espressi, troppi per dar loro un’immediata risposta, Francofonia di Alexandr Sokurov, contiene risposte impossibili da offrire in cambio della sontuosa messa in scena. La sua voce fuori campo accompagna lo spettatore in modo che non si smarrisca tra i cambi scena, l’irrompere improvviso di personaggi, i volti dei ritratti sicuramente già visti ma dove, quali date e quali eventi. La voce solitaria dell’uomo. Due sono le muse a cui si rivolge prima di iniziare il poema, Tolstoj e Cechov. Perché dormite? è la prima domanda e anche a questo non avrà risposta. Occorre il loro sostegno per dare equilibrio al vortice indistinto nel quale ci troviamo, sulla zattera della Medusa che vedremo nel finale. Unico punto fisso sembra essere l’opera d’arte da salvaguardare come testimonianza di identità, o come simbolo di potere tale da poter essere spazzata via. Non ce ne parla direttamente il film di Sokurov, ma si sentono in sottofondo i boati delle distruzioni recenti dei «patrimoni dell’umanità».
Già cominciare a cogliere il suo sguardo non è cosa semplice e univoca: sarà il caso di distinguere tra punto di vista rinascimentale e bizantino, quello dei paesi ortodossi, il punto di vista da cui ci si pone di fronte alle icone, mai frontalmente, con le giuste vie di fuga diagonali (lo ha fatto intravedere nei suoi film Tarkovskij e certo Sokurov non indica la prospettiva. Intravediamo sempre al fondo dello schermo l’Europa sintetizzata, ridisegnata, moltiplicata nei personaggi ritratti al Louvre - monarchi e mercanti, dame e indietro nel tempo la Nike di Samotracia (possiamo ricavare risposte ai nostri interrogativi dai classici latini e greci? gli abbiamo chiesto: «temo che non riuscirebbero a capire la situazione in cui ci troviamo» ci ha risposto). Titolo originale del film è Le Louvre sous l’Occupation e una buona parte del film, per seguirne una sola traiettoria è la storia complessa della salvaguardia delle opere da parte di Jacques Jaujard il funzionario di alto livello, conservatore al momento dell’occupazione nazista della Francia e direttore del Museo del Louvre di Parigi dal 1940, e del nazista plenipotenziario Conte Wolff-Metternich, responsabile dei beni artistici nella Francia occupata durante la Seconda Guerra Mondiale. Pur su fronti diversi il loro è un obiettivo comune, la salvaguardia delle opere che assume via via il significato della messa a riparo di un’intera civiltà, quando è approvato il trasferimento del patrimonio al sicuro nei castelli intorno a Parigi.
Mentre il film definisce i suoi perimetri, incalza di domande a sottolineare come sia fulminea la corsa del tempo, dei secoli e assurde le vicende che li compongono, onde della storia «senza ragione né pietà». Ma in questa chiave resta sempre il mistero dell’arte, cosa porta gli uomini a esprimersi con tanta magnificenza, sia la paura del potere, o l’affermazione del potere. O la futilità del potere. Lo stesso Louvre incarna vari misteri a partire dalla sua origine, fortificazione scelta per fondare Parigi, oggi diventato lo stesso museo una città nella città, fatta di labirinti e sotterranei. La scelta di riprendere i quadri che ritraggono il museo con i quadri alle pareti è una presa di distanza - oltre che una vertigine - un essenziale gioco di specchi così come la scelta di avvicinarsi ai quadri «anomali», quasi dimenticati rispetto a quelli diventati celebrità, attrazione per turisti .
Il museo come luogo del potere è espresso dalla figura di un Napoleone padrone di casa, guida delle sue effigi, ora a cavallo di un asino (il nobile animale cavalcato anche da Gesù nel giorno delle palme) ora in occasione dell’incoronazione a imperatore, o a indicare i tesori trasportati a Parigi come bottino di guerra nelle campagne d’Egitto (che, ricordiamolo avevano al seguito artisti come Vivant Denon a descrivere i territori attraversati). Duetta con una Marianna (Johanna Korthals Altes) altro fantasma che si aggira nei saloni. Infine musei, cattedrali e castelli non subiranno bombardamenti per disposizione del Reich: beninteso da questo accordo è escluso il patrimonio artistico all’est, non considerato ufficialmente degno di conservazione. Non una semplice notazione, ma una deflagrazione da un punto di vista politico e artistico: irrompono nel film le documentazioni d’epoca da Vichy ai bombardamenti all’Hermitage, un altro luogo dell’anima del regista di Arca russa, che non ha nessuna intenzione di specializzarsi nella serie dei musei (La Bbc lo fa già benissimo, dice).
Vediamo non più il luogo protetto perfino dai nemici, ma diventa pulsante la percezione del milione di morti di Leningrado, scene di ghiaccio che rimarranno anch’esse nella storia d’Europa e del cinema. Tanto era un film danzante Arca russa nei fasti dell’Hermitage, quanto diventa sanguinante Francofonia, premonitore di quanto sarebbe successo nei mesi a venire: Sokurov nei giorni della Mostra ci parlava della necessità di non mettere da parte la Russia, di non isolare Putin e allora sembrava che sarebbe rimasto inascoltato. Più facile sembrava restare sul piano del discorso puramente artistico. Arte o vita umana, cosa preservare? («c’è gente che ha sacrificato la sua vita per l’arte, ognuno fa le sue scelte», diceva il regista e tutta la sua vita ne è stata la dimostrazione).
Come una visita al museo mette in moto associazioni e riferimenti in Francofonia dobbiamo essere vigili all’intreccio di generi, scene in costume, immagini al computer, film d’arte in un continuo flusso ininterrotto. Dai reperti agli attori in scena, elaborati tanto da perdere ogni parvenza di ricostruzione d’epoca, attraversata dalla polvere del tempo, come la Marianna che sussurra con il fiato che le resta: liberté egalité fraternité. Se ha ancora un senso.
Resistenza, occupazione, Europa unita: tutto passa nel vortice della storia, in mezzo a flutti tempestosi come quelli su cui naviga il cargo carico di container di opere d’arte ormai perse nelle acque. Lo grida infine ad «Aleksandr» l’amico comandante Dirk collegato fortunosamente via Skype, fin dalla prima scena, immagini che giungono a tratti nello studio del regista, unico punto fermo del film, si direbbe il cuore stesso dell’opera, dove prende forma ogni sua creazione, la stanza dove si trovano i suoi libri, i quadri, i suoi appunti e scritti, punto di partenza e arrivo di tutto il film. Le risposte semplici sono finite, restano domande complesse, ma i politici non sono in grado di darle, non c’è stato nessun rinnovamento, non è cambiato niente. Neanche gli scrittori sono in grado di cambiare qualcosa». In una scena del film di fronte ai quadri rinascimentali il regista si concentra sul mistero dello sguardo di quei personaggi: «La pittura ci permette di capire chi siamo noi europei, dobbiamo guardare il viso dell’altro per cogliere cosa ci differenzia, cogliere gli elementi della cultura dell’altro. È un pericolo mischiare le culture. Proteggete la vostra cultura europea».
La passione per il sapere secondo il celebre saggista
Da sempre l’uomo è abitato dalla sete di conoscenza un sentimento disinteressato e inspiegabile
Pensiamo a nostro rischio e pericolo. Ecco la grande lezione di Faust
di George Steiner (la Repubblica, 23.09.2012)
Tre narrazioni, tre storie primordiali, non esauribili in un’interpretazione e innumerevoli nelle loro varianti, raccontano di un legame fatale tra conoscenza e castigo. Nell’Eden l’albero della conoscenza spinge il genere umano alla trasgressione, a esilio e infelicità persistenti. Prometeo è condannato a una tortura senza fine per aver rubato la scaltrezza teorica e pratica agli dei gelosi. L’intraprendente intelletto di Faust si spinge troppo in là e fa precipitare la sua anima nell’inferno. Un crimine inestirpabile è collegato alla determinante eccellenza dello spirito umano.
Una smisurata vendetta si è abbattuta su coloro che insegnavano «come l’uom s’etterna» (Dante). I cacciatori di verità diventano a loro volta oggetto di caccia, come se una contraddizione organica opponesse l’esercizio dell’intelletto al sentirsi a casa propria nella vita naturale.
Eppure l’impulso a il frutto proibito, a rubare e dominare il fuoco, a porre le domande essenziali come fa Faust, è inestinguibile. Anche se il prezzo è la sopravvivenza personale o l’ostracismo sociale.
D’altronde questa sete, questa libido sciendi e questo “gnosticismo” sono smisuratamente più potenti dei loro oggetti, di qualsiasi specifica intenzionalità. Si può trattare di sfide metafisiche, estetiche, scientifiche al loro più alto grado: ricercare “l’Uno”, la “chiave dell’universo” come fa Plotino o l’odierna accelerazione nucleare.
Ma l’oggetto può anche essere rappresentato da una minuzia che appassiona, la tassonomia di un milione di specie di insetti, lo studio degli utensili da cucina dei sumeri o della Cina arcaica. In questo disequilibrio, in questo estremo disinteresse c’è un mistero permanente.
Gran parte della ricerca può in effetti perseguire benefici reali o potenziali, il fuoco prometeico e le tecnologie che ne deriveranno. Quello che conta maggiormente però è la ricerca in quanto tale, le nuove idee, l’arricchirsi della comprensione e della sensibilità, per quanto astruse, per quanto inapplicabili esse siano. È l’ignoto a calamitare e l’uomo è l’animale che pone domande.
Le radici di questa trascendente fatalità restano nascoste. L’intensità, l’efficienza esplorativa e creativa di questo impulso variano profondamente a seconda degli individui e delle comunità, tra Atene e Gerusalemme da una parte e ampi settori di un mondo più pastorale e contemplativo dall’altra.
L’“in-quietudine” a cui Hegel ascrive gli sviluppi filosofici, scientifici, artistici, può non essere universale. Forse le germinali allegorie della caduta dell’uomo attraverso la conoscenza, della sua tragedia prometeica e del suo patto faustiano, sono essenzialmente europee.
Ma là dove prevale questa “brama di sapere”, questa capacità creativa che si oppone all’innocenza, il suo imperativo può essere irresistibile.
Freud, lui stesso un brillante esempio di tale dinamismo, ne sottovalutò la forza travolgente. Essere posseduti da una problematica di tipo intellettuale, pura o applicata, da un’assoluta bramosia per la forma estetica, da costellazioni resistenti all’indagine nelle scienze, è provare una libido, che può portare alla follia e ad atti criminosi, più pressante di quella sessuale. Quale impulso orgasmico ha una potenza pari a quella del desiderio che si concentra, nel corso impassibile di otto anni, a trovare la soluzione al teorema di Fermat? Anche la sopravvivenza arriva a contare di meno.
Uomini e donne sono andati al rogo in nome di convinzioni teologiche, etiche, scientifiche per quanto astruse esse fossero. Oggi vengono spesi miliardi in esperimenti che non si sa se siano in grado o meno di gettare un’ipotetica luce sulla “materia oscura” cosmica.
Al pari dell’eros, ma con maggior determinazione e con costi privati e pubblici superiori, questa instancabile indagine dell’essere e della sostanza, questo affondo per certi versi maniacale alla rincorsa dell’intelligibilità, non è negoziabile. La passione cerebrale e sensoriale disinteressata non trova maggiori spiegazioni dell’amore. Essa si riallaccia alla nostra accettazione e alla nostra negazione della morte in un modo che possiamo mitologizzare ma non comprendere totalmente. (...)
Gli storici della cultura hanno spesso identificato l’arroganza scientifica, tecnocratica dell’uomo occidentale, la sua convinzione che «la vita irriflessa non è degna di essere vissuta» (in fondo, perché?), con il problema di Faust. La bibliografia a disposizione è pressoché incommensurabile.
Per quel che attiene alle vere origini e alla diffusione esponenziale alla fine del XVI secolo della leggenda di Faust, molto resta ancora incerto. In questa ghirlanda letteraria si possono annoverare capolavori che vanno da Marlowe a Goethe, da Goethe a Thomas Mann, Pessoa e Bulgakov. Ma anche per quanto riguarda altri mezzi di comunicazione, la sua presenza non è da meno: spettacoli di marionette (sua fonte più probabile), opere liriche, balletti, raffigurazioni sinfoniche, film, fumetti. Esistono anche delle “Faustine”.
Le ballate tratte dal Faust sono diventate grande musica. Esistono moltissime incisioni - tra le più belle di Rembrandt - e quadri di qualità variabile. In quale lingua occidentale «faustiano» non è diventato un aggettivo? Le sue innervazioni occupano un posto centrale.
Poesia, arte, musica, teoria della storia (si veda Spengler) si incontrano qui con la filosofia, con l’atto di indagine filosofica. Il personaggio di Faust ha «diritto a tutte le reincarnazioni possibili», osserva Valéry. Quella di Faust e l’“Altro” - lo si consideri diabolico o si pensi a lui come a l’Autre della nostra coscienza divisa - è la storia che mette in scena meglio di qualsiasi altra le vanità e gli splendori illeciti della speculazione filosofica.
La favola non ha perso nella modernità secolarizzata molto del suo fascino. Uno dei primi nomi in codice per la ricerca sugli armamenti termonucleari fu “Faustus”; il primissimo gioco di scacchi computerizzato disponibile sul mercato si chiamava “Mephisto”. (...)
Più che la filosofia stessa, è il linguaggio della letteratura o, più precisamente, della filosofia diventata letteratura, come in Kierkegaard o in Nietzsche, che esprime l’estremismo patologico, la compulsiva vanagloria della vocazione e dell’impresa del filosofo. Nel tema faustiano è racchiusa questa intuizione. Facendo un passo più in là di Hegel, Pessoa definisce la speculazione metafisica niente altro che “angoscia infinita”.
La filosofia ha un suo martirologio. Le antiche biografie, che restano sempre da verificare, raccontano di filosofi trucidati nelle contese civiche, messi a morte da despoti invidiosi, assassinati da fanatici come nel caso di Ipazia. Anche a proposito della morte di Pitagora girava voce che fossero avvenute azioni violente. Un epigramma, un trattato di metafisica o di cosmologia, le considerazioni politiche di Spinoza, possono diventare l’atto più temuto dall’ortodossia e dall’assolutismo.
Quando si aggira per la città un’ideologia può diventare uno spettro minaccioso (l’immagine famosa di Marx). La tradizione avverte che Gerusalemme uccide i suoi profeti e Atene i suoi pensatori. Non c’è vocazione più pericolosa dell’esercizio della ragione, essa stessa critica costante, aperta o mascherata, alle norme vigenti.
Sulla scia mitica dell’Apologia e del Fedone, le ultime ore di Socrate hanno ispirato nei secoli la letteratura, le belle arti e anche la musica, come nel caso di Satie. Nella coscienza occidentale, quella di Socrate è l’altra morte significativa divenuta un’icona.
L’interazione epistemologica e simbolica con il Golgota è il punto cruciale per Hegel, nella sua enigmatica affermazione che «l’Ora è la notte». Nella pittura europea, una pletora di freddezza accademica o di vero kitsch precede la Mort de Socrate di Jacques-Louis David con la sua amara menzogna (la presenza di Platone).
Nella imitatio di questo momento canonico, il suicidio forzato di Seneca e la sua tranquilla accettazione della morte diventano emblematici per la morale occidentale e il culto dell’integrità stoica. Il libretto dell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi è mediocre, ma la musica che accompagna l’addio di Seneca ha qualcosa di magico. (...)
I poeti del risorgimento che lottavano per l’emancipazione dell’Italia dal papato celebrano la morte al rogo di Giordano Bruno, teorizzatore di eretiche infinità. Onorano Campanella che subì la tortura a causa del suo naturalismo precorritore e della sua visione utopica. In tempi più recenti si sono avuti elogi funebri, poesie elegiache e amare in memoria del fenomenologo e storico delle idee Jan Patocka, vessato dalla polizia segreta ceca fino a morirne.
Quanti studiosi di filosofia, seguaci di Confucio e intellettuali dissidenti sono stati umiliati, incarcerati, condannati a morte durante il sanguinario regime di Mao? Perché potessimo intendere il prodigio del canto inestinguibile di Orfeo o la prova dell’immortalità dell’anima, pur consapevoli della proposizione di Wittgenstein per cui la morte non ha significato rispetto all’esperienza umana, il prezzo è stato comunque salato. Si pensa a proprio rischio e pericolo.
(Traduzione di Fiorenza Conte e Renato Benvenuto) © 2012, Garzanti Libri s.p.a. © 2011 (per gentile concessione di Luigi Bernabò Associates
Tutti i diavoli della Bibbia
di Giuseppe Barbaglio (il manifesto, 25 settembre 1986)
Questa estate, durante le udienze del mercoledì, il papa si è soffermato a lungo sulla credenza cattolica negli angeli e nel diavolo. Ne è nata, sorprendentemente, una vivace discussione sui giornali, limitata però al motivo demoniaco, con interventi di «laici» e di credenti: si sono ascoltate voci di consenso e prese di posizione di dissenso (anche di matrice cattolica); chi si è spinto a deridere il punto di vista del papa e chi ha creduto di vedervi un dogma cattolico al pari di altri e quindi un patrimonio della chiesa, degno comunque di rispetto se non di accettazione. Non sono mancate neppure disquisizioni sottili a quale dei due fronti opposti spettasse l’onus probandi.
In realtà, il papa si era costantemente appellato alla Bibbia, fonte religiosa quanto mai autorevole agli occhi dei credenti, siano essi cristiani o ebrei. A questo punto si potrebbe essere tentati di concludere che, per i credenti, è già stata detta l’ultima parola e che la credenza negli angeli e nel diavolo appare un dato inattaccabile.
Eppure sembra necessario porre l’interrogativo: la credenza suddetta fa parte integrante del messaggio religioso della Bibbia, oppure è da annoverare tra i detriti di natura culturale che un’interpretazione rigorosamente storica dei testi sacri si lascia dietro senza rimpianti? Certo, a una lettura cosiddetta fondamentalista della Bibbia, creduto libro calato direttamente dal cielo sulla terra, questo punto di domanda apparirà addirittura blasfemo. Ma così, volenti o nolenti, saremmo risospinti al tempo delle discussioni sul famoso «Fermati, o sole!» di Giosué e della condanna ecclesiastica di Galileo.
Oggi anche per i cattolici la lettura storica dei testi biblici rappresenta un’acquisizione di pacifico possesso. Solo che la stessa cosa non si può dire dei risultati concreti del metodo astrattamente accettato.
Ebbene, sembra di poter sostenere, con cognizione di causa, che quanto la Bibbia afferma degli angeli e del diavolo ha valore funzionale, puramente funzionale. Intendo dire che non appartiene al messaggio vitale che si vuole comunicare, ma costituisce un modo simbolico, immaginario, culturalmente datato, proprio di ristretti circoli, di esprimere articoli fondamentali di fede. In concreto, se si crede in un Dio trascendente, appare logico che uomini di cultura monarchico orientale se lo rappresentino nelle vesti di un potente sovrano seduto in trono e circondato da una variopinta corte di angeli che lo esaltano e lo servono (cf. Isaia 6,1ss).
Se si è particolarmente sensibili alla trascendenza e spiritualità di Dio, con ogni cura si eviterà di metterlo a immediato contatto con il mondo e gli uomini, introducendovi quali mediatori gli angeli. Questi, intatti, sono per definizione messaggeri di annunci divini. Al contrario, la corrente cosiddetta javistica, per esempio, non tradisce alcuno scrupolo nell’umanizzare Dio e quindi non ha bisogno di ricorrere agli angeli per confessare ed esprimere la sua fede in Dio che si comunica agli uomini. Soprattutto, è fuori dubbio che le Sacre Scritture ebraiche conoscono, come mediatori paradigmatici tra Dio e il suo popolo, Mosé e i profeti, dunque degli uomini.
Procedendo sempre per esemplificazioni, se nei vangeli di Marco, Matteo e Luca è un angelo che annuncia alle donne stupefatte di fronte al sepolcro vuoto di Gesù: «Il crocifisso è risorto!»; da parte sua, Paolo, teologo avvertito e raffinato, afferma con forza di aver ricevuto l’annuncio della risurrezione di Gesù per diretta rivelazione divina, mentre arriva all’umanità attraverso la parola degli apostoli. In ogni modo le Scritture cristiane stanno uniformemente ad attestare che Gesù di Nazaret è l’unico mediatore tra Dio e l’uomo (cf. prima lettera a Timoteo 2,5) e il messaggero, dunque l’«angelo», della parola definitiva del Padre al mondo (cf. il vangelo di Giovanni).
Per questo forse non è casuale che nelle tradizioni evangeliche più antiche, delle quali non fanno parte i racconti del natale e dell’epifania di Gesù, sia assente qualsiasi «svolazzo» angelico. Quanto al diavolo o a Satana, le stesse testimonianze bibliche mostrano uno sviluppo culturale di approccio al problema, assai avvertito, della sollecitazione al male. Nel libro della Genesi il linguaggio appare di timbro decisamente mitologico: è il serpente, «il più astuto animale dellacampagna», che induce i progenitori alla ribellione contro Dio (cf. cap. 3).
Molti secoli dopo, secondo il libro della Sapienza, scritto originariamente in greco e nato nell’illuminata diaspora ebraica di Alessandria d’Egitto, il peccato originale di Adamo ed Eva fu consumato «per invidia del diavolo» (cf. 2,24). Scrivendo ai cristiani dl Roma, Paolo di Tarso spiegherà la tragedia originaria dell’umanità facendo appello a un meccanismo perverso interno all’uomo, a una specie di Superio schiavizzante la persona, da lui chiamato teologicamente «il Peccato» (cf. 5,12ss). In sintesi, tre modi diversi per spiegare la medesima realtà: un male oscuro è presente nell’esistenza e nella storia umana fin dalle origini.
Il prologo del libro di Giobbe mette in campo, come tentatore del pio protagonista di questo dramma religioso, un essere celeste appartenente alla corte di Dio, appunto Satana, vale a dire il tentatore. Più tardi, ormai pienamente «demonizzato», Satana ha fatto la sua apparizione nella vita di Gesù: così i racconti evangelici delle sue tentazioni. Ma il vangelo di Matteo ci ha conservato la seguente invettiva del Maestro a Pietro: «Vattene via da me, Satana!» (16,23). E’ stato dunque l’apostolo a rivestire storicamente il ruolo del grande tentatore di Cristo. E la lettera di Giacomo chiarisce, in linea di principio, da dove viene l’istigazione al male: dall’interno dell’uomo, esattamente dalla sua cupidigia (cf.1,14).
Perciò non sembra un azzardo ipotizzare che il diavolo o Satana sia una proiezione all’esterno di un dinamismo interno che spinge la persona al male. In ogni modo, al di là delle differenze culturali che li separano, i testi biblici concordano nel respingere ogni banalizzazione delle forze del male presenti e operanti nell’esistenza umana e nella storia. Esse hanno appunto un volto «demoniaco», terribile; sono l’adeguato contraltare alla potenza della grazia liberatrice, che ogni pagina biblica proclama quale vangelo, lieto annuncio.
Come ricostruire il consenso sociale. Quell’avidità senza più freni
È Mefistofele a illustrare a Faust che dal desiderio individuale di arricchimento può nascere la prosperità per tutti.
Ma ora il meccanismo si è inceppato e il circolo è diventato vizioso
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica, 26.01.2011)
Ogni regime che abbia una durata considerevole deve poggiare su una base di consenso sociale. Si può parlare di consenso passivo quando si manifesta nelle forme di una violenza repressa ma tollerata a causa della paura che suscita o del castigo divino che minaccia; e di consenso attivo quando procede da un sostegno convinto. Così è per il capitalismo: una formazione storica tanto dinamica e mutevole da chiedersi se le fasi che attraversa possano essere comprese in un concetto unitario.
Il capitalismo nasce da una transizione storica decisiva dai regimi sociali dell’antichità, caratterizzati da rapporti sociali garantiti dalla forza politica e militare a quelli della modernità contraddistinti sempre più dalle relazioni di mercato: una transizione che si compie lentamente nel medioevo. Quella transizione è per lungo tempo ostacolata, in Occidente, dalla morale cristiana, in quanto si fonda su passioni incompatibili con i suoi principi, come l’egoismo e l’avidità.
Questa resistenza è stata definitivamente vinta solo alle soglie della modernità dalla filosofia illuministica e liberale dell’utilitarismo. Fino a quel punto il "pregiudizio" cattolico che preclude al cammello di passare per la cruna di un ago getta sul mercante capitalista un’ombra di discredito.
Il paradosso utilitarista, introdotto da filosofi come Bentham nell’Inghilterra alla vigilia della rivoluzione industriale, permette al capitalismo di liberarsi di questo pregiudizio, fornendogli una preziosa legittimazione morale. Quel paradosso può essere compendiato nella sentenza del Mefistofele goethiano che presentandosi provocatoriamente come lo spirito della negazione, afferma di essere "una parte vivente di quella forza che perpetuamente pensa il male e fa il bene". A Faust che gli chiede "che dir vuole codesto gioco di strane parole" Mefistofele risponde evasivamente. Gli risponderanno invece gli economisti classici spiegando che il desiderio umano dell’arricchimento investito nella produzione competitiva si tradurrà in ricchezza per tutti, anche se in diversa misura per ciascuno. Dall’avidità può dunque nascere la prosperità.
Si possono muovere due obiezioni a questo ragionamento. La prima, avanzata da Keynes, più che un’obiezione morale è un rilievo pratico. Per superare la riprovazione etica - Keynes afferma - il successo del capitalismo deve essere talmente decisivo da essere inimmaginabile. Il rilievo non convince. Il successo del capitalismo è stato effettivamente vincente.
La seconda è più convincente. L’avidità è una passione incontrollabile. Anziché tradursi in un processo virtuoso di prosperità si può avvitare in un circolo vizioso di sistematico arricchimento. Fine a se stesso. E allora il tacito accordo che assicura la base del consenso necessario si rompe. È ciò che avvenne dopo la fine della prima guerra mondiale provocando una crisi che sfiorò la catastrofe. È ciò che rischia di avvenire ora se la crisi che ha quasi travolto il sistema finanziario dei paesi capitalistici sfocerà in una rovinosa recessione.
È possibile che il capitalismo superi anche questa crisi. Dopo tutto, come è stato detto, il capitalismo ha i secoli contati. Ma è anche possibile che non la supererà se resterà nel vortice del turbocapitalismo, o capitalismo finanziario, che lo ha travolto (Luttwak)
Ha bisogno di ricostituire un equilibrio soddisfacente tra finanza ed economia reale. Ha bisogno di ristabilire un equilibrio tra economia e politica. Ha bisogno di rinnovare quel compromesso storico con la democrazia che gli ha permesso di ritrovare le basi del consenso sociale nell’età dell’oro succeduta alla fine della seconda guerra mondiale.
Un Leone all’inferno
di Barbara Sorrentini *
Una visione così forte che si finisce per dimenticarla subito, dopo averci lasciato gli occhi. E’ l’effetto provocato da Faust di Alexander Sokurov, Leone d’Oro di Venezia 68. Il regista russo - di film enciclopedici su personaggi chiave della storia: Hitler (Moloch), Lenin (Taurus), Hirohito (Il sole) - ricama un’opera immensa, lunga e carica di citazioni.
Una carrellata su un secolo e più di cinema, che scomoda visivamente le esperienze di Bergman, Ėjzenštejn, Rye e Lang; quelle pittoriche da Bosch a Bruegel e letterarie da Omero a Bulgakov passando per Dante. Però il riferimento unico e principale del film di Sokurov è il Faust di Goethe e inevitabilmente porta con sé l’affanno di quasi sessanta anni di lavorazione a questo testo immenso, da parte dell’autore dei dolori di Il Giovane Werther.
Un viaggio al termine della notte, con piani sequenza meno ossessivi rispetto all’Arca Russa dove il buio accompagna l’andare e non lascia sperare nell’alba. Livido, grigio, con qualche pennellata di latte e distorsioni ottiche in color seppia. Il Faust cammina, va avanti e incontra, comunica anche, ma non ha parole dolci per chi incrocia il suo andare. Cerca di comprare l’anima di qualcuno, ma si rassegna al fatto che, tra gli uomini, di anime non ce ne sono più: se la sono venduta tutti. Povero diavolo.
Di questa opera, che supera in originalità e sorpresa tutte le altre viste a Venezia 68 restano in mente, negli occhi, soltanto immagini. Le parole sembrano fluttuare, dicono tanto, ci raccontano questo mondo attraverso frasi, pensate in tedesco tra il ‘700 e l’800 e l’insieme dell’opera porta a vedere in uno specchio tutta la decadenza e la deformazione umana che ogni era attraversa, e per questo nemmeno la nostra ne è immune. I personaggi sono mostruosi, brutti, con il codino e i mutandoni gomma piumati che fasciano il corpo. E quella specie di autopsia che appare all’improvviso dopo un volo idilliaco e suggestivo su un paesaggio in stile Il signore degli anelli, risveglia da un bel sogno, da un paradiso lontano che non ha niente a che vedere con l’inferno terreno.
ENZO PACI: "Parigi 30 marzo 1960. Ho trovato Ricoeur alla Gare de Lyon. Non ci vedevamo da quindici anni. Da Wietzendorf era partito all’improvviso. Dormivo. Non volle svegliarmi e lasciò un pane nel mio giaciglio [...]" (Enzo Paci, Diario fenomenologico, Milano 1961, pp. 97-08).
L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
Dal “Diario fenomenologico” di Enzo Paci, una tracciadi di lettura della "Crisi delle scienze europee" di Edmund Husserl
a c. di Federico La Sala*
4 febbraio 1960.
Nel patto biblico tra Dio e l’uomo c’è una clausola fondamentale: “Sia chiaro” dice Dio “che creatore sono soltanto io che ti ho creato e non tu. Io sono, su questo punto, un Dio geloso”. Come può essere nato un pensiero di questo genere?
Per una analisi fenomenologica vedo due vie. La prima è la proiezione, in Dio, del padre. Il figlio, per essere uomo, deve ribellarsi al padre. È la via del complesso edipico, la via di Freud. Ovviamente la proiezione si pone come divieto e come gelosia proprio perché il divieto deve essere superato. L’uomo diventa “virile” per la violazione della proibizione. Se il padre è Dio, raggiunge il massimo della umana virilità e cioè diventa Dio. Questa posizione è immatura. Infatti il padre è sempre divinizzato. La sostituzione al padre è eroica: il figlio diventa o Dio o il Diavolo. La maturità dell’uomo in quanto uomo viene raggiunta proprio quando cade la divinizzazione del padre. Se il padre diventa un uomo, anche il figlio diventa un uomo. Di solito ciò avviene quando il figlio, di fatto, diventa padre. di un nuovo figlio, e così via. Di fronte a suo figlio, il figlio divenuto padre si pacifica col proprio padre: ora lo può. Spetta a lui l’essere divinizzato.
La seconda via. Nell’atto sessuale procreante non mi accoppio per avere un figlio. Nella esperienza jn prima persona di me stesso e dell’altro nell’atto sessuale non sento di procreare, non ho I’esperienza in prima persona del “far nascere”. L’evidenza sessuale è l’evidenza dell’altro in me e di me nell’altro. Non può essere l’evidenza del figlio che non c’è ancora.. Se le conseguenze saranno procreative, nota Husserl, lo saprò dopo. Dai fatti. Ma posso pormi la domanda: “come avviene?” Fenomenologicamente questo “come” deve essere sperimentato dal soggetto. Ma il soggetto è il soggetto che inizia la sua nascita in seguito alla fecondazione. Non sono io ma è mio figlio, o sono io, ma nell’atto del mio nascere. C’è qui un distacco. Il distacco che si inizia subito, appena compiuto I’atto sessuale. Anche la donna si estrania da me. Ciò che ha di mio in sé è ancora mio, ma non sono più io.
Nell’amore, all’inizio, ho proiettato me stesso in lei: è diventata la “mia vita”. Proprio per questo devo possederla: per “riavere la mia vita”. Ma la “mia vita”, invece di essermi restituita, diventa concretamente un’altra vita. Così si diventa padre, diventando un altro soggetto. Ma così si è figli: si inizia geneticamente la propria storia, la storia della propria soggettività. Procreare e nascere sono due operazioni mie, di me soggetto, che mi sfuggono.
La prima mi sfugge nèl distacco che segue all’atto sessuale dal quale ha inizio, appunto, la procreazione. La seconda operazione, il nascere, mi sfugge perché che sia mia mi viene detto da altri. Non è in prima persona. Non posso ricordare la mia vita intrauterina e la mia nascita. Le due operazioni, che mi sfuggono, sono proiettate in Dio che diventa il solo creatore.
C’è un’implicazione: lo studio scientifico della procreazione e della nascita è, alla fine, la genetica. Come scienza fenomenologica rientra, in qualche modo, nell’antropologia, oltre che nella psicologia e nella somatologia, in quanto il suo problema si pone come studio delle modalità e del significato della genesi, sperimentata soggettivamente, e per ciò fenomenologicamente. Una delle conseguenze dell’implicazione scientifica è la seguente: lo studio scientifico della genesi, lo studio scientifico obiettivo, può porsi come un sostituto dell’atto sessuale.
Uno scienziato si può accorgere, magari tardi, che la conoscenza scientifica si è per lui sostituita alla “conoscenza” in senso biblico e cioè all’atto sessuale. Ciò può accadere al filosofo in quanto ricercatore della genesi del mondo. O allo storico: la genesi è la storia.
La feticizzazione è fascinosa perché sostituisce l’atto sessuale creativo. I,e tecniche possono esercitare, da questo punto di vista, un’attrazione magica. Una tecnica può sostituire l’atto sessuale e, in cibernetica, la procreazione mancata.
Il tecnico vorrà costruire il figlio come un homunculus nell’inconsapevole desiderio di sostituire agli uomini le macchine. L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
* Enzo Paci, Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 95-97.
Il Faust digitale del nuovo capitalismo
di Ulrick Beck (la Repubblica, 23.02.2013
SULL’HOMO oeconomicus, sull’ideologia neoclassica o neoliberale è stato detto tutto - ma non da tutti. Già nel 1832 Goethe, il poeta tedesco prediletto, aveva preconizzato - in versi! - nella seconda parte del suo Faust il dominio mondiale del denaro. Eppure, all’inizio del XXI secolo dobbiamo aggiungere qualcosa di essenziale, di nuovo, di originale: il “Faust digitale” o, più precisamente, la temerarietà e la cecità “faustiani” dell’ego-capitalismo.
Frank Schirrmacher, condirettore della Frankfurter Allgemeine Zeitung, nel suo libro Ego, appena uscito, descrive come l’implementazione di questo “nuovo” egoismo acquisti un carattere normativo e dopo la guerra fredda suggelli la vittoria della teoria della rational choice fin nei più piccoli dettagli del mondo della vita. Anzi, addirittura fin nell’anima digitale dell’“homo novus”. Perfino la formula della mauvaise foi coniata da Jean-Paul Sartre non va abbastanza a fondo, poiché presuppone pur sempre la libertà della scelta di se stessi. L’Io colonizzato dal capitalismo ha però perduto questo orizzonte di alternatività. Naturalmente, gli economisti dicono quello che dicono sempre: si tratta soltanto di modelli. L’homo oeconomicus non è altro che un’ipotesi. Chiaramente, lo era prima di diventare un soggetto che agisce mediante sistemi operativi.
Il real drama dal finale aperto, di cui noi tutti siamo oggi attori e spettatori, vittime e complici, ruota attorno a come l’“homunculus oeconomicus” - un cyborg, un androide, una figura artificiale, un essere uomomacchina - sia uscito dai “laboratori frankensteiniani di Wall Street”. Questa narrazione drammatica trae forza anche dalla brutale semplicità con la quale all’ipercomplessità del mondo si reagisce con 1 e 0, sì e no, accendere e spegnere; questo, per le persone ridotte a codici informatici, significa “agire” in base alle leggi degli economisti. L’individuo individualizzato, astratto, è altrettanto poco complesso e altrettanto poco sociale quanto i pezzi degli scacchi, che servono a ingannare strategicamente l’altro.
Non si crede più a nulla, ma solo a ciò che si vuole. Da qui la sfiducia di tutti nei confronti di tutti, dalla quale si diffonde ovunque il male. Qui sta il paradosso: nel momento storico in cui le istituzioni del welfare, i mercati finanziari e il rapporto con l’ambiente naturale sono entrati in una crisi fondamentale, nascono le “ego-monadi”. La loro funzionalità non consiste soltanto nel mettere in ombra le conseguenze del proprio agire per gli altri. Esse vanno anche decifrate come strategia di schivamento del rischio in un mondo di rischi globali - come patologia sociale dell’ego- capitalismo.
La crisi finanziaria e dell’euro dischiude soltanto un primo sguardo su questo accecamento del Faust digitale. I mercati finanziari sono soltanto i primi mercati automatizzati. Ma altri ne seguiranno. Comunicazione sociale, big data, i servizi segreti, il controllo dei consumatori, i veri o presunti terroristi, le università nella vertigine delle riforme neoliberali, le relazioni d’amore digitalizzate, gli scontri tra le religioni mondiali nello spazio digitale, ecc.
Cosa c’è di nuovo nel Faust digitale? Nel Medioevo gli alchimisti cercavano di trasformare metalli non nobili in oro. Gli odierni “alchimisti del mercato” (Schirrmacher) trasformano ipoteche tossiche e altamente rischiose in prodotti di prima classe, classificati come tanto sicuri da venire acquistati dai fondi-pensione. Si può comperare una casa senza denaro e continuare a spendere il denaro che non esiste? Sì, si può, ribattono i giocolieri neoalchimisti delle banche too-big-to-fail che operano in tutto il mondo.
Quanto al resto: la religione, Freud, la poesia - tutto nel museo delle idee morte dell’umano! Dinanzi a noi sta il nuovo mondo della manipolazione digitale dell’anima.
L’hybris di potenza faustiana confina con il filisteismo. Innumerevoli, spesso stolidi attori digitali sono così innamorati delle loro idee da non accorgersi che da ingredienti come il proprio tornaconto, la ricerca del profitto ad ogni costo e la capacità di escogitare trucchi nascono mostri. Anche mostri politici. La politica del risparmio, con la quale attualmente l’Europa risponde alla crisi finanziaria scatenata dalle banche, viene percepita dai cittadini come una mostruosa ingiustizia. Per la leggerezza con la quale le banche hanno polverizzato somme inimmaginabili essi devono pagare con la moneta sonante della loro esistenza.
I tecnocrati della finanza, questi interpreti della mostruosità, hanno sviluppato un linguaggio curiosamente terapeutico. I mercati sono “timidi” come caprioli, dicono. Non si lasciano “ingannare”. Ma gli inappellabili giudici economici, chiamati “agenzie di rating”, che professano anch’essi la religione mondana della massimizzazione dei profitti, emettono, in base alle leggi dell’ego-capitalismo, sentenze che colpiscono interi Stati al cuore della loro economia - perlomeno quella dell’Italia, della Spagna e della Grecia.
“Ognuno deve diventare il manager del proprio Io” (Schirrmacher). È passato il tempo nel quale gli imprenditori erano imprenditori e i lavoratori lavoratori. Ora, nello stadio dell’ego-capitalismo, è sorta la nuova figura sociale dell’“imprenditore di se stesso”; ossia, l’imprenditore scarica sull’individuo la coazione all’autosfruttamento e all’autooppressione e questo dovrebbe suscitare entusiasmo, poiché questo è l’uomo nuovo, generato nel bel mondo nuovo del lavoro. L’imprenditore di se stesso diventa, per così dire, la “pattumiera” dei problemi insoluti di tutte le istituzioni. E deve trasformare a sua volta la pattumiera, questo garbage can a cui è stasione to ridotto, in un processo creativo di se stesso.
E tuttavia l’“individualizzazione”, intesa in senso sociologico, è ben più di questo: è “individualismo istituzionalizzato”. Non si tratta soltanto di un’ideologia sociale o di una forma di percezione del singolo, ma di istituzioni centrali della società moderna, come ad esempio i diritti civili, politici e sociali fondamentali, che hanno tutti per destinatario l’individuo. Nasce così una generazione global, interconnessa in una rete transnazionale e avviata a sperimentare come l’individualismo e la morale sociale possano tornare ad accordarsi tra loro e come la libera volontà e l’individualità si possano conciliare con il mettersi a disposizione degli altri.
Molti ragazzi non sono più disposti a essere soldati che eseguono le direttive gerarchiche delle organizzazioni assistenziali o a dare, o meglio a consegnare il loro voto come soldati di partito che devono soltanto fare numero. Al contrario: le istituzioni - sindacati, partiti politici, chiese - stanno diventando cavalieri senza cavalli. La ribellione e la critica contro il capitalismo che si stanno diffondendo nel mondo nascono da entrambi questi fattori e dalla loro collisione:l’individualizzazione dei diritti fondamentali e la mercatizzazione dell’Io, conseguenza di regole economiche cristalline.
Al più tardi a partire dalla fusione del nocciolo del capitalismo finanziario il messaggio con il quale l’ideologia neoliberale aveva conquistato il mondo dopo il crollo del comunismo è andato in pezzi. I profeti del mercato non predicavano semplicemente l’economia di mercato, ma promettevano il socialismo migliore. Questa visione così ambiziosa dell’ego-capitalismo sopravvive soltanto nei circoli degli incrollabili fondamentalisti del mercato. E anche qui non è più così monolitica, come dimostrano i recenti contrasti tra i repubblicani negli Usa, alcuni dei quali si stanno convertendo a una regolazione statale dei mercati finanziari.
Il rischio sempre più palpabile del crollo ha anche ridestato il sogno di una nuova Europa. “Unione bancaria” è una delle parole di speranza. L’idea-guida si basa sull’assunto che la catastrofe anticipata comporti l’imperativo cosmopolitico: applica regole internazionali, cambia l’ordine esistente del politico! Ovunque sono all’opera rivoluzionari part-time che lavorano in questa direzione - mi limito a citare Mario Monti, impegnato nel far cambiare rotta alla Banca centrale europea.
Viviamo in un’epoca nella quale è accaduto qualcosa di inimmaginabile fino a poco tempo fa, ossia che i fondamenti del capitalismo globale allora “razionale” ma adesso “irrazionale” siano diventati sempre più politici, cioè problematici, cioè politicamente configurabili. Esistono versioni radicalmente differenti del futuro dell’Occidente, dove ormai è in corso quasi una guerra fredda interna: da un lato c’è chi vuole un capitalismo regolabile, che cerca il compromesso con i movimenti sociali ed è aperto alle questioni ambientali e dall’altro c’è chi punta sull’autoregolazione dell’ego-capitalismo globalizzato e su un’intensificazione degli interventi militari, nel tentativo di creare la coesione nazionale mediante schemi amico-nemico - questo è il nocciolo del conflitto.
I rischi globali sono una sorta di memoria collettiva forzata - del fatto che il potenziale di annientamento a cui siamo esposti reca in sé le nostre scelte e i nostri errori. Essi compenetrano ogni ambito della vita, ma nello stesso tempo dischiudono nuove opportunità per riorganizzare il mondo. Questo è il paradosso dell’incoraggiamento che viene dai rischi globali. Qui sta l’opzione europea: nel porre sistematicamente la questione dell’alternativa all’ego- capitalismo digitale. Ossia la questione di come siano possibili una maggiore libertà, una maggiore sicurezza sociale e una maggiore democrazia grazie a un’altra Europa.