Un nuovo femminismo che tuteli la vita e non imiti soltanto i modelli maschili: un faccia a faccia ieri a Roma
Donne e Chiesa, nuova alleanza?
Nella storia del cristianesimo i primi casi di donne leader sul piano culturale e spirituale.
Per superare le incomprensioni è fondamentale proporre modelli di vera ed efficace complementarietà
Da Roma *
La Chiesa va d’accordo con le donne, ma non con il femminismo, se per femminismo intendiamo il movimento che si è sviluppato a partire dagli anni Sessanta e ha incentrato la propria idea di liberazione soprattutto sull’uguaglianza con l’uomo e sulla libertà sessuale e riproduttiva. Ma se con questo femminismo «arrabbiato e dogmatico» non c’è facilità di comunicazione, è un fatto che «l’emancipazione femminile è stata proposta e realizzata con successo soltanto in paesi che, pur secolarizzati, si rifacevano alla tradizione cristiana».
A partire da questa constatazione si è snodata la riflessione della storica Lucetta Scaraffia e di Mary Ann Glendon, docente ad Harvard e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che si sono confrontate ieri a Roma nell’incontro su "Femminismo e Chiesa cattolica" organizzato a Palazzo Colonna dal Centro di Orientamento politico. Moderatore è stato Salvatore Rebecchini. Secondo Scaraffia, infatti, il rispetto delle donne è nel dna del cristianesimo, a cominciare dall’importanza delle donne nella vita e nell’insegnamento di Gesù, e nella concezione che ne discende a proposito del matrimonio e della famiglia, rivoluzionaria perché impone ai coniugi diritti e doveri e nello stesso tempo, grazie all’indissolubilità, protegge la donna.
Non un caso, insomma, se «a fronte di una storia politica dell’Occidente in cui la presenza delle donne si conta sulle dita di una mano, la storia della Chiesa è costellata dalla presenza di sante che svolgono ruoli di primaria importanza nella costruzione della tradizione cristiana», e se «proprio all’interno della vita religiosa femminile si siano manifestati i primi casi di donne leaders sul piano spirituale e intellettuale», o se siano in molti casi state le donne a creare opere assistenziali di fondamentale importanza.
Ma oggi il problema si pone in altri termini: tutto questo sembra non bastare come risposta alle domande che le donne pongono alla Chiesa. Così come non sembra bastar e quel femminismo cattolico del Novecento (incarnato da figure come Adelaide Coari, Cristina Giustiniani Bandini ed Armida Barelli) che condivise con il femminismo laico molte battaglie, come il diritto all’istruzione, alla partecipazione politica, l’ingresso nelle professioni, il voto, coniugando tutto questo, però, con il grande significato attribuito alla maternità, elemento fondante della femminilità. E che comunque riuscì a non imboccare quella strada che, secondo Mary Ann Glendon, ha portato il movimento femminista organizzato a «stringere un accordo faustiano con l’industria dell’aborto, con organizzazioni omosessuali e con gruppi che promuovono il controllo delle nascite, dando vita ad una vera e propria coalizione con forti interessi comuni».
Erano gli anni Ottanta, e vent’anni non sono passati invano, visto che, secondo la presidente dell’Accademia pontificia, se si interrogano le donne americane giovani, in quattro casi su cinque dicono di non essere femministe. È fatta la pace tra le donne e la Chiesa, dunque? Non proprio: anche se è vero che molti valori che questa ha sempre difeso oggi vengono guardati con interesse maggiore, alcuni punti restano problematici.
C’è, per esempio, una diffusa richiesta, da parte delle donne, di avere più spazi decisionali all’interno delle strutture ecclesiali. È vero infatti quanto sostiene Mary Ann Glendon, che cioè «oggi donne religiose e laiche svolgono nuovi ruoli all’interno della Chiesa, e da molto la leadership nel campo dell’istruzione e della sanità è stata affidata alle donne ed è anche vero che sono sempre più numerose le donne che siedono nei consigli direttivi delle parrocchie e delle diocesi». Ma è vero anche che lei viene da una Chiesa, quella di Boston, in cui «un terzo dei membri del consiglio direttivo del seminario è costituito da donne», cosa che non succede in molte altre realtà. E dunque è vero anche quello che ha notato Lucetta Scaraffia, che, cioè, «finché non ci saranno donne nei posti chiave della Santa Sede, il problema non sarà risolto».
Il problema è connesso a quello del sacerdozio femminile, al quale peraltro entrambe si sono dette contrarie. Era appunto il femminismo «arrabbiato e dogmatico» quello che voleva l’uguaglianza formale a tutti i costi, ma oggi, sostiene Scaraffia, la difesa della specificità femminile non può essere letta come una difesa reazionaria del passato, «ma piuttosto come evidente preoccupazione per un futuro che vuole tutti trasformati in individui "neutri" che dovrebbero orientarsi verso un modello di vita maschile».
Ma «il bene comune è davvero raggiunto attraverso politiche che promuovono una società unisex? Oppure esistono vantaggi in una società che lascia aperta la porta alla sperimentazione e alla diversità, che lascia spazio a uomini e donne, a laici e religiosi?», si chiede Glendon. Il problema, insomma, non è omologarsi, ma al contrario lasciare spazio a figure e ruoli diversi, «alcuni dei quali possono essere riservati agli uomini», magari poi facendo conoscere le "buone pratiche" e i frutti che nascono dalla collaborazione fra tante diversità.
Avvenire, 16.12.2006
Sull’argomento, nel sito e in rete, si cfr.
LA FAMIGLIA? MA QUALE FAMIGLIA?! QUELLA DI GESU’ O QUELLA DI EDIPO’?!
BASTA CON LA "MALA EDUCAZIONE"!!!
DONNE: IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA
I "DUE CHERUBINI" E L’AMORE DI D(UE)IO: L’ARCA DELL’ALLEANZA
IL PROGRAMMA DI KANT. LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: PARLIAMO DI "FEMMINICIDIO"
UOMINI E DONNE. SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II - W O ITALY !!! VIVA L’ITALIA !!! - RESTITUIRE L’ANELLO, L’ONORE E LA GLORIA A GIUSEPPE !!!
19 MARZO: LA FESTA
Oggi la liturgia ci ricorda il padre terreno di Gesù che i Vangeli descrivono come uomo giusto. L’attuale Pontefice coltiva da sempre una profonda devozione per il falegname di Nazareth sposo di Maria
L’anello del Papa, dono a san Giuseppe
Giusto un anno fa Giovanni Paolo II lo inviò alla chiesa della città natale di Wadowice che frequentava sin da bambino
di Luigi Geninazzi (Avvenire, 19.03.2005)
È una devozione particolare quella che lega Giovanni Paolo II a san Giuseppe, «il secondo Patrono del mio Battesimo», come ama spesso ricordare Karol Józef Wojtyla. Fin da bambino si recava spesso coi suoi genitori nella chiesa dei Carmelitani Scalzi «na górka», sulla collina che sorge nel centro della sua città natale di Wadowice.
L’immagine di «San Giuseppe con il Bambino in braccio» sta sopra l’altare maggiore. Fedeli ad una tradizione secolare gli abitanti di Wadowice si preparano alla festa del 19 marzo con una grande novena di preghiera. Per nove mercoledì consecutivi i fedeli si radunano nella chiesa dei Carmelitani scalzi chiedendo una grazia particolare a san Giuseppe.
Il rito si è ripetuto anche quest’anno e «in cima a tutte le suppliche c’era quella per la salute del Papa», tiene a sottolineare padre Silvano Zielinski, priore del convento e custode del Santuario giuseppino. Nei giorni scorsi le tv di tutto il mondo hanno diffuso l’immagine dei compaesani di Wojtyla giunti al Policlinico Gemelli di Roma per sostenere coi loro canti e le loro preghiere il Papa anziano e malato. E prima di tornarsene in Polonia gli hanno lasciato in dono il libro contenente le omelie pronunciate durante la novena del 2004.
Proprio un anno fa Giovanni Paolo II volle donare il suo anello pontificio al santuario di Wadowice. Con una solenne cerimonia, presieduta dall’arcivescovo di Cracovia. cardinale Franciszek Macharski, il 19 marzo del 2004 è avvenuta la decorazione del quadro di san Giuseppe, alla cui mano destra è stato imposto «l’anello del pescatore».
Un regalo che è stato accolto con grande gioia e commozione dagli abitanti di Wadowice che hanno visto in quel gesto la testimonianza di un vincolo spirituale profondo tra Wojtyla e la sua città natale. «Che questo anello ricordi che il Capo dell’Alma famiglia è l’uomo giusto di Nazareth che rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio» ha scritto il Papa nel messaggio inviato per l’occasione alla città d i Wadowice.
In questo modo ha voluto ispirarsi ad un gesto del suo predecessore Giovanni XXIII, il quale nell’anno d’inaugurazione del Concilio Vaticano II aveva offerto il suo anello papale al quadro di san Giuseppe venerato nella basilica della città polacca di Kalisz.
«Con quel dono è come se il Santo Padre allungasse il suo braccio dalla collina del Vaticano a quella di Wadowice per indicare in san Giuseppe il modello perfetto della fedeltà a Cristo», commenta padre Zielinski. È il segno di un legame profondo su cui più volte è tornato a riflettere Giovanni Paolo II.
Parlando della chiesa di San Giuseppe presso il convento dei Carmelitani scalzi ebbe a dire: «Come nella mia giovinezza mi reco in spirito in questo luogo... dove io stesso ricevetti numerose grazie di cui oggi esprimo riconoscenza al Signore». Era il giugno del 1999 e Giovanni Paolo II tornava nella sua città natale abbandonandosi ad uno struggente amarcord, una lunga serie di aneddoti sul filo dei ricordi.
Il giovane Wojtyla era tra i frequentatori più assidui del convento fondato da san Raffaele Kalinowski, un ufficiale polacco dell’esercito zarista che aiutò i suoi connazionali durante l’insurrezione del 1863, venne esiliato in Siberia ed una volta liberato entrò dell’Ordine dei Carmelitani. Fu così che fin da ragazzo Karol Jozef Wojtyla venne in contatto con la tradizione del Carmelo, «una scuola di spiritualità», la definisce nel messaggio che accompagna la consegna dell’anello pontificio. Una scuola che sull’esempio di Madre Teresa di Gesù gli insegnò a «contemplare in san Giuseppe il modello perfetto dell’intimità con Gesù e con Maria, patrono della preghiera interiore e dell’infaticabile servizio ai fratelli».
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE E MARIA - DIO E’ AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 GV., 4.8): LA NUOVA ALLEANZA E LA NUOVA LEGGE. COME IN CIELO COSI’ IN TERRA: RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL PESCATORE - come già Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - ... E L’ONORE E LA GLORIA DOVUTA. PACEM IN TERRIS ...
PROBLEMI DI ESTETICA (E NON SOLO). I VOLTI DELLA GRAZIA. Un saggio di Raffaele Milani
FLS
“Senza indugio”: le donne e la parola
di Laura Destro (SettimanaNews, 10 febbraio 2025)
Il titolo del libro, "Senza indugio", e il sottotitolo "Con voce di donna. Omelie per l’anno C" sembrano il segno di un cambiamento dei tempi riguardo alla presenza e al ruolo delle donne nella Chiesa.
Anche la data scelta per la presentazione del libro, il 17 gennaio, giorno natale della beata Osanna Andreasi, laica domenicana, e la cornice suggestiva della sua casa, a Mantova, evidenziano un cambio di paradigma. Tutta al femminile è stata l’organizzazione dell’evento, curata dal gruppo diocesano «Donne e Chiesa», che dal 2021 si impegna nella valorizzazione di donne − come la beata Osanna − che hanno segnato il cammino della Chiesa nei secoli e oggi.
Frutto della collaborazione del Coordinamento Teologhe Italiane - associazione che promuove studi di genere in ambito teologico, biblico, patristico, storico - è il libro in questione. Lo presentano la teologa Cristina Simonelli, storica esponente del Coordinamento, e il biblista don Lorenzo Rossi.
Prezioso il contributo delle donne “nell’ascolto e nella narrazione della Parola” - dice il vescovo Marco Busca nella sua introduzione. “La Parola ci supera”; per questo c’è bisogno di una molteplice narrazione e “ognuno, [in quanto] parte di questa comunicazione, la restituisce secondo i propri carismi”.
“Gesù è nato da donna” dice Paolo in Galati, 4,4. Ed è nella casa di Nazareth che Gesù apprende il suo vocabolario, frutto sì della potenza della parola del Padre ma anche di quella di un uomo e di una donna. Di Maria che, “tessitura di carne e di Parola”, è l’uditrice per antonomasia.
Nel mezzo di una festa di nozze (Gv 2,1-11), una figura di donna “si distacca” all’improvviso; è la madre di Gesù, che si accorge che non c’è più vino. Anche noi - scrive ancora mons. Busca - abbiamo bisogno, nella interpretazione delle Sacre Scritture, di una parola “forte”, come il vino buono delle giare. La “sapienza” delle dieci donne autrici delle Tracce per le Omelie, conferisce, con il suo “sapore”, nuova forza alla Parola.
La liturgia e la Parola
Per un credente è fondamentale essere coscienti della centralità della Liturgia e della Parola e a tale scopo fruire di tutte le voci e sensibilità che all’interno di una comunità possono contribuire a estendere all’ Assemblea la portata dell’impianto liturgico e la potenza della Scrittura.
Il termine Tracce, riportato nel sottotitolo, evidenzia il ruolo corale della comunità nello scavo dei passi tratti dal Vangelo di Luca, mentre il titolo descrive l’andare “senza indugio” di Maria da Elisabetta, dei pastori all’annuncio, dei discepoli di Emmaus di nuovo a Gerusalemme.
Condividere degli “orizzonti” di significato è stato il presupposto da cui le studiose del Coordinamento hanno preso le mosse per la stesura delle loro Tracce.
La sensibilità femminile attraversa tutto il libro; tuttavia, da tempo, appartiene all’ordinarietà della procedura, dice Cristina Simonelli - e la sua esperienza di vita in parrocchia lo conferma - costruire le omelie comunitariamente. Anche per don Lorenzo Rossi le riflessioni domenicali sono il frutto di una condivisione; cosa che permette di ridimensionare il protagonismo del presbitero all’ambone e di far emergere il ruolo che la comunità (donne e uomini) svolge nella meditazione della Parola. Omelia è “risposta ecclesiale alla Parola” non “spiegazione”. Ciò che il presbitero offre è più della sua parola, in quanto espressione della comunità.
“Spezzare la Parola” comporta non solo condivisione di orizzonti - dice la teologa Simonelli - ma formazione. Per rimanere aderenti ai testi ed evitare improvvisazioni e forzature funzionali al momento, è necessaria una solida preparazione. Se è importante la voce femminile nell’interpretazione della Parola, la Chiesa deve investire sulla formazione di figure a cui affidare docenze a livello universitario e seminari, come avviene per i maschi.
Don Lorenzo Rossi, rettore del Seminario diocesano, vicedirettore dell’ISSR “San Francesco” di Mantova e docente presso la Facoltà teologica di Milano, dice che la maggior parte degli utenti dell’ISSR mantovano è donna.
“Senza indugio”: la voce delle donne
Le Tracce, pur essendo un contributo individuale, non riportano il nome dell’autrice, facendo del libro il frutto di una coralità, segno distintivo della femminilità.
Il Vangelo di Luca, proclamato nell’anno C, ha spesso come protagoniste le donne, “non perché Luca sia da considerare un femminista ante litteram” - afferma don Lorenzo Rossi − ma per il suo universalismo[1]. La salvezza è per tutti[2], anche per le donne, in quanto “concordi e perseveranti nella preghiera”[3].
Alcune riflessioni presenti nelle Tracce danno conto del diverso rapporto delle donne con Gesù e della particolare sensibilità delle autrici nel rilevarlo.
Maria è prima di tutto madre e la maternità nel passo della nascita[4] si esplica in tutta la sua pienezza. Gli angeli annunciano ai pastori “un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”, ma il loro sguardo coglie solo la seconda parte dell’annuncio, cancellando il gesto della fasciatura e rendendo “invisibile” chi quel gesto l’ha compiuto e chi quel “corpo l’ha lavato e rivestito” prima di adagiarlo nella mangiatoia.
Maria - “teologa silenziosa” - coglie nel silenzio questa parzialità “custodendo e meditando” in profondità “il senso delle cose”.[5]
Maria è anche colei che, rifiutando la logica di una mortifera “ferialità” - così la teologa definisce una quotidianità sbiadita - e sentendo il “desiderio profondo della felicità”, in modo “impertinente”, davanti ad un consesso di uomini, sollecita il figlio con “Non hanno più vino”.
Non possiamo solo “autoconservarci ... esaurendo ... la nostra vitalità” - è il commento - ma vivere con generosità, e fare in modo che anche gli sforzi apparentemente inutili - acqua al posto del vino - siano compiuti alla “presenza vivificante di Dio”[6].
“Rallegrati, o piena di grazia” è questo il saluto dell’angelo a Maria narrato nel Vangelo di Luca e proclamato nel giorno dell’Immacolata. Maria è la “graziosa”, la “gratificata” da Dio; il suo sì alla chiamata non la asservisce ma, serva rinnovata, la fa pronta a corrispondere al disegno divino e, a “collaborare al mistero dell’incarnazione”. In questa capacità di “ricevere e trafficare il dono ricevuto” è insita una santità “costitutiva e originaria”, modello di quella santità a cui Dio ci chiama[7].
“Discepole” vengono definite, a vario titolo, altre figure femminili. È a Maria di Magdala che Gesù risorto si rivela e, affidandole l’incarico di divulgare il Kerygma, da discepola la trasforma in “apostola” di una nuova sequela, quella della “vite e i tralci”[8]. In questa veste, da lei inizia una comunità fondata sulla fede nella Resurrezione, capace di ricevere lo Spirito Santo come suo dono.
Anche la peccatrice, entrata nella casa di Simone il fariseo durante il banchetto fra i cui ospiti c’è Gesù, ha la postura della discepola: “dietro” e “ai suoi piedi”, che ella bagna con le lacrime del pentimento delle sue colpe e che asciuga con i suoi capelli. Ma, mentre Simone, pensandosi “un debitore- base”,” non peggio degli altri”, sta nel banchetto al fianco di Gesù, ritenendo “legittimo” il perdono ricevuto, la postura della donna è “esagerata”, “eclatante”, come è stata la sua vita di peccatrice, che ora, riconoscente, sente che le è stata “condonata”[9].
Nella stessa posizione - “ai piedi di Gesù” - è Maria di Betania.
Il suo atteggiamento non rispetta il “protocollo dell’accoglienza” previsto per le donne e, a differenza della sorella Marta, tutta indaffarata, fa “la sola cosa buona di cui c’è bisogno”. La “scelta, l’ascolto, la messa in discussione della propria identità, la consapevolezza” è tutto questo la parte buona che non le potrà essere tolta, dice Gesù.[10]
A questo particolare sguardo sulle donne e al modo fiero con cui le teologhe ce l’hanno consegnato va la nostra gratitudine.
[1] At. Ap.
[2] Gal 3, 28, “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo”
[3] At. 1, 12-14
[4] Lc, 2,16-21
[5] Coordinamento Teologhe Italiane (a cura di), Senza indugio − Con voce di donne. Omelie per l’anno C; EDB ed.; Bologna, 2024, 37-39
[6] Ivi, 125-127
[7] Ivi, 279-281
[8] Ivi, 82-83
[9] Ivi, 161-163
[10] Ivi, 182-183
"Senza indugio. Con voce di donna. Omelie per l’anno C" (EDB 2024).
Ho conosciuto un ragazzo della comunità Bahá’í, appassionato di san Paolo, che durante una conversazione ha usato questa frase: “sono affamato di narratori di Dio”. Dio si lascia raccontare. Celebra in noi e con noi una liturgia di parola e di parole in cui il lettore - che si fa interprete e poi narratore - diventa parte del messaggio, con la sua carne, la sua cultura, la sua età, il suo genere, la sua sensibilità spirituale. Abbiamo bisogno di convergenze e divergenze di risonanze e narrazioni per “balbettare” la Parola che culmina in una liturgia di Silenzio, grembo puro di accoglienza e adorazione. Il mistero che supera tutti ci “ammutolisce”, pur suscitando una continua espressività multiforme di cui abbiamo bisogno.
C’è bisogno di una narrazione di generazioni: risonanze di bambini e di anziani, intuizioni folgoranti dei piccoli e parole misurate, piene di anni di lettura, di sapienti vegliarde e di saggi anziani. La profezia sembra prediligere le labbra degli infanti e dei vecchi: “Dalla bocca dei bambini e dei lattanti hai tratto una forza, a causa dei tuoi nemici, per ridurre al silenzio l’avversario e il vendicatore” (Salmo 8,3); “Uno degli anziani mi disse: Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli” (Ap 5,1-14).
Abbiamo bisogno di narrazioni di genere: “non c’è più né uomo né donna”, si legge nella lettera ai Galati che pare relativizzare le “differenze” o, meglio, finalizzarle all’essere una cosa sola in Cristo (cap. 3,28); ma di lì a poche righe, presentando l’identità di Gesù, Paolo afferma che “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge” (Gal 4,4). Una sottolineatura necessaria non solo ad attestare la storicità dell’incarnazione. L’espressione, infatti, è densa di contenuto antropologico e religioso. Entrambi i significati riassunti nelle due parole “donna” e “legge”.
La grande uditrice della Torà è Maria di Nazareth che ha intessuto con la matassa del suo sangue rosso la carne del Logos divino, come ci è dato di ascoltare negli inni della tradizione siro-palestinese e di vedere nelle icone e negli antichi mosaici. Tessitura di carne e di parole poiché il figlio di Dio è cresciuto in età e sapienza nella casa di Nazareth apprendendo il vocabolario della madre e del padre. Le “parole di grazia” che usciranno dalla bocca del figlio di Giuseppe (cfr. Lc 4,22) non sono solo le cose udite dal Padre che il Figlio ha fatto conoscere a noi (cfr. Gv 15,15), sono anche le parole della Torà udite sulle labbra di un padre e una madre, due pii israeliti, che hanno contribuito a dare parole alla Parola perché un giorno la Parola potesse arrivare alle orecchie e al cuore di quel popolo e della sua cultura. Le loro parole “sante”, risonanze di salmi e profezie, come pure le parole dei lavori quotidiani e il dialetto degli affetti che risuonavano nella casa di Nazareth, hanno contribuito a meritare a Gesù quel complimento ammirato: “Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo!»” (Gv 7,46). Gesù è un Rabbi che insegna “come uno che ha autorità” (Mc 1,22), autorità che gli viene dall’alto in quanto è il Logos che “tutto sostiene con la sua parola potente” (Eb 1,3), ma anche insegnamento efficace che gli deriva dall’autorità della parola umana appresa da Maria e Giuseppe che, con il loro parlare genitoriale, hanno espresso la forma autentica del maschile e del femminile che si è impressa nell’umanità del Figlio dell’uomo ed è risuonata nei suoi approcci salvifici alle donne e alle coppie.
La liturgia della Chiesa celebra tra pochi giorni la seconda domenica del tempo ordinario che proclama la pagina evangelica che Giovanni dedica al primo dei segni compiuti da Gesù a Cana di Galilea (Gv 2,1-11).
Trovo un elogio mariano nel commento proposto dalla professoressa Donata Horak che condivido: “Ma ecco, tra le tante persone invitate alla festa si distacca una figura di donna, una vera credente, l’unica coscienza risvegliata che si accorge che il vino si sta esaurendo: sente che la festa rischia di scivolare nella ferialità delle abitudini e delle consuetudini sociali, che perderà il sapore, l’ebbrezza, il calore” (p. 126). La Chiesa è ancora e sempre la sala nuziale pensata dal Padre per festeggiare con abbondanza di invitati e di vino le nozze del suo Figlio con l’umanità. Non mancano gli assetati e affamati di narrazioni divine. Il rischio anche per noi credenti non è la mancanza del vino buonissimo della Parola ma che si annacqui in narrazioni insipide, incolori, anestetiche, anemiche... Ecco perché abbiamo bisogno di dare voce alla Parola sprigionando tutto il potenziale espressivo di risonanza e di racconto di cui la Chiesa è capace, prestando attenzione anche ai lettori e commentatori di “oltre confine”. Ci sono esegeti “clandestini” e “affabulatori” appassionati della Parola sparsi ovunque. Perché la Bibbia non è un testo “imprigionato”, anzi per sua natura è un tesoro di verità “rischiose” e non facilmente addomesticabili specie quando la Parola è nelle mani e nella lettura del popolo. Grazie di questo strumento di parole a servizio della narrazione della Parola con voce di donna, frutto della gestazione paziente del “Verbo” nel sapere e nel sapore di teologhe e bibliste delle chiese d’Italia, nostre sorelle nello Spirito.
Grazie alla professoressa Cristina Simonelli che ha accolto l’invito a presentare alla comunità mantovana questo testo curato dal coordinamento delle teologhe italiane. La saluto con amicizia e gratitudine per essere la portavoce delle dieci voci femminili autrici del testo. Con lei salutiamo anche don Lorenzo Rossi, biblista della nostra diocesi, esperto della letteratura lucana.
L’evangelista Luca riserva un’attenzione delicata e obiettiva alle donne in rapporto a Gesù. Esse lo seguono e lo servono con i loro beni (Lc 8,2-3), lo seguono fin dalla Galilea sino alla punta più alta del Calvario dove guardano da lontano lo spettacolo della croce (Lc 23,48), per avvicinarsi poi al sepolcro e osservare dove è stato posto il corpo di Gesù così da tornare finalmente il giorno dopo con aromi e oli profumati per un ultimo gesto di omaggio. Ma il giorno dopo non è la naturale successione del precedente. È un giorno nuovo. Il primo giorno della settimana, aurora della nuova creazione che capovolge paradigmi e criteri della nostra condizione naturale, una vera rifusione del maschile e del femminile, nella nascita della Donna-Chiesa Sposa dell’Agnello. Anche le donne sono impreparate e inadeguate alla risurrezione, impaurite e incredule, con il volto chino a terra, devono accogliere l’annuncio di due uomini che vedono presentarsi a loro in abito sfolgorante (cfr. Lc 24,1-10), due rappresentanti di un “altro” mondo, dove non c’è più né maschio né femmina perché tutto ciò che è creato è trasfigurato nella risurrezione. Queste donne, a cui l’evangelista riconosce un nome proprio (Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo) insieme alle altre che erano con loro, sono provocate dall’annuncio pasquale a diventare “teologhe” in quanto “si domandavano che senso avesse tutto questo”, in ordine al loro ri-diventare credenti alla sequela del Maestro amato che ora però chiede il salto di livello della fede nella risurrezione: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”. Le donne corrono a raccontare queste cose agli apostoli. Costituite “apostole degli apostoli”, per usare l’espressione felice della liturgia bizantina di Pasqua, hanno il compito non scontato di annunciare il kerigma alle “colonne della chiesa”, pure loro spiazzati e increduli davanti a un annuncio che alle orecchie della carne pare “un vaneggiamento” e sortisce comunque il buon esito di far correre Pietro verso il sepolcro insieme a Giovanni che “vide e credette” (cfr. Gv 20,1-9).
L’originalità - anche di fronte alla Parola - non sta nell’essere donne piuttosto che uomini, ma nell’essere umili discepoli “giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti”; costoro “non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20,35-36).
Un femminile e un maschile rigenerati dalla Parola possono riprendere in mano la regia del mondo per rigenerarlo nella novità escatologica del Regno. Senza indugio!
TEATRO FILOSOFIA E METASTORIA: EDUCAZIONE "BIBLICA", "INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI" (S. FREUD, 1899), "COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (S. #FREUD, 1937), E "CHÂTIMENT DE L’ORGUEIL" (#BAUDELAIRE,1861).
"FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO" (HEGEL) ED "ECCE HOMO" (NIETZSCHE). SE SI CONSIDERA CHE, dalla cosiddetta nascita di Cristo, non solo al tempo di Elisabetta I d’Inghilterra e di #Shakespeare, "Un modo per vedere la storia di Natale è che Giuseppe fu tradito dallo Spirito Santo; sua moglie che gli diede un figlio bastardo del cielo" ("One way to view the #Christmas story is that Joseph was cuckolded by the Holy Spirit; his wife who bore him a bastard son of heaven", cfr. Paul Adrian Fried, "First Sunday After Christmas - Jesus of King David’s Bloodline (Series, Part 5.b.)", cit.), ma anche OGGI, nell’attuale presente storico, fine-anno 2024 secondo il #calendario gregoriano (Gregorio XIII, 1582), si "tramanda" la stessa "storia", vuol dire che non si è ancora ben compresa tutta l’importanza della "silenziosa" costante presenza storica e "legale" (di "Principio", secondo la #Legge, secondo il "Logos") della figura di "Giuseppe" accanto alla figura di "Maria" e della stessa lezione del "#presepe" di #Francesco di #Assisi (Greccio, 1223).
STORIA E LETTERATURA E STORIOGRAFIA: "#DIVINA COMMEDIA" E #COSTITUZIONE DEI "#DUE SOLI" (#DANTE ALIGHIERI) . A mio parere, c’è da pensare che, nonostante le "dicerie sacre" di un Gesù, nato da un altro "Giuseppe" (e secondo una concezione cosmoteandrica "biblica", "platonica" e "plutonica" della donna-#femmina come "Terra - #Vaso", che deve nutrire e far crescere il #seme del "supremo" uomo-#maschio), non si sia ben meditato sul fatto che "la punizione dell’#orgoglio" è già stata evangelicamente ben "scritta" (Baudelaire, "I Fiori del Male", XVI) e, "qui e ora", l’hegeliano "Spirito Santo" di #Mammona (come da enciclica del 2006, "Deus #caritas est") deve solo inginocchiarsi dinanzi a "Giuseppe" e alla stessa "Maria" e chiedere ad entrambi "perdono" e "benedizione". #GiselePelicot insegna...
#Buon2025
STORIA #FILOSOFIA #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA: DANTE ALIGHIERI.
Una nota a margine della presentazione sull’Editio Princeps della Commedia:
FILOLOGIA E #CRITICA. PARTIRE DALLA #DIVINA COMMEDIA DEL 1472, E’ PROPRIO UN BRILLANTE #SEGNAVIA DI RIFERIMENTO CHE SI "AGGANCIA" ALL’OPERA DI #VICTORHUGO, "NOTRE-DAME DE PARIS 1482" (PUBBLICATA NEL 1831) E ALLA RIAPERTURA DELLA CATTEDRALE DI NOTRE-DAME, L’#8DICEMBRE 2024, ED E’ ANCHE [UN GRANDE AUGURIO A TUTTA L’#EUROPA, AFFINCHE’ SIA CAPACE DI USCIRE DAL #LETARGO (Par. XXXIII, 94) E DALLA "#AIUOLA CHE CI FA TANTO FEROCI" (Par. XXII, 151) E SAPPIA RITROVARE LA #DIRITTA VIA DELLA ##PACE E DEL #RISPETTO CON TUTTE LE GENTI DEL #PIANETATERRA.
NOTE:
DOC.:
FISICA #METAFISICA E #ANTROPOLOGIA:
CON #NEWTON E #KANT, OLTRE LA #LOGICA DEL "GRANDE #ARCHITETTO" CON UN SOLO "OCCHIO",
PER LA RIPRESA DI UN CAMMINO CON GLI OCCHI APERTI E CON #DANTEALIGHIERI (CON I "#DUESOLI").
"#ADAMO ED #EVA". Se è vero, come si scrive, «come ammoniva #FrancoBasaglia che "visto da vicino nessuno è normale"» (cfr. Maurizio Crippa, "L’ultima costola dei padri", "Il Foglio", 28 novembre 2023), forse, è altrettanto da accogliere e condividere la segnatura e la sottolineatura di #FrancaOngaro #Basaglia (1978) sul fatto che "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo".
"#GIUSEPPE E #MARIA". Quale #presepe, per #Natale prossimo (#25dicembre2024), si prepara: quello di "#Adamo ed Eva", o, di "#Giuseppe e Maria"?!
#DIVINACOMMEDIA. Sicuramente a #DanteAlighieri, come a #Maria, #Beatrice e #Lucia, piaceva il #presepe con i "due Soli" di #FrancescodiAssisi (1223), non il "presepe" di #Costantino il Grande (#Nicea 325-2025): per #Dante, deposta la "volontà di potenza" del "polifemico" #Ulisse, è l’#amore "che move il sole e le altre stelle".
Umanesimo. Erasmo da Rotterdam e il matrimonio: amore «bello e santo»
Disponibili per la prima volta in italiano tutte le opere del filosofo sul tema. Pagine ricche di acume che rivelano intuizioni e aperture per l’epoca decisamente controcorrente
di Matteo Al Kalak (Avvenire, mercoledì 2 ottobre 2024)
La Costituzione italiana, all’articolo 29, stabilisce che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Sono ricorrenti i dibattiti che, ancora oggi, animano le cronache sul valore di questo istituto, la definizione stessa di famiglia, la necessità di incrementare la natalità, e così via. Insomma, piaccia o non piaccia, la famiglia è una piccola società, un luogo in cui la collettività riconosce una parte fondamentale del proprio corredo. Secondo i padri costituenti, questa “cellula” della Repubblica era fondata sul matrimonio. È l’unione tra due individui che genera qualcosa di nuovo e speciale, in grado di perpetuare e sostanziare la società stessa. Il matrimonio è, dunque, un punto di partenza, un nesso tra persone che, più di altri, sollecita la cura del legislatore.
A scandagliare le profondità di questa istituzione che, in buona sostanza struttura le società umane sono stati in molti. Tra di essi, figura anche uno dei più celebri umanisti del XVI secolo: Erasmo da Rotterdam. Per la prima volta, il pubblico italiano ha l’opportunità di accedere, in modo sistematico e organizzato, ai suoi scritti sul matrimonio in una traduzione che consente di toccare con mano l’acume - e come stupirsi? - con cui il grande intellettuale affrontò questo nodo cruciale ( Scritti sul matrimonio, Aragno, pagine 752, euro 50,00).
Una ricca introduzione della storica Lucia Felici consente di comprendere l’originale posizione di Erasmo nel panorama di una cristianità sempre più scossa e divisa dalle contrapposizioni religiose. Come spiega la studiosa, il progetto di Erasmo non scardinava la tradizionale visione patriarcale della famiglia, né andava a rivoluzionare il consueto impianto delle virtù richieste ai due coniugi (va dunque rifuggita ogni tentazione di un Erasmo proto-femminista). Ciò nonostante, la condizione femminile all’interno del matrimonio ne esce rafforzata e, secondo Felici, la sensibilità erasmiana presenta vari punti di contatto con quanto accadeva nel mondo riformato.
La raccolta include due testi fondamentali nella produzione di Erasmo: l’Encomium matrimonii e la Christiani matrimonii institutio. Due opere che bene riassumono la concezione dell’umanista olandese. La prima, breve e pungente, rivelava la sua potenza programmatica presentando il matrimonio come lo stato migliore e più santo in cui l’uomo potesse vivere, poiché Dio a ciò lo aveva ordinato sin dalla creazione. Il matrimonio era la Chiesa domestica cui il cristiano doveva aspirare, in una polemica nemmeno troppo velata con un clero i cui abusi avevano alimentato la contestazione del mondo protestante. Erasmo non si rifugiava in un quadro idilliaco: esplicitava i problemi che potevano derivare dalla vita di coppia, ma tracciava anche possibili soluzioni. L’Institutio, composta più tardi, riprese il tema in modo serio e “accademico”, approfittando per replicare alle critiche indirizzate all’Encomium. Il trattato toccava tre punti essenziali: la centralità del matrimonio; i metodi per consolidarlo; l’educazione dei figli. Se il ruolo del marito restava cruciale e, per così, si manteneva come pilastro dell’architettura matrimoniale, Erasmo rigettava gli atteggiamenti con cui la legge consentiva di punire l’adulterio e, più in generale, ogni legittimazione della violenza tra i coniugi. Può sembrare una concessione minima, ma, per i tempi, rappresenta un avanzamento deciso e controcorrente.
Ma è a Erasmo - più che a un moderno lettore - che va forse lasciata l’ultima parola. «Non tollero - scrive Erasmo - chi mi dice che quel desiderio amoroso [del matrimonio] è turpe e che esso non viene dalla natura ma dal peccato. Che cosa potrebbe esserci di più lontano dal vero. Noi rendiamo turpe con l’immaginazione ciò che per sua stessa natura è bello e santo». L’amore del matrimonio, vissuto alla luce del Vangelo, è “bello e santo” (quasi un’anticipazione dell’Amoris laetitia; cfr. §62): dirlo cinque secoli fa era davvero rivoluzionario.
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E... COSMOTEANDRIA.
Il caso.
Le parole del Papa sulle donne (e l’insolita nota dell’Università di Lovanio)
di Gianni Cardinale, inviato a Bruxelles (Avvenire, sabato 28 settembre 2024)
Papa Francesco incontra gli studenti e i docenti dell’Université Catholique di Louvain-la Neuve, la sezione francofona dell’antica Lovanio che nel 1968 dovette lasciare la casa madre in seguito alle proteste dei nazionalisti fiamminghi che ne reclamavano la soppressione. Ma di questa vicenda nessuno ha fatto cenno sia nella visita a Leuven, né a Louvain. Gli argomenti sono altri. Con una sorprendente contestazione dell’ateneo alle parole del Pontefice. Ma andiamo per ordine.
Il Papa viene accolto dal saluto della rettrice Francoise Smets. E poi gli viene letta una lettera di studenti e professori che prendendo spunto dalla Laudato si’ afferma in modo netto che «l’appello allo sviluppo integrale ci sembra incompatibile con le posizioni sull’omosessualità e sul posto delle donne nella Chiesa cattolica».
Il Papa non risponde direttamente a queste osservazioni, ma nel suo discorso oltre ad affrontare il tema del cristianesimo e l’ecologia («non siamo padroni, siamo ospiti e pellegrini sulla terra») affronta anche tale questione.
«Pesano qui - spiega - violenze e ingiustizie, insieme a pregiudizi ideologici». Perciò «bisogna ritrovare il punto di partenza: chi è la donna e chi è la Chiesa». La Chiesa «è il popolo di Dio, non un’azienda multinazionale». La donna, «nel popolo di Dio, è figlia, sorella, madre. Come io sono figlio, fratello, padre».
Per Francesco «ciò che è caratteristico della donna, ciò che è femminile, non viene sancito dal consenso o dalle ideologie». Ma «la dignità è assicurata da una legge originaria, non scritta sulla carta, ma nella carne». La dignità è «un bene inestimabile, una qualità originaria, che nessuna legge umana può dare o togliere».
A braccio ricorda che «la Chiesa è donna», e poi aggiunge: «La donna è più importante dell’uomo ma è brutto quando vuole fare l’uomo». E infine, sempre a braccio, invita a «non entrare nelle lotte con delle dicotomie ideologiche».
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: CHI INSEGNA AI MAESTRI E ALLE MAESTRE A INSEGNARE?!
L’ALGORITMO DELLA TRAGEDIA (SOCRATE-PLATONE-PAOLO DI TARSO-HEGEL) E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA POSTA DA KANT ("LOGICA", 1800). L’autonomia dello apprendimento e l’#apprendimento dell’autonomia, concepito l’una e l’altro, secondo le indicazioni dell’#illuminismo kantiano (1784), a mio parere, riposa sul #coraggio ("aude") del servirsi della propria intelligenza, sulla propria #capacità e sulla propria #volontà di "mangiare" e "bere" ("#sàpere") da parte dell’alunno e dell’alunna, e non sulla #maieutica di un Socrate che gioca a "sapere di non sapere" con l’alunno-schiavo ("#Menone") a dargli lezioni sul "non sapere di sapere"!
COME NASCONO I BAMBINI (LE IDEE, E I SOGNI): "SAPERE AUDE!" Il "problema Socrate", posto da #Nietzsche e nonostante Nietzsche, è del tutto ignorato e la sollecitazione di Michel Foucault a ripensare il rapporto "illuminismo e critica" (1984) è ancora fuori dall’agenda dei lavori del mondo della "platonica" Accademia e dell’"aristotelico" Liceo: che il trecentesimo anniversario della nascita di Kant (1724-2024) possa essere una buona occasione per cominciare!
STORIA ARTE E LETTERATURA: IL CULTO DI MARIA MADDALENA, IL RICORDO DI UN’OPERA DEL POETA E SCRITTORE DEL REGNO DI NAPOLI, PAOLO SILVIO DI CONTURSI (SALERNO), E IL RESTAURO E IL RITORNO DEL DIPINTO DI ORAZIO #GENTILESCHI, "LA MADDALENA #PENITENTE", A #FABRIANO.
A) È tornata a Fabriano la Maddalena penitente di Orazio Gentileschi. Dopo 9 mesi di restauro, il dipinto raffigurante la santa patrona dei cartai è stata ricollocata nell’oratorio a lei intitolato (Marta Paraventi, "Il Giornale dell’Arte", 22 luglio 2024),
B) Pia Università dei Cartai: "[...] Il culto di Santa Maria Maddalena. La devozione dei cartai fabrianesi nei confronti della loro patrona Santa Maria Maddalena si rinnova inesauribile da oltre quattro secoli, più precisamente dal 22 luglio 1599 quando, per sua intercessione miracolosa, un operaio esce illeso da una pressa sotto alla quale è schiacciato. Il prodigio è illustrato in un ex voto conservato oggi nella sacrestia della chiesa omonima dedicata alla Santa. [...] Il culto verso la Santa è però ancora più antico. Lo testimonia un passo delle Riformanze comunali del 1453: la festa del 22 luglio è considerata obbligatoria e viene multato chiunque sia sorpreso a lavorare. È sconosciuta la ragione per cui i fabbricanti di carta fabrianesi scelgono Maria Maddalena come patrona, ma la causa può risiedere nella vicinanza tra la piccola chiesa e i primi mulini dedicati alla fabbricazione della carta, sorti lungo le sponde del fiume Giano. [...]" (cit.).
C) StoriaeLetteratura: "La Madalena penitente", un "poema eroico" di "Paolo Silvio (Napoli, 1599): "Paolo Silvio è un canonico lateranense nato a Melfi ["nacque a Contursi": cfr. Camillio Miniero Ricci, 1844] nel 1564 e morto a hashtag#Napoli nel 1624. Il poema in ottava rima La Madalena penitente costituisce la sua unica opera poetica, mentre il resto della sua non estesa produzione letteraria è composta da trattati teologici. L’edizione della Madalena penitente impressa a hashtag#Milano nel 1602 non è la princeps dell’opera, nonostante tutte le fonti più recenti la indichino come tale: le prime due stampe, oggi irreperibili, sono probabilmente realizzate a Napoli attorno al 1599. [...] il poema, che viene rimaneggiato e ampliato da Silvio in edizioni successive, si presenta diviso in tre parti, definite Pianti per il tema penitenziale che le impregna. [...] " (https://www.italianisti.it/pubblicazioni/atti-di-congresso/i-cantieri-dellitalianistica-ricerca-didattica-e-organizzazione-agli-inizi-del-xxi-secolo-2016/SAMARINI.pdf).
D) Editoria e storiografia: Una ristampa dell’edizione del 1605 del "poema eroico" di Paolo Silvio, "La Madalena penitente", a cura di Felice Pagnani Raele, Digital Press, S. Maria di Castellabate (SA), luglio 2022.
NOTE;
Per approfondimenti sul tema, si cfr. Papa Francesco, Apostola degli apostoli.
Maria di Màgdala nelle parole del Papa", Castelvecchi editore, 2017.
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA ("ECCE HOMO"), E CRISTOLOGIA (OLTRE L’ORIZZONTE DELL’ANDROCENTRISMO).
"Non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia". Una intervista degna di attenzione da L’Osservatore Romano (del 27 luglio 2023): al centro una rinnovata e forte attenzione al rapporto e alla relazione (di "Adamo ed Eva" e) di "Maria e Giuseppe":
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: "[...] Il tema della relazione uomo-donna è paradigmatico. Per dirla un po’ provocatoriamente, penso che oggi più che una “questione femminile” ci troviamo ad affrontare una “questione maschile”! Mi riferisco alla perdita d’identità dell’uomo maschio, che non riesce ad adeguarsi all’emancipazione irreversibile - e benedetta! - del femminile. Il maschio era abituato a idealizzare - e imprigionare - la donna: nei ruoli della madre, della sorella, della sposa o... dell’amante, e in tutti i casi, troppo spesso, della serva. E lui gestiva questi ruoli. Ma non si relazionava con la donna come amica. La straordinaria bellezza della categoria dell’amicizia, meravigliosamente evocata nel #Canticodeicantici, non rientrava nello schema dei rapporti tra i sessi. Oggi la donna finalmente si rifiuta d’essere ingabbiata dentro questo schema riduttivo e persino distorto, approntato dai soli maschi. E l’uomo non sa più che pesci prendere. -Occorre ritrovare e implementare la dimensione originaria della reciprocità. Che è più e altro dalla complementarietà. È uno stato di crisi, quello attuale, che influisce sull’opacità e indeterminatezza dell’identità sessuale. Recuperare la freschezza e gioia della reciprocità da ambedue i sessi, dunque, per recuperare la pienezza della persona nel vivere affetti, libertà e solidarietà.
La nostra arretratezza nel leggere questo fenomeno viene erroneamente attribuita alla fissità anacronistica di una idealizzazione della “sacra famiglia”. Che in verità rappresenta piuttosto un modello che, liberato dalle incrostazioni devozionali che gli abbiamo ritagliato addosso, riluce come lo scrigno delle relazioni umane fondate sull’affettività, la libertà e solidarietà.
Non scordiamo che Gesù non solo assume la sua umanità da Maria ma la matura anche dalla relazione con Giuseppe. Queste considerazioni valgono non solo per la famiglia, ma anche per le comunità di vita religiosa: che non sono meno in crisi delle famiglie. La famiglia di Nazareth è modello per tutti, chi è sposato e chi vive la verginità, entrambi nella logica dell’avvento del Regno. L’evanescenza del ruolo paterno che registriamo è oggi spesso penetrata anche tra i chierici, che non sanno più essere padri, essendo figli e fratelli.
Uno dei meriti di Papa Francesco è quello di suggerire uno sguardo nuovo sulla presenza della figura di Giuseppe padre e di Maria madre nella nostra vita di discepoli. Ma c’è molto cammino da fare. [...]" ( cfr. "Non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia". Riflessioni sul rinnovamento teologico. A colloquio con monsignor Piero Coda, segretario della Commissione teologica internazionale, di Andrea Monda e Roberto Cetera).
BIOETICA
Utero in affitto sia reato universale: il 19 giugno in aula la proposta di legge
di Marina Casini (AgenSir, 19 Giugno 2023)
Arriva in aula il 19 giugno la proposta di legge che definisce l’utero in affitto (maternità surrogata) reato universale e che prevede la perseguibilità del cittadino italiano che all’estero ricorre a questa pratica. Sebbene la legge 40 del 2004 sanzioni giustamente questa pratica, la proposta - in linea con quanto richiesto nella scorsa legislatura da settanta associazioni facenti capo al Network “Ditelo sui tetti” - si è resa tuttavia necessaria per disincentivare l’espatrio di chi vuole aggirare l’ostacolo salvo poi rimpatriare a cose fatte chiedendo di essere riconosciuto genitore del bambino così ottenuto.
Che l’affitto di utero sia una pratica che altera le relazioni riducendo a cose donne e bambini è matura acquisizione raggiunta da molti:
una pratica legata ad una distorsione organizzata e pianificata della maternità, della paternità, della filiazione, inserite in una logica produttivistica, in una catena di montaggio aperta allo scarto (aborto volontario previsto dal contratto) di bambini eventualmente non rispondenti alle aspettative di salute o di troppo in caso di gravidanze gemellari.
E’ una pratica di sfruttamento mercantile (dove chi trae maggior vantaggio economico sono le cliniche, gli intermediari, i consulenti legali), di pretesi diritti inesistenti che mutilano i veri diritti; una pratica che deturpa la dimensione del dono caricaturandola di dolciastro altruismo - “gestazione solidale”, “gestazione per altri”, “gestazione di sostegno”, “in quella torsione linguistica così cara a diversi attuali filoni di pensiero, mossi dalla ricerca di consensi pubblici, che ne amplifichino benevolmente la crudezza dei messaggi” (Paola Ricci Sindoni) - ,
e fa piacere che su un tema così antropologicamente forte si trovi sintonia anche con i più (apparentemente) lontani da una visione personalista ontologicamente fondata.
Vedremo come si svilupperà il dibattito parlamentare. La proposta è comunque supportata da autorevoli documenti giuridici. L’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, vieta di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro, la maternità surrogata è condannata dal Parlamento Europeo (risoluzione del 17 dicembre 2015) perché “compromette la dignità della donna, dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce”, e secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 272/2017, confermata dalla n. 33/2021) “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. La Convenzione sui diritti del bambino (ratificata dall’Italia) in base al “principio del prevalente interesse del minore” riconosce per ogni bambino, nella misura del possibile, il diritto a conoscere i propri genitori, ad essere da loro allevato, a preservare la propria identità comprensiva delle relazioni familiari.
Va da sé che l’auspicio sia che la proposta diventi legge a tutti gli effetti e dunque parte dell’ordinamento giuridico italiano.
La speranza, tuttavia, è che non sia un punto di arrivo, ma una tappa nel cammino di riflessione, che va portato a tutti i livelli, sul senso del figlio, tale dal concepimento, della maternità e della paternità.
Non basta dire “no” all’utero in affitto ̶ comunque lo si voglia diversamente definire, maternità surrogata o gestazione per altri o altro ancora ̶ bisogna dire “sì” all’uguale e inerente dignità di ogni essere umano, quindi sin dal momento in cui ogni essere umano inizia ad esistere in quel “big bang” chiamato concepimento. Solo questo mette al riparo da abusi, discriminazioni, sfruttamenti e prepotenze di ogni tipo, e solo da qui possiamo gettare solide basi per un più alto livello di civiltà e costruire sempre più pienamente e autenticamente la fraternità e la pace.
LA MADRE DEL PARTIGIANO
Sulla neve bianca bianca
c’è una macchia color vermiglio;
è il sangue, il sangue di mio figlio,
morto per la libertà
Quando il sole la neve scioglie
un fiore rosso vedi spuntare:
o tu che passi, non lo strappare,
è il fiore della libertà
Quando scesero i partigiani
a liberare le nostre case,
sui monti azzurri mio figlio rimase
a far la guardia alla libertà.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Maria “faccendiera del Paradiso” per una Chiesa sinodale
Un commento dei teologi Scarafoni e Rizzo
di PAOLO SCARAFONI E FILOMENA RIZZO (La Stampa, 06 Dicembre 2022)
Nel giorno dell’Immacolata prendiamo spunto dal bel contributo del compianto padre Stefano De Fiores, «L’immagine di Maria dal Concilio di Trento al Vaticano II (1563-1965)», dove si racconta Maria nelle pieghe della storia. La scoperta dell’America aveva spinto gli sguardi sulle terre emerse oltre i confini convenzionali. Durante il periodo barocco, a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, grazie a Galileo l’universo diventa più grande. Gli orizzonti si dilatano. Tutto acquisisce termini superlativi, anche nell’arte e nella spiritualità. Nel mondo cattolico Maria è qualificata con aggettivi che le attribuiscono una esaltazione spettacolare: trionfo, regalità, eminenza, e soprattutto privilegio. Sembra un’eresia chiamarla «sorella» e «serva» come fanno i carmelitani, avversati da autori come De Bérulle e Bellarmino che ritengono che la Madre di Dio superi in dignità e grazia tutte le creature in un ordine a parte tra Cristo e la Chiesa, fra il cielo e la terra. De Convelt la pone al di sopra dei Serafini, il cui amore «paragonato all’amore della Vergine non è amore infiammato, ma appare cenere e fuoco spento». C’è chi la chiama «un Dio creato; un finito infinito; un’onnipotente debolezza... Dio increaturito o creatura deificata». È il famoso padre Mostro, il domenicano Niccolò Riccardi, chiamato così per l’eccezionale obesità o per la grande eloquenza o forse per l’incredibile memoria. Viene ripresa la dottrina di San Bernardo sulla mediazione universale delle grazie da parte di Maria, in quanto «Cristo consegna a sua madre ogni grazia da distribuire agli altri».
Le immagini mariane acquistano un valore determinante. I gesuiti se ne fanno promotori. Francesco Borgia, il terzo generale della Compagnia, in una famosa sentenza, paragona le immagini alle spezie di un pasto, ovvero ciò che può stimolare il gusto. L’icona da lui preferita è quella presente nella Chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma, la Madonna Salus Populi Romani, che si riteneva dipinta da san Luca. Le sue accorate omelie mariane ottengono da Pio V il permesso di eseguirne una copia con uno stile leggermente diverso, sotto la supervisione di San Carlo Borromeo. Da quella poi ne vengono dipinte tante altre e inviate nei luoghi di missione, dal Brasile alla Persia.
Il trionfo di Maria non è oscurato dalla dea ragione nel secolo dei lumi. Lodovico Antonio Muratori, prete modenese, storico e letterato, invita a purificare, con buone intenzioni, le forme religiose popolari dalla superstizione pagana, e a far comprendere che non si possono mettere in competizione le varie immagini della Madonna, e che bisogna avere più fiducia nella messa che negli scapolari e nelle medaglie. Il suo sforzo non è accolto perché non nasce dalla coscienza comunitaria, ma dal mondo accademico.
Proprio durante l’Illuminismo si consolida la devozione del mese mariano, adottata immediatamente dal popolo perché legata al ciclo delle stagioni. Al primo trattato di mariologia risalente a Placido Nigido all’inizio del seicento, ne seguono ora altri: tra i più importanti quello di San Luigi Grignon de Monfort e quello di Sant’Alfonso Maria de Liguori. Per Monfort, Maria è lo «stampo di Dio, forma Dei», una madre viva e dinamica nella storia. La Vergine si trova nella categoria teologica della «relazione». Per lui è cristocentrica, e invita a correggere le espressioni tipiche del tempo: è meglio dire di essere «schiavi di Gesù attraverso Maria o in Maria», più che «schiavi di Maria». Sant’Alfonso sviluppa la teologia narrativa e orante, valorizzando il sensus fidelium per l’Immacolata Concezione. Maria «è la faccendiera del Paradiso, che continuamente sta in faccende di misericordia impetrando grazie a tutti, ai giusti e peccatori».
L’ancien régime, per sostenere la «restaurazione», rifiuta gli ideali rivoluzionari, specialmente la libertà e l’uguaglianza e ripropone le prerogative aristocratiche. Utilizza la figura di Maria. Il suo splendore mette in risalto la sua condizione eccezionale e i suoi privilegi. Ma Maria appartiene sempre al popolo, è il suo tesoro. Pio IX l’8 dicembre del 1854 definisce il dogma dell’Immacolata non tanto in favore dei privilegi aristocratici, ma piuttosto in sintonia con il sensus fidelium.
L’Italia barocca esalta Maria, la Francia dei lumi non riesce a offuscarla né la restaurazione a strumentalizzarla. L’Inghilterra romantica dipana il travaglio mariologico tra una devozione sana e una artificiale, grazie agli studi storici e patristici di San John Henry Newman, che attraverso il suo metodo peculiare si avvicina al sentire autentico della fede del popolo di Dio maturata nel tempo: «nella devozione cristiana si sono aperte due grandi correnti lungo i secoli: una centrata sul Figlio di Maria, l’altra sulla Madre di Gesù... non è necessario che l’una oscuri l’altra». Il popolo di Dio non ha mai visto Maria rivale, ma ministra del suo Figlio. Più ami Maria più ami Gesù.
Con il Concilio Vaticano II si pone fine a tutti gli iconoclasti e i mariolatri che falsano la figura della Madre di Dio. La mariologia è inserita nel cuore dell’ecclesiologia, esaltando il nesso tra la beata Vergine e il mistero della Chiesa. Lumen Gentium 53, in chiave antropologica, dichiara di lei che è la più vicina agli uomini perché è la più vicina a Dio, a Gesù Cristo: «Redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo... quale discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi di salvezza». L’unicità di Maria non la separa da noi. La sua eminenza è compresa come compenetrazione con il Figlio divino, e servizio nella missione agli altri.
Papa Francesco non nasconde il suo amore per Maria. È bello vederlo pregare davanti alla Salus populi romani, prima di partire e al ritorno dai suoi viaggi, per invocare il suo aiuto, affidarsi a lei e ringraziarla. L’identità sinodale della Chiesa richiede una riflessione teologica e antropologica sul ruolo della Madre di Dio. La sua presenza nelle comunità non soltanto ci invita a custodire, ma anche a continuare il cammino attraverso nuovi «cantieri». Ella è il modello di apertura, l’aurora che ci stimola alla «ri-recezione» della fede nel cambio epocale, «la faccendiera» che dal Paradiso ci aiuta a non aver timore di attualizzare e rendere più autentico il modo di vivere il Vangelo al servizio dell’umanità sofferente, per il Regno di Dio.
Sorpresa, il padre sta tornando. Anche grazie allo smart working
di Massimo Calvi (Avvenire, martedì 7 giugno 2022
Papà è tornato a casa. Dopo decenni di «assenza inaccettabile», il padre ha finalmente fatto ritorno tra le mura domestiche, ha voglia di famiglia, di passare del buon tempo coi figli, e di lasciare loro qualcosa di più e di diverso da un’eredità di soli beni materiali. Che cosa? È presto per dirlo, ma la semplice presenza di un padre, restituito alla famiglia dalla nuova dimensione che ha assunto la casa dopo l’esperienza della pandemia, dei lockdown e del lavoro da remoto che ne è seguito, è già di per sé sufficiente a mettere in moto un cambiamento capace di segnare un’epoca.
Claudio Risé, psicoterapeuta e psicoanalista di formazione junghiana, il tema lo conosce a fondo: per anni ha indagato la crisi del ruolo paterno e l’origine e le conseguenze che l’espulsione dei padri dal nucleo familiare hanno provocato nelle persone e nella società. In un noto libro del 2003, Il Padre, l’assente inaccettabile, ma anche in Il mestiere di padre, come in molti altri saggi, ha aiutato a leggere in questa uscita di scena della figura paterna una delle ragioni del declino del senso religioso e della capacità di dare un significato alle prove della vita, spiegando molto del buio che ha segnato l’esistenza delle giovani generazioni.
Oggi Risé è in libreria con un nuovo testo, Il ritorno del padre (Edizioni San Paolo), aggiornamento del precedente, che sta riscuotendo grande interesse perché coglie un cambiamento forse inatteso, e apre uno sguardo rinnovato sui fenomeni in atto. Ciò che si starebbe manifestando è il tramonto della cultura degli anni Settanta e Ottanta e dei miti che hanno caratterizzato quella stagione, comprese le leggi che hanno contribuito all’indebolimento della famiglia. A guidare l’uscita dal deserto rappresentato dal «cinquantennio dei comportamenti sfrenati e dell’affettività gelida» sono i Millennials, i nati tra il 1980 e il 1990, ovvero i figli di chi è stato studente nel ’68, dunque la generazione che per prima si è trovata a pagare in pieno il prezzo di quella rivoluzione.
Uno degli effetti più visibili del cambio nei costumi sociali che ha caratterizzato gli anni 70 è stato il rigetto del matrimonio: a un certo punto per una generazione di maschi sposarsi è diventata una prospettiva da evitare, anche per la paura di ritrovarsi a vivere il dolore di un’esperienza traumatica che spesso era stata sperimentata in prima persona. Oggi invece, a detta di Risé, il giovane maschio è tornato a desiderare un nucleo all’interno del quale scambiare affetti e cure, «e se trova una ragazza che condivida questo sogno è ormai spesso in grado di sposarla».
Sull’espressione che usa Risé, «in grado» ci si potrebbe scrivere un intero saggio, perché è proprio l’uscita di scena del padre uno dei fattori all’origine del crollo dell’autostima nei figli. Ma è nella modalità in cui sta avvenendo questo clamoroso ritorno del padre, che si può cogliere l’intuizione di uno sguardo nuovo, forse quello che più merita di essere seguito nel tempo. Il cammino di riavvicinamento del padre alla famiglia era in corso da tempo, sottotraccia, e la pandemia lo ha probabilmente fatto detonare: la costrizione durante i periodi di lockdown prima e la possibilità dello smart working poi, potrebbero aver segnato un punto di non ritorno, grazie all’aumento significativo del tempo che il padre ha incominciato a passare in casa.
Questo movimento interessa tutte le età dai Millennials in avanti: generazioni forse meno avventurose delle precedenti, ma desiderose di stare di più con i figli e di migliorare la situazione affettiva propria e della prole. E non è proprio il padre di famiglia, come notava poeticamente Péguy, il solo avventuriero del mondo moderno?
Anche il fenomeno recentissimo della Great Resignation, la grande dimissione, che può essere letta dalle nostre parti come l’indisposizione ad accettare lavori totalizzanti, e che qualcuno ha visto come una forma di deriva individualistica e di rinuncia alla dimensione comunitaria della vita in azienda, per Risè può invece esprimere una tensione positiva. E se fosse una richiesta di tempo che prelude alla realizzazione come padri? L’embrione cioè di un desiderio che può rimettere al centro dell’esistenza «gli affetti, la famiglia e la fede, rimossi spesso negli ultimi 50 anni dalle ambizioni economiche e ansie per i diversi tipi di status sociale». Non è la rinuncia al lavoro, insomma, quello che starebbe andando in scena, ma un poderoso processo di riconquista di quell’equilibrio familiare precedente alla rivoluzione industriale e all’avvento - dopo l’assenza delle figure paterne causato dalle due guerre - di imprese sempre più simili a voraci realtà aziendali che hanno finito per inghiottire ogni attività degli uomini arrivando ad ostacolare «la trasmissione diretta della maschilità».
La tarda modernità del ’900 descritta da Risé è una società inquietante, un mondo in cui le imprese-Grandi-madri hanno contribuito a creare il mito del guadagno e del successo per legare gli esseri umani alla dimensione delle cose, del consumo e dell’appagamento dei soli bisogni materiali, una società popolata da individui gentili, allegri, fintamente buoni, ma fondamentalmente fragili, soli, sradicati e incapaci di vedere la ferita, affrontare la perdita, sopportare il sacrificio, e dunque di elevarsi verso l’alto.
Se la cancellazione del padre è stato il processo con cui l’Occidente ha voluto eliminare l’esperienza di Dio non è detto che ora riportando il padre a casa tornerà anche tutto il resto - e d’altra parte la riscoperta della "famiglia di una volta" dovrebbe saper fare selezione conservando solo le cose buone. Il dato vero è che un po’ ovunque, dagli Stati Uniti all’Europa, oggi si legifera per agevolare il nuovo protagonismo dei padri. Processi che vanno sostenuti e rafforzati: la storia procede per cicli, dunque la decadenza non è un destino ineluttabile, matrimonio e natalità possono ancora rifiorire, la famiglia come gesto d’amore e «dono di sé agli altri» può ancora farsi rivedere. Per ora c’è che, fosse anche per qualche ora di smart working in più, il padre vuole ritornare. E, come sostiene Risé, «il padre non ritorna mai da solo, ma lo segue anche tutto il mondo Famigliare».
Il ritorno del padre (Edizioni San Paolo 2022, pp. 220, euro 18,00) è il nuovo libro di Claudio Risé, psicoterapeuta e psicoanalista, già docente di Scienze sociali alle Università di Trieste-Gorizia, dell’Insubria (Varese) e della Bicocca (Milano). Il testo è un’edizione, completamente rivista alla luce delle profonde trasformazioni avvenute in questi anni, di un suo celebre saggio, Il Padre l’assente inaccettabile, uscito sempre per San Paolo nel 2003. Quasi due decenni dopo siamo di fronte a una svolta epocale. Scrive Risé: «Dal punto di vista psicologico il padre porta nella vita umana l’esperienza dinamica del muoversi, dell’andare. Fa dell’esistenza un movimento verso la pienezza con Dio e, allo stesso tempo, dona una liberazione dall’attaccamento, dall’egoistico trattenere e trattenersi, freno di ogni ricerca e divenire». Risé lavora da decenni sulla psicologia del maschile e sui problemi derivanti dalla crisi della figura paterna. Su questo tema ha pubblicato per San Paolo anche Il mestiere di padre. Tra i suoi testi più noti, Essere Uomini e Parsifal (Red edizioni), Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita (San Paolo 2007); Il maschio selvatico/2 (San Paolo 2015); Donne selvatiche (con M. Paregger, San Paolo 2015).
Usa, la Corte Suprema sancisce la fine del diritto all’aborto: annullata la sentenza Roe v. Wade *
In America la sentenza che tutelava il diritto delle donne a interrompere una gravidanza non esiste più. Con una decisione che rovescia un diritto fondamentale radicato negli Stati Uniti da 50 anni, la Corte Suprema ha annullato la storica sentenza Roe v. Wade, con cui nel 1973 la stessa Corte aveva riconosciuto il diritto della texana Norma McCorvey di interrompere la gravidanza garanetendo a tutte le donne di poter abortire liberamente.
La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore dei giudici conservatori e 3 contrari, i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer che hanno diffuso un comunicato per dissociarsi: "Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo". Tutti e tre i giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump, che ha perso nel voto popolare sia nelle elezioni del 2016 che in quelle del 2020, durante il suo mandato hanno votato per l’abolizione della sentenza. E infatti Trump è il primo a esultare: "È la volontà di Dio. La decisione vuol dire seguire la Costituzione e restituire i diritti", ha detto l’ex presidente americano.
Quello della Corte Suprema è stato un "tragico errore" e la sentenza emessa è il risultato di un’ "ideologia estrema", ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel discorso tenuto alla nazione nel pomeriggio di venerdì. La Corte suprema, ha detto il presidente, "ci ha riportato indietro di 150 anni, ora è a rischio la salute delle donne" e ha chiamato gli americani a una battaglia politica contro la sentenza: "Permettetemi di essere molto chiaro e inequivocabile - ha detto - l’unico modo in cui possiamo garantire il diritto di scelta di una donna (sull’aborto) è che il Congresso ripristini questi diritto con una legge federale. Non c’è nessuna azione esecutiva del presidente che possa farlo. Ma al momento al Congresso mancano i voti per farlo ora, dunque gli elettori alle elezioni di novembre devono far sentire la loro voce".
La decisione è stata presa nel caso "Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization", in cui i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane. A fare ricorso era stata l’unica clinica rimasta nello Stato a offrire l’aborto. Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei ’saggì erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Alito che scrive nel dispositivo "La Roe vs Wade è stata sbagliata fin dall’inizio in modo eclatante. Il suo ragionamento - aggiunge - è stato eccezionalmente debole, e la decisione ha avuto conseguenze dannose".
Ora quindi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia. Si torna agli anni precedenti alla sentenza, quando l’aborto negli Usa era disciplinato da ciascuno Stato. In oltre la metà l’aborto era considerato reato, quindi non poteva essere praticato in nessun caso. In oltre 10 Stati era legale solo se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali.
Già prima della diffusione, poco dopo le 10 ora locale, della decisione ufficiale centinaia di persone, in maggioranza donne, si sono riunite per protestare di fronte all’edificio che ospita il massimo organismo giuridico americano. E le principali organizzazioni pro choice hanno diffuso un comunicato in cui denunciano "ogni tattica e minaccia di gruppi che usano la distruzione e le violenza come mezzo, non parlano per noi, i nostri sostenitori, le nostre comunità e il nostro movimento", si legge nella dichiarazione di Planned Parenthood, Naral Pro-Choice America e Liberate Abortion Campaign. "Siamo impegnati a proteggere ed espandere l’accesso all’aborto e alla libertà riproduttiva attraverso un attivismo pacifico e non violento", concludono. Diversa la reazione dei repubblicani. Il leader del gruppo alla Camera, Kevin McCarthy, plude alla decisione "che salva vite umane".
"Oggi la Corte suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di persone". Così Barack Obama in un tweet, sua prima reazione alla sentenza. La moglie l’ex presidente degli Stati Uniti. "Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate" in merito al loro corpo. Lo afferma Michelle Obama parlando di una "decisione orribile" da parte della Corte Suprema sull’aborto. "Avrà delle conseguenze devastanti", aggiunge. Durissima anche Hillary Clinton che bolla la decisione della Corte Suprema sull’aborto come un’"infamia", un "passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani".
Il presidente americano Joe Biden ha dato mandato al segretario alla salute di garantire l’accesso delle donne alla pillola abortiva e ad altri farmaci per "l’assistenza riproduttiva" approvati dalla Food and Drug Administration. Lo annuncia la Casa Bianca in una nota.
* Fonte: la Repubblica, 24 GIUGNO 2022 (ripresa parziale).
IL REGNO DELLE DONNE
Ventitré uditrici per una Chiesa “maestra in umanità”
di Marinella Perroni (Il Regno, 09/12/2017)
Dal punto di vista della storia delle donne si può dire che il concilio Vaticano II ha avuto un “prima” e un “dopo”. Lo spartiacque lo hanno segnato, durante la congregazione generale LIII, le parole con le quali l’arcivescovo di Bruxelles, il card. Leo-Joseph Suenens, esprimeva il votum di invitare al Concilio, oltre a uditori maschi, anche l’altra parte dell’umanità.
Quando l’arcivescovo Pietro Fiordelli, prendendo la parola in assemblea disse: «Venerabiles patres, dilecti fratres et sorores», risultò chiaro che qualcosa ormai era cambiato. Era la III sessione del Concilio e, sia pure marginalmente, la breccia era stata aperta: nella tribuna Sant’Andrea, oltre ad altri uditori maschi, era presente anche un manipolo di ventitré sorores, dieci religiose e tredici laiche, rigorosamente tenute alla stretta osservanza dell’interdizione paolina alle donne di Corinto affinché tacessero durante le assemblee liturgiche.
Mute, almeno in assemblea, ma per la prima volta realmente presenti nel momento più alto dell’esercizio della comunione e, quindi, dell’autorità ecclesiale.
La sproporzione numerica, dato che all’inizio della III sessione erano ancora soltanto 15 a fronte di più di 2500 vescovi, rende bene l’idea di una Chiesa che, alle migliori intenzioni di definirsi secondo quella che è stata felicemente chiamata un’“ecclesiologia di comunione”, opponeva il dato di fatto di una plurisecolare esclusione delle donne da ogni forma di esercizio di autorità.
Era del resto molto diffusa tra i padri conciliari l’incapacità di intercettare almeno alcuni dei segnali che, da tempo ormai, attestavano che dal movimento delle donne aveva preso le mosse una rivoluzione profonda che avrebbe contribuito, lentamente ma inesorabilmente, a mettere in crisi i molti modi in cui l’ideologia patriarcale aveva stabilito assetti sociali fortemente asimmetrici e, sempre, a spese delle donne.
Alcuni dei vescovi presenti al Concilio avevano fatto direttamente esperienza della dedizione, ma anche delle competenze con cui tante credenti si mettevano a servizio delle loro Chiese. E per questo avevano appoggiato con forza la richiesta di Suenens. La maggioranza oscillava invece tra una malcelata indifferenza e un’aperta ostilità. Tutti, d’altra parte, erano figli di una teologia di genere tanto incline all’esaltazione del femminile quanto saldamente ferma nell’esclusione delle donne.
Non poteva certo essere quello sparuto gruppetto costretto al silenzio a ribaltare una situazione che gettava le sue radici in un passato molto lontano e che continuava a produrre i suoi frutti di emarginazione ancora a quasi due millenni di distanza. Come Paolo VI aveva osservato, la loro presenza aveva un carattere unicamente simbolico. Più ancora delle parole, però, i simboli depositano nella storia la forza della loro virtualità. Non nascono infatti mai dal nulla e, più di quanto si creda, alimentano germi di novità.
Quel “simbolo”, del resto, era radicato nelle diverse Chiese nazionali e continentali in cui quasi tutte quelle ventitré donne rivestivano ruoli importanti, alcune nelle loro congregazioni religiose, altre in diverse associazioni laicali. Come d’uso, non c’era di loro alcuna traccia nelle narrazioni ufficiali e, forse, neppure nella consapevolezza di molti vescovi dell’epoca, che continuavano a pensare che la Chiesa fosse nella realtà quello che era stato stabilito dovesse essere per principio, cioè animata e guidata unicamente da uomini. La realtà non era questa già allora né, tanto meno, lo è oggi. Quel “simbolo” diceva chiaramente che il mondo era cambiato e imponeva anche alla Chiesa di cambiare.
Le parole con cui Margarita Moyano, la più giovane delle uditrici al Concilio, suggellava quell’esperienza straordinaria prendono oggi, a più di cinquant’anni di distanza, il sapore di una profezia: «A Roma le donne vanno sempre alla fine. È importante, però, che alla fine vadano». Anche per restare solo al nostro paese, infatti, dal 1965 a oggi la presenza delle donne nelle Facoltà Teologiche italiane e perfino nelle Pontificie Facoltà romane è stata un fenomeno crescente e, soprattutto, significativo. Nonostante resistenze e ritardi, una corrente sotterranea contribuisce a precisare i lineamenti della Chiesa uscita dal Vaticano II.
In un tempo come il nostro, in cui si fa un gran parlare di riforme, qualcuno sostiene che la Chiesa cattolica non può riformarsi altro che grazie a eventi del tutto straordinari come quello che ha visto come protagonista Lutero e, in questa ottica, anche il Vaticano II non sarebbe che un episodio del tutto insignificante.
A cinquecento anni dall’inizio della guerra dei trent’anni, forse sarebbe il caso riflettere un po’ a fondo sull’importanza che le riforme ecclesiali non cadano preda di prìncipi e imperatori e la Chiesa semper reformanda sia l’unica protagonista del proprio cammino di riforme. Mai, però, al di fuori del mondo e della sua storia.
La Chiesa ha saputo riformare se stessa tutte le volte che è stata in grado di intercettare le grandi mutazioni storiche e di interpretarle alla luce della fede nella rivelazione di Dio. Il femminismo ha fatto da vettore a una di queste grandi mutazioni perché è una vera e propria rivoluzione, strutturale, profonda, che cambia il panorama dell’umano. Una rivoluzione che avanza ormai da più di un secolo senza portare con sé né guerre né fame né lutti.
Fa sorridere che le femministe siano state accusate di violenza solo perché, per cambiare uno status quo oppressivo, hanno levato le loro voci e non hanno mai sparato né con fucili né con cannoni! Saprà la Chiesa, che Paolo VI definì “maestra in umanità”, accettare la rivoluzione femminista che la invita a prendere piena consapevolezza della verità dell’umano?
Le nuove linee guida. Matrimonio, la svolta di Francesco
Nascono gli «Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale". Non soltanto nuovi percorsi per la preparazione dei fidanzati ma un progetto più complesso. Ribadito il valore della castità
di Luciano Moia (Avvenire, mercoledì 15 giugno 2022)
Sono le sfide urgenti e drammatiche che la Chiesa intende affrontare in quest’anno dedicato ad Amoris laetitia - e in vista dell’Incontro mondiale delle famiglie che si apre la prossima settimana a Roma e in tutte le diocesi del mondo - perché in gioco c’è «la realizzazione e la felicità di tanti fedeli laici nel mondo».
Nasce con questo obiettivo il documento “Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale”, un testo che dà seguito a un’indicazione ripetutamente espressa da papa Francesco nel suo magistero, ossia «la necessità di un “nuovo catecumenato” che includa tutte le tappe del cammino sacramentale: i tempi della preparazione al matrimonio, della sua celebrazione e degli anni successivi», soprattutto quando gli sposi potrebbero attraversare crisi e momenti di scoraggiamento.
Non si tratta di un nuovo percorso di preparazione al matrimonio, ma di un progetto più articolato e più complesso - ed è questa la grande novità - perché punta ad abbracciare la cosiddetta "preparazione remota" che comprende cioè percorsi educativi all’amore, all’affettività e alla sessualità rivolti ai bambini, agli adolescenti e ai giovani, configurati in modo delicato e ragionevole in base alle diverse età; la preparazione "prossima", cioè quella pensata nell’imminenza delle nozze; e l’accompagnamento nei primi anni di matrimonio, senza trascurare i momenti di crisi e anche la scelta di chi decide di separarsi o di divorziare. Anche se per queste coppie è in preparazione un documento specifico perché, come spiega papa Francesco nell’introduzione, «la Chiesa, infatti, vuole essere vicina a queste coppie e percorrere anche con loro la via caritatis, così che non si sentano abbandonate e possano trovare nelle comunità luoghi accessibili e fraterni di accoglienza, di aiuto al discernimento e di partecipazione».
Perché è sempre più difficile raccontare ai giovani la bellezza e la verità della vita matrimoniale? Il documento parla di «mentalità edonista che distorce la bellezza e la profondità della sessualità umana», ma anche di «autoreferenzialità che rende difficile l’assunzione degli impegni della vita matrimoniale». E infine di «limitata comprensione del dono del sacramento nuziale, del significato dell’amore sponsale e del suo essere un’autentica vocazione, ossia una risposta alla chiamata di Dio all’uomo e alla donna che decidono di sposarsi».
Ecco perché si rende necessario «un serio ripensamento del modo in cui nella Chiesa si accompagna la crescita umana e spirituale delle persone». Per riuscirci il nuovo testo suggerisce creatività pastorale e flessibilità nei confronti della situazione concreta delle diverse coppie. Ma anche una formazione accurata per chi è chiamato ad accompagnare i giovani. Non solo parroci e sacerdoti, ma su un piano di pari dignità, anche coppie sposate con consolidata esperienza matrimoniale e perfino «separati, rimasti fedeli al sacramento, che possano offrire la loro testimonianza ed esperienza vocazionale in maniera sempre costruttiva». Perché, come papa Francesco, ha più volte ribadito, «non si tratta tanto di trasmettere nozioni o far acquisire competenze, quanto piuttosto di guidare, aiutare ed essere vicini alle coppie in un cammino da percorrere insieme».
Per farlo non servono né toni moralistici né discorsi complessi, soprattutto per quelle sempre più numerose «coppie di fidanzati che vivono situazioni di convivenza complesse, nelle quali fanno fatica a comprendere la portata sacramentale della scelta che stanno per compiere e la “conversione” che tale scelta comporta, sebbene “intravedano” il mistero più grande del sacramento rispetto alla mera convivenza». Sono proprio queste le coppie per le quali occorre mettere a punto un approccio nuovo, perché le loro domande «non possono piu essere eluse dalla Chiesa, né appiattite all’interno di percorsi tracciati per coloro che provengono da un cammino minimale di fede; piuttosto richiedono forme di accompagnamento personalizzate, o in piccoli gruppi, orientate ad una maturazione personale e di coppia verso il matrimonio cristiano». E anche questa è una sfida tutt’altro che agevole.
Il documento riserva grande attenzione al tema della castità prematrimoniale «come autentica “alleata dell’amore”, non come sua negazione» e sollecita le comunità a dedicare sforzi mirati e intelligenti alle coppie in crisi, spiegando che «un ministero dedicato a coloro la cui relazione matrimoniale si è infranta appare particolarmente urgente».
IL SOGNO DI SHAKESPEARE E IL PROGRAMMA DI FRANCESCO BACONE.
"HANG UP PHILOSOPHY!". Something is rotten in the state of Denmark...
RIVOLUZIONE COPERNICANA. "Hang up philosophy!" e disagio della civiltà: "Romeo. Ancora esiliato? - All forca la filosofia! Se non può farmi una Giulietta, se non può cambiare di posto una città, annullare la sentenza di un principe, la filosofia non giova a nulla, non può nulla; non me ne parlare" (Shakespeare, Tutte le opere, a c.di Mario Praz, Sansoni, Firenze, p.313).
SORGERE DELLA TERRA (EARTHRISE). Probabilmente Shakespeare, ancor prima della realizzazione della Bibbia di Re Giacomo, ha già avviato un programma di rilettura e reinterpretazione antropologico-politico dell’immaginario della teologia e filosofia tradizionale... Ricordare il Sonetto 116.
NUOVO CIELO E NUOVA TERRA. Considerato il legame profondo con la cultura italiana (Giordano Bruno, ecc.), non è da escludere la ripresa in grande stile dell’idea già ’lanciata’ da Dante Alighieri di ripensare a trovare la strada per tornare nell’Eden, nel Paradiso Terrestre: da tener presente che la parola d’ordine del programma di Francesco Bacone è già e sarà proprio quella di lavorare al Grande Restaurazione (alla Instauratio Magna).
DANTE 2021: RISORGERE - RINASCERE. Al di là della vecchia filosofia ("Hang up philosophy!"): Shakespeare è sulla strada di Dante Alighieri e Giordano Bruno, e non della andrologia iper-platonica e dello "spirito di carità" paolino ("Il parto maschio del tempo" - "Temporis Partus Masculus", 1602) del teorico della Nuova Atlantide...
Nota: Sul tema, cfr. la preghiera che è inserita nella prefazione della Instauratio magna (1620).
Federico La Sala
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
STORIA E MEMORIA
MILANO - «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente». La frase di Silvio Berlusconi rivolta a Rosy Bindi durante la puntata di Porta a Porta dedicata alla bocciatura del lodo Alfano getta ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche divampate dopo la decisione della Corte Costituzionale. Il premier, in collegamento telefonico, aveva accusato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affermando che avrebbe dovuto, «con la sua influenza», garantire un voto dei giudici costituzionali favorevole al lodo Alfano. Parole che hanno provocato la dura reazione dell’esponente del Pd: secondo la Bindi, quelle del premier sono frasi gravissime. «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente» ha replicato secco Berlusconi, citando, non si sa quanto volontariamente, Vittorio Sgarbi che ebbe già modo di definire così l’ex ministro prodiano e che ora, parlando con Corriere.it, assicura di non voler chiedere i diritti d’autore al premier (ASCOLTA). «Non mi interessa nulla di quello che lei eccepisce» ha scandito Berlusconi.
Una «cortesia» che la stessa Rosy Bindi non ha lasciato cadere nel vuoto: «Sono una donna che non è a sua disposizione» ha replicato (riferimento neanche troppo velato alla vicenda delle escort che vede coinvolto il Cavaliere) «e ritengo molto gravi le sue affermazioni».
«REAGIRE DAVVERO» - La stessa Bindi, interpellata in mattinata da Radio Popolare, ha poi voluto precisare che «ho reagito non per difendere me dalle offese di Berlusconi che non mi sfiorano minimamente, mi sono sentita di reagire perché penso di doverlo fare in nome di tutte le donne». «Questo Presidente del Consiglio- ha aggiunto - ha una concezione strumentale delle donne, veicola messaggi pericolosi a questo Paese ed è arrivato il momento che le donne reagiscano davvero».
IL PRECEDENTE - Lo stesso Berlusconi, in ogni caso, aveva già avuto modo in passato di usare parole praticamente simili nei confronti della Bindi. Era l’8 aprile 2003 e il Cavaliere era andato a Brescia per sostenere la candidatura a sindaco di Viviana Beccalossi. Parlando della giovane esponente di An, il premier aveva spiegato che nei suoi occhi «si legge tutta la passione politica necessaria in questa sfida. È più brava che bella, il contrario di Rosy Bindi». Ma quell’intervento divenne più famoso per un’altra (involontaria?) gaffe dell’allora leader della Cdl: chiudendo il suo intervento incoraggiò infatti la portacolori del centrodestra con un equivocabile: «Forza Viviana, fagliela vedere!».
«PIÙ ALTO CHE EDUCATO» - All’indomani del battibecco negli studi di Bruno Vespa, il segretario del Partito Democratico, Dario Franceschini, ha telefonato a Rosy Bindi per esprimere alla vicepresidente della Camera la sua solidarietà per le «offese volgari e maleducate» a lei rivolte dal presidente del Consiglio. Anche Giovanna Melandri, responsabile Cultura del Pd, in una nota ha preso le difese di Rosy Bindi: «Berlusconi ha fatto gravissime affermazioni nei confronti delle istituzioni, attaccando il presidente della Repubblica e la magistratura. Altrettanto indegna è stata la frase con cui ha apostrofato Rosy Bindi: in queste offensive parole c’è tutto il ’Berlusconi-pensiero’ nei confronti delle donne: l’idea che la donna non abbia il diritto di prendere la parola se non per compiacere l’ego smisurato del sultano di Arcore. Il presidente del Consiglio ha dimostrato di essere più alto che educato». «Credo che le parole che Berlusconi ha pronunciato nei confronti di Rosy Bindi si commentino da sole nella loro profonda volgarità - ha aggiunto Anna Finocchiaro, presidente del Pd al Senato - e credo anche che una dirigente politica come Rosy non abbia certo bisogno di essere difesa. Rosy non è certamente a disposizione del Presidente del Consiglio, ma per fortuna è a disposizione e al servizio delle donne, del Pd e della democrazia del nostro Paese».
«C’E’ CONCITAZIONE, PUO’ SUCCEDERE» - Un tentativo di smorzare i toni arriva da Paolo Bonaiuti, sottosegretario della presidenza del Consiglio e portavoce di Berlusconi, in un intervento a Radio 2: «Questi sono momenti di estrema concitazione, questo può succedere. Una cosa sono i momenti asprezza politica, altra i momenti di vita normale». In precedenza, però, Bonaiuti aveva detto: «È sempre la solita storia del cane cattivo, prima lo attaccano, lui si difende. Evidentemente una difesa da una serie di attacchi mediatici che vanno avanti da mesi e mesi».
* Fonte: Corriere della Sera, 08 ottobre 2009 (ultima modifica: 09 ottobre 2009) (ripresa parziale).
Scenari.
Il Dio della fragilità: il Vangelo e le sfide della Chiesa
Il monaco belga Arnold, in Perù dal 1974 e tra i fondatori della teologia andina, rilancia il tema della kenosis, l’abbassamento divino. Piaghe come la pedofilia impongono nuove prospettive
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 31 dicembre 2021)
La questione dell’indicibiità di Dio è esposta in questo modo da Simone Weil nel saggio L’ombra e la grazia: «Dio può essere presente nella creazione solo nella forma dell’assenza. Il male indica che bisogna collocare Dio a una distanza infinita». E ancora: «Dio non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato, perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà, in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza».
Per la filosofa francese nell’atto della creazione Dio si ritira per lasciare spazio all’uomo e al cosmo. È questo il senso del riposo del settimo giorno, commenta il monaco belga Simon Pierre Arnold, che ricorda che secondo la Lettera agli Ebrei questo riposo continua ancora per consentire «una totale riconciliazione nella libertà». Anche l’esistenza del male diviene una prova di questa autolimitazione divina. Discorso alto e difficile, che il filosofo Luigi Pareyson definiva “temerario” e che è stato più volte affrontato da scrittori e pensatori, da Wiesel a Buber, dalla Hillesum a Bonhoeffer, il quale nella debolezza di Dio vede il segno della sua presenza accanto all’umanità ferita, e che ora viene applicato da Arnold, che vive in Perù dal 1974 ed è ritenuto uno dei fondatori della teologia andina, alla condizione della Chiesa oggi.
Un’analisi coraggiosa e a tutto campo che si rivela proficua in vista del Sinodo, contenuta nel saggio Dio è nudo. Inno alla divina fragilità di Simon Pierre Arnold, ora pubblicato da Queriniana (pagine 236, euro 26,00). Si può considerare una sorta di invito a compiere una discesa agli inferi per la fede cristiana, in conseguenza della crisi dovuta alla pandemia - in cui il cattolicesimo è stato spesso incapace di accompagnare la sofferenza delle persone colpite dal Covid e di dire a tutti parole significative sul vivere e sul morire - e alla piaga della pedofilia. Ciò è possibile solo abbandonando l’immagine di un Dio “mago dell’ordine” del cosmo ed assumendo quella di un Dio fragile, quella che san Paolo nella Lettera ai Filippesi chiama kenosis, simbolizzata dalla morte in croce di Gesù: «Qui, Dio non solo si spoglia, ma lo si spoglia, lo si umilia, lo si ridicolizza, lo si sfida a essere Dio secondo le categorie della teologia di Satana. Questo divino Servo sofferente, vulnerabile, re deriso da un’umanità insensata, muore d’amore nella nudità, trafitto da parte a parte. Ma in questa contemplazione del Dio nudo del Vangelo non bisogna dimenticare la Resurrezione. San Giovanni, in particolare, ci descrive in dettaglio la scena della tomba vuota con le bende per terra e il sudario accuratamente piegato. Gesù risorto è un Dio per sempre ferito d’umanità».
Questo abbassamento di Dio quale emerge dal Vangelo, sin dalla nascita di Gesù in una mangiatoia, ha un rilievo anche storico e scientifico. Sulla scia di Teilhard de Chardin, Arnold vede l’Incarnazione come «un mistero avvolgente» che rimane in atto nel cuore della storia e penetra tutta la realtà creata. E non confligge certo con la teoria dell’evoluzione, semmai conferisce un senso del tutto nuovo alla selezione delle specie, che non può essere vista come «un incontro di boxe il cui obiettivo sarebbe l’eliminazione sistematica del diverso e del debole. Dal punto di vista della fede, la selezione non ha come obiettivi, contrariamente alle crudeli evidenze, l’esclusione e il trionfo dell’individuo sul gruppo. Essa è, al contrario, la dinamica della reciproca emulazione verso più vita in comune, verso la cultura e la spiritualità».
Ma torniamo al cattolicesimo, che Arnold sferza per uscire dalla catalessi: «All’interno delle nostre Chiese - egli dice -, come schizofrenici, ci stiamo sgretolando in lotte interne di retroguardia tra conservatori e progressisti, mentre le vere urgenze sono innegabilmente altrove». Vista dal suo Perù, dove ha fondato in riva al lago Titicaca il monastero della Risurrezione, la Chiesa appare «troppo patriarcale e clericale, ossessionata da una visione puritana e dicotomica del mondo». Una requisitoria alquanto severa ma la situazione ecclesiale che stiamo vivendo «è drammatica, peggio dell’epoca che generò Lutero».
Come rispondere a questa crisi? Tornando semplicemente al Vangelo, siglando una nuova configurazione plurale ed egualitaria delle nostre relazioni, seguendo l’esempio di Gesù che rinunciò a tutti i suoi privilegi e invitò gli apostoli a non rivendicare posti d’onore e a concepire la gerarchia non come posizione di potere ma come servizio, sul modello della lavanda dei piedi. E inaugurò una nuova stagione nei rapporti fra uomo e donna.
«Aggrappandoci alle nostre scale - insiste l’autore - e ai nostri privilegi, chiudiamo la breccia attraverso la quale potrebbe penetrare lo Spirito. Il luogo del servizio, dove Gesù si è messo e dove vuole vederci, non ammette tuttavia alcuna eccezione. Non si tratta di un’ideologia astratta e facoltativa, ma piuttosto di un’anti-gerarchia vincolante per tutti e per tutte». Ma «tra le macerie di una Chiesa peccatrice», ci sono anche segni positivi, dal rispetto per i diritti umani al risveglio delle donne, dalla crescita della sensibilità collettiva per l’ecologia alla denuncia degli abusi sugli innocenti.
Tutte battaglie che dopo la Laudato si’ e la Fratelli tutti la Chiesa in qualche modo fa proprie. Ma l’urgenza vera di una Chiesa che torna al Vangelo è quella di tornare a proclamare all’uomo contemporaneo la proposta della fede. Che significa condivisione delle pene e delle gioie di tutti gli uomini ma non una rinuncia all’annuncio della resurrezione. Si chiede Arnold: «Nel nostro mondo sofisticato, da dove potrebbe sorgere ancora lo stupore? Come immaginare una Chiesa che si ritrae, come il suo Signore, che si rende sempre più invisibile per lasciare tutto lo spazio al Vangelo?»
È dal monachesimo e dalla sua scuola del dialogo nel silenzio, esemplificata dai detti dei Padri del deserto («crateri nascosti di senso nuovo e forte che ci salverebbero dalla logorrea onnipresente dell’abbrutimento mediatico: chi saprà osare nuovi detti per un nuovo deserto?»), che può venire una spinta positiva, ma non per cercare oasi perfette isolate dal mondo. Il modello proposto è quello della comunità trappista di Thibirine, capace di una presenza silenziosa ma efficace in una terra non cristiana, una presenza che contempla anche la possibilità del martirio.
Non a caso uno degli ultimi paragrafi del libro si intitola Ripensare la Chiesa in categoria di visitazione: «È giunto il momento di scambiare l’imposizione universale con l’osmosi e la commensalità che ricreano sinfonicamente il mondo, come nell’incontro tra Maria ed Elisabetta».
Udienza. La nuova preghiera del Papa a San Giuseppe per il 2022: proteggi chi fugge
A conclusione dell’ultima udienza generale del 2021, Francesco dona ai fedeli una nuova preghiera allo sposo di Maria, al quale affida i perseguitati di oggi
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 29 dicembre 2021)
Al termine dell’ultima udienza del 2021, in Aula Paolo VI, papa Francesco dona ai fedeli di tutto il mondo una nuova preghiera a San Giuseppe, uomo giusto e coraggioso, come è stato descritto nella catechesi in cui ha rievocato la fuga dell Sacra Famiglia in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode, per domandarne la protezione per la vita dei migranti, degli abbandonati e dei perseguitati del nostro tempo.
Ecco il testo:
“San Giuseppe, tu che hai sperimentato la sofferenza di chi deve fuggire tu che sei stato costretto a fuggire per salvare la vita alle persone più care, proteggi tutti coloro che fuggono a causa della guerra, dell’odio, della fame. Sostienili nelle loro difficoltà, rafforzali nella speranza e fa’ che incontrino accoglienza e solidarietà. Guida i loro passi e apri i cuori di coloro che possono aiutarli. Amen.”
Un testo breve in cui si condensano le parole della Patris Corde, la lettera con cui il Papa ha aperto, l’8 dicembre 2020, l’Anno dedicato a San Giuseppe, concluso, sempre l’8 dicembre scorso, durante la visita alla Comunità Cenacolo.
Con la preghiera di oggi, papa Francesco chiede che quella allo sposo di Maria non rimanga solo un’orazione personale ma che tutti i fedeli si rivolgano a lui in questo 2022 e mettano nelle sue mani speranze e difficoltà di “coloro che sono vittime di circostanze avverse e si sentono per questo scoraggiati e abbandonati”.
Da qui l’intenzione di preghiera rivolta ai pellegrini polacchi ma valida per tutti i fedeli del mondo, in vista del nuovo anno:
“Per l’intercessione di Maria Santissima Madre di Dio e di San Giuseppe suo sposo preghiamo che l’anno prossimo sia felice per noi e per tutti gli uomini, che cessi la pandemia e possiamo godere della pace nei nostri cuori, nelle nostre famiglie, nelle società e nel mondo”.
FILOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA: LA SANTA EUCARISTIA E LA DIPLOMAZIA DELL’EUCARESTIA.
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
L’esito del Sinodo? Si vedrà da quel che dirà sui monaci, non sui divorziati
Oggi chiude il Sinodo sulla famiglia. Cosa ne uscirà? Ne abbiamo parlato con lo storico Alberto Melloni. «Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci». Ecco perché.
di Sara De Carli (Vita, 24 ottobre 2015)
Perché è necessario ripensare il concetto di matrimonio e di famiglia? E perché lo deve fare proprio la Chiesa dal momento che sulla scena culturale oggi abbiamo comunque già tante altre proposte di unione?
Quando noi oggi parliamo di famiglie e matrimonio, con tutte le varianti e i plurali del caso, non parliamo in realtà di cose tanto diverse. Il matrimonio oggi ha una radice unitaria, quella del matrimonio tridentino, che prevede il consenso tra i due coniugi e due ospiti ingombranti: i fini (essenzialmente il remedium concupiscienzae e il fare figli) e l’autorità. Non si esce da questo modello, tant’è che anche nella discussione più progressista sulla scena, quella sul matrimonio fra persone omosessuali, il punto è sempre ancora l’autorità dello Stato che riconosca il matrimonio e i fini ovvero la questione dei figli e dell’adozione. Se non vogliamo rimanere fermi lì dobbiamo recuperare il fatto che il matrimonio vive nello scarto fondamentale che c’è in ciò che Gesù dice di esso: da un lato ripudia la pena di morte per l’adultera, dall’altro dice “chi sono mia madre e i miei fratelli?”. Gesù annuncia una possibilità per il coniugio e nel tempo stesso ne dice l’irrilevanza. L’annuncio di Gesù è un annuncio che dice che la relazione fra due persone è più grande e al tempo stesso più piccola di quello che ci si può aspettare, che l’amore e il coniugio è infinitamente fragile e infinitamente forte, che nell’amore è possibile vivere già qui l’unione così come la voleva Dio prima dell’inizio del mondo e insieme che la relazione non conta nulla davanti al Regno. Le cose viste da qui assumono tutta un’altra prospettiva.
Partire dalla relazione e dalla fragilità significa contemplare la possibilità del fallimento o la fine dell’amore?
Mi ha colpito che la discussione in preparazione del Sinodo, su divorziati, risposati e omosessuali, ha avuto una declinazione tutta giocata sulla teologia morale, mentre i due veri punti del discorso sono Eucaristia e penitenza. La Chiesa sente di avere l’autorità di unire e di sciogliere ma non quella di comunicare il perdono di Dio a chi ha fatto un’esperienza di matrimonio fallimentare, che non necessariamente è nulla, è solo andata male, come capita nella vita? È un cul-de-sac. Che distinzione è quella fra “coniuge innocente” e “coniuge colpevole”? Se c’è una cosa certa nel matrimonio è questa, che non si possono dividere le responsabilità e le colpe, attribuendole solo a uno o solo all’altro. Le ripeto, è un cul-de-sac se non si riesce a indicare la via della penitenza.
Cioè della misericordia, su cui tanto insiste Papa Francesco?
Sì, tant’è che Papa Francesco, con l’indizione dell’Anno Santo della Misericordia ma anche con il motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus ci dice di non essere disposto ad arretrare: non considera la sua posizione sulla famiglia, il matrimonio e la misericordia come una materia politica, ma una questione teologica.
Il Concilio di Trento diceva che la Santa Eucaristia toglie tutti i delitti, anche quelli più gravi. L’Eucarestia non è il certificato di cittadinanza della Chiesa cattolica o di appartenenza a una statualità ecclesiatica: è una medicina, che guarisce tutto. Non c’è una “proprietà” dell’Eucarestia. Dobbiamo ripartire dal sacramento, dal Vangelo, non dalla valutazione dei peccati.
Se si guarda alla condotta morale e al catalogo dei peccati non si può andare lontani da Alfonso de’ Liguori, secondo cui la penitenza per il peccato più grave deve essere piccolissima perché il percorso interiore che hai fatto per arrivare a confessare quel peccato è stata già la tua penitenza. Ma se lo si prende dalla parte dell’annuncio di Gesù, le cose assumono un’altra prospettiva.
Capisco che questo radicale disancoramento è scandalosissimo, anche oggi: pensi - lo scoprì il Cardinale Martini, da biblista - che nel IV secolo i copisti saltarono il capitolo dell’adultera dal Vangelo perché pensarono che fosse “troppo”.
L’ha sorpesa il motu proprio del Papa di riforma dell’iter per ottenere la nullità del matrimonio? Spiazza tutti i giochi di potere dei fronti interni alla Chiesa, in vista del Sinodo, no?
Con questa mossa Papa Francesco ha bruciato le soluzioni facili. Poteva non pubblicare il motu proprio e darlo al Sinodo, così il Sinodo avrebbe potuto dire “Ecco, abbiamo prodotto questo, siamo arrivati a un bel risultato” e fare bella figura davanti al mondo. Lui ha bruciato le tappe, è come se ai Vescovi dicesse: “Cercate ancora, cercate qualcos’altro”. È un alzare l’asticella, oppure un calcio nel sedere: questo lo dimostreranno i Vescovi, che non sono lì per giudicare una proposta, sono lì per lavorare ed essere giudicati. Da un punto di vista canonistico questa semplificazione è una cosa che il cardinale Pompedda chiedeva già negli Anni 90: in molte circostanze i fedeli hanno la perfetta coscienza della nullità del loro matrimonio e questa coscienza non può essere giuridicamente irrilevante per la Chiesa. Vedo però complicazione tutta italiana, che è quella concordataria: l’annullamento infatti annulla gli effetti civili del matrimonio, quindi restano gli obblighi verso i figli ma cessano quelli verso il coniuge. Si rischia di produrre un’ingiustizia, che colpirebbe soprattutto le donne.
Lei si aspetta una rivoluzione dal Sinodo?
Non lo so. Intanto così è troppo breve, sarà come giocare una partita di calcio in 6 minuti anziché in 90: non vince il migliore, vince chi fa gol prima. Se il Sinodo continuerà a ragionare dal punto di vista della teologia morale le strade sono solo due, il rigorismo o il lassismo. Il Sinodo allora sarà un battibecco morale o un virtuosismo canonistico.
L’alternativa vera è partire dall’Eucaristia - che cura tutto - e dall’annuncio del Regno che illumina tutto - il celibato, il matrimonio, il matrimonio naufragato e quello nullo - e illuminando giudica e perdona. Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci.
Che conseguenze ci sarebbero sul piano sociale, al di fuori del recinto della cattolicità?
Sarebbe tutto diverso, perché se la Chiesa si sgancia dal discorso sui fini e sull’autorità anche la politica avrà un’altra libertà. Oggi se uno è contrario al matrimonio fra omosessuali è per forza omofobo e se è favorevole alle unioni civili è per forza anticattolico. Non ha senso. Prendiamo il patto civile: vogliamo immaginare cosa vuol dire una società in cui una unione civile fallisce senza tutele per la parte debole? O pensiamo che le unioni civili resisteranno più dei matrimoni? No, si squaglieranno tanto quanto i matrimoni, uno su quattro, e in quel momento non conterà nulla il fatto che io abbia giocato l’unica cosa che conta nella vita, il tempo, nella compagnia di un altro? In una società di relazioni squagliate chi avrà la peggio? Le donne, che saranno condannate a una subalternità vecchia come il mondo.
Nel suo libro lei scrive che la Chiesa dovrebbe avere la capacità di dire «che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore». Come si può pensare il “ricominciare” in un modo più pregnante di una banale “seconda chance”?
La cosa più mirabolante dei divorziati risposati e in quanti chiedono la nullità di un matrimonio è proprio il fatto che una persona che ha fatto un’esperienza umanamente straziante, di fallimento, voglia ancora un rapporto sacramentale e organico con la comunità ecclesiale. La sapienza cristiana ha una chiave per questo. I padri del deserto raccontano di un viandante che va al monastero e chiede “ma voi cosa fate?”. “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, rispondono quelli. Questa è la chiave della sapienza cristiana. Il cristianesimo non è solo camminare ma è camminare, cadere, rialzarsi, camminare cadere, rialzarsi, camminare. La chiesa avrebbe molto da dire sul perdono, non solo quando uno ha fatto un’esperienza di rottura che si risolve in una nuova relazione, ma nel momento stesso in cui si consuma la rottura. Il perdono non sta alla fine del matrimonio per farne un altro, ma sta dentro al matrimonio. Il matrimonio non è un “tenere duro” nella speranza che non succeda niente: è sapere che qualcosa succederà, ma che si è capaci di perdonare. La Chiesa deve tornare a dire che il fallimento della vita coniugale deriva dalla carenza di perdono e che quando il matrimonio o l’amore finisce c’è bisogno di un surplus di perdono. In quest’ottica il femminicidio, che spesso nasce dall’incapacità di accettare il “torto” dell’abbandono, è anche un problema pastorale.
FLS
Battezzatǝ in Cristo
Una radicale uguaglianza tra uomini e donne
di Piero Stefani (Il Regno, Attualità, 14/2021, 15/07/2021, pag. 47)
La parete di fondo del salone d’onore del Palazzo dei diamanti a Ferrara è contraddistinta da un affresco (staccato e riportato su tela) di grandi dimensioni. La sua collocazione originaria era il refettorio del convento agostiniano di Sant’Andrea. L’opera, risalente alla terza decade del Cinquecento, è di Benvenuto Tisi da Garofalo; resta ignoto l’autore del complesso programma iconografico. Il contenuto del dipinto è riassunto dall’espressione «Trionfo della Chiesa cristiana sulla Sinagoga ebraica».1 *
Al centro della rappresentazione vi è infatti un crocifisso, dagli estremi della croce escono sei braccia.2 Ogni braccio svolge una funzione specifica; in particolare, uno dei due in alto a destra incorona la Chiesa, mentre uno di quelli a sinistra colpisce al cuore la Sinagoga.
L’opera esprime visivamente una teologia della sostituzione di tipo «economico».3 Essa cioè mira a raffigurare un irrevocabile passaggio di consegne. Una «economia» (quella dell’Antico Testamento) è finita perché ne è cominciata un’altra (quella del Nuovo). Chi resta attaccato alla fase precedente (la Sinagoga) 4 è ormai colpito al cuore.
L’affresco evidenzia anche aspetti volti a mettere in luce il versante imitativo insito nella teologia della sostituzione. Il nuovo è cioè pensato sulla scorta del vecchio. In effetti, l’espressione «Chiesa nuovo Israele» (la più riassuntiva di questa visione teologica) contiene in sé una componente tanto sostitutiva quanto imitativa. In particolare, nell’opera del Garofalo occorre confrontare quanto è raffigurato a sinistra del crocifisso con quello che è alla sua destra. Da un lato vi è un sacrificio compiuto da Aronne, un capro espiatorio e una circoncisione; dall’altro un sacrificio eucaristico, una confessione auricolare e un battesimo; i tre sacramenti sono quindi interpretati a partire da antichi modelli di cui prendono il posto; si tratta di una correlazione che compromette l’autentico senso da attribuire al nuovo.
Il significato del battesimo
Battesimo nuova circoncisione? Se il taglio nella carne è segno di alleanza (cf. Gen 17,9-14), l’acqua non può forse presentarsi come segno della nuova alleanza? Un brano della lettera ai Colossesi (cf. 2,11) parla in effetti della circoncisione di Cristo compiuta attraverso la spogliazione, non attuata da mano d’uomo, del corpo della carne.5 Si tratta evidentemente di una ripresa cristologica del tema della «circoncisione del cuore» presente nel Deuteronomio (10,16 e soprattutto 30,6) e in Geremia (4,4).
Al detto non corrisponde alcun rito specifico. La circoncisione del cuore riguarda tutti gli ebrei, maschi o femmine che siano. Nell’espressione «circoncisione del cuore» è il secondo termine a essere il più qualificante.
In Colossesi non ci si riferisce affatto al battesimo come nuova circoncisione che sostituisce la precedente. In ragione della cogenza anatomica del prepuzio, il rito della circoncisione è di pertinenza solo maschile. La «spogliazione del corpo della carne» in Cristo (vale a dire il diventare nuova creatura) riguarda invece tutti i credenti, maschi o femmine che siano.
Lo stesso vale per il rito del battesimo che, fin dal principio, fu amministrato sia a uomini sia a donne. Basterebbe questo dato per far capire che la circoncisione non è una prefigurazione dell’atto di essere incorporati in Cristo attraverso il battesimo.
Nelle prime comunità dei credenti in Gesù Cristo si è discusso molto - e non di rado aspramente - su vari temi. Gli scritti neotestamentari, in primis l’epistolario paolino, sono lì a testimoniarlo. Vi sono vari e corposi indizi che un argomento fortemente dibattuto fosse quello se battezzare o meno gli incirconcisi.
A tal proposito gli Atti degli apostoli attribuiscono un ruolo addirittura strategico al battesimo del gentile Cornelio compiuto da Pietro (cf. At 10,1-11,18). È quindi rilevante mettere in luce che nella documentazione a noi giunta non sia mai stato sollevato il problema se si dovessero o meno battezzare anche le donne. Rispetto alle tre coppie, collegate in maniera esplicita al battesimo, secondo le quali in Cristo non c’è né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina (cf. Gal 3, 28s), sono attestati dibattiti solo rispetto alla prima.
È fuori discussione che il punto di partenza di ogni indagine stia nel sollevare problemi non scontati. Interrogarsi perché si siano battezzate subito le donne rientra a pieno titolo in quest’ambito. La risposta sarebbe semplice se il battesimo fosse ricondotto a un rito di purificazione. In questo caso è ovvio che esso riguardi direttamente anche le donne. Le leggi bibliche e la prassi giudaica sono lì a confermarlo. Tuttavia una delle regole di base dei rituali di purificazione è la necessità di essere ripetuti; ciò avviene per il semplice motivo che nella vita si ripropongono sempre situazioni foriere di impurità. Di contro, una delle caratteristiche peculiari del battesimo, visto come partecipazione alla morte e risurrezione di Gesù Cristo (cf. Rm 6, 4), è il suo essere amministrato una volta per tutte. Senza trascurare il fatto che, in genere, i riti di purificazione sono compiuti dal soggetto stesso, mentre il battesimo va necessariamente ricevuto da altri.
Le origini del battesimo
I campi di ricerca sulle origini del battesimo sono molteplici: si va dai riti d’iniziazione presenti nel mondo greco-romano, 6 all’apparentemente più calzante precedente costituito dal bagno giudaico dei proseliti; a questo lavacro devono infatti essere sottoposti sia maschi sia femmine di origine gentilica nell’atto di entrare nella comunità d’Israele.
A molti quest’ultimo riferimento appare convincente; tuttavia ciò avviene perché in loro opera, più o meno consapevolmente, un residuo sostitutivo. In altri termini si pensa all’ingresso nella comunità dei credenti in Gesù Cristo sulla scorta dell’entrata a far parte del popolo d’Israele. L’analogia però cade per il fatto che il battesimo riguardò, fin dal principio, anche i credenti ebrei che continuarono a essere e a considerarsi parte del popolo d’Israele (i cosiddetti giudeo-cristiani).
Nella Lettera ai Galati i termini dell’accordo avvenuto a Gerusalemme tra le «colonne» Giacomo, Cefa e Giovanni da un lato e Paolo e Barnaba dall’altro sono che questi ultimi annunciassero al «prepuzio» (se si resta fedeli alla lettera di Gal 2, 7) e i primi andassero verso la circoncisione (Gal 2, 9). La franca, giudaica e maschile qualificazione dei due gruppi rende evidente che il battesimo, che accomuna i chiamati da Israele e dalle genti (cf. Rm 9, 24), non va pensato come sostituzione né della circoncisione, né del bagno rituale riservato ai proseliti.
I Vangeli parlano del battesimo di Giovanni; a suo proposito non si afferma in maniera esplicita che sia stato amministrato solo a maschi; al contrario, la dimensione sua collettiva («accorrevano a lui da tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme»; Mc 1,5) lascia intendere che fossero presenti anche le donne.
Se poi si rimarca il carattere unico di un battesimo amministrato in vista del giudizio compiuto da colui cha ha in mano il ventilabro della definitiva separazione (cf. Mt 3,12), appare convincente che si trattasse di un rito compiuto una volta per tutte. Da un lato, negli scritti neotestamentari quel battesimo viene profondamente distinto da quello compiuto in nome di Gesù (cf. At 19,1-7), mentre, dall’altro, i mandei (popolarmente conosciuti come «cristiani di Giovanni Battista») 7 conoscono forme ripetibili di battesimo purificatore.
In conclusione, dal punto di vista storico, rispetto alla nascita del battesimo compiuto in nome di Gesù Cristo, ci sono ancora molte componenti da chiarire, mentre è indubbio che le donne siano sempre state battezzate (cf. ad es. At 16, 4-5).
Questo secondo e decisivo dato costituisce una realtà posta per sempre a fondamento del sacerdozio universale dei fedeli. Ogni discorso dedicato sia alla partecipazione dell’intera comunità dei credenti alla vita della Chiesa (anche nella sua modalità sinodale) sia ai ministeri aperti (o preclusi) alle donne deve prendere avvio dalla radicale uguaglianza battesimale di tutti e tutte in Cristo.
1 Un quadro di soggetto analogo dello stesso Garofalo è conservato all’Ermitage di San Pietroburgo.
2 Si tratta della cosiddetta croce brachiale.
3 Il «sostituzionismo» economico è quello secondo il quale il piano di Dio nella storia della salvezza prevede il passaggio da Israele, un gruppo delimitato su base etnica, alla Chiesa, un gruppo universale e inclusivo definito su base spirituale. In genere il primo esempio di questa visione è fatto risalire a Melitone di Sardi.
4 Affermare che gli ebrei sono restati all’Antico Testamento è una modalità tipica in cui si declina l’antigiudaismo cristiano.
5 Sempre valide in proposito le acute osservazioni di G.D. Cova, «Considerazioni su alcuni luoghi critici paolini» in E. Poli, P. Stefani (a cura di), Pace sull’Israele di Dio. Contributi per una riflessione sulle relazioni Chiesa-Israele, Quaderni di San Sigismondo 4, Editrice Lo Scarabeo, Bologna 2003, 23-33.
6 La tesi fu sostenuta da E. Stommel, «Christliche Taufriten und antike Badesitten», Jahrbuch für Antike und Christentum (1959) 2, 5-14. Devo l’informazione, al pari di altre a cui si allude nelle righe successive, all’amico Enrico Norelli che qui ringrazio.
7 Cf. E. Lupieri, I mandei. Gli ultimi gnostici, Paideia, Brescia 2010.
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L’affresco staccato del Garofalo nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara
FLS
Tubinga.
Addio a Eberhard Jüngel, maestro della teologia
Il pensatore luterano è scomparso martedì all’età di 86 anni. Al centro della sua opera come pensare e dire Dio nell’epoca che ne ha sentenziato la morte e l’Amore agapico
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, mercoledì 29 settembre 2021)
All’inizio anni ’70 del secolo scorso il teologo di Tubinga Eberhard Jüngel, morto martedì all’età di 86 anni, pubblicava un breve saggio intitolato Tod. Ho sempre pensato che alla morte bisognasse iniziare a pensare da subito e non attendere le fasi finali della vita. Ne fui molto colpito e gli scrissi, anche perché, con padre Xavier Tilliette, stavo scrivendo sull’argomento, in quello che poi sarebbe diventato il mio saggio Mistero della morte come mistero dell’uomo (Dehoniane, 1981). Mi rispose con grande affabilità e dimostrando interesse verso il mio umile lavoro di giovanissimo studente di teologia.
Cosa ho imparato da quel libro? Intanto che «l’essenza della morte è l’irrelazionalità», ossia la solitudine, ma che questa è anche la condizione dell’esistenza autentica. Ma, aggiungeva: «La morte deve essere e deve diventare ciò che l’ha resa Gesù Cristo», ovvero l’attestazione del primato di Dio e non di altri sulla nostra esistenza terrena, perché: «Là dove non possiamo fare nulla, egli è presente per noi». Penso e ne sono profondamente convinto che abbia affrontato la cupa signora di Samarcanda con questo spirito.
L’ho incontrato sia alla Lateranense, nei colloqui teologici ispirati dall’allora rettore Angelo Scola, sia a Tubinga per la presentazione dei risultati della ricerca interconfessionale. Ciò che mi ha stupito nella sua riflessione intorno a Dio mistero del mondo (Queriniana, 1982) è l’attenzione che da parte di un teologo certamente di matrice luterana veniva rivolta alla dimensione cosmico-antropologica della Rivelazione e l’elaborazione della dottrina dell’analogia, ritenuta comunemente monopolio dell’ambito propriamente cattolico-tomista.
Da teologo protestante egli, che pure all’epoca assumeva come interlocutore il pensiero del cattolico Erich Przywara, ha continuato a sostenere una radicale incompatibilità fra analogia entis e analogia fidei, in rapporto alla contrapposizione paolina fra giustizia della legge e giustizia della fede, e ciò in nome di un’assoluta e radicale fedeltà alle originarie intenzioni di Karl Barth, che nella fase dialettica del suo pensiero riteneva l’analogia entis un’invenzione dell’Anticristo. Quest’ultimo ha anche vissuto una radicale conversione a riguardo, approdando all’analogia charitatis, anch’essa analogia entis e analogia fidei nello stesso tempo, in quanto non solo esige di essere pensata nel duplice orizzonte della dimensione cosmico-antropologica e storico-escatologica della Rivelazione. E qui ci viene incontro un ulteriore fondamentale contributo offerto dal pensiero di Jüngel non solo al pensare teologico, ma alla stessa filosofia, in dialogo con Paul Ricoeur: si tratta della metafora come luogo e modalità propria del linguaggio credente. Sicché la “metaforica” diviene per chi scrive la “metafisica dell’Evangelo”.
Questa prospettiva reclama, dietro le spinte sia della critica filosofica all’ontoteologia, sia della rivendicazione teologica della prospettiva credente, l’elaborazione di una “metafisica della carità”, ossia agapica, capace di indicarne l’orizzonte di senso e nella quale la metafora del Padre e del suo rapporto generativo col Figlio e, insieme a Lui, con lo Spirito, possa finalmente assumere la forma dell’“icona verbale”, capace di sconfiggere ogni idolatria e di aiutarci a recuperare l’orizzonte eucologico e poetico originario della metafora, che eccede ogni analogia e ogni ulteriore concettualizzazione, esprimendosi semplicemente nella preghiera che “obbedienti al comando del Salvatore, osiamo” ripetere quotidianamente.
E così torniamo al tema della morte, pensata e vissuta dal teologo, come luogo nel quale sorge un nuovo rapporto con Dio, in quanto Egli stesso, scrive ancora in Morte, «subisce l’irrelazionalità della morte che aliena da Lui gli uomini. Dio si inserisce proprio là dove i rapporti e le relazioni vengono meno». Sicché «dove tutte le relazioni sono state interrotte, solo l’amore ne crea di nuove».
L’irruzione dell’Amore agapico e incondizionato sconfigge la morte e al tempo stessa ri-crea una nuova relazione con Dio e con gli altri, ossia con l’a(A)ltro. E ciò può accadere in quanto «Che Dio sia divenuto uomo implica ch’egli partecipi con l’uomo della miseria della morte», così come accaduto a lui e accadrà a ciascuno di noi.
Le illusioni di una teologia femminista: chi prenderà il posto della vittima?
di Ida Magli [1995]*
Questa, perciò, è la conclusione. Nessuna teologia femminista è possibile perché la struttura sacrificale che è stata posta alla base del cristianesimo da S. Paolo e, da allora, continuamente ribadita nei duemila anni di storia cristiana, pone alle donne un problema insolubile. Una religione sacrificale obbliga, prima di tutto, ad accettare di possedere una vittima, e subito dopo a stabilire chi debba essere il Sacrificatore e chi la Vittima. La vittima fino ad oggi è stata la Donna (le donne). Naturalmente questo significa anche che colui che ha designato la vittima - il Sacrificatore - è anche colui che detiene il Potere.
Come è chiaro, in queste brevi premesse si delinea la struttura di una società, anche se nel mondo moderno si continua a fare finta che esistano società «laiche», distinte dalle religioni. Il Protestantesimo è stato un tentativo implicito di scardinare il sistema del Potere legato al sacrificio della vittima. Ma non era ancora ben chiaro in Lutero che la discussione sul grado di realtà della presenza di Cristo nel «sacrificio della Messa» (si tende di solito a dimenticarsi che la Messa è appunto un «sacrificio») non era una polemica fra teologi e fra diverse interpretazioni delle Sacre Scritture, ma una domanda ben diversa: può sussistere una società senza sacrificio?
Interrogativi, questi, irrisolti, malgrado le diverse versioni del cristianesimo che si sono presentate lungo i secoli, perché in realtà, sotto le vesti della téologia, si discuteva(si discute) delle radici di fondazione della vita di gruppo.
Nel Protestantesimo, in teoria, la necessità della vittima è meno forte che nel Cattolicesimo, in quanto si tiene fermo il punto che il sacrificio vero, quello del Salvatore si è compiuto una volta per sempre; e la messa, di conseguenza, viene interpretata come «memoria», come semplice ricordo del sacrificio di Cristo. Nel Cattolicesimo, invece, con la riaffermata «transustanziazione» del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, il sacrificio è altrettanto reale, si compie nuovamente come sulla Croce.
Di fatto, sia l’una sia l’altra posizione girano intorno al problema irrisolvibile della necessità, o meno, della vittima. Sotto questo aspetto il cattolicesimo è tragicamente realista. Le chiese cattoliche piene di crocifissi, di corpi di martiri, di scene sanguinanti, lo dicono ad alta voce: vittime, vittime, vittime.
Nel protestantesimo, invece, esistono contraddizioni e ambiguità che, forse, sono ancor più significative. Prima di tutto, la rivendicata continuità con l’Antico Testamento, ossia con la cultura sacrificale per eccellenza.
Il cristianesimo originario, invece, e poi il cattolicesimo, almeno fino a ieri, hanno messo l’accento sulla rottura con l’ebraismo, e benché la polemica violentissima sul non riconoscimento dell’avvento del Salvatore e sull’uccisione del Figlio di Dio da parte degli Ebrei si sia svolta in termini teologici (e nell’antisemitismo concreto), in realtà era dettata dal trauma non cancellabile dell’assoluta novità portata dai Vangeli. Di fatto, però, sia l’una che l’altra Chiesa si basano fondamentalmente su S. Paolo e non su Gesù, cosa che riporta il problema alle sue radici: l’affermazione di Paolo che ogni cristiano è e deve essere, alter Christus e che «senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Lettera agli Ebrei, 9, 22). Dunque: la vittima è necessaria.
Se le cose stanno così, nulla di ciò di cui discutono le femministe ha un senso. La richiesta del sacerdozio per le donne, per esempio, non trova che giustificazioni superficiali di parità con gli uomini, se prima non si dice cosa si vuole fare di una religione sacrificale, e se si vuole, oppure no, conservare un’organizzazione di Potere del Sacrificatore. Chiedere il sacerdozio, infatti, significa questo: diventare Sacrificatori.
Nel protestantesimo, il sacerdozio è meno «forte» di quello cattolico a causa della mancanza reale del Sacrifìcio della vittima, ed è per questo che nelle Chiese riformate è stata più facile l’equiparazione delle donne nell’ufficio di Pastore. Ma il problema si sposta di poco. In realtà (e se ne hanno abbondanti prove nella storia del Calvinismo, del Giansenismo, del Puritanesimo, ecc.) le confessioni riformate sono più rigide e coercitive del cattolicesimo proprio perché, mancando un Potere forte che si assume la «rappresentanza» del gruppo davanti a Dio, e la valvola di sicurezza del «capro espiatorio», ossia di una vittima delegata al posto di tutti, l’ansia del singolo fedele, affidato soltanto a se stesso nei confronti della giustizia divina, aumenta a dismisura.
Dunque, le donne hanno di fronte a sé un problema irrisolvibile, se continuano a muoversi nelle religioni codificate sperando che siano possibili piccoli o grandi aggiustamenti, mirati in forma analogica sulle strutture maschili già esistenti. Dio è anche Madre, oltre che Padre? Sostituire alla grammatica maschile delle Sacre Scritture e della liturgia una corrispondente grammatica femminile? Oppure, inventare una grammatica «neutra»? Il Figlio è anche Figlia? Gesù non aveva sesso? Celebrare la Messa col miele al posto del vino? Tutte ipotesi, queste, già avanzate, con l’entusiasmo e con la spavalda sicurezza tipica del femminismo, da teologhe soprattutto statunitensi. Ma, come è evidente, prive di senso. Giochi da bambine.
È vero che i teologi hanno continuamente rielaborato, sollecitati dai cambiamenti culturali e sociali che si verificano nella storia, le interpretazioni delle Sacre Scritture, con una disinvoltura stupefacente. Ma oggi si è di fronte ad una trasformazione culturale che non può essere paragonata a nessuna di quelle, sia pure grandissime, che si sono già verificate nell’itinerario storico dell’Occidente. Né l’abolizione della schiavitù, né l’invenzione del metodo scientifico, né l’accelerazione tecnologica, né l’instaurarsi della democrazia hanno messo in luce, travolgendole, le radici della fondazione della cultura e dell’assetto sociale. È questo, invece, che sta avvenendo, mano a mano che saltano i punti fermi della collocazione delle donne. Se la prima organizzazione dei gruppi umani, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, è avvenuta attraverso 1o scambio matrimoniale (e su questo non ci sono dubbi da parte di nessun studioso, né biologo, né antropologo, né archeologo, né etnologo, né storico); se, come afferma Lévi-Strauss, la società è nata con la «circolazione» delle donne, è questa radice che oggi, almeno in Occidente, anche in base a quel primo seme gettato da Gesù in questa direzione, sta per essere strappata, divelta. Le donne si rifiutano di «circolare». La messa in crisi dello scambio matrimoniale è molto di più che questo: è messa in crisi (come la storia qui appena tracciata dovrebbe dimostrare) del ruolo assegnato alla «femminilità», prima ancora che alle donne. Ed è sulla «femminilità» che si gioca il concetto di vittima.
Si ritorna, perciò, al problema di partenza: è necessaria la vittima per la sopravvivenza di un gruppo? E, se è necessaria, c’è qualcuno che voglia prendere il posto della vittima che le donne stanno per lasciare?
* Cfr. Ida Magli, Storia laica delle donne religiose, Longanesi, Milano 1995, pp. 312-315.
CONTRO IL "PADRE NOSTRO", MA CON IL "PADRE NOSTRO": SENZA LA MESSA A FUOCO DELL’ EDIPO COMPLETO (FREUD) NON SI ESCE DALLA TRAPPOLA DEL MENTITORE STORICAMENTE ISTITUZIONALIZZATA ... *
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l’iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 23.02.2016)
Figura controversa e complessa del panorama italiano, l’antropologa e scrittrice Ida Magli è scomparsa a Roma all’età di 91 anni. Per chi ne abbia letto i numerosi testi, in particolare quelli pubblicati tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, dedicati ad argomenti liminari al femminismo - è difficile individuare la ragione che, negli ultimi venti anni, l’ha spinta verso un passo reazionario. Sarebbe tuttavia riduttivo collocarla alla svelta nella deriva antieuropeista che in tempi recenti ha abbracciato anche se, in tutta onestà, potrebbe essere questo uno dei motivi che l’ha resa poco attraente soprattutto alle generazioni di giovani studiose che, con i testi, si confrontano. Ma per capirne il quadro completo e l’eredità che ha lasciato a chi si misura con i senso parlante dei testi, bisogna fare un necessario passo indietro, ne sono convinte in molte che di Magli hanno ascoltato quelle mirabili lezioni di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma fino al suo pensionamento nel 1988.
Tra quelle allieve spicca Loredana Lipperini che, quando la notizia della scomparsa della professoressa Magli è stata diffusa, ha affidato ai social network parole tanto affettuose quanto colme di gratitudine per averle insegnato una curvatura dello sguardo ineguagliabile. Ed è forse su questo che ci si potrebbe soffermare, non per espungere i testi dal portato biografico ma per evitare di renderla una intellettuale rubricata semplicisticamente e rapita dalle destre; perché cioè le vada riconosciuto ciò che ha fatto, ovvero individuare alcuni elementi essenziali e spesso scomodi al dibattito antropologico e femminista contemporaneo e che poi hanno retto la parte centrale della sua esistenza.
In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso». Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».
Addio al Padre *
"[...] Abbiamo ricostruito questo percorso per mostrare chiaramente come oggi non vi sia più spazio non soltanto per il cristianesimo, ma per tutti i valori che in questi duemila anni hanno concorso alla formazione e allo sviluppo della civiltà europea. Per quanto forse i credenti cristiani non se ne rendano del tutto conto, non può sussistere una religione fondata su un Dio «Padre» laddove la figura del padre ha perso qualsiasi rilevanza e autorità. Come abbiamo ormai più volte detto, le religioni sono specchio e proiezione di ciò che pensano e che desiderano i popoli. L’immagine di un Dio-Padre è ormai priva di senso.
Non può sussistere una religione fondata sull’importanza del «Figlio» laddove la procreazione è considerata un fatto personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai numerosissimi aborti confermando così che vuole la propria morte. D’altra parte il figlio è ormai inutile per il padre in quanto non gli serve più a garantirne la sopravvivenza. Non serve né per l’al di là né per il di qua. Le dinastie, le successioni, le eredità sono state quasi del tutto abolite, oppure vengono significativamente caricate di tasse. Nessun genitore conta sui figli per la propria vecchiaia. Alla vita nell’aldilà è ormai quasi impossibile credere e di fatto gli uomini in Europa preferiscono non pensarci.
La dichiarazione di «morte cerebrale», i trapianti d’organi hanno tolto concretamente e simbolicamente ogni trascendenza alla morte, di cui il cadavere, fino a questa orrida decisione, sembrava racchiudere il mistero; per non parlare di ciò che il corpo era (o meglio «è», visto che il dogma non è stato abolito) nella teologia cristiana con la fede nella resurrezione dei corpi, inclusa nel Credo, alla quale però nessuno evidentemente pensa più.
Sembra quasi impossibile che vi sia stato un tempo (oggi appare lontanissimo ma in realtà si tratta soltanto di pochi anni fa) in cui gli uomini si toglievano il cappello davanti a un morto a onorarne, appunto, la sacralità. Tutto questo è stato voluto dallo Stato e dalla Chiesa in modo ossessivo, come se la realizzazione dei trapianti d’organi costituisse il centro del loro potere e dei loro desideri.
Ma il trapianto d’organi significa l’annullamento delle specifiche individualità (oltre che il consenso e la legittimazione dell’istinto sempre presente nell’uomo di sopravvivere uccidendo, mangiando l’altro); significa avvicinarsi concretamente a quella nuova forma di uguaglianza che, invece di affermare l’esistenza del singolo, afferma la sua non-forma, la sua mancanza d’identità, la sua integrazione nell’identico. Passaggio indispensabile per giungere ad annullare la differenza posta dalla natura con il Dna maschile e femminile, la differenza di genere, e affermare la «normalità» dell’omosessualità.
Non si può trarne che una sola conclusione: hanno voluto che l’omosessualità vincesse su tutto e su tutti. Ma il primato dell’omosessualità non sarebbe stato proponibile fin quando fosse stato in vigore non soltanto il primato del «padre», dei legami di parentela, dei legami di sangue, ma anche e soprattutto l’assoluta «differenza» del genere maschile e femminile, ossia la differenza per antonomasia. L’interscambiabilità dei corpi l’ha annientata. Dunque: nessun «Genere», nessuna «Paternità», nessun «Figlio», nessuna «Famiglia», nessuna «Società», nessun «Futuro».
Naturalmente questo significa che si vuole la fine non soltanto del cristianesimo, ma di tutta la civiltà e della società europea, la fine dei «bianchi». L’omosessualità è strumentale soltanto a questa fine e il suo primato sparirà insieme ai bianchi".
* Cfr. Ida Magli Dopo l’Occidente, Rizzoli, Milano, 2012.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE "GIUSEPPE" E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PRE-EVANGELICO PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
FLS
Come San Giuseppe /1.
«Abbiamo avuto quasi 80 figli. La paternità? Dare un legame»
L’incontro con figure di padri putativi, esempi di accoglienza e responsabilità
di Lucia Bellaspiga (Avvenire, sabato 31 luglio 2021)
La paternità ha un preciso inizio, che non corrisponde con la nascita di un figlio. «La paternità comincia nel momento stesso in cui abbiamo scelto di essere marito e moglie. Da credenti, quello che abbiamo chiesto nel giorno in cui ci siamo sposati è di avere la grazia di vivere una paternità, e quindi anche una maternità, aperta alle persone che una famiglia non ce l’hanno». Così nella casa di Giancarlo Violetto, 57 anni, marito di Marina, di "persone" ne sono passate quasi 80 dal 1992, l’anno in cui «davanti al prete il sì non lo abbiamo detto uno all’altra, ma a una terza persona che si chiama Cristo. Questa è stata la scelta che abbiamo fatto insieme. Da cui poi sono venute tutte le altre».
Si respira aria di grande normalità in casa Violetto, campagna veneta a due passi da Cittadella, una delle case-famiglia della "Comunità Papa Giovanni XXIII" fondata da don Oreste Benzi. Si studia e si lavora, si ride e si fatica, si fanno torte e si litiga esattamente come in ogni famiglia. Solo che le stanze sono tante e nel via vai di figli è sempre difficile, per chi viene da fuori, capire quale è "di pancia" e quale "di cuore", che nell’alfabeto familiare significa nato da loro o arrivato in affido. Così nel 1993, a un anno dal matrimonio, è nato Flavio, il loro primogenito, ma subito dopo «hanno cominciato ad arrivare gli altri figli», racconta Giancarlo, di professione giardiniere. Già la tempistica non è scontata, «ma da subito avevamo impostato la nostra famiglia in tal senso: "prima ci sono le persone, poi tutto il resto". Questo si traduce in scelte concrete, Marina è rimasta a casa dal lavoro, poi invece l’ho fatto io quando sono arrivati figli che richiedevano assistenza 24 ore e la notte la reggevo meglio io».
Soprattutto è arrivata Mariangela, 14 anni fa, una bimba abortita al quinto mese di gravidanza ma poi sopravvissuta all’aborto e nuovamente rifiutata dai genitori biologici («non se la sentivano di accoglierla», detto nella lingua mai giudicante dei Violetto). È stata lei a chiedere un passo in più alla paternità di Giancarlo: «Mariangela è stata il nostro lockdown», sorride il padre, «non si va in cima agli alberi con la motosega dopo notti insonni, così sono rimasto a casa. Altra scelta non scontata, certo, ma che ha seguìto la scelta di fondo detta sopra: la paternità responsabile pretende che tu metta prima le persone e poi tutto il resto». Un lockdown duro, quello imposto da Mariangela, perché «ti costringe a fermarti, stando di fronte a te stesso. L’essere umano corre, corre per non pensare alla vita e alle paure apparentemente insormontabili, ma i figli come Mariangela ti bloccano al loro capezzale e allora devi fare verità dentro di te. Questi piccoli non ti danno soluzioni, pur senza parlare ti pongono le giuste domande, funziona come con la fede, che non dà soluzione altrimenti non sarebbe fede».
Che sia un’accoglienza "estrema" come quella di Mariangela (morta nel 2011 dopo 5 anni di zero parole e grandi sorrisi) o di Maria (salita al Cielo cinque mesi fa dopo 7 anni anche lei di silenzi e abbracci), o che invece sia un affido più "leggero", la paternità aperta all’accoglienza richiede una decisione complicata, essere disposto a cambiare. «Ogni persona che arriva in famiglia ti richiede un cambiamento, anche quando sono figli tuoi», precisa Giancarlo, «e questo cambiamento sta alla base di qualcosa che si chiama conversione. Non è un moto che parte da noi, altrimenti non riusciremmo a scalzare le sicurezze che ci siamo costruiti attorno, il cambiamento arriva da loro. Per me è stata una grazia essere padre di tante persone, proprio a cominciare da quelle che il mondo ritiene scarti, che sono lì e non ti parlano, ma ti costringono a starci e a meditare sul senso della vita». Anche socialmente non è semplice, specie nel mondo attuale, «c’è la reputazione», sorride ancora Violetto, e allora «quando la maestra a scuola ha chiesto a Matteo che mestiere faccio e lui ha risposto "il padre di casa-famiglia", era un po’ come dire disoccupato, di fronte al mondo non è un lavoro. Così ora sui social mi diverto e scrivo casalingo».
Un ulteriore passaggio arduo nella "paternità responsabile", anche perché - e rispetto al resto è un dettaglio - «noi della Comunità non siamo retribuiti, non mettiamo via i contributi e non ci sarà garantita una pensione. Non reggerebbe il bilancio della Papa Giovanni se i fondi andassero a noi anziché a migliaia di persone che accogliamo». E allora? «E allora esiste una cosa che chiamiamo Provvidenza e alla quale pensiamo di affidarci, oltre al fatto che se siamo Comunità non saremo mai soli». Già, ma come la vivono i suoi figli naturali (dopo Flavio sono nati Sofia e Matteo) una paternità così diversa? È questo il modello che propone loro? «Certo, altrimenti resta solo il famoso esempio che un padre deve dare. L’esempio non basta, molto prima occorre dare una motivazione per la quale valga la pena vivere da onesti, poi la scelta sarà loro». L’esempio del tipo «guarda tuo padre com’è bravo, devi fare come lui» non rende se dietro non c’è molto di più, perché - analizza realisticamente Giancarlo - il mondo dimostra che il giusto resta ai margini e il furbo ha successo. «Se non do a mio figlio niente cui aggrapparsi e dire "sì, nonostante tutto vale la pena", non funziona. Credo che il ruolo paterno vada proprio in questa direzione».
In casa-famiglia sono arrivati neonati e anziani, si chiama accoglienza di multiutenza. La persona più piccola è arrivata direttamente dalle braccia della madre che l’aveva appena partorita, la più anziana aveva 96 anni ed è stata la nonna di famiglia. Orfani o abbandonati, sfruttati o scartati, ragazzine madri in fuga con il loro bambino, «ciò che chiedono è sempre accudimento. Questo ti dicono, anche senza parlare: io sto male perché non appartengo a nessuno». Paternità, dunque, è anche attribuire un’appartenenza, un legame senza il quale nessun adolescente fa lo scatto per realizzare la propria persona. È proprio questo che distingue l’istituto dalla casa-famiglia, «la differenza tra addestramento e attaccamento, che è relazione profonda». Tra mille fallimenti, difetti e difficoltà, sia chiaro: qui non ci sono santi ma persone che faticano. «Questi figli di solito appena arrivano sono bravissimi, splendidi - precisa - ma stanno recitando. Dopo un mese le dinamiche familiari tirano giù tutte le maschere ed è allora che ti mettono alla prova, e questo è un loro diritto: vuoi farmi da padre?, allora vediamo se sei in grado».
Ma in questa lunga esperienza, i ruoli paterno e materno sono interscambiabili o hanno una loro specificità? «La paternità e la maternità esistono in entrambe le figure», ovvero una madre porta in sé anche una parte di paternità e idem fa un padre, «detto questo, però, c’è una diversità che è palese e una complementarietà che è necessaria». L’equivoco corrente è che la paternità sia una maternità col pugno di ferro, «niente di più sbagliato - commenta - semmai la maternità (non solo della madre) sviluppa protezione, la paternità (non solo del padre) tende alla crescita... che poi è il dilemma dell’assenza del padre nella società di oggi». Automatico chiedersi se la sua paternità sia diversa tra i tre figli naturali e quelli accolti. «Io posso dire che tutti quelli passati di qua li ho sentiti miei figli esattamente come gli altri tre, ma questo non è automatico, è frutto di un duro lavoro. Quando arrivano non sai chi sono, non li conosci... come del resto avviene con quelli che ti nascono: quante volte ci vogliono anni per capirsi?». Il caso più duro è stato quello di un ragazzino arrivato a 10 anni e con una grave patologia psichiatrica, «ci ha messi molto alla prova e io credo di averlo sentito figlio una decina di anni dopo: eravamo a Messa e al segno della pace mi ha guardato negli occhi, per uno come lui non è un gesto da poco. Essere padre significa precisamente entrare in relazione, che siano tuoi o no».
Pare un paradosso feroce, ma con tanti figli accolti malati gravi, il loro primogenito Flavio, bello e sano, tre anni fa è morto a causa di un drammatico incidente volando in parapendio. Ha vacillato la sua paternità quel giorno? Ha urlato contro il cielo? «Anzi, si è rafforzata - risponde Giancarlo accanto a Marina - sono i momenti in cui davanti agli altri figli se sei padre devi farti avanti, e allora fai appello a qualcosa che va oltre l’umano, quel qualcosa cui ti sei sempre aggrappato per dire ne vale la pena... Cercare la comunione con l’altro Padre è stato inevitabile».
(1-continua)
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA (2008) "NON CLASSIFICATA"!!!
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità femminile *
Le cellule riproduttive femminili (ovociti), a differenza di quelle maschili (spermatozoi), vengono prodotte prima della nascita, durante lo sviluppo degli organi genitali.
Nel corso della vita questa "riserva" si riduce poi progressivamente mensilmente fino ad esaurirsi del tutto (menopausa). Ogni donna nasce con 1-2 milioni di follicoli e alla pubertà ne rimangono 500.000. Solo 500 di questi escono dall’ovaio e gli altri si distruggono.
Il sistema riproduttivo femminile dipende dal ciclico reclutamento follicolare, dalla selezione di un unico follicolo dominante, dall’ovulazione e dalla formazione del corpo luteo. Se la fecondazione e di conseguenza l’impianto non avvengono, il corpo luteo scompare, l’endometrio si sfalda e compare la mestruazione.
Dalla pubertà alla menopausa, circa ogni mese, quindi, il corpo femminile si prepara ad un’eventuale gravidanza. Se questa non avviene, compare una nuova mestruazione. Il ciclo mestruale ha una durata variabile tra i 21 e i 35 giorni. Mediamente è di 28 giorni, ma nell’adolescente può essere spesso irregolare.
Dal secondo giorno dall’inizio delle mestruazioni, comincia la cosiddetta fase follicolare: i follicoli che portano a maturazione la cellula uovo si attivano nuovamente, sia per far maturare l’ovocita sia per provvedere alla sintesi degli ormoni (estrogeni e progesterone) necessari per ricostituire l’endometrio.
Intorno al 14° giorno avviene invece l’ovulazione, momento in cui possono avvenire la fecondazione e il concepimento. Il periodo fertile dura circa due giorni (durata in vita della cellula uovo).
Gli spermatozoi sopravvivono invece nel corpo femminile molto di più, anche fino a 4 giorni, per cui un rapporto sessuale avvenuto anche 3 o 4 giorni prima dell’ovulazione può portare alla fecondazione. Per tutto il periodo fertile, quindi, la fecondazione è possibile. Dopo l’uscita della cellula uovo il follicolo si trasforma nel corpo luteo, che produce progesterone, per predisporre l’utero a ricevere l’impianto della cellula uovo fecondata.
Questa fase del ciclo si chiama fase luteale o secretiva. In caso di mancata fecondazione l’uovo viene espulso con la mestruazione. La perfetta sincronia della fisiologia femminile è peraltro continuamente minacciata da insulti o da difetti ad esempio patologie endocrine ovariche od extraovariche che possono ad esempio inficiare l’ovulazione rendendo pertanto la donna infertile o subfertile.
Con l’aumentare dell’età, nella donna si verifica non solo una progressiva riduzione del patrimonio follicolare ma anche un aumento percentuale di ovociti con alterazioni cromosomiche, che mensilmente vengono messi a disposizione dell’ovaio stesso.
Anche l’utero subisce un deterioramento funzionale che riduce la capacità dell’endometrio di interagire con l’embrione e favorisce la possibilità di aborti spontanei; inoltre si registra un incremento dell’incidenza di patologie quali endometriosi e fibromi che ulteriormente riducono la fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità maschile
Lo spermatozoo è la cellula riproduttrice dell’uomo, fondamentale per la sua fertilità, in quanto incontrandosi con l’ovocita femminile da origine all’embrione.
La spermatogenesi e la produzione di testosterone sono regolati da un sistema integrato di controllo. L’ipotalamo, attraverso la secrezione pulsatile dell’ormone rilasciante le gonadotropine (GnRH), controlla la secrezione ipofisaria dell’ormone follicolo-stimolante (FSH) e dell’ormone luteinizzante (LH) i quali a loro volta stimolano il testicolo a produrre rispettivamente gli spermatozoi e il testosterone.
Il testicolo è costituito da due compartimenti distinti, anche per funzioni: quello tubulare dove si trovano le cellule di Sertoli e gli spermatozoi in diversi stadi di maturazione, e quello interstiziale con le cellule di Leydig deputate alla produzione di testosterone. La spermatogenesi è un processo complesso che culmina con la produzione degli spermatozoi maturi e ha una durata di circa 74 giorni.
Le cellule di Sertoli sono importanti per il sostentamento delle cellule della linea seminale e per la loro normale maturazione.
Gli spermatozoi da stadi più immaturi progrediscono dalla base al centro del tubulo seminifero (lume) secondo i diversi stadi di maturazione (spermatogonio, spermatocita, spermatide e spermatozoo).
Gli spermatozoi lasciano i testicoli attraverso un sistema di dotti:
e raggiungono le vescichette seminali che, con le loro caratteristiche secrezioni, insieme alla prostata, contribuiscono alla formazione di gran parte del volume finale dell’eiaculato e fungono anche da contenitore tra un’eiaculazione e la successiva. Chiaramente una qualsiasi disfunzione o blocco della spermatogenesi o danno di queste strutture può comportare alterazioni della fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva....
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
VIVA L’ITALIA!!! Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
L’architrave del ddl Zan.
L’imbroglio del transumano base dell’«identità di genere»
La cancellazione della differenza sessuale consegna al mercato un individuo perfettamente neutro, soggetto fluido, precario assoluto. Perfino nel suo corpo L’imbroglio del transumano base dell’«identità di genere»
di Marina Terragni (Avvenire, giovedì 27 maggio 2021)
L’allattamento maschile è una pratica già piuttosto diffusa nel mondo occidentale, in particolare negli Stati Uniti: atto politico-performativo e/o feticismo autoginefilo, senza troppe differenze. Indurre la produzione di latte in un maschio non è così difficile, basta l’assunzione off label e in dosi adeguate di un gastroprotettore piuttosto comune. Esiste anche la chirurgia di ’nullificazione del sesso’ per persone non-binary: interventi demolitivi che rimuovono del tutto i genitali senza nemmeno abbozzare quelli del sesso opposto, conferendo al pube l’aspetto di quello di una bambola. Venduta - a tariffe ragguardevoli - come libertà, ricorda l’orrore delle mutilazioni genitali. Ecco il transumanesimo. Meglio distrarsi dai dettagli, per quanto stupefacenti, e osservare il quadro d’insieme.
L’orizzonte transumano sembra orientare sempre di più la proposta progressista: il vuoto del fine-guerra fredda si è progressivamente colmato di un dirittismo individualistico ossessivo. Modello di ogni libertà diventa potersi resettare in radice, nel corpo, manipolando e riconfigurando i propri caratteri sessuali primari e secondari o avventurandosi in percorsi di ibridazione almeno simbolica con le altre specie, e perfino con il non-vivente. Ma le geografie politiche otto-novecentesche - destra e sinistra - non danno adeguatamente conto del quadro. Prendiamo la Spagna. Il Psoe, maggiore partito della sinistra, si oppone alla libera identità di genere, o self-id, ma non al commercio di ovociti (quel Paese è il più grande fornitore d’Europa). Non è raro vedere nelle università grandi cartelli pubblicitari per cooptare ragazze che non riescono a pagarsi gli studi. D’altro canto l’utero in affitto è sempre stato un cavallo di battaglia di Ciudadanos, formazione di destra.
Sui temi transumani la faglia destra-sinistra si muove a zig zag. E non basta nemmeno, come per altri temi sensibili, parlare di trasversalità. La bandiera, certo, è tenuta più alta da una sinistra che a quanto pare non trova altri contenuti per significare la propria vocazione al progresso, e cavalca il transumano come un destino ineluttabile: si veda l’ultima, iconica cover dell’Espresso con il transman incinta. Il popolo di sinistra spesso non capisce ma si adegua, autocensurandosi ed evitando la rogna del libero pensiero ’ uncorrect’. Dal canto suo, la destra tende ad arroccarsi su posizioni esasperatamente conservatrici che si spingono fino al rifiuto della ’semplice’ omosessualità. L’alternativa al progetto transumano non può venire di qui. E da dove, allora? Il fatto è che questo progetto è in larga parte business, il che complica ulteriormente il quadro. Qualcuno ha calcolato che ogni bambina/o transitato verso l’altro sesso può fruttare a Big Pharma una media di 1 milione e 300mila dollari in terapie ormonali a vita e per inevitabili patologie iatrogene (esclusi interventi chirurgici ed eventuali complicazioni). Non è strano che la propaganda dei transattivisti punti alle scuole per introdurre prima possibile la libera scelta del genere e la cosiddetta ’carriera alias’, ovvero la possibilità di essere riconosciuti e chiamati con nomi e pronomi corrispondenti al genere di elezione, diversi da quelli anagrafici. In Canada, paradiso del transumanesimo, nelle scuole è stato ingaggiato Gegi, magico unicorno che non solo aiuta i bambini a scegliere ma insegna anche, da amico del cuore, come difendersi da genitori impiccioni che provino a mettere i bastoni fra le ruote.
I profitti di Big Pharma però sono il meno. La questione del business transumano è molto più complessa e nessuno l’ha spiegata meglio del filosofo Ivan Illich, padre dell’ecologismo contemporaneo, che nel 1984 in Gender aveva profetizzato il «sogno futurista di una società moderna in cui le persone sono plastiche, e le loro scelte di diventare dentisti, maschi, protestanti o manipolatori di geni meritano tutte il medesimo rispetto». Illich lo chiama «imbroglio unisex » e vede l’annullamento della differenza sessuale come «un cambiamento della condizione umana che non ha precedenti » e che si rende necessario perché la differenza sessuale, «segno caratteristico della civiltà tribale e contadina», è ritenuta un «ostacolo allo sviluppo». «La scomparsa del genere - aggiunge - è la condizione decisiva dell’ascesa del capitalismo e di un modo di vivere che dipende da merci prodotte industrialmente»: se all’economia di sussistenza corrispondono differenza sessuale e relazioni, il mercato chiede l’individuo neutro. Illich gli dà il nome di neutrum oeconomicum, «soggetto su cui si basa la teoria economica ». Un soggetto fluido, flessibile, fungibile. Un precario assoluto, perfino nel corpo, soggetto-oggetto perfetto per il neocapitalismo liberale, in una logica del profitto senza regole, limiti o contrappesi.
Tradizionalmente la difesa dei capitalisti e del business sarebbe un lavoro della destra, non della sinistra. Qui in apparenza sta capitando il contrario. Ma le cose sono ancora più complicate. In effetti i più grandi capitalisti che la storia umana abbia mai conosciuto, capi delle aziende hi-tech della Silicon Valley (Google, Amazon, Facebook...) - i cosiddetti capitalisti della sorveglianza, come li chiama Shoshana Zuboff -, ostentano un look decisamente progressista. Posizionandosi dalla parte giusta della Storia, Mark Zuckenberg alla fine ha bannato Donald Trump. Eppure non aveva disdegnato di farci affari, vedi lo scandalo Cambridge Analytica. Business is business. Il diritto di fare profitti multimiliardari sfruttando i nostri dati sensibili ( big data) fa leva su un perfetto indifferentismo politico rivestito di progressismo. In realtà destra, sinistra, perfino la democrazia non contano più nulla se provano a ostacolare il profittevole lavoro degli algoritmi. I nostri avatar social somigliano ai nuovi avatar di carne post-umani, corpi ’liberamente’ smontati e riassemblati in identità alias.
Nel suo Il capitalismo della sorveglianzaZuboff chiarisce che il vero obiettivo delle aziende della Valley non è tanto scrutare i nostri comportamenti quanto piuttosto influenzarli e modificarli per massimizzare i profitti. A quanto pare lavorare sui comportamenti non basta più: anche i nostri corpi, come profetizzato da Illich, vanno modificati per le ragioni del profitto. I social ci fanno sentire liberi, e anche la guerra contro il corpo nella nuova dimensione onlife - definizione del filosofo della comunicazione Luciano Floridi -, ambiente delle nuove generazioni, viene venduta come libertà.
Il transumanesimo si presenta come una cosa nuova: non lo è affatto. Appare come futuro ma è solo l’ultima - forse l’estrema - figura fenomenologica e glitterata di un passato brutale e arcaico. L’uomo che allatta è la perfetta rappresentazione di quel moto invidioso delle origini che ha dato vita all’oppressione patriarcale. La negazione della realtà del corpo - questa volta in direzione di un impalpabile percepito, l’«identità di genere» - è una mossa antica e reiterata nei millenni. È rinascere dalla testa maschile purificati dalla materia femminile. La stessa storia di sempre.
Ma il transumanesimo non è affatto un destino ineluttabile. L’alternativa è lì dove è sempre stata, se la si fosse voluta vedere. È ricominciare dal punto in cui si è generato l’errore capitale: l’aver fatto della donna l’Altro, l’eccentrico e l’abietto, per fare largo a un unico Soggetto sessuato al maschile. L’alternativa è ripartire da quella relazione materna, aggredita ovunque, che oggi costituisce l’estremo punto di resistenza. Se il soggetto del transumanesimo è l’individuo assoluto irto di diritti, quello del neoumanesimo è più donna che uomo. Meglio: è l’inscindibile due rappresentato dalla relazione materna, l’atomo non divisibile di una nuova possibile civiltà umana a radice femminile.
Ci si deve porre in ascolto autentico delle donne, non limitarsi alla graziosa concessione di diritti. Si deve guardare quello che stanno facendo in difesa delle bambine e dei bambini, figli reali e simbolici, di loro stesse, della continuità della vita. Si deve saper riconoscere che la posizione della donna non è ai margini, dove è stata sospinta. Che le donne non sono una minoranza - come la definisce strabicamente il ddl Zan -, bisognosa di tutela e di politiche inclusive. La natura ha collocato la donna al centro insieme al figlio. Ne ha fatto la madre del mondo. Sono capaci gli uomini di accettare questa centralità e questa autorità femminile, che è al contempo cura, e di mettersi in ascolto autentico delle donne? Perché altra strada non c’è.
La prima radice
Il castigo ha sostituito il destino, ma le donne erano altro. Petrignani ri-legge Bompiani
di Sandra Petrignani (Il Foglio, 22 nov 2019)
Suggerisco di cominciare a leggere L’altra metà di Dio (Feltrinelli) dalla fine. Nel senso: suggerisco di leggere - per cominciare - l’ultimo capitolo dal titolo “Ri-epilogo” perché, appunto, è un epilogo ed è un riepilogo, che aiuterà a orientarsi nelle intenzioni dell’autrice, Ginevra Bompiani, e nelle tante storie che ri-legge e ri-racconta (quanti “ri”, giusti e necessari). Io l’ho letto alla fine, con enorme commozione, e poi ho anch’io riavvolto e ri-capito la messe delle storie.
Dice Ginevra: “Questo libro nasce dall’ansia”, non per le cose sue personali, ma per quel che ci tocca vivere nell’epoca in cui viviamo (e non solo noi donne). Spiega che ha diviso il testo in tre parti (Distruzione. Punizione. Mistificazione). Che ha voluto capire da dove è nata la “corsa suicida” che ci ha portato alla catastrofe del pianeta. Che il castigo ha sostituito il destino. Che l’Occidente (è sotto gli occhi di tutti) ha “definitivamente confuso la verità con la menzogna”.
Perché siamo a questo punto, è la grande domanda. Perché l’umanità si è data una storia così violenta, distruttiva e autodistruttiva? Avrebbe potuto andare diversamente? Volendo provare a rispondere, l’autrice si mette in marcia, e parte da lontano, da molto lontano, dalla silenziosa preistoria. Dall’inizio dei tempi, dal regno delle madri o matriarcato che dir si voglia, quando non c’erano ancora storie da leggere, ma solo da ascoltare, e poi dall’inizio delle storie scritte, almeno quelle che sono arrivate fino a noi.
Ma siccome “anche le storie hanno il loro inconscio”, Ginevra indaga nella loro misteriosa “primavoltità” (per citare con lei il neologismo di Bobi Bazlen), cerca l’ombra, la parte cancellata e orale che ha lasciato tracce delicate e sepolte, la parte lunare, quell’altra metà di Dio che è stata proditoriamente sottratta, “il femminile che non abbiamo ancora mai visto, affiancato a un maschile che non vediamo più”. Perché l’ipotesi (ma è molto più di un’ipotesi, ne restano tracce tangibili in tanti reperti archeologici e nel filo rosso che lega miti di civiltà diverse) è che “sia esistito un mondo in cui i valori maschili non sopraffacevano quelli femminili”, “un mondo vasto, splendido e mite” in cui regnavano le donne, che le armi non le conoscevano, non le costruivano, non le usavano e che dalle armi sarebbero state sopraffatte, sottomesse, ridotte al ruolo marginale di spose (nella migliore delle ipotesi).
E, dice Bompiani, “non vi è mistificazione più antica e più durevole, più tenace e silenziosa di quella che qualche migliaio di anni fa ha sostituito il mondo pacifico e egualitario delle società matriarcali con il patriarcato, facendo delle prime il grande rimosso della storia e dell’altro la nostra seconda natura”.
Non faccio che citare direttamente l’autrice perché il suo è un libro scritto in modo incantevole e preciso, dotto e visionario insieme, che convince e affascina nel suo stare saldo sui testi di riferimento, ma non per noiosamente chiosarli o non solo per interpretarli, bensì per interrogare senza fine l’immaginario umano: “Non cerco la Storia, ma le storie che ci hanno formati nel sonno”.
Che meraviglia. E così torniamo ad Adamo ed Eva, al sacrificio di Isacco, a Lot ridotta a statua di sale, alla Vergine Maria, cui non è concessa la divinità (nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: non dimentichiamo!), ma solo di essere “beata fra le donne”.
Man mano che si procede nella lettura viene un sentimento di rabbia e d’indignazione per la grande impostura che ci domina da sempre, per la vasta simbologia (non solo quella ebreo-cristiana sangue del nostro sangue. Bompiani va dritta alle origini risalendo all’ispirazione mesopotamica delle storie bibliche e della mitologia greca) che ci ha nutriti e resi quelli che siamo, mentre forse potevamo essere un’umanità diversa, materna, più somigliante in tutto al volto, così femminile, di Gesù Cristo, un figlio non a caso, figlio però di un padre dispotico e disposto a sacrificarlo (“riparando” al mancato sacrificio di Isacco che tragicamente lo annuncia) e di una madre dolorosa, completamente priva di potere.
La temeraria Ginevra si concede ogni tanto (spesso) il lusso di seguire libere associazioni e ci illumina sull’ispirazione di scrittori e filosofi amati (da Kafka a Wittgenstein, per citarne due soltanto) in una vertiginosa scorribanda culturale che non è mai schiacciante, voglio dire che non sopraffà il lettore, ma lo suggestiona, lo illumina e lo incanta, in una lingua di grande dolcezza, quella stessa lingua che fa dire a Franz Kafka, appunto: “Consideratemi un sogno”. Le cose viste “in sogno” dalla pizia Ginevra hanno la forza convincente del presagio cui non si sfugge, della verità intravista e terribile.
Nuove Litanie.
San Giuseppe ora diventa anche patrono di esuli, afflitti e poveri
Le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909, sono state integrate con sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi sulla figura del patrono della Chiesa universale
di Redazione Catholica (Avvenire, lunedì 3 maggio 2021)
Nel 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale, papa Francesco ha reso nota la lettera apostolica Patris corde, con l’intento di «accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio»; e ha indetto un Anno speciale dedicato al padre putativo di Gesù, iniziato lo scorso 8 dicembre.
Alla luce di tutto ciò la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti ha inviato una lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali informandoli che «è parso opportuno aggiornare le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909 dalla Sede Apostolica» e «integrandovi sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi che hanno riflettuto su aspetti della figura del Patrono della Chiesa universale».
Sono queste: «Custode del Redentore» (san Giovanni Paolo II, Redemptoris custos); «Servo di Cristo» (san Paolo VI, omelia del 19.3.1966, citata in Redemptoris custos n. 8 e Patris corde n. 1); «Ministro della salvezza» (san Giovanni Crisostomo, citato in Redemptoris custos, n. 8); «Sostegno nelle difficoltà» (Francesco, Patris corde, prologo); «Patrono degli esuli, degli afflitti, dei poveri» (Patris corde, n. 5).
«Sarà compito delle Conferenze dei vescovi disporre la traduzione delle Litanie nelle lingue di loro competenza e pubblicarle» si legge sempre nella lettera firmata dal segretario del dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche, e dal sottosegretario, padre Corrado Maggioni. «Tali traduzioni non avranno bisogno di conferma della Sede Apostolica. Secondo il loro prudente giudizio, le Conferenze dei vescovi potranno anche introdurre, al luogo opportuno e conservando il genere letterario, altre invocazioni con le quali san Giuseppe è particolarmente onorato nei loro Paesi».
LA COSTITUZIONE E L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (E DEL "FIGLIO").*
Omofobia.
Ddl Zan calendarizzato. «Il testo punta al superamento del sesso biologico»
Le critiche della ginecologa e femminista genovese Sandra Morano, firmataria dell’Appello dei 400: il rischio è di far sparire l’identità femminile e con essa la sua forza distintiva, la maternità
di Antonella Mariani (Avvenire, mercoledì 28 aprile 2021)
Il Ddl Zan punta al superamento del sesso biologico, per abbracciare altre definizioni fluide e variabili, come ’genere’, ’identità di genere’, ’percezione di sé’, che con la Costituzione e con la certezza del diritto hanno poco a che vedere e che rischiano di assottigliare fino a far scomparire il confine tra i sessi. Prima ancora che da ginecologa, parla da ’femminista della differenza’ Sandra Morano, esponente di spicco del progressismo genovese e docente universitaria. Il ddl Zan, al di là delle buone intenzioni di combattere l’omofobia e la transfobia, introduce definizioni non univoche per ’classificare’ le categorie meritevoli di tutela, entrando a gamba tesa in un dibattito scientifico, giuridico e bioetico in pieno svolgimento.
Per semplificare: se il titolo del Ddl Zan è: ’Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità’, e poi si definiscono queste categorie in modo che non è affatto condiviso, il risultato è... confusione, proprio ciò che una legge non deve fare.
Sandra Morano ha firmato l’appello per la modifica del testo della legge, insieme ad altri 400 rappresentanti della società civile. La sua esperienza professionale nel SSN è stata spesa prevalentemente nel miglioramento delle condizioni della maternità e della nascita, temi che non hanno mai avuto un posto preminente nelle agende della politica. Da questo osservatorio è difficile accettare un cambiamento delle definizioni per tutta la popolazione.
«Sarebbe come accettare di ’far sparire’ le donne e la loro incontrovertibile capacità procreativa, la maternità», dice. «Capita a noi mediche e medici di accompagnare la sofferenza di soggetti che non si riconoscono nel proprio sesso biologico. Comprendiamo il rifiuto di alcuni di essere rigidamente definiti o ri-definiti, anche se più spesso capita che molti desiderino chiarire e manifestare attraverso dolorosi percorsi la transizione verso una più soddisfacente identità sessuale. Questa libertà non può però limitare la libertà di tutti, donne e uomini, ad accettare un cambiamento lessicale che per via legale sancisce l’abbandono del concetto di sesso a favore della identità di genere con le sue varianti».
Un cambiamento che non può non innescare effetti a catena nel mondo medico, e non solo. «Pensiamo alle conseguenze che tale definizione può avere sulla Medicina di genere, cioè lo studio del diverso impatto delle malattie e dei farmaci sul femminile e sul maschile, che in questi anni sta facendo passi da giganti».
Tutto cancellato dal ddl Zan? «Questa è una delle derive di questo testo, e io invito i miei colleghi a prendere posizione. Da una legge confusiva possono derivare cambiamenti nel lessico, che non possono non coinvolgere perfino i manuali e gli insegnamenti della medicina». In che direzione vorrebbe fosse modificato il testo del ddl Zan? «Preferirei che si parlasse di prevenzione e contrasto alle discriminazione di genere e della violenza per ’motivi fondati sul sesso’. Sarebbe sufficiente e molto più utile a tutti», risponde Morano. Che pericolo intravede nella legge, così com’è formulata? «Intravedo alcune derive inquietanti. La cancellazione della maternità, ad esempio, che per me è il tema centrale dell’identità femminile, quello che ancora è esclusiva delle donne. Ebbene, se il sesso diventa una percezione fluida di sé, ciascuno può giocare su più campi, un uomo può dirsi donna e reclamare il diritto a un figlio. Anche attraverso la gestazione per altri».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! ---UNA NOTA DEL 20O5 DEL PROF. LUIGI CANCRINI SU UN TESTO DI "ANATOMIA" DEL 1560!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE. Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
FLS
MEMORIA DI UNA TRASGRESSIONE FEMMINILE. Le resurrezioni di Agar, di Anna, di Sara, di Noemi.... *
La fedeltà e il riscatto.
Noemi la migrante si alzò
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 3 aprile 2021)
«Al tempo dei giudici ci fu nel paese una carestia...» (Rt 1,1). Nei pochi versi del Libro di Rut ogni nome è un messaggio. Come in una miniatura medioevale, il capolavoro nasce dalla cura dei dettagli. Al tempo dei giudici... Il libro dei Giudici descrive un tempo di violenza e di soprusi, e si chiude con il racconto - tra i più tremendi della Bibbia - dell’omicidio perpetrato da uomini di Gadaa nei confronti di una donna di Betlemme (Gdc 19,29).
Il Libro di Rut inizia con un’altra donna di Betlemme: Noemi (o Naomi). La Bibbia va letta tutta insieme, perché, come nella vita, il senso di una parola lo si trova anche in un’altra, anche lontana. Ci fu nel paese una carestia. Nella Bibbia le carestie non sono soltanto eventi climatici. Sono anche teofanie, parole di Dio. Una carestia condusse Abramo in Egitto, un’altra ci portò i figli di Giacobbe e lì avvenne la grande riconciliazione con il loro fratello Giuseppe. Spesso una carestia è dolore che prepara una resurrezione. È un dolore che ci costringe a uscire da una terra che senza quel dolore non avremmo mai lasciato. Nella Bibbia qualche volta le persone partono inseguendo una voce; altre volte partono inseguendo acqua a pane. Per poi scoprire, ma solo alla fine, che dentro quel dolore che li aveva fatti fuggire di casa c’era lo stesso amore. Ma per capirlo c’è voluto tutta la vita, a volte quella di molte generazioni.
«E un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda». Una famiglia emigra. Ancora non sappiamo i loro nomi, ma subito sappiamo il nome della città colpita dalla carestia: Betlemme. Quel nome però non sta facilmente accanto alla parola carestia.
Betlemme, lo sappiamo, significa "casa del pane". Quella famiglia per una carestia lascia la casa del pane, va a cercare il pane lontano dalla sua casa. Eccoci dentro un primo paradosso. Erano già dentro la casa del pane e la lasciano per il pane. Ma quella famiglia, diversamente dalle altre grandi migrazioni bibliche, non va in Egitto, dove il ciclo delle acque del Nilo era più forte delle carestie.
Va in un luogo improbabile, un nome quasi impronunciabile per gli ebrei del tempo: «nei campi di Moab». Va dai moabiti, che insieme agli ammoniti erano tra gli storici nemici di Israele. Un popolo, poi, che portava iscritto nella sua storia proprio il segno del pane e dell’acqua: «L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore... Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino, quando uscivate dall’Egitto» (Dt 23,4-5). Non vi vennero incontro con il pane: perché allora andare a cercare pane là dove il pane era stato negato? La tensione cresce...
«Quest’uomo si chiamava Elimélec, sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion; erano Efratei, di Betlemme di Giuda. Giunti nei campi di Moab, vi si stabilirono" (Rt 1,2). Elimélec, cioè il mio Dio (Eli) è re (mélec). Anche qui un nome che parla: quell’uomo migrante porta con sé il legame con quel suo Dio diverso. I nomi dei suoi due figli maschi sono invece nefasti e cupi, traducibili come "malattia" e "tubercolosi" (o "esaurimento").
Nella Bibbia il numero due per i figli in genere non porta bene, a partire da Caino e Abele, passando per Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Rachele e Lia, fino al rapporto tra il figliol prodigo e suo fratello - tanto che André Gide ha voluto immaginare, nella parabola di Luca, un terzo figlio minore, e una madre ("Il ritorno del figliol prodigo"). Due è anche il numero dell’invidia, della rivalità, del conflitto per ottenere il riconoscimento, per l’eredità e la primogenitura. Nella Bibbia il due non è ancora il numero della buona fraternità - e nessun numero lo è se la fraternità non genera un legame più grande di quello del sangue.
E vi si stabilirono. Vissero a Moab da "migranti". Il verbo gûr (emigrare) e il sostantivo ger (migrante) sono parole di casa nella Bibbia o, meglio, "di tenda". Vivere in un paese straniero da ger è una buona condizione. In Israele, ad esempio, il ger osservava il Sabato e partecipava alle principali feste. Non sappiamo come fosse la condizione giuridica del ger presso i moabiti, ma non è da escludere una condizione analoga a quella in Israele ("Rut", Donatella Scaiola, Paoline). Una parola, ger, che al lettore biblico ricorda poi direttamente Abramo: «Io sono uno straniero (ger) residente ospite in mezzo a voi» (Gn 23,4). Abramo abitò la terra promessa da ger, a dirci che la condizione di migrante è la condizione umana, che nessuna terra promessa è per sempre.
Nella Bibbia ogni migrazione è continuazione di quella dell’arameo errante, che non ha mai smesso di errare, che ha sempre custodito una nostalgia spirituale profonda per quella casa nomade, libera e povera. Il libro di Rut è molte cose, ma è anche una grande riflessione sulla dimensione nomade della vita, che ci porta a cercar pane lontano dalla casa del pane, poi ci fa tornare, per ripartire ancora inseguendo, come la cerva, altre piste dell’unica vita, che è vera perché provvisoria.
«Poi Elimélec, marito di Noemi, morì ed essa rimase con i suoi due figli» (Rt 1,3). In quella nuova situazione di residenti-migranti a Moab accade un primo evento traumatico. Muore Elimélec. Nel morire viene definito "marito di Noemi". Prima era Noemi la "moglie di Elimélec", ora l’uomo è il marito di Noemi, un’espressione rarissima in quelle culture patriarcali, ma che sta bene in un libro al femminile. Il Midrash aggiunge una bella nota su questa definizione: «La morte di un uomo non è sentita da nessuno tranne che da sua moglie» (Midrash Rabbah del libro di Rut, Parashah Beth).
Non sappiamo come e perché morì il marito di Noemi. Ciò che è certo è che gli uomini iniziano, uno alla volta, a sparire. «I figli sposarono donne moabite: una si chiamava Orpa e l’altra Rut» (Rt 1,4). Sposare, per due ebrei, delle donne moabite non è un dettaglio secondario. La Legge di Mosè, lo abbiamo visto, non permetteva ai moabiti di diventare membri della comunità di Israele. Ancora il Midrash dà una sua lettura: «Moabita (maschile) ma non moabita (femminile)». Quel divieto allora non valeva per le donne?
Quel mondo patriarcale tutto incentrato sulla legge dei primogeniti maschi, aveva sviluppato delle norme che attenuavano e contrastavano questa legge ferrea. La storia della salvezza è infatti intersecata da primi figli non eletti (Caino, Esaù...) e da ultimi che vengono scelti (Giuseppe, Davide...). E ora vediamo donne che riescono a violare addirittura la Torah di Mosè.
C’è una tipica trasgressione femminile. Accanto alle trasgressioni di tutti, maschi e femmine, c’è quella che si insinua nelle intercapedini delle leggi scritte da maschi, nei pertugi di regolamenti pensati e voluti da e per un mondo maschile. Le donne, quasi sempre ospiti di comunità non disegnate da loro, hanno dovuto imparare a sopravvivere infilandosi, spesso di nascosto, in quelle zone grigie e ambivalenti delle leggi, approfittando del non-detto e del non-esplicitato. E qualche volta togliendo quel sassolino dal muro per vedere oltre attraverso un foro, o gettando un seme tra le pietre di un muro a secco. Quel muro qualche volta poi crolla, magari senza averlo voluto - volevano solo vedere un altrove, solo piantare un fiore. C’è una sovversione discreta della legge, un "rovesciare i potenti dai troni" diverso, dove i potenti cadono quasi senza accorgersene.
«Abitarono in quel luogo per dieci anni. Poi morirono anche Maclon e Chilion, e la donna rimase senza i suoi due figli e senza il marito» (Rt 1,4-5). Rimase «come il resto dei resti dell’offerta del pasto» (Parashah Beth). Passano dieci anni (di matrimonio? o di residenza a Moab?), e poi muoiono anche i due figli di Noemi, per di più senza lasciarle nipoti - il testo non lo dice ma il contesto lo suggerisce, come suggerisce una sterilità delle due nuore: dieci anni fu il termine che portò Sara a far unire Abramo con la sua schiava Agar. La vita le lascia solo due vedove: Noemi ha una compagnia tutta femminile. L’economia del racconto ha eliminato i tre uomini dalla scena, e in un libro fatto quasi solo di dialoghi, quegli uomini sono entrati e usciti senza dire neanche una parola. Un campo sgombrato per far risaltare tre donne, tre vedove.
A questo punto, in questa condizione simile a un Giobbe femminile - ma cui restano accanto due vedove - Noemi riparte: «Allora lei si alzò con le sue nuore e fece ritorno dai campi di Moab» (Rt 1,6).
Noemi ritorna a casa, alla "casa del pane". Torna da sconfitta dalla vita. E noi non possiamo non pensare ai tanti emigrati che ripercorrono lo stesso cammino di Noemi, partiti per vivere, e tornati sconfitti da quella vita che li aveva fatti partire. Per le donne questo cammino a ritroso è ancora più triste e duro, prima durante e dopo.
Lei si alzò. Come Anna, la madre di Samuele, che dopo le umiliazioni e i pianti per la sua sterilità, «si alzò» (1 Sam 1,9). Come il figliol prodigo, che, un giorno, «si alzò» dal suo porcile, e quell’alzarsi fu il primo passo del ritorno a casa. Il libro non ci dice cosa accadde nell’anima di Noemi tra la morte dei figli e il suo alzarsi. Ma deve essere accaduto qualcosa di simile a quello che continuiamo a vedere in tanti uomini, e ancora più spesso in donne. Chissà quante parole le avranno detto Rut e Orpa - le donne sanno consolarsi solo con le parole, come Sharazad nelle "Mille e una notte" sconfiggono la morte parlando - quel logos che vince thànatos è donna.
«Si alzò» è la fine del lutto. Noemi non restò bloccata nel passato, fu capace di non morire anch’essa insieme ai suoi morti - il lutto è forse solo questo, ma lo abbiamo dimenticato. Si alzò, scelse di continuare a vivere. È la resurrezione di Noemi, la resurrezione di tante donne e uomini, ieri e oggi. Se quelle donne e poi gli uomini dell’antica Palestina furono capaci di riconoscere quella resurrezione diversa, è perché conoscevano le resurrezioni di Agar, di Anna, di Sara, di Noemi. Erano tutte lì, insieme, nel primo giorno tutto il sabato, a far festa per il Crocifisso che si era "rialzato". Buona Pasqua.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA
UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. MICHELANGELO E IL SOGNO DEI CARMELITANI SCALZI (Teresa d’Avila e Giovanni della Croce): A CONTURSI TERME, IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (1613) - RECUPERATO CON I LAVORI DI RESTAURO, DOPO IL TERREMOTO DEL 1980
FLS
COME NASCONO I BAMBINI? LA “RISPOSTA” DELLA TRADIZIONE CATTOLICA NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA... *
SOLLECITANDO CON QUESTA “RIPRESA” UNA LODEVOLE E RINNOVATA ATTENZIONE AL TEMA DELLA “ANNUNCIAZIONE” NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA E RICORDANDO CHE L’EVENTO “rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione [...] il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo”, e, che “Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante”, FORSE, è UTILE riconsiderare come nel “corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema” E ANCORA, se si vuole, cominciare a riesaminare con attenzione proprio il “mosaico dell’Annunciazione” di Pietro Cavallini (del 1291 - vedi, sopra: la seconda figura dell’articolo) e, poi, proseguire con le opere specifiche degli artisti “fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele” - e osservare con attenzione, IN PARTICOLARE, l’immagine del pannello centrale della “ANNUNCIAZIONE” (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin#/media/File:Robert_Campin_011.jpg) del “Trittico di Mérode” (1427) di Robert Campin (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin).
Proseguendo e, non dimenticando di riflettere anche sulla rilevanza per gli artisti del lavoro del cardinale Gabriele Paleotti sulle immagini sacre (“Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, del 1582), è opportuno arrivare all’attuale presente storico (il prossimo 25 marzo è anche il giorno della prima Giornata dedicata all’opera e alla memoria di Dante - il “Dantedì”) e ricordare quanto “poco fa”, proprio all’inizio del Terzo Millennio dopo Cristo, il CARDINALE CASTRILLON HOYOS (proprio come un artista del 1200 o del 1400) dichiarò alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” ("la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
Forse, in questo “Anno speciale di San Giuseppe” indetto da papa Francesco (cfr. “DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” .. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-262319), sarà possibile sapere come nascono i bambini e le bambine e sarà possibile avere un’altra rappresentazione artistica della nostra stessa nascita?! Con Dante, non c’è affatto da dubitare: “L’amore muove il sole e le altre stelle” - e anche la Terra!
Buon lavoro...
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San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
Donna Sapienza
fin dal principio
di Marinella Perroni
Biblista, Pontificio Ateneo S. Anselmo *
Salomone lo conoscono più o meno tutti. Se non altro per quello stratagemma di voler far tagliare in due un bambino conteso tra due madri: una storia raccontata nel primo libro dei Re (3, 16-28). Forse, alcuni sanno anche che la saggezza del figlio di Davide e di Betsabea, l’adultera, è divenuta proverbiale perché il regno di Salomone ha assicurato a Israele non soltanto pace e stabilità, ma anche il contatto con le altre grandi culture del Vicino Oriente e, quindi, un tempo di grande vivacità culturale e di progresso civile. Per questo Israele ha attribuito al re Salomone tutta la riflessione sapienziale che sta alla base di alcuni libri della Bibbia, scritti in realtà in epoche diverse (dal secolo V al II prima di Cristo), che contengono sentenze, orientamenti e norme che hanno di mira una vita proficua e felice. Quasi nessuno però sa che quella sapienza che ha reso famoso Salomone è una raffigurazione che, accanto ad altre due figure, la Legge e il Messia, consente di capire perché, ma soprattutto come, Dio si fa presente nella storia del suo popolo. Ed è figura femminile.
Donna-Sapienza
Tra le tante cose degne di stupore emerse grazie al restauro della Cappella Sistina (1980-1994) una è, a mio avviso, tutt’altro che marginale. Nell’affresco della creazione, che occupa la volta, l’attenzione viene catturata dal vigore dell’Adamo e dalla grandiosa potenza espressiva con cui Michelangelo ha saputo rendere conto del rapporto di vicinanza e al contempo di distanza tra il creatore e la creatura fatta a sua immagine e somiglianza.
Eppure, il restauro ha fatto riemergere un particolare per troppi secoli rimasto del tutto oscurato: tra i putti che circondano e sostengono Dio nel suo atto creativo domina una figura femminile che Dio vincola a sé in un abbraccio. Eva? Inevitabile che in molti lo sostengano, anche se, in realtà, alla creazione di Eva il pittore dedica un riquadro specifico nelle storie della Genesi che corredano la volta.
Se gli storici dell’arte propendono per l’identificazione con Eva, i biblisti azzardano invece un’altra ipotesi, tutt’altro che fantasiosa perché molto ben accreditata dagli scritti sapienziali della Bibbia. Leggiamo nel libro dei Proverbi: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. [...] Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, [...] io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo» (Proverbi 8, 22-31).
È la Sapienza stessa che si presenta come colei che presiede alla creazione, come la forza creativa che fa della creazione un’opera che - ce lo dice il racconto che apre il libro della Genesi - Dio considera una «cosa molto buona» (Genesi 1, 31). La reciprocità che Dio stabilisce con l’opera delle sue mani riflette, insomma, il rapporto ludico che intercorre tra Dio e la Sapienza. Il discorso sarebbe lungo: basti solo dire che, nonostante la struttura sociale di Israele fosse fortemente caratterizzata in senso patriarcale e nonostante ciò abbia spesso imposto alle donne anche pesanti restrizioni, nella letteratura biblica emergono invece, sia pure in modo carsico, attestazioni del ruolo decisivo giocato dalle donne nello sviluppo della storia di Dio con il suo popolo nonché riflessioni, spunti, allusioni che rivelano un immaginario religioso in cui la presenza femminile gioca un ruolo di primo piano. Al riguardo, gli scritti sapienziali sono una vera e propria miniera.
Il termine italiano “sapienza”, come quello greco sofia, possono ingenerare un fraintendimento rispetto a quello ebraico hochmah, che ha una storia molto antica e rimanda a una qualità superiore che alcune persone hanno e altre no, l’aspirazione presente nelle radici più antiche della nostra cultura a saper orientare i nostri atteggiamenti di fondo nel mestiere di vivere. La sapienza non si insegna, ma questo non significa che la sapienza non si impari: il significato più arcaico di hakam è l’uomo abile, l’artigiano, in particolare, l’orefice, colui che conosce bene un mestiere.
La sapienza biblica tradizionale non ha quindi la pretesa di essere frutto di una rivelazione divina, per questo è stata definita una sapienza laica. E i libri sapienziali non contengono racconti mitici e nemmeno sono opere filosofiche o speculative, come quelle dei grandi pensatori greci. Sono un distillato di sapere pratico e di riflessioni sulla realtà vissuta, non vi si trovano discorsi edificanti e tanto meno devote esortazioni. La sapienza non trasmette neppure un facile moralismo religioso, ma piuttosto richiede, e in termini molto esigenti dal punto di vista umano, di saper riflettere e prendere posizione nei confronti di insegnamenti a volte perfino tra loro contraddittori. Per questo il valore della sapienza è inestimabile.
Un esempio eloquente
La divisione del libro dei Proverbi in sette sezioni potrebbe richiamare la dichiarazione che apre il c. 9 «La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne» e alludere così al fatto che, chi legge i proverbi e i discorsi di ammonimento contenuti nel libro, accoglie l’invito della sapienza a farsi ospitare nella sua casa.
Molto ci sarebbe da dire su indubbi tratti di misoginia presenti nel testo, ma non bisogna neppure dimenticare che, più ancora che nel testo, l’androcentrismo è stata una delle dominanti della storia della sua interpretazione. Da qui la forte diffidenza nei confronti soprattutto di un brano come l’elogio della donna forte (31, 10-31) che appariva come una vera e propria esaltazione della moglie ideale che vive solo in funzione del suo uomo e dei suoi figli.
Il capitolo è intitolato Parole di Lemuèl, re di Massa, «che egli apprese da sua madre» e si deve quindi supporre che si tratti di insegnamenti che la madre di un re trasmette a suo figlio. Non stupisce che per lungo tempo anche il ritratto della donna forte che suggella il libro sia stato interpretato come una raccolta di suggerimenti della madre al futuro re perché scelga una sposa appropriata.
A ben guardare, però, il poemetto si chiude chiamando in causa direttamente una tra le “molte figlie” e questo lascia lecitamente supporre che, se la prima parte del discorso della madre è rivolta al futuro re, l’ultima parte è invece l’elogio di una figlia che «ha compiuto cose eccellenti», a cui bisogna essere «riconoscenti per il frutto delle sue mani» e di cui va tessuta lode pubblica «alle porte della città».
Ben lungi dall’essere l’elogio di una futura nuora da parte di una suocera illustre, dunque, il brano contiene gli insegnamenti funzionali all’ideale di educazione del principe Lemuèl e di una principessa, di cui non si dice il nome, ma che viene interpellata direttamente.
Studi archeologici e storico-sociali hanno poi messo in luce che, all’epoca, le donne erano proprietarie terriere ed erano attive in tutti gli ambiti menzionati nel nostro testo, dal commercio alla produzione e alla vendita dei tessuti di lusso, ben lontane cioè dall’ideale casalingo che ne faceva le regine del focolare. Per non dire, infine, che i tessuti preziosi delle sue vesti (v. 22), il lino e la porpora, sono gli stessi che arredano l’arca che guida il popolo nel deserto o che vestono i sacerdoti del Tempio e che oltre a lei (v. 25), in tutta la Bibbia solo Yahweh veste di forza (Salmo 93, 1).
Descritta dunque con tratti caratteristici dell’epoca, la donna forte con cui l’autore del libro dei Proverbi suggella il suo scritto, è Donna-Sapienza, la personificazione della Sapienza di Dio. A lei deve legarsi il re, come mostra la straordinaria preghiera per ottenere la sapienza che, non a caso, viene attribuita a Salomone (Sapienza 9, 1-18). Non è la casalinga, ma colei che, costruita la sua casa, «ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: “Chi è inesperto venga qui!”. A chi è privo di senno ella dice: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza” (Proverbi 9, 3-6).
I proverbi
Proverbi 31, 10-31
* Fonte: L’Osservatore Romano - 6 febbraio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA: LA PRIMA "CENA" DI "CAINO" (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE "ABELE") E L’INIZIO DELLA "BUONA-CARESTIA"("EU-CARESTIA")! *
NELL’OSSERVARE "L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie" (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE "è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia" (Riccardo Viganò, L’Ultima Cena nel refettorio della Madonna della Favana di Veglie, Fondazione Terra d’Otranto, 07.06,2020), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa "cena"(vedere la figura: "Portata centrale, saliere e frutti", cit.) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della "COMMEDIA", della "DIVINA COMMEDIA", e della sua "MONARCHIA"!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso "sonno dogmatico", mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, "Ubi maior minor cessat"(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
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«Ambizioncella muliebre»: sul titolo sacerdotale mariano
di Daniele Menozzi, Storico (Il Regno, Re-blog, 2 Febbraio 2021)
La proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione nel 1854 è stata interpretata come un «evento strutturante» nella storia del cattolicesimo contemporaneo. Ha in effetti avuto diverse conseguenze di rilievo. A esse si può ascrivere anche l’avvio della discussione, non ancora conclusa all’interno della Chiesa, sul sacerdozio femminile. Claude Langlois - il noto studioso della femminilizzazione del cattolicesimo ottocentesco, che per primo ha colto il nesso tra la valorizzazione della figura di Maria derivante dalla dichiarazione del suo concepimento senza peccato e la manifestazione del desiderio femminile per il sacerdozio - ha poi mostrato come l’aspirazione al ministero, chiaramente formulata da Teresa di Lisieux nel 1896, fosse condivisa anche da altre personalità del panorama religioso di fine Ottocento. Tra queste indicava Marie Deluil-Martiny, nata nel 1841 a Marsiglia da una famiglia aristocratica, fondatrice nel 1872 della congregazione delle Figlie del Sacro Cuore a Berchem presso Anversa, uccisa nel 1884 da un anarchico che era stato suo giardiniere e beatificata nel 1989 da Giovanni Paolo II.
Avvio della discussione sul sacerdozio femminile
L’attenzione della suora francese al tema è ora analizzata da Liviana Gazzetta, autrice di diverse opere sulla storia del movimento cattolico femminile. Il volume Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento (Edizioni di storia e letteratura, Roma 2020), pur non potendo contare sull’insieme degli scritti di Deluil-Martiny, ancora inaccessibili per il processo di canonizzazione, si è potuto valere, oltre che di quanto già pubblicato, della serie documentaria «Devotiones variae» depositata presso l’Archivio della Congregazione per la dottrina della fede (Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra Ottocento e Novecento, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2020). L’opera si presenta, più che sotto forma di una ricostruzione organica, come una serie di affondi successivi che sviluppano e approfondiscono alcune ipotesi di lavoro. Nonostante l’apparente frammentarietà e qualche ripetizione, il libro non solo risulta di straordinario interesse per una questione, il sacerdozio femminile, di bruciante attualità ecclesiale, ma anche del tutto persuasivo nei suoi, per quanto provvisori, esiti conoscitivi.
Il titolo di Virgo sacerdos.
Filo conduttore della ricostruzione è la declinazione tra Ottocento e Novecento del richiamo a Maria col titolo di Virgo sacerdos. Il sintagma, di origine patristica, trova nel Medioevo una duratura sistemazione dottrinale sulla base della pregiudiziale premessa dell’impedimentum sexus per l’accesso al sacerdozio. L’appellativo comporta l’attribuzione alla Vergine non del carattere sacerdotale, che appartiene esclusivamente a chi ha ricevuto l’ordine e detiene quindi il potere di sacrificio; bensì dello spirito sacerdotale. Maria possiede, in grado eminente rispetto a ogni creatura, questo attributo che condivide peraltro con tutti i battezzati in quanto comporta soltanto la capacità di rendersi vittime, ostie immolate per la salvezza del mondo.
In questa chiave la locuzione entra nella liturgia fin dal XVIII secolo, ma nella seconda metà dell’Ottocento diverse opere di ecclesiastici attivi nel prorompente movimento mariano inseriscono la distinzione in una più ampia interpretazione teologica della figura della Vergine. Gli episodi centrali della sua vita - generazione di Cristo, purificazione al Tempio, presenza sotto la croce - sono letti come una compartecipazione all’offerta al Padre della vittima divina che la portano ad assumere, sia pure in grado diverso, i titoli stessi del Figlio: mediatrice, corredentrice e sacerdote. Questa letteratura alimenta la spiritualità di Deluil-Martiny e del gruppo riunito attorno a lei, in particolare di Elise Le Vassor de Sorval, che, succedendole nella direzione della congregazione, la sviluppa con notevolissime capacità organizzative e politiche.
Maria con la dalmatica
Si tratta di una ricezione creativa che si fonda sulla comune adesione all’egemone cultura intransigente. Ne è infatti punto di partenza la prospettiva di riconquista cristiana di una società moderna che si è sottratta alla direzione ecclesiastica. Di fronte alla costatazione dell’inadeguatezza del clero nella lotta in corso per la restaurazione della cristianità, si definisce un carisma specifico dell’istituto religioso: l’offerta vittimale in riparazione degli errori e dell’insufficienza dei sacerdoti. Il riferimento alla Virgo sacerdos ne è la sintesi spirituale, simbolica e devozionale. Lo mostrano i testi delle preghiere in uso nella congregazione; le immagini devozionali in cui Maria, in piedi sul globo, indossa sopra la tunica la dalmatica mentre schiaccia la testa del serpente (all’epoca generalmente identificato con la rivoluzione anticristiana); l’abito delle suore che ripropone la pianeta dei preti.
Aspirazione a un ministero sacerdotale
Nel discorso pubblico delle appartenenti alla congregazione la generale interpretazione della figura di Maria come paradigma esemplare per stabilire il ruolo femminile nella Chiesa si applica anche alla funzione sacerdotale attribuita alla Vergine. Per questa via esse esprimono l’esigenza di un protagonismo ecclesiale della donna che ne affermi la parità senza metterne in questione la diversità. Ma i loro documenti privati lasciano chiaramente trasparire qualcosa di più: l’aspirazione all’esercizio di un ministero sacerdotale che le donne saprebbero svolgere in modo più degno e più adeguato ai bisogni dei tempi. Pur senza una specifica denuncia, il Sant’Uffizio - che aveva preso in esame una prima volta tra il 1838 e il 1842 il tema della Virgo sacerdos, senza assumere in merito alcuna decisione - avverte nelle pratiche dell’istituto un pericolo per l’ortodossia.
Da Roma concessioni poi revocate
Inizialmente Roma era stata larga di concessioni. Dopo il riconoscimento di Leone XIII, nel 1906 la congregazione aveva ottenuto da Pio X di inserire una menzione alla Vierge prêtre nelle preghiere della congregazione, ben presto arricchite di indulgenze. Poi nel 1910 il pontefice aveva concesso che nelle litanie mariane le religiose aggiungessero l’invocazione Virgo sacerdos, ora pro nobis. Provvedimenti assai significativi, perché in quegli stessi anni papa Sarto taglia corto sulle istanze di emancipazione femminile presenti nella comunità ecclesiale, escludendo le donne dal canto sacro e imponendo che non prendano la parola nelle assemblee del movimento cattolico. Ma il Sant’Uffizio, nel 1913 - ma renderà pubblica la decisione tre anni dopo - revoca tutte le precedenti concessioni e vieta l’uso dell’immagine devozionale che aveva avuto anche una traduzione pittorica in un’opera di Silverio Copperoni.
Le preoccupazioni del consultore
Opportunamente Gazzetta pubblica in appendice al libro il parere del consultore, il domenicano Giovanni Lottini, che spiega le motivazioni della decisione. Pur dicendosi sicuro che le religiose non abbiano la pretesa di proclamarsi sacerdotesse, afferma che, qualora non siano per tempo fermate, «mosse da una certa ambizioncella muliebre, queste donne giungeranno a darsi detto titolo ed a chiedere e forse con le loro femminee arti a strappare anche qualche approvazione». Il riconoscimento dell’abilità di chi governa la congregazione nel promuoverne il carisma sul piano istituzionale si traduce nell’individuazione delle misure per bloccarne le iniziative. Il domenicano sostiene quindi che, per quanto storicamente fondato e dottrinalmente irreprensibile, il riferimento alla Virgo sacerdos deve essere interdetto dalle pratiche religiose. Sottolinea in particolare che negli istituti femminili l’infima cultura teologica delle donne - evidentemente ritenute incapaci di distinguere tra ordine e spirito sacerdotale - potrebbe facilmente indurre a costruire su questa devozione pretese al ministero. Suggerisce perciò che la venerazione a Maria venga promossa sotto il titolo di madre, anziché sotto il titolo di sacerdote.
Una rimozione definitiva
Nel 1927 il segretario del Sant’Uffizio, cardinal Merry del Val, in risposta a una domanda apparsa su La Palestra del clero, conferma in una pubblica lettera che attorno al titolo sacerdotale mariano occorre mantenere completo silenzio. Poco dopo una revisione della costituzione delle Figlie del Sacro Cuore ne formalizza la rimozione dalla vita interna dell’istituto. In realtà collegamenti con il tema della Virgo sacerdos riemergono in comunità religiose - in primo luogo i Figli del Cuore sacerdotale di Gesù, oggi noti come padri Venturini dal nome del fondatore - e in pii sodalizi, come le Figlie della Regina degli angeli fondata da Elena da Persico. In effetti la loro spiritualità si alimenta alle stesse fonti dell’istituto franco-belga. In questi casi il richiamo all’imitazione di Maria consente di superare la visione di un mero ruolo oblativo delle donne nella Chiesa, ma non si traduce, almeno a livello delle testimonianze a oggi accessibili, in manifestazioni di aspirazioni ad un ruolo ministeriale.
Gli interventi dei papi nel post-concilio
Nel post-concilio, al momento in cui affiora nuovamente e con più forza, sulla spinta del rinnovamento ecclesiale, la questione del sacerdozio femminile, gli interventi del papato - come mostrano l’esortazione apostolica Marialis cultus emanata da Paolo VI nel 1974 e la lettera apostolica Mulieris dignitatem pubblicata da Giovanni Paolo II nel 1988 - lo hanno nuovamente collegato al ruolo idealtipico di Maria per la definizione della posizione ecclesiale della donna. Il riferimento mariano è stato però utilizzato per ribadire l’impedimentum sexus al sacerdozio femminile. La vicenda della congregazione delle Figlie del Sacro Cuore, oggi restituita alla memoria ecclesiale dalla ricerca storica, per quanto ancora bisognosa di approfondimenti, fornisce un prezioso aiuto per contestualizzare, e quindi relativizzare, questi interventi papali.
Per superare i blocchi alla discussione
Non solo perché essi appaiono ancorati a una mariologia riduttiva rispetto a una tradizione più ricca e articolata, che era stata rimossa dalla vita ecclesiale all’inizio del Novecento in seguito agli evidenti condizionamenti storici che caratterizzavano la visione dei rapporti di genere dei membri del Sant’Uffizio. Soprattutto perché i documenti papali rivelano i limiti di una decisione determinata da un clima ecclesiale in cui si riteneva necessario ribadire la natura teandrica della Chiesa in contrapposizione alla rivendicazione del diritto delle donne ad accedere al ministero. Il contesto ha fatto dimenticare che l’aspirazione al sacerdozio femminile non si era storicamente espressa in termini giuridici e rivendicativi; ma, fondata sull’adeguamento alle necessità dei tempi del tradizionale richiamo al carattere mariotipico della presenza femminile nella Chiesa, si era sviluppata su un terreno vocazionale, spirituale e cultuale. Ricollocare su questa piano la discussione, può aiutarne a superarne i blocchi.
La Giornata.
Papa Francesco: la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità
L’intervento del Papa in occasione della celebrazione virtuale per la prima Giornata Internazionale della Fratellanza Umana: non c’è tempo per l’indifferenza, "o siamo fratelli o ci distruggiamo"
di Mimmo Muolo (Avvenire, giovedì 4 febbraio 2021)
C’è un giardino ad Abu Dhabi dove lo scorso anno i giovani hanno appeso alle fronde degli alberi i loro pensieri di pace, scritti su centinaia di foglietti. Oggi, idealmente, anche il Papa e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, hanno aggiunto i loro.
Per ribadire di fronte al mondo - come ha sottolineato Francesco - che «la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità». Che si è «o fratelli o nemici». Altrimenti «crolla tutto e ci distruggiamo a vicenda». E noi, ha aggiunto il Pontefice, «siamo fratelli, nati da uno stesso Padre. Con culture, tradizioni diverse, ma tutti fratelli. E nel rispetto delle nostre culture e tradizioni diverse, delle nostre cittadinanze diverse, bisogna costruire questa fratellanza». Messaggio di pace che oltre tutto giunge mentre si prepara il viaggio in Iraq a maggioranza islamica.
Per il secondo anniversario dell’incontro di Abu Dhabi, dove il 4 febbraio 2019 insieme firmarono il Documento sulla fratellanza umana, il Papa e l’imam si sono di nuovo “riuniti”, questa volta sul web, per la prima Giornata internazionale sulla fratellanza umana, istituita il 21 dicembre 2020 dall’Onu, che l’ha fatta coincidere proprio con il giorno in cui avvenne la storica firma.
È stata l’occasione non solo per ascoltare Francesco e Ahmad Al-Tayyeb chiamarsi nuovamente e reciprocamente «fratelli», ma anche per presentare i vincitori (presenti in collegamento) del primo Premio Zayed, ispirato anch’esso al documento, che quest’anno va al segretario generale dell’Onu, António Guterres, e a Latifa Ibn Ziaten, una mamma di cinque figli, che dopo averne perso uno, vittima del terrorismo, ha fondato un’associazione per i giovani e la pace, che porta il suo nome: Imad. Allo specialissimo “webinar” era presente anche il giudice Mohamed Mahmoud Abdel Salam, segretario generale dell’Alto Comitato per la fratellanza umana, cioè l’organismo che tramite una giuria internazionale ha scelto i premiati.
Le prime parole di papa Francesco sono state per l’imam, «fratello mio, amico mio, mio compagno di sfide e di rischi - ha rimarcato - nella lotta per la fratellanza». «La sua testimonianza - ha quindi proseguito il Pontefice - mi ha aiutato molto perché è stata una testimonianza coraggiosa. So che non era un compito facile. Ma con lei abbiamo potuto farlo insieme, e aiutarci reciprocamente. La cosa più bella è che quel primo desiderio di fratellanza si è consolidato in vera fratellanza. Grazie, fratello, grazie». Successivamente papa Bergoglio ha ringraziato lo sceicco Mohammed bin Zayed «per tutti gli sforzi che ha compiuto perché si potesse procedere in questo cammino. Ha creduto nel progetto. Ci ha creduto», ha detto. E un grazie il Papa lo ha detto anche al giudice Abdel Salam, «“l’enfant terrible” di tutto questo progetto, amico, lavoratore, pieno d’idee, che ci ha aiutato ad andare avanti».
Espressioni di gratitudine e di affetto anche Guterres e Latifa.
Visibilmente contento, Francesco ha ribadito: «Grazie a tutti per aver scommesso sulla fratellanza, perché oggi la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità. O siamo fratelli o ci distruggiamo a vicenda». E per questo ha messo in guardia dall’indifferenza: «Non possiamo lavarcene le mani, con la distanza, con la non-curanza, col disinteresse. O siamo fratelli o crolla tutto. È la frontiera. La frontiera sulla quale dobbiamo costruire; è la sfida del nostro secolo, è la sfida dei nostri tempi». Anche la «non-curanza», infatti, è per il Papa «una forma molto sottile d’inimicizia. Non c’è bisogno di una guerra per fare dei nemici. Basta la non-curanza. Basta con questa tecnica - si è trasformata in una tecnica -, basta con questo atteggiamento di guardare dall’altra parte, non curandosi dell’altro, come se non esistesse».
Bergoglio ha quindi spiegato che cosa intende per fratellanza. «Vuol dire mano tesa; fratellanza vuol dire rispetto. Fratellanza vuol dire ascoltare con il cuore aperto. Fratellanza vuol dire fermezza nelle proprie convinzioni. Perché non c’è vera fratellanza se si negoziano le proprie convinzioni». E perciò «un mondo senza fratelli è un mondo di nemici».
Anche da parte di Al-Tayyeb sono giunte parole di grande rispetto verso il Papa, «mio fratello, amico sulla via della fraternità e della pace». E la promessa di continuare a lavorare per il resto della sua vita con Francesco e con ogni sostenitore della pace «per rendere i principi di fratellanza umana una realtà in tutto il mondo». Da qui il suo auspicio concreto che il 4 febbraio sia «ogni anno un campanello d’allarme per il mondo e per i suoi leader, che li spinga a consolidare» questi principi.
Guterres, dal canto suo ha ringraziato per il premio, definendolo «un riconoscimento per il lavoro dell’Onu». -E Latifa ha ricordato: «Ho perso un figlio, ma oggi riesco a raggiungere tanti bambini che ho salvato anche nei centri di detenzione, perché non cadessero nell’odio».
Latifa Ibn Ziaten e Guterres i vincitori del premio Zayed 2021 per la Fratellanza Umana
L’annuncio è stato dato durante una conferenza stampa virtuale. Domani, 4 febbraio, l’assegnazione del riconoscimento durante l’incontro online nella prima Giornata Internazionale della Fraternità Umana, al quale interverranno anche il Papa e il Grande Imam di Al-Azhar. Ai vincitori in un tweet Francesco rivolge i suoi auguri, ringraziandoli per la loro testimonianza
di Sr Bernadette Mary Reis, fsp e Debora Donnini
Città del Vaticano Una mamma di 5 figli, fondatrice di un’associazione per i giovani e la pace, che porta il nome di suo figlio Imad. Il giovane perse la vita a causa di un atto di terrorismo. Una donna, dunque, che ha saputo trasformare il suo lacerante dolore in un modo per aiutare i giovani. A lei, Latifa Ibn Ziaten, assieme a António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite dal 2017, va il premio Zayed 2021 che riconosce l’impegno permanente a favore della fraternità umana, ispirandosi al Documento sulla Fratellanza Umana firmato due anni fa a Abu Dhabi. Il riconoscimento va a premiare soprattutto coloro che costruiscono ponti per mettere in collegamento popoli divisi, rafforzando i veri rapporti umani che rendono possibile il lavoro per garantire libertà e sicurezza per tutti. Inoltre, onora i valori del fondatore degli Emirati Arabi Uniti, il defunto Sheikh Zayed, che ha vissuto una vita di pacifica convivenza.
I nomi dei vincitori del 2021, annunciati in una conferenza stampa virtuale, sono stati selezionati da una giuria indipendente e provengono da un gruppo di persone di 30 Paesi, che sono stati nominati da leader nei settori del governo, della cultura e della religione. Parte delle celebrazioni di domani per la prima Giornata Internazionale della Fraternità Umana, è proprio l’assegnazione dello “Zayed Award for Human Fraternity”. Il Papa e il Grande Imam di Al-Azhar presenteranno congiuntamente il premio durante la cerimonia virtuale di domani, trasmessa in streaming in diverse lingue dalle ore 14.30 (ora di Roma) - 13.30 (GMT) - da Vatican News e diffusa da Vatican Media. La Giornata è stata istituita il 21 dicembre 2020 dalle Nazioni Unite e in ricordo della firma del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”.
Il giudice Abdel Salam: i vincitori modelli per la prossima generazione
Presentando i vincitori del premio, il Segretario del Comitato Superiore per la Fratellanza umana, il giudice Mohamed Abdel Salam, ha dichiarato che "è stato concepito per incoraggiare e riconoscere coloro che ci ispirano tutti a giocare il nostro ruolo nel creare un mondo più comprensivo, inclusivo e pacifico. Esaminando il lavoro e l’impatto di entrambi i vincitori del 2021, è chiaro che sono entrambi modelli per la prossima generazione, i leader mondiali e tutti coloro che sono impegnati" per la pace.
Latifa e l’armonia sociale fra generazioni e origini
Latifa Ibn Ziaten, fondatrice della "Association IMAD pour la jeunesse et la paix", è originaria del Marocco. A 17 anni, nel 1977, si è trasferita in Francia. Uno dei suoi figli, Imad, si è unito al primo reggimento dei paracadutisti francesi ed è stato assassinato vicino a Tolosa nel 2012. In seguito la donna ha cercato l’assassino di suo figlio, Mohammed Merah, per capire cosa lo avesse portato a commettere un omicidio. Quell’incontro le ha permesso di entrare nel mondo di un giovane che si sentiva abbandonato e che non era mai riuscito a integrarsi nella società in generale. Da quando ha fondato la sua associazione, Latifa viaggia in tutta la Francia per raccontare la sua storia e per incontrare i giovani. La sua speranza è di contribuire a preservare l ’“armonia sociale” sia tra le generazioni più anziane e le giovani, sia tra le persone originarie della Francia e i migranti. Nell’apprendere il conferimento del riconoscimento, Latifa ha espresso la speranza questo aiuti a sensibilizzare un pubblico più ampio sulla necessità di continuare negli sforzi per il dialogo e la coesistenza pacifica.
Guterres e la vera battaglia, quella contro il Covid-19
António Guterres, un politico originario del Portogallo, è il nono segretario generale delle Nazioni Unite. Durante l’ultimo anno in cui il mondo intero è stato travolto dalla pandemia del Coronavirus, Guterres ha alzato la voce in diverse occasioni facendo appello per un "cessate il fuoco globale in tutti gli angoli del mondo per concentrarsi insieme sulla vera battaglia: sconfiggere il Covid-19". Nel ricevere la notizia del premio, Guterres ha detto di vederlo anche come un riconoscimento del "lavoro che le Nazioni Unite stanno facendo ogni giorno, ovunque, per promuovere la pace e la dignità umana ". Guterres ha annunciato con un tweet che donerà l’intero ammontare del premio all’Agenzia dell’ONU per i rifugiati.
Informazioni sul premio
Lo "Zayed Award for Human Fraternity" è stato, dunque, ispirato dalla firma del Documento sulla Fratellanza umana, da parte di Papa Francesco e del Grande Imam di Al-Azhar, Capo del Consiglio musulmano degli anziani negli Emirati Arabi Uniti, il 4 febbraio 2019. Entrambi hanno ricevuto per primi il riconoscimento nel 2019. È stato successivamente rivelato che Papa Francesco ha donato l’intero importo del premio al popolo Rohingya del Myanmar. Poi, durante le celebrazioni del primo anniversario della firma del Documento sulla Fratellanza umana, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan ha annunciato che questo premio sarebbe diventato un evento annuale. Viene consegnato nell’ambito della Giornata Internazionale della Fratellanza umana, che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato in riconoscimento degli sforzi in corso di leader e figure religiose che cooperano per promuovere la pace, l’armonia e il dialogo interculturale nel mondo.
* Fonte: Vatican News, 03 febbraio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
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#Caravaggio: #MariaeGiuseppe con il loro #figlio in un momento di "#Riposo durante la #fugainEgitto"
MESSAGGIO EVANGELICO E LA "NUOVA ALLEANZA" DI "MARIA E GIUSEPPE". EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA.... *
Per la studiosa occorre «ritrovare una struttura consonante a quanto presenta Paolo, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri»
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, mercoledì 27 gennaio 2021)
Anne-Marie Pelletier non è solo una sagace esegeta e una brillante docente universitaria. Già Premio Ratzinger per la teologia, l’intellettuale francese diventa anche una paladina delle donne, dentro e fuori la Chiesa, quando affronta il tema dell’odierna condizione femminile.
«Un club di uomini anziani, vestiti in modo strano, che dicono alla gente come si deve comportarsi a letto». Con questa sarcastica definizione Timothy Radcliffe illustra come, a suo dire, la gente vede la Chiesa. Perché non viene invece riconosciuto il grande apporto delle donne alla vita della Chiesa?
Le parole di Radcliffe sono impietose ma esprimono bene la realtà. La visibilità della Chiesa cattolica resta incontestabilmente quella della sua gerarchia, esclusivamente composta da uomini. E questa visione non è un effetto ottico.
È sufficiente aprire la porta di una chiesa durante una celebrazione per constatare che il presbiterio è uno spazio che appartiene agli uomini, in via maggioritaria se non esclusiva. Inoltre, l’autorità viene collegata al sacerdozio ministeriale. E per molti questo tipo di sacerdozio resta la chiave di volta del corpo ecclesiale. Anzi, passa l’idea che ne costituisca l’espressione suprema.
Da qui le reiterate denunce di clericalismo da parte di papa Francesco.
Cosa va perso in questa visione maschio-centrica?
Il dramma è che la verità della Chiesa viene nascosta. Infatti, la Chiesa non è innanzitutto la sua gerarchia, ma prima di tutto un corpo, che questa gerarchia ha la funzione di servire. Questo corpo è composto da uomini e donne che, nei loro diversi stati di vita, si riconoscono convocati dalla parola di Cristo. Questo popolo di battezzati dona carne e presenza al Vangelo nel mondo, spesso silenziosamente ma in modo autentico. E bisogna ammettere che le donne, in questo corpo, hanno un posto eminente, anzi dominante perché, in molti luoghi e circostanze, sono loro il volto e la mano della Chiesa per i nostri contemporanei. Io perdo un po’ la pazienza quando sento ripetere che ’bisogna fare spazio alle donne’ quando, invece, la prima cosa da fare è riconoscere il posto che esse occupano nelle parrocchie, nella catechesi, nelle missioni. Senza di loro, la Chiesa sarebbe già sparita.
Altrove lei ha sottolineato come l’attenzione della Chiesa con Francesco verso le donne non sia una questione nuova: da 50 anni i Papi prestano un’attenzione crescente al mondo femminile con diversi documenti. Allora è la Chiesa che ha fallito, rispetto all’uguaglianza uomo-donna, se ancora oggi viene percepita come maschile?
Si tratta di un dato impressionante. Dagli anni Sessanta il magistero ha prestato alle donne un’attenzione inedita. Non si era mai visto un elogio tale della donna da parte delle autorità della Chiesa. Eppure, nella Chiesa cattolica, le donne - in gran numero - hanno continuato a sentirsi emarginate, vedendosi assegnate a posti secondari, trattate con accondiscendenza, talvolta disprezzate da un mondo clericale che si arroga ogni decisione. Al punto da far sorgere l’opinione che molte poche cose sarebbero potute cambiare. Il problema di fondo non è semplicemente parlare delle donne, né parlare alle donne, ma lasciarle esistere, farle parlare a nome proprio nella Chiesa, far sì che siano esse a giudicare i problemi della vita e le questioni della fede, di cui hanno esperienza tanto quanto gli uomini.
In un suo testo su ’Vita e Pensiero’ lei scrive: «Il futuro dell’istituzione ecclesiale è intrinsecamente legato, nel cattolicesimo, a una riflessione polifonica ovvero alla condivisione della ricerca della verità, sempre più grande di quanto siamo capaci di cogliere». Può essere una riforma solo ’intellettuale’ sufficiente per far progredire il posto delle donne nella Chiesa? Oppure serve anche una riforma strutturale?
Per me è chiaro che una vera riforma della Chiesa deve incarnarsi nelle strutture della sua vita e nell’organigramma della sua governance. In questo senso non bastano tante belle parole. Il punto focale è che noi, uomini e donne, ci troviamo insieme nella responsabilità verso il Vangelo e nella missione della Chiesa. Rispetto al motu proprio recente, esso ritorna su un testo del 1972 che apriva il lettorato e il servizio di accolitato ai laici, a condizione che fossero uomini: in questo caso il magistero permette di metter fine ad un’aberrazione che squalifica la Chiesa. Resta il fatto che sarebbe troppo poco cercare solo di ridistribuire i poteri in una struttura immutata. Sono convinta che siamo in un momento cruciale in cui l’istituzione ecclesiale deve reinventarsi. Si deve tornare all’ecclesiologia. Non si significa fossilizzarsi su un’attività astrattamente intellettuale. Anzi, qui c’è la leva per un vero cambiamento di fondo. In questo senso mi piace comprendere la messa in guardia di papa Francesco di non attenersi alle semplici ’funzioni’. Per questo, mi trovo a disagio quando si pensa che l’accesso al sacerdozio femminile costituirebbe la soluzione della questione. Piuttosto vi constato un modo per ricondurre e confermare l’intero ordine ecclesiale al primato del sacerdozio ministeriale. Invece, penso che si debba uscire da questo schema per ritrovare una struttura consonante a quanto Paolo presenta, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri per il servizio di tutti. E così la Chiesa si ridisegna come una comunità di battezzati, dove il sacerdozio battesimale, condiviso da tutti, ritorna ad essere il più importante.
Nel suo libro Una comunione di uomini e donne lei ha parlato di un «machismo diventato il marchio di fabbrica della Russia putiniana e dell’America trumpiana». Perché l’avversione all’emancipazione femminile è così forte nel sovranismo?
Le donne oggi si ritrovano ad essere sotto la minaccia di regimi autoritari che proliferano e che hanno un’aria di dejà vu, i cui leader sono esclusivamente uomini. La Russia vive sotto il comando di un dirigente che esalta la virilità brutale, che mostra mediaticamente i suoi muscoli e che porta avanti una repressione impietosa delle opposizioni: la guerra in Cecenia ne é un sinistro esempio. Non è un caso che una delle maggiori oppositrici di questa ideologia sia una donna, il premio Nobel Svetlana Aleksievic, che ha scritto un libro intitolato La guerra non ha volto di donna. -Quanto al populismo di Donald Trump o Jair Bolsonaro e altri, sappiamo bene come questi uomini disprezzino le donne, sia nei loro discorsi che nella loro vita privata. Non dimentichiamo che le più grandi manifestazioni nella storia degli Usa sono state quelle delle donne che denunciavano il machismo insolente di Donald Trump nel 2016.
I movimenti per l’emancipazione delle donne sono un segno dei tempi. Come far sì che diventino positivi per l’intera società e non restino relegati ad essere - per quanto giuste - solo proteste?
É indubbio che i femminismi, per natura, sono movimenti protestatari e militanti. Come stupirsi che, per denunciare le violenze che pesano di esse e gli asservimenti cui sono costrette, le donne scendano in piazza e brandiscano lo stendardo della rivolta? Ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di uscire dalla guerra tra sessi, per arrivare ad un’auspicabile stima reciproca, fino a un’alleanza felice per la pienezza degli uni e delle altre. Non è certo quello che intendono quante oggi riesumano i testi di Valérie Solanas, l’intellettuale americana che sognava l’eliminazione del maschio dall’umanità. Un atteggiamento oltranzista, questo, che non opera per il bene delle donne ostaggio della miseria, delle povertà e del machismo che prospera su questo terreno.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
FLS
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE, MARIA, E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... *
Lo sposalizio di Maria e Giuseppe
Un amore semplice
di Antonio Tarallo *
Si erge con magnifico splendore la pala del Raffaello, insigne maestro del Rinascimento: «Sposalizio della Vergine», olio su tavola firmato Raphael Vrbinas, datato mdiiii . Colpisce la maestria dei colori. Colpisce l’equilibrio perfetto delle forme. La scena del matrimonio di Maria e Giuseppe è posta in primo piano. Dietro di loro, al centro, un sacerdote. Tiene le mani di entrambi, custode delle nozze. Alla sinistra di Maria, le donne. A destra di Giuseppe, un gruppo di uomini. Nell’iconografia tradizionale, usualmente, proprio uno di questi uomini è colto nell’atto di spezzare un bastone. È un ramo secco destinato a non fiorire, a non portare frutto. Solo quello di Giuseppe, invece, fiorisce. Ma da dove proviene questa tradizione?
Secondo i vangeli apocrifi, Maria era cresciuta nel Tempio di Gerusalemme - conservando, quindi, la castità - e, quando giunta in età di matrimonio (secondo la tradizione ebraica) la troviamo promessa sposa di Giuseppe. Il Protovangelo di Giacomo ( ii secolo) ci fornisce alcune informazioni a riguardo. Giuseppe è discendente dalla famiglia di David e originario di Betlemme. Prima del matrimonio con Maria, si sposò con una donna con la quale ebbe sei figli. Rimase però, poi, vedovo. Ed è in questo contesto che si introduce la famosa tradizione del bastone fiorito di Giuseppe. Come? Andando ad approfondire il tema - grazie al lavoro che sta compiendo, da tempo, la Pontificia Accademia mariana internationale sul recupero di una vera ed autentica “storia di Maria”, su un sempre maggiore approfondimento della sua figura, scrostando le sovrastrutture che il tempo ha costruito sopra la Vergine - riusciamo a comprendere meglio questo “arcano” che si dipana tra tradizione e iconografia. Basterebbe pensare a tutte le immagini che raffigurano Giuseppe che tiene in mano un bastone fiorito. È, allora, assai interessante andare a scovare le parole che il vangelo apocrifo riserva a questo episodio: «Indossato il manto dai dodici sonagli, il sommo sacerdote entrò nel santo dei santi e pregò a riguardo di Maria. Ed ecco che gli apparve un angelo del Signore, dicendogli: “Zaccaria, Zaccaria! Esci e raduna tutti i vedovi del popolo. Ognuno porti un bastone: sarà la moglie di colui che il Signore designerà per mezzo di un segno”. Uscirono i banditori per tutta la regione della Giudea, echeggiò la tromba del Signore e tutti corsero. Gettata l’ascia, Giuseppe uscì per raggiungerli. Riunitisi, andarono dal sommo sacerdote, portando i bastoni. Presi i bastoni di tutti, entrò nel tempio a pregare. Finita la preghiera, prese i bastoni, uscì e li restituì loro; ma in essi non v’era alcun segno. Giuseppe prese l’ultimo bastone: ed ecco che una colomba uscì dal suo bastone e volò sul capo di Giuseppe. Il sacerdote disse allora a Giuseppe: “Tu sei stato eletto a ricevere in custodia la vergine del Signore”». Fin qui, ciò che una errata tradizione ci dice. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su questo evento che ha segnato il piano di salvezza di Dio per l’umanità intera.
Il mese di Adar era il mese dei matrimoni. Un proverbio diceva: «Quando arriva Adar, Israele si riempie di gioia!». Troviamo una Maria quindicenne, allora. È una fanciulla che si avvicina all’età in cui le ragazze d’Israele erano solite contrarre matrimonio. Molto probabile che i genitori fossero già morti. Maria era, allora, nella casa di qualche parente della sua famiglia. Il capo di quella famiglia, come rappresentante del padre di Myriam, deve occuparsi del suo futuro. Viene concordato il matrimonio di Maria con Giuseppe. Sono poche le notizie che i Vangeli ci offrono sul “promesso sposo” di Maria. Del loro incontro, nulla sappiamo. È molto probabile che si conoscessero già prima del matrimonio. Il villaggio è piccolo: Nazaret, questo piccolo paese della Galilea.
Giuseppe era della stirpe reale di Davide e, in virtù del suo matrimonio con Maria, conferirà al figlio della Vergine - Figlio di Dio - il titolo legale di figlio di Davide. È l’adempimento delle profezie. Maria sa soltanto che il Signore l’ha voluta sposa di Giuseppe, un “uomo giusto”. Come immaginare, allora, il loro matrimonio? La tradizione giudaica antica ci viene in aiuto. Sappiamo bene che tutta la comunità del villaggio partecipava a questa gioia. Gran sfarzo di abiti. Frasi dell’Antico Testamento che riecheggiavano nella cerimonia: il Talmud, il libro principe di tutto. Gli anziani della città coprivano il loro capo con veli bianchi in segno di superiorità: sono gli anziani, gli uomini più rispettati della comunità. I bambini, in quel giorno così particolare, ricevevano dolci di miele e noci. E lo sposo faceva un regalo alla sposa, un regalo significativo.
«Il ragazzo e Maria si capivano senza parole, non c’era mai tra i due il minimo urto: sembrava che entrassero l’uno nell’altra, che costituissero un’unica persona, tanto era stretta la loro unione», così lo scrittore Pasquale Festa Campanile ci presenta i due coniugi nel suo romanzo Per amore, solo per amore (1983). E a noi, piace trovare in quella parola, «amore», l’infinito Amore di Dio per l’umanità, espresso proprio in un matrimonio, in una unione sponsale tra un giovane e una giovane. Così, semplicemente. Perché Dio è semplice nel suo Amore.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 23 gennaio 2021
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Il Trittico di Mérode è un dipinto di Robert Campin, olio su tavola (129x64,50 cm) conservato nel Metropolitan Museum di New York, nella sezione The Cloisters, e databile al 1427. - Il trittico, formato tipico della produzione di Campin, poteva essere chiuso, ed era probabilmente destinato alla devozione privata. La scena centrale mostra l’Annunciazione, mentre gli scomparti laterali mostrano i due committenti inginocchiati e San Giuseppe al lavoro
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Motu Proprio. Così il Papa riconosce ruolo essenziale e servizio reso dalle donne
di Rosanna Virgili ( Avvenire, martedì 12 gennaio 2021)
«Vi sono diversi carismi ma uno è lo Spirito; vi sono diversi ministeri ma uno solo è il Signore», scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinti (12,4-5) e proprio nel nome dello Spirito, papa Francesco inizia il Motu Proprio pubblicato ieri «circa l’accesso delle donne ai ministeri del Lettorato e dell’Accolitato» (che modifica il primo paragrafo del canone 230 del Codice).
Seguendo la tradizione della Chiesa, che ha chiamato sin dalle origini «ministeri le diverse forme che i carismi assumono quando sono pubblicamente riconosciuti e sono messi a disposizione della comunità e della sua missione in forma stabile», Francesco ha ritenuto di occuparsi del tema ecclesiale dei carismi, specialmente di quelli più numerosi e vari di cui godono i laici, visto che questi costituiscono «l’immensa maggioranza del popolo di Dio» (EG 102).
Ha ritenuto di dover riconoscere ai carismi dei laici e delle donne la dignità di un nome e, quindi, di un mandato, di una stabilità e di un’autorità che permetta loro di poter spendere il Dono ricevuto da Dio, e riservato a tutti i battezzati, in un servizio concreto, costruttivo, di responsabilità nella comunità cristiana. Quanto consiste, appunto, nel ’ministero’.
Negare, del resto, a un battezzato di fare questo, significa pretendere di soffocare la Grazia e rendere quella persona un membro inerte del Corpo mistico di Cristo. È la preoccupazione di Francesco che ribadisce «l’urgenza di riscoprire la corresponsabilità di tutti i battezzati nella Chiesa e in particolare la missione del laicato» che è stata, poi, reclamata anche nel Sinodo per la regione pan-amazzonica (2019).
Ora si viene al punto, mettendo il focus sui diversi ministeri, per dare «una loro migliore configurazione e un più preciso riferimento alla responsabilità che nasce, per ogni cristiano, dal Battesimo e dalla Confermazione». Distinguendo con precisione tra ministeri ordinati e non ordinati e concentrando l’interesse su questi ultimi. Si tratta, insomma, degli antichi «ordini minori» i quali, sinora erano, però, consentiti solo agli uomini in quanto tappe di un percorso che portava - e porterà ancora per gli uomini - a quelli «maggiori ».
Ed ecco la novità: se per i ministeri ordinati la Chiesa «non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale» (cfr. san Giovanni Paolo II, Ordinatio sacerdotalis, 1994), per i ministeri non ordinati «è possibile, e oggi appare opportuno superare tale riserva ». Le donne possono, dunque, essere stabilite come Lettori e Accoliti, accompagnando, almeno quel percorso che compiono gli uomini verso i ministeri ordinati del diaconato e del sacerdozio.
Anche a esse è garantita un’adeguata preparazione e il discernimento dei pastori. È un accesso, pertanto, dovuto allo Spirito Santo, secondo le Scritture e nell’alveo della teologia cattolica. Importante per le donne le quali da una parte si vedono riconosciuto un ’servizio’ che molte già svolgevano, dall’altra acquistano «un’incidenza reale ed effettiva nell’organizzazione, nelle decisioni più importanti e nella guida delle Comunità». Urgente per la Chiesa che non può più fare a meno del concorso qualificato delle donne nella sua ’uscita’ di evangelizzazione e non può neppure permettersi di ignorare o perdere le donne stesse.
I grandi temi che la Chiesa ha pensato di non vedere
Si parla poco della condizione di declino e di crisi gravissima che il Cristianesimo sembra conoscere attualmente
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 30 dicembre 2020)
È opinione diffusa che l’attuale pontificato si caratterizzerebbe per un indirizzo audacemente innovativo, si dice addirittura rivoluzionario. A causa vuoi di una pastorale tutta rivolta alle grandi questioni mondiali dell’ecologia e della giustizia economica tra le nazioni, vuoi di una straordinaria e quasi indiscriminata apertura alle diversità culturali, al dialogo tra le fedi, alla «carità». È però singolare che a questa proiezione del pontificato verso il mondo, e all’attivismo indefesso con cui essa viene alimentata, corrispondano tuttavia un silenzio e una mancanza pressoché assoluta di riflessioni e di iniziative sulla condizione generale che il mondo stesso riserva oggi alla fede cristiana e alla Chiesa stessa.
Una condizione di crisi gravissima. Nell’intero emisfero settentrionale del pianeta il Cristianesimo sembra conoscere, infatti, un tale declino da far pensare che esso stia addirittura sul punto di spegnersi. Lo mostra al semplice sguardo la quantità di edifici religiosi che in tutti Paesi europei hanno chiuso i battenti. Specialmente le chiese, trasformate in gran numero in supermercati, sale bingo o centri commerciali. Ma lo indicano in modo ancor più pregnante due fatti decisivi. Innanzi tutto la sparizione di ogni residuo di quella che un tempo era la Cristianità intesa come fatto pubblico, cioè come connessione tra istituzioni religiose e istituzioni politiche che per secoli ha caratterizzato tutti i regimi europei, ancora in sostanza sul modello dell’Impero romano. In secondo luogo, il fatto che ormai non rimane quasi più traccia di quel «compromesso cristiano-borghese» instauratosi dopo la Rivoluzione francese che fino a qualche decennio fa era tipico di tutte le classi dirigenti euro-occidentali. Un compromesso in forza del quale, pur laicizzandosi e modernizzandosi, esse erano però rimaste legate in qualche modo all’antica fede. Da tempo, invece, nei loro modelli di vita, nell’educazione dei figli, nell’autocoscienza di sé, nei loro valori pubblici, le élite delle società sviluppate appaiono virtualmente scristianizzate. E inevitabilmente il resto della società segue il loro esempio.
Ora, di fronte a questa gigantesca frattura storica - che oggi si manifesta in tutta la sua straordinaria ampiezza ma che nell’ultimo mezzo secolo non ha mancato di sollecitare le alte e tormentate riflessioni del magistero, da papa Montini a papa Ratzinger - appare davvero singolare il silenzio non solo dell’attuale Pontefice ma dell’insieme della gerarchia. L’attenzione e l’iniziativa dell’uno e dell’altra non sembrano attratte neppure da altre due questioni di enorme portata ormai arrivate drammaticamente al pettine. Tali, a me pare, da obbligare la Chiesa a mettere in discussione di fatto la propria intera vicenda identitaria, a riformularne gli esiti in misura radicale.
La prima di tali questioni è quella della democrazia. È vero naturalmente che la Chiesa non può essere una democrazia perché Dio non può essere messo ai voti. La democrazia però non è solo questione di voti. È anche - anzi soprattutto - una questione di diritti. Innanzi tutto di quei diritti della persona alla cui origine c’è il Cristianesimo e sui quali da decenni non a caso insiste in ogni occasione il magistero della Chiesa stessa. Ma allora la domanda ovvia che si pone è la seguente: come può essere compatibile con la tutela di tali diritti della persona il tipo di potere che esercita il Papa sul suo Stato e sull’istituzione ecclesiastica - un potere assoluto e incontrollato, arbitrario nel più vero senso della parola? Com’è compatibile ad esempio il diritto di ogni persona a conoscere le accuse che gli vengono mosse, a conoscerne i motivi, ad avere un giusto processo da parte di giudici indipendenti, con la sorte riservata al cardinale Becciu, il quale, spogliato dal Papa di alcune importanti prerogative legate alla sua carica senza nulla sapere dei motivi, in teoria aspetta giustizia - si noti il paradosso - da giudici nominati e revocabili ad nutum dal Papa stesso? Come si può chiedere al mondo di essere giusto, mi chiedo, se in casa propria le regole della giustizia sono queste? E d’altra parte, che in quella casa ci sia un problema vero di democrazia non è forse testimoniato anche dal fatto che ancora oggi in seguito a un episodio come quello appena detto (ma anche a mille altri) nessuno osi dire pubblicamente nulla? Sollevare qualche dubbio? Chiedere, Dio non voglia, qualche spiegazione? O l’obbligo democratico alla trasparenza tante volte invocato vale solo per gli altri?
Né si tratta solo di questo. Finora, infatti, a far da contrappeso alla natura autocratica del potere papale è stato il carattere elettivo della carica. Incontrollatamente elettivo, bisogna aggiungere: grazie al quale, quindi, a un Papa di un certo orientamento era possibilissimo (come infatti è accaduto quasi sempre) che succedesse un Papa di un orientamento affatto diverso. Ora invece, con la nomina da parte dell’attuale Pontefice di un sempre maggior numero di cardinali in tutto e per tutto a lui omogenei, minaccia di nascere di fatto al vertice dell’istituzione un vero e proprio «partito del Papa», detentore della maggioranza nel conclave. Grazie al quale al Papa regnante stesso diviene perciò possibile scegliere il proprio successore o perlomeno influenzarne in modo decisivo l’elezione. Determinando così il passaggio da un’autocrazia dalla titolarità incontrollata a una autocrazia dalla titolarità designata.
Infine, al problema della democrazia si ricollega direttamente pure la seconda delle grandi questioni arrivate al pettine che oggi interrogano la Chiesa e la sua storia: la questione del ruolo delle donne all’interno dell’istituzione ecclesiastica. O per dire meglio la questione della loro assoluta, continua, esclusione da qualsiasi ruolo significativo. Non mi riferisco al sacerdozio femminile. Mi riferisco al potere, alle cariche, che so, di presidente dello Ior, di governatore dello Stato, di nunzio o di segretario di Stato: che a mia conoscenza nessun passo dei Vangeli prescrive debbano essere affidate a uomini anziché a donne. Ma che la Chiesa invece continua imperterrita a credere un esclusivo monopolio maschile. Mi chiedo come possa immaginare di avere un qualsiasi futuro un’istituzione che nel mondo di oggi si muove in questo modo. Mostrando cioè una mancanza di senso storico che ricorda tristemente la vana battaglia che la stessa Chiesa cattolica ingaggiò per oltre un secolo contro i principi liberali. Oltre tutto - ancora una volta, come allora - smentendo in tal modo l’ispirazione più luminosa della propria storia e la testimonianza più straordinaria del proprio fondatore.
Ma se le cose stanno così, mi risulta allora abbastanza incomprensibile come possa essere definito innovativo, progressista o addirittura rivoluzionario, papa Francesco. Il quale esercita il suo potere al modo che ho detto e circa tutte le questioni e i problemi fin qui enumerati è convinto evidentemente che essi non esistano, o comunque che non meritino la sua attenzione. Per quel che conta la mia opinione, ho il sospetto che la sua via non porti lontano.
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
Michelangelo e “La Linea della Bellezza e della Grazia”. La "forma serpentinata" ... *
Una macchina teologico-politica
Conversazione con Giovanni Careri in occasione dell’uscita di “Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina”.
di Francesco Zucconi *
Francesco Zucconi: Il visitatore dei Musei Vaticani arriva nella Cappella Sistina dopo aver attraversato straordinarie sale e corridoi. Nei pochi minuti che trascorre in questo ambiente immersivo, il suo sguardo è come incantato, si sente preso e sospinto. Ma i turni di visita sono troppo brevi per muovere consapevolmente lo sguardo tra i diversi cicli pittorici.
Tu hai trascorso molti anni a studiare gli affreschi realizzati da Michelangelo Buonarroti e la tua ricerca fornisce tanto una forma di orientamento nella Sistina quanto una serie di nuovi percorsi interpretativi. Prima di entrare nel merito di questo libro, appena pubblicato da Quodlibet, vorrei chiederti come nasce l’idea di lavorare su questo oggetto straordinario.
Giovanni Careri: Nel 2003 ho coordinato all’EHESS di Parigi un progetto di ricerca sulla temporalità delle immagini con un antropologo (Carlo Severi), uno storico (Jean-Claude Schmitt), e uno specialista della Grecia antica (François Lissarrague). Lo stimolo a occuparmi della Sistina non è arrivato dalla scoperta di nuove fonti o documenti, ma dalla domanda che avevamo posto a tutti i partecipanti al progetto: il rapporto tra le immagini e le temporalità che le attraversano, l’indagine sulle modalità del “tempo visivo” che le immagini stesse producono.
Il mio contributo riguardava il modo in cui il Giudizio Universale di Michelangelo costruisce un tempo dell’attesa e dell’imminenza, imminenza della fine del tempo della storia, ma anche della ricapitolazione e del bilancio della vita di ognuno. Mi sono in particolare interessato ai “libri della vita” che gli angeli aprono al centro dell’affresco per significare che il tempo del giudizio di sé è giunto per i personaggi rappresentati ma anche per lo spettatore.
Accanto agli angeli si trova un grande dannato, un “disperato” che porta la mano sul volto con un gesto che rinvia inequivocabilmente al dialogo interiore e a quella forma di autobiografia penitenziale che possiamo definire - con Michel Foucault - “soggettivazione”, per articolarla con l’altra determinazione che caratterizza il “soggetto moderno”, quella dell’assoggettamento.
Nella postura di questo monumentale personaggio, le due determinazioni coincidono: il disperato ha appena ammesso la sua colpevolezza nel dialogo con sé stesso mentre demoni e serpenti già lo avvolgono nelle loro spire, eseguendo l’ordine del Cristo Giudice. La condanna del “disperato” è esibita nel rapporto tra la sua situazione e quella di Minosse, il giudice infernale avvolto da un serpente che ne inibisce il movimento.
Il punto di partenza di questo mio lavoro sugli affreschi della Sistina è nel confronto tra le due posture, quella del dannato e quella di Minosse. Il dannato sta diventando simile al demonio, tra poco il suo corpo sarà stretto tra le spire del serpente come è già accaduto per il giudice infernale. In questo rapporto tra due figure e nella processualità del divenire Minosse ho ritrovato uno dei fili essenziali delle mie ricerche: quello della “conformazione” ovvero di un’economia mimetica che fonda la sua semiosi sull’assunzione e/o sulla perdita della somiglianza di un’attitudine o di un gesto.
A partire da tale osservazione, possiamo guardare il Giudizio come a una immensa coreografia: gli eletti e gli angeli si stanno facendo simili al Cristo, imitando e incorporando la sua “forma serpentinata”, mentre i dannati perdono per sempre la somiglianza al figlio di Dio per assumere una somiglianza invertita o “perversa” con Minosse, dove la figura serpentinata che libera il movimento delle figure si muta in un serpente costrittore.
F.Z.: All’interno della Sistina è sintetizzata in forma visiva l’intera storia spirituale dell’Umanità dal punto di vista cristiano: dalla Creazione al Peccato, dalla Redenzione al Giudizio. Il tuo libro si concentra in modo particolare sul Giudizio Universale e sul ciclo degli Antenati di Cristo. Per quale motivo ti sei interessato a queste parti e quale rapporto intercorre tra di loro?
G.C.: La storia dell’arte ha generalmente separato le tre parti che compongono gli affreschi sistini. Sono opere molto distanti nel tempo, realizzate da artisti di generazioni diverse per tre diversi Papi, ognuno dei quali aveva preoccupazioni e interessi particolari. Nel libro non solo ho voluto considerare le tre parti come un insieme, ma ho anche deciso di cominciare dall’analisi dal Giudizio, che è l’ultimo elemento aggiunto cronologicamente. L’ho fatto per varie ragioni. La principale è che le immagini si rispondono tra di loro se sono messe una accanto all’altra, indipendentemente dalla data della loro realizzazione. Quando il Giudizio viene aggiunto agli affreschi preesistenti si producono nuove relazioni e un nuovo senso, esattamente come quando si aggiunge un oggetto in un’istallazione di arte contemporanea.
Nel caso degli Antenati si può dire che la loro spossatezza era già evidenziata, per contrasto, con i corpi eroici e ispirati delle Sibille e dei Profeti. Ma il contrasto con il Giudizio fa apparire la loro fatica come una categoria dell’ideologia cristiana, in una prospettiva che stringe il nesso tra il tempo delle origini (ebraiche) e quello del compimento. Questa costruzione è coerente con il pensiero di san Paolo, senz’altro il più influente tra coloro che hanno immaginato la fine dei tempi, il quale insiste sul fatto che il senso della storia di un individuo come quello dell’umanità tutta intera si rivela solo a partire dalla fine.
F.Z.: Hai appena menzionato la spossatezza delle figure degli Antenati di Cristo, un tema centrale del tuo libro che porta a esiti sorprendenti.
G.C.: L’incongruità che ha subito attratto la mia attenzione davanti alle lunette degli Antenati è il rapporto tra la degna autorità dei nomi, scritti in lettere capitali e incorniciati in tavole di grandi dimensioni, e le figure che non hanno i tratti regali dei patriarchi e dei sovrani ai quali questi nomi si riferiscono. Vi si vedono giovani donne esauste intente a nutrire e accudire i loro bambini e vecchi padri buttati a terra o persi in melanconica meditazione. Di fronte a questa discrepanza, l’iconologia ha trovato soluzioni ingegnose ma fallimentari, come quella di tradurre in latino i nomi ebraici per poi cercare nella vulgata la presenza di tali nomi in situazioni comparabili a quelle che si vedono nelle lunette.
Considerando la lista dei nomi dal punto di vista dell’antropologia della parentela, sono arrivato alla conclusione che vadano mantenuti separati dalle figure o meglio articolati con esse secondo un principio di inclusione/esclusiva.
In altre parole, i nomi incorniciati nelle tavole si fanno carico di innestare la storia cristiana in quella degli ebrei e particolarmente in quella prestigiosa stirpe di Abramo alla quale apparteneva Giuseppe, marito di Maria, madre di Gesù.
Tuttavia, a questa funzione inclusiva si accompagna una funzione esclusiva della quale si fanno carico le figure stesse che esibiscono i tratti di “carnalità” che san Paolo attribuisce agli ebrei che non si convertono in seguaci di Cristo.
Tra questi, il più importante è l’ostinato rifiuto della Grazia di cui si possono riconoscere le conseguenze nelle lunette stesse: l’immersione in una vita limitata alle attività di sussistenza, la generazione e la cura dei figli, la pigrizia, l’avidità, l’erranza e persino la follia.
In breve: mentre i nomi esaltano la continuità tra la storia cristiana e quella degli ebrei, le immagini sono il luogo di produzione della differenza e di un’alterazione che si avvicina alla caricatura, affermando la crisi definitiva alla quale il modello genealogico di trasmissione del sangue da padre in figlio è stato sottoposto dall’inclusione di un figlio che è figlio di Dio e non di suo padre.
Questa rottura autorizza l’apertura della predicazione a tutte le nazioni, separando il “tempo scaduto” della storia veterotestamentaria da quello nuovo del messianismo cristiano. Si delinea così un paradosso che include la “storia genealogica” e al tempo stesso la esclude denunciandola come ormai superata.
F.Z.: Alcuni degli Antenati dipinti da Michelangelo recano i segni della stigmatizzazione antiebraica del XVI secolo. Questo anacronismo è passato inosservato alla storia dell’arte fino a pochi anni fa. Come ti spieghi questa cecità?
G.C.: Nel 2003 la storica dell’arte americana Barbara Wish ha pubblicato un articolo dove rivela la presenza di un segno circolare sulla tunica gialla di uno di personaggi della lunetta che porta il nome di Aminadab. Il restauro che ha reso visibile questo signum si era concluso quasi vent’anni prima e ci si può quindi chiedere cosa ne abbia impedito la visibilità per tutto questo tempo.
Penso che uno dei veli che hanno nascosto la marcatura sia lo statuto di “capolavoro” che la Sistina ha acquisito immediatamente e mai perduto nel corso dei secoli. L’opera di un artista distante da ogni forma di realismo non poteva esibire un tratto “documentario”, la testimonianza di una marcatura infamante. Non si poteva inoltre facilmente ammettere che Michelangelo condividesse con la cultura del suo tempo una precisa forma di antigiudaismo.
Un altro velo è di ordine epistemologico: si trova quello che si cerca. Per dirlo in modo meno meccanico, le domande orientano la ricerca, guidano lo sguardo e, dal dopoguerra fino al 2003, le domande sugli Antenati sono state essenzialmente orientate sul rapporto tra i nomi e le figure. Ho tuttavia incontrato alcuni testi che fanno apparire il carattere semitico delle figure. Tra i più interessanti, quello di Emile Zola che nel suo romanzo Rome (1896) descrive gli Antenati come “la razza punita”, frase che risuona con la sua denuncia dell’antisemitismo francese nell’affaire Dreyfus. Sydney Freedberg, dal canto suo, aveva scritto che in queste figure la dimensione domestica e quella semitica si incontrano e si sovrappongono.
Si trattava, insomma, di cambiare la domanda. Non più “chi sono questi personaggi”? Ma che ruolo assumono nel montaggio della storia che si realizza negli affreschi? Nel libro non pretendo di aver svelato il mistero degli Antenati, ma spero di aver fatto apparire qualcosa che non è spiegabile in rapporto a una fonte scritta: il dialogo che le strane iconografie di queste figure intraprendono con altre iconografie: quella della Santa Famiglia e di Giuseppe in particolare, quella della Madonna del latte, quelle dei cicli dei mesi del Palazzo della Ragione di Padova, quelle, altrettanto “paradigmatiche”, dell’albero di Jesse, ma anche quelle delle stampe antisemite di area germanica.
F.Z.: Negli ultimi anni, la filosofia italiana si è caratterizzata per la capacità di indagare i nessi tra teologia e politica. Penso in particolare ai lavori di Giorgio Agamben e a quelli di Roberto Esposito, citati anche all’interno del tuo libro. Al di là della ricerca filosofica propriamente detta, mi pare che Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina ci inviti ad assumere consapevolezza del “pensiero visuale” che trova espressione nelle opere stesse.
G.C.: Perché ancora un libro sulla Sistina? Per le stesse ragioni che spingono Agamben, Esposito e altri studiosi a rileggere le Lettere di san Paolo. Il paradigma teologico enunciato da san Paolo è corporativo, alla fine dei tempi tutti gli uomini giusti saranno incorporati in un unico corpo del quale il Cristo è la testa e i cristiani le membra.
Come nei miei lavori su Bernini e Caravaggio, anche in questo libro si trova la questione dell’efficacia dell’opera sullo spettatore, qui assoggettato dalla “terribilità” dell’affresco ma anche invitato a giudicare sé stesso, soggettivandosi. Si incontra inoltre, di nuovo, il paradigma della “conformazione”, un principio di “somiglianza” che è al fondamento della teoria cristiana dell’immagine ma che è stato quasi completamente ignorato dalla storia dell’arte. Nel suo Giudizio Universale, Michelangelo mostra la penultima tappa di questo processo di incorporazione attraverso l’assunzione di somiglianza.
Il portato politico di questo modello è considerevole e ancora attuale, se si estende la nozione di conformazione al di là del suo senso sacramentale sul piano della vita sociale e politica. L’idea della nazione come corpo è, d’altra parte, ancora oggi ben presente. Basta pensare ai nazionalismi e alle purificazioni etniche dove si tratta precisamente di espellere le impurità da un corpo collettivo omogeneo.
F.Z.: Si potrebbe dire che la tua ricerca porta alla luce le tracce del discorso antiebraico presente nel ciclo di affreschi e correlato al contesto storico del XVI secolo. Allo stesso tempo, mostri le tracce di una presa di distanza da parte di Michelangelo - o meglio di un’adesione al modello figurativo della “vita secondo la carne” - nei confronti del meccanismo teologico-politico che lui stesso ha contribuito a edificare.
G.C.: La condizione degli ebrei che vivono tra i cristiani all’epoca di Michelangelo è molto diversa da quella del XIX e nel XX secolo. Nel libro ho cercato di evitare ogni generalizzazione astorica: la situazione degli ebrei cambia e si aggrava con il papato di Paolo IV Carafa, ma già durante il Papato di Paolo III la conversione forzata degli ebrei viene presa in considerazione. Gli studi di Adriano Prosperi, di Kenneth Stow e di altri storici hanno rivelato che la “purificazione” della cristianità intensa come un corpo collettivo è sorta nell’ambito dei fautori della Riforma prima di essere messa in atto dai conservatori.
Nelle Storie di Mosè e di Cristo degli affreschi del Quattrocento, la posizione degli ebrei è determinata dal paradigma tipologico: le azioni di Mosè prefigurano quelle di Gesù. Nel ciclo degli Antenati, il paradigma tipologico viene abbandonato perché ad essi sono attribuiti i tratti degli ebrei che hanno rifiutato di convertirsi e non hanno dunque più nulla da annunciare. Nel Giudizio, infine, attorno al Cristo risorto si riconoscono figure di sapienti o profeti ebraici perché la conversione degli ebrei è uno dei segni dell’imminenza della fine dei tempi, insieme all’avvento dell’Anticristo. Questo schema deve pero essere “messo a lavoro”, montando tra di loro le varie parti per mostrare come nel passaggio tra l’una e l’altra non solo cambia il modo di raccontare la storia ma si descrive l’esplosione del modello tipologico e della spazialità prospettica.
La posizione di Michelangelo è davvero singolare, nel senso che riguarda direttamente la sua persona o, meglio, la costruzione sperimentale della propria immagine all’interno del grande costrutto storico-teologico degli affreschi. Non penso che l’artista esprima una distanza rispetto a quel costrutto, ma si serve della figura dell’ebreo per denunciare la tiepidezza della propria fede. Confrontando gli affreschi con i poemi penitenziali dove l’artista si attribuisce i tratti di “negligenza” che si ritrovano nelle figure delle lunette, ho avanzato l’ipotesi che si possa riconoscere sulla Volta sistina un’immagine sperimentale di Michelangelo come Antenato. Questa figure di sé come un ebreo - come anche quella che, nel Giudizio, lo mostra come una pelle scuoiata e pendente - esprime un’inquietudine profonda, percepibile se si associano queste due immagini di sé all’idea di una carnalità che non può essere “conformata”. Tuttavia, se leggiamo con attenzione i poemi di Michelangelo capiamo che l’autore desidera di essere conformato almeno quanto lo teme.
F.Z.: Al di là della Sistina, la mia impressione è che la storia e la teoria dell’arte debbano rendersi sensibili ai dibattiti emergenti, mirati a studiare e riflettere criticamente sulle asimmetrie politiche e visuali consolidatesi nei secoli. Anziché ignorare tali dibattiti o aderirvi superficialmente, quanti si occupano di arti e di immagini possono forse fornire (e mettere in discussione) i propri strumenti per fare in modo che il carattere politico delle rappresentazioni emerga in tutta la sua portata.
G.C.: Di che cosa e in che modo una grande opera del passato parla al nostro tempo? Per rispondere a questa difficile domanda, posta allo storico dell’arte da Walter Benjamin, ci vuole un’elaborazione lunga e complessa. Tra i principali motivi per cui è importante continuare a studiare opere del passato è che attraverso la loro analisi e interpretazione si parla anche dell’oggi.
Personalmente, non sono disposto a rinunciare a questa forma complessa di esegesi, che non ha nulla a che fare con la celebrazione della superiorità dell’Occidente. Tanto è vero che propongo appunto di esporre questo “capolavoro” a uno sguardo antropologico comparatista, sia sul piano del mito che su quello del rito, e pongo al centro dell’analisi la relazione con l’Altro.
Nessuno degli studi sulla Sistina prima del mio aveva considerato gli affreschi come formidabile appropriazione del “passato ebraico” da parte dei cristiani. Una prospettiva di ricerca che è evidentemente informata dai dibattitti contemporanei ai quali ti riferisci. Tuttavia, una volta assunto questo punto di vista, penso che sia importante capire in che modo questa appropriazione si produca tramite il “lavoro delle immagini”, piuttosto che limitarsi a una semplice condanna. L’antropologia si confronta da sempre con fenomeni di appropriazione - più o meno violenti e più o meno riusciti - costitutivi delle dinamiche culturali umane. Il fatto che oggi alcune comunità vogliano farsi carico e riappropriarsi della loro memoria e degli oggetti nei quali essa è depositata fa parte di questa dinamica e ne ridisegna i contorni. È tuttavia importante scongiurare il rischio di una deriva identitaria che, riservando ai soli membri di una comunità il diritto di occuparsi della propria memoria, proietti sugli oggetti culturali del passato un’idea di purezza.
Quanto al sapere depositato nella storia dell’arte, penso che andrebbe profondamente riformulato nel senso che ho indicato prima. Si tratta di mostrare che quel “patrimonio” resta sterile se non si fa apparire ciò che in lui “ci riguarda”. Senza per questo ridurre l’alterità del passato e delle diverse culture che caratterizzano il tempo presente.
* Fonte: Il lavoro culturale, 13 Novembre 2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE": IL "SOGNO" DI MICHELANGELO. Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
FLS
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
Il gesto.
Il Papa indice l’Anno di San Giuseppe: "Il mondo ha bisogno di padri"
Nella ricorrenza dei 150 anni della proclamazione a patrono della Chiesa. Fino all’8 dicembre 2021 sarà concessa l’indulgenza plenaria ai fedeli che pregano il Santo, sposo di Maria
di Redazione Internet *
Il Papa ha indetto un Anno speciale di San Giuseppe, nel giorno in cui ricorrono i 150 anni del Decreto Quemadmodum Deus, con il quale il Beato Pio IX dichiarò San Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica. "Al fine di perpetuare l’affidamento di tutta la Chiesa al potentissimo patrocinio del Custode di Gesù, Papa Francesco - si legge nel decreto del Vaticano pubblicato oggi - ha stabilito che, dalla data odierna, anniversario del Decreto di proclamazione nonché giorno sacro alla Beata Vergine Immacolata e Sposa del castissimo Giuseppe, fino all’8 dicembre 2021, sia celebrato uno speciale Anno di San Giuseppe".
Per questa occasione è concessa l’Indulgenza plenaria ai fedeli che reciteranno "qualsivoglia orazione legittimamente approvata o atto di pietà in onore di San Giuseppe, specialmente nelle ricorrenze del 19 marzo e del 1° maggio, nella Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, nella Domenica di San Giuseppe (secondo la tradizione bizantina), il 19 di ogni mese e ogni mercoledì, giorno dedicato alla memoria del Santo secondo la tradizione latina".(QUI IL TESTO)
Accanto al decreto di indizione dell’Anno speciale dedicato a San Giuseppe, il Papa ha pubblicato la Lettera apostolica "Patris corde - Con cuore di Padre", in cui come sfondo c’è la pandemia da Covid19 che - scrive Francesco - ci ha fatto comprendere l’importanza delle persone comuni, quelle che, lontane dalla ribalta, esercitano ogni giorno pazienza e infondono speranza, seminando corresponsabilità. Proprio come San Giuseppe, "l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta". Eppure, il suo è "un protagonismo senza pari nella storia della salvezza".
San Giuseppe ha espresso concretamente la sua paternità "nell’aver fatto della sua vita un’oblazione di sé nell’amore posto a servizio del Messia". E per questo suo ruolo di "cerniera che unisce l’Antico e Nuovo Testamento", egli "è sempre stato molto amato dal popolo cristiano" . In lui, "Gesù ha visto la tenerezza di Dio", quella che "ci fa accogliere la nostra debolezza", perché "è attraverso e nonostante la nostra debolezza" che si realizza la maggior parte dei disegni divini.
"Solo la tenerezza ci salverà dall’opera" del Maligno, sottolinea il Pontefice, ed è incontrando la misericordia di Dio soprattutto nel Sacramento della Riconciliazione che possiamo fare "un’esperienza di verità e tenerezza", perché "Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene e ci perdona". Giuseppe è padre anche nell’obbedienza a Dio: con il suo ’fiat’ salva Maria e Gesù ed insegna a suo Figlio a "fare la volontà del Padre". Chiamato da Dio a servire la missione di Gesù, egli "coopera al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro di salvezza".
La lettera del Papa evidenzia, poi, "il coraggio creativo" di San Giuseppe, quello che emerge soprattutto nelle difficoltà e che fa nascere nell’uomo risorse inaspettate. "Il carpentiere di Nazaret - spiega il Pontefice - sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza".
Egli affronta "i problemi concreti" della sua Famiglia, esattamente come fanno tutte le altre famiglie del mondo, in particolare quelle dei migranti. In questo senso, San Giuseppe è "davvero uno speciale patrono" di coloro che, "costretti dalle sventure e dalla fame", devono lasciare la patria a causa di "guerre, odio, persecuzione, miseria". Custode di Gesù e di Maria, Giuseppe "non può non essere custode della Chiesa", della sua maternità e del Corpo di Cristo: ogni bisognoso, povero, sofferente, moribondo, forestiero, carcerato, malato, è "il Bambino" che Giuseppe custodisce e da lui bisogna imparare ad "amare la Chiesa e i poveri".
"Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione". Nella Lettera Apostolica papa Francesco sottolinea che "ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità".
"La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli - sottolinea ancora il Pontefice - spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso ’inutile’, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita".
Papa Francesco mette in evidenza la natura di santo della porta accanto, o meglio del quotidiano, di San Giuseppe. Una notazione che egli lega anche all’emergenza Covid, ricordando che si stratta di una "straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni - solitamente dimenticate - che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».
Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine".
Francesco definisce San Giuseppe "padre amato" (a motivo della grande voCAzione popolare nei suoi confronti), padre nella tenerezza" (capace di far posto a Dio anche attraverso le proprie paure e debolezze) e "padre nell’obbedienza" (perché ascolta la voce di Dio che gli si manifesta in sogno attraverso l’angelo).
SAN GIUSEPPE E IL LAVORO
Al tema il Papa dedica un intero paragrafo. "Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento? La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!".
LE CONDIZIONI PER CONSEGUIRE L’INDULGENZA PLENARIA
L’Indulgenza plenaria viene concessa "alle consuete condizioni (confessione sacramentale, comunione eucaristica e preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre) ai fedeli che, con l’animo distaccato da qualsiasi peccato, parteciperanno all’Anno di San Giuseppe".
"Si concede l’Indulgenza plenaria - si legge nel decreto - a quanti mediteranno per almeno 30 minuti la preghiera del Padre Nostro, oppure prenderanno parte a un ritiro spirituale di almeno una giornata che preveda una meditazione su San Giuseppe";
a "coloro i quali, sull’esempio di San Giuseppe, compiranno un’opera di misericordia corporale o spirituale, potranno ugualmente conseguire il dono dell’Indulgenza plenaria";
"si concede l’Indulgenza plenaria per la recita del Santo Rosario nelle famiglie e tra fidanzati".
Potrà conseguire l’Indulgenza plenaria
"chiunque affiderà quotidianamente la propria attività alla protezione di San Giuseppe e ogni fedele che invocherà con preghiere l’intercessione dell’artigiano di Nazareth, affinché chi è in cerca di lavoro possa trovare un’occupazione e il lavoro di tutti sia più dignitoso";
"ai fedeli che reciteranno le Litanie a San Giuseppe (per la tradizione latina), oppure l’Akathistos a San Giuseppe, per intero o almeno qualche sua parte (per la tradizione bizantina), oppure qualche altra preghiera a San Giuseppe, propria alle altre tradizioni liturgiche, a favore della Chiesa perseguitata ad intra e ad extra e per il sollievo di tutti i cristiani che patiscono ogni forma di persecuzione"
"ai fedeli che reciteranno qualsivoglia orazione legittimamente approvata o atto di pietà in onore di San Giuseppe, per esempio ’A te, o Beato Giuseppe’, specialmente nelle ricorrenze del 19 marzo e del 1° maggio, nella Festa della Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, nella domenica di San Giuseppe (secondo la tradizione bizantina), il 19 di ogni mese e ogni mercoledì, giorno dedicato alla memoria del Santo secondo la tradizione latina".
Nell’attuale contesto di emergenza sanitaria, il dono dell’Indulgenza plenaria "è particolarmente esteso agli anziani, ai malati, agli agonizzanti e a tutti quelli che per legittimi motivi siano impossibilitati ad uscire di casa, i quali con l’animo distaccato da qualsiasi peccato e con l’intenzione di adempiere, non appena possibile, le tre solite condizioni, nella propria casa o là dove l’impedimento li trattiene, reciteranno un atto di pietà in onore di San Giuseppe, conforto dei malati e Patrono della buona morte, offrendo con fiducia a Dio i dolori e i disagi della propria vita".
LA DEVOZIONE DEL PAPA A SAN GIUSEPPE
E’ nota la predilezione di papa Francesco per la figura dello sposo di Maria. Durante il viaggio a Manila raccontò della sua abitudine di riporre sotto la statuetta del “Giuseppe dormiente”, tenuta nel suo studio a Santa Marta, un foglietto con su scritte le proprie preoccupazioni.
Non solo: in una breve nota a metà della Lettera Patris corde, il Papa ricorda la sua “sfida”, rilanciata ogni giorno da 40 anni: dopo la recita delle Lodi segue quella di una vecchia preghiera trovata in un libro di devozioni francese dell’Ottocento. Il destinatario di quella “certa sfida” quotidiana è San Giuseppe perché, dopo avergli affidato tutto, “situazioni gravi e difficoltà”, quella vecchia orazione termina così: “Che non si dica che ti abbia invocato invano”.
* Fonte: Avvenire, martedì 8 dicembre 2020 (ripresa parziale, e senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!! Benedetto XVI ha ricordato la conversione di Francesco : « l’ex play boy convertito dalla voce di Dio »... ma ha "dimenticato" la denuncia sul "ritardo dei lavori", fatta da Pirandello già a Benedetto XV. Che disastro !!!
FLS
The Economy of Francesco.
«Generare» non solo produrre: l’economia del prendersi cura
Da Assisi la rivoluzione di un nuovo modello di sviluppo che pensi alle generazioni future. Le proposte di Magatti, Becchetti e Consuelo Corradi
di Cinzia Arena (Avvenire, venerdì 20 novembre 2020)
Uscire dal binomio produzione e consumo per realizzare un nuovo paradigma di economia circolare che metta al centro la persona, accompagni le nuove generazioni e tuteli l’ambiente. Una rivoluzione silenziosa partita da Assisi - sede reale e simbolica dell’evento voluto da papa Francesco che ha come protagonisti duemila giovani imprenditori ed economisti - che parla alle nostre coscienze in un momento storico così complesso e pieno di incertezze. «Generatività, beni relazionali ed economia civile» è il titolo del dibattito che ha aperto la seconda giornata di «The economy of Francesco».
Sabato ci sarà il video-messaggio del Pontefice e un arrivederci all’anno prossimo, in autunno, quando si spera si potrà proseguire in presenza il cammino intrapreso in questi tre giorni di dibattiti in streaming. Un concetto quello della "generatività", che i relatori, Mauro Magatti, ordinario di Sociologia all’università Cattolica, Consuelo Corradi, professore di Sociologia alla Lumsa e Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’università Tor Vergata hanno cercato di rendere concreto. Un processo di relazioni che coinvolge tutta la comunità: dai cittadini, agli imprenditori alle istituzioni.
«Sino ad oggi il circuito della produzione e del consumo hanno regolato il nostro modello economico - ha detto Magatti - . Ma un’economia basata sulla quantità produce diseguaglianze ed è entropica con l’ambiente. Occorre fare un passo più in là come dice Pascal "conoscere le ragioni del cuore che la ragione non conosce". Produrre e consumare sono alla base della civiltà umana. Il problema nasce quando produzione e consumo pretendono di diventare assolute e di dare senso alle nostre vite, da qui nasce l’ossessione del controllo».
Al contrario il "generare" è un movimento antropologico basato sul prendersi cura. «È la condizione essenziale per capire chi siamo, è la circolazione della vita e della libertà attraverso e al di dà di quello che facciamo noi». Per questo Magatti ipotizza la necessità di una transizione su quattro fronti: formativa, organizzativa, comunitaria e ambientale. «L’idea di un’economia generativa riapre il futuro che ci sembra chiuso, ci permette di mettere al mondo, prendersi cura, accompagnare e lasciare andare».
Nel suo intervento Consuelo Corradi ha declinato il tema al femminile. Partendo dalla domanda sul come raggiungere la parità di genere, Corradi ha ipotizzato due risposte. La prima, passa per il concetto del "non ancora": in Italia ad esempio «non c’è ancora ancora un presidente Repubblica o un premier donna». Ma è la seconda risposta secondo Corradi ad essere la più interessante anche se presenta delle insidie. E consiste nel mettere al centro la diversità e il ruolo fondamentale delle donne alla generatività, concetto che travalica quello di maternità. «Le donne hanno una familiarità con le difficoltà. Hanno affinità con il dolore e la fatica: non a caso sono madri, infermiere, insegnanti. Hanno il piacere del prendersi cura degli altri, nelle famiglie così come nelle aziende e negli istituti di ricerca».
Tutti elementi che contrastano con l’individualismo estremo. «Se l’unica aspettativa delle donne diventa essere pari agli uomini, autonome efficienti e determinate, finiremo per dimenticare tale bio-diversità e questa sarà una grave perdita» ha concluso la professoressa.Becchetti ha parlato delle necessità di nuovi indicatori per le politiche economiche, un nuovo paradigma che «introduca i concetti di dono e fiducia al posto della massimizzazione del profitto». Dire basta alla logica del Pil basata sulla produzione di beni. «La politica economica deve passare da un modello a due mani, vale a dire mercato e istituzioni, ad un modello a quattro mani che includa anche cittadinanza attiva e impresa responsabile come previsto dal goal 12 dell’Agenda 2030». In questa direzione si può andare solo con un impegno collettivo, trasformando le nostre scelte di tutti i giorni, facendo acquisti ragionati, premiando le imprese sostenibili da punto di vista ambientale e soprattutto umano. «Il messaggio finale è non dobbiamo pensare che il mondo si cambi solo d’alto, lo cambiano le nostre scelte costruite dal basso: votiamo ogni volta che scegliamo un prodotto».
TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA: GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA! O NO?!
Il punto.
Coppie omosessuali, sì alla tutela civile ma niente confusione col matrimonio
Tante reazioni alle parole del Papa nel docufilm “Francesco”. Parla Fernández arcivescovo argentino: Sin da quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio ha distinto i due piani
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 23 ottobre 2020)
«Ciò che dobbiamo fare è una legge sulla convivenza civile, hanno diritto a una forma di tutela legale. L’ho già sostenuto». Al di là delle forzature mediatiche, l’opinione di Jorge Mario Bergoglio sulle coppie omosessuali non è cambiata negli ultimi dieci anni.
La frase riportata nel documentario di Evgeny Afineevsky ricalca quanto già espresso nel 2010 quando, come arcivescovo di Buenos Aires, si trovò ad affrontare l’infuocato dibattito sulle nozze gay, legge fortemente voluta dal governo dell’allora presidenta Cristina Fernández de Kirchner. A ricordarlo non sono solo accreditate fonti giornalistiche di quell’epoca, tra cui il biografo ufficiale Sergio Rubín.
Ieri, in un messaggio su Facebook, monsignor Victor Manuel Fernández, arcivescovo di La Plata, teologo e profondo conoscitore del pensiero bergogliano, ricostruisce la vicenda, sottolineando come per papa Francesco, prima e dopo l’elezione al soglio pontificio, si devono distinguere due piani.
Da una parte c’è il «matrimonio», termine con un significato preciso, applicabile solo a un’unione stabile tra una donna e un uomo, aperta alla vita. «Questa unione è unica, perché implica la differenza tra l’uomo e la donna, uniti da un rapporto di reciprocità e arricchiti da questa differenza, naturalmente capace di generare vita», spiega monsignor Fernández. Qualunque altra unione simile richiede, dunque, una denominazione differente.
Unioni o convivenza civile, appunto. «Jorge Mario Bergoglio ha sempre riconosciuto, pur senza necessità di definirli matrimonio, l’esistenza di legami molto stretti fra persone dello stesso sesso, che vanno al di là del mero piano sessuale, ma sono alleanze intense e stabili. Le persone si conoscono a fondo, condividono lo stesso tetto per molto tempo, si prendono cura e si sacrificano l’uno per l’altro», afferma l’arcivescovo di La Plata. In caso di malattia grave o morte, uno dei due può desiderare i suoi beni all’altro o che sia quest’ultimo ad essere consultato invece di un familiare. «Tutto ciò può essere contemplato da una legge» sulle «unioni civili o normativa di convivenza civile, non matrimonio».
A tal proposito, monsignor Fernández conferma quanto già riportato dai media dieci anni fa. Ovvero che, durante il dibattito sul cosiddetto matrimonio igualitario in Argentina, il cardinal Bergoglio sostenne tale posizione durante un incontro ad hoc con l’episcopato: la maggioranza, però, si oppose. La questione era già emersa subito il conclave del 2013. Da allora, il successore di Pietro ha sempre mostrato sensibilità e attenzione pastorale nei confronti delle persone omosessuali. Certo, nel docu-film di Afineevsky, Francesco torna espressamente sulla questione delle unioni civili e ripropone, da Papa, quanto già affermato dieci anni fa. Nemmeno questo, però, è un inedito assoluto.
Nel libro che raccoglie le conversazioni con il sociologo Dominique Wolton, pubblicato in Francia nel 2017 e in Italia l’anno successivo, c’è già un accenno al riguardo. «Matrimonio è un termine che ha una storia. Da sempre, nella storia dell’umanità e non solo della Chiesa, viene celebrato tra un uomo e una donna», afferma Francesco in Dio è un poeta, edito nel nostro Paese da Rizzoli. E aggiunge: «È una cosa che non si può cambiare. È la natura delle cose, è così. Chiamiamole unioni civili. Non scherziamo con la verità» .
Il documentario Francesco, insignito ieri, nei giardini vaticani, del premio Kinéo, non contiene, dunque, verità sconvolgenti.
Del resto non era questo l’obiettivo dell’autore, ebreo non praticante di origini russe. Attraverso la raccolta di testimonianze e immagini, il regista cerca di narrare le ferite del mondo: le guerre, l’esodo infinito a cui sono costrette migliaia di persone, i muri vecchi e nuovi, fisici e mentali che separano gli uni dagli altri. Il racconto segue il Papa nei suoi viaggi, da Lampedusa a Manila, da Ciudad Juárez a Santiago.
Il racconto su Francesco, spiega Afineevsky, però, piano piano, si è trasformato in un film «sull’umanità che commette errori, fatta di peccatori...». La chiave è contenuta in una frase di Oscar Wilde cara al Papa e riportata nel filmato: «Ogni santo ha un passato e ogni peccatore ha un futuro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA !!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
Papa Francesco, la nuova enciclica discrimina le donne già dal titolo «Fratelli Tutti». Critiche violentissime
di Franca Giansoldati *
Città del Vaticano - L’enciclica «Fratelli Tutti» non è ancora uscita che è già oggetto di feroci critiche. Stavolta da parte di donne che si battono per un linguaggio meno discriminatorio e per la parità di diritti, dentro e fuori la Chiesa. Il titolo scelto da Papa Francesco - secondo diverse teologhe, opinioniste, accademiche - sembra essere ben poco inclusivo visto che non tiene conto - esplicitamente - del mondo femminile. Praticamente la «spina dorsale della Chiesa».
Che il linguaggio racchiuda in sé anche un germe sessista non è una novità. Gli studi accademici in materia sono numerosissimi. Il linguaggio del resto serve a collegare, unire, relazionare ma può benissimo diventare strumento per discriminare, escludere, segregare. E così - anche nella Chiesa - modificare il linguaggio significa incidere sulla realtà con la consapevolezza che la questione non sia tanto grammaticale, ma culturale e che la lingua sia uno strumento utile per produrre i cambiamenti.
Ad essere al centro del dibattito è il titolo della imminente lettera enciclica che Papa Francesco firmerà ad Assisi il 3 ottobre dedicata alla pandemia. Un tempo difficile e doloroso per tutti, marcato da una condizione di fragilità e al tempo stesso dal bisogno di creare una fratellanza universale, una rete super partes capace di far superare il gap tra poveri e ricchi, tra giovani e vecchi, tra uomini e donne e ridisegnare i contorni di un mondo nuovo.
Il titolo scelto - tratto da uno scritto di San Francesco - uguale per tutte le lingue - Fratelli tutti - non è passato inosservato. Teologhe, accademiche e gruppi femminili che si battono per i diritti paritari a cominciare anche dal linguaggio hanno manifestato forti perplessità.
Naturalmente il termine “fratelli” - negli intenti del Papa - va inteso in senso estensivo, a chi è legato ad altri da un vincolo di affetto, di carità, da comunanza di patria. Un po’ come l’inno «Fratelli d’Italia» di Mameli o la celebre frase di Manzoni, «I fratelli hanno ucciso i fratelli». Il mancato riferimento alle sorelle ha però aperto il dibattito sui social e non sono mancati giudizi negativi e critiche.
Non è la prima volta che nei documenti magisteriali alle donne viene riservato una posizione marginale. Per esempio nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium - praticamente il manifesto del pontificato di Bergoglio - alla enorme questione della donna vengono riservati solo 4 punti su un totale di quasi 300. Il tema della violenza viene poi liquidato in sette righe. Inoltre non si dice nulla sul fatto che la Santa Sede non ha finora mai voluto né firmare né ratificare la Convenzione di Istanbul - praticamente la magna charta per contrastare le radici culturali della violenza tra i sessi.
Fratelli Tutti di conseguenza non poteva non sollevare obiezioni. La teologa inglese Tina Beattie lamenta il solito linguaggio non inclusivo e così ha fatto Paola Lazzarini presidente di Donne Per La chiesa una associazione che appartiene alla Catholic Women’s Council, una realtà globale che lavora per il pieno riconoscimento della dignità e dell’uguaglianza tra i sessi nella Chiesa cattolica. «Chissà se qualcuno farà notare al Papa che le donne non possono essere fratelli e che questo linguaggio ci esclude» ha chiosato su Twitter. Lazzarini ha riportato un parere della Crusca sul termine di fratellanza, specificando che forse, in certi casi, sarebbe stato meglio parlare di sorellanza, perché «più appropriat»”.
Sul Tablet in un editoriale Lizz Dodd ha manifestato sconcerto. «Papa Francesco potrebbe rompere con la tradizione e chiamare l’enciclica con qualcosa di diverso dalla sua frase di apertura (...) Il fatto che questo titolo sia riuscito a superare ilproceso di editing mi suggerisce che nessuna donna sia stata consultata o che le donne hanno sollevato preoccupazioni che sono state trascurate». L’idea suggerita è di inserire la parola ’sorelle’ a quella di fratelli. «Sarebbe un gesto verso le donne che sono la spina dorsale della Chiesa da millenni, sebbene esclusa. Significherebbe sentirci dire che il nostro bisogno di sentirci incluse nella casa viene prima dei giochi linguistici. Cambiare titolo sarebbe come se Francesco dicesse: vi vedo».
Naturalmente in Vaticano la questione è finità già sotto il tappeto. Vatican News attraverso il direttore editoriale Andrea Tornielli è sceso in campo per spegnere gli incendi scrivendo in un editoriale: «Fraternità e amicizia sociale, i temi indicati nel sottotitolo, indicano ciò che unisce uomini e donne, un affetto che si instaura tra persone che non sono consanguinee e si esprime attraverso atti benevoli, con forme di aiuto e con azioni generose nel momento del bisogno. Un affetto disinteressato verso gli altri esseri umani, a prescindere da ogni differenza e appartenenza. Per questo motivo non sono possibili fraintendimenti o letture parziali del messaggio universale e inclusivo delle parole “Fratelli tutti”».
Nel frattempo sono partite anche appelli al Papa di cambiare il titolo della nuova enciclica. Sui social, per esempio, spicca quello dell’economista cattolico Luigi Bruni, editorialista di Avvenire. «Caro papa Francesco finchè è ancora in tempo per favore cambi il titolo della nuova enciclica. Quel Fratelli (senza sorelle) non si può usare nel 2020. Lei ci ha insegnato il peso delle parole. Il titolo si mangerà il contenuto e sarebbe un grande peccato. L’altro nome di Francesco è Chiara».
* Il Messaggero, Lunedì 21 Settembre 2020 Ultimo aggiornamento: 23 Settembre (ripresa parziale).
Oltre la pillola.
Con le donne contro la clandestinità
di Giancarla Cordignani (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Gentile direttore,
«Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese». Ineccepibile: il ministro della Salute consente un aggiornamento della 194, imprevedibile solo da chi ha fatto conto di non capire che, se un farmaco è in grado di prevenire il concepimento, il tipo di procedimento farmacologico era in grado di arrivare a dosaggi tipo ’pillola del giorno dopo’ e pillola abortiva.
E siccome l’aborto chirurgico - tralasciando i risvolti psicologici che non possono mai essere dimenticati - significa pur sempre un intervento sanitario importante che rende ancor più traumatica la decisione della donna, sembra il minimo che le sia risparmiato un aggravio di sofferenza. D’altra parte le proteste dopo l’approvazione del testo ministeriale danno alle donne l’impressione di una volontà punitiva dei ’patriarchi’. Quindi, per una persona come me, credente e laica, che quando si rese conto del numero sterminato di aborti nel nostro Paese, in clandestinità, con interventi disperati e mortali, prese posizione favorevole a una regolamentazione per legge di una pratica disumana che vedeva colpevolizzata la donna, lasciata sola anche davanti al codice penale che voleva tale reato condannabile perché «contro l’integrità e la sanità della stirpe» (senza contare che lo stupro era reato non contro la persona, ma contro la morale ed era estinguibile con il ’matrimonio riparatore’), non ci sono obiezioni di merito. Tuttavia. Tuttavia, una pillola abortiva non è un analgesico o un integratore.
Non si può assumere un paio di volte all’anno. E mi sembra che, visto che non siamo ancora riusciti a conciliare la libertà e l’egoismo tra i due ’generi’, bisognerà porre in questione, laicamente, la relazione uomo-donna. L’art.1 della 194 dice che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Le parlamentari che votarono una legge difficile davano senso preciso a parole sostanzialmente inapplicate, ma poi non proseguì la discussione sulla cultura della legge. L’opposizione cattolica si curò solo di negarle legittimazione, nonostante la necessità di intervenire responsabilmente in una materia a cui nessuna donna ha mai dato valore positivo. Anche i più permissivi si fermano al ’sarebbe meglio non dovervi ricorrere’. Per giunta non è mai stata approvata l’educazione sessuale nelle scuole, anche se sappiamo che ormai i bambini di nove anni se la formano sui siti porno di internet: si suppone che, se una ragazzina di quindici anni è ’nei guai’, la famiglia la porti in un ambulatorio privato e non risulti nel conteggio della diminuzione degli aborti, praticati da sempre dalle coniugate, spesso anche recidive.
Quindi la pillola abortiva toglie dai problemi anche quanti vanno a pregare davanti alle cliniche ginecologiche. Ma a me, da cittadina, restano da chiarire i termini riferiti alla procreazione «cosciente e responsabile » e alla maternità libera e responsabile di cui parla la legge.
Supponendo che tutti sappiano come nascono i bambini, sia per il matrimonio, sia per la convivenza, sia per rapporti occasionali, chiedo: come vanno le relazioni tra la donna e l’uomo? Motivazioni biologiche, sentimentali, avventurose a parte, sono relazioni ’vere’, in cui la gente si parla, dice le proprie esigenze, i propri desideri, compresa la disponibilità o meno di restare incinta? Perché chi straparla solo di bambini dovrebbe sapere che il bambino deve essere ’voluto’. Si può indulgere su qualcuno che arriva ’per caso’, ma quando una donna ritiene di ’dover’ abortire quel rapporto era davvero ’libero e responsabile’, la donna, la moglie era consenziente? Perché la donna ha diritto a decidere anche ’prima’, non solamente ’dopo’. Ma prima, oltre a parlare di sé e del loro entusiasmo, qual è stata la ’qualità’ del loro incontro intimo?
Stando alla gestualità di uomini che picchiano e ammazzano le donne e al linguaggio sessista nei confronti di esseri umani femmine, stando al fatto che cantanti, sindache o parlamentari si attirano volgarità da cura psicanalitica urgente non appena aprono bocca, a letto non ci deve essere grande spreco di preliminari e galanterie. Lo dico dalla parte delle donne che, non so se ancora, ma certo ai tempi di discussione della 194 raccontavano dei loro disagi e delle paure di ’restarci’ che non permettevano grande condivisione.
Ma lo dico soprattutto per la pochezza maschile, che si contenta, a sentire le favole da bar, di potenza e numeri. Ma la qualità? Va bene che anche a tavola spesso non siete un gran che, ma vedete che l’avanzamento della civiltà dal tempo delle ghiande si è evoluta: il pranzo e la cena sono riti, si invitano gli amici e, anche se la nostra non è la tavola di Versailles, usiamo tovaglie con i pizzi, porcellane e cristallerie anche quando in realtà sono piatti di coccio e vetri colorati, imbandiamo il meglio e dalla cucina escono vivande curate che finiscono in piatti accompagnati da posate e tovaglioli, magari di carta.
Le donne tengono ai ricami anche nei letti, ’poi’ magari anche loro non sono questa gran finezza, ma la maggioranza ai preliminari ci tiene, fa parte del rito del piacere; voi uomini troppo spesso vi contentate delle pulsioni, i cattolici - poi - pensano al buon Dio e credono di sapere che cosa vuole anche lì, tutti o quasi in genere non percepiscono differenze tra l’erotismo e la pornografia.
Se ci fosse anche una semplice buona educazione non si verificherebbero ancora così tanti aborti. Perché la donna che non vuole un figlio vorrebbe essere rispettata se dice ’no’ a un uomo che la vuole ’prendere’. Perché un uomo deve anche domandarsi perché mai si sia sposato e non far prevalere il suo egoismo.
Se una donna resta incinta senza averlo voluto una qualche violenza ci sarà stata: anche solo di ignoranza della contraccezione. E da adesso in poi la Ru486 diventerà più ’facile’. Ma non è che d’ora in avanti si risparmiano le prevenzioni e, poi, la donna si mangia la sua pillola e l’uomo non ha più preoccupazione... Perché prendere un farmaco pesante tocca a lei: lui perde pure gli scrupoli morali, roba di lei, non me ne preoccupo. Perché potrebbe passare anche a lei una ’leggerezza’ per un problema sociale che tornerebbe a diventare clandestino. Come donne, come società, davvero ci sta bene?
Giornalista, scrittrice direttrice di Server Donne già parlamentare della Repubblica italiana
Gioacchino e Anna.
Volti di una storia umana abitata dall’amore eterno
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 26 luglio 2020)
Il giorno in cui la Chiesa ricorda i nonni di Gesù, i genitori di Maria, è anche l’occasione per ricordare che ogni essere umano “è” una storia, è il frutto di un cammino, l’emergere di un senso condiviso, partecipato da chi l’ha preceduto e offerto a chi verrà. I santi Gioacchino e Anna, la cui storia è narrata nei Vangeli apocrifi, rappresentano l’intimità custodita nella vicenda del Dio che si fa uomo: Gesù ha una famiglia, segnata dalle stesse difficoltà delle altre famiglie, ma capace di aprirsi all’eterno.
Allo stesso tempo i due nonni santi sono il volto della maestosità del Vangelo: nel Risorto si riconciliano le generazioni e si realizza il Regno dell’amore che riguarda l’universo intero. La devozione per Gioacchino e Anna - celebrati nello stesso giorno dal 1584 - si è diffusa prima in Oriente; in Occidente ègiunta alla fine del primo millennio.
Altri santi. Sant’Austindo, vescovo (XI sec.); San Giorgio Preca, sacerdote (1880-1962). Letture. 1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30; Mt 13,44-52.
Ambrosiano. 1Sam 3,1-20; Sal 62 (63); Ef 3,1-12; Mt 4,18-22.
COSTANTINO, IL CONCILIO DI NICEA, E LA DICHIARAZIONE DELL’HOMOOUSIOS. *
BENEDETTO XVI
Il ritorno di Ratzinger: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo»
L’anticipazione del nuovo libro del papa emerito
di Redazione Online (Corriere della Sera, 3 maggio 2020).
Il Papa emerito Ratzinger parla di crisi della società contemporanea paragonando al «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» al «potere spirituale dell’Anticristo», in una nuova biografia scritta dal suo amico giornalista Peter Seewald, «Ein Leben» che esce lunedì, mentre per la versione italiana e inglese occorrerà aspettare l’autunno, con una intervista dal titolo «Le ultime domande a Benedetto XVI» e che, come nel libro di Sarah, propone ai lettori un verbo che scalda gli animi dell’ala conservatrice della Chiesa, quella parte che gli è rimasta fedele anche dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Lo anticipa il sito americano conservatore LifeSiteNews, lo stesso che in questi mesi ha diffuso le uscite anti-Francesco dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, attacca a testa bassa l’’ideologia dominante’ nella società e opponendosi alla quale, spiega, si è scomunicati. Si percepisce, nel suo dire, l’eco del testo di un anno fa dedicato alla pedofilia, con quella condanna delle aperture iniziate nel ‘68, l’incipit a detta sua del decadimento morale della società e di una crisi irreversibile della Chiesa.
Il nemico è sempre il medesimo: la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta. «Cento anni fa - afferma Benedetto - tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale». Mentre oggi, dice, si è scomunicati dalla società se ci si oppone. E lo stesso vale per «l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio». E ancora: «La società moderna è nel mezzo della formulazione di un credo anticristiano e se uno si oppone viene punito dalla società con la scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è più che naturale e ha bisogno dell’aiuto delle preghiere da parte della Chiesa universale per resistere».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"NUOVA ALLEANZA" ?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA "STORIA" DI IPAZIA, I "DUE SOLI", E L’"ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE" COSTANTINIANA ... *
Ipazia, sedici secoli di bugie
La filosofa di Alessandria d’Egitto fu uccisa nel 415 da un gruppo di fanatici cristiani. E’ passata alla storia come una martire della scienza, versione femminile di Galileo. Ma la sua vicenda nasconde un mistero ancora piu’ inquietante.
di Luisa Muraro ("Giudizio Universale", 11.12.2009)
Ipazia di Alessandria ha un conto aperto con la nostra civilta’ che dobbiamo incominciare a pagare.
Parlo, per chi ancora non conoscesse questo nome, della scienziata e filosofa neoplatonica, maestra nel Museo di Alessandria d’Egitto (non un museo, ma un centro di studi superiori) che, nell’anno 415 dell’era cristiana, venne trucidata da un gruppo organizzato di cristiani fanatici. Il delitto resto’ impunito perche’ l’inviato imperiale non fece il suo dovere.
Da parte di chi ha a cuore la tradizione religiosa cristiana, io mi aspetto un preciso contributo. Posto che le fonti non consentono di attribuire al vescovo di Alessandria, il futuro santo e padre della Chiesa Cirillo, alcuna responsabilita’ diretta nella morte violenta della filosofa, si stabiliscano le innegabili responsabilita’ indirette, nel contesto di una diffusione del cristianesimo che e’ piena di luci e ombre.
Da coloro che hanno a cuore le grandi conquiste della modernita’ (liberta’ di pensiero, pluralismo, liberta’ di ricerca, valore delle scienze sperimentali), mi aspetto che smettano di strumentalizzare la figura della filosofa deformandola in quella di una martire della libera scienza. Le fonti storiche non autorizzano questa rappresentazione che si alimenta da una serie di stereotipi, gia’ confutati, sulla storia delle scienze e la cultura cattolica. Non si faccia di Ipazia un anacronistico pendant femminile di Galileo.
Lei fu indubbiamente una scienziata di prima grandezza e, come Galileo, si dedico’ all’astronomia con avanzate tecniche di osservazione. L’analogia finisce qui. La famosa vicenda del processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell’idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l’epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da una somma di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.
Detto in breve, Galileo e’ il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia e’ l’esponente di una tradizione secolare (millenaria, se contiamo l’Egitto) e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il cristianesimo, che fu anche rivoluzione sociale, non dimentichiamo.
Il mio contributo al pagamento del debito che abbiamo verso Ipazia, consistera’ nell’esporre, in forma di racconto basato sulle fonti storiche, le circostanze che portarono alla sua uccisione.
Di Ipazia non abbiamo una data di nascita, possiamo immaginare che fu intorno al 370. Trascorse la sua vita ad Alessandria; non risulta che abbia fatto viaggi fuori dalla sua citta’. Le fonti la ricordano come figlia di Teone, scienziato del Museo; di lui fu allieva, collaboratrice e, in un certo senso, successora. Le fonti dicono che lei lo supero’. Della sua opera non si e’ conservato quasi nulla.
Intorno al 375 nacque ad Alessandria anche Cirillo, che crebbe all’ombra dello zio Teofilo cui succedette sul seggio episcopale nel 412. Come lo zio, era un uomo di grande decisione, al limite della spregiudicatezza.
Per favorire la Chiesa, Cirillo cerco’ l’alleanza del prefetto imperiale Oreste, un battezzato anche lui ma poco propenso a schierarsi con i cristiani.
Scoppiarono incidenti, uno gravissimo nel 415: un gruppo di monaci venuti dal deserto (i cosiddetti parabolani) per servire il vescovo, a che titolo non sappiamo, assaltarono il carro del prefetto e riuscirono a ferirlo con una sassata. Il loro capo fu catturato e duramente punito, Cirillo voleva farne un martire ma i cittadini si opposero, compresi alcuni cristiani. Siamo alla vigilia dell’uccisione di Ipazia.
Bisogna sapere che Oreste era un ammiratore della filosofa e aveva preso l’abitudine di consultarla sui problemi della citta’. All’epoca Alessandria era una citta’ multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, costellata da vari edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinita’ greche ed egizie, chiese cristiane. Il gruppo dominante e’ costituito dagli elleni (gli abitanti di origine greca), molti dei quali stavano passando al cristianesimo, che era diventato la religione dell’imperatore.
Ipazia, che apparteneva a questo gruppo sociale, non era cristiana. Fra i suoi allievi aveva tuttavia dei cristiani, come Sinesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava "madre" e "patrona", e su di lei ha lasciato una preziosa testimonianza scritta.
Le fonti raccontano che un giorno il vescovo Cirillo si trovo’ a passare nei pressi della casa di Ipazia e noto’ un assembramento di carri, lettighe e guardie.
Il vescovo, possiamo immaginare, senti’ una fitta penosa nell’anima. Per certo il nome di quella donna, famosa in citta’, non gli era nuovo. Nuovo fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo.
Le fonti ci autorizzano a immaginare anche il pensiero che segui’ a quel penoso, ma cosi’ umano! sentimento: "Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Io e il prefetto non siamo amici per colpa di Ipazia che si e’ messa di mezzo e ha attirato Oreste nella sua orbita".
Questo e’ l’antefatto. Il fatto e’ che un giorno del marzo 415 un gruppo di parabolani, guidati da un tale di nome Pietro il lettore, sequestro’ Ipazia, la porto’ in una chiesa e qui, al chiuso, la trucidarono usando strumenti taglienti che non erano coltelli, forse pezzi di vetro o di conchiglia. Poi ne portarono i resti in una localita’, il Cinarone, forse assegnata alla eliminazione di materie di scarto con il fuoco, e qui li bruciarono.
Da questo insieme di fatti risulta che Ipazia, se siamo alla ricerca di un titolo da dare alla sua morte, fu principalmente una martire politica.
Colpita per colpire il prefetto imperiale, e’ la prima supposizione, Ma, se allarghiamo lo scenario storico, le circostanze suggeriscono piuttosto che lei fu eliminata perche’ disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, Oreste e Cirillo, e impediva cosi’ che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza.
A cio’ si aggiunga un senso di rivalita’ del capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, aveva l’autorita’ di una sacerdotessa.
La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorita’ della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sicuramente contarono anche altre circostanze, fra cui il conflitto tra la cultura del mondo antico declinante e la nuova religione cristiana, purche’ abbiamo chiaro che il conflitto non si configurava come un antagonismo e che la vittoria del cristianesimo era ormai evidente. Conto’ il fatto che non di un filosofo si trattasse, ma di una filosofa? La domanda va riformulata, considerato che non esistono culture in cui la differenza sessuale sia indifferente. Quanto conto’, nella vicenda di Ipazia? E abbiamo noi modo di stabilirlo? Senza addentrarci, consideriamo che la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non rendeva pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di se’, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini.
Questa considerazione ci porta ai nostri tempi per costatare che il tipo umano femminile incarnato da una Ipazia non ha corso nella nostra cultura, forse perche’ essa deriva dalla versione cristiana del patriarcato. Il che ci fa capire il perche’ di certi stereotipi laici o laicisti: questi stereotipi resistono e si ripresentano per non poter ammettere che quello che faceva veramente problema ai cristiani di Alessandria, continua a fare problema anche ai nostri giorni, e non solo ai "cristiani"! Voglio dire che gli stereotipi anticlericali con cui si accosta la figura e la vicenda di Ipazia (Chiesa nemica della scienza, della ragione, delle donne) sono fatti per coprire una certa coda di paglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA" !!! IL MAGGIORASCATO : L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, -L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
Federico La Sala
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
di Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
FLS
Coronavirus.
La Chiesa: il 19 marzo alle 21 preghiamo tutti insieme per l’Italia
Famiglie, fedeli, comunità religiosa sono invitati a recitare in casa il Rosario, uniti alla stessa ora nella festa di San Giuseppe. Al via anche un sito web con le indicazioni di diocesi e parrocchie
di Francesco Ognibene (Avvenire, giovedì 12 marzo 2020)
La preghiera sarà condivisa in diretta su Tv2000. La Cei ricorda anche il testo della celebre invocazione di Leone XIII, per la preghiera personale:
Consapevole delle necessità di accompagnamento spirituale di tanta gente “in questo tempo di prova e di difficoltà per tutti”, la “Chiesa che è in Italia” accompagna l’invito per il 19 marzo con uno strumento digitale di facile consultazione con il quale “vuole dare segni di speranza e di costruzione del futuro. A partire dal presente”.
È dunque da oggi on line https://chiciseparera.chiesacattolica.it, “ambiente digitale che raccoglie e rilancia le buone prassi messe in atto dalle nostre diocesi - fa sapere l’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali in una nota -, offre contributi di riflessione e approfondimento, condivide notizie e materiale pastorale”.
Si tratta di “un’iniziativa, promossa dalla Segreteria Generale della Cei, per testimoniare ancora e sempre l’impegno della Chiesa che vive in Italia nel continuare a tessere i fili delle nostre comunità. La convinzione che ci guida è che le criticità, lo smarrimento, la paura non possano spezzare il filo della fede, ma annodarlo ancora di più in speranza e carità”.
Con Chiciseparera.chiesacattolica.it la Chiesa italiana mette a disposizione “un punto di riferimento per riscoprire un senso di appartenenza più profondo. Il nome stesso “Chi ci separerà?” (Rm 8,35) indica un percorso impegnativo: la certezza che, pur circondati da una minaccia, niente potrà mai separarci da quell’Amore che ci unisce, perché figli e fratelli, e ci rende comunità. In questo senso bisogna osare, mettersi in cammino e non fermarsi”. “Il sito appena pubblicato - conclude la
Cei - intende guardare oltre il tempo presente. E quell’oltre non può che essere anche la qualità di una comunicazione pensata e che faccia pensare. È l’orizzonte a cui tendere”.
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
«Canzonissima della Bibbia».
Il sorprendente dono del Cantico dei Cantici a Sanremo
di Rosanna Virgili (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
Che gioia il Cantico dei Cantici a Sanremo! Grazie a Roberto Benigni che ha sorpreso e stupito il Festival con quel libretto della Bibbia che la tradizione ebraica e cristiana ha conservato come la canzone più bella, la ’canzonissima’ secondo una suggestione di Gianluigi Prato. Tre sono i trascendentali: verum, bonum e pulchrum. Importante è il bello. L’arte, nelle sue forme più nobili - quali la musica, la pittura, la poesia - è capace di far emergere il divino che si annida nella Parola, più di ogni altro linguaggio.
E allora l’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione (e non può inficiarla neppure la forzata ’licenza interpretativa’ che ha tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico).
Del resto i duetti del Cantico, intervallati dalle voci del coro, assomigliano ai testi delle canzoni in gara e anch’essi nascono in un ambiente popolare; quadretti di vita rurale che hanno il sapore delle sere d’estate o del primo autunno quando, dopo la mietitura o la vendemmia, a notte, si faceva festa e gli occhi e le braccia dei ragazzi e delle ragazze si incrociavano, si intrecciavano, si inebriavano al sogno dei baci. Nel Cantico - scrive Guido Ceronetti - non c’è il nome di Dio, perché tutto è puro, quindi tutto è sacro! La forza dell’amore sveglia la primavera sui passi dell’amante che - inverosimilmente - è una donna. È lei a uscire per prima verso chi ancora non ha mai visto, ma è solcato nel suo desiderio profondo, nelle sue cavità vitali. Trasgressiva, testarda è la ’sorella’ del Cantico, si sottrae all’autorità dei fratelli, non cura la sua vigna ma corre verso le ’tende dei pastori’, esce nei deserti, batte la campagna, sfida le guardie alle mura della città, ’malata d’amore’! Una vera anomalia per un mondo in cui le donne non potevano scegliere i loro uomini ma venivano date in spose a scopo di procurare ai mariti una discendenza. Non avevano diritto sul proprio corpo, ma la donna del Cantico lo rapisce e ne fa guida e grammatica del viaggio dell’Amore. C’è un esodo dal sé, un’effrazione del self, per osare gli ignoti sentieri, le rischiose curve, gli anfratti del volto dell’Altro.
L’Amore è un’avventura senza garanzie, una strada senza ritorno, ’forte più della morte’. Irreversibile, fonte di creature nuove, diverse, bagnate di futuro. Amore che azzera i possessivi: ’io sono sua, mentre lui è mio’: l’estasi di un’unione che non risponde alla tentazione di divorare l’altro, rendendolo un cadavere.
Ma è pienezza di ’te’: del consegnarmi a te. Bocca d’infinito, sorso d’eternità, graffio di Vita! Nel testo originario le sue consonanti asciutte, nette, impossibili a essere fraintese. I sensi sono sentinelle e finestre del corpo, teso fuori di sé. ’Una voce, il mio amato’: il primo senso è casto come l’udito. ’Come sei bella, amica mia, come sei bella, le tue labbra una striscia di porpora’. Gli occhi di lui scoprono l’incanto della pelle di lei ’color del miele’, traduce magnificamente Luca Mazzinghi. Il tuo profumo è la quintessenzadi ogni aroma delle piante più squisite d’Oriente; ’c’è latte e miele sotto la tua lingua’; l’olfatto e il gusto si alleano nell’estasi d’Amore dove il tuo nardo è ben più forte di ogni vino drogato. Restituiscono al corpo la sua anima. Un minuto solo dura il tatto ma procura un vero svenimento; com’era per i Greci così nel Cantico, l’Amore è lelymmenos ’scioglitore di membra’. Per fare ’dei due un corpo solo’ direbbe l’Apostolo Paolo.
L’Amore è attesa, fatica, sudore di brama e di timore; esso regala attimi di estasi e anni di deserto, però quegli attimi valgono bene gli anni! L’Amore è corpo nudo, vuoto, puro, come il Santo dei Santi. Per questo il Cantico è il libro dei mistici, Paese sospeso. Dio come in un passaggio, la meghillà di Pasqua. Nel corpo che si perde è il profumo di Dio. Per questo è un gran peccato che la Chiesa abbia impedito per secoli l’accesso a questo piccolo libro, grandissimo tesoro, fonte di salute e salvezza per il corpo e per l’anima. Teniamo sveglio il cuore ora che ’il tempo del canto è tornato’.
ANTROPOLOGIA E SOCIETA’. COME SONO NATI I NOSTRI "GENITORI".... *
Scheda editoriale
Luce Irigaray
Nascere
Genesi di un nuovo essere umano
Traduzione di Antonella Lo Sardo
Bollati Boringhieri, 2019, pp. 183, 15 e.
Il libero respiro e la tecnologia
La genesi di un nuovo essere umano nell’ultimo libro di Luce Irigaray
di Giorgia Salatiello (L’Osservatore Romano, 11 giugno 2019)
Sarebbe molto difficile, e forse anche inutile, cercare di fare una classica recensione dell’ultimo libro di Luce Irigaray, Nascere. Genesi di un nuovo essere umano (Torino, Bollati Boringhieri 2019, pagine 192, euro 15), in considerazione della molteplicità e della complessità dei temi che vi si intrecciano, condensando tutti i motivi più rilevanti delle opere precedenti.
Sembra, quindi, più utile stabilire una specie di dialogo con l’autrice, incentrando la riflessione intorno ad alcune parole-chiave che ritornano spesso in quella che si può definire come una fenomenologia della vita umana, dal suo inizio fino alla sua compiuta fioritura.
La prima parola è quella che compare anche nel titolo, ovvero “nascere”, e qui il pensiero della Irigaray rivela tutta la sua profondità e la sua articolazione perchè per lei la nascita non indica solo il preciso istante del venire al mondo, ma tutto quel lungo e faticoso percorso che dovrebbe consentire ad un essere umano il suo pieno sviluppo, ma che quasi sempre la nostra cultura occidentale blocca e distorce.
Sulla scorta delle sue conoscenze delle filosofie e delle religioni orientali l’autrice attribuisce importanza centrale al respiro (ecco un’altra parola-chiave) che consente di uscire da sé, ma anche di rientrare nell’intimità di se stessi e, su questo punto, forse, le si potrebbe chiedere di distinguere di più tra le differenti dimensioni, quella corporea, quella psicologica e quella spirituale della quale parla, ma che dovrebbe essere ulteriormente specificata nella sua peculiarità.
Compaiono, quindi, le due parole più significative di tutto il libro cioè quelle del desiderio e dell’amore, nella loro chiara distinzione, ma anche nella loro indispensabile congiunzione. Il desiderio e l’amore ai quali Irigaray si riferisce sono, innanzi tutto, le due fondamentali risorse che consentono alla vita umana di non decadere al livello del vegetale o, addirittura, dell’essere inanimato, ma essi sono, nella loro più genuina specificità, legati all’attrazione reciproca di uomo e di una donna, dotata di un forte potenziale generativo che non si esaurisce nella sola riproduzione biologica.
Se tutto il volume, come si è detto, è una fenologia della vita umana, qui ci si trova di fronte ad una vera e propria fenomenologia dell’amore che non è appiattito soltanto su alcune delle sue componenti, ma è indagato in tutta la sua ricchezza. La fioritura che l’amore consente, tuttavia, nella nostra cultura, ed ecco altre due parole chiave, è sempre minacciata dalla tecnica e dalla tecnologia che impongono i loro ritmi e le loro finalità all’esistenza. È degno di nota che, a questo proposito, Luce Irigaray non proponga un impossibile e nostalgico ritorno al passato, ma inviti alla riappropriazione del nostro destino umano sul quale la tecnica e la tecnologia non devono avere il sopravvento.
Si giunge, così, all’ultima parola, trascendere, che ritorna lungo tutto il testo rivelando il suo spessore, ma anche la sua ambiguità che pone al lettore un preciso interrogativo. Da una parte, infatti, e questo è pienamente condivisibile, il trascendimento è quel movimento che porta continuamente al di là di se stessi, impedendo la chiusura ed il ripiegamento solipstico, ma non si trova traccia della netta distinzione tra il trascendimento solo orizzontale, verso gli altri e verso il mondo, e quello verticale che può aprire l’essere umano all’assoluto ed, ultimamente, a Dio. Certamente, questo secondo tipo di trascendimento esula dalla prospettiva della Irigaray che, anzi, è molto critica verso tutte quelle che indica come proiezioni in un mondo sovrasensibile, prodotto dal soggetto medesimo.
Tuttavia, proprio in questo risiede il limite della pur valida e significativa proposta dell’autrice, perché solo un trascendimento verticale potrebbe realmente garantire quell’apertura e quel respiro libero, dei quali avverte profondamente l’esigenza per dare all’umanità il suo vero volto, spesso soffocato da una cultura e da un pensiero opprimenti e riduttivi.
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SUL TEMA, NEL SITO, SICFR.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
La rivista.
«Rompere il muro della diseguaglianza tra donna e uomo nella Chiesa»
Il numero di dicembre di "Donna Chiesa Mondo", supplemento dell’Osservatore Romano, dedicato al rapporto di papa Francesco con il mondo femminile
di Gianni Cardinale (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
“Le donne e Francesco”. È questo il titolo dell’ultimo numero di “Donna Chiesa Mondo”, il supplemento mensile dell’Osservatore Romano coordinato da Rita Pinci interamente dedicato all’universo rosa. Il fascicolo, in uscita oggi in allegato al quotidiano diretto da Andrea Monda, ospita interventi di donne - laiche e consacrate - che “dicono ciò che pensano di papa Francesco in rapporto alla questione femminile nella Chiesa”. E lo dicono in piena libertà. Numerosi i contributi, dal contenuto a volte pungente.
Stefania Falasca di Avvenire sottolinea che “al di là della formazione personale, la sollecitudine con la quale papa Francesco, fin dalla sua elezione, si è dedicato alla questione delle donne, del loro ruolo e accesso alle responsabilità ecclesiali, evidenzia l’urgenza di affrontare una realtà che riguarda la visione della Chiesa stessa e investe la sua natura gerarchica e comunionale”. È tale visione infatti “che spinge il Papa a percepire il monocolore maschile come un difetto, uno squilibrio, una minorazione della Chiesa considerato che senza le donne essa risulta deficitaria nell’annuncio e nella testimonianza e che dunque compromette la sua missione”.
Alla luce del recente Sinodo sull’Amazzonia la teologa Serena Noceti da parte sua ricorda che “nel quadro della visione del ministero ordinato consegnata dal concilio Vaticano II, la teologia sistematica è interpellata oggi per valutare la possibilità di ordinare donne diacono”. Così “sessanta anni dopo il votum di mons. de Uriarte Bengoa, ancora una volta dall’Amazzonia, la richiesta di donne diacono - come voce profetica? - raggiunge la chiesa intera e sollecita la teologia a ‘pensare in novità’”.
Mentre la “filosofa femminista” Luisa Muraro lamenta che anche la volontà di cambiamento di papa Francesco sarebbe però "un’eccezione" al livello "alto" della Chiesa dove prevale ancora "la preoccupazione di andare d’accordo con una tradizione che ha, fatalmente, l’impronta del tra-uomini di potere".
Tra i temi affrontati nel fascicolo anche lo spinoso problema della violenza contro le suore, sessuale e sotto forma di abuso di potere, da parte degli stessi uomini della Chiesa. "Il pontefice ha rotto il silenzio sulla violenza - sottolinea suor Jolanta Kafka, la nuova presidente della Uisg, Unione Internazionale Superiore Generali, che riunisce 1900 congregazioni per oltre 450.000 consacrate - e questo ci dà la possibilità di parlare, di essere, anche come Uisg, un luogo di ascolto e di aiuto non solo nei confronti della violenza sessuale, ma di ogni abuso di potere".
Da segnalare poi un appello al Papa a firma di Marinella Perroni, teologa e biblista al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo: "Date l’esempio al mondo, anche quello che si ritiene ’civilizzato’ e che invece fa ancora tanta fatica ad accettare che, tra uomo e donna, non c’è uno che è soggetto (anche di parola) e l’altra che è oggetto (anche di parola), ma che, ormai, la soggettualità non può che essere condivisa. E ognuno parli di sé. Abbiamo gran bisogno di ascoltare uomini che parlano di maschilità. Anche nella Chiesa".
Il supplemento si chiude con una paginetta dal titolo forte: “Rompere il muro della diseguaglianza”. In essa tre fondatrici dell’Associazione Donne in Vaticano - Romilda Ferrauto, Adriana Masotti, Gudrun Sailer - sostengono che "anche in Vaticano le donne sono a volte viste, da uomini, ma anche da altre donne, come persone di minor valore intellettuale e professionale, sempre disponibili al servizio, sempre docili ai comandi superiori". Di qui l’urgenza appunto di "rompere il muro della diseguaglianza fra donne e uomini nella Chiesa".
Sulla scia dell’insegnamento di Papa Francesco, per cui “l’alleanza dell’uomo e della donna è chiamata a prendere nelle sue mani la regia dell’intera società”. Con un invito “alla responsabilità per il mondo... e anche nella Chiesa”.
Marta Cartabia, il cuore di Salomone e la riserva della Repubblica
Preoccupazione umana nell’esercizio della funzione di giudice, rapporto molto stretto con il presidente Mattarella, profonda conoscenza del diritto internazionale e comparato. Tre figli, e in cuffia i Metallica. Profilo della prima presidente della Consulta
di Maria Antonietta Calabrò (HUFFPOST, 11/12/2019)
Precisa, puntuale, acuta. L’opinione pubblica ha conosciuto il suo nome e il suo volto incorniciato dal caschetto, quest’estate, a fine agosto quando - apertasi la crisi di governo gialloverde - il suo nome è stato fatto come possibile nuovo presidente del Consiglio. Ma dopo qualche giorno di rumors, Marta Cartabia, vicepresidente della Corte dal 2014 ha smentito l’ipotesi. “L’incarico alla Corte costituzionale, che mi è stato affidato otto anni fa e che si concluderà nel settembre 2020, richiede grande impegno e responsabilità e intendo portarlo a compimento per il valore che la Costituzione gli attribuisce per la vita del Paese e soprattutto per quella di ogni singola persona”, dichiarò allora.
Com’è noto, l’impegno di giudice di palazzo della Consulta dura nove anni, e lei, babyboomer , nata nel 1963, ordinario di diritto costituzionale a Milano Bicocca (relatore della sua tesi di laurea un altro presidente della Corte Valerio Onida), è stata nominata, lei cattolica, all’Alta Corte dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel settembre 2011.
Il nome di Cartabia come possibile premier non era uscito a caso, ma come quello di una personalità che avrebbe potuto garantire la discontinuità chiesta dal Pd per una possibile alleanza con il M5s.
Già nel 2018 aveva pensato alla giurista il Presidente Sergio Mattarella per guidare un governo neutrale per traghettare il Paese verso nuove elezioni.
Già da queste poche note emerge il primo tratto decisivo del nuovo presidente della Corte Costituzionale (che ha scritto un libro a quattro mani con Luciano Violante, “Giustizia e Mito”): una levatura altissima, al di sopra delle parti, centrata sui valori della Costituzione.
Ma la riga finale del suo comunicato di agosto, il riferimento ai valore che la “Costituzione attribuisce per la vita del Paese, e soprattutto per quella di ogni singola persona”, è indice di una sua preoccupazione umana costante nell’esercizio della sua funzione di giudice.
Il giudice non come asettica “bocca della legge”, ma il giudice “con il cuore di Salomone”, inteso come il mitico re biblico dell’Antico Testamento, esempio estremo di saggezza che per “scoprire” la vera madre di un neonato conteso tra due donne, ordinò di tagliare in due il bambino, sicuro, come poi avvenne, che la vera madre sarebbe stata quella che avrebbe lasciato suo figlio all’altra donna, affinché vivesse.
Tanto che Marta Cartabia ha curato un volume proprio dedicato a “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI” insieme ad Andrea Simoncini dell’Università di Firenze.
Un altro tratto distintivo della Cartabia è il rapporto molto stretto con il Presidente della Repubblica, Mattarella, nonostante siano quasi “opposti”. Lui, uomo, più anziano, siciliano, “cattolico democratico”.
Lei, la più giovane Presidente della Consulta, donna, lombarda, cattolica, vicina fin dall’Università, a CL.
Quella tra Cartabia e Mattarella è cementata dal fatto che, dopo la morte della moglie e prima dell’elezione al Quirinale, Mattarella ha vissuto nella foresteria della Corte Costituzionale, dove alloggiano il presidente e i vicepresidenti, tra cui la Cartabia appunto, quando sono a Roma, a due passi a piedi dal Palazzo della Consulta.
Per tre anni Cartabia è stata la sua vicina di pianerottolo in poco più di sessanta metri quadri. Due stanze (una camera da letto e una seconda camera adibita a studio), bagno, salotto con angolo cottura. Mobili di noce scuro, pareti sempre pulite e fresche di tinteggiatura, ma l’arredamento non ha niente di più che non sia l’essenziale. Quasi fosse studente fuori sede.
Il terzo tratto della Cartabia che vale la pena sottolineare è la conoscenza del diritto internazionale e comparato (tra l’altro è stata allieva di Joseph Weiler, eminente giurista ebreo, titolare della cattedra Jean Monnet della New York Law School), molto importante in questo periodo di transizione globale.
Già nel 2006 ha curato un volume (Rubettino) che ha pubblicato in Italia alcuni saggi di Mary Ann Glendon, docente di Harvard (che è stata professore anche dell’attuale Segretario di Stato americano, Mike Pompeo), “Tradizioni in subbuglio”, saggi comparsi su riviste giuridiche americane: riflessioni storiche e teoriche sulle condizioni per lo sviluppo della democrazia, sul ruolo dei giudici nei sistemi di civil law e di common law; sulle tematiche generali dei diritti umani alla libertà di religione e al diritto di famiglia.
Marta Cartabia ha 3 figli e ama la montagna (ad agosto, mentre di lei si parlava come possibile prima donna premier lei era impegnata nella scalata della vetta del Gran Paradiso), il trekking e la musica rock, e corre con nelle cuffie la musica dei Beatles e dei Metallica.
Ha sempre conciliato le responsabilità cui è stata chiamata, con la sua famiglia: “Penso che questo duplice aspetto della mia vita mi aiuti a mantenere un pizzico di equilibrio”, ha dichiarato di recente.
Tutte queste caratteristiche che fanno della Cartabia, il giudice gentile con il cuore del Re Salomone, a 56 anni, una vera e propria riserva della Repubblica.
BENEDETTO XVI/ Per fare politica occorre il “cuore” di Salomone
Ieri, presso la Biblioteca del Quirinale, è stato presentato il volume “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI”.
Ne parla ANDREA SIMONCINI *
L’idea di questo libro nasce da una constatazione: oggi la Chiesa è accusata spesso di entrare “a gamba tesa” nei dibattiti politici ovvero nelle discussioni di tipo giuridico; da più parti si ritiene che le gerarchie cattoliche pretendano di dettare ex cathedra i contenuti del dibattito democratico, distorcendo, così, tale dibattito. Un’accusa del genere è fondata? Questa obiezione nasce dalla vera posizione della Chiesa sulle questioni politiche e giuridiche? Davvero il Papa e la Chiesa intendono entrare in questi dibattiti “dettando” ai politici ed alle istituzioni cosa dovrebbero dire o fare?
Cosí è nato il progetto che Marta Cartabia ed io abbiamo curato, quello cioè di raccogliere assieme e ripubblicare cinque grandi discorsi pubblici che il Papa emerito Benedetto XVI ha tenuto dinanzi ad istituzioni civili, politiche o accademiche (Regensburg, Westminster, Collège des Bernardins, Nazioni Unite e Bundestag); chiedendo poi ad un gruppo di autorevoli esperti nel campo delle scienze giuridiche e politiche, espressivi delle più diverse sensibilità religiose, geografiche, culturali, accademiche e istituzionali, di proporne un commento.
Il risultato è andato al di là delle più ottimistiche previsioni. I nomi che hanno accettato di partecipare sono davvero tra gli studiosi più autorevoli e chi vorrà acquistare il libro potrà scorrerne l’elenco completo.
Cattolici, ebrei, protestanti, musulmani, agnostici, tutti hanno accettato di paragonarsi con questo pensiero. Alcuni hanno posto domande o sollevato interrogativi, altri hanno sottolineato la fecondità della posizione della Chiesa soprattutto dinanzi alle sfide che vive la società umana contemporanea. Tutti, comunque, hanno accettato questo dialogo con il Papa emerito come un interlocutore all’altezza delle sfide e dei valori in gioco, rifiutando così la riduzione caricaturale cui molto spesso viene sottoposta la posizione del magistero cattolico.
Ma il punto più interessante è che questo dialogo sta proseguendo oltre le pagine del libro.
La giornata di ieri lo dimostra: un panel d’eccezione ha accettato di proseguire la discussione lanciata dal volume, riprendendo le tesi di fondo del pontefice emerito e sviluppandone ulteriormente le potenzialità. Il dibattito è stato ricchissimo di contributi interessanti; un punto tra gli altri è emerso sinteticamente: le idee riguardanti il pensiero politico-giuridico della dottrina cattolica molto spesso sono stereotipi.
Per dimostrare questa conclusione proviamo un esperimento mentale: se oggi invitassimo un campione casuale di uomini politici o di responsabili di istituzioni pubbliche a stilare una lista dei temi toccati dal Papa emerito in questi suoi discorsi pubblici, prima di leggerli, è molto probabile che nell’elenco troveremmo: difesa della vita, eutanasia, contraccezione, divorzio, fecondazione assistita e così via. Rimarremmo, perciò, molto sorpresi nel non trovare nessuno di questi argomenti nei testi. Attenzione! Non che al Papa o alla Chiesa non interessino quei temi, anzi! Ma in questi discorsi, in cui il tema è il fondamento dell’ordine giuridico, il punto di attacco è molto più profondo e radicale. La preoccupazione non è dire alla politica cosa deve fare, ma − più alla radice − riconoscere da cosa nasce la politica.
«Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, maiun ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto - ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio».
In questo passaggio del discorso pronunciato al Bundestag di Berlino è racchiuso il cuore del pensiero di Benedetto XVI: non la rivelazione, ma «la ragione e la natura nella loro correlazione» costituiscono «la fonte giuridica valida per tutti».
Dunque, il problema non è dire ai governanti cosa debbono fare, ma come far sì che essi usino correttamente la propria ragione nelle scelte che debbono fare.
In questo senso è davvero sorprendente l’unitarietà della traiettoria che lega il Papa emerito a Papa Francesco. Questa battaglia per un’idea non ridotta di ragione e di verità che costituisce il più grande contributo civile e laico della Chiesa.
Come ha detto Papa Francesco nella lettera inviata ad Eugenio Scalfari, “Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la accoglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa”.
La verità, quindi, chiede umiltà e apertura e qui non possiamo non riconoscere la eco di quel “cuore docile, che sappia rendere giustizia al suo popolo e sappia distinguere il bene dal male” che chiede Salomone a Dio e che il papa emerito ha additato a modello per i politici di qualsiasi credo.
* Fonte: Il Sussidiario.net, 31.01.2014
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA": L’ ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia *
Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.
Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)
Corriere della sera - Sette, 22 novembre 2019
Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi
di Lucetta Scaraffia *
Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda - dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa - nascondevano un segreto imbarazzante.
Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.
Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo - finalmente qualcuno la prendeva sul serio! - le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».
Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?
Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.
Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee - ma anche molte più vicine a noi - che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.
La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante - troppe - donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.
C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza - Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? - e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.
Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale - sia sulle donne che sui minori - come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.
Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.
Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?
(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE.
Un commento a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO... Ricordando quanto sia determinante e fondamentale, oggi, ripensare sul piano antropologico (andrologico e ginecologico) e teologico la figura della “sacra famiglia” e di san Giuseppe (si cfr. i commenti a "Ggimentu, gimmientu e ggimintare" di A. Polito, Fondazione Terra d’Otranto, 06.07.2018), e “come nascono i bambini”, non posso non PLAUDIRE alla realizzazione del “convegno e del libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”, con tutti i suoi molteplici contributi!!!
SUL TEMA DELLA «GIUSEPPOLOGIA», MI SIA LECITO, si cfr.: GESU’ “CRISTO”, GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE (“CHARITAS”) DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Federico La Sala
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
Demografia.
L’Europa è unita dalle culle vuote: ecco la vera crisi che non si affronta
I tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza che riguarda tutte le età e tutti i livelli di reddito
di Massimo Calvi (Avvenire, sabato 22 giugno 2019)
La recessione demografica che colpisce l’Italia, e che insieme al debito pubblico rappresenta uno dei maggiori elementi di preoccupazione per gli anni a venire, non è un fenomeno limitato ai confini nazionali. Nel lanciare l’ennesimo allarme, alla presentazione del rapporto annuale Istat, il presidente dell’istituto di statistica Giancarlo Blangiardo ha fatto un paragone con il crollo della popolazione registrato negli anni 1917-1918, quelli segnati dalla Grande Guerra oltre che dagli effetti dell’epidemia di Spagnola. Eppure il male italiano è anche un grande problema europeo. «L’inverno demografico che stiamo vivendo in Europa», di cui ha parlato anche papa Francesco a gennaio nell’Udienza generale per il viaggio a Panama in occasione della Giornata mondiale della gioventù 2019, merita di essere preso più seriamente di quanto la politica e le istituzioni non stiano facendo: l’immagine choc della Guerra non è così lontana dagli effetti che il Continente può dover sperimentare nei prossimi anni.
In Europa, i tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire più o meno dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza strutturale comune, che riguarda un po’ tutte le età e tutti i livelli di reddito. Paesi come la Francia sono passati da tassi superiori ai 2 figli per donna a 1,87 nel 2018, la "mitica" Svezia è scesa a 1,75 (era a 1,91 nel 2008), la Gran Bretagna è arrivata al record negativo da 10 anni a 1,76, la Spagna è crollata a 1,25 figli (da 1,44 nel 2008), persino in Finlandia gli allarmi si ripropongono anno dopo anno perché si ritarda sempre di più la messa al mondo del primo figlio e nascono sempre meno secondi e terzi. L’Italia ha un tasso di fecondità oggi di 1,32, ma aggravato dal fatto che il calo delle nascite dura da molti più anni rispetto ad altri Paesi, e questo ha ormai compromesso le possibilità di compensare con nuove nascite l’emorragia della popolazione.
Il primo problema all’origine dell’inverno demografico ovunque in Europa è proprio il calo del numero di donne in età riproduttiva, fenomeno che ha origine attorno agli anni 90. Meno donne che mettono al mondo meno figli è il "dato grezzo" della questione. In realtà, lo choc del 2008 sembra aver tracciato una linea netta oltre la quale è entrato probabilmente in gioco un cambiamento di mentalità delle nuove generazioni, unita al venire meno di molte certezze su lavoro, abitazione, prospettive e soprattutto sulla possibilità di migliorare la propria situazione rispetto alla generazione precedente. Non è una mancanza di desiderio di famiglia, ma più di condizioni da soddisfare in un contesto di politiche pubbliche che tende a premiare comportamenti individualistici e a scoraggiare la formazione di una famiglia. È vero in Italia, ma lo si incomincia a registrare un po’ ovunque nelle politiche di bilancio.
Il cambio della composizione demografica porta infatti con sé anche decisioni di spesa che rischiano di accentuare il problema della denatalità. In un recente saggio pubblicato sulla rivista Population & Avenir, il demografo francese Gerard-Francois Dumont ha dimostrato come salvo rarissime eccezioni i Paesi che più spendono per sostenere la natalità registrano anche i maggiori tassi di fecondità. Tuttavia, oggi l’aumento della popolazione anziana e il calo di quella in età da lavoro sta spingendo gli Stati ad aumentare le risorse a favore della componente più rilevante anche elettoralmente per mantenere gli standard di welfare, inteso come sanità e pensioni.
Secondo un recente rapporto della Fondazione Leone Moressa l’Italia avrà il 17% in meno di popolazione tra 32 anni, e oltre il 35% dei cittadini con più di 65 anni. Altre previsioni che riguardano invece l’Europa indicano che entro il 2060 le persone tra i 15-64 anni caleranno dal 67% attuale al 56%, gli "anziani" saliranno invece dal 18 al 30%. Da 4 persone in età attiva per ogni over-65 si passerà a sole 2.
Guardando avanti, in un Continente che oggi conta poco più di 510 milioni di persone, e che dovrebbe incominciare a conoscere un calo di popolazione dal 2035, si può immaginare un gruppo di Paesi che continuerà ad avere un saldo naturale positivo della popolazione: Francia, Gran Bretagna, Svezia, Irlanda, Danimarca...; un altro caratterizzato da un deciso declino demografico: Portogallo, Spagna, Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Polonia...; l’Italia e la Germania presentano invece prospettive molto negative nel bilancio nati-morti, ma la possibilità di tenuta dei livelli resta appesa alla capacità di continuare ad attrarre popolazione giovane.
Culle vuote e migrazioni mal gestite sono una bomba a orologeria per il Vecchio Continente. L’Europa ha bisogno disperatamente di più bambini e di più persone al lavoro che possano sostenere gli anziani a riposo o bisognosi di cure. Crudamente, ha bisogno di far venire alla luce nuove risorse e di attrarne di già disponibili. Spendere e investire per favorire le nascite purtroppo è una scelta che non piace ai governi in virtù di un banale calcolo statistico, considerato che proprio la tendenza demografica declinante richiede sempre maggiori risorse a favore della parte elettoralmente più rilevante della popolazione. Ma la tentazione della rendita è di per sé un indicatore evidente di declino e sconfitta.
Il fatto è che la recessione demografica porta con sé anche recessione economica, problemi sul debito e sulla sostenibilità dei servizi, maggiori difficoltà di spesa per sostenere le aree depresse.
Tutti gli studi sull’effetto dello choc demografico indicano che per Paesi del Centro e dell’Est-Europa, per la Germania Orientale, l’Italia del Sud, il Nord della Spagna e la Grecia, la prospettiva è quella di un futuro fatto di poche nascite, invecchiamento, emigrazione. E’ un circolo vizioso, insomma. Esattamente come quello che chiama in causa la questione delle migrazioni. I Paesi che riusciranno a tenere la posizione saranno quelli in grado di garantire due tipi di condizioni: uno sviluppo così elevato in termini di qualità della vita, del lavoro, delle retribuzioni, degli incentivi, della sicurezza e della sostenibilità futura, in grado di sostenere il desiderio di figli e famiglia; la capacità di offrire alle persone che emigrano lavoro, integrazione, educazione e un ambiente favorevole e dignitoso.
Non è una partita semplice perché l’inverno demografico è già qui e le tensioni che comporta questa trasformazione sono in atto e ben visibili. Di certo se la sfida è anche culturale, la soluzione non è più individualismo, ma migliore capacità di interpretare la solidarietà tra le generazioni e tra i popoli.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA - 2008 - "NON CLASSIFICATA"!!!
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours"). Un testo di Patricia Klindienst (trad. di Maria G. Di Rienzo) -
OVIDIO. La tela di Aracne apre il libro sesto delle "Metamorfosi", la storia di Filomela lo chiude (...) Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare (...)
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
"UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia). La fine della dominazione maschile... *
Un cambiamento epocale
di Lucetta Scaraffia (Osservatore Romano, 12 settembre 2018)
La fine della dominazione maschile - trasformazione storica alla quale stiamo assistendo nel mondo occidentale - costituisce senza dubbio un evento sociale di specie rara, che tocca la società nel profondo, cioè nella maniera in cui si costituisce e si perpetua. Queste le considerazioni del filosofo francese Marcel Gauchet, che in un recente saggio affronta il tema nella sua complessità, mettendo in evidenza, innanzi tutto, che abbiamo la possibilità «per la prima volta nell’avventura umana, di entrare nelle ragioni che hanno presieduto questa organizzazione arci-millenaria dei ruoli sessuali», talmente radicata che ha potuto passare per un tempo immemorabile come iscritta nell’ordine delle cose.
Talmente radicata che, scrive il filosofo, «esiste un legame intimo fra dominazione maschile e religione». Come hanno modellato insieme, a livelli diversi, l’esistenza collettiva, così oggi stanno subendo una profonda crisi che le coinvolge entrambe. Entrambe rispondevano a una esigenza profonda, quella di garantire l’esistenza di una società, assicurando la continuità della sua cultura e l’identità della sua organizzazione al di là del rinnovo dei suoi membri.
Le donne detengono il potere di assicurare la riproduzione fisica del gruppo umano, gli uomini quella culturale: nelle società tradizionali la potenza di procreare era controbilanciata da una potenza equivalente, ma la superiorità dell’ordine culturale - trascendente rispetto alla precarietà della vita biologica - diventava la base della dominazione maschile. L’essenza della mascolinità stava nella possibilità di elevarsi al di sopra del suo sesso per raggiungere lo statuto di individuo universale.
Questo tipo di organizzazione ha cessato di esistere, provocando trasformazioni radicali sia nelle condizioni della riproduzione biologica sia in quelle della riproduzione culturale, cambiando radicalmente i riferimenti al maschile e al femminile. -Oggi la dimensione culturale esplicita e consapevole è stata assorbita da quella implicita del processo sociale. Come lucidamente osserva Gauchet, «quello che è fondamentalmente cambiato è il modo in cui le società assicurano la loro traversata nel tempo». La dominazione maschile ha perduto la sua ragione d’essere, e proprio per questo i fondamentalismi insistono tanto sul rapporto fra i sessi, tema che sembrerebbe periferico rispetto a una visione religiosa del mondo.
Il lucidissimo saggio suggerisce nuove e importanti linee interpretative del cambiamento in atto nella società e nella famiglia, ma rispetto alla religione Gauchet cade nell’errore di considerare tutte le forme religiose come patriarcali: per quanto riguarda il cattolicesimo, ha certo ragione se pensiamo all’istituzione, ma non ce l’ha se pensiamo al suo fondamento sacro, i vangeli. Lì la testimonianza di Gesù rovescia in mille modi la stratificazione patriarcale in cui vive, con modalità che hanno influito potentemente sullo sviluppo storico dell’occidente. Se, come sosteneva il teologo ortodosso Ignazio Hazim, poi patriarca di Antiochia, la missione di tutte le Chiese «è quella di essere la coscienza viva e profetica del dramma di questo tempo» oggi un ritorno più consapevole al testo evangelico può consentire alla Chiesa di presentarsi nuovamente come messaggio profetico, diventando così il laboratorio nel quale saranno concepite le basi culturali della nuova società. Donne e uomini insieme.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
"UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia). LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
Natività della Vergine Maria.
Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 8 settembre 2018)
Siamo creature chiamate a generare Dio nel mondo, una “missione” vissuta fin dall’inizio della propria esistenza da Maria, che è stata un ponte tra il Creatore e le creature. La festa di oggi, che celebra la natività della Vergine Maria, è legata indissolubilmente a quella del Natale: nella lettura dei Padri, infatti, con la nascita di Maria Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini, una dimora che poi lui stesso abiterà nell’Incarnazione.
La ricorrenza odierna è nata in Oriente ed è stata introdotta anche in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo. Oggi questa festa è un invito a curare la nostra vita e la nostra interiorità perché è qui che s’incontra Dio. Una lezione “mistica” che i cristiani non devono mai dimenticare se non vogliono ridurre la fede a semplici “buone pratiche”.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853).
Letture. Mi 5,1-4; Sal 12; Mt 1,1-16.18-23.
Ambrosiano. Ct 6,9d-10; Sir 24,18-20; Sal 86; Rm 8, 3-11; Mt 1,1-16 oppure Mt 1,18-23 / Gv 20,1-8.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Fedeli, femminicidio fenomeno strutturale e trasversale
Serve nuovo patto scuola-famiglia-società, competenze a docenti
di Redazione *
ROMA - "La violenza sulle donne non è un’emergenza sociale ma un fenomeno strutturale, trasversale in tutti i ceti sociali, in tutte le età della vita, e che riguarda gli uomini". Così Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca partecipando a un convegno sulla violenza di genere e sui minori.
"Si tratta di una violazione dei diritti che interroga i rapporti che si sono storicamente determinati tra uomini e donne. Siamo convinti che la scuola e l’università devono fare il loro lavoro tenuto conto del ruolo molto importante di tutte le agenzie formative. Noi - aggiunge la ministra - siamo pronti a affrontare il tema della formazione e delle nuove competenze su questo tema da parte dei nuovi insegnati.
Ora - conclude Fedeli - serve un nuovo patto tra scuola, famiglia e società. E su questo fronte siamo pronti a fare la nostra parte, pur di superare, a partire dalla scuola, le discriminazioni tra ragazze e ragazzi che poi portano alla violenza".(ANSA).
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. LA LIBERTA’ DI MARIA E DI GIUSEPPE ...
Milano. Scritta pro aborto sulla chiesa, la reazione del parroco vola sui social
Lettera aperta di don Andrea Bellò sulla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, a Milano, è diventata virale.
di Gigio Rancilio (Avvenire, mercoledì 31 maggio 2017)
Questa è una piccola “brutta” storia ma che sta dando ottimi frutti. Arriva dalla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, in zona Corvetto, periferia sud di Milano. E come tutte le notizie, soprattutto quelle che girano sui social, va verificata. Al telefono la voce femminile che risponde al numero della parrocchia, appena dici che sei un giornalista, si irrigidisce un po’. E ti liquida con un “il parroco non c’è”. Sfoderi la voce più pacata che riesci a fare e spieghi: “Volevo soltanto sapere se la storia è vera e se la pagina Facebook della parrocchia è davvero vostra”. “Sì, è tutto vero. Ma il parroco non c’è”.
Il parroco è don Andrea Bellò, diventato famoso nelle ultime ore, suo malgrado, per un post Facebook che ha firmato e pubblicato sulla pagina della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita. Ottenere 3700 reazioni, 307 commenti e 1590 condivisioni, per una pagina che normalmente registra 15 mi piace, è un record.
A colpire gli utenti è stata la reazione di don Andrea, dopo che il muro della sua parrocchia è stato imbrattato con una scritta offensiva: “Aborto libero (anche per Maria)”. Il parroco ha deciso di scrivere su Facebook una lettera aperta all’anonimo “imbrattatore”.
Eccola:
Che una Chiesa venga imbrattata da scritte offensive, purtroppo non è una novità. E nemmeno che un parroco usi i social per cercare un dialogo con un aggressore. E non è una novità nemmeno che un sacco di persone plaudano alla sua scelta.
Ciò che è nuovo, anzi rinnovato è il coraggio di questo gesto. La bellezza di questo gesto. L’esempio di questo gesto.
Il Concilio di Nicea
di Arnaldo Casali *
No, non è stata decisa la divinità di Cristo, al Concilio di Nicea; con buona pace di Dan Brown che l’ha scritto nel [Codice Da Vinci (**), scomodando centinaia di intellettuali per smentire la solenne baggianata e facendo conoscere anche ai più sprovveduti in materia religiosa il più importante Concilio della storia.
Se non ha votato la proposta di trasformare in Dio un profeta mortale (non ce ne era bisogno visto che la divinità di Cristo è già dichiarata nei Vangeli e predicata dagli apostoli) il Concilio di Nicea, aperto solennemente nel palazzo imperiale il 20 maggio dell’anno 325, ha stabilito in compenso la data della Pasqua, prodotto il Credo ancora oggi recitato durante ogni messa e scatenato la più grande eresia del Medioevo: l’unica - fino alla Riforma luterana - capace di uscire dalla dimensione della setta per trasformarsi in una vera e propria Chiesa alternativa a quella cattolica.
Eppure al primo Concilio ecumenico della storia della Chiesa il Papa non ha partecipato, e a convocarlo e presiederlo è stato un laico che non era nemmeno battezzato: l’imperatore Costantino.
Non c’è nulla di così strano, in realtà. A quel tempo il Papa non era il capo della cristianità ma semplicemente il vescovo di Roma; il suo potere aumenterà progressivamente, nel corso del Medioevo, quando - venuto meno l’impero romano - andrà di fatto a colmare il vuoto lasciato dai Cesari.
Nel 325, però, l’impero è ancora saldo e sul trono siede uno dei più grandi sovrani della storia romana che, dodici anni prima, dalla nuova capitale Milano ha emanato l’editto con cui viene garantita la libertà religiosa a tutti i cittadini, mettendo fine alle persecuzioni e segnando una svolta radicale nella storia del Cristianesimo.
Costantino non è un cristiano vero e proprio: si farà battezzare solo dodici anni dopo, in punto di morte, promuove il culto del dio Sole ed è il Pontefice Massimo della religione romana; all’indomani del Concilio farà uccidere suo figlio e sua moglie, mentre nella sua nuova capitale farà edificare vari templi a divinità pagane.
Certo, già dalla battaglia di Ponte Milvio che il 28 ottobre 312 lo aveva visto trionfare contro Massenzio, Costantino aveva ostentato la sua simpatia per la nuova religione, rifiutando i rituali divinatori degli aruspici e preferendo affidarsi alla protezione del “Sommo Dio”. Quando era entrato trionfante in Roma, poi, non era nemmeno salito in Campidoglio, dove c’era il tempio più sacro della città.
Negli anni successivi la politica religiosa nei confronti dei cristiani è passata dalla tolleranza al sostegno e l’imperatore, che ha progressivamente abbandonato i culti di Ercole e Giove, ha iniziato a far inserire simboli cristiani su vessilli, statue e monete. Nel 321 ha introdotto la settimana e stabilito che la domenica debba essere riconosciuta come giorno festivo (chiamandola però con il nome pagano di “Giorno del Sole”) e nel 324 ha messo al bando i rituali di magia e vietato le esecuzioni dei condannati a morte durante i giochi circensi. Tutto questo, però, senza proibire i culti pagani, continuando a manifestare rispetto per i fedeli dell’antica religione e mantenendo una certa ambiguità sulla sua fede personale.
Si tratta senza dubbio di una strategia politica, che mira a pacificare l’impero e a venire a patti con il sempre più potente movimento religioso, dopo il fallimento delle persecuzioni di Diocleziano. L’obiettivo di Costantino è quello di trasformare la forza potenzialmente disgregante delle energiche comunità cristiane in una forza di coesione per l’impero, che sarà ancora più forte sotto la protezione dell’unico vero Dio e con il sostegno dei suoi devoti.
Ma non si tratta solo di gestione di potere: l’interesse religioso dell’imperatore è sincero e sposare apertamente una religione che conta ancora appena il 10% dei cittadini non è certo una scelta popolare.
Tuttavia, più che seguace di Gesù Cristo, Costantino è un convinto monoteista.
Non è tanto il Vangelo ad affascinarlo, quanto l’idea di un Dio unico, che non necessariamente si identifica con la trinità: di fatto il primo imperatore cristiano promuove un sincretismo che tende a unire il cristianesimo con i culti mitralici e solari. Insomma quello che interessa a Costantino è che ci sia un solo Dio e che questo Dio non sia egli stesso (come pretendevano i suoi predecessori) ma un’entità superiore e onnipotente a cui affidarsi; tanto che nello stesso Editto di Milano si parla della “divinità che sta in cielo, qualunque essa sia” che “a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità”. E senza dubbio il Sole è la più tangibile forma di un Dio padre e re dei cieli, che illumina e dà vita e che ogni giorno muore e ogni mattino risorge, vincendo le tenebre e donando nuova luce al mondo.
In alcune lettere private Costantino afferma di voler convertire tutti alla religione cattolica, ma di fatto la sua azione politica punta ad un ecumenismo che faccia confluire in un’unica forma le credenze religiose di tutti i popoli sottomessi a Roma.
D’altra parte se l’unico Dio è il sovrano dei cieli, sulla terra il padrone è lui. E a lui spetta, quindi, assumersi la responsabilità di gestirne il culto assicurando la benevolenza al suo popolo. Per questo Costantino, mentre mantiene le più alte cariche religiose pagane, si assume anche il compito di guidare il popolo cristiano.
Nel 325, dunque, con il singolare ruolo di “vescovo di quelli che sono fuori dalla Chiesa” ha convocato a Nicea la prima assemblea plenaria della Chiesa Cattolica dai tempi del Concilio di Gerusalemme (la riunione raccontata negli Atti degli Apostoli a cui avevano partecipato - pochi anni dopo la morte di Gesù - il fratello Giacomo, gli apostoli e san Paolo, per decidere se mantenere il cristianesimo nell’ambito dell’ebraismo o farne una religione nuova).
Al primo Concilio ecumenico vengono quindi convocati tutti i vescovi del mondo; quello di Roma, però, non si presenta perché la città turca è decisamente fuori mano e manda due preti in sua rappresentanza.
Costantino, d’altra parte, si prepara a trasferire in oriente la capitale stessa dell’impero, ma la scelta costa al Concilio l’adesione delle chiese occidentali: se l’imperatore ha invitato i vescovi di tutte le 1800 comunità del mondo cristiano a Nicea se ne presentano solo 300, e tutti provenienti dall’oriente o dal nord Africa, con sole tre eccezioni: Marco di Calabria dall’Italia, Osio di Cordova dalla Spagna e Nicasio di Digione dalla Gallia.
È vero anche che il principale problema che la riunione deve risolvere, per il momento, riguarda il Medi Oriente: si tratta del dibattito sulla natura di Cristo che ha spaccato la comunità di Alessandria e rischia di dilagare in tutto il mondo.
Dan Brown, nel suo stile, ha semplificato al massimo la questione parlando di una contrapposizione tra chi sosteneva che Cristo fosse un semplice uomo e chi lo venerava come Dio. In realtà il nodo era piuttosto se Gesù fosse stato creato o generato da Dio Padre. In parole più semplici, se Gesù è una creatura di Dio (ed è quindi nato in un preciso momento) o è la manifestazione storica di Dio stesso, ed è quindi eterno.
Da questo punto di vista i Vangeli non sono molto coerenti: se Marco, Matteo e Luca presentano Cristo come un personaggio storico nato a Betlemme di Giudea e rivelatosi in seguito essere il Messia e il figlio di Dio, Giovanni ne parla come del “Verbo” divino incarnato.
Il principale sostenitore della tesi secondo cui Gesù - in quanto figlio - è stato creato in un preciso momento storico è il prete e teologo libico Ario, che già nel 300 era stato scomunicato dal patriarca di Alessandria Pietro. Nel 311 Ario era stato riabilitato dal nuovo patriarca Achilla, e alla sua morte - nel 312 - era diventato il principale candidato alla successione.
Ario era stato però sconfitto alle elezioni da Alessandro, che nel 318 aveva convocato un sinodo appositamente per scomunicare di nuovo il rivale. Fuggito dalla città, il teologo eretico aveva trovato nuovi seguaci in Siria e in Palestina, raccogliendo il consenso anche di illustri teologi come Eusebio di Cesarea. Nel 321 un sinodo di cento vescovi egiziani ha di nuovo condannato le sue tesi e chiesto la convocazione di un concilio per fare maggiore chiarezza in materia cristologica.
Sotto il profilo squisitamente teologico non è in discussione la divinità di Cristo, quanto piuttosto se il Padre e il Figlio siano composti dalla stessa sostanza (nel senso aristotelico del termine) o se il Figlio sia stato creato dal Padre e si trovi dunque in una posizione subordinata.
Tutta la diatriba ruota intorno alla differenza terminologica tra “generato” e “creato”; differenza sostanziale secondo Alessandro e inesistente secondo Ario. 800px-constantine_burning_arian_books
I promotori della Consustanzialità credono che seguire l’eresia ariana significhi spezzare l’unità della natura divina e rendere il Figlio diverso dal Padre, in palese contrasto con le Scritture (“Io e il Padre siamo una cosa sola”, dice Gesù in Giovanni 10,30). Gli ariani, dal canto loro, rispondono citando il passo 14,29 dello stesso Vangelo: “Io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me”. Gli uni replicano dicendo che la trinità è eterna, quindi il Padre è sempre stato Padre e il figlio è sempre stato il figlio indipendentemente dalla sua incarnazione, gli altri ribadiscono che Cristo è una creatura elevata ad uno status divino. Lo scontro, come è evidente, riguarda elucubrazioni di teologia estrema riservate a dotti filosofi, e che non hanno alcuna ripercussione pratica sulla vita cristiana; eppure la diatriba, sempre più aspra, rischia di lacerare la Chiesa; per questo Costantino vuole che la questione venga risolta prima che sfugga di mano.
Ma quello dell’arianesimo non è l’unico nodo della matassa cristiana che l’imperatore si trova a dover sciogliere con i padri conciliari. C’è una questione ancora più delicata che va chiarita una volta per tutte: la data della Pasqua.
Quando bisogna celebrare le principali feste cristiane, infatti, ci si trova di fronte a un paradosso: della nascita di Cristo non si sa assolutamente nulla, eppure - per volontà dello stesso Costantino - la data del Natale è stata stabilita convenzionalmente il 25 dicembre, proprio per farla coincidere con la festa del Sole Invitto e identificare così le due divinità. All’opposto, del momento più importante della vita cristiana - la Resurrezione - la data si conosce con esattezza eppure ogni comunità la festeggiava in un giorno diverso.
Questioni di calendario: secondo i Vangeli Cristo è risorto il giorno 14 del mese di Nisan. Il problema è che i mesi ebraici seguono un calendario lunare dalla redazione molto complessa, anche perché legata alle osservazioni astronomiche e alla maturazione dell’orzo (per la festa degli azzimi, strettamente legata alla Pasqua ebraica); di conseguenza il 14 di Nisan cade ogni anno in un giorno diverso e con notevoli sfasamenti di anno in anno e persino di luogo in luogo. Inoltre, nei Vangeli è scritto che Gesù è risorto il giorno dopo il sabato, per questo ogni domenica i cristiani celebrano la resurrezione, che è - di fatto - una Pasqua settimanale. Il giorno di Pasqua deve quindi cadere necessariamente di domenica.
La confusione creata da tutte queste variabili aveva visto affermare, nel corso dei secoli, prassi molto diverse tra loro: lo scontro principale era tra quelli che celebravano la Pasqua insieme agli ebrei (detti Quatrodecimani) e quelli che la celebravano la domenica successiva. Altri ancora si erano svincolati dal calendario ebraico - giudicato inattendibile per le troppe variabili che conteneva - e avevano calcolato autonomamente le fasi lunari. Ma di fatto poteva capitare persino di celebrare due volte la Pasqua nello stesso anno solare.
Secondo alcuni cronisti, Costantino in persona si esprime per una presa di distanza dal calendario ebraico, con argomentazioni antisemite: “Fu prima di tutto dichiarato improprio il seguire i costumi dei Giudei nella celebrazione della santa Pasqua, perché, a causa del fatto che le loro mani erano state macchiate dal crimine, le menti di questi uomini maledetti erano necessariamente accecate” scrive Teodoreto di Cirro. “Non abbiamo nulla in comune con i Giudei, che sono i nostri avversari evitando ogni contatto con quella parte malvagia. Quindi, questa irregolarità va corretta, in modo da non avere nulla in comune con quei parricidi e con gli assassini del nostro Signore”.
Il Concilio di Nicea stabilisce così che la Pasqua venga festeggiata ogni anno la prima domenica dopo il plenilunio successivo all’equinozio di primavera. E così viene calcolata ancora oggi.
Nel frattempo Ario ed Eusebio di Nicomedia, il suo principale sostenitore, si ritrovano in poco tempo in minoranza. E come sempre accade in questi casi, non tanto per le argomentazioni quanto per il caratteraccio: l’arroganza dei due teologi, infatti, è così insopportabile da indisporre la fazione moderata e indurla a votargli contro. Alla fine la teoria del Figlio della stessa sostanza del Padre vince con una larghissima maggioranza: persino Eusebio cambia posizione e solo Teona di Marmarica e Secondo di Tolemaide votano a favore di Ario.
Il nuovo dogma viene inserito nella Professione di fede che i cristiani reciteranno da quel momento in poi durante ogni celebrazione liturgica, in cui si precisa così che Gesù Cristo è “generato, non creato della stessa sostanza del Padre”.
Tuttavia il turbolento clima conciliare per niente conciliante, degenera al punto che san Nicola di Bari, vescovo di Mira, arriva a prendere a schiaffi Ario.
Uno schiaffo che il teologo sconfitto avrebbe restituito con gli interessi ai vincitori.
Sconfessato ufficialmente, infatti, Ario non si arrenderà: appena tre mesi dopo il Concilio, Eusebio di Nicoledia e Teognis di Nicea saranno esiliati in Gallia perché - pur avendo firmato gli atti dell’assemblea - riprenderanno a predicare la teologia ariana, guadagnando alla loro causa anche il Custode degli atti stessi.
Non solo, ma persino l’imperatore Costantino negli ultimi anni di vita finirà per passare al nemico, riabilitando Ario e ricevendo il battesimo ariano da Eusebio (e giocandosi così il titolo di santo, che verrà assegnato invece alla madre Elena).
Nei decenni l’eresia ariana continuerà a crescere fino a diventare una vera e propria chiesa alternativa a quella cattolica.
Se di eresie ce ne erano state già sin dall’inizi del Cristianesimo (dagli gnostici ai manichei, dai meleziani ai novaziani) e il Medioevo ne vedrà sorgere di importantissime (basti pensare ai catari, contro cui Innocenzo III bandirà addirittura una crociata, e i valdesi - che riusciranno a sopravvivere fino al Cinquecento ed entreranno nella Riforma protestante arrivando fino ad oggi) gli ariani saranno gli unici a conquistare intere nazioni, tanto da diventare - nell’alto medioevo - una vera e propria seconda Chiesa cristiana, a cui aderiranno la maggior parte delle popolazioni germaniche, tanto che a Ravenna esiste ancora la cattedrale ariana fatta costruire da Teodorico con tanto di battistero.
L’ariano resterà così nell’immaginario cristiano l’eretico per antonomasia, tanto che durante le crociate in occidente gli stessi musulmani verranno chiamati “ariani” e così continueranno ad essere chiamati per secoli.
A dare testimonianza di come il termine, ancora nel Seicento, venisse usato per indicare gli arabi è Alessandro Manzoni nel capitolo XIV dei Promessi sposi: Renzo si è ubriacato in una locanda e l’oste gli chiede le generalità come prescritto da un’apposita legge. Alle rimostranze di Renzo gli mostra la circolare, in cui campeggia lo stemma del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova con il volto di un re moro incatenato per la gola.
“Lo conosco quell’arme - risponde il nostro - so cosa vuol dire quella faccia d’ariano, con la corda al collo. Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole”. E così sia.
* FESTIVAL DEL MEDIOEVO (ripresa parziale - senza immagini).
** DAN BROWN, IL CODICE DA VINCI ... KOYAANISQATSI (LA VITA SENZA EQUILIBRIO - LIFE OUT OF BALANCE).
RIPENSARE COSTANTINO ... *
Perché Dio viene presentato al maschile?
risponde il teologo Pino Lorizio (Famiglia Cristiana, 11/05/2017)
La Bibbia ci autorizza a pensare Dio anche nel suo volto “materno”. E ci dice che se anche una donna si dimenticasse di suo figlio, il Signore non potrà mai dimenticarsi di noi, né abbandonarci. In tempi nei quali assistiamo a episodi inauditi di violenza non solo di padri, ma anche di madri, su bambini inermi, ricordarcelo non è fuori luogo.
Né dobbiamo dimenticare che pensare Dio come sessuato è un antropomorfismo, che potrebbe risultare fuorviante, se inteso in termini esclusivi. Dio è oltre le differenze sessuali, perché è fuori del tempo e delle contingenze mondane.
Quando però il Figlio si incarna, entra in questa differenza e non può che assumere una delle modalità in cui l’umano si esprime. Se si fosse incarnato al femminile, si sarebbe potuta avanzare la stessa obiezione dal punto di vista maschile. E allora, siccome la storia non si fa con i se e i ma, stiamo dentro l’evento, non alimentiamo inutili fantasie ispirate a machismo o femminismo, e lasciamoci guidare dalla tenerezza materna di Dio, incarnata in Cristo Gesù e vissuta nella madre Chiesa.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO":
L’accesso alle Scritture per l’altra metà del Settimo cielo
Saggi. Da Giuditta a Chiara da Siena, al papato di Bergoglio. «Il potere delle donne nella Chiesa» di Adriana Valerio per Carocci
di Alessandro Santagata (il manifesto, 14.1.2017)
La questione del ruolo delle donne nella Chiesa cattolica tocca direttamente il nodo del potere pastorale e delle strutture del cattolicesimo. Lo conferma in maniera convincente Il potere delle donne nella Chiesa. Giuditta, Chiara e le altre (Carocci editore, pp. 248, euro 18), l’ultima pubblicazione di Adriana Valerio, storica del cristianesimo e autrice di importanti contributi sul conflitto di genere nella storia della Chiesa.
La riflessione prende le mosse dal recente intervento di papa Francesco volto a istituire una commissione di studio sul diaconato femminile. Si tratta dell’ultimo di una serie di interventi che «hanno riaperto questioni antiche, suscitando speranze e opposizioni che, ancora una volta, indicano come la posta in gioco sia il potere nella Chiesa». «Se infatti - prosegue Valerio - il ministero fosse realmente inteso e vissuto come servizio non ci sarebbe alcun ostacolo per consentirlo anche alle donne. Ma evidentemente non è così. Le donne rimangono «a servizio», ma non hanno alcun ruolo decisionale».
IL TEMA DEL «SERVIZIO» nei suoi molteplici significati rappresenta il filo rosso con il quale si può leggere la vasta, per quanto sintetica, analisi proposta dall’autrice. Nelle Scritture, per esempio, da un lato si rimanda a contesti culturali nei quali la donna è sottomessa alle istituzioni di una società patriarcale e gerarchica, dall’altro non mancano episodi che rimandano alla condizione reale della donna dell’Oriente antico e aprono orizzonti di possibile emancipazione. È da leggere in quest’ottica l’ambivalente figura di Ester che attraverso la seduzione piega il dominio maschile ai propri fini. Lo stesso strumento usato da Giuditta che diventa emblema della fragilità del potere.
Si tratta dunque di un potere ambivalente che può risultare decisivo per le sorti di Israele, ma nello stesso tempo che spaventa e necessita di norme di controllo. In questo contesto - spiega Valerio - Gesù e la sua comunità sovvertono le regole di purità e impurità e integrano a pieno titolo le donne nel loro progetto di rifondazione religiosa. Per Paolo di Tarso «non c’è maschio e femmina, perché tutti siete uno in Cristo». Eppure, il cristianesimo presenta tra le sue aporie l’aver messo in discussione i rapporti di potere tra le persone riproponendoli però in maniera palese già a partire dal primo processo di clericalizzazione tra il II e III secolo.
PRENDE COSÌ FORMA una «teologia del peccato» che si nutre di un’interpretazione forzata delle lettere paoline e «vedrà la donna responsabile in prima persona di un debito infinito davanti a un Dio offeso e punitivo». Arriviamo così al cuore dello studio: l’esclusione dal sacerdozio, motivata da Tommaso sulla base della soggezione naturale del genere femminile, lo stratificarsi di un’antropologia negativa volta stigmatizzare la sessualità della donna («debole nel corpo e imperfetta nella ragione»), e contemporaneamente la presenza di donne in diverse posizione di potere.
L’autrice ci restituisce un panorama popolato da diaconesse e badesse, talvolta dignitarie di poteri feudali e semi-episcopali, e di protagoniste di esperimenti nuovi, come nel caso di Chiara d’Assisi che si presenta come «madre che non domina ma governa». Chiudono la rassegna alcune grandi figure del Novecento come Dorothy Day, fondatrice nel 1933 del movimento Catholic Worker, Eileen Egan, dirigente della sezione americana di Pax Christi, e Barbara Ward, economista di chiara fama e «uditrice» al Concilio Vaticano II.
Parlando dell’attualità della Chiesa di Bergoglio, Valerio auspica un cambiamento profondo che possa conciliare la religione con l’avvenuta trasformazione del paradigma antropologico.
IL CATTOLICESIMO è chiamato a «sperimentare modalità nuove di autorità feconda, creativa e condivisa» rifuggendo l’assimilazione alle categorie politico-androcentrice del passato, riscoprendo il sacerdozio come reale «servizio» e il messaggio originario del Cristo liberatore e sovversivo. Il nodo politico da sciogliere riguarda quindi principalmente la Chiesa, ma le implicazioni tra religioso e secolare analizzate in questo libro lasciano intuire le potenzialità civili di una riforma di questo tipo in una società ancora fortemente androcentrica.
Ma tu non sei un prete! Lettera aperta a Lucetta Scaraffia
di Luisa Muraro **
Lucetta Scaraffia, nei tuoi recenti contributi a Il tempo delle donne (Corriere della sera)* sul tema Sesso e amore, dici cose molto giuste. Ma ecco che parte una frecciata contro il femminismo. Non ne parli quasi ma gli tiri una frecciata.
Non che sia una novità, in Italia il clero parla poco del femminismo ma, se lo nomina, è per tirargli una frecciata. A dire il vero, anni fa, suor Marcella Farina ne parlò davanti all’assemblea delle Superiori generali, per dire ben altro: siamo donne anche noi suore e il movimento femminista ci riguarda in prima persona. Credo che molte l’abbiano ascoltata, infatti le suore sono diventate più autonome (e simpatiche). Suor Marcella, perché non ti fai sentire ancora?
Di te, Lucetta, sono sorpresa. Tu hai dato vita a un mensile, Donne chiesa mondo, che è un luogo d’incontro aperto anche a femministe non cattoliche e merita di essere letto.
Di femminismo si può non parlare ma il gesto di attaccarlo in due parole, lo trovo sbagliato. Si può non essere femministe, ma ci sono punti su cui bisogna non cedere, se siamo impegnate per la libertà femminile.
Associare il femminismo all’aborto, come fai tu, è peggio che un cedimento. Le donne abortivano anche prima, il femminismo sostiene che possano farlo in condizioni umane e non siano colpevolizzate. Così come per secoli sono state colpevolizzate anche le ragazze madri, anche nella società cristiana, la cui etica era a dir poco influenzata dalla civiltà patriarcale. Adesso che l’autoritarismo dei padri è venuto meno, c’è da meravigliarsi se regna il disordine nella vita affettiva delle persone più giovani?
Tu scrivi: oggi nessuno ha il coraggio di dire a una tredicenne che sarebbe meglio aspettare a fare sesso... Esageri con quel “nessuno”, ci sono madri e prof che ci provano, ma dalle tue parole traspare un vero problema di autorità femminile nella relazione madre-figlia. E nella società tutta, compresa quella che si chiama Chiesa cattolica. Tu che hai scritto Dall’ultimo banco (Marsilio 2016) lo sai meglio di me.
(*) Quelle bugie sul sesso che danneggiano le donne (21.09.2016)
Le donne, il femminismo e la maternità negata (07.09.2016)
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(www.libreriadelledonne.it, 30 settembre 2016)
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).
Maria Maddalena: finalmente apostola!
Da quasi duemila anni era sotto gli occhi di tutti la presenza decisiva davanti al sepolcro vuoto di Maria Maddalena, la prima a dare la buona notizia della resurrezione: proprio lei, una donna. Nessuno però sembrava essersene accorto veramente. Nei secoli si sono persino formate storielle misogine, come quella che Gesù fosse apparso innanzi tutto a una donna perché le donne chiacchierano di più e così la notizia si sarebbe diffusa più in fretta. Inoltre, alcuni autorevoli commentatori si erano domandati come mai il risorto avesse trascurato sua madre, giungendo perfino a immaginare un’apparizione a Maria prima dell’incontro con la Maddalena, in modo da ristabilire una gerarchia che si considerava alterata.
Su Maria di Magdala, proprio per la sua evidente vicinanza con Gesù, erano sorte addirittura voci inquietanti, tanto da farla diventare simbolo della trasgressione sessuale, rilanciato da leggende tenaci, vive ancora oggi: molti ricordano la Maddalena del film di Martin Scorsese L’ultima tentazione di Cristo, e certo molti di più hanno letto Il codice da Vinci, best seller fondato proprio sul presunto segreto del matrimonio fra lei e Gesù.
Del resto Maddalena è l’unica protagonista importante della storia sacra a essere stata rappresentata nell’iconografia un po’ discinta, e quasi sempre con i capelli rossi, a lungo ritenuti segno di disordine sessuale. In sostanza, anche se veniva considerata una santa, era raffigurata quasi come simbolo opposto all’immagine verginale di Maria, vestita di bianco e di azzurro. Tanto che fra le femministe degli anni Settanta cominciò a diffondersi l’uso di chiamare Maddalena le loro figlie, come segno di ribellione alla tradizione religiosa. Più lungimirante è stata invece la tradizione popolare, che ha immaginato un suo viaggio per mare fino alle coste meridionali della Francia: per evangelizzare, proprio come gli altri apostoli, una parte del mondo allora conosciuto.
Tanto è stata lunga e difficile la strada che ha portato all’accettazione della verità, una verità semplice ma espressiva di un messaggio che molti non volevano ascoltare: e cioè che per Gesù le donne erano uguali agli uomini dal punto di vista spirituale, avevano lo stesso valore e le stesse capacità. Per questo era così difficile ammettere che Maddalena era un’apostola, la prima fra gli apostoli a cui si è manifestato il Signore risorto. Per questo proprio da lei, cioè dalla restituzione del posto che le spetta nella tradizione cristiana, può finalmente partire il riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa. Papa Francesco l’ha capito chiaramente, e ha avviato in questo modo un processo che non si potrà più fermare.
Colpisce che la data del documento sia quella del giorno in cui si festeggia il Sacro Cuore di Gesù: una devozione diffusa da una donna, Margherita Maria Alacoque, e rilanciata con passione da tante sante ottocentesche, come Francesca Cabrini. Altre conferme, queste, che le donne nella Chiesa ci sono sempre state, hanno svolto ruoli importanti e contribuito alla costruzione della tradizione cristiana.
Grazie allora a Papa Francesco da parte di tutte le donne cristiane del mondo, perché con la creazione della nuova festa di santa Maria Maddalena rende loro merito.
* FONTE. SPERARE PER TUTTI, 11/06/16
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Maria Maddalena, apostola degli apostoli
di ENZO BIANCHI (Osservatore Romano, 21 luglio 2016)
Maria di Magdala è una delle figure femminili più intriganti per il lettore. Presente in tutti i vangeli insieme alle altre discepole di Gesù, donne di Galilea, è da Giovanni particolarmente evidenziata come donna vicina a Gesù e come prima testimone della sua resurrezione. Significativamente, nel quarto vangelo appare presso la croce insieme alla madre di Gesù, alla sorella della madre, a Maria di Cleopa e al discepolo amato da Gesù. Nell’ora di Gesù, nell’ora dell’innalzamento del Figlio dell’uomo (cf. Gv 3,14; 8,28) e della sua glorificazione (cf. Gv 12,23), sotto la croce sono presenti gli amici del Signore, quelli legati a lui da amore e ora chiamati a diventare la comunità di Gesù, nella scandalosa assenza dei discepoli, meno uno.
Ora Maria di Magdala è là sotto la croce, nell’ora estrema della vita di Gesù (cf. Gv 19,25), mentre tutti gli altri discepoli sono fuggiti abbandonandolo. Proprio lei e il discepolo amato sono gli unici testimoni della morte di Gesù e della sua resurrezione. Alla croce non dice e non fa nulla, ma il terzo giorno dopo la morte, cioè nel primo giorno della settimana ebraica, di buon mattino, mentre è ancora buio, Maria viene al sepolcro (cf. Gv 20,1-2.11-18). Secondo Giovanni la sua è un’iniziativa personale, ma di fatto in quel suo andare alla tomba, quale figura tipica ed esemplare rappresenta anche le altre donne che, secondo i sinottici, vi erano andate con lei; ecco perché parla al plurale, anche a nome loro: “Non sappiamo dove l’abbiano posto”.
Perché Maria, passato il sabato, appena possibile, va alla tomba? Il quarto vangelo non ci fornisce il motivo: non va per ungere il cadavere di Gesù (cf. Mc 16,1; Lc 24,1), né per osservare la tomba (cf. Mt 28,1), ma in modo totalmente gratuito. Possiamo solo dire che in lei c’è un desiderio di stare vicino al corpo morto di Gesù: colui che Maria ha amato è morto, ora il suo corpo è là nella tomba e Maria vuole stargli semplicemente vicino. È come torturata dall’“ardente intimità dell’assenza” cantata da Rainer Maria Rilke. Giunta alla tomba, vede la pietra rimossa e allora fa una corsa, va da Pietro e dal discepolo amato e dice loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro, e non sappiano dove l’abbiano posto”. All’udire ciò, i due discepoli corrono subito al sepolcro, e in quella corsa c’è una vera e propria con-correnza: il discepolo amato è più veloce e giunge per primo, poi arriva anche Pietro, che entra, vede le bende che giacciono a terra e il sudario avvolto in modo ordinato. Pietro è nell’aporia (cf. Gv 20,3-7), mentre il discepolo amato, entrato pure lui nel sepolcro, “vide e credette” (Gv 20,8).
Mentre attorno a Maria avviene tutto questo, ella, come se non se ne accorgesse, continua a piangere e, chinatasi verso il sepolcro, “scorge due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù”. Maria non fa molto caso neppure ai due angeli, che pure erano una manifestazione divina e avrebbero dovuto destare in lei timore (cf. Mt 16,5 e par.). No, Maria cerca Gesù, il suo Signore e - si potrebbe dire - degli angeli non sa che farsene. Proprio come Bernardo di Clairvaux che, commentando il Cantico dei cantici, esprime così la sua ricerca di Gesù: “Rifiuto le visioni e i sogni, ... mi infastidiscono anche gli angeli. Perché il mio Gesù li supera di molto con la sua bellezza e il suo splendore. Non altri, dunque, sia angelo, sia uomo, ma lui prego di baciarmi con i baci della sua bocca (cf. Ct 1,2)!” (Sermoni sul Cantico dei cantici II,1). Gli angeli luminosi le chiedono: “Donna, perché piangi?”, ma Maria continua ad affermare in modo ossessivo la sua ricerca di Gesù, che definisce “il mio Signore”. Gesù è il Signore, il Kýrios della chiesa, ma è da lei chiamato “il mio Signore”. C’è qualcosa di straordinario in questo amore persistente al di là della morte, che induce Maria a cercarlo, a soffrire per il suo non sapere dove sia il suo corpo morto... Il pianto testimonia il suo dolore reso eloquente da tutto il corpo: è la Maddalena, con tutto il suo essere, corpo, mente e cuore, che cerca il corpo di Gesù, il corpo dell’amato. A Maria non bastano né il ricordo, né le sue parole, né il sepolcro che è un memoriale (mnemeîon, così il sepolcro è definito in tutti i vangeli): vuole stare accanto al corpo di Gesù. Ricerca amorosa, fedele, perseverante, che fatica ad accettare la realtà della fine di un rapporto, perché per lei Gesù significava tutto.
Maria la madre di Gesù certamente viveva per Gesù, Maria di Magdala invece viveva grazie a Gesù. A lei è stato dato di fare quell’esperienza che alcuni nella propria vita fanno per straordinaria grazia: risalire, grazie a qualcuno, dall’ombra di morte, dal non senso, dall’essere preda del nulla, a una vita che conosce l’essere amati e l’amare. La Maddalena, infatti, è amata da Gesù e ama a sua volta Gesù, verso il quale si sente debitrice. Ecco perché il suo pianto è quello dell’amata-amante che ha perduto il suo amato-amante, come avviene nel Cantico dei cantici, dove la ragazza di notte cerca il suo amato, si alza, con audacia vaga nel buio per cercarlo, interroga le guardie notturne, e poi finalmente lo trova nel suo giardino (cf. Ct 3,1-4). E così avviene in quell’aurora primaverile, sul monte degli aromi (cf. Ct 2,17; 8,14), là dove c’era un giardino, luogo della sepoltura di Gesù.
Tra le lacrime, Maria risponde ai due angeli che l’hanno interrogata sul suo pianto: “‘Hanno portato via il mio Signore, e non so dove l’abbiano posto’. Detto questo, si voltò indietro (estráphe eis tà opíso)”, dando inizio al dialogo con un altro personaggio, questa volta umano. Il suo voltarsi indietro ha un valore simbolico: Maria rilegge tutta la sua vita con Gesù, fa anamnesi del suo rapporto carico di amore con lui e quindi continua a piangere anche per la nostalgia per ciò che è stato e non potrà più ritornare. Nel suo dolore, si volta indietro, non guarda più la tomba né gli angeli, ma scorge un uomo, il quale le pone la medesima domanda: “Donna, perché piangi?”. Come Gesù pianse per Lazzaro morto (cf. Gv 11,35), così Maria piange per Gesù morto. Piange per amore e per dolore dell’amore, e non affatto i suoi peccati: Maria è la sola che piange per Gesù! È solo Pietro l’icona evangelica che piange i suoi peccati, la sua orrenda viltà, il suo amore breve come la rugiada del mattino (cf. Os 6,4). Pietro non piange su Gesù ma su di sé, per aver tradito l’amico (cf. Mc 14,72 e par.). Sì, Pietro dovrebbe essere icona del pentimento cristiano e Maria Maddalena icona dell’amore per Gesù!
Maria, pensando che colui che ora ha di fronte sia il giardiniere, il custode di quel giardino in cui Gesù era stato seppellito da Giuseppe di Arimatea e da Nicodemo, gli risponde: “Signore, se lo hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto, e io andrò a prenderlo”. Ma quell’uomo, che è Gesù, le chiede anche: “Chi cerchi?”, domanda analoga a quella da lui posta ai due discepoli del Battista: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38: le sue prime parole nel quarto vangelo!). In questo interrogativo c’è qualcosa che per Maria non è nuovo, perché è la domanda essenziale che Gesù poneva a chiunque volesse diventare suo discepolo: cercare è la condizione specifica del discepolo. A quel punto Gesù, con il suo volto contro il volto di Maria, le dice: “Mariám!”, la chiama per nome, e subito lei, “voltandosi” (strapheîsa) nuovamente verso di lui, il Gesù glorificato, è pronta a riconoscerlo e a dirgli: “Rabbunì, mio maestro!”. Quante volte era avvenuto quel dialogo tra lei e Gesù: lei, la pecora perduta ma ritrovata da Gesù (cf. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), chiamata per nome, riconosce la voce del pastore (cf.Gv 10,3-4). “Maria!”, una nuova chiamata, e, subito dopo, un invito: “Cessa di toccarmi”, cioè stacca le tue mani da me, perché non c’è più possibilità di incontro tra corpi come prima, essendo ormai il corpo di Gesù risorto nel seno del Padre. Maria, che poteva dire di essere tra quelli che “avevano udito, visto con i loro occhi, contemplato e toccato con le loro mani la Parola della vita” (cf. 1Gv 1,1), ora deve credere e amare Gesù in modo altro: il suo amore non muore, non verrà meno, ma altro è il modo in cui ora Maria deve amare Gesù! Si era voltata indietro verso il suo passato, ma ora, chiamata da Gesù, si volta verso di lui, il Risorto, senza più nostalgia del tempo precedente il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1).
Questa pagina giovannea risulta molto “affettiva”, nel senso che è piena di sentimenti e, come tale, ispira anche la nostra immaginazione nel pensare il rapporto d’amore con il Signore Gesù. È una pagina che ha chiaramente in sottofondo il già ricordato Cantico dei cantici, nel quale in un giardino avviene un dialogo d’amore tra i due partner (cf. Ct 4,16; 5,1; 6,2), che si perdono, si cercano e si ritrovano (cf. Ct 3,1-4; 5,1-8). Come la donna del Cantico, Maria di Magdala è donna del desiderio, un desiderio talmente forte e tenace che consente solo a lei, rimasta al sepolcro per cercare Gesù, di poterlo vedere. Ma ciò che in particolare mi preme mettere in evidenza è il fatto che questa ricerca, questa perseveranza, questa individuazione della presenza del corpo sono tratti tipicamente femminili, essenziali nell’amicizia tra uomini e donne. Nello stesso tempo, questa pagina giovannea è dangereuse, pericolosa, per chi non sa capire l’amore con occhi puri, fino a essere indotto a molte fantasie sul rapporto tra Gesù e la Maddalena. Si tratta di una reazione non nuova, già avvenuta nella storia e testimoniata in testi apocrifi, soprattutto nel vangelo di Filippo: deriva dovuta al prurito di chi non sa se non attribuire a Gesù i propri modesti desideri!
In quell’incontro con il Risorto, Maria di Magdala è subito resa apostola, inviata ai discepoli, ai fratelli di Gesù, per portare loro l’annuncio pasquale. Ed essa, in piena obbedienza, dichiara: “Ho visto il Signore” e riferisce ciò che egli le ha detto. Sì, all’origine della fede pasquale vi è innanzitutto Maria di Magdala (e le donne discepole da lei rappresentate), una donna che ha creduto nel Signore Gesù e lo ha amato. Purtroppo però in occidente Maria ha conosciuto una triste ma non strana vicenda ed è stata sottoposta a una serie di equivoci: è diventata anche la peccatrice, la prostituta di Luca, anche Maria di Betania, e la si è dipinta nell’atto di piangere i suoi peccati, dei quali nessun vangelo ha mai parlato. Infatti, che Gesù “avesse scacciato da lei sette demoni” (cf. Mc 16,9; Lc 8,2) indica solo il suo essere liberata da una grave situazione di malattia (sette è un numero che indica pienezza, dunque malattia grave), non i suoi peccati! L’incontro con Gesù aveva significato per lei guarigione, liberazione da queste forze oppressive, rinascita e possibilità di una vita nuova, sensata: da donna “morta” quale era, era stata rialzata e riportata da Gesù alla vita piena, quella in cui si vivono affetti, relazioni, amore, comunione, gioia, insieme alla fatica del duro mestiere di vivere.
Va però riconosciuto che, se è vero che Maria di Magdala ha beneficiato in oriente del titolo di “iso-apostola”, uguale agli apostoli, e in occidente di quello di “apostola degli apostoli”, in realtà non le sono mai stati riconosciuti nessun valore ecclesiale e nessuna qualità ministeriale. Siamo ben lontani dall’aver preso sul serio le parole di Rabano Mauro, un monaco e vescovo vissuto tra l’VIII e il IX secolo, il quale nella sua biografia di Maria di Magdala commenta l’apparizione a lei di Gesù risorto, mettendo in risalto come tale evento conferisca una decisiva funzione ecclesiale a questa donna discepola:
Maria crede al Cristo, attingendo la fede in lui dall’ascolto della desiderata voce del Signore, e dalla sua stessa presenza così desiderabile ... Credette fermamente che il Cristo Figlio di Dio, che lei vedeva risorto, era vero Dio, colui che ella aveva amato da vivo; che veramente era risuscitato dai morti colui che aveva visto morire ... Il Salvatore, persuaso che quello di Maria era purissimo amore, ... la elesse apostola della sua ascensione ... come poco prima l’aveva istituito evangelista della resurrezione ... Ella, innalzata a tanta e così alta dignità d’onore e di grazia, dallo stesso Figlio di Dio e Salvatore nostro, ... non indugiò a esercitare il ministero di apostola del quale era stata onorata ... Maria, con i suoi co-apostoli, annunciò il Vangelo della resurrezione di Cristo con le parole: “Ho visto il Signore” (Gv 20,18), e profetizzò la sua ascensione con le parole: “Ascendo al Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17).
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 18.05.2016)
ROMPERE una tradizione di decine di secoli, pregiudizi radicati, diffidenze a suo tempo motivate dalla fisiologia femminile, è un’operazione ardua che richiede tenacia, lungimiranza, tempo. Papa Francesco ha fatto un primo passo incaricando una commissione di studiare la possibilità del diaconato femminile. Il diacono (la diacona?) è un consacrato possiamo dire di primo grado; donne diacono e perfino donne vescove, cioè responsabili di una comunità, erano presenti nel cristianesimo delle origini e sono esistite a lungo. Solo una diffidenza e una cautela di tipo sessuale ne ha cancellato i ruoli.
È appena uscito un saggio di Lucetta Scaraffia (“Dall’ultimo banco” - Marsilio ed.) che ho avuto il piacere di prefare. La nota studiosa cattolica è stata ammessa nell’ottobre scorso a partecipare al sinodo dei vescovi sulla famiglia. Sedeva esattamente nell’ultimo banco della sala, donde il titolo.
Nelle sue pagine richiama la circostanza che: «Il cristianesimo per primo ha proposto la parità spirituale tra donne e uomini, è la tradizione cristiana ad aver gettato il seme dell’emancipazione femminile in Occidente». Il tono del saggio-racconto della Scaraffia è vigoroso, non mancano i rimproveri. L’autrice accusa le gerarchie di organizzare convegni, anche di alto livello, caratterizzati da «vuoto di discussione e assenza di approfondimenti ».
Insiste sul giovamento che un’apertura verso le donne, anche senza tirare in ballo il vero e proprio sacerdozio, potrebbe portare all’istituzione ecclesiastica. Fa notare come negli interventi svolti durante il sinodo si parlasse di una famiglia astratta, di problemi teologici che avrebbero interessato pochi, fuori di quell’aula.
Fino a oggi sono stati fatti solo passi incerti in direzione di una minore disparità di genere. Papa Paolo VI (1963-1978) aveva aperto alle donne la possibilità di essere “uditrici” al Concilio Vaticano II; Giovanni Paolo II nella lettera apostolica «Mulieris dignitatem » (1988) aveva richiamato il “genio femminile” nella vita della Chiesa. Minime aperture, scarsi risultati. Ce la farà Francesco?
Donne nella Chiesa, il Papa apre al diaconato femminile *
Papa Francesco ha annunciato che istituirà una Commissione di studio sul diaconato femminile nella Chiesa primitiva ritenendo che le donne diacone sono "una possibilità per oggi".
Se all’annuncio seguirà una decisione, per la prima volta in questo millennio si riaprirà una prospettiva che era considerata definitivamente chiusa da una decisione di Giovanni Paolo II. Il diaconato, infatti, è il primo grado dell’ordine sacro, seguito dal sacerdozio e dall’episcopato. I diaconi possono amministrare alcuni sacramenti tra i quali il battesimo e il matrimonio e in alcuni paesi ci sono intere regioni nelle quali sostituiscono ormai i sacerdoti nella guida delle comunità parrocchiali.
L’apertura prefigurata da Francesco avvicinerebbe la Chiesa Cattolica a quella anglicana dove ci sono donne preti e vescovi. Al Sinodo si era parlato di questo "tema audace" con l’intervento del reverendo Jeremias Schroder, arciabate presidente della Congregazione benedettina di Sant’Ottilia.
"Sul diaconato femminile la Chiesa non ha detto no", aveva spiegato già nel 1994 il cardinale Carlo Maria Martini, commentando lo stop di Giovanni Paolo II alle donne prete: una dichiarazione solenne, ad un passo dai crismi dell’infallibilità pontificia ed alla quale Papa Francesco ha detto più volte di volersi attenere.
Malgrado quel "no", per il porporato c’erano però ancora "spazi aperti", perchè il discorso sul ruolo della donna avrebbe potuto continuare a partire dal diaconato, "che il documento non menziona, quindi non esclude". Questo perchè, avvertiva il cardinale, occorre evitare che l’ecumenismo si blocchi proprio sul tema delle donne. Il diaconato è il primo grado di consacrazione "ufficiale" che precede l’ ammissione al sacerdozio e nelle prime comunità cristiane era aperto anche alle donne. Per Martini, dunque, non sarebbe stato male riaprire anche alle donne, pur ammettendo che sul sacerdozio femminile "il documento papale è decisivo, non ammette replica, nè riformabilità".
"Tuttavia credo che il vero compito di fronte a questa lettera - aveva osservato il cardinale - non è l’ esegesi puntigliosa dal punto di vista dogmatico, ma è vedere come, con questa lettera e malgrado le difficoltà che potrà suscitare, è ancora possibile sia un cammino di dialogo ecumenico, sia soprattutto un cammino in cui mostrare presenza e missione della donna a tutto campo. Rispetto a un documento di questo tipo, che sembra chiudere una via, come già altri in passato, mentre in realtà hanno favorito un ripensamento teologico e pratico che ha fatto superare certi scogli e ha fatto comprender meglio la natura e la forza della presenza della donna nella Chiesa, io penso che uno spazio rimanga aperto".
Di fatto il principale argomento per il "no" al sacerdozio femminile è infatti l’assenza delle donne nel cenacolo al momento dell’istituzione dell’Eucaristia. Ma una recente decisione di Papa Francesco già lo "smontava" in parte: quella sull’ammissione delle donne alla Lavanda dei piedi che il Papa aveva già attuato nel primo giovedì santo del suo Pontificato, quando andando al carcere minorile di Casal del Marmo, decise che quel giorno anche le ragazze potessero partecipare come protagoniste al rito della Lavanda dei piedi, diventa quest’anno una possibilità per tutte le parrocchie del mondo.
E’ significativo che Papa Francesco abbia scelto l’incontro di oggi nell’Aula Nervi con circa 900 superiore generali degli istituti religiosi femminili per affrontare questo tema così decisivo. Le religiose gli hanno chiesto, nel corso di una sessione di domande e risposte perchè la Chiesa esclude le donne dal servire come diaconi.
E una ha aggiunto "Perchè non costruire una commissione ufficiale che potrebbe studiare la domanda?". Il papa ha risposto che aveva parlato della questione una volta qualche anno fa con un "buon, saggio professore", che aveva studiato l’uso delle diaconesse nei primi secoli della Chiesa e gli ha aveva detto che ancora non è del tutto chiaro quale ruolo avessero. E soprattutto se "avevano l’ordinazione o no? "E’ rimasto un pò oscuro quale fossero ruolo e statuto delle diaconesse in quel momento". Costituire una commissione ufficiale potrebbe studiare la questione?", si è chiesto il Papa ad alta voce. E poi si è risposto: "Credo di sì. Sarebbe fare il bene della Chiesa di chiarire questo punto. Sono d’accordo. Io parlerò per fare qualcosa di simile. Accetto la proposta. Sembra utile per me avere una commissione che chiarisca bene".
L’urgenza di una riforma
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13.05.2016)
FORSE ci troviamo al cospetto della prima significativa mossa di quella che potrebbe essere una rivoluzione davvero epocale. Credo la più importante tra tutte le meritorie iniziative di riforma intraprese finora dal pontificato di Francesco. Se c’è una via privilegiata infatti per il rinnovamento di cui la Chiesa cattolica ha oggi un immenso bisogno, essa è la via femminile.
PIÙ della riforma della curia, più dell’ecumenismo, più della riforma della morale sessuale, più della libertà di insegnamento nelle facoltà teologiche, più di molte altre cose, l’ingresso delle donne nella struttura gerarchica della Chiesa cattolica avrebbe l’effetto di trasformare in modo irreversibile tale veneranda e anche un po’ acciaccata istituzione.
Prendendo atto dell’emancipazione femminile ormai giunta a compimento in Occidente in tutti gli ambiti vitali, Giovanni Paolo II aveva prodotto una serie di documenti altamente elogiativi verso ciò che egli definiva “genio femminile”, si pensi alla lettera apostolica Mulieris dignitatem del 1988 e alla specifica Lettera alle donne del 1995. Né in questi testi né altrove però il papa polacco definì mai cosa intendesse realmente con tale espressione, usata in seguito più di una volta anche da Benedetto XVI nei suoi interventi in materia. Anche papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 ha parlato di “genio femminile”. Ieri però, con l’apertura al diaconato femminile, parlando davanti a oltre ottocento suore superiore, questa ermetica espressione papale ha ricevuto finalmente la possibilità di passare da edificante proclamazione retorica a concreto sentiero istituzionale.
Forse a breve non si parlerà più di genio femminile, ma di geni femminili, perché le singole donne avranno finalmente la possibilità di tornare a donare a pieno titolo il loro patrimonio genetico all’intero organismo di madre Chiesa, la quale ora nella sua mente è femminile unicamente quanto alla grammatica, mentre quanto al diritto canonico è esclusivamente maschile (e da qui le deriva l’attuale sterilità, perché anche la vita spirituale, oltre a quella biologica, ha bisogno di cromosomi y e di cromosomi x).
Ho usato l’espressione “tornare a donare” perché l’apertura al diaconato femminile da parte di Francesco non è una novità assoluta, già nel Nuovo Testamento si parla di diaconesse. Anzi, tale apertura papale può comportare la rivoluzione epocale di cui parlavo proprio perché rimanda a una doppia fedeltà: a una fedeltà al presente, al fine di rendere la Chiesa cattolica all’altezza di tempi in cui l’emancipazione femminile è almeno in Occidente un processo pressoché compiuto, e a una fedeltà al passato, al fine di recuperare la straordinaria innovazione neotestamentaria quanto al ruolo delle donne.
Se si leggono i Vangeli infatti si vede come Gesù, in modo del tutto discontinuo rispetto alla prassi rabbinica del tempo, ricercasse e incoraggiasse la presenza femminile. Luca per esempio scrive che nel suo ministero itinerante «c’erano con lui i Dodici e alcune donne», dando anche i nomi delle stesse: Maria Maddalena, Giovanna, Susanna e aggiunge «molte altre», espressione da cui è lecito inferire un numero di seguaci donne più o meno pari a quello dei seguaci uomini.
Non deve sorprendere quindi che la Chiesa primitiva conoscesse le diaconesse, come appare da san Paolo che scrive: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencre» (Romani 16,1; il testo ufficiale della Cei purtroppo è infedele all’originale perché traduce il greco diákonon con “al servizio”! Ben diversa la Bible de Jérusalem che traduce correttamente “ diaconesse de l’Église”).
Che esito avrà l’istituenda commissione di studio sul diaconato femminile? Quanto tempo passerà prima che sia effettivamente al lavoro? Quanto prima che consegni i risultati? E questi che sapore avranno? Sono domande a cui al momento non è possibile rispondere, di certo però la riforma al femminile di papa Francesco è un’urgenza da cui la Chiesa non si può più esimere. Si tratta semplicemente di giustizia: quando si entra in una qualunque chiesa per la messa le donne sono sempre in netta maggioranza, com’è possibile che nessuna di esse possa commentare il Vangelo dall’altare? Il diaconato femminile metterebbe fine a questa ingiustizia e aprirà molte nuove strade.
È un sogno destinato ad avverarsi? Nessuno lo sa, certamente però il successo della riforma al femminile di papa Francesco dipenderà dalla capacità di saper mostrare la doppia fedeltà che vi è in gioco: fedeltà alle donne di oggi e fedeltà al Maestro di duemila anni fa, fedeltà all’attualità e fedeltà a quell’eterno principio di parità emerso al momento della creazione: «E Dio creò l’essere umano a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27).
«Contributo vero» *
Donne non solo cattoliche, non solo credenti, non solo italiane e non solo europee. Ci sono mondi diversi nella Consulta solo femminile chiamata, per la prima volta in un Dicastero della Santa Sede, a costituirsi come organismo permanente e con il compito di «consigliare e arricchire l’orizzonte» delle iniziative del Pontificio Consiglio della Cultura e proporne di nuove.
Il progetto incoraggiato da papa Francesco e promosso dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente dello stesso «ministero» è stato formalizzato giovedì scorso con la consegna delle lettere di incarico al gruppo di 34 donne.
La Consulta, che si avvarrà di una rete di corrispondenti in tutto il mondo, ha affidato il coordinamento alla sociologa Consuelo Corradi, pro rettore alla Lumsa, affiancata in questo compito da Emma Madigan, Ambasciatore d’Irlanda presso la Santa Sede. «Il senso della vostra presenza qui non è quello di colorare di rosa questo Dicastero, ma di offrire un punto di vista diverso e un contributo vero», ha insistito Ravasi aprendo i lavori.
L’invito del Cardinale segue le riflessioni avviate nelle prime due sedute informali del gruppo promosso dopo la Plenaria sulle culture femminili del Pontificio Consiglio. La strada è tracciata e la sfida «non più rinviabile» per dirla con papa Francesco.
«Non saremo chiuse in una riserva, un recinto. Qui si tratta di incidere su tutte le attività del Dicastero, a partire dal nostro punto di vista specifico» ha osservato Corradi. «La Consulta - prosegue - si riunirà tre volte all’anno, ma tra i gruppi di lavoro lo scambio sarà continuo. Ci incontreremo qui al Pontificio Consiglio e saremo in contatto telematico con chi è lontana».
Con il vescovo Paul Tighe, segretario aggiunto del Pontificio, e con monsignor Thomas Traguy , responsabile del dipartimento Fede e Scienza, Ravasi ha illustrato alla consulta la traccia della Plenaria in preparazione per l’autunno del 2017 dedicata alle «Nuove sfide antropologiche».
Scienziati ed esperti di fama internazionale discuteranno di scienze della vita, genetica e cultura digitale, partendo però da una questione antropologica, appunto, che riguarda la ricerca di una definizione su cosa significhi essere persone umane.
L’obiettivo è duplice: da una parte porre al centro la questione etica, che qualche volta viene trascurata dalla scienza; dall’altra avviare un dibattito che coinvolga la Chiesa in queste tematiche. La Consulta ha cominciato a dare il proprio contributo. Nel frattempo, sta riflettendo sulla modalità per essere presente nell’anno giubilare della Misericordia. Con uno sguardo femminile che porti ricchezza, competenza e modernità.
* Corriere della Sera, 04.04.2016
PIANETA TERRA: UNA sola UmaNItA’. È sul ruolo delle donne che stiamo perdendo la battaglia culturale non solo! con l’Islam...
È sul ruolo delle donne che stiamo perdendo la battaglia culturale con l’Islam
di Lucetta Scaraffia (L’Huffington post, 12/04/2016)
Non c’è dubbio: lo scontro con l’islam radicale non si gioca solo sul terreno politico, e tanto meno solo su quello religioso, ma anche sul piano della cultura quotidiana, dei modelli di vita che si contrappongono. E, come tutti i media in questo periodo stanno sottolineando, questa contrapposizione riguarda soprattutto il ruolo delle donne.
Polemiche recenti, quasi sempre solo centrate sull’aspetto, sul modo di presentarsi nella società - con velo o senza velo, vestite con "modestia" o svestite come vuole la moda - più che sulla reale posizione sociale delle donne. Abbiamo visto scoppi di ira contro quegli stilisti che, per garantirsi un pezzo di mercato in più, si sono messi a produrre linee di abbigliamento appetibili per le culture arabe più tradizionali, come se su questo si giocasse veramente la libertà della donna. In sostanza, secondo i media occidentali, la proposta vincente sarebbe quella di allearsi alle donne oppresse dalla cultura islamica e liberarle dal velo, rovesciando così il potere fondamentalista.
La fanno un po’ facile: dimenticano che, ad esempio, durante le guerre anticoloniali le donne tunisine e algerine, che non mettevano più il velo da decenni, lo rimisero di loro iniziativa per difendere la loro cultura originaria. Dimenticano che spesso non sono imposizioni paterne, ma sono le giovani donne di origine islamica emigrate che decidono per il velo, scegliendo di rompere la tradizione di "libertà" di mamme e magari anche di nonne. E che queste giovani magari preferiscono un fondamentalista che le chiude in casa ad un giovane "moderno", o addirittura partono loro stesse per il fronte di guerra di Daesh. Farhad Kossrokhawar, studioso iraniano che da anni, in Francia, studia l’emigrazione islamica, ha parlato dell’attrazione verso il fondamentalismo come di un nuovo Sessantotto.
In un mondo privo di ideali, di spinte romantiche, di speranze, i giovani ritrovano nell’islamismo radicale una utopia, valori apparentemente forti e una buona dose di esotismo. Secondo lui, la partenza per il fronte siriano per molti è un’esperienza simile a quello che, negli anni settanta, per gli hippyes era il viaggio in India. Rivoluzione sessuale compresa: le donne ritrovano divieti, pudore, regole rigide che in fondo danno valore e mistero all’atto sessuale, da noi diventato quasi una ginnastica piacevole e poco più.
Dall’altra parte, le giovani di origine islamica, o che vivono in paesi islamici, guardano all’occidente con un misto di desiderio e di inquietudine. Quelle che vediamo rispecchiarsi negli occhi di Malala, la giovane pakistana che ha lottato e rischiato la vita per studiare, e quindi combatte per l’accesso delle donne allo studio e all’emancipazione, ma che non rinuncia al velo e a un modo di presentarsi modesto. Anche se ora vive in Inghilterra, non ha optato per la minigonna, considerandola la soluzione di tutti i mali, come scrivono molti giornalisti - maschi - occidentali. Che non capiscono che molte donne islamiche che combattono per una maggiore autonomia e libertà in fondo non hanno nessuna intenzione di diventare come noi.
Le preoccupano infatti molti aspetti della nostra società, come il disprezzo della maternità, il disgregarsi delle identità sessuali, la mercificazione del corpo femminile nelle pubblicità e nella pornografia dilagante, la crescita continua della prostituzione. Donne che sanno che le giovani costrette a prostituirsi nelle periferie appartengono alle stesse etnie dei giovani immigrati che hanno infastidito le ragazze la notte di Capodanno a Colonia...Un corto circuito inquietante che dovrebbe farci riflettere, così come l’eccessivo ricorso all’aborto, l’utero in affitto, la compra-vendita degli ovociti, che dimostrano un disprezzo crescente nei confronti del corpo femminile e delle relazioni umane.
Alle donne islamiche non offriamo solamente un paradiso di libertà e di diritti, ma anche un sottile ma persistente disprezzo verso la specificità femminile, una penalizzazione di tutto ciò che non si omologa al maschile, divenuto il modello dominante.
Siamo proprio convinti, così, di vincere la battaglia sul piano culturale?
Il lungo (e incompiuto) processo verso la famiglia fondata su amore e accoglienza
Si discute molto di famiglia e di figli in questo periodo. Ma troppo spesso si dimentica che di “naturale” la famiglia ha poco o nulla, che nella storia e nelle varie culture essa ha assunto connotati molto diversi, e molto spesso violenti nei confronti di donne e bambini. In questo contesto, che significa che “i figli non sono un diritto”?
di Chiara Saraceno *
“I figli non sono un diritto”. Vero, non c’è dubbio. Vale per tutti: per le coppie formate da persone di sesso diverso come per le coppie formate da persone dello stesso sesso, per le coppie come per i/le single. Ma che cosa significa esattamente che non sono un diritto? Che chi non è fertile, o ha un partner non fertile, non ha diritto di provare e viceversa che basta essere fertili (e in un rapporto di coppia eterosessuale) per avere automaticamente il diritto di avere un figlio? Quando si discute di diritti e li si aggancia ad una idea di “natura” e di “normalità” si intraprende una strada molto scivolosa. Una strada lungo la quale si incontrano molte violenze, in particolare contro le donne e i bambini, ma talvolta anche contro gli uomini.
Qualche secolo fa in Italia le donne nubili sospette di essere incinte venivano imprigionate per evitare che abortissero, salvo togliere loro i figli perché “indegne” di essere madri. In Irlanda, come ci ha ricordato il film Le Maddalene, la cosa è durata fino a qualche decennio fa con il beneplacito della Chiesa Cattolica. In nome della protezione della “paternità legittima” i figli nati da un uomo sposato fuori dal matrimonio non potevano essere riconosciuti da quello. E una madre coniugata che avesse un figlio con un uomo diverso dal marito, magari lontano o da cui era separata, aveva di fronte a sé solo due scelte: o non riconoscerlo affinché il padre, se non a sua volta sposato, potesse farlo lui, oppure tacere, attribuendone la paternità al marito. Il tutto con buona pace dell’oggi tanto sbandierato principio che i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre, possibilmente biologici.
Nella legge 40, fortemente voluta da una grossa fetta dei parlamentari cattolici e la cui abrogazione per via referendaria è stata attivamente impedita dalla gerarchia cattolica, si è vietata sia la riproduzione artificiale con donatore o donatrice, sia il ricorso all’esame pre-impianto degli embrioni nel caso di aspiranti genitori portatori di malattie genetiche gravi, che avrebbero comportato sofferenze atroci all’eventuale nascituro. Ci sono volute sentenze delle Corti italiane ed europea per cancellare questa mostruosità voluta da parlamentari ottusi e arroganti che, con la benedizione della Chiesa, si arrogavano il diritto di dire chi può e in quali condizioni fare figli e chi no. Se dovessero poter avere figli solo coloro che sono fertili, e in coppia eterosessuale, dovremmo non solo condannare ogni forma di riproduzione assistita, inclusa quella con gameti della coppia, ma anche vietare l’adozione.
Nella nostra società e cultura da lungo tempo si è passati da un’idea che si facessero figli - in proprio o tramite adozione - vuoi perché “venivano”, come non sempre benvenuta conseguenza di un rapporto sessuale, vuoi perché utili alla dinastia o all’impresa famigliare, ma perché danno gioia e aprono al futuro. Come ha ammesso, con un lapsus involontario, lo stesso cardinal Bagnasco, la famiglia non è un fatto ideologico, bensì antropologico. Appunto, l’antropologia, e la storia, ci mostrano che qualunque sia la “famiglia voluta da Dio”, secondo la sorprendente e astorica definizione di papa Francesco, le famiglie umane vengono in forme e contenuti diversi.
Non c’è un’unica “famiglia umana”. Ed alcune forme di famiglia anche del nostro recente passato erano intrinsecamente violente nei rapporti di genere e generazione, non solo a livello individuale, ma proprio di conformazione istituzionale.
C’è voluto un lungo processo, non del tutto compiuto, perché la dimensione fondamentale, autenticamente generativa, della genitorialità fosse l’accoglimento e l’assunzione di responsabilità e perché la cifra della relazione genitori-figli (come per la coppia) fosse l’amore E’ su questo che si gioca il “diritto ad avere figli” o, meglio, a provarci, non di fronte alla legge, ma di fronte alla propria coscienza.
Le tecniche di riproduzione assistita, e più ancora la possibilità di ricorrere ad una madre gestante per altri, acuiscono ed esplicitano la necessità di effettuare - ciascuno nel proprio foro interiore - questa valutazione: non solo perché la scelta di diventare genitori è necessariamente più esplicitamente intenzionale, ma perché coinvolge più soggetti e modifica di poco o tanto il nesso tra coppia, sessualità, generazione. Di nuovo, vale per tutti, non solo per le persone omosessuali.
Quando si smetterà di pretendere di possedere la verità e il monopolio della definizione di chi può fare famiglia e chi può avere figli, finalmente si potrà aprire una riflessione in cui tutte le parti possano trovare voce e ascolto, con rispetto e pazienza, per fare un passo ulteriore nel processo di civilizzazione della famiglia e dei rapporti di sesso e generazione.
L’amicizia uomo/donna
Meccaniche divine
di Marco Vannini *
Una diffusa opinione vuole che l’amicizia tra uomo e donna non sia possibile se non intercorre (o non sia intercorsa) tra loro anche una relazione sessuale. Un’amicizia solo spirituale sarebbe dunque qualcosa di artificioso, di ingannevole prima di tutto nei confronti di se stessi. Questa opinione presuppone che la pienezza dell’amore tra uomo e donna si manifesti nel rapporto sessuale, verso il quale tenderebbe inesorabilmente l’amore stesso come a suo compimento, e, in questo senso l’amicizia sarebbe solo una fase inferiore, più povera e modesta.
La diffusione di questa opinione dipende dal predominio di quella che Platone nel Convito chiama la Venere Pandemia, cioè volgare, nel duplice senso della parola in italiano: ampiamente diffusa tra il popolo e anche lontana dall’eleganza di ciò che è nobile. Ma la Venere Pandemia esiste, non dobbiamo negarlo, in quanto è vero che una corrente erotica passa necessariamente nei rapporti tra uomo e donna. Eros, demone mediatore tra l’uomo e Dio, incessantemente richiama verso la bellezza e spinge a ricercare l’unione con essa, e la prima forma con cui ciò si manifesta è, appunto, il desiderio sessuale. Perciò in tutti è diffusa la Venere Pandemia, che, si badi bene, è una dea e come tale va onorata. Ovvero, fuori dal mito, dobbiamo riconoscere che al fondo della natura umana esiste, insopprimibile, Eros, l’amore, che è innanzitutto desiderio di unione con un corpo. Questo onesto riconoscimento è il punto di partenza per comprendere quel mistero dell’amore che Diotima, sacerdotessa di Mantinea, rivela a Socrate. Perché il desiderio sessuale è solo la prima e più comune manifestazione della potenza del demone, che muta forma e diventa più ricco e più gioioso col crescere. Sottolineiamo questo punto. Come notava Simone Weil, solo un’epoca miserabile come la nostra può prendere sul serio Freud, l’anti-Platone per eccellenza, e la sua concezione per cui l’eros sessuale è primario, rispetto al quale sono diminuzioni le altre forme di amore.
In realtà, quando l’amore è forte, esso si muove di grado in grado verso il più, e lascia il meno, come dice la mistica medievale Margherita Porete, ripetendo, senza affatto saperlo, l’insegnamento impartito a Socrate da Diotima, a testimonianza che davvero le donne hanno “intelletto d’amore”. Così anche Agostino, nelle sue Confessioni, ricordando la giovinezza, ora che è grande e che sa cosa davvero sia l’Amore, che è Dio, riconosce che stava allora cercando l’amore: non sapeva cosa fosse, non sapeva amare, ma era l’amore che stava amando. Amare amabam perché è l’amore che si ama davvero: l’amore è il soggetto che ama, l’oggetto amato e, insieme, l’atto stesso di amare. La creatura, con la finitezza, è ciò che risveglia in noi quella “divina follia” con la quale giungono all’uomo tutti i doni più belli da parte di Dio: allora la Venere Pandemia cede il posto alla Venere Urania, che conduce l’uomo verso il cielo. L’amicizia non è una forma imperfetta di eros, ma, al contrario, il suo grado più alto.
Meister Eckhart scrive che l’amore per una creatura è in realtà amore di se stessi e da questo amore non si ricava che amarezza, giacché tutte le creature sono un nulla, dal momento che ricevono tutto il loro essere da Dio, e il contatto con il nulla non fa altro che male. L’amore per una creatura è un miracolo, di cui non c’è niente di più bello ma neanche di più straziante, perché mette davanti la finitezza, la molteplicità, e così la lontananza dall’Uno, in cui, solo, è la pace. In questo senso, scrive sempre Eckhart, dove entra la creatura, esce Dio. L’amore che ha un perché non è puro, in quanto dove c’è il perché c’è l’utile, comunque configurato. L’amore puro è senza perché. Infatti l’anima ha due occhi: uno guarda la creatura, e la ama con un amore carico di tenerezza e compassione proprio per la sua finitezza; l’altro guarda l’eterno, l’Uno, e nell’Uno ama tutte le creature di un amore che non è più per i corpi, ma per le anime che cerca di rendere migliori, così come viene reso migliore da questo amore.
Questo vale indipendentemente dal sesso. L’amicizia non è qualcosa che si deve cercare, chiedere o sperare: è una virtù, e come tale la si esercita e basta, come scrive Simone Weil. L’amicizia non è uno stato d’animo che va e viene, non è un sentimento, ma riguarda quello che i mistici chiamano il fondo dell’anima, ben più profondo dei mutevoli sentimenti, inaccessibile a tutto, fuori che a Dio nella sua nuda essenza. Riguarda non l’anima, ma lo spirito, è lì non v’è più maschio o femmina, come scrive Paolo, dove non ha più peso il sesso.
D’altra parte però non v’è dubbio che l’essere umano sia sessuato, e sesso significa divisione (sexus da secare): siamo maschi e femmine e per natura cerchiamo quella metà che ci manca, senza la quale si resta non psicologicamente pacificati, carichi di incomprensione e risentimento. Perciò è in un’amica che un uomo trova il perfetto completamento, così come una donna lo trova in un amico: certo, una corrente di Eros c’è, e deve esserci, perché lo spirito non può essere perfetto se prima il corpo e l’anima non sono perfetti, insegna ancora Eckhart, riferendosi a ciò che poi i tedeschi (come Goethe e Nietzsche) hanno chiamato Vergeistigung, spiritualizzazione, o Sublimation, ma in un senso opposto a quello in cui lo usa Freud (che lo ha rubato a Nietzsche): non mistificazione dell’istinto sessuale, ma suo inveramento.
Proprio nell’amicizia, dunque, ricca dell’eros tra uomo e donna, più che mai si manifesta la grazia di quel «sentimento popolare che nasce da meccaniche divine», come dice una canzone dei nostri giorni, l’Amore «che muove il sole e l’altre stelle». Ne possiamo addurre testimonianze infinite: dall’antichità a oggi, la storia ne è piena. Da quelle celebri come Chiara e Francesco, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, Giovanna di Chantal e Francesco di Sales, a quelle di intellettuali come Madame Guyon e François de Fénelon, Adrienne von Speyr e Hans Urs von Balthasar o Raïssa e Jacques Maritain, che furono anche moglie e marito. Non si tratta dunque di qualcosa che vale solo per religiosi e religiose, santi e intellettuali. Valga l’esempio di due nostri contemporanei: il domenicano Antonio Lupi e la giovane Tilde Manzotti, in cui epistolario (Amare infinitamente. Epistolario 1938-1939, a cura di Elena Cammarata, San Leolino, Editore Féeria, 2014, pagine 90, euro 12) mostra, ancora una volta, la bellezza e la profondità dell’amicizia tra uomo e donna.
* L’Osservatore Romano, supplemento "Donne, Chiesa, Mondo", gennaio 2016
Fuori dalle gabbie del pensiero patriarcale
di Benedetta Selene Zorzi*
Chi ha letto l’insoddisfazione di molte donne cattoliche (e non) a seguito delle succitate parole di papa Francesco sulla donna tentatrice, potrebbe dire che non ci va davvero mai bene niente!
È vero. Non ci sta bene sentir dire ancora che abbiamo bisogno di una teologia della donna, quando migliaia di donne da oltre un secolo studiano e scrivono di teologia e di donne, di quale è stato il loro ruolo, della loro memoria e delle loro azioni, prospettando a volte una tradizione un po’ diversa da quella tramandata dagli uomini.
Non ci sta bene che la teologia che la Chiesa ha della donna sia ancora quella tramandata dai Padri della Chiesa, con pochi aggiustamenti che non ne scalfiscono la struttura di fondo. Non ci sta bene che ci si appelli ad una teologia della donna e non parimenti ad una dell’uomo (inteso come maschio).
Non ci sta bene che si parli della donna ancora al singolare, come se fosse un blocco monolitico da affrontare come qualcosa di strano capitato all’essere umano neutro maschio, che se la ritrova di fronte e deve darne conto.
Non ci va bene che si denunci quanto sia offensivo pensare le donne solo nel ruolo di tentatrici e non si denuncino al tempo stesso le gravi colpe che la storia, anche cristiana, ha nei confronti delle tante donne uccise perché attentavano al potere religioso, messe al rogo quali streghe.
Non ci sta bene che si pensi al ruolo delle donne ancora e solo riducendole al ruolo di madri, biologiche o spirituali: è sempre lo stesso limitante ruolo che dimentica che biologicamente le donne sono strutturate anche per fare calcoli di matematica, parlare in pubblico, prendere decisioni, gestire situazioni complesse, andare nello spazio.
Non ci sta bene che nell’esaltazione della donna in quanto speciale, non le si riconosca un ministero o sacramento nella Chiesa in virtù di questa (quale sarebbe poi?) “specialità”.
Non ci sta bene che ricordando la donna per il suo ruolo di difesa dal maligno e nel presentarla come protettrice, la si ricolloca in una situazione funzionale dello stesso tipo, anche se di segno opposto, a quella che la rende causa efficiente del peccato, cioè strumentale.
Non ci sta bene che quando si insiste sulla retorica della famiglia tradizionale, che è anche quella della famiglia patriarcale, ci si scordi di dire delle violenze, dei luoghi di sofferenza e di dolore che la famiglia costituisce, non solo per le donne.
«Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto». Sacrosanto, Santo Padre! Allora è giusto porsi la domanda: che mondo è - o che porzione di mondo è - quello in cui alle donne non è concesso accedere a ruoli di piena leadership e partecipazione decisionale? Che impronta ha quella porzione di mondo incapace di considerare le donne alla pari nell’offerta formativa, nella opportunità di azione apostolica, nella collaborazione al di là di servizi di dipendenza e che le mette sistematicamente ai margini o fuori dai luoghi di incidenza decisionale o di condivisione nella gestione del potere... che è un servizio?
Che impronta ha quella porzione di mondo in cui il lavoro fatto dalle donne per la costruzione delle comunità e delle parrocchie non ha un riconoscimento ministeriale, economico e pubblico?
Perché non afferma anche che in un mondo o in una porzione di mondo in cui le donne sono comunque e sempre soggette al potere decisionale maschile, devono anche pagare il prezzo affettivo e il peso umano di una istituzione in cui il riconoscimento pieno della sessualità, dell’affettività, delle affinità elettive, delle competenze, della professionalità e del protagonismo di ogni essere umano in quanto tale - uomo o donna che sia, celibe/nubile o sposato che sia, con figli o senza - avviene secondo una arcaica concezione subordinativa e funzionale della donna?
Se questa concezione arcaica risulta tanto più incompatibile oggi, non solo rispetto alla società attuale, ma anche rispetto alla mutata concezione antropologica e sociale che la Chiesa ha (o dice di aver) assunto, allora va denunciata una doppiezza mentale e istituzionale di fondo che va smantellata quanto prima. Perché il rischio di un’istituzione che concepisce così il mistero della Chiesa è quello di continuare a sussistere solo a prezzo di incoerenze strutturali che formano persone scisse o membri adusi alla doppiezza.
Ringrazio il papa come donna, singola, per il suo sforzo di smantellare mentalità penalizzanti nei confronti delle donne. Mi auguro che egli sappia andare fino in fondo in questa operazione, con le conseguenze che essa comporta, e che la sua Chiesa dal volto ufficiale maschile lo sappia seguire. Certo è che davanti a lui non troverà una donna, ma uno stuolo numeroso di donne che lo hanno preceduto.
Fonte: Adista
Comune-info, 14 ottobre 2015
*
38285 CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Per quanto possa sembrare paradossale, le donne sono le grandi assenti dal Sinodo dei vescovi per la famiglia in corso in Vaticano. E la necessità di una loro presenza e di un rilancio del loro ruolo, nella Chiesa in primo luogo, è stata espressa ed avvertita acutamente non solo all’esterno dell’evento sinodale, ma anche durante gli interventi.
Scalpore ha suscitato, infatti, la proposta avanzata dal vescovo canadese di Gatineau (Québec), già presidente della Conferenza episcopale, mons. Paul-André Durocher, che non solo nel corso della prima conferenza stampa del Sinodo aveva mostrato di volersi dissociare dall’analisi conservatrice e chiusa dell’ungherese card. Péter Erdö, ma nel suo intervento, nel corso della I Congregazione generale, ha ipotizzato per le donne l’accesso al diaconato e all’omelia. E ancora: sottolineando l’attuale situazione di violenza domestica di cui le donne sono vittime, ha auspicato una parola forte del Sinodo sul tema.
«Le statistiche più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità - ha detto - rivelano questo fatto sconvolgente: ancora oggi, circa un terzo delle donne nel mondo sono vittime di violenze coniugali». A partire da questi dati, ha proseguito, è necessario che «questo Sinodo affermi chiaramente che un’interpretazione corretta delle Scritture non permette mai di giustificare il dominio dell’uomo sulla donna. In particolare, questo Sinodo dovrebbe affermare che i passaggi in cui San Paolo parla della sottomissione della donna al marito non possono giustificare il dominio dell’uomo sulla donna, e ancor meno la violenza nei suoi riguardi».
Ma bisogna andare più lontano, ha affermato il vescovo canadese. Per manifestare la pari dignità di donne e uomini nella Chiesa, Durocher propone al Sinodo tre «piste di azione»: in primo luogo, «che questo Sinodo consideri la possibilità di consentire a uomini e donne sposati, ben formati e accompagnati, di prendere la parola alle omelie della Messa, al fine di testimoniare il legame fra la Parola proclamata e la loro vita di sposi e di genitori»; poi, «che al fine di riconoscere l’uguale capacità delle donne di assumere posizioni decisionali nella Chiesa, questo Sinodo raccomandi di nominare delle donne ai posti che possano occupare nella Curia romana e nelle nostre Curie diocesane». Infine, «riguardo al diaconato permanente, che questo Sinodo raccomandi l’avvio di un processo che possa eventualmente aprire alle donne l’accesso a questo ordine che, come dice la tradizione, non è orientato al sacerdozio, ma al ministero».
Un approccio analogo è quello di mons. Claude Rault, vescovo di Laghouat-Ghardaia (Algeria, Paese rappresentato al Sinodo da mons. Jean-Paul Vesco, vescovo di Orano), il quale, intervistato da Il Regno (9/10) sui temi sinodali in occasione del tour di presentazione del suo ultimo libro, ha sottolineato che «fintantoché la donna nella Chiesa non avrà accesso ai luoghi nei quali si prendono le decisioni, la Chiesa sarà solo a metà».
Le proposte di Durocher hanno incontrato il consenso della Women Ordination Conference (Woc), che da anni si batte per il sacerdozio femminile. «Applaudiamo l’arcivescovo per aver avanzato la proposta [del diaconato] ad un organismo votante composto di soli uomini e per aver sottolineato il legame tra la “degradazione” delle donne nella Chiesa e nella società e la violenza contro le donne nel mondo », è il commento della Woc. Il “dominio” sulle donne «non è mai accettabile e finché le donne non saranno trattate come pari la nostra Chiesa perpetuerà una disuguaglianza contraria al Vangelo».
L’inclusione delle donne nel diaconato, prosegue la Woc, non è nulla di nuovo ed è «un atto più che dovuto da tempo»: rappresenterebbe un ritorno della Chiesa «alle sue antiche radici, quando vi erano diaconi uomini e donne. E se in alcune parti della Chiesa orientale il diaconato femminile è vivo anche oggi, sappiamo che in Occidente fu soppresso solo sulla base dei pregiudizi contro le donne».
Tra le mura vaticane, invece, una certa freddezza: «Donne diacono? È da vedere, perché c’è di mezzo la sacramentalità», ha detto a RepTv, il canale video de La Repubblica (8/10), l’arcivescovo di Ancona-Osimo card. Edoardo Menichelli. «Per il resto, la collocazione nella vita della Chiesa è invece più che auspicabile, ma è già cominciata. Se si pensa che in una Congregazione della Santa Sede il Sottosegretario, cioè la terza autorità, è una donna, credo che questa sia già una buona risposta».
Dove sono le donne?
Sull’assenza delle donne all’interno del Sinodo e nella Chiesa cattolica si è pronunciato anche p. Tony Flannery, redentorista irlandese, tra i fondatori dell’Association of Catholic Priests. In un appello pubblicato sul suo blog (5/10) ha infatti invitato ad aprire una discussione sulla questione del sacerdozio femminile, chiedendo ai sacerdoti che condividono questa idea di farsi avanti (scrivendogli all’indirizzo flannerytony@gmail.com).
E anche dai valdesi arriva qualche critica. «Il Sinodo che si occuperà dei temi della famiglia vede un soggetto del tutto assente: le donne», ha scritto la teologa valdese Letizia Tomassone in un editoriale pubblicato su Nev. «Solo 13 presenze, di cui tre religiose nominate e non elette, e tutte senza possibilità di voto». «È necessario che le diversità siano ascoltate e non messe a tacere o demonizzate e che costituiscano la base e la linfa del magistero cattolico».
Un’assenza che riguarda anche la rappresentanza delle Chiese non cattoliche al Sinodo, come evidenziato dal pastore metodista Tim Macquiban (Nev, 8/10): «È una spiacevole ed evidente realtà che tutti i votanti siano uomini e riflette il triste sbilanciamento di genere della leadership delle Chiese in generale, sia cattoliche che non cattoliche». L’anno scorso al Sinodo straordinario, rileva Macquiban, c’era almeno una donna tra i rappresentanti non cattolici.
Di estrema attualità, dunque, la recentissima pubblicazione del libro che raccoglie 40 interventi scritti da altrettante teologhe di ogni provenienza geografica - dal titolo Catholic Women Speak: Bringing Our Gifts to the Table (v. Adista Notizie n. 33/15) - che costituisce il primo frutto di un progetto che ha visto confrontarsi centinaia di donne cattoliche da ogni parte del mondo grazie a un forum online (www.catholicwomenspeak. com).
(ludovica eugenio)
* ADISTA Notizie, 17 ottobre 2015 - n. 35
Pianeta Terra, 2015. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Papa Francesco: "Donna tentatrice è luogo comune"
Bergoglio: "Famiglie combattano la subordinazione dell’etica alla logica del profitto" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice", "invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio". Lo ha detto il Papa, dopo aver affermato che "la donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge".
"Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto", ha detto Bergoglio concludendo un ciclo di catechesi sulla famiglia. "Cristo è nato da una donna ha aggiunto il Papa di fronte a oltre 25mila fedeli in Piazza San Pietro - "e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto".
"La famiglia ci salva da tanti attacchi, distruzioni e colonizzazioni, come quella del denaro o quelle ideologiche che minacciano il mondo", ha detto Francesco, "la famiglia - ha affermato - è la base per difendersi" e contrastare quanti "dispongono di mezzi ingenti e di un appoggio mediatico enorme".
Secondo Bergoglio, "l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica" e dunque il nemico da combattere è "la subordinazione dell’etica alla logica del profitto". "In questo scenario - ha scandito - una nuova alleanza dell’uomo e della donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile! Essa decide l’abitabilità della terra, la trasmissione del sentimento della vita, i legami della memoria e della speranza". "La famiglia ci salva dalla colonizzazione del denaro", ha poi aggiunto.
"Di questa alleanza - ha continuato - la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ’nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sè stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo".
Se anche il Papa condanna il falso mito di Eva tentatrice
di Enzo Bianchi (la Repubblica, 17.09.2015)
Lo sguardo di Dio sulle realtà create valuta “bello e buono” ( tov ) tutto ciò che è venuto all’esistenza grazie alla parola e allo spirito. Papa Francesco, concludendo le sue catechesi sul matrimonio cristiano e la famiglia,l’ha voluto ribadire ancora una volta: Dio ha creato l’universo attraverso la sua parola mentre il suo spirito si librava sull’informe e sul vuoto. Ora, in quell’azione di Dio nel sesto giorno, dunque all’apice del compimento della sua volontà, c’è la creazione dell’umano, del “terrestre” (Adam) tratto dalla terra ( adamah ): «E creò l’adam a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). La creazione che Dio vuole «molto buona» ( tov meod ) è quella del terrestre, maschio e femmina, che Dio benedice e ai quali affida il compito di abitare e custodire la terra. Uomo e donna sono dunque esseri in alleanza, non uno senza l’altro né uno al di sopra dell’altro.
Ma se questa era e permane la creazione secondo la volontà di Dio, nella storia si è realizzata in modo drammatico: l’uomo contro la donna, la donna contro l’uomo, sicché la prima inimicizia si manifesta proprio nella coppia. Certo, la Bibbia cerca di rivelare questa realtà attraverso immagini mitiche, che portano il segno della cultura del tempo e del luogo, ma l’intento è quello di evidenziare che la responsabilità del male sta nell’uomo e nella donna quando soggiacciono all’alienazione dell’idolatria, che è sempre un falso antropologico. Nel racconto biblico il serpente tenta la donna e questa a sua volta induce l’uomo alla tentazione di non riconoscere il limite umano, ma la lettura di questo testo va fatta con intelligenza, senza letteralismi né fondamentalismi. È innegabile che da questo racconto sia emersa l’immagine della donna tentatrice,ispiratrice del male, ma tale lettura, come denuncia papa Francesco, è un luogo comune, persino offensivo.
Dobbiamo riconoscere che simili giudizi sulla donna sono presenti in testi biblici: basterebbe leggere alcuni brani sapienziali, tra i quali il Siracide (25,24): «Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo», eppure è significativo che Paolo corregga e riformuli proprio questa espressione: «Poiché a causa di un uomo (“terrestre”) venne la morte, a causa di un uomo verrà la risurrezione dai morti» (1 Corinti 15,21), attribuendo la responsabilità del peccato non alla donna soltanto, ma all’umanità tutta e proclamando la salvezza, la resurrezione a causa di un uomo, Cristo, richiamato dalla morte dal Padre suo, il Dio vivente.
Nonostante questa affermazione cristiana in cui l’uomo e la donna sono uguali nella propria dignità resta vero che nella cultura patriarcale si è continuato a giudicare la donna come tentatrice. Come negare che molti uomini continuano a esprimersi in questo modo anche oggi, in una società secolarizzata e senza Dio? Il messaggio evangelico ha proclamato l’uguale dignità dell’uomo e della donna: i vangeli sono una testimonianza senza incertezze dell’atteggiamento di rispetto, di amore, di onore, di dignità riconosciuti da parte di Gesù nei confronti delle donne che furono sue discepole e alle quali fu rivolto il primo annuncio pasquale. Proprio per questo la chiesa ha saputo esaltare Maria di Nazareth, l’umile donna di fede e obbedienza radicale, dichiarandola madre del Signore non solo perché l’ha umanamente partorito, ma perché l’ha anche generato spiritualmente in sé quale donna di fede, di attesa, di carità.
Nella vita cristiana, dice Paolo, «non c’è più né maschio né femmina», cioè questa differenza non può essere motivo di opposizione o di separazione. In Cristo, l’uomo e la donna sono uguali in dignità, hanno la stessa vocazione alla filialità divina, a essere «partecipi della natura divina». Certo, come dice il papa, «c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa benedizione di Dio» e nella chiesa c’è ancora un lungo cammino da fare affinché la donna sia valorizzata nella dignità che la accomuna all’uomo e nella differenza che segna entrambi.
È comunque urgente, anche se faticoso, giungere a precisare meglio come la donna abbia anche una sua vocazione specifica nella chiesa, nella famiglia, nella società: è portatrice di una specificità oppure è destinata ad appiattirsi sull’immagine dell’uomo? Questa guerra, questo antagonismo tra uomini e donne deve continuare o la ferita della diversità può essere una benedizione per entrambi? Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, ma attraverso una donna che è stata sua madre in tutto, donna di fede e di giustizia dalla nascita di questo figlio fino alla croce. E questo è un messaggio di speranza per gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo.
L’autore è priore della Comunità monastica di Bose
Il Pontefice: C’è spazio per una teologiadiversa
Scaraffia: Cade uno stereotipo secolare
Bergoglio demolisce i luoghi comuni
«La donna tentatrice? È offensivo»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 17.09.2015)
Francesco l’aveva buttata lì durante un’udienza prima dell’estate, una battuta mentre parlava del «puro scandalo della disparità» tra uomo e donna e metteva in guardia dalla «falsità» di chi dice che il matrimonio è in crisi a causa dell’emancipazione femminile: «È una forma di maschilismo, che sempre vuole dominare la donna. Facciamo la brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: “Ma perché hai mangiato il frutto dell’albero? E lui: “La donna me l’ha dato”. E la colpa è della donna, povera donna, dobbiamo difendere le donne!».
Detto, fatto. La battuta di qualche mese fa è diventata ieri una riflessione teologica che il Papa ha proposto in piazza San Pietro nell’ultima delle catechesi dedicate alla famiglia. Adamo, Eva, la mela. E quella frase nel terzo capitolo della Genesi, cita Francesco, le parole che Dio rivolge «al serpente ingannatore, incantatore», versetto 15: « Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe ». Francesco scandisce: «Pensate quale profondità si apre qui! Esistono molti luoghi comuni, a volte persino offensivi, sulla donna tentatrice che ispira al male. Invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa benedizione di Dio per lei e per la generazione!».
Lucetta Scaraffia, coordinatrice dell’inserto Donne Chiesa mondo dell’ Osservatore Romano, notava ieri che «lo stereotipo» secolare della donna tentatrice «ha avuto molta fortuna nella Chiesa». E Francesco, ieri, lo ha demolito. I «luoghi comuni offensivi» dicono l’opposto della verità. Perché con le parole rivolte al serpente, ha spiegato il Papa, «Dio segna la donna con una barriera protettiva contro il male, alla quale essa può ricorrere - se vuole - per ogni generazione». Lo stesso Cristo, ricorda, è nato da una donna. E il racconto della Genesi «vuol dire che la donna porta una segreta e speciale benedizione, per la difesa della sua creatura dal Maligno: come la Donna dell’Apocalisse, che corre a nascondere il figlio dal Drago. E Dio la protegge».
Anche da qui deve partire quella riflessione che Francesco invocò dall’inizio del pontificato, nel 2013: «Il ruolo della donna nella Chiesa non è soltanto la maternità, la mamma di famiglia, ma è più forte: è proprio l’icona della Vergine, quella che aiuta a crescere la Chiesa. La Madonna è più importante degli Apostoli! E la Chiesa è femminile... Credo che noi non abbiamo fatto ancora una profonda teologia della donna, nella Chiesa». Capire questo, oltre i «luoghi comuni» e le disparità, è fondamentale per quella «nuova alleanza tra uomo e donna» che Francesco ritiene «non solo necessaria ma anche strategica» nel nostro tempo: per «l’emancipazione dei popoli dalla colonizzazione del denaro». Il Papa anticipa temi del prossimo viaggio a Cuba e negli Usa, che si concluderà con l’incontro delle famiglie a Philadelphia. Temi che saranno anche al centro del Sinodo di ottobre.
Tutto si tiene. Francesco spiega che «l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica». E «la subordinazione dell’etica alla logica del profitto dispone di mezzi ingenti e di appoggio mediatico enorme». Qui sta il ruolo decisivo della famiglia: «La nuova alleanza tra uomo e donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile!».
Perché Dio «ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a se stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo», esclama: «La famiglia è alla base di questa cultura mondiale che ci salva da tanti attacchi, distruzioni, colonizzazioni, come quella del denaro o delle ideologie che minacciano il mondo. La famiglia è la base per difendersi!».
Proprio ieri, il Consiglio di nove cardinali («C9») voluto dal Papa ha definito la nascita di una nuova Congregazione che si occuperà di fedeli laici, famiglia e vita e assorbirà le competenze di due pontifici consigli: un «ministero» ad hoc che non è solo una semplificazione della Curia e dice tutta l’importanza che la questione ha per il Papa. Nel «C9», tra l’altro, si è discusso anche delle procedure per la nomina dei vescovi del mondo: il Papa - forse non convinto da alcune candidature - ha deciso che le procedure per raccogliere informazioni e sondare «qualità e requisiti dei candidati» dovranno essere aggiornate.
Le femministe di regime contro Corbyn di Carlo Formenti *
Che l’elezione di Jeremy Corbyn a segretario del Labour avrebbe provocato la rabbiosa reazione dell’establishment blairiano era scontato. Meno scontata l’intensità della campagna di denigrazione partita subito dopo l’elezione. Vecchio, conservatore, nostalgico, votato alla sconfitta elettorale e palesemente inadatto a governare: queste le accuse più ricorrenti.
Peccato che i sondaggi rivelino come a sostenere il vecchio nostalgico siano, in maggioranza, giovani cittadini inglesi infuriati per la sistematica svendita dei loro interessi da parte di un Labour convertito al credo liberista. Quanto all’impossibilità di vincere le elezioni e governare, la sensazione è che, a ispirare tale profezia, sia il terrore che possa essere smentita, come è avvenuto in Grecia (anche se i diktat europei hanno subito rimesso le cose a posto) e come potrebbe succedere fra poco in Spagna.
Su un punto i laburisti di regime però hanno ragione: Corbyn non è un segretario adatto per un partito che da tempo non era più espressione degli interessi delle classi lavoratrici, radicato nelle fabbriche, negli uffici e nei territori, ma un partito di centro che, assieme ai socialdemocratici tedeschi, ai socialisti francesi e spagnoli e ai democratici italiani, ha celebrato i funerali della socialdemocrazia. Ma se Corbyn vincerà la sua scommessa non sarà perché avrà resuscitato la socialdemocrazia, bensì perché avrà dato vita a una nuova forza politica antiliberista, della quale si intravedono tracce anche negli altri “populismi di sinistra” che turbano i sogni degli oligarchi europei.
Al coro di media mainstream, economisti, politologi, esponenti di partiti di destra, centro e sinistra (ad eccezione delle sinistre radicali) si sono aggiunte le voci delle “femministe di regime”. Non mutuo questa definizione da maschietti nostalgici del bel tempo andato, ma da intellettuali femministe come Silvia Federici, Nancy Fraser, Cristina Morini e Anna Simone - per citarne solo alcune - critiche di quel femminismo mainstream che - concentrandosi sui diritti individuali, sull’emancipazione e sui temi del riconoscimento e dell’identità di genere - ha rimosso la lotta per i diritti sociali e per l’uguaglianza politica ed economica. Una svolta che consente al neoliberismo di integrare il discorso femminista sul terreno di una “modernizzazione” culturale giocata a suon di chiacchiere politically correct e quote rosa (non c’è leader di destra che, maschilista fino a pochi anni fa, manchi oggi di esaltare i diritti delle donne). Così i giornali hanno attaccato Corbyn: prima perché non sembrava intenzionato a inserire un congruo numero di donne nel governo ombra, poi perché ne aveva messe più della metà ma in ruoli “secondari”.
Ancorché speciosa, la polemica è interessante perché mette in luce alcuni effetti della svolta appena accennata. Prendiamo, per esempio, l’articolo di Maria Laura Rodotà sul Corriere di martedì 15 settembre. Dopo avere ironizzato sui maschi di sinistra - i quali sarebbero più intolleranti nei confronti del politicamente corretto “perché a loro è stato vietato troppo a lungo di fare i cretini” - l’autrice fa le pulci, oltre che a Corbyn, a Tsipras e al candidato alla nomination democratica Bernie Sanders (tutti colpevoli di circondarsi soprattutto di uomini).
In particolare, ricorda che i sostenitori di Sanders sono soprattutto uomini bianchi di tutte le età (in realtà c’è una consistente quota di giovani di ambio i sessi) mentre le donne (anche le liberal) preferiscono la Clinton perché convinte che il solo fatto di mandare una donna alla Casa Bianca cambierebbe il mondo (anche se le illusioni alimentate dall’elezione del nero Obama insegnano che il potere ignora razza e genere). Poco importa che la Clinton sia notoriamente sponsorizzata da Wall Street, il che rende risibile la sua pretesa di ergersi a paladina della lotta contro la disuguaglianza.
Conta più il genere o il programma? La Rodotà sembra indecisa: da un lato, ammette che il programma di Corbyn “è uno dei più femministi che ci siano”, ma dall’altro sottolinea che “viene proposto da una leadership di cinque uomini”. Meglio la oligarca Clinton del socialista Sanders solo perché è donna? Se qualcuna/o (oddio come sono politicamente corretto!) mi dicesse: meglio la senatrice Warren, perché è donna e schierata su posizioni vicine a quelle di Sanders, potrebbe convincermi ma io, da irriducibile “vecchietto”, continuo a pensare che sia meglio giudicare un leader in base al suo programma e alla coerenza tra il dire e il fare e non alla sua età, razza, genere o gusti sessuali.
Pontificia commissione biblica*
Lo storico parere della Pontificia commissione biblica (1976)
* A seguito dei numerosi riferimenti fatti da papa Francesco alla necessità di ripensare il ruolo della donna nella Chiesa, pubblichiamo la prima (e nostra) traduzione italiana del documento di lavoro elaborato nella primavera del 1976 dalla Pontificia commissione biblica sul ruolo delle donne nella Scrittura, apparso in inglese in appendice al vol. di A. Swidler, L. Swidler (a cura di), Women Priests, Paulist Press, New York 1977, 338-346.
Il testo porta la firma, oltre che del presidente della Commissione e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede card. Franjo Seper, e del segretario, mons. Albert Deschamps, vescovo titolare di Tunisi, dei membri che facevano allora parte della Commissione: Jose Alonso-Diaz, Jean-Dominique Barthelemy, Pierre Benoit, Raymond Brown, Henri Cazelles, Alfons Deissler, Ignace de la Potterie, Jacques Dupont, Salvatore Garofalo, Joachim Gnilka, Pierre Grelot, Alexander Kerrigan, Lucien Legrand, Stanislas Lyonnet, Carlo Maria Martini, Antonio Moreno Casamitjana, Ceslas Spicq, David Stanley, Benjamin Wambacq, Marino Maccarelli (segretario tecnico).
Sono noti anche i risultati delle votazioni: su 20 membri erano presenti in 17; non sono noti i nomi dei tre assenti.
Le 3 questioni sottoposte a voto, tutte approvate, erano: 1) il Nuovo Testamento non afferma in modo chiaro se le donne possono diventare prete (voto unanime); 2) i motivi scritturistici non sono sufficienti da soli a escludere la possibilità dell’ordinazione delle donne (12 a 5); 3) il piano di Cristo non sarebbe violato con l’ordinazione delle donne (12 a 5).
La dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede circa la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale Inter insignores, che porta la data del 15 ottobre 1976 - firmata a nome della Congregazione dal card.
Seper -, non tenne conto di questo documento (ndr).
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FONTE: IL REGNO - 15/04/2015
CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA:
Papa Francesco contro la teoria del gender: “Espressione di frustrazione”
Nel corso dell’udienza in Piazza San Pietro, Bergoglio sottolinea le differenze e la complementarietà tra uomo e donna. Ed evidenzia anche l’importanza del legame matrimoniale e familiare “non solo per i credenti”
di Francesco Antonio Grana (Il Fatto, 15 aprile 2015)
“La teoria del gender espressione di frustrazione e rassegnazione che mira a cancellare la differenza sessuale”. Papa Francesco, nella catechesi dell’udienza generale del mercoledì in piazza San Pietro, ha attaccato la teoria secondo cui la distinzione tra maschi e femmine non è data dal fattore biologico, ma dalla singola sensibilità del soggetto. “La cultura moderna e contemporanea - ha affermato Bergoglio - ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione delle differenze tra uomo e donna. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio mi domando se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, - ha aggiunto il Papa - rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione”.
Parole che si ricollegano a quelle espresse più volte dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che ha sostenuto che “il gender edifica un ‘transumano’ in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità”. Ma il porporato ha anche puntato il dito più volte contro “i libri dell’Istituto A.T. Beck, dal titolo accattivante ‘Educare alla diversità a scuola’ e ispirati alla teoria del gender” bollandoli come “colonizzazione ideologica”. Da qui l’invito del presidente della Cei ai genitori a esercitare “il diritto di astenere i propri figli da quelle ‘lezioni’ senza incorrere in nessuna forma, né esplicita, né subdola, di ritorsione, come sta invece accadendo in qualche Stato vicino a noi”.
Nella sua catechesi sulla famiglia, dedicata alla complementarietà tra l’uomo e la donna, il Papa ha sottolineato che la differenza tra i due generi “non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre a immagine e somiglianza di Dio”. Per Francesco, infatti, “per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna. Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione, nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede, i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna”.
Bergoglio ha sottolineato anche l’importanza del legame matrimoniale e familiare “non solo per i credenti”. “Vorrei esortare gli intellettuali - è stato l’appello del Papa - a non disertare questo tema, come se fosse diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta”. Infine, l’invito a “fare molto di più in favore della donna, se vogliamo ridare più forza alla reciprocità fra uomini e donne. È necessario, infatti, - ha aggiunto Francesco - che la donna non solo sia più ascoltata, ma che la sua voce abbia un peso reale, un’autorevolezza riconosciuta, nella società e nella Chiesa. È una strada da percorrere con più creatività e più audacia per valorizzare il genio femminile”.
Scaraffia e quella Chiesa ancora maschile:
«In troppi pensano a loro come serve»
di Gian Guido Vecchi *
CITTÀ DEL VATICANO «Francesco, lui, lo ha detto molto chiaramente. Quella frase, soprattutto: “Soffro quando vedo nella Chiesa che il ruolo di servizio della donna - quel ruolo che tutti noi dobbiamo avere - scivola verso la servitù”. Ecco: ci sono ancora molte donne che nella Chiesa vivono in condizione di servitù, fanno da cameriere o da badanti ai preti e vengono trattate come serve».
La storica Lucetta Scaraffia, coordinatrice dell’inserto «Donne, Chiesa, Mondo» dell’ Osservatore Romano , è stata chiamata a concludere, sabato, l’assemblea sulle «culture femminili» in Vaticano. Parlerà del futuro.
Pare di capire, professoressa, che nella Chiesa ci sia una maggiore attenzione, no?
«Sì, per un motivo ineludibile. La Chiesa, specie in Occidente, è spiazzata. È un mondo assolutamente al maschile, a livello decisionale, ma composto per la maggior parte di donne. I due terzi dei religiosi sono donne, dalle missionarie alle suore di clausura. E sono le donne che ormai mandano avanti le parrocchie, insegnano catechismo, badano ai bambini, assistono anziani e malati».
Però?
«Però la loro voce non viene ascoltata. Non è questione di potere, ma di voce. Di ascolto della loro voce e di partecipazione ai processi decisionali. Non si tratta di sacerdozio o di donne cardinale. Non ci sarebbe bisogno di cambiare nulla...».
Ad esempio?
«Trovo vergognoso, per dire, che le donne non facciano parte delle congregazioni che precedono il Conclave. Ci sono cardinali, vescovi e gli ordini religiosi maschili, giustamente. Ma le madri generali, le rappresentanti di organizzazioni internazionali, quelle no. Donne importantissime, che avrebbero tantissimo da dire, e nessuno le ascolta. Del resto, è ridicolo che non ci siano donne ai vertici dei dicasteri dei laici o della famiglia; perfino tra i religiosi l’unica donna è sottosegretario».
Come reagiscono le donne?
«Le vedo esasperate, sfiduciate. Stanno per conto loro. È questa è una perdita grave, per la Chiesa».
Eppure qualcosa si muove. L’inserto femminile dell’ «Osservatore» , le cinque donne nominate nella commissione teologica internazionale...
«L’inserto è nato tre anni fa, sotto il pontificato di Benedetto XVI, proprio per mostrare che le donne c’erano, perché non fossero ignorate».
Parlava di Occidente. E altrove?
«In molte parti del mondo la Chiesa è l’istituzione più femminista che ci sia, grazie alle donne. Pensi alle missionarie che in Africa o in Asia fanno studiare ragazze altrimenti escluse dalle scuole. O l’assistenza delle suore alle donne che subiscono violenza. Ci sono Paesi dove sono solo i cristiani a difendere le donne. Eppure: lo ha mai sentito rivendicare, questo? È come se non se ne accorgessero neppure...».
Francesco ha detto: «Bisogna fare di più».
«Francesco se ne rende conto e lo ha ripetuto, nel suo modo franco. Ma sarà durissima. E diffido delle consulte femminili. Penso debbano entrare nelle strutture che ci sono già».
Non si fa molte illusioni...
«Non so quanto gli uomini siano disposti a rinunciare a una fetta di potere. Pochi sentono il problema. Del resto tanti sono anziani, hanno passato la vita a vedere donne che fanno le serve. Per questo è fondamentale che ci siano donne a insegnare nei seminari: così i futuri preti non le vedranno solo a lavare piatti o calzini, si faranno un’idea diversa».
* Corriere della Sera, 04.02.2015
PER LA CRITICA DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITA’ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE (fls)
Le donne e la Chiesa
Le vie del Papa per la questione femminile
di Carlo Marroni (Il Sole-24 Ore, 09.07.2014)
«La Madonna è più importante degli apostoli, la Chiesa è femminile, è sposa, è madre, e il ruolo della donna nella Chiesa non solo deve finire come mamma, come lavoratrice... limitata. No, è un’altra cosa!!!». Così esclamava un anno fa papa Francesco durante il viaggio di ritorno dal Brasile, interpellato sul ruolo delle donne nella Chiesa. Un tema ricorrente nell’apostolato del papa argentino, che più volte ha messo la donna al centro dell’attenzione. Qualcosa sta cambiando? Il tema è affrontato e analizzato da Papa Francesco e le donne, un bel libro pubblicato dal Sole 24 Ore in collaborazione con l’Osservatore Romano, in edicola da oggi e per un mese insieme al quotidiano.
Il libro raccoglie tutti i testi in cui il Pontefice ha parlato della "questione femminile" nella Chiesa. Testi efficaci, profondi, sorprendenti, che hanno suscitato attenzione e che sono introdotti da due saggi di Giulia Galeotti e della storica Lucetta Scaraffia, firme di punta del quotidiano della Santa Sede, diretto da Giovanni Maria Vian, che da due anni pubblica un inserto mensile femminile.
«In un contesto di emancipazione femminile realizzato, quale è quello dei Paesi occidentali, l’atteggiamento della Chiesa sembra invece rovesciarsi. Soprattutto in una cultura in cui l’emancipazione delle donne è misurata sul libero accesso agli anticoncezionali e sulla legalizzazione dell’aborto, la Chiesa viene percepita come una nemica dell’emancipazione. A questo conflitto culturale si aggiunge - scrive Lucetta Scaraffia - l’assenza di donne nelle sfere decisionali della Chiesa, benché le religiose siano, almeno per ora, molto più numerose dei religiosi. Inoltre, esse sono in genere relegate in ruoli di sottoposte con compiti subalterni".
Gli ultimi dati disponibili, risalenti al 2012, dicono che le religiose cattoliche nel mondo sono 702.529, i religiosi (esclusi i sacerdoti) 55.314: a livello mondiale i maschi costituiscono il 7% della comunità religiosa cattolica. Le proporzioni cambiano se ai maschi religiosi sommiamo i vescovi (5.133) e i sacerdoti (414.313): in questo caso il peso femminile risulta ridimensionato, ma le donne rappresentano comunque il 60% della Chiesa consacrata, quindi un’ampia maggioranza. "Le donne nella Chiesa ci sono - scrive Giulia Galeotti - sono molte e fanno tantissimo (...) Eppure non contano. È incredibile la discrasia tra il reale impegno femminile nella Chiesa a tutti i livelli e il misero spazio che è loro lasciato ai vertici (...) Davvero - si chiede Galeotti a proposito degli uomini di Chiesa - non vedono oppure torna loro più comodo fingere di non vedere?".
Emblematiche appaiono le parole di suor Viviana Ballarin, che in passato ha guidato l’organismo da cui dipendono gli ordini femminili italiani: "È ancora raro che nella Chiesa siano affidati alle donne ruoli a più ampio respiro, di responsabilità, di decisionalità". La causa? Per Ballarin alla fine il nodo è un influsso culturale che "influenza e condiziona anche la Chiesa degli uomini. Ma non la Chiesa di Cristo". Parole coraggiose in un contesto "gerarchico" come quello ecclesiastico, che testimoniano come il dibattito sul tema sia franco e aperto, con prese di posizione decise.
In questo contesto sono provvidenziali le posizioni di Francesco che denuncia con una sincerità e un coraggio nuovi la condizione di subalternità in cui si trovano oggi le donne nella Chiesa. Dal libro emerge anche un’ansia di fondo, il timore che la straordinaria apertura del papa, per quanto forte e autorevole, da sola non sia sufficiente per un cambio strutturale e duraturo, che richiede una riflessione profonda a tutti i livelli.
E infatti l’ultimo capitolo del libro si intitola "Un cantiere aperto", "un cantiere - scrive Scaraffia - di cui il Papa indica sempre più nettamente le caratteristiche. Cominciare ad affrontare la situazione dal punto di vista teologico significa muoversi in una direzione ben lontana da quella auspicata da chi pensa semplicemente che la Chiesa si debba adeguare al mondo, introducendo donne a tutti i livelli di potere di decisione".
Papà Coniglio
di Massimo Gramellini (La Stampa, 20.01.2015)
Crescete e moltiplicatevi ma senza esagerare, è la lieta novella annunciata ieri dal Papa Pop. I buoni cattolici, dice Francesco, non devono comportarsi come conigli. E due millenni di storia ecclesiastica e di lenzuola ricamate «non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio» sembrerebbero finire in naftalina. Perché il corollario logico del Discorso Del Coniglio non può che essere il riconoscimento del ruolo anticonigliesco della contraccezione.
In attesa messianica di un Discorso del Preservativo, dalle prossime performance del Papa Pop si attendono delucidazioni su altri metodi più invasivi, ma meno compromettenti sul piano dell’etica cattolica. La doccia ghiacciata perenne, la tv accesa su una partita di Champions, l’armadio appoggiato alla porta della camera da letto per impedire al partner di entrare.
Il Discorso del Coniglio segue di pochi giorni il Discorso del Pugno (a chi insulta la mamma) e ha preceduto di pochi minuti il Discorso del Calcio Dove Non Batte Il Sole, che secondo questo Papa Don Camillo andrebbe rifilato ai corrotti.
Anch’io, come tutti, vado letteralmente pazzo per il linguaggio disinibito del Pontefice che viene «quasi dalla fine del mondo» e in effetti dice cose quasi dell’altro mondo. E non sarà certo un umile peccatore, e scribacchino per giunta, a fare la predica a un Papa.
Da laico affettuoso mi permetto soltanto di chiedergli se non pensa che alla lunga questo suo parlare semplice e pieno di buon senso, mai seguito però da fatti concreti, non rischi di togliergli autorevolezza e credibilità. Facendolo assomigliare, più che a un vecchio prete argentino, a un giovane premier toscano.
Il pastore del popolo
di Vito Mancuso (la Repubblica, 20.01.2015)
DOPO il pugno, ora arriva il «calcio dove non batte mai il sole»: decisamente gagliardo il Papa! L’intervista rilasciata nel viaggio di ritorno dalle Filippine tocca temi interessanti.
MA SOPRATTUTTO mostra un Papa dal linguaggio forse ancora più colorito del solito: segno, a mio avviso, di particolare rilassatezza. Papa Francesco appare proprio contento del grande affetto e dell’enorme simpatia che il mondo intero gli manifesta e si lascia andare al cospetto della stampa mondiale come fosse tra amici. Il che sembra proprio la maniera migliore di interpretare il ruolo di per sé così pesante che l’essere Papa comporta, una spontaneità che l’aveva portato il giorno prima, durante la messa più seguita della storia, a tenere a braccio l’omelia davanti ai sette milioni di partecipanti.
Quanta differenza rispetto al rigoroso plurale maiestatis che regnava fino a Paolo VI o anche rispetto ai lunghi discorsi letti su fogli accuratamente preparati prima (e spesso da altri) di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i quali anche nelle conferenze stampa mai e poi mai avrebbero potuto usare le popolaresche espressioni di Francesco.
Ma il punto è esattamente questo: il popolo. Ovvero la vicinanza totale che questo pastore straordinario intende mostrargli in continuazione. Se Francesco con il suo linguaggio sta introducendo davvero qualcosa di inedito nella storia pontificia, e direi persino di scandaloso per il sussiegoso protocollo pontificio e per le orecchie dei cattolici tradizionalisti, non è certo per gioco: la scelta di questo linguaggio è diretta espressione del contenuto che Francesco intende dare e sta dando al suo pontificato.
Come può parlare del resto un Papa che non vuole macchine di lusso ma utilitarie, che non sta nell’appartamento papale ma nel convitto di Santa Marta, che non indossa croci e anelli d’oro ma semplicemente di ferro, che rinuncia insomma con sistematicità a tutti i segni del potere? Esattamente come parla questo Papa, che fa della vicinanza al popolo la stella polare del suo essere pontefice, e quindi si rallegra di poter riferire che quel giorno a Buenos Aires a quel tipo che tentava di corromperlo lui avrebbe dato più che volentieri «un calcio dove non batte mai il sole».
Possono piacere, o lasciare perplessi, o dispiacere del tutto, questi esempi così fisici e anche un po’ violenti che parlano di pugni e di calci. Personalmente, in un mondo già così intriso di violenza, non posso dire di amarli particolarmente né di ritenerli proprio del tutto opportuni, perché un domani a uno scatto di violenza incontrollata si potrà sempre trovare un appiglio nelle parole papali: «Se persino il papa può dare un pugno o un calcio, figuriamoci io». Né è certo un caso che all’imam radicale Anjem Choudary, lo stesso che assicura che un giorno Roti ma vivrà sotto la legge islamica, l’esempio del pugno sia particolarmente piaciuto. Questo però attiene ai singoli esempi scelti dal Pontefice e alla sensibilità di ciascuno, il punto decisivo consiste invece nel comprendere l’efficacissima denuncia papale contro la mancanza di rispetto della religione altrui e contro la corruzione.
Venendo ai temi dell’intervista di ieri, la questione più scottante è certamente quella della procreazione responsabile. Anche qui il linguaggio papale si segnala per l’espressione colorita quando, a proposito di una donna incinta dell’ottavo figlio averne avuti sette mediante cesareo che lui ebbe a incontrare in una parrocchia, dice: «Alcuni credono, scusatemi la parola, che per essere buoni cattolici dobbiamo essere come i conigli». Forse qualcuno aveva mostrato quella donna al Papa come esempio di maternità generosa e devota, ma la reazione del Papa, come riferisce egli stesso, è stata di ben altro tipo perché l’ha rimproverata così: «Ma lei ne vuole lasciare orfani sette? Ma questo è tentare Dio». Come siamo distanti dall’immagine di madre che si sacrifica totalmente per i figli, arrivando persino a morire per metterli al mondo, tanto cara al cattolicesimo tradizionale! Il Papa dice al contrario che una maternità non controllata e non responsabile equivale a tentare Dio.
Occorre però aggiungere che sul tema specifico della contraccezione, proprio come un abile pugile che oltre a saper dare i pugni li sa anche evitare, il Papa ha schivato abilmente la domanda. Il punto caldo della questione infatti non è il numero dei figli, che il Papa stabilisce canonicamente in tre (probabilmente memore dell’adagio medievale omne trinum est perfectum ), ma come evitare altre procreazioni dopo che il numero tre, o qualunque altro numero una coppia voglia o possa permettersi, sia stato conseguito.
Paolo VI aveva stabilito nell’enciclica Humanae vitae del 1968 l’esistenza di un nesso inscindibile ( nexus indissolubilis ) tra unione sessuale e procreazione, dichiarando che ogni singola unione sessuale deve necessariamente essere sempre aperta alla procreazione. Anche l’unione con il legittimo marito di una donna che ha avuto già sette figli?, potremmo chiedere. Anche quella, risponde la dottrina cattolica ufficiale (si legga l’articolo 2366 dell’attuale Catechismo).
Per evitare la procreazione indiscriminata come i conigli, secondo l’esempio scelto dal Papa, o come tante nostre donne delle generazioni precedenti, secondo la memoria di molti, la Chiesa propone i cosiddetdopo “metodi naturali”, ma si tratta di un procedimento che solo poche coppie riescono ad attuare, le statistiche dicono che tra i cattolici praticanti coloro che l’osservano variano dall’8 all’1 per cento.
Consapevole di queste cose il cardinal Martini nella sua ultima intervista aveva dichiarato: «Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale: la Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura dei media?» ( Corriere, 1 settembre 2012). E l’anno scorso il cardinal Kasper: «Dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso».
Il Papa sa benissimo che questa è la situazione, come lasciano trapelare le sue parole quando dice che nella Chiesa «si cerca»; aggiungendo poi: «E io conosco tante vie di uscita, lecite». Di che cosa si tratterà? Dei soliti metodi naturali? Di qualche particolare escamotage di cui i gesuiti sono sempre provvisti? Sarà uno degli argomenti scottanti del Sinodo del prossimo ottobre, la seconda puntata della grande riflessione sulla famiglia voluta da Francesco. Qui nessuno ovviamente se la potrà cavare con le battute, ma forse un calcio papale a qualche porporato particolarmente testardo potrebbe aiutare.
Il volto femminile di Dio
di Ludovica Eugenio (“Leggendaria”, gennaio 2014)
Durante il volo di ritorno dalla Giornata mondiale della Gioventù, svoltasi a Rio de Janeiro nel luglio del 2013, papa Francesco, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha affermato di voler «lavorare più duramente per sviluppare una profonda teologia della donna». Che cosa questo significhi concretamente lo si vedrà in futuro, ma quello che è certo è che queste parole lasciano trasparire la mancanza di un riconoscimento della strada che la teologia femminile, vitale e creativa, ha compiuto nel corso di tanti anni. Concetto, questo, espresso limpidamente dalla teologa brasiliana Ivone Gebara in un articolo per Brasil de fato (2 agosto 2013): «Come può papa Francesco semplicemente ignorare la forza del movimento femminista e la sua espressione nella teologia femminista cattolica?», ha scritto.
Sottolineando come l’abbondante e innovativa produzione teologica femminista continui a risultare «inadeguata per la razionalità teologica maschile» e a rappresentare «una minaccia al potere maschile dominante nelle Chiese», Ivone Gebara denuncia come «la maggior parte degli uomini di Chiesa e dei fedeli» consideri la teologia «una scienza eterna basata su verità immutabili e insegnata soprattutto da uomini», oppure, e in seconda battuta, dalle stesse donne ma «secondo la scienza maschile prestabilita». Si ha qui una rappresentazione plastica, di fatto, delle coordinate da cui ha preso le mosse ed entro cui si è sviluppato il pensiero teologico femminile. Così come nella società, infatti, anche nella Chiesa le donne hanno avuto un ruolo fondamentalmente marginale, nonostante l’affermazione solenne, nella Lettera di San Paolo ai Galati , che con il Battesimo non vi sono più distinzioni di etnia, di condizione sociale, di genere (Gal 3,28).
In un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile, in cui sono sempre stati gli uomini a creare dottrina, morale, leggi, spiritualità, a celebrare i sacramenti e a trasmettere il Vangelo, la sapienza femminile è rimasta inespressa, complice anche una misoginia - strisciante ma non troppo - di cui la teologia maschile si è fatta portatrice (l’autore della prima Lettera a Timoteo, ma anche Tertulliano, nel II secolo, e persino Agostino e Tommaso d’Aquino, fino a Martin Lutero).
Sulla ricchezza della donna sono state le donne stesse a riflettere. E hanno cominciato a farlo in tempi piuttosto recenti, da quando cioè, negli anni Sessanta e Settanta, hanno assunto consapevolezza della loro condizione di “secondo sesso” dando il via alla lotta per la propria emancipazione; questa riflessione è approdata anche al mondo religioso, a partire dalla convinzione che il volto delle donne potesse essere un riflesso del volto femminile di Dio e che tale dimensione, oscurata nel corso di quasi due millenni, dovesse andare recuperata.
Con molti percorsi diversi, e a partire da contesti differenti, le donne hanno cominciato a cercare nuovi modi di esprimere il divino e modelli di spiritualità che tenessero conto dell’identità femminile, schiacciata nei secoli da una cultura e da una società fondamentalmente patriarcali. È stato così che, a livello planetario, l’analisi della subalternità della donna e l’elaborazione di una strada che portasse a un cambiamento e a un recupero delle ricchezze spirituali femminili nella Chiesa hanno cominciato a prendere corpo in forme diverse, con una critica profonda condotta in nome delle verità evangeliche storicamente tradite: in tutti i continenti si sono sviluppati gruppi di riflessione, con un accento diverso a seconda del contesto; dalla connotazione più spirituale e di supporto al ministero dell’Europa, a quella di preghiera e lettura politica del Nordamerica, a quella comunitaria dell’America Latina, a quella solidaristica dell’Asia e impegnata nel settore dell’assistenza sanitaria dell’Africa. Lentamente le donne hanno preso coscienza dell’emarginazione di cui erano state vittime nella Chiesa e hanno voluto vedere riconosciuta la loro dignità calpestata da na cultura ecclesiastica sessista, maschilista e patriarcale.
Hanno preso in mano il Vangelo, senza altra mediazione che la loro sapienza e la loro esperienza, e hanno compreso il loro valore altissimo agli occhi di Dio, a fronte di quanto per secoli erano state abituate ad ascoltare e che avevano interiorizzato. In questa nuova e radicale presa di coscienza, l’affermazione del sé femminile è passata, per le religiose, attraverso l’abbandono dell’abito - simbolo del potere maschile che le aveva schiacciate - o attraverso una forte critica dall’interno, con uno spirito di riforma.
La teologia femminile, nata nel Nordamerica, ed espressa in lingua inglese a partire da un’identità di matrice europea, è da subito teologia femminista, declinata secondo una molteplicità di orientamenti: da quello radicale a quello sociale, culturale, della liberazione, tutti accomunati, tuttavia, da un medesimo punto di partenza, quello del racconto del libro della Genesi, in cui uomo e donna sono creati, entrambi, a immagine e somiglianza di Dio. I diversi filoni filosofico-politici hanno generalmente un altro elemento comune: quello della solidarietà di Dio nei confronti della donna nella sua lotta per la dignità e del rifiuto di un’immagine prettamente maschile di Dio.
Ne sono una imprescindibile espressione le prime opere della teologia femminista, da Mary Daly e il suo Al di là di Dio Padre. Verso una filosofia della liberazione delle donne a Rosemary Radford Ruether e il suo saggio Sexism and the God-Talk. Toward a Feminist Theology , che riprende la figura di Dio come liberatore, quale era stata trasmessa dalla tradizione profetica biblica, a Elisabeth Schüssler Fiorenza, il cui notissimo In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane dà particolare risalto al simbolo biblico di Sophia. Caratteristica dell’opera teologica femminista è il rifiuto delle interpretazioni maschili e patriarcali o androcentriche riguardanti società e Chiesa, e una ridefinizione in termini positivi delle coordinate della comunità, concepita come luogo di uguaglianza, di parità di generi, etnie e di reciprocità nel rapporto dell’essere umano con la natura, con un forte orientamento all’azione concreta.
Rispetto alla teologia femminista statunitense di origine anglo-europea, quella nata nel contesto afro americano aggiunge alla riflessione un ulteriore tassello della storia dell’emarginazione femminile con il dato del pregiudizio razziale e della classe sociale. Le teologhe nere degli Stati Uniti - un nome tra tutti, quello di Alice Walker - danno vita alla teologia womanist che contempla la liberazione per ogni persona vittima di oppressione a causa della razza, del genere o della classe sociale.
Analoga è l’esperienza delle donne statunitensi di origine ispanica (la loro teologia, denominata a volte “latina”, porterà anche l’etichetta mujerista ), la cui riflessione teologica contempla il radicamento all’interno di una comunità in cui forte è la rilevanza di una religione tradizionalmente e culturalmente marcata da tratti popolari, mentre quelle di origine asiatiche porteranno con sé, nella propria elaborazione teologica, il segno forte della compresenza e convivenza di diverse tradizioni religiose. Ne emerge, in tutti i casi, un forte legame con la prassi della vita quotidiana, campo di battaglia dell’identità femminile, e con la comunità di appartenenza, legami indissolubili nella lotta quotidiana per l’affermazione della dignità femminile. E questo, l’affermazione della dignità femminile, è il perno attorno al quale ruota tutta la riflessione e la produzione teologica al di fuori dei confini degli Stati Uniti.
È la lotta delle donne africane - Teresia Hinga, in Kenya, parla delle molteplici reti di oppressione di cui le donne sono vittime, aggiungendo alle diverse forme di oppressione già analizzate quelle del militarismo e del colonialismo. In tale contesto, non si tratta di cercare un’integrazione delle donne in un sistema che è “sbagliato”, e in cui le donne dovrebbero adattare le proprie doti e ricchezze a un mondo androcentrico, quanto di trasformare quel sistema ridefinendone le coordinate, in modo da raggiungere una reciprocità totale tra uomo e donna.
Le donne traggono forza da una verità inconfutabile: il Dio che ha resuscitato Gesù dai morti vuole che esse abbiano vita in pienezza, le ama e desidera che trovino la loro realizzazione, e le accompagna giorno dopo giorno nelle loro fatiche. È tuttavia evidente che, in questa ritrovata relazione d’amore, la teologia femminile abbia trovato difficoltà nell’attribuire al Dio che le ama le immagini e i simboli esclusivamente maschili della tradizione, simbolo ed espressione di una concezione gerarchica dei rapporti tra uomo e donna che via via, da un punto di vista sociale, viene superata. Nel momento in cui l’uomo non è più signore, anche l’immagine di un Dio maschile e potente che chiede obbedienza come un padrone perde terreno. Dio è un Dio d’amore e di compassione che sta accanto a chi soffre, ma è soprattutto - e questo è un elemento di grande novità - qualcuno con il quale si dispiega una sostanziale relazione di reciprocità, un fluire di sentimenti che vanno in entrambe le direzioni, da Dio alla donna e viceversa. Il modello è quello del Cantico dei Cantici (Dio lo sposo), ma Dio è anche spirito vitale che risiede dentro la donna.
L’amore di Dio rende le donne libere di agire nella storia, forti, senza più bisogno di un Dio che viene in aiuto ma consapevoli di un Dio che è dentro di loro, sempre, come forza creatrice e di trasformazione che non può essere contenuta in nessuna immagine tradizionale. Di qui, un altro grande interrogativo che le donne si pongono nel loro fare teologia: se, cioè, e in che misura, e in che modo, l’essere femminile possa essere segno e sacramento della realtà divina e della sua azione.
Detto in modo più semplice: Dio può essere espresso al femminile? La risposta è lineare: sì, se le donne riescono a riprendersi la propria identità di esseri amati da Dio. È questo meccanismo che rende possibile alle donne dare a Dio nomi femminili, sottraendolo all’abitudine più che consolidata (degli uomini di Chiesa, in quanto detentori dell’autorità) di attribuirgli tratti esclusivamente maschili e riferiti al potere maschile (come dimostra l’arte pittorica di secoli), abitudine che ha provocato, nella storia, effetti devastantanti.
In primo luogo, la riconduzione esclusiva dell’immagine di Dio a una lettura letterale, che ne fa un idolo, e totalmente interno a parametri umani, cosa che cancella il tratto di mistero santo. La preghiera e la catechesi sono impregnati di questa immagine maschile dominante di Dio.
In secondo luogo, il linguaggio del potere maschile condiziona pesantemente l’immaginario sociale, definendo le dinamiche di un patriarcato che si esprime e si riflette nella società e nella Chiesa (il Re dei Re), divinizzando, allo stesso modo, la figura maschile: secondo le parole di Mary Daly, «se Dio è maschio, il maschio è Dio». Ne consegue che se il maschile è la realtà più vicina a Dio, il femminile se ne distanzi. Ciò ha provocato l’effetto di convincere le donne di non poter essere degne di fronte a Dio nella loro identità femminile, ma solo nella propria dimensione spirituale, negando a se stesse, dunque, il proprio valore di esseri determinati e sessuati, e creando una dipendenza sempre più marcata rispetto agli uomini, veri e legittimi detentori di un rapporto privilegiato con Dio.
Ecco, dunque, che trovare il volto femminile di Dio significa anche eliminare l’idolo nonché scalzare il potere patriarcale rendendo possibile immaginare Dio al di fuori dei limitanti parametri umani: come dire che Dio è un “lui”, è una “lei”, e allo stesso tempo - e proprio per questo - va molto al di là di tutto ciò. Ecco poste le basi per il rispetto della differenza e per la possibilità di pari diritti, nella società e nella Chiesa.
D’altra parte, un’immagine femminile di Dio è particolarmente evocativa: quella della madre, simbolo di origine della vita, amore, cura, nutrimento. Si tratta di un’immagine di cui è ricca la Bibbia (una per tutte, Is 49,15, «Si dimentica forse una donna del suo bambino...», a proposito del rapporto che Dio ha con il suo popolo).
Tale immagine, tuttavia, ha un carattere ambivalente perché, se assunta come unico modello di realizzazione della donna - come accaduto nella società patriarcale, che ha fatto della maternità un’istituzione - risulta limitante. Senza dire che non per tutti o per tutte l’immagine materna è necessariamente un’immagine positiva e che, soprattutto, l’immagine materna può ricondurre a un ruolo passivo. In linea generale, tuttavia, la possibilità di parlare di Dio come di una madre affettuosa e amorevole consente di aggiungere all’immagine del rapporto tra Dio e essere umano la dimensione unica della relazione con una realtà piena di mistero che dà la vita e che ama la sua creatura e ne ha compassione.
Importante, a questo proposito, l’ “esperimento mentale” portato avanti da Sally McFague sul modello di Dio come madre ( Models of God. Theology for an Ecological, Nuclear Age ), in cui stabilisce un nesso profondo tra maternità e giustizia (la madre come essere d’amore che dà la vita e che desidera la realizzazione e il benessere dei suoi figli, secondo uno spirito di equità e di attenzione ai più bisognosi). In questo senso, Dio è madre. Ma Dio è anche molto altro. È sophia , sapienza, ossia - come afferma Elisabeth Schüssler Fiorenza - Dio nella sua forza redentrice nel mondo. Questa immagine è utilizzata nei libri sapienziali, ma anche dai Vangeli e da Paolo per identificare Cristo. Ancora, dunque, un’immagine femminile per esprimere il mistero di Dio, che si affianca a quella della colomba per rappresentare lo Spirito, a quella di Dio come la donna che cerca la moneta perduta (Lc 15,8-10).
Questa ricerca delle immagini femminili di Dio, tuttavia, non deve indurre nella tentazione di veicolare una concezione dualistica e biologica di un Dio con due volti, uno maschile e uno femminile, ripetendo l’associazione stereotipata del tratto maschile con tutto ciò che è forte e attivo e di quello femminile con l’aspetto passivo e accogliente. Ciò infatti non sarebbe che un ritorno al mondo patriarcale cui si intendeva sottrarre l’immagine di Dio, con un ruolo nuovamente subalterno della donna.
Guardando a questo ricchissimo e composito patrimonio di riflessione individuale e corale delle donne, quale futuro si prospetta, oggi, per la teologia femminile?
Se le parole apparentemente incoraggianti, ricordate all’inizio, con cui papa Francesco sottolinea la necessità di dare risalto alla teologia femminile concedono spazio alla speranza di un rinnovato rispetto e di un più ampio spazio per il volto plurale della Chiesa - e in questo orizzonte ampio, dunque, anche per le donne - molte sono le teologhe che esprimono un certo disincanto.
Come Patricia Paz, che nel suo blog sul portale Religiòn Digital contesta una sorta di “ghettizzazione” del pensiero teologico femminile: «Mi risulta inaccettabile - afferma - continuare a sentir parlare delle donne come se fosse un gruppo di persone immature incapaci di assumere decisioni e che hanno bisogno che altri, gli uomini, dicano loro cosa possono o non possono fare. È ora di iniziare a parlare con le donne e non delle donne».
* Ludovica Eugenio , laureata in Storia delle origini cristiane, è da più di vent’anni redattrice presso il settimanale di informazione religiosa Adista . Alla professione giornalistica affianca la passione per la traduzione. Di recente ha pubblicato insieme al giornalista Mauro Castagnaro, Il dissenso soffocato. Un’agenda per papa Francesco (Meridiana, Bari, 2013)
Violenza sulle donne, vincere una mentalità e tante ipocrisie
di Lucetta Scaraffia (Il Messaggero, 26 novembre 2013)
Il gesto fatto dal presidente Napolitano per suggellare la giornata dedicata alla violenza degli uomini sulle donne - cioè la nomina a Cavaliere della Repubblica di Lucia Annibali, l’avvocatessa di Pesaro sfregiata per ordine del fidanzato - è carico di significati positivi. Egli ha scelto infatti di rendere onore a una donna violentata che ha reagito con forza e coraggio, per celebrare un anniversario che spesso è solo occasione di lamenti e denunce.
È stato anche un chiaro rimando simbolico: se gli uomini credono di essere legittimati all’uso della violenza dalla necessità di difendere il loro onore maschile, il presidente segnala che l’onore vero è quello della vittima. Ed è un modo chiaro per far capire che le donne non sono solo vittime, ma che stanno affrontando con coraggio un’abitudine antica e vergognosa, quella della violenza, a cui molti uomini ricorrono per limitare la loro libertà, una libertà faticosamente conquistata.
È di questi gesti positivi che c’è bisogno, così come c’è bisogno di dichiarazioni di fiducia alle donne e alla loro capacità di individuare il male all’origine e di denunciarlo. Perché il problema della violenza contro le donne non è tanto un problema di repressione - la violenza contro di loro deve essere gravemente sanzionata, cert o, come deve esserlo ogni forma di violenza su un essere umano - ma un problema di cultura.
Una cultura che spesso vede le donne - almeno per un po’ - complici del proprio torturatore. Proprio per questo sono molto efficaci i manifesti che in questi giorni hanno tappezzato Roma - e speriamo anche il resto del Paese - con l’immagine di donne apparentemente felici, in cui però una frase di avvertimento getta un grido di allarme: «Se il tuo fidanzato è violento l’unico modo per cambiarlo è cambiare fidanzato» e altre parole dello stesso tenore, mirate ad aprire gli occhi alle vittime e a spingerle a sottrarsi alle situazioni pericolose, oppure a denunciarle.
Si tratta senza dubbio di una propaganda mirata alle donne, e molto efficace ai fini di un cambiamento dell’atteggiamento femminile, che spesso rasenta la complicità. Ma, dal punto di vista culturale, il cammino da percorrere è ancora lungo, e in parte da definire. Si possono avanzare molti dubbi sulla via proposta dal documento di Istanbul - e ripresa acriticamente in molti articoli in questi giorni - che vede nell’azzeramento di ogni differenza fra donne e uomini l’uscita di sicurezza contro la violenza. Alcuni arrivano a dire che se le bambine non giocano più alle bambole, e i bambini ai soldatini, ma entrambi lo stesso gioco, vivremo finalmente tranquilli.
Torna anche in questo caso il mito dell’uguaglianza intesa come uniformità, della cancellazione di ogni differenza come condizione base per garantire il rispetto reciproco. Una teoria pericolosa, che non si applica solamente alle donne e agli uomini, ma a ogni forma di differenza umana. Pericolosa perché - anche nell’ipotesi di un’intensa attività di uniformazione dei diversi - qualche cosa di diverso rimarrà sempre, e potrà costituire occasione di ostilità.
La via giusta invece è quella di lasciare esistere le differenze, ma offrire pari opportunità, e soprattutto insegnare il rispetto per ogni forma di vita umana, spiegando a ragazzi e ragazze che ogni essere umano è degno di rispetto, qualunque sia la sua identità sessuale, etnica, politica e religiosa. Solo in questo modo la difesa delle donne dalla violenza può diventare un pezzo del cammino da intraprendere per garantire il rispetto nei confronti di ogni essere umano, nei confronti della sua libertà e del suo diritto di fare scelte che magari altri non condividono. Solo in questo modo le donne si possono sentire parte dell’umanità a pieno titolo, e non una “minoranza” debole e vittimizzata che deve rinunciare alla sua specificità per salvarsi.
“Ringrazio il mio volto ferito che mi ha insegnato a credere di nuovo e di più in me stessa”
intervista a Lucia Annibaldi
a cura di Jenner Meletti (la Repubblica, 26 novembre 2013)
Scende il buio, su quella che è stata «davvero una bella giornata». «Tanto più importante per me - dice Lucia Annibali, colpita al volto con l’acido in una sera d’aprile - che di giornate belle in questi mesi ne ho vissuto poche ».
Quando ha saputo della sua nomina a Cavaliere?
«Stamattina mi è arrivata una telefonata dal Quirinale. L’ufficio stampa mi informava della decisione del Presidente. Che bella cosa. Per me, per la mia famiglia. E credo anche per tutte le donne che hanno subito violenza. È una notizia che dovrebbe interessare tutti gli uomini. Ci pensino su, prima di usare violenza. Se io sono diventata Cavaliere - che so, forse era meglio cavallerizza... - questo significa che la reazione alla persecuzione non è solo mia. C’è tutta una società che si ribella. La nomina è un messaggio ai violenti: state attenti, le donne non si sentono più sole».
Un viaggio a Parma, con tanti appuntamenti. Prima di tutto l’incontro con trecento studenti delle scuole superiori. Si era preparata?
«Sì, ieri sera. Pochi appunti per fissare le parole tante volte pensate in questi mesi: bisogna reagire, ci vuole il coraggio di sopportare anche l’insopportabile, bisogna ritrovare la normalità che è stata rubata... Non arrendersi mai. Mandare al mandante dell’aggressione un messaggio preciso: hai voluto cancellarmi e non ci sei riuscito. La tua malvagità alla fine non ha vinto. Era la prima volta che apparivo in pubblico. Mi sono sentita subito come a casa, ho capito che chi era lì aveva rispetto e voglia di capire».
Ha mostrato il suo volto ferito, è riuscita anche a sorridere.
«Il mio volto, ho detto, sono io. Parla di me, del mio dolore e della mia speranza. Voglio ringraziare questo volto ferito che mi ha insegnato a credere in me stessa, a fare un salto verso la donna che ho sempre voluto essere. Oggi mi sento padrona della mia vita e dei miei sentimenti. Ho un progetto da cui ripartire per avere una vita felice».
Ai giovani ha parlato anche delle parole scritte sul blog del suo psicoterapeuta quando c’erano già le vessazioni ma ancora non era arrivata l’aggressione.
«Già allora avevo iniziato un viaggio dentro a me stessa. Il primo passo verso la guarigione è capire con chi si ha a che fare. È un passo triste ma non potevo accontentarmi di una vita tanto triste ».
Lei ha rischiato di morire, ha sofferto l’inferno. Però è riuscita a parlare anche dell’amore.
«C’erano le ragazze e i ragazzi dell’età giusta. Esiste un solo tipo di amore, quello buono, che ti rende felice, che è indipendenza e libertà. Non bisogna avere fretta,bisogna prima conoscere se stessi e poi darsi il tempo di conoscere l’altro. Il tempo passato lasciando che qualcuno ci ferisca non si recupera più».
È stata accolta da grandi applausi e commozione. Giovani e ragazze sono venuti a parlare con lei, a tu per tu.
«Mi dicevano: in bocca al lupo.Ai ragazzi ho detto: in questo momento di follia collettiva, voi dovere scegliere di essere gentili, amorevoli verso le vostre compagne. Alle ragazze ho spiegato: se qualcosa non funziona, in un rapporto, non dovete convincervi che qualcosa non va in voi».
Una giornata lunga, con tanti appuntamenti.
«Parma è diventata la mia seconda casa. Insieme a mia mamma Lella sono stata a pranzo con il primario, Edoardo Caleffi e la sua famiglia. Stasera dormirò in albergo poi domani entrerò in ospedale. Subirò la nona operazione, su una palpebra che si abbassa troppo e danneggia l’occhio destro. La prima volta sono rimasta nel reparto grandi ustionati per più di 40 giorni. Lì ho incontrato i miei incubi peggiori, quando ero cieca e temevo che l’uomo con l’acido arrivasse per finire il suo lavoro di assassino. Ma ho trovato tanta solidarietà, con medici e infermiere che mi trattavano come una figlia. Ed è iniziata la mia resurrezione. Mi hai tolto il sorriso e la faccia - mi dicevo pensando all’uomo che non voglio nominare - ma io non cedo. E oggi sono riuscita a parlare, e a sorridere, in quella grande sala piena di persone che mi vogliono bene».
Documento preparatorio del Sinodo sulla famiglia: qualche domanda sul rapporto tra uomini e donne
di Rita Torti (www.teologhe.org, 8 novembre 2013)
Sulle caratteristiche e sulle importanti implicazioni del Documento preparatorio alla III Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, reso pubblico in questi giorni, molto è già stato scritto. Tuttavia alcuni aspetti rimasti per il momento in ombra suscitano interrogativi che credo valga la pena di condividere, raccogliendo così anche l’invito contenuto nell’ultima domanda del Questionario allegato al testo introduttivo: “Ci sono altre sfide e proposte riguardo ai temi trattati in questo questionario, avvertite come urgenti o utili da parte dei destinatari?”.
1) Un primo dato che balza agli occhi è che nell’elenco delle “numerose nuove situazioni che richiedono l’attenzione e l’impegno pastorale della Chiesa” sono contemplati fenomeni di vario tipo - dai matrimoni misti alle famiglie monoparentali, dai fenomeni migratori ai messaggi dei mass media, dalle legislazioni civili alle madri surrogate -; a dire il vero alcuni di essi non rientrano propriamente nella categoria della “novità” (ad esempio la poligamia o i matrimoni combinati - questi ultimi abbondantemente conosciuti anche dalle società europee).
Manca però qualunque accenno, nel testo e nel Questionario, a un fenomeno drammatico, documentato e diffuso in modo trasversale nei diversi contesti geografici, culturali e sociali: quello della violenza di genere (fisica, sessuale, economica...) all’interno delle famiglie.
La domanda che ci si può porre è allora questa: come mai a parere degli estensori del documento la violenza maschile nei confronti delle donne non è un problema da mettere in luce, da indagare e da evangelizzare?
E’ improbabile che in un testo così ufficiale e importante l’assenza sia casuale. Tuttavia sarà utile ricordare che questa mancanza può aggravare la situazione di milioni di donne - spose, ma anche figlie - di ogni parte del mondo, che a questo punto non solo subiscono violenze all’interno della famiglia, ma si trovano ad essere anche invisibili agli occhi dei pastori della Chiesa.
2) Il silenzio su questa ferita endemica delle relazioni familiari è rafforzato, sempre nell’elenco delle situazioni che richiedono “attenzione e impegno pastorale”, da un’altra scelta: quella di segnalare esplicitamente la presenza di “forme di femminismo ostile alla Chiesa”, e di ignorare invece la presenza - certamente più concreta, diffusa e radicata, anche in contesti cattolici - di mentalità e prassi maschiliste.
Anche in questo caso, in molte donne - e auspicabilmente in altrettanti uomini - può sorgere una domanda: davvero il maschilismo nelle sue varie declinazioni non è un problema per le relazioni familiari, e per le donne e gli uomini che ne sperimentano gli effetti? Davvero è un fatto che non suscita alcun interesse nei pastori della Chiesa, e su cui essi non ritengono quindi di dover sollecitare esplicitamente la riflessione delle comunità cristiane?.
3) Passando alla parte del Documento in cui si illustra “la buona novella dell’amore divino” che “va proclamata a quanti vivono questa fondamentale esperienza umana personale, di coppia e di comunione aperta al dono dei figli, che è la comunità familiare”, un altro interrogativo sorge nel seguire quelli che il testo definisce “riferimenti essenziali” delle fonti bibliche su matrimonio e famiglia.
Dopo alcuni rimandi a passi della Scrittura che mostrano l’importanza attribuita al matrimonio, all’amore e all’indissolubilità del legame coniugale, il paragrafo intitolato “L’insegnamento della Chiesa sulla famiglia” si apre con questa enunciazione: “Anche nella comunità cristiana primitiva la famiglia apparve come la ‘Chiesa domestica’ (cf. CCC,1655). Nei cosiddetti “codici familiari” delle Lettere apostoliche neotestamentarie, la grande famiglia del mondo antico è identificata come il luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti, tra genitori e figli, tra ricchi e poveri”.
Che gli autori delle Lettere apostoliche considerassero con tanta ammirazione la “famiglia del mondo antico” è affermazione che probabilmente la maggior parte dei biblisti non sottoscriverebbe, anche volendo mettere tra parentesi le notevoli differenze che correvano tra il mondo greco e il mondo romano in questo ambito del vivere. Ma più immediata e alla portata di tutti è un’altra riflessione: in che senso si può definire “luogo della solidarietà più profonda tra mogli e mariti” la realtà che il Documento preparatorio illustra ad esempio con il rimando alla Prima lettera a Timoteo (2,8-15), che ordina fra l’altro: “La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Poiché non permetto alla donna d’insegnare, né di usare autorità sul marito, ma stia in silenzio. Infatti Adamo fu formato per primo, e poi Eva; e Adamo non fu sedotto; ma la donna, essendo stata sedotta, cadde in trasgressione; tuttavia sarà salvata partorendo figli, se persevererà nella fede, nell’amore e nella santificazione con modestia”?.
Quindi, l’ultima domanda: in che modo questo e gli altri testi a cui il Documento rimanda (appunto, i famosi/famigerati codici domestici) possono comunicare la buona novella alle famiglie di oggi? Sarà veramente opportuno portare come esempio di famiglia evangelica brani che per secoli sono stati usati dalla teologia, dalla predicazione e dagli uomini comuni per rafforzare con il sigillo divino quella che era considerata la legge naturale della superiorità maschile e inferiorità femminile?!
Davvero siamo sicuri che nessuno se ne approfitterà per legittimarsi padrone, e davvero siamo sicuri che nessuna penserà che allora subire è cosa buona e giusta? Le esperienze che si registrano in ogni parte del mondo - e che gli estensori del Documento certo non ignorano - sembrano dirci che no, non possiamo essere sicuri.
Lettera a Papa Francesco sulla posizione delle donne nella Chiesa
di Giancarla Codrignani *
Da: GIANCARLA CODRIGNANI
RENDO PUBBLICA LA LETTERA INVIATA A PAPA FRANCESCO: SONO STATA SOLLECITATA DALL’ INTERESSE CHE DIMOSTRA PER RIFORMARE LA POSIZIONE DELLE DONNE NELLA CHIESA. ALCUNI INDIZI (divieto al sacerdozio femminile, intervento ai convegno dei ginecologi, scomunica di un prete americano favorevole all’ordinazione delle donne) E DALLA NOTIZIA, FORNITA DA "EL PAIS" E RIPRESA DA "FAMIGLIA CRISTIANA", CHE ANTICIPA L’IPOTESI DELL’INSERIMENTO DI UNA DONNA NEL COLLEGIO CARDINALIZIO. SE FOSSE VERO, PAPA FRANCESCO OTTERREBBE UN GRANDE SUCCESSO MEDIATICO, MA NON INCONTREREBBE IL FAVORE DELLE DONNE, CHE NON CHIEDONO UN POSTO NELLA GERARCHIA CHE LE OMOLOGHI AL MODELLO MASCHILE ANCHE NELLA CHIESA, MA IL RICONOSCIMENTO DELLA LORO SOGGETTIVITA’ AUTONOMA.
HO ALLEGATO ALLA LETTERA UN DOCUMENTO DI CARLO MARIA MARTINI CHE, INTERVENENDO AD UN CONVEGNO NEL 1981, ESPRESSE IN MODO STRAORDINARIAMENTE EFFICACE IL SENSO CHE DEVE AVERE IL TARDIVO RICONOSCIMENTO DELLA POSIZIONE DELLE DONNE NELLA CHIESA.
LA LETTERA NON E’ PIU’ RISERVATA
Caro Papa Francesco,
come non provare sentimenti di amicizia e di fraternità nei suoi confronti e non solidarizzare con i segnali che viene lanciando attraverso l’infittirsi di relazioni con persone più o meno note della società italiana? Non intendo accrescere il numero dei corrispondenti che incomincia, forse, a farsi molesto; ma sono indotta a interpellarla dopo la notizia del suo intento di pronunciarsi sullo spazio da assegnare alle donne nella Chiesa. Presumo sia anche per lei un dato di realtà che non i disegni di Dio, bensì i ruoli gerarchicamente diversi che uomini e donne hanno storicamente assunto comportano differenze che non vanno sottovalutate, soprattutto se si ricercano nuovi equilibri.
Essendo anche lei un uomo come gli altri, sa bene che difficilmente agli uomini capita di dire parole adeguate quando parlano con noi, soprattutto se pensano di parlare "per" noi. Anche la Chiesa ci conosce solo attraverso una convenzione che non corrisponde alla nostra ermeneutica, di credenti e di non credenti: senza una donna non ci sarebbe stata nascita, senza un’altra donna non ci sarebbe stato annuncio (sarebbero mai arrivati al sepolcro vuoto gli apostoli senza Maria di Magdala?). Come "genere" siamo meno sensibili alle ambizioni di potere che sono incoerenti, almeno nella Chiesa, anche per un uomo. Tuttavia non siamo così stolte da non esser state sempre consapevoli che, anche se in dottrina non si ritrovano giustificazioni alla discriminazione, la Chiesa è rimasta maschile fin da quando la tradizione dei primi secoli ha trasmesso gli scritti dei "padri" della Chiesa e non delle madri, menzionate solo in quanto viri dimidiati.
Carlo Maria Martini fin dal 1981 ha posto l’urgenza di un nuovo riconoscimento della presenza femminile nella Chiesa, ma non ne sono seguite innovazioni. Anzi l’attribuzione al nostro genere di uno speciale "genio femminile" è rimasto nel tradizionalismo e non sono sembrate amicali le misure adottate dal suo predecessore per accertare l’ortodossia della Federazione delle suore americane (LCWR).
Per questo sono certa della sua informazione previa sull’ormai imponente letteratura specifica di teologhe e filosofe e dell’ opinione femminil-femminista (uso l’aggettivo, anche se riprovato da rappresentanti della gerarchia poco attenti alle dinamiche sociali) del popolo di DIo e anche della condivisione delle idee con donne religiose e laiche cattoliche (ma non solo).
Tuttavia oso esprimerle la mia preoccupazione: in tempi in cui la Chiesa soffre abbandoni "di genere", le donne si aspettano di ottenere non rappresentanza, ma riconoscimento di soggettività. Non le deluda. Perdoni la confidenza nella sua disponibilità. La ricordo con sentimenti di fiducia e affetto
G.C.
Perché, si chiede ad esempio la donna, identificare l’immagine di Dio con quella trasmessaci da una cultura maschilista? Quale l’annuncio kerigmatico per lei, non rinchiuso in una visione moralistica? Quali indicazioni per un cammino spirituale e di santità che la stimolino adeguatamente? Quali indicazioni per una rinnovata prassi pastorale, per un cammino vocazionale per il matrimonio, per la consacrazione religiosa, la famiglia, in considerazione della nuova coscienza di sé che la donna ha acquisito? Quali indicazioni per un linguaggio globale, anche liturgico, che non faccia sentire esclusa, nella sua elaborazione, la donna?
Perché così poche e inadeguate risposte alla valorizzazione del proprio corpo, dell’amore fisico, dei problemi della maternità responsabile?
Perché la pur grande presenza delle donne nella Chiesa non ha inciso nelle sue strutture? E nella prassi pastorale perché attribuire alla donna solo quei compiti che lo schema ideologico e culturale della società le attribuiva, e perché non esplicitare i suoi carismi "opera dello Spirito Santo"?
I ruoli ecclesiali affidati alle donne sono allora secondo i carismi di una Chiesa condotta dallo Spirito oppure ancora frutto di una mentalità maschile?
Le donne si chiedono tutto questo. Non sempre lo esprimono. Sentono ancora timore a infrangere una “iconografia” della donna cristiana, dentro la quale peraltro stentano a riconoscersi e non riescono più ad adattarsi.
La Chiesa deve porsi in ascolto. Deve lasciarle esprimere da protagoniste. Il loro modo di leggere, interpretare la vita ha una rilevanza che deve segnare un cammino pastorale che non può vedere le donne perennemente soggette o brave e fedeli esecutrici, quasi vergognose o timide di fronte alla forza che potrebbero esprimere in novità.
I ministeri, carismi, servizi, sono doni per la comunità ed esigono una profonda e attenta rilettura che apra nuove vie alla comprensione del ruolo delle donne nella Chiesa.
La filosofia e la teologia nelle loro varie branche, l’esegesi biblica, la pastorale hanno un compito urgente da svolgere con gli strumenti che a loro sono propri.
Le scienze umane aprono loro ampi spazi di documentazione e di fondazione. Ma anche la vita delle donne, anzi, dalla loro vita parte un richiamo fortissimo di novità. Le più mature non esprimono vane rivendicazioni di false parità: chiedono di costruire in pienezza e con coraggio, mettendo in discussione se stesse, la società e la Chiesa.
* Il Dialogo, Mercoledì 30 Ottobre,2013
Anche gli uomini recitano il rosario
di Katie Grimes (Adista” - documenti - n. 33 del 28 settembre 2013)
Il mese scorso, di ritorno dal suo celebratissimo viaggio in Brasile, papa Francesco ha espresso alcuni commenti a braccio, producendo reazioni in tutta la blogosfera cattolica. Pur riaffermando il perenne divieto della Chiesa all’ordinazione delle donne, il papa ha fatto appello a ciò che ha definito «una vera e profonda teologia delle donne nella Chiesa».
In molti hanno accolto con favore le sue parole, interpretandole come prova del suo apprezzamento per il genere femminile. Ma io non sono così sicura che dovremmo leggere queste parole come “una buona notizia”. Il problema sembra esattamente l’opposto di ciò che papa Francesco ha sostenuto. Io non biasimo la mancanza di questa “teologia delle donne”, ma il fatto che tanti rappresentanti della Chiesa la considerino necessaria.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva già tentato di delineare “una teologia delle donne” con la sua lettera apostolica del 1988 Mulieris dignitatem, individuando due dimensioni della vocazione delle donne: la maternità di stile mariano e la verginità. Tuttavia, piuttosto che criticare questa specifica teologia delle donne, voglio individuare i problemi legati ai presupposti di tale progetto.
La ricerca di una teologia delle donne, sostengo io, rende queste ulteriormente estranee, ponendole sotto la luce circoscritta dello sguardo maschile. Perché nessun papa ha mai scritto una lettera sul ruolo degli uomini nella Chiesa e nella società? O ha mai riflettuto su una “teologia dei maschi”?
La risposta è semplice: i papi non hanno mai messo in discussione il significato teologico del loro sesso, perché il potere ha trovato nella mascolinità la propria giustificazione. Esercitando il potere sociale ed ecclesiale, i maschi hanno voluto dare l’impressione di legiferare in quanto esseri umani. Gli autori del Magistero hanno anche utilizzato la parola “uomini” per indicare l’intera specie umana: le donne possono essere uomini, ma gli uomini non possono mai essere donne. Le donne non sono mai il metro di paragone, rappresentano l’eccezione.
Ciò vale per tutti i gruppi socialmente potenti. Ad esempio, negli Stati Uniti, i tradizionali opinionisti hanno sempre fatto riferimento alla costante supremazia bianca nel Paese non come al “problema bianco”, ma come al “problema nero”, o alla “questione razziale”. Allora come oggi, il fatto di essere bianco appare normativo, scontato e subliminale. Solo i neri devono spiegarsi. Invece di chiedere una «vera e profonda teologia delle donne», avrei preferito che il papa invocasse una critica più incisiva del sessismo, della misoginia e dell’androcentrismo. Invece di una teologia più profonda delle donne, avrei voluto che riconoscesse la necessità di più teologia fatta dalle donne.
Un papa non ha mai scritto una lettera affermando la dignità della popolazione maschile, anche perché questa non è mai stata messa in dubbio. La Chiesa ha sempre onorato e rispettato la dignità della mascolinità. Noi di solito dobbiamo affermare esplicitamente la dignità solo di quei gruppi a cui essa viene negata nelle vicende concrete della vita quotidiana.
Analogamente, il posto degli uomini nella Chiesa è stato dato sempre per scontato: sembra così ovvio da non dover essere discusso. Ma se papa Francesco parla della mancanza di un’adeguata teologia delle donne, vuol dire che 2000 anni non sono stati sufficienti per capire ciò che Dio vuole per le donne. Come può essere? Cosa c’è di così difficile da capire delle donne?
Forse gli autori contemporanei del Magistero considerano le donne così fastidiosamente complesse perché mirano all’impossibile: la produzione di una teoria che le renda sostanzialmente e complessivamente diverse dagli uomini, ma fondamentalmente uguali a loro. Le autorità cattoliche non hanno mai trovato questo problema così complicato. Tommaso d’Aquino ha dedicato una sola quaestio (ST 92 I.) in tutta la sua Summa alla discussione esplicita sulle donne. Ha parlato più spesso degli angeli che della “donna”.
Per gran parte della sua storia, la Chiesa non ha avuto bisogno di giustificare la sua fede nella supremazia maschile dinanzi a un coro di scettici. Le società in cui la Chiesa era inserita erano in genere d’accordo con loro. Gli autori cattolici hanno dunque investito la maggior parte delle risorse della retorica ecclesiale nella difesa della posizione della Chiesa su punti controversi.
Nel XX secolo, però, qualcosa ha iniziato a cambiare. La fede della Chiesa nella superiorità degli uomini rispetto alle donne non è sembrata più così ovvia. Nel tentativo di difendere la Chiesa da un fiorente movimento per i diritti delle donne, Pio XI ha scritto nel 1930 la Casti Connubii. Riaffermando la condizione dell’uomo come capo famiglia, ha insistito sull’importanza della sottomissione coniugale delle mogli, criticando aspramente tutti coloro che sostenevano «essere quella una indegna servitù di un coniuge all’altro» e che «i diritti tra i coniugi devono essere tutti uguali». Quando Giovanni Paolo II è stato eletto, tali proclami erano caduti in disgrazia anche presso le donne cattoliche più conservatrici. I vecchi insegnamenti non erano più difendibili. Capovolgendo le posizioni, Giovanni Paolo II ha affermato l’incondizionata uguaglianza di donne e uomini per la prima volta nella storia della Chiesa.
Ma questo non ha risolto tutti i problemi. Non volendo in alcun modo aprire il sacerdozio a “uomini di genere femminile”, la Chiesa aveva bisogno di giustificare la sua intenzione di continuare a riservare l’ordinazione solo agli “uomini di genere maschile”. E dal momento che il divieto in relazione al sacerdozio femminile aveva sempre poggiato in maniera piuttosto decisa sull’evidente disuguaglianza delle donne rispetto agli uomini, la Chiesa si è trovata in un vicolo cieco. La complementarità sessuale, che fonda il sacerdozio esclusivamente maschile sulla differenza sessuale, piuttosto che sulla disuguaglianza sessuale, è diventata la soluzione a questo problema.
Tale ideologia divide sempre più il discepolato in base a criteri sessuali, sottolineando nelle donne l’iconica rappresentazione di Maria e negli uomini la rappresentazione di Gesù. Solo gli uomini possono stare sull’altare in persona Christi, perché Gesù Cristo era un uomo. Una “teologia del corpo” che tenta di attribuire importanza teologica e ontologica agli organi riproduttivi. Cosicché il significato di “donna” e di “uomo” può essere colto nel funzionamento eterosessuale dei loro organi genitali.
Nel suo libro del 2010, In cielo e in terra, l’allora cardinal Bergoglio ha descritto perfettamente questa linea di pensiero: «La tradizione fondata teologicamente vuole che ciò che è sacerdotale passi per l’uomo. La donna ha un’altra funzione nel cristianesimo, riflessa nella figura di Marta. È colei che accoglie, colei che contiene, la madre della comunità. La donna ha il dono della maternità, della tenerezza: se tutte queste ricchezze non si integrano, una comunità religiosa si trasforma in una società non solo maschilista, ma anche austera, dura ed erroneamente sacralizzata. Il fatto che la donna non possa esercitare il sacerdozio non significa che valga meno dell’uomo. Nella nostra concezione, in realtà, la Vergine Maria è superiore agli apostoli. Secondo un monaco del II secolo, tra i cristiani esistono tre dimensioni femminili: Maria, come madre del Signore, la Chiesa e l’Anima. La presenza femminile nella Chiesa non è stata sottolineata molto perché la tentazione del maschilismo non ha permesso di dare visibilità al ruolo che spetta alle donne nella comunità».
Giovanni Paolo II presenta nella Mulieris dignitatem una descrizione più completa di Maria come icona della femminilità. Come «il nuovo principio» della dignità e della vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna, vanificando la disobbedienza di Eva. Attraverso il suo “fiat” liberamente esercitato, Maria ha la funzione di «rappresentante e archetipo di tutto il genere umano». In questo, «rappresenta l’umanità che appartiene a tutti gli esseri umani, sia uomini che donne». Ma «d’altra parte, l’evento di Nazareth mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo che può appartenere solo alla “donna”, Maria: l’unione tra madre e figlio». Allo stesso modo in cui Maria agisce come un modello per le donne più che per gli uomini, così Gesù serve da modello per gli uomini più che per le donne. «Proprio perché l’amore divino di Cristo è amore di Sposo», argomenta Giovanni Paolo II, «esso è il paradigma e l’esemplare di ogni amore umano, in particolare dell’amore degli uomini-maschi».
I papi identificano giustamente la gravidanza come una capacità unica delle donne, ma interpretandola in modo teologicamente discutibile. Stando a loro, ci troviamo nella strana posizione di sostenere che il semplice possesso di un utero fornisce alle donne una più intensa esperienza di unione corporale con Dio rispetto a quanto possa fare un uomo. Tuttavia, se Maria ha effettivamente raggiunto l’unione con Dio portando il Figlio di Dio nel suo corpo, e se unicamente le donne possono rimanere incinte, nessuna donna prima o dopo Maria ha mai dato vita a Dio. La gravidanza di Maria si pone come un evento storico unico e irripetibile. (...). Contrariamente a quanto sostenuto dal papa, con la sua gravidanza Maria rivela la sua differenza da tutte le altre donne almeno tanto quanto la sua somiglianza come loro rappresentante. Nessuna donna, tranne Maria, è giunta all’unione del corpo con Dio attraverso la gravidanza. Esattamente come gli uomini cattolici, le donne cattoliche vivono l’unione corporale con Dio durante l’Eucaristia.
Dobbiamo affrontare un altro problema. Giovanni Paolo II crede che Maria e Gesù rappresentino un modello di genere per una seconda ragione. La femminilità, sostiene Giovanni Paolo II, esprime una passività essenziale, mentre la mascolinità incarna l’attività. «Lo Sposo è colui che ama. La Sposa viene amata: è colei che riceve l’amore, per amare a sua volta».
Ma il “sì” di Maria alla gravidanza è davvero così diverso dal “sì” offerto da Gesù nel giardino del Getsemani? Entrambi i “fiat” sono stati una risposta di sottomissione alla volontà di Dio. Proprio come Maria ha accolto la gravidanza, così Gesù ha accettato la crocifissione. (...). Sia Maria che Gesù rispondono all’amore offerto da Dio e dicono di sì con i loro corpi. Come spose, accettano il dono del loro amante e lo restituiscono con i loro corpi. Seguendo lo schema di Giovanni Paolo II, Dio Padre ha amato sia Maria che Gesù in modo maschile e sia Maria che Gesù lo hanno riamato in modo femminile. (...).
Le donne non rappresentano né un problema da risolvere né un mistero da spiegare. Contro la volontà di papa Francesco di attribuire alle donne una categoria teologica a se stante, affermiamo l’esistenza di un solo discepolato e di una sola salvezza.
E l’Osservatore si schiera contro femminicidio e stupri
di Marida Lombardo Pijola (Il Messaggero, 1 settembre 2013)
Contro gli stupri di guerra, che annientano la vita delle donne con più efficacia di quanto non riescano a fare mitra e carri armati. Contro gli stupri in pace, che ne massacrano a migliaia negli anfratti nella loro vita quotidiana, sepolti nella densità collettiva del silenzio. Contro il femminicidio. Contro le violenze domestiche, che distruggono famiglie intere, svuotandole di senso persino agli occhi del clero cattolico. Contro ogni orrore in danno di una donna. La Chiesa è sempre e comunque accanto a lei, rossa com’è. Rossa perché il rosso è colore di ogni cosa che riguardi lei. Rosso di violenza, rosso di stupro, rosso di allegria, rosso di coraggio, rosso di calore come il fuoco, rosso di parto come la vita, rosso come dev’essere, per chi sa immaginarlo, il colore della dignità. Ecco perché il rosso è il colore delle donne, spiega Giulia Galeotti nell’editoriale che introduce l’inserto ”Donna Chiesa Mondo”, in prossima uscita con l’Osservatore Romano, dedicato a un tema sul quale la Chiesa di Francesco proclama un impegno, annuncia una battaglia, diffonde un dolore: la violenza contro le donne. Quattro pagine dense di storie, reportage, denunce. Per schierarsi al fianco delle donne che subiscono brutalità.
LE PRIORITÀ
Ci si schiera contro gli stupri di guerra, armi belliche che disseminano disperazione umiliazione morte quasi più delle bombe e delle smitragliate. Uno sterminio di genere, una guerra nella guerra, una barbarie. L’inserto dell’Osservatore pubblica e fa propria la proposta del ministro degli Esteri britannico, William Hauge, che ha inserito la lotta agli stupri di guerra tra le priorità nazionali e internazionali, incoraggiando una dichiarazione contro queste pratiche da parte del G8. «Assieme alla Chiesa cattolica- scrive Hauge- possiamo sfidare la cultura dell’impunità e del silenzio». Sfida raccolta.
IL CORAGGIO DELLE DONNE
E intanto dall’inserto emergono figure femminili del passato e del presente scolpite nel dramma, nel dolore, nel coraggio. Pauline Aweto, filosofa nigeriana, combatte intensamente in Africa contro gli stupri, anche di massa, «che hanno natura pubblica, trasmettono intenzionalmente l’Aids, riguardano pure le donne incinte e vengono spesso seguiti dall’omicidio». Combatte pure contro le mutilazioni genitali, «non ancora debellate, anche a causa di medici che ci lucrano». Di Teresa Grigolini, suora comboniana, verosimilmente prossima alla beatificazione, Lucetta Scaraffia racconta il martirio, lo stesso di tante suore missionarie in zone di guerra, che sono tutt’ora a rischio di subire stupri. Teresa fu prima prigioniera e poi moglie forzata, costretta a rinunciare ai voti.
SUOR CLAUDIA
E poi le missionarie moderne in zone di pace, come suor Claudia, che alla Caritas di Milano, racconta Ritanna Armeni, accoglie, conforta e riabilita le donne maltrattate, aiutandole a fuggire dai loro mariti, quando occorre, «perché nel momento in cui in una famiglia entrano la sopraffazione e la fine della dignità femminile, viene meno il progetto di Dio». Dignità femminili sfregiate ovunque, in ogni momento. Khady, africana, scaraventata come schiava nel carico di un mercante di uomini perché non aveva saputo dare un figlio a suo marito; le filippine ricattate sessualmente dai funzionari delle ambasciate del Medio Oriente in cambio della possibilità di tornare in patria; le alunne congolesi abusate dai loro insegnanti (100 casi in 3 mesi in 2 scuole). Dolori infiniti, sconosciuti. Chissà quanti. Chissà dove
La delegittimazione di chi non è d’accordo
di Lucetta Scaraffia (L’Osservatore Romano, 28 giugno 2013)
La decisione della Corte suprema statunitense di accettare i matrimoni omosessuali non è solo una sconfitta per una gran parte di americani - basti ricordare che il matrimonio gay è accettato in soli dodici Stati - ma si accompagna a una martellante campagna mediatica. Il coro di commenti che circonda queste "vittorie della libertà" gronda infatti ideologia ed è poco rispettoso delle opinioni diverse.
Con le parole "ha vinto l’uguaglianza", forse non volendo, il presidente degli Stati Uniti ha toccato un punto centrale, quello cioè che considera uguali realtà che non lo sono, cioè maschio e femmina.
È infatti proprio la differenza sessuale a garantire la generazione e a fondare il matrimonio: con quello omosessuale si nega che questa differenza esista e abbia valore costitutivo, e si vuole affermare che la differenza, se riconosciuta, significa obbligatoriamente disuguaglianza. Si può invece garantire dignità e libertà uguali a donne e uomini, omosessuali ed eterosessuali, pur rispettando la realtà, e cioè la differenza.
Si sostiene in questo modo implicitamente un’altra affermazione non fondata: che il matrimonio faccia parte dei diritti umani, mettendo in secondo piano che esso è primariamente un’istituzione sociale e antropologica che richiede delle condizioni.
Ma tutto questo serve a confermare l’interpretazione corrente delle leggi che legalizzano il matrimonio per gli omosessuali: che si tratti di un progresso, di passi avanti verso la dignità e la libertà. Che da una parte, quella del matrimonio gay, ci sia la libertà e l’uguaglianza, e dall’altra, quella di chi lo nega, ci sia solo la vergogna per gli omosessuali. È una forzatura tendenziosa, che ha una funzione ben precisa: quella di negare ogni dignità al punto di vista di coloro che si schierano contro il matrimonio omosessuale, in modo da scoraggiarli dall’intervenire nel dibattito e lasciare quindi sola la Chiesa cattolica a difendere questa posizione, al massimo con il supporto di altre confessioni religiose. In modo da relegare tutto alla rubrica "fondamentalismi religiosi". Per questo numerosissimi laici che sono contrari a questa legalizzazione per la massima parte tacciono, per evitare di essere accusati di omofobia.
In questo clima di nuove "libertà", chi paga un prezzo altissimo e ingiusto è infatti chi vorrebbe anche solo aprire una discussione, chi è consapevole che si sta trasformando uno dei fondamenti antropologici di ogni società umana, e proprio per questo pensa che sarebbe il caso di discuterne con calma, serietà e coraggio. Delegittimando gli avversari - proprio perché hanno buone, anzi buonissime ragioni per opporsi - si ottiene certo il risultato di condizionare nel senso voluto l’opinione pubblica, ma ci si priva di ogni possibilità di riflettere sulla società che si vuole creare per il futuro. E questo silenzio è un prezzo troppo alto da pagare, per qualsiasi società e per qualsiasi popolo.
Pedro Almodovar: “Il Papa annulli il celibato per i preti e tratti meglio le donne”
Pedro Almodovar, intervistato a Los Angeles in occasione dell’uscita del suo ultimo film, ha rilasciato dichiarazioni sul Vaticano, le lobby gay e le trasformazioni che secondo lui la Chiesa dovrebbe attuare *
Il famoso regista Pedro Almodovar si trova a Los Angeles per presentare il suo nuovo film “I’m so excited”, una pellicola che tratta metaforicamente la politica spagnola. Intervistato dai giornalisti, ha voluto parlare del Papa soffermandosi in particolare sulla notizia dell’esistenza di lobby omosessuali dentro la Chiesa: “Conosco il problema, sono molto curioso della sessualità nel Vaticano, voglio saperne di più” , ha dichiarato.
“Sono serio, il Vaticano è molto lontano dalla realtà e dai problemi contemporanei- ha continuato il regista - Penso che dovrebbero finirla col celibato dei sacerdoti, ci sono molti problemi che potrebbero eliminare così. I religiosi sono esseri umani e la sessualità per noi è un dono, una cosa naturale che Dio ci ha dato, ma per loro è una punizione; credo che molti problemi della chiesa cattolica, a partire dagli scandali degli abusi sessuali nei seminari, sparirebbero. Quindi da qui, da Los Angeles, dico al nuovo Papa: per favore, annulli il celibato. Ma ho anche una cosa da dire sulle donne. Credo che in Europa non ci sia nessuna istituzione che tratti peggio il genere femminile”.
Almodovar spende parole anche riguardo le suore, dicendo che è ingiusto che non possano confessare e che siano trattate come se fossero “inferiori”. “E vorrei dare al Papa un consiglio - ha concluso - permetta alle suore di essere preti: io vorrei confessarmi con una di loro e ricevere la comunione da una donna”.
Ritanna Armeni: «Un modo diverso di vivere la fede»
intervista a Ritanna Armeni
a cura di Tullia Fabiani (l’Unità, 14 giugno 2013)
«È un’esperienza arricchente, mi ha aperto un mondo». Ritanna Armeni, giornalista, di sinistra, femminista, trascorsi a il manifesto e a l’Unità, coordina con Lucetta Scaraffia «Donne Chiesa Mondo» l’inserto femminile de l ’Osservatore Romano , il quotidiano della Santa Sede. Lo fa da un anno e ne è entusiasta. «L’idea era quella di fare un inserto mensile che valorizzasse il ruolo delle donne nella Chiesa. Sono circa 700 mila e hanno ancora un ruolo abbastanza nascosto, benché operino dappertutto: si occupano dei bambini, dei malati, dei preti; gestiscono attività umanitarie e missioni in tutto il mondo, ma il loro lavoro resta nell’ombra. Non è valorizzato da una Chiesa che in sostanza è ancora misogina».
Per la prima volta il giornale della Santa Sede ha un inserto femminile. Le donne cui si riferisce che ne pensano?
«Le donne che operano nella Chiesa e ne fanno parte sono consapevoli della misoginia ancora presente. A loro modo la combattono. Nella storia del cattolicesimo ci sono donne che hanno avuto un ruolo straordinario e che sono riuscite a vincere resistenze ed esclusioni. Ci sono tanti modi per combattere: noi siamo scese nelle piazze, abbiamo manifestato, chiesto leggi, loro agiscono attraverso la fede che hanno in Dio, attraverso il Vangelo, in cui le donne sono protagoniste, e attraverso un impegno, spesso silenzioso, ma determinante».
L’idea come è nata?
«L’idea è nata durante una passeggiata in campagna con Lucetta Scaraffia, una storica che da sempre si occupa di storia religiosa e storia delle donne, e con il direttore de l ’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian. All’inizio lui aveva qualche dubbio, poi ci ha pensato e deve dire che in poco tempo ha cambiato idea e ha sostenuto l’iniziativa. Il primo numero è uscito nel 2012, a maggio. Qualche settimana fa abbiamo compiuto un anno».
A distanza di un anno qual è il suo giudizio?
«Per quel che mi riguarda l’ho trovata un’esperienza decisamente arricchente, perché mi ha aperto un mondo. Mi ha fatto conoscere donne di cui ignoravo l’esistenza e scoprire visioni molteplici: religiose e non. Di recente ho intervistato un pastore valdese donna; ecco incontrare le diverse espressioni della fede presenti nell’universo femminile, per me che non ho fede, è un’occasione di grande confronto. E poi colpisce la differenza con l’atteggiamento maschile».
Anche nella fede c’è differenza di genere?
«Ho notato che c’è un modo diverso di vivere la fede; quello femminile è estraneo al potere e molto attento alla cura. La fede viene vissuta in modo molto più disinteressato e altruista dalle donne e questo mi colpisce e mi affascina».
E lei come vive la fede?
«Il mio rapporto con la spiritualità è sempre stato molto intenso. Non sono cattolica, ma ho una mia spiritualità e un profondo interesse per le religioni e per la fede che ho sempre coltivato. Penso che sia anche grazie a questa spiritualità che vivo felicemente questa esperienza editoriale e umana».
E il fatto di essere una donna di sinistra e di aver fatto battaglie per la legge sull’aborto e per il divorzio non è unproblema?
«Ho trovato una continuità di ricerca rispetto alla mia esperienza di militanza come donna di sinistra. Certo non c’è dubbio che se dovessimo affrontare alcuni temi - penso ad esempio all’aborto, ai matrimoni gay, all’eutanasia - ci sarebbero visioni e idee decisamente diverse. È chiaro che per l’Osservatore Romano valgono quelle espresse dalla Santa Sede, ma resta un ampio spazio di riflessione che si è aperto attraverso questa esperienza, in particolare sul ruolo delle donne e sulla necessità di valorizzarlo. Del resto questa è la ragione sociale dell’inserto. E poi devo dire un’altra cosa: se scrivessi oggi di aborto, per quanto convinta che la legge 194 sia una conquista da non mettere assolutamente in discussione, scriverei che adesso non è questo il problema».
Vale a dire?
«Credo che oggi la questione non sia così importante per le donne come lo era trenta anni fa. Oggi i figli non si fanno perché non c’è il lavoro e se c’è nella maggior parte dei casi è precario; non c’è una rete sociale di sostegno alla maternità, e quindi penso che il problema non sia tanto l’aborto quanto aiutare le donne, soprattutto le più giovani a essere madri».
Molte femministe e molte sue compagne, potrebbero dissentire. Ha già ricevuto critiche?
«La mia partecipazione alla realizzazione dell’inserto ha suscitato in generale molta curiosità, ma nessuno mi ha mai accusato di aver tradito degli ideali o una visione culturale e politica che ha sempre accompagnato la mia vita».
Progetti per il futuro?
«Non mi dispiacerebbe che diventasse un settimanale e magari uscisse tutti i giovedì».
Un falso amore porta alla violenza
di Dacia Maraini (Corriere della Sera, 14 maggio 2013)
Il femminicidio è, nel suo simbolismo profondo, un atto culturale e quindi di responsabilità collettiva. Viviamo in un sistema di formazione che esalta la violenza sui deboli, che coltiva l’odio di genere e abolisce il rispetto dell’altro. La cultura di mercato sta sostituendo la cultura dei diritti e dei doveri e nel grande mercato internazionale una delle merci più richieste è il corpo femminile.
La cosa peggiore è che le donne stesse hanno talmente bene introiettato il concetto di merce da comportarsi spesso e con molta naturalezza come tale. Non che sentirsi merce porti felicità, ma può dare una inebriante sensazione di essere al centro del desiderio e dell’avidità mercantile, di smuovere un turbine di denaro. Senza rendersi conto che ogni mercificazione comporta servitù e dipendenza, umiliazione e degrado.
Se partiamo da questa constatazione ci rendiamo conto che il femminicidio non si può risolvere solo con le manette e leggi piu severe, anche se manette e leggi piu severe servono. Per cambiare veramente ci vuole una educazione dal basso, che imponga un nuovo concetto di integrità della persona, che esiga rispetto verso la libertà dell’altro. Nonostante le tante dichiarazione di emancipazione infatti la distinzione dei ruoli è ancora molto forte.
L’Italia poi, come dice l’Onu, è uno degli ultimi Paesi europei in fatto di partecipazione maschile ai lavori domestici e di accudimento. Provate ad andare in un negozio di giocattoli. Ancora oggi la divisione è netta: bambole, cucinette, piccola sartoria per le bambine; fucilini, trenini, camion, e guerra in miniatura per i bambini.
Da tempi lontanissimi si è radicata l’idea che il diritto più naturale e intoccabile del maschio umano sia la proprietà della famiglia. Proprietà che dà diritto al controllo maritale, all’impronta del proprio sangue, del proprio nome, di una propria idea di educazione. Toccare tale principio crea spesso risentimenti viscerali e selvaggi. Da quando, in un famoso processo divino, descritto così bene da Eschilo, Apollo ha stabilito che il vero motore della vita è il padre e la madre è solo il vaso che contiene il seme maschile, gli uomini si sono appropriati storicamente di un potere intimo e immutabile che costituisce, ancora per troppi, la base dell’identità virile.
Tutti i casi di violenza di questi ultimi anni mostrano una stessa struttura: una coppia che si sceglie e si ama. A un certo punto la donna decide di andare via o di rompere il rapporto. E l’uomo, che ha puntato tutto su quella proprietà, entra in crisi, diventa intollerante e violento, fino ad arrivare all’omicidio. Seguito spesso dal suicidio, segno che si tratta di una vera e propria tragedia per chi non sa accettare i cambiamenti, la perdita dei privilegi, la soppressione del concetto di proprietà.
Se vogliamo che questa violenza cessi, dobbiamo lavorare su quel sentimento di proprietà: «Io ti amo e quindi sei mia», dato troppo spesso come naturale e assecondato da troppe retoriche sentimentali.
Disobbedendo agli uomini, obbediamo allo Spirito. L’omelia di una donna prete *
PER UNA COMUNITÀ DI EGUALI
di Janice Sevre-Duszynka
Il Cristo risorto apparve per primo a Maria di Magdala affidandole il compito di farsi apostola presso gli apostoli. Che cosa farebbe e direbbe oggi? Come Gesù, suo maestro, sfiderebbe le autorità religiose e civili schierandosi a favore degli emarginati, tra cui le donne, e facendo appello a relazioni di giustizia e di uguaglianza.
Mentre si riunisce il Conclave, dove sono le donne? Dove sono gli uomini sposati? Dove sono i poveri? Dove sono i bambini e i giovani? Dove sono gli emarginati? Il Vaticano regala fiori alle donne, ma ciò che esse vogliono è la piena uguaglianza. Le donne prete sono qui!
Gli uomini del Vaticano sono così vincolati da scegliere di ignorare - colpevolmente - il movimento dello Spirito nel popolo di Dio? Preghiamo per loro. Come può la Chiesa parlare di giustizia quando la gerarchia non mette in pratica ciò che predica? Diciamo ai nostri fratelli: non limitatevi ad aprire le finestre, come nel Vaticano II, ma spalancate le porte del Conclave e lasciate entrare il popolo di Dio. Lasciate entrare le vostre sorelle.
La voce di Dio esprime nel nostro tempo la piena uguaglianza delle donne e degli uomini nella Chiesa e nella società, nel nostro mondo in cerca di comunità, di un legame profondo con lo Spirito presente nell’altro!
I leader della nostra Chiesa, i cardinali, hanno avuto centinaia di anni per dire sì al sacerdozio delle donne e degli uomini sposati, riconoscendo il ruolo di tutti coloro che sono impegnati nella creazione di una Chiesa più inclusiva, di una comunità d’amore in cui tutti siano i benvenuti e ricevano i sacramenti. E la sentiamo, la voce dello Spirito che sorge dalla base del popolo di Dio! Le donne prete sono qui!
Le nostre prime donne vescovo sono state ordinate da un vescovo uomo in una linea di successione apostolica, per promuovere la giustizia nella nostra Chiesa. Quante di noi hanno lavorato per anni nel movimento per l’ordinazione femminile hanno sempre affermato che, una volta che le donne fossero state ordinate, come lo siamo ora, non si sarebbe trattato solo di preti che si aggiungevano a preti. Abbiamo sempre chiesto un sacerdozio rinnovato in una Chiesa riformata. Ciò comporta la creazione di una comunità di uguali dove tutti, e non solo il prete, condividano ed esprimano i doni dello Spirito. La nostra funzione di donne prete è il servizio, non l’esercizio di un potere maggiore. Sono passati più di dieci anni da quando sette donne sono state ordinate sul Danubio, nel 2002. Nel 2006, 12 donne sono state ordinate a Pittsburgh: si è trattato delle prime ordinazioni negli Stati Uniti. Ora sono circa 150 in Europa, Stati Uniti, Canada e America Latina.
Nel nostro modello di comunità di fede, tutti sono benvenuti, tutti hanno uguali diritti. Non costituiamo una gerarchia. Non vogliamo replicare il modello clericale. Ciononostante, è molto importante per noi ottenere giustizia per le donne prete, per le immagini femminili di Dio, per il modo in cui le donne esprimono il sacro, perché i vangeli siano interpretati a partire dalla nostra vita e dalla nostra morte in quanto donne, dalla vita e dalla morte degli uomini sposati, dei poveri e degli emarginati. Lo Spirito esige che le richieste delle persone siano ovunque ascoltate, soddisfatte e considerate pienamente giuste e sane.
Le donne prete come noi sono state ordinate in una fase di passaggio. Dobbiamo rivendicare l’ordinazione come una questione di giustizia, per i nostri diritti di donne. Lo facciamo contra legem. Trasgrediamo una legge ingiusta ma restiamo all’interno della Chiesa cattolica. Il sacramento dell’Ordine deriva dal nostro battesimo, non dal genere.
Consideriamo il nostro ruolo come servizio e guida, non come potere o esclusione. Nelle nostre comunità di donne prete pratichiamo una decisionalità condivisa in un “discepolato di uguali”. Celebriamo liturgie inclusive in cui tutti vengono accolti, tutti partecipano e tutti possono avvertire un senso di appartenenza. Vogliamo appartenere, in spirito di comunione, a comunità in cui poter esprimere i nostri più profondi bisogni, desideri e aspirazioni. Qui, il nostro modello di Chiesa si eleva nello Spirito.
Poiché siamo tutti corpo di Cristo, nelle nostre celebrazioni eucaristiche tutti consacrano l’Eucaristia, tutti pronunciano l’omelia, tutti si benedicono reciprocamente. Tutti scrivono liturgie inclusive, incorporando tanto le immagini femminili quanto quelle maschili di Dio. Le donne prete rendono visibile il fatto che anche le donne sono immagini di Dio e quindi degne di presiedere all’altare. Vivono l’obbedienza profetica allo Spirito disobbedendo al diritto canonico, ingiusto, stabilito dall’uomo e discriminante nei riguardi delle donne nella nostra Chiesa. Il sessismo, come il razzismo, costituisce un peccato. Come Rosa Parks, il cui rifiuto di sedersi in fondo all’autobus nella zona riservata ai neri contribuì a innescare il movimento dei diritti civili, le donne prete non abbandonano la Chiesa, ma la traghettano verso una nuova era di giustizia e uguaglianza. Nessuna punizione, neppure la scomunica, potrà fermare questo movimento dello Spirito.
In Austria, Germania, Irlanda, Spagna, Portogallo, Svizzera, Australia e Stati Uniti, preti, vescovi e teologi hanno manifestato il loro appoggio alle donne prete, ai preti sposati e alle comunità di fede inclusive. Seguono così le orme di p. Roy Bourgeois, il prete di Maryknoll recentemente scomunicato ed espulso dall’ordine, colpevole di aver profeticamente espresso la necessità di un dialogo sulle donne prete nella nostra Chiesa. Sostiene p. Bourgeois: «Il silenzio è la voce della complicità. Perciò chiedo a tutti i cattolici, ai preti, ai vescovi, al papa e a tutti i leader della Chiesa in Vaticano di esprimersi a voce alta in merito alla grave ingiustizia dell’esclusione delle donne dal sacerdozio». L’arcivescovo di San Salvador mons. Oscar Romero è stato assassinato per la sua difesa degli oppressi. «Lasciate - diceva - che coloro che hanno voce parlino per i senza voce».
Il nostro Dio che ci ama ci ha dato la voce. Parliamo in modo chiaro e coraggioso e camminiamo, come avrebbe fatto Gesù, nella solidarietà con le donne nella nostra Chiesa, chiamate da Dio al sacerdozio.
* Adista Documenti n. 14 del 13/04/2013
Francesco, sì, ma con Chiara
di Anne Soupa
in “quebec.huffingtonpost.ca” del 14 marzo 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
La veloce elezione del papa porta con sé la sua dose di sorpresa e di domande a cui si muore dalla voglia di poter rispondere. Si ha un bel dire che il cardinal Bergoglio era il numero due dell’elezione del 2005, non era comunque tra i favoriti del 2013. Senza dubbio le caratteristiche abbastanza evidenti della sua personalità, grande rigore morale, ascesi, livello intellettuale elevato (gesuita) e forte orientamento a favore dei poveri, mostrano, a specchio, i bisogni urgenti a cui rispondere: ricentramento sull’essenziale, risanamento morale, capacità di discernimento.
Questa maniera di far adottare dai cardinali, questa convinzione che i disordini collettivi devono essere curati innanzitutto con l’esempio di uno solo la cui personalità, la cui esperienza, il cui ardore sono considerati determinanti, mi sembra assolutamente conforme alla grande tradizione della Chiesa e, andando oltre, alla corrente profetica della Bibbia. Il profeta è quella figura unica nella quale si gioca la conversione di tutti. Ora, oggi, è di una conversione gigantesca di cui ha bisogno la Chiesa. Il collegio dei cardinali ha voluto mostrare che l’esempio viene dall’alto.
La lezione mi pare chiara e potrebbe ispirare le politiche di ciascuno di noi, elettore, quando mette la sua scheda nell’urna: non sarebbe fruttuoso, in questi tempi di crisi, che l’esempio venga dai politici stessi? Perché il successo di una politica non viene solo dalla soluzione di un problema tecnico, per la quale basterebbero le competenze, ma anche della capacità di accogliere l’uomo nella sua interezza: non solo colui che guida, ma anche coloro che, solo se lui mostra l’esempio, lo seguiranno. La vera politica è l’arte di creare dei rapporti, non dimentichiamolo.
Spero quindi che questo papa sappia trascinare con sé molti fedeli nella conversione che intraprenderà. Allora, il problema sarà di non fare di questa figura emblematica il padre, il capo, l’idolo, bensì il fratello. Anche in questo, i pochi indizi che abbiamo già, sono chiari.
Questo papa si chiama Francesco, in riferimento al poverello di Assisi, il campione della fraternità, l’uomo che non ha mai voluto essere prete per non rischiare di creare la minima distanza coi suoi fratelli!
Se il nuovo papa riesce a restare l’uomo che incarna la conversione della Chiesa senza cadere nella trappola della “papolatria”, cosa che il suo primo messaggio fa pensare (non ha pronunciato la parola papa, ma quella di vescovo di Roma), avremo guadagnato qualcosa. Che cosa?
Forse l’inizio per la Chiesa cattolica di un migliore rapporto con il mondo, il rapporto della fraternità, di cui il vangelo è una inesauribile miniera, nel mondo aperto che è diventato quello in cui viviamo. Nessun dubbio anche che la scelta di un nome che non era ancora mai stato portato sia presagio di questa volontà di fare cose nuove, inedite.
In ogni caso, il riferimento francescano mi sembra di estrema ricchezza e si adatta al meglio alle realtà attuali. Francesco è un grande innovatore, un essere in ascolto dei bisogni nuovi del mondo del suo tempo. È anche il santo che non ha mai represso il suo essere profondo, ma lo ha unificato, accettando il male, la finitudine, il fallimento. Leonardo Boff, il teologo della Liberazione, opponeva il santo “perfetto” che combatteva le sue tendenze “cattive” per raggiungere la perfezione, il cui modello era Carlo Borromeo, a Francesco, modello del santo “unificato”, che accoglie tutti gli aspetti del suo essere e li mette al loro giusto posto.
Nella sensibilità francescana c’è un grande ascolto di se stesso. Sicuramente è ciò che ha fatto dire al cardinal Bergoglio, quando gli avevano proposto un incarico romano, nel 2001: “Per carità, in curia muoio!”
Bella prova di salute! Certamente un tale sussulto fa presagire l’estrema vigilanza che questo papa manifesterà nei confronti della curia. Ma non basterà che sia vigilante, occorrerà che non abbassi la guardia, perché la forza della curia è di durare, mentre i papi passano. La curia è una fenice che rinasce dalle proprie ceneri quando la si credeva morta. Basta un solo esempio: i titolari dei dicasteri non danno mai le dimissioni: muoiono con la loro carica.
Sicuramente le donne hanno qualcosa da guadagnare dal fatto che la curia venga governata, perché questo luogo è con tutta evidenza quello della massima paura nei loro confronti. Ma un altro indizio, ancor più simpatico, è a favore di una revisione profonda della concezione inaccettabile che prevale ancora a Roma sulle donne. Ancora una volta, si tratta del riferimento francescano.
L’amicizia di Francesco e di Chiara, nobile ragazza di Assisi che Francesco ha trascinato al suo seguito, è uno dei tesori del cristianesimo. Francesco ha manifestato verso Chiara una estrema delicatezza di sentimenti, una capacità di presenza straordinaria. Non c’è cristiano che non sia nutrito da questa amicizia, tanto essa va al limite dei sentimenti umani, tanto li lascia esprimere senza reprimerli.
Quindi, posso solo rallegrarmi dell’elezione di un papa non compromesso con la curia, armato per il discernimento, che si mette sui passi del Poverello d’Assisi, fratello prima di tutto; “neanche prete”. E, come donna, poiché lo sono, non posso che ripetere: Francesco sì, ma non senza Chiara!
Il «Conclave delle donne»
di Bureau du Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 27 febbraio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il “Comité de la Jupe” con il sostegno della Conferenza dei Battezzati e delle Battezzate, ha deciso di riunire il “Conclave delle donne”, il 9 marzo prossimo, a Parigi.
Questo “Conclave delle donne” prende atto del fatto che le donne hanno delle cose da dire sulle richieste spirituali dei nostri contemporanei e sui mezzi che si ritiene che siano necessari alla Chiesa per essere in grado di compiere la sua missione in futuro. Alla vigilia dell’apertura del Conclave, conclave di uomini (maschi), “mezzo conclave”, è opportuno ricordare il valore del contributo delle donne su questioni essenziali.
Vi parteciperanno settantadue donne, come i settantadue discepoli che Gesù aveva inviato in missione (Luca 10). Settantadue donne che danno voce a tutte quelle donne in vearie parti del mondo, la cui fede, le cui competenze, il cui coinvolgimento per il bene comune o la causa dei più deboli potrebbero fare di loro delle “cardinalesse” di grande valore.
Se desiderate far parte del Conclave delle donne, inviate la vostra richiesta nello stesso modo in cui
si inviano i commenti.
http://www.comitedelajupe.fr/evenement/le-conclave-des-femmes/
Vi risponderemo nella misura dei posti disponibili.
Svolgimento del Conclave delle donne (senza pubblico)
Il conclave delle donne comporterà due momenti di preghiera, per portare le nostre riflessioni davanti al Signore e chiedergli il suo aiuto. La maggior parte dei lavori dell’incontro consisterà nell’ascoltare i contributi delle partecipanti sui cinque temi seguenti:
1.
Le urgenze del nostro tempo
Che cosa aspettano i nostri fratelli e le nostre sorelle (credenti e non), quali sono i loro
dolori, le loro gioie, i loro tesori (“L
à dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”, Mt 6,21)?
2.
La nostra fede
In che cosa consiste la nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità, dov’è la salvezza,
come la mettiamo col male?...
3.
Il modo in cui la Chiesa rende conto della sua missione
La Chiesa risponde alla sua missione? Come testimonia un Dio che libera, un Dio che ama,
un Dio che fa sperare?
4.
I mezzi che la Chiesa si dà per essere configurata alla sua missione
Quali disposizioni assume? Collegialità, sussidiarietà, trasparenza, finanziaria in particolare,
misericordia... Come aveva chiesto Giovanni XXIII, che il Concilio Vaticano II eserciti “la
medicina della misericordia”, c’è oggi una misericordia da esercitare (verso i divorziati
risposati, ad esempio), occorre chiedere che siano superate tutte le condanne e le
discriminazioni fatte in base al sesso.
5.
Gli atti profetici che ne derivano
Dovranno essere proposti dalle partecipanti e saranno oggetto di votazione.
L’Ufficio del Comité de la Jupe
LUCETTA SCARAFFIA IN PIENO SONNO DOGMATICO NON HA ANCORA CAPITO CHE COSA SIGNIFICHI LA RINUNCIA DI RATZINGER.
Lo spazio delle donne nella chiesa che verrà
di Lucetta Scaraffia (Il Messaggero, 21 febbraio 2013)
«Il genio femminile non ha bisogno di cariche gerarchiche per affermarsi nella Chiesa!»: con queste parole Papa Woityla aveva sintetizzato il suo pensiero sul ruolo delle donne nella Chiesa, ma nonostante la sua bellissima lettera apostolica “Mulieris dignitatem”, che chiariva una volta per tutte che la differenza femminile doveva essere accolta come una ricchezza, e non come una inferiorità, alla sua morte la questione era ancora aperta. E ancora aperta rimane anche oggi, dopo la decisione di Benedetto XVI, come sottolineano tutti i commentatori quando elencano i problemi che dovrà affrontare il nuovo pontefice.
Papa Benedetto, nel suo modo silenzioso ma efficace, ha contribuito senza dubbio a una maggiore visibilità delle donne nella Chiesa: non solo durante il suo pontificato sono aumentate e salite di grado le donne che lavorano per la Santa Sede e nei suoi organismi, ma ha voluto che crescessero nell’Osservatore Romano le collaborazioni femminili, fino a permettere la creazione di un mensile, “Donne, Chiesa, Mondo”, pensato proprio per dare voce alle donne che operano nella Chiesa.
Nella Chiesa infatti le donne stanno svolgendo un ruolo fondamentale. Non solo costituiscono più della metà dei religiosi, ma anche nelle parrocchie assumono compiti insostituibili come il sostegno ai poveri, l’insegnamento del catechismo, l’assistenza agli anziani.
Ma il problema si pone soprattutto se si confronta la Chiesa con il mondo occidentale, dove le donne ormai hanno raggiunto una completa parità con gli uomini, e svolgono anche ruoli direttivi di primaria importanza. Allora la differenza salta agli occhi, e il Vaticano, cioè l’insieme delle più alte gerarchie ecclesiastiche, appare un mondo strettamente maschile.
In realtà, soprattutto negli ultimi anni, sono molto aumentate le donne che lavorano all’interno delle sacre mura, e un po’ sono anche salite di grado. Ma la differenza rimane tuttora significativa, e rischia di far considerare come nemica dell’emancipazione femminile una istituzione che, almeno fino alla prima metà del Novecento, aveva dato alle donne molte maggiori possibilità di affermazioni e libertà che non il mondo laico. E rischia di pregiudicare la nuova evangelizzazione, nonché la crescita delle vocazioni femminili.
Si può ben capire quindi come nelle file di molti istituti religiosi, o di altri tipi di organizzazione in cui le donne sono ampiamente presenti, serpeggi ormai da qualche anno un profondo malcontento, che può arrivare perfino, in alcune frange più radicali, a un’aperta protesta che si accompagna alla richiesta del sacerdozio femminile, visto come l’unica strada per le donne per ottenere un ruolo riconosciuto nella Chiesa.
Sono sorte così associazioni femminili che si pongono in posizione fortemente critica nei confronti della Chiesa ufficiale, mutuando parole d’ordine dal femminismo e accettando perfino di utilizzare la categoria del “gender”, che dovrebbe sostituire il concetto di differenza sessuale. Un’uguaglianza totale, che nega ogni specificità: proprio il contrario del programma di femminismo cattolico proposto da Woityla con la “Mulieris dignitatem” e da Ratzinger nella lettera ai vescovi “sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo”.
Si va dal “Comité de la jupe” in Francia, alle proteste delle religiose americane, dagli scritti di teologhe radicali a interventi di intellettuali dissenzienti, come Hans Küng. Non è certo questa la via che seguirà la Chiesa per affrontare il problema, come i documenti pontifici hanno già chiarito da tempo. E anche le sostenitrici del sacerdozio femminile dovranno farsene una ragione: anche perché non c’è nessun bisogno di ordinare le donne prete per aprire loro le porte di ruoli di responsabilità, che hanno già dimostrato di sapere sostenere molto bene.
È sufficiente che la necessità del riconoscimento di una alterità - che tra l’altro è il fondamento del matrimonio cristiano - per la fertilità della diffusione della fede venga riconosciuta anche dalle istituzioni ecclesiastiche, che dovrebbero solo applicare anche al loro interno le giuste parole che rivolgono al mondo. Basta che nella Chiesa prevalgano il merito e l’umiltà e non il carrierismo e il peso delle cordate, proprio come auspica Benedetto XVI. In una ristabilita meritocrazia le donne non dovrebbero avere difficoltà a trovare il loro posto.
Noi, cattolici, ci rifiutiamo di condannare “il genere”
di Anne-Marie de la Haye e la segreteria del Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 27 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Siamo delle cristiane e dei cristiani, fedeli al messaggio del vangelo, e viviamo lealmente questo attaccamento all’interno della Chiesa cattolica. La nostra esperienza professionale, i nostri impegni associativi e le nostre vite di uomini e di donne ci danno la competenza per analizzare le evoluzioni dei rapporti tra gli uomini e le donne nelle società contemporanee, e per discernervi i segni dei tempi.
Abbiamo preso conoscenza delle raccomandazioni del nostro Santo Padre, papa Benedetto XVI, rivolte al Pontificio Consiglio Cor Unum, nelle quali esprime la sua opposizione nei confronti di quella che chiama “la teoria del genere”, mettendola sullo stesso piano delle “ideologie che esaltavano il culto della nazione, della razza, della classe sociale”. Riteniamo questa condanna infondata ed infamante. Il rifiuto che l’accompagna di collaborare con ogni istituzione suscettibile di aderire a questo tipo di pensiero, è ai nostri occhi un errore grave, tanto dal punto di vista del percorso intellettuale che della scelta delle azioni intraprese a servizio del vangelo.
Affermiamo qui, con la massima solennità, che non possiamo aderirvi.
In primo luogo, è sterilizzante. Infatti, nel campo del pensiero, rifiutare di prender conoscenza di certe opere, o di affrontare argomenti con certi partner senza mostrare a priori un atteggiamento benevolo e disponibile al dibattito non è il modo migliore per progredire in direzione della verità.
Che cosa sarebbe successo se Tommaso D’Aquino si fosse astenuto dal leggere Aristotele, con il pretesto che non conosceva il vero Dio e che le sue opere gli erano state trasmesse da traduttori musulmani?
Del resto, sul campo, sapere se si deve o meno collaborare con soggetti animati da idee diverse dalle nostre, è una decisione che può essere presa solo in quel luogo e in quel determinato momento, in funzione delle forze presenti e dell’urgenza della situazione. Cosa sarebbe successo, a proposito della lotta contro il nazismo e il fascismo, se i resistenti cristiani avessero rifiutato di battersi accanto ai comunisti, atei e solidali di un regime criminale?
Veniamo ora al tema in questione: smettiamola di lasciare che si dica che la nozione del genere è una macchina da guerra contro la nostra concezione di umanità. È falso. Essa è frutto di una lotta sociale, e cioè la lotta per l’uguaglianza tra uomini e donne, che si è sviluppata da circa un secolo, inizialmente nei paesi sviluppati (Stati Uniti d’America ed Europa), e di cui i paesi in via di sviluppo cominciano ora a sentire i frutti. Questa lotta sociale ha stimolato la riflessione di ricercatori in numerose discipline delle scienze umane; queste ricerche non sono terminate, e non costituiscono affatto una “teoria” unica, ma un insieme diversificato e sempre in movimento, che non bisognerebbe ridurre ad alcune sue espressioni più radicali.
Il vero problema non è quindi ciò che si pensa della nozione di genere, ma ciò che si pensa dell’uguaglianza uomo/donna. E, di fatto, la lotta per i diritti delle donne rimette in discussione la concezione tradizionale, patriarcale, opposta all’uguaglianza, dei ruoli attribuiti agli uomini e alle donne nell’umanità.
Nelle società in via di sviluppo in particolare, la situazione delle donne è ancora tragicamente lontana dall’uguaglianza. L’accesso delle donne all’istruzione, alla salute, all’autonomia, al controllo della loro fecondità si scontra con forti resistenze delle società tradizionali. Peggio ancora: in certi luoghi è costantemente minacciato perfino il semplice diritto delle donne alla vita, alla sicurezza e all’integrità fisica.
Non si può, come fa il papa nei suoi interventi a questo proposito, pretendere che si accolga come autentico progresso l’accesso delle donne all’uguaglianza dei diritti, e continuare al contempo a difendere una concezione di umanità in cui la differenza dei sessi implica una differenza di natura e di vocazione tra gli uomini e le donne. C’è in questo una contorsione intellettuale insostenibile.
Come negare infatti che i rapporti uomo/donna siano oggetto di apprendimenti influenzati dal contesto storico e sociale? Pretendere di conoscere assolutamente, e col disprezzo di ogni indagine condotta con le acquisizioni delle scienze sociali, quale parte delle relazioni uomo/donna deve sfuggire all’analisi sociologica e storica, manifesta un blocco del pensiero del tutto ingiustificabile.
Dietro questo blocco del pensiero, sospettiamo un’incapacità a prender posizione nella lotta per i diritti delle donne. Eppure, questa lotta non è forse quella delle oppresse contro la loro oppressione, e il ruolo naturale dei cristiani non è forse quello di rovesciare i potenti dai troni?
Levarsi a priori contro anche solo l’uso della nozione di genere, significa confondere la difesa del Vangelo con quella di un sistema particolare. La Chiesa ha fatto questo errore due secoli e mezzo fa, confondendo difesa della fede e difesa delle istituzioni monarchiche, e più tardi dei privilegi della borghesia. Rifacendo un errore analogo, ci condanneremmo ad una emarginazione ancora maggiore di quella in cui ci troviamo già attualmente. Come non temere che questa condanna frettolosa sia uno dei tasselli di una crociata antimodernista mirante a demonizzare un’evoluzione contraria alle posizioni acquisite dell’istituzione?
Per questo motivo, con viva preoccupazione, ci appelliamo ai fedeli cattolici, ai preti, ai religiosi e alle religiose, ai diaconi, ai vescovi, affinché evitino alla nostra chiesa questa situazione di impasse intellettuale, e perché sappiano riconoscere, dietro a una disputa di termini, le vere poste in gioco della lotta per i diritti delle donne, e il giusto posto della loro Chiesa in questa lotta evangelica.
Le donne come soggetti, oltre il ruolo di madri e spose
di Maria Cristina Bartolomei (“Jesus”, gennaio 2013)
L’atmosfera natalizia colora di sé l’inizio del nuovo anno, proseguendo liturgicamente nella celebrazione della maternità di Maria, della Sacra Famiglia e dell’Epifania. Anche indipendentemente dalla fede, tali festività comunicano un forte messaggio simbolico di attenzione al mistero di vita nuova che ogni neonato reca con sé in dono per tutti, alla famiglia e, in modo tutto particolare, alla figura della madre. Ma quanto tali simboli hanno veramente improntato di sé la nostra civiltà? Gli orrendi crimini che si consumano oggi sui bambini (pedofilia, traffico d’organi, sfruttamento del lavoro, schiavizzazione, prostituzione) sono versioni aggiornate di una violenza sui minori che, semmai, in epoca moderna si è attenuata, e che oggi viene almeno condannata e combattuta sul piano sociale e legislativo.
Sembra invece accrescersi, anziché attenuarsi, la violenza sulle donne, che presenta forme sempre più estreme. Maltrattamenti, stupri, molestie, molte forme di oppressione e schiavizzazione, fino al femminicidio: nel 2012 nella sola Italia più di cento donne sono state uccise da uomini quasi sempre loro partner o familiari. Una strage sulla quale ci si deve interrogare e che impone risposte sul piano del costume e della cultura.
Quando si parla della famiglia non si dovrebbe dimenticare, accanto a tutte le note positive, anche tale nota sinistra: di famiglia le donne non solo vivono, ma anche muoiono. Per questo, la stessa esaltazione della figura materna può rivelarsi un’arma a doppio taglio, giacché rischia di ridurre la donna a una, per quanto nobile e altissima, funzione, invece di valorizzarla in sé, in quanto essere umano.
L’attenzione alla madre può infatti celare e indurre una distorsione dello sguardo: la donna vale in quanto e perché genera, perché genera uomini. E, così, le categorie entro le quali la vita femminile è stata a lungo compresa e compressa (vergine-sposa-madre), che ci danno un’immagine della donna non come un soggetto che guarda il mondo, ma come un oggetto, come una guardata dagli uomini, definita dalla sua relazione con l’universo maschile.
Mai si è, invece, pensato di poter comprendere l’uomo riducendolo alle categorie di vergine-sposo-padre, che pure gli si attagliano. La coscienza media ecclesiale non si sente investita dal fenomeno della violenza sulle donne quanto dovrebbe, giacché, nonostante la forza liberante dell’Evangelo, della prassi di Gesù e della comunità cristiana primitiva, e benché il cristianesimo abbia contribuito moltissimo alla liberazione delle donne, le tradizioni e la mentalità ecclesiastiche sono state e sono ancor oggi profondamente contaminate da misoginia, dal disprezzo per le donne, dalla non percezione della necessità del loro apporto nella vita sociale e ancor più ecclesiale, dal non riconoscimento che la loro umanità e quella dell’uomo sono equivalenti nella loro diversità, segnate da una non adeguata coscienza della piena soggettività e libertà femminili e da molte consuetudini e pregiudizi ad esse avverse.
Il 25 novembre scorso si è celebrata la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nello stesso giorno ricorre la memoria liturgica di santa Caterina d’Alessandria che, secondo la tradizione, subì il martirio nel 305: si era infatti rifiutata di adorare gli dei pagani durante i festeggiamenti per il tetrarca Massimino Daia, cercando, anzi, con argomentazioni profonde, di convertire quest’ultimo. Data la sua giovinezza, bellezza e il suo essere di stirpe regale, l’imperatore tentò di salvarla, inviandole un gruppo di filosofi e retori per indurla ad abiurare la sua fede. Ma fu lei a persuaderli: aderirono al cristianesimo e morirono martiri.
È difficile distinguere in tutto ciò la storia dalla leggenda (tanto che per quattro decenni la Chiesa cattolica la escluse dal martirologio, riammettendovela nel 2002), essendo i documenti disponibili assai tardivi. Santa Caterina - alla quale Giustiniano intitolò il celebre monastero sul monte Sinai, dove narra la leggenda il suo corpo sia stato trasportato dagli angeli - è tuttavia venerata da tempi antichissimi da tutte le Chiese cristiane che ammettono il culto dei santi e che ci hanno in tal modo trasmesso il messaggio della capacità apostolica, teologica e filosofica delle donne.
Una cosa così inaudita per la cultura patriarcale e androcentrica da far pensare che la storia sia vera: tanto è difficile immaginare che se la siano inventata! La figura di santa Caterina addita una via decisiva: valorizzare le capacità dello spirito e della mente delle donne, liberandole dall’essere ridotte allo sguardo della cultura androcentrica. Ciò è a vantaggio non solo delle donne, ma di tutta l’umanità, e al fine di una maggiore trasparenza della Chiesa nel servizio all’Evangelo.
Il rinnovamento della società e della politica in crisi richiede l’apporto delle donne. E perché il messaggio evangelico possa raggiungere le donne, queste debbono sentirsi rispettate e riconosciute: non ci sarà un’evangelizzazione veramente nuova senza che le donne ne siano piene destinatarie e coprotagoniste.
PREMESSA. Note sul tema:
RIDOTTA LA DONNA A "FEMMINILE" (A "FEMMINA") E L’UOMO A "MASCHILE" ("MASCHIO"), PER IL PAPA la "relazione personale" con Dio (concepito come "Uomo-Maschio") può essere solo dell’ "Uomo-Maschio" e dell’intero ordine sacerdotale (uomini-maschi). Che il "maschile" e il "femminile" sia di ogni essere umano (dell’uomo come della donna), che Due Persone ("due cherubini") siano i custodi della Legge (l’ Arca dell’Alleanza Mosaica) e Due Persone ("Maria" e "Giuseppe") siano i "genitori" e i custodi della Legge Vivente (Gesù) della Nuova Alleanza è una bestemmia che va sanata con un modello di famiglia intesa - in modo talebanico - biologicamente e naturalisticamente, in nome del suo Dio ("Deus caritas est", 2006) e del suo "Dominus Iesus"!!!
Il Papa dice no alla filosofia «di genere»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 20 gennaio 2013)
«La Chiesa ribadisce il suo grande sì alla dignità e bellezza del matrimonio come espressione di fedele e feconda alleanza tra uomo e donna. E il no a filosofie come quella del "gender" si motiva per il fatto che la reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura voluta dal Creatore».
Benedetto XVI si è rivolto ieri al Consiglio «Cor Unum», il dicastero vaticano che amministra le opere di carità del Papa, e ha ripreso il filo del discorso alla Curia, prima di Natale, quando parlò dell’«attentato all’autentica forma della famiglia - costituita da padre, madre e figlio - al quale oggi ci troviamo esposti»: citando l’intervento del Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim contro il «matrimonio per tutti» e le adozioni a coppie gay, il Papa aveva criticato la «profonda erroneità» della teoria di genere, per la quale «il sesso non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente».
Anche ora Ratzinger, secondo il suo stile, non lancia anatemi ma argomenta intorno alla «deriva» dell’uomo contemporaneo, al «prometeismo tecnologico» per cui «ciò che è tecnicamente possibile diventa moralmente lecito». E parte da una considerazione: «Il cristiano deve lasciarsi orientare dai principi della fede, mediante la quale noi aderiamo al punto di vista di Dio, al suo progetto su di noi».
In ogni epoca, dice, «quando l’uomo non ha cercato tale progetto, è stato vittima di tentazioni culturali che hanno finito col renderlo schiavo». In particolare «le ideologie che inneggiavano al culto della nazione, della razza, della classe sociale si sono rivelate vere e proprie idolatrie».
Ma non ci sono solo i totalitarismi atei, dal nazismo al comunismo: «Altrettanto si può dire del capitalismo selvaggio col suo culto del profitto, da cui sono conseguite crisi, disuguaglianze e miseria». Anche il nostro tempo «conosce ombre che oscurano il progetto di Dio».
Qui sta il punto, scandisce Benedetto XVI. «Mi riferisco a una tragica riduzione antropologica che ripropone l’antico materialismo edonista, cui si aggiunge però un prometeismo tecnologico: dal connubio tra una visione materialistica dell’uomo e il grande sviluppo della tecnologia emerge un’antropologia nel suo fondo atea», prosegue. «Essa presuppone che l’uomo si riduca a funzioni autonome, la mente al cervello, la storia umana ad un destino di autorealizzazione. Tutto ciò prescindendo da Dio, dalla dimensione spirituale e dall’orizzonte ultraterreno». Così l’uomo si «assolutizza», cioè pretende di essere «ab-solutus, sciolto da ogni legame e costituzione naturale».
Se Dio non esiste tutto è possibile, diceva Dostoevskij. Ed è ciò che al fondo dice anche il Papa: quando l’uomo è «privato della sua anima» e dunque «di una relazione personale con il Creatore», allora «ogni esperimento risulta accettabile, ogni politica demografica consentita, ogni manipolazione legittimata».
Benedetto XVI invita chi opera in campo sociale a «esercitare una vigilanza critica e, a volte, ricusare finanziamenti e collaborazioni che favoriscano azioni o progetti in contrasto con l’antropologia cristiana». La Chiesa è «colonna e sostegno della verità» e i pastori «hanno il dovere di mettere in guardia», conclude solenne: «Anche se questa deriva si traveste di buoni sentimenti all’insegna di un presunto progresso, o di presunti diritti, o di un presunto umanesimo».
Un «patto» per un Paese davvero civile
di Vittoria Franco (l’Unità, 26.11.2012)
QUEST’ANNO SIAMO ARRIVATI ALL’APPUNTAMENTO CON IL 25 NOVEMBRE, GIORNATA INTERNAZIONE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE, CON IL PESO DI 113 FEMMINICIDI DALL’INIZIO DEL 2012. Un peso insostenibile e un dramma intollerabile per un Paese civile. Le azioni possibili per affrontare e combattere questo fenomeno sono molte, e noi donne del Pd le elenchiamo spesso: ratificare subito la Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica e sulle donne, investire sui centri antiviolenza, fare prevenzione, approvare le nostre proposte, da tempo depositate in Parlamento, per realizzare tutto questo. Ma il cambiamento necessario è di natura culturale, ne siamo consapevoli. Le donne italiane, con il loro traguardo di un peso specifico sempre più alto nella società, fondato sul successo nella scolarizzazione e nelle professioni e sulla fatica di interpretare sempre il welfare complementare, stanno mettendo in discussione l’ordine costituito, ma senza reale riconoscimento della loro dignità, del loro valore e del loro potere.
È per questo che serve un «patto» per un nuovo mondo comune. Patto fra uomini e donne che sono e si considerano pari. Un nuovo orizzonte anche per costruire un esito positivo della crisi economica. A differenza del contratto classico, il patto per un nuovo mondo comune viene stipulato espressamente fra donne e uomini e indica un orizzonte di conquiste da realizzare su un terreno diverso rispetto al passato, perché presuppone il contesto di una nuova cultura della convivenza, basata sull’eguale riconoscimento reciproco di libertà e dignità.
Patto per che cosa? Per condividere il potere in ogni settore di attività: nella rappresentanza istituzionale, sul mercato del lavoro e nelle carriere; per affermare una rappresentanza eguale nei luoghi in cui si assumono le decisioni; per condividere il lavoro di cura e la genitorialità, per realizzare la parità salariale. Insomma, per dare gambe e realtà al principio della democrazia paritaria. Tutto questo vuol dire ricontrattare i ruoli, scardinare la dicotomia tra sfera pubblica e sfera privata che si è creata all’origine dello Stato moderno e che si definisce in base a ruoli predefiniti dei due generi.
Noi stiamo mettendo in discussione questo racconto archetipico per costruire una nuova storia, che racconta di un processo di democratizzazione nel quale l’uomo e la donna divengono «cofondatori» della cittadinanza universale stringendo un patto di non discriminazione, fondato sulla valorizzazione e il rispetto delle persone, delle competenze, del saper fare. Patto vuol dire allora, ad esempio, che il rispetto del corpo femminile entra nel lessico e nell’educazione. Patto significa che le donne cedono più spazio agli uomini per la cura familiare e gli uomini più spazio pubblico alle donne (e i congedi paterni obbligatori della legge Fornero, anche se da estendere, vanno in questa direzione). Insomma, il patto va insieme con la giustizia di genere e non solo più con la giustizia sociale. Cominciamo a parlarne.
Ancora il solito ritornello sulle donne, in diretta dal pianeta Marte
di Estelle R.
in “www.comitedelajupe.fr” del 9 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Ci sono giorni in cui mi chiedo davvero se certi prelati della Chiesa cattolica siano uomini che vivono su questo pianeta, tanto il loro sguardo sul mondo è fuori dalla realtà. L’ultimo esempio ci viene dai vescovi riuniti nel sinodo dal 7 al 28 ottobre scorso sul tema “nuova evangelizzazione.
Hanno votato una lista di 58 proposte presentate alla fine a Benedetto XVI. La proposta 46 riguarda la “Collaborazione fra uomini e donne nella Chiesa”.
Proposta 46: Collaborazione fra uomini e donne nella Chiesa
La chiesa apprezza l’eguale dignità, nella società, fra uomini e donne fatti ad immagine di Dio, e nella Chiesa, per la loro vocazione comune di battezzati in Cristo. Il pastori della Chiesa hanno riconosciuto le capacità specifiche delle donne, come la loro attenzione agli altri e i loro doni per l’educazione (nutrimento) e la compassione, particolarmente nella loro vocazione di madre. Le donne sono testimoni con gli uomini del Vangelo della vita per la loro dedizione nella trasmissione della vita nella famiglia. Insieme aiutano a mantenere viva la fede. Il sinodo riconosce che oggi le donne (laiche e religiose) contribuiscono con gli uomini alla riflessione teologica a tutti i livelli e partecipano delle responsabilità pastorali con loro in nuove modi portando avanti così la nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede.
Possiamo apprezzare il primo paragrafo che ricorda (e per fortuna!) l’eguale dignità tra uomini e donne nella Chiesa, ma il secondo e il terzo paragrafo sono semplicemente nauseabondi. Non è nauseante leggere che questi signori credono ancora alle “capacità specifiche delle donne”!!! Apparentemente, hanno perso tutto il periodo (di almeno un secolo, tra l’altro!) in cui le donne non sono più limitate a posti di lavoro di infermiera o insegnante, mestieri in cui possono dispiegare tutta la panoplia dei loro talenti innati in materia di amore del prossimo, di compassione e di maternità. Non si devono neppure esser accorti che Margaret Thatcher era una donna.
Scrivere e votare tali enormità è sicuramente rivoltante per le donne, ma talmente degradante per gli uomini! Significa che qualsiasi uomo, qualunque cosa faccia, non sarà mai all’altezza della sua compagna nell’educazione dei figli e in generale nell’amore per il prossimo, perché, non essendo geneticamente programmato per dare la vita, in fondo è solo un grande handicappato nell’altruismo e nella compassione.
Ma sono cose che non stanno né in cielo né in terra!!! Questi signori non guardano mai attorno a sé? Ad esempio, non hanno fratelli, cugini, nipoti che hanno quell’istinto paterno, forte quanto quello della madre, che ad esempio fa sì che siano presenti e tengano la mano della moglie mentre lei partorisce? E che dire degli uomini e delle donne che non possono dare la vita ma sono disposti, con l’adozione, ad accogliere un bambino? Sono meno atti alla vocazione della famiglia?
Riparliamone, della vocazione! Il massimo dell’assurdità e della stupidaggine torna ancora con la menzione di “vocazione di madre”. Ah, la sacrosanta vocazione di madre! Ah, il modello della Santa Vergine Maria! Oltre al peso (e agli stereotipi che questo mette sulle spalle delle donne), ancora una volta, questo è degradante per gli uomini. E la loro specifica vocazione di padre? È unicamente materiale? Grazie di portare a casa i soldi per nutrire la famiglia ed eventualmente di dare un bacio ai bambini prima di metterli a letto, e basta?
E, andando oltre, questo rinvia una volta ancora al problema globale delle “vocazioni”: ciascuno nella sua casella, e non facciamo confusione. Perché, insomma, le donne sono pregate di fare figli... con chi, ce lo domandiamo, dato che gli uomini hanno la vocazione al presbiterato, come ci ricorda ogni anno la giornata delle vocazioni.
Ma come può la Chiesa cattolica, ancora ai nostri giorni, votare testi che rinchiudono in questo modo gli esseri umani? Come ci si può applicare coscientemente e coscienziosamente ad innalzare muri tra le persone, a determinare così la loro vita e le loro azioni apostoliche? Come si possono convalidare tali sciocchezze e dirsi eredi di un Cristo che ha fatto cadere tante e tante barriere? Quindi no, cento volte no, come uomini e come donne non possiamo accettare in pace questa proposizione del sinodo.
(Se non sono amareggiata al cento per cento, è perché apprezzo molto il fatto che il sinodo riconosca che le donne partecipano alla riflessione teologica e possono avere responsabilità pastorali.)
Anne Soupa: “La Chiesa ha una visione distorta delle donne”
intervista a Anne Soupa,
a cura di Philippe Clanché
in “www.temoignagechretien.fr” del 4 ottobre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Come è giunta ad interessarsi del problema dello status delle donne nella Bibbia?
È un problema a cui penso da molto tempo. Sono convinta che la Chiesa abbia una visione distorta delle donne e che sia necessario rettificarla. Ho voluto affrontare il problema partendo dalla Bibbia, perché non sopporto la manipolazione di cui sono oggetto le Scritture, semplicemente per giustificare scelte culturali che non hanno niente a che vedere con la fede.
E pensa che tutto derivi da un errore di interpretazione di un passo della Genesi?
Nei due racconti della Genesi della creazione dell’uomo, Dio crea prima l’ha’adam, fatto d’argilla, l’essere umano generico. Il commentatore maschio - perché storicamente è un uomo - , vi si è rispecchiato e si è appropriato di questo essere umano generico per dire che si trattava di lui. Quello è l’errore originale. I lettori medioevali ne hanno tratto la conclusione che la donna fosse una creazione seconda, nel tempo e per importanza, e soprattutto che fosse un aiuto per l’uomo. Ma se l’uomo maschio non esiste ancora, come potrebbe la donna essere il suo aiuto? Eppure, è proprio su questa lettura sbagliata di Genesi 2, 18-24 che si è basato il magistero cattolico. Non si tratta di un problema di vocabolario. La lingua tedesca, che pure dispone di due termini diversi (Mensch, l’essere umano, e Mann, l’uomo) conserva questa confusione... Bisognerebbe ormai compiere un percorso ufficiale per far sì che vengano distinti l’essere umano e l’uomo maschio.
E tuttavia, la creazione divina si struttura sulla differenza dei sessi?
Dio ha effettivamente creato la differenza dei sessi, ma il testo della Genesi non dà alcun contenuto oggettivo a questa differenza. Per ciascuno e ciascuna, essa sorge dall’esperienza. Dio non dice che la donna è frivola, seducente, segreta, regina della casa e che l’uomo è potente, razionale, inquisitore. Dio non ha creato né il femminile, né il maschile, che sono invece caratteristiche culturali.
In senso più ampio, come considera le donne l’Antico Testamento?
Certe donne sono vittime di violenze terribili, come la concubina del levita violentata fino alla morte. Ma la Bibbia denuncia tali atti. Non dimentica mai che la donna è creatura di Dio. Nel progetto biblico, le donne hanno un ruolo decisivo: dicono che Dio prospetta percorsi insospettati. Si scopre ora il contributo importante delle donne profetesse nella Bibbia. Naturalmente, come in ogni società patriarcale, le loro funzioni sono legate alla vita familiare.
Nel Vangelo, lei presenta un Gesù con caratteristiche “femminili” (non violenza, tenerezza, ascolto) e, allo stesso tempo, innamorato delle donne.
Gesù ha mandato all’aria i codici culturali della sua epoca. È stato libero rispetto al “maschile” del suo tempo. Ha ridato alle donne uno spazio. Ed è da uomo che le considera. Tutte le nostre relazioni umane sono caratterizzate dalla sessualità. In Gesù e nelle sue interlocutrici, c’è una innegabile parte di sessualità passiva. Inoltre, il desiderio di Dio, a partire dai profeti, viene evocato con la metafora delle nozze, della vita amorosa. Nulla di sorprendente che alcuni abbiano creduto di vedervi una relazione scandalosa tra Cristo e Maria Maddalena. È il campo d’azione della vita spirituale: è una relazione amorosa sublimata.
Femminile, maschile... il “genere” è un aspetto da tener presente della relazione con Dio?
I grandi spirituali hanno insistito sulla femminilità dell’anima che accoglie Dio. Ne hanno certo diritto: il femminile, come il maschile, appartengono a tutti. Ma in questo modo, in una società a dominanza maschile come quella del Medio Evo, si sono per di più arrogati il femminile. E, stando così le cose, ne hanno quasi privato le “vere” donne, che finiscono per non essere più necessarie! L’interpretazione del Cantico dei cantici mostra chiaramente questa “espropriazione”. La storia d’amore che racconta è stata intesa da quasi tutti i commentatori cristiani come un’immagine dell’amore tra l’essere umano e Dio. Ma così l’Amata del Cantico scompare in quanto vera donna, non è altro che l’icona di colui che desidera Dio.
Ed è proprio a partire dal Cantico dei Cantici che l’assimilazione tra l’Amata del testo e il popolo dei fedeli fa nascere l’espressione “Chiesa, sposa di Cristo”?
Sono soprattutto i profeti che hanno sviluppato questo tema del popolo-sposa di Dio (e Dio viene così mascolinizzato). E, sfruttando questo filone, anche i teologi, Paolo per primo, hanno sviluppato il tema della Chiesa sposa di Cristo. Ma quella che era solo un’immagine, ed anche una richiesta di maggiore fedeltà a Dio, è diventata una norma che regge i veri rapporti dei veri uomini e delle vere donne nella Chiesa. Ed è su questo che si basa la Chiesa per escludere le donne dal sacramento dell’ordine. Le donne, dice, non possono esprimere il Cristo sposo. Ecco come si fa di una metafora uno strumento di esclusione.
Nei primi secoli del cristianesimo, però, le donne esercitavano dei ministeri. Sotto un ritratto nella chiesa di Santa Prassede a Roma, si legge: Theodora episcopa(il vescovo Theodora). Perché lei situa la svolta al momento della riforma gregoriana (XI-XII secolo)?
La riforma gregoriana affida ai soli preti le tre funzioni tradizionali nella Chiesa: governare, insegnare, santificare. Le donne (come i laici uomini) ne sono quindi escluse, fino ad oggi. E inoltre, nel XIII secolo, la Chiesa inizia la guerra contro i preti sposati. Quella decisione suscita molte resistenze, che generano, in risposta, vere campagne di discredito nei confronti delle donne. Sermoni e rappresentazioni iconografiche associano la donna al serpente della Genesi, come sull’architrave della cattedrale di Autun, ad esempio. Allora, le donne occupano altri spazi. Come ogni popolazione minacciata che fugge verso le montagne o i deserti, le donne si rifugiano nel misticismo o nell’avventura coloniale, in Canada, ad esempio.
In quale momento la Chiesa ha creato la vocazione della donna-madre, della donna-ventre che si realizza innanzitutto nella maternità?
Questa concezione è antica, abbiamo visto che la Bibbia ne riconosce la nobiltà. Ma la maternità non dice tutto di un essere umano. Non definisce un’identità. Nel XX secolo, la promozione della donna nelle società civili ha obbligato Roma a prendere posizione. Ma il Vaticano si è limitata a riprendere il discorso delle società patriarcali, senza vedere che l’emancipazione femminile la chiamava ad un discorso nuovo. Tanto ha sostenuto un tempo la causa delle donne, altrettanto frena oggi la corrente di emancipazione che arriva fino a lei, senza dubbio perché non ci sono abbastanza donne al suo interno per aiutarla a prendere coscienza dell’importanza di questa liberazione. Ad esempio, Roma continua a prendere alla lettera la maledizione della Genesi: Dio moltiplicherà il dolore delle gravidanze della donna e l’uomo dovrà lavorare la terra col sudore della fronte. Per la donna, la maternità diventa ontologica per la donna. Ma agli uomini Roma non chiede di tornare ad essere agricoltori... Oggi siamo in una situazione “folle”: il Magistero parla al posto delle donne e non dà loro la parola. Si arroga il diritto di assegnare loro una vocazione specifica che non ha l’equivalente per i maschi.
Abbiamo parlato del rifiuto di Roma del presbiterato al femminile. Perché lei non ne fa un asse portante della sua richiesta?
Il ministero presbiterale è in crisi. Deve innanzitutto risolvere i suoi problemi. Ordinare delle donne non serve a niente se il quadro è sbilenco. Invece, è importante aprire alle donne la possibilità della predicazione e dell’assunzione di funzioni di responsabilità nella Chiesa. È urgente che si senta la loro voce. Essendo diretta solo dal clero, la Chiesa si priva di sangue nuovo. Si devitalizza.
Quale ruolo svolgono le femministe cattoliche?
Hanno riflettuto soprattutto sugli aspetti teologici ed ecclesiologici, in particolare sui ministeri. Una generazione di esegete comincia a pubblicare. Questo è bene, perché è a partire da una lettura nuova della Scrittura che le cose possono cambiare. Si può anche immaginare un sinodo delle donne, idea che propongo alla fine del mio libro. In tale circostanza potrebbero emergere delle mozioni specificamente femminili e, perché no, dei voti che uniscono uomini e donne. Ho lanciato l’idea, resto in attesa di che cosa ne pensa il pubblico. La questione delle donne è talmente scottante! Non si può restare in silenzio davanti ad una negazione così grave del messaggio evangelico.
Anne Soupa, Dieu aime-t-il les femmes?, Médiaspaul, p. 144, € 19
Biblista e militante
Anne Soupa ha studiato teologia all’Institut de pédagogie de l’Enseignement religieux (Iper) di Lione, poi nelle facoltà cattoliche di Lione e di Parigi. Ha lavorato come biblista, in particolare dirigendo la rivista Biblia presso la casa editrice Cerf. È diventata famosa come promotrice, insieme all’editrice e saggista Christine Pedotti, del Comité de la Jupe e della Conférence catholique des baptisé-e-s francophones, che hanno l’obiettivo di difendere la dignità delle donne e la dignità dei battezzati e delle battezzate. Insieme hanno raccontato queste avventure nel libro Les pieds dans le bénitier, Presses de la Renaissance, 2009.
Parla Karen King, storica della cristianità ad Harvard
“Così ho trovato il papiro sulla moglie di Gesù”
“C’è un frammento su di lei. Ma Dan Brown non c’entra”
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 20.09.2012)
CITTÀ DEL VATICANO «Questo frammento non prova che Gesù fosse sposato. Tuttavia ci dice quanto nella Chiesa, fin dai primi secoli, la questione del matrimonio e della sessualità fosse già aperta». Getta acqua sul fuoco - come è giusto - Karen L. King, docente a Harvard, inseguita da torme di giornalisti, cameramen e fotografi dopo il suo annuncio del ritrovamento di un piccolo pezzo di papiro in lingua copta in cui Gesù si riferirebbe a «mia moglie». Una frase appena accennata, però niente affatto di poco conto. Capace anzi di spalancare un dibattito su più fronti: in sede storica e religiosa innanzitutto, ma senza trascurare la fiction comunque cara ai tanti lettori nel mondo di Dan Brown, che nel Codice da Vinci sostenne l’ipotesi che Gesù avesse dei figli e una moglie di nome Maria Maddalena. La studiosa, 58 anni, insegnante di Divinità e prima donna a ricoprire la cattedra più antica degli Stati Uniti, ammette che la sua ricerca è solo all’inizio ed è in ogni caso appassionante. L’altro giorno ha annunciato la sua scoperta al Decimo congresso internazionale di studi copti, organizzato dal professor Alberto Camplani della Sapienza, e inaugurato con un saluto del rettore Luigi Frati e del prorettore Antonello Biagini.
Professoressa King, come è entrata in possesso di questo documento?
«Nel 2010 ho ricevuto una email da un collezionista privato che conosceva i miei libri e che mi chiese di tradurlo».
Chi era?
«È una persona che ha una collezione di papiri greci, arabi e copti. Preferisce non essere identificato perché non desidera essere assalito da possibili acquirenti».
Ma lui dove lo aveva acquisito?
«Nel 1997, da un collezionista tedesco, da una partita di papiri. Il documento aveva con sé una nota a mano che citava di un professore di Egittologia a Berlino, ora deceduto, il quale lo indicava come il solo esempio di un testo in cui Gesù parlasse di una moglie».
E lì è cominciata la sua ricerca?
«Il collezionista mi portò il frammento nel dicembre 2011. Il marzo seguente giravo con il documento chiuso nella mia borsetta per mostrarlo a due papirologi, il professor Roger Bagnall, dell’Università di New York, e Anne Marie Luijendijk, docente di religione a Princeton».
Com’è composto?
«È di circa 4 centimetri per 8, non più grande di una carta di credito. È del IV secolo d.C., scritto per l’esattezza in copto sahidico, un dialetto del sud dell’Egitto che usava caratteri greci. Ci sono otto righe di scrittura in inchiostro nero, leggibili solo con la lente di ingrandimento ».
Cosa c’è scritto?
«Gesù disse loro, “Mia moglie...”» .
Una frase che non c’è nelle Scritture. E gli studiosi che cosa le risposero circa l’eventuale autenticità?
«Volli ascoltare anche l’opinione di Ariel Shisha-Halevy, dell’Università di Gerusalemme, uno dei due-tre studiosi al mondo che conoscono a perfezione la lingua copta. Lo scorso settembre mi ha spedito una e-mail in cui scriveva: “Ritengo - sulla base della lingua e della grammatica - che il testo sia autentico”».
Ma le prove tecniche?
«Quello che ha convinto gli studiosi della sua genuinità è la dissolvenza dell’inchiostro sul papiro, e le tracce di scrittura che aderiscono alle fibre curvate sui bordi lacerati. Mi hanno risposto: fabbricarlo è impossibile».
Altre frasi?
«Lei sarà in grado di essere mia discepola».
E nella parte posteriore?
«È così fioca che si leggono solo cinque parole: “mia madre”, “tre”, e “merita che”. Potrebbero significare: “Mia madre mi ha dato la vita”, e “Maria lo merita”».
Però il documento è del IV secolo dopo Cristo.
«Sì, l’ipotesi è dunque che si tratti di una copia basata su un testo originale in greco risalente al II secolo d.C.».
Dunque non è coevo di Gesù di Nazareth?
«No. Ma fornisce la prova che fra i primi cristiani alcuni credevano che Gesù fosse sposato. Era dunque già presente un dibattito sulla questione se dovessero sposarsi e avere rapporti sessuali».
Potrebbe aprirsi ora un dibattito sul celibato dei sacerdoti. Ha ricevuto reazioni ufficiali da parte della Chiesa cattolica?
«Non ancora. So che questo frammento adesso causerà discussioni su sessualità e celibato, che negli Stati Uniti sono già a uno stadio avanzato».
Ha aspettato di essere a Roma per annunciare la scoperta?
«È un puro caso. Quattro anni fa il congresso di studi copti si svolse al Cairo».
Dan Brown allora aveva ragione?
«Il frammento non lo dimostra. Brown ha scritto un romanzo. Qui si tratta di storia, e siamo appena all’inizio della ricerca».
DIO E’ AMORE ("CHARITAS"), MA NON PER IL CATTOLICESIMO-ROMANO! Una gerarchia senza Grazie ( greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006).
GESU’ SPOSATO E LA CHIESA NUDA. Una nota di Federico La Sala
Riconoscere fondamentalmente che senza il libero e decisivo sì della donna (Maria) non sarebbe nato non solo Cristo ma nemmeno la Chiesa, per l’ uomo della stessa Chiesa è paradossalmente “scandalo e follia”
L’inquisizione di oggi e le religiose nordamericane
di Ivone Gebara, suora, scrittrice, filosofa e teologa brasiliana
in “www.paves-reseau.be” del 25 aprile 2012 (traduzione dal francese: www.finesettimana.org)
Una volta ancora assistiamo stupite alla “valutazione dottrinale” o piuttosto al sedicente appello alla sorveglianza o alla punizione condotta dalla Congregazione della Dottrina della fede nei confronti di chi, a suo avviso, si discosta dall’osservanza della dottrina cattolica corretta. Unica differenza: oggi, non è su una persona che puntano il dito accusatore, ma su un’istituzione che riunisce e rappresenta più di 55000 religiose nordamericane. Si tratta della Conferenza nazionale delle Religiose, conosciuta sotto la sigla LRWC - Conferenza della Direzione religiosa femminile. In tutta la loro storia, queste religiose hanno sviluppato - e sviluppano ancora - una vasta missione educativa a favore della dignità di molte persone e di molti gruppi negli Stati Uniti e oltre.
La maggioranza di queste donne appartiene a diverse congregazioni nazionali e internazionali; oltre alla loro formazione umanista cristiana, sono delle intellettuali e delle professioniste impegnate negli ambiti più diversi della conoscenza. Sono scrittrici, filosofe, biologhe, sociologhe, avvocate, teologhe e possiedono un vasto curriculum e una competenza riconosciuta a livello nazionale e internazionale. Sono anche educatrici, catechiste e militanti per i diritti umani. In molteplici circostanze sono state capaci di mettere a rischio la propria vita a favore delle vittime dell’ingiustizia o di opporsi a comportamenti gravi assunti dal governo nordamericano.
Ho l’onore di conoscerne alcune che sono state imprigionate perché si erano messe in prima fila in una manifestazione per la chiusura della Ecole des Amériques, istituzione del governo nordamericano che prepara i militari in vista di interventi repressivi e crudeli nei nostri paesi. Queste religiose sono donne di pensiero e d’azione, hanno una lunga storia di servizio non solo nei loro paesi ma anche in altri. Oggi sono sotto il sospetto e la sorveglianza del Vaticano. Sono criticate per le loro divergenze con i vescovi considerati come “gli autentici maestri della fede e della morale”.
Inoltre sono accusate di essere sostenitrici di un femminismo radicale, di deviazioni rispetto alla dottrina cattolica romana, di complicità con l’approvazione delle unioni omosessuali e di altre accuse che ci stupiscono per il loro anacronismo. Che cosa sarebbe un femminismo radicale? Quali sarebbero le sue manifestazioni reali nella vita delle congregazioni religiose femminili? Quali devianze teologiche vivrebbero queste religiose? Noi donne saremmo spiate e punite per la nostra incapacità ad essere fedeli a noi stesse e alla tradizione del vangelo attraverso la sottomissione cieca ad un ordine gerarchico maschile? I responsabili delle Congregazioni vaticane sarebbero estranei alla grande rivoluzione mondiale femminista che raggiunge tutti i continenti, comprese le congregazioni religiose?
Molte religiose negli Stati Uniti e in altri paesi sono, di fatto, eredi, maestre e discepole di una delle più interessanti espressioni del femminismo mondiale, soprattutto del femminismo teologico che si è sviluppato negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni ’60. Le loro idee originali, le loro critiche, le loro posizioni libertarie permetteranno una nuova lettura teologica che, a sua volta, può accompagnare i movimenti di emancipazione delle donne. Di modo che esse potranno contribuire a ripensare la nostra tradizione religiosa cristiana al di là della “invisibilizzazione” e dell’oppressione delle donne. Creeranno anche spazi alternativi di formazione, testi teologici, testi di celebrazione affinché la tradizione del Movimento di Gesù continui a nutrire il nostro presente e non sia abbandonata da migliaia di persone affaticate dal peso delle norme e delle strutture religiose patriarcali.
Quale atteggiamento adottare davanti alla violenza simbolica degli organismi di governo e di amministrazione della Chiesa cattolica romana? Che cosa pensare del riferimento filosofico rigido che assimila il meglio dell’essere umano alla sua parte maschile? Che dire della visione antropologica filosofica unilaterale e misogina a partire dalla quale interpretano la tradizione di Gesù?
Che cosa pensare di questo trattamento amministrativo-punitivo a partire dal quale si nomina un arcivescovo per rivedere, orientare e approvare le decisioni prese dalla Conferenza delle Religiose, come se noi fossimo incapaci di discernimento e di lucidità. Saremmo per caso una multinazionale capitalistica nella quale i nostri “prodotti” dovrebbero obbedire ai diktat di una linea di produzione unica? E per mantenerla, dovremmo essere controllate come degli automi da coloro che si considerano i proprietari e i guardiani dell’istituzione? Dove vanno a finire la libertà, la carità, la creatività storica, l’amore ’sororale’ e fraterno?
Nel momento in cui l’indignazione si fa strada in noi, un sentimento di fedeltà alla nostra dignità di donne e al Vangelo annunciato ai poveri e agli emarginati ci invita a reagire a questo ulteriore atto di ripugnante ingiustizia.
Non è da oggi che i prelati e i funzionari della Chiesa agiscono con due pesi e due misure. Da un lato, gli organismi superiori della Chiesa cattolica romana sono stati capaci di accogliere di nuovo al loro interno i gruppi di estrema destra, la cui storia negativa soprattutto nei confronti dei giovani e dei bambini è ampiamente conosciuta.
Penso in modo particolare ai Legionari di Cristo di Marcial Maciel (Messico) o ai religiosi di Mons. Lefebvre (Svizzera), la cui disobbedienza al papa e i metodi coercitivi per creare dei discepoli sono attestati da molti. La stessa Chiesa istituzionale accoglie gli uomini che le interessano in vista del proprio potere e respinge le donne che desidera mantenere sottomesse. Questo atteggiamento le espone alle critiche ridicole veicolate anche nei media religiosi cattolici in mala fede. I prelati fingono di riconoscere in maniera formale qualche merito a queste donne quando le loro azioni si riferiscono a quelle esercitate tradizionalmente dalle religiose nelle scuole e negli ospedali. Ma noi siamo forse solo quello?
Sappiamo che mai, negli Stati Uniti, c’è stato il minimo sospetto che quelle religiose possano aver violentato dei giovani, dei bambini e dei vecchi. Nessuna denuncia pubblica ha offuscato la loro immagine. Non si è mai sentito dire che si siano alleate per i propri interessi alle grandi banche internazionali. Nessuna denuncia per traffico di influenze, scambio di favori per preservare il silenzio dell’impunità. Ma anche così, nessuna di loro è stata canonizzata e neanche beatificata dalle autorità ecclesiastiche come invece è stato fatto per degli uomini di potere. Il riconoscimento di queste donne viene da molte comunità e gruppi cristiani o non cristiani che hanno condiviso la vita e il lavoro con molte di loro. E certamente quei gruppi non resteranno in silenzio davanti a questa “valutazione dottrinale” ingiusta che colpisce anche loro in maniera ingiusta.
Plagiando Gesù nel suo vangelo, lo sento dire: “Ho pietà di quegli uomini” che non conoscono le contraddizioni e le bellezze della vita nella prossimità, che non lasciare vibrare il loro cuore in tutta chiarezza con le gioie e le sofferenze delle persone, che non amano in tempo presente, che preferiscono la legge severa alla festa della vita. Hanno soltanto imparato le regole chiuse di una dottrina chiusa in una razionalità superata ed è a partire da lì che giudicano una fede diversa , specialmente quella delle donne. Forse pensano che Dio li approvi e si sottometta a loro e alle loro elucubrazioni talmente lontane da quelle di coloro che hanno fame di pane e di giustizia, dagli affamati, dagli abbandonati, dalle prostitute, dalle donne violentate o dimenticate. Fino a quando dovremo soffrire sotto il loro giogo? Quali atteggiamenti ci ispirerà “lo Spirito che soffia dove vuole” perché possiamo continuare ad essere fedeli alla VITA che è in noi?
Alle care suore nordamericane della LWRC, la mia riconoscenza, la mia tenerezza e la mia solidarietà. Se siete perseguitate per il bene che fate, probabilmente il vostro lavoro produrrà frutti buoni e abbondanti. Sappiate che noi, donne di altri continenti, con voi, non permetteremo che facciano tacere la nostra voce. Ancor di più, se le facessero tacere con un decreto di carta, ce ne faremmo una ragione ulteriore per continuare a lottare per la dignità umana e per la libertà che ci costituisce.
Continueremo con tutti i mezzi ad annunciare l’amore del prossimo come la chiave della comunione umana e cosmica presente nella tradizione di Gesù di Nazareth ed in molti altri, sotto forme diverse. Continueremo insieme a tessere per il nostro momento storico un tratto supplementare della vasta storia dell’affermazione della libertà, del diritto di essere diversi e di pensare in modo diverso, e, cercando di fare questo, di non aver paura di essere felici.
Testo originale al sito:
http://www.adital.com.br/site/noticia.asp?lang=PT&langref=PT&cod=66441
“Sorores carissimae et admirandae” La presenza femminile al Concilio Vaticano II
di Andrea Lebra
in “Settimana” n. 32 del 9 settembre 2012
Da poche settimane è arrivato in libreria, per i tipi di Carocci Editore (luglio 2012), un gradevole ed istruttivo studio sulla presenza delle donne al Concilio Ecumenico Vaticano II. Ne è autrice Adriana Valerio, teologa e storica, tra le fondatrici del “Coordinamento Teologhe Italiane”, docente di Storia del Cristianesimo e delle Chiesa all’Università “Federico II” di Napoli, studiosa di tematiche riguardanti la presenza delle donne nel cristianesimo.
Come scrive nella “presentazione” Marinella Perroni, Presidente del Coordinamento Teologhe Italiane, il libro, dal titolo “Madri del Concilio - Ventitre donne al Vaticano II”, è stato scritto per “tirare fuori finalmente dagli archivi della memoria i volti e le vite di ventitre donne che, per la prima volta nella storia, hanno preso parte ad alcune sessioni di un Concilio e, pur rispettando l’ordine di tacere nelle assemblee generali, hanno saputo trovare le occasioni giuste per pronunciare parole efficaci”.
Ad auspicare l’aumento del numero di “uditori laici” al Concilio e a fare in modo che questo incremento comprendesse delle donne, era stato il 22 ottobre 1963 il cardinal Suenens nel corso di un suo vigoroso discorso sui carismi nella Chiesa. Paolo VI, accogliendo l’invito, aveva deciso di ammettere alle sedute conciliari alcune rappresentanti degli ordini religiosi femminili ed alcune rappresentanti qualificate del laicato cattolico: complessivamente dal settembre 1964 al luglio 1965, furono chiamate ventitre uditrici (dieci religiose e tredici laiche). Delle tredici laiche, nove erano nubili, tre vedove e una sola coniugata: tutte (eccetto una, Gladys Parentelli) rigorosamente vestite di nero con un velo sul capo.
“Amate figlie”
E’ sintomatico che, quando il 14 settembre 1964, per l’inaugurazione della III sessione del Concilio, il papa salutò le uditrici (“le nostre amate figlie in Cristo...alle quali per la prima volta è stata data la facoltà di partecipare ad alcune adunanze del Concilio”), in realtà di uditrici in aula non c’era neppure l’ombra. Motivo ? Non erano ancora state designate: infatti le prime nomine ufficiali avvennero dopo il 21 settembre. Perché - si chiede l’Autrice - questa clamorosa sfasatura dei tempi ? “E’ difficile dirlo se non ipotizzando la resistenza di alcune personalità della Curia a far partecipare le donne” ad una assemblea costituita da soli maschi. Sta di fatto che la prima donna ad entrare in aula il 25 settembre 1964 fu una laica francese, Marie-Louise Monnet, fondatrice del MIASMI (“Mouvement International d’Apostolat des Milieux Sociaux Indépendants”), sorella di Jean, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea.
Nonostante Paolo VI, l’8 settembre 1964 a Castel Gandolfo, avesse parlato di rappresentanze femminili al Concilio certamente “significative” ma “quasi simboliche”, non avendo diritto né di parola né di voto, ben presto queste ventitre straordinarie “madri del Concilio”, salutate con enfasi da alcuni “padri conciliari” con le parole “carissimae sorores”, “sorores admirandae” o “pulcherrimae auditrices”, trovarono il modo di partecipare in modo attivo e propositivo ai gruppi di lavoro, presentando memorie scritte e contribuendo con la loro cultura e sensibilità alla stesura dei documenti, in particolare di quelli riguardanti temi come la vita religiosa, la famiglia e la presenza dei laici (uomini e donne) nella Chiesa e nella società o, più semplicemente e prosaicamente, invitando a pranzo vescovi influenti ai quali comunicare i propri “desiderata”. In ciò incoraggiate dalla Segreteria di Stato che, nel settembre 1964, chiarì che la loro presenza non doveva essere intesa in senso passivo, essendo esse invitate a dare un apporto di studio e di esperienza alle commissioni incaricate di ricevere e di emendare gli schemi destinati alle sessioni conciliari.
Un contributo significativo
La più vivace delle uditrici laiche fu senza dubbio la spagnola Pilar Bellosillo, presidente dell’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (UMOFC). Per ben due volte, in nome del divieto paolino di 1 Cor. 14,34 “le donne tacciano in assemblea”, citato dal segretario del Concilio, Pericle Felice (pare, in difficoltà a rivolgere la parola alle uditrici, anche solo per salutarle), le fu impedito di parlare in assemblea generale, nonostante fosse stata espressamente nominata portavoce del suo “gruppo di studio”. Il secondo rifiuto le fu opposto verso la fine del Concilio: nell’occasione era stata semplicemente incarica di esprimere ai padri conciliari la gratitudine sua e delle colleghe per il privilegio loro accordato di partecipare al Concilio. Ancora una volta il rifiuto fu motivato con l’anacronistico e ridicolo “mulieres in ecclesiis taceant”. Al grande teologo domenicano e perito conciliare Yves Congar che, nell’ambito del gruppo sullo schema dell’apostolato dei laici, voleva inserire nel documento un’elegante espressione con la quale le donne erano paragonate alla delicatezza dei fiori e ai raggi del sole, la (fisicamente) minuta ma energica uditrice australiana Rosemary Goldie disse, a mo’ di rispettosa tiratina d’orecchie: “Padre, lasci fuori i fiori. Ciò che le donne vogliono dalla Chiesa è di essere riconosciute come persone pienamente umane”.
La messicana Luz Maria Longoria, presente al Concilio con il marito Josè Alvarez Icaza, pose in discussione quello che i manuali di teologia, in uso prima del Concilio, definivano fini “primari” e “fini secondari” del matrimonio, dove primaria era la procreazione dei figli e secondario il rimedio alla concupiscenza dell’atto sessuale. La copresidente del MFC (“Movimiento Familiar Cristiano”), molto attiva all’interno del gruppo che doveva esaminare lo “schema XIII”, chiese di liberare l’atto sessuale dal senso di colpa e di restituire ad esso la sua insita motivazione d’amore. Ad un padre conciliare disse: “Disturba molto a noi madri di famiglia che i figli risultino frutto della concupiscenza. Io personalmente ho avuto molti figli senza alcuna concupiscenza: essi sono il frutto dell’amore”.
Verso la chiusura del Concilio, il 23 novembre 1965, uditori e uditrici laiche pubblicarono una dichiarazione congiunta, per rendere conto del lavoro fatto. Consapevoli di essere stati testimoni di una tappa storica di apertura della Chiesa alla sua componente laica, sottolinearono l’importanza vitale di alcuni documenti ai quali avevano dato un significativo contributo con discussioni e scambi di idee. In particolare fecero riferimento al cap. IV della “Lumen gentium” dedicato ai “laici”, alle parti della “Gentium et spes” riguardante la partecipazione dei credenti alla costruzione della città umana e al decreto sull’apostolato dei laici “Apostolicam actuositatem”.
Nella dichiarazione congiunta uditori e uditrici richiamarono anche l’attenzione che, grazie a loro, il Concilio aveva trattato questioni come la costruzione della pace, il dramma della povertà nel mondo, l’esistenza di diseguaglianze e ingiustizie che richiedono una più equa distribuzione delle ricchezze, la difesa della libertà di coscienza, i valori del matrimonio e della famiglia, l’unità di tutti i cristiani, di tutti i credenti e di tutta l’umanità. Il 3 dicembre 1965 vollero redigere un comunicato stampa nel quale ribadirono il loro ruolo attivo svolto, apprezzato dai padri conciliari che si erano spesso rivolti a loro per consigli e a volte si sono fatti eco delle loro opinioni nell’aula conciliare.
Nomi e cognomi
Consapevole del grande impegno profuso nell’adempimento del compito loro assegnato, il 7 dicembre 1965, Paolo VI, ricevendo uditori e uditrici, espresse la propria soddisfazione “per la collaborazione preziosa” assicurata dagli uni e dalle altre, in modo “discreto ed efficace”, “ai lavori dei padri e delle commissioni”.
Nomi e cognomi delle ventitre “madri del Concilio”, ormai quasi tutte tornate al casa del Padre, vanno doverosamente ricordati. Uditrici religiose: Mary Luke Tobin (Usa); Marie de la Croix Khouzam (Egitto); Marie Henriette Ghanem (Libano); Sabine del Valon (Francia); Juliana Thomas (Germania); Suzanne Guillemin (Francia); Cristina Estrada (Spagna); Costantina Baldinucci (Italia); Claudia Feddish (Usa), Jerome Maria Chimy (Canada). Uditrici laiche: Pilar Bellosillo (Spagna); Rosemary Goldie (Australia); Marie-Louise Monnet (Francia); Anne Marie Roeloffzen(Olanda); Amalia Dematteis (Italia); Ida Marenchi-Marengo (Italia); Alda Miceli (Italia); Catherine McCarthy (Usa); Luz Maria Longoria (Messico); Margarita Moyano Llerena (Argentina); Gladys Parentelli (Uruguay); Gertrud Ehrle (Germania); Hedwig von Skoda (Cecoslovacchia).
Leggendo le loro biografie, ricostruite da Adriana Valerio con materiale inedito, un dato emerge con sufficiente chiarezza: nonostante il decisivo riconoscimento, a livello teorico, operato dal Concilio della dignità della donna e del ruolo insostituibile che può e deve svolgere, in forza del battesimo, nella comunità ecclesiale come nella società civile, molto rimane da fare per ridimensionare, a livello pratico, il monopolio clericale e androcentrico sulla storia e sulla vita della Chiesa in nome della vera uguaglianza che vige fra tutti i membri del popolo di Dio. Andrea Lebra - andleb@libero.i
Suore Usa a conclave
Piegarsi o no a Roma?
di Massimo Gaggi (Corriere della Sera, 10 agosto 2012)
Intonano canti folk religiosi, danzano agitando sciarpe colorate, indossano gonne e pantaloni, invitano sul podio, per il discorso d’apertura, Barbara Marx Hubbard, una futurologa che cattolica non è: una sostenitrice dell’«evoluzionismo coscienzioso» apprezzata più dai discepoli della filosofia New Age che dalle gerarchie ecclesiastiche. La «Leadership conference of women religious», l’organizzazione riconosciuta dalla Chiesa di Roma che raduna l’80% delle 57 mila suore americane, ha vissuto così, con apparente leggerezza, il momento più difficile e angoscioso della sua storia: il meeting, in corso da tre giorni in un albergo di St. Louis, in Missouri, per decidere la risposta da dare al Vaticano che le accusa di aver commesso gravi trasgressioni dottrinarie e chiede un atto di sottomissione alla gerarchia ecclesiastica.
Un caso che si trascina da mesi: da quando la Congregazione per la dottrina della fede imputò loro di non opporsi alla contraccezione e ai matrimoni gay e di non impegnarsi con sufficiente determinazione contro l’aborto, mentre tutte le loro energie erano concentrate sull’aiuto ai poveri. Una requisitoria durissima, condita con l’accusa di essersi fatte infettare dalle posizioni del «femminismo radicale».
Un richiamo all’ordine respinto dalle suore che considerano legittimo fare riferimento ai valori sociali esaltati dal Concilio Vaticano Secondo. Prive di carte da giocare, almeno sul terreno del diritto canonico che mantiene le suore in una posizione subordinata rispetto al resto del clero, le religiose hanno comunque ribattuto colpo su colpo, forti del sostegno di molti fedeli americani che le hanno conosciute e apprezzate come infermiere negli ospedali, insegnanti nelle scuole cattoliche, amministratrici di parrocchie. Un paio di mesi fa un gruppo di loro ha addirittura dato vita a un tour battezzato «Nuns on the bus»: suore americane on the road per spiegare attraverso nove Stati Usa le ragioni della loro ribellione al diktat di Roma.
Al culmine della polemica, lo scontro ha rischiato addirittura di acquistare il sapore di una contrapposizione politica: le suore impegnate nel sociale e liberal sui temi etici accomunate a Obama, il community organizer arrivato alla Casa Bianca, mentre la gerarchia ecclesiastica carica a testa bassa il partito del presidente per le unioni omosessuali, la riforma sanitaria e altro ancora. Qualche giorno fa la nuova richiesta del Vaticano: tornate su una linea più aderente alla dottrina della Chiesa e accettate il controllo di tre vescovi. Da martedì sera 900 suore, in rappresentanza delle congregazioni maggiori, sono riunite a St. Louis per decidere cosa fare.
Comunicheranno le loro scelte stasera, alla fine di quella che è già considerata la riunione più cruciale mai tenuta da un organismo cattolico americano. A giudicare dalle dichiarazioni di madre Patt Farrell, la suora dell’Iowa che guida il movimento, atti di sottomissione non ce ne saranno. Ma, probabilmente, nemmeno gesti irrimediabili di rottura. Le suore non hanno alcuna voglia di farsi espellere e adesso si sentono più forti, anche perché il tentativo di isolarle è fallito: per loro è arrivata la solidarietà dell’ordine francescano d’America, a St. Louis hanno avuto il caldo benvenuto del vescovo della città e perfino il cardinale di New York Timothy Dolan, che è anche presidente della Conferenza dei vescovi Usa e che nella Chiesa passa per un duro, si è lasciato andare a un «noi cattolici amiamo le nostre sorelle». Parole forse dette per scongiurare una rottura irreparabile in un periodo nel quale la gerarchia ecclesiastica Usa, scossa dagli scandali dei preti pedofili, deve già fronteggiare una grave crisi d’immagine.
Ma il genio ormai sembra essere uscito dalla lampada: ieri è stato reso noto che le un tempo silenziosissime suore saranno le protagoniste di un pranzo - con annessa conferenza stampa - che si svolgerà il 16 agosto al National press club di Washington.
Il Vaticano e la teologia delle sorelle
di Massimo Faggioli (Europa, 6 giugno 2012)
Durante e nonostante lo scandalo delle divisioni interne alla Curia romana ormai noto come “VatiLeaks”, proseguono i richiami del magistero della Chiesa rivolti contro teologhe e teologi cattolici. Due giorni fa è toccato a suor Margaret A. Farley, docente alla Divinity School della Yale University, ricevere da Roma una notifica (datata 30 marzo 2012) riguardo il suo recente libro, Just Love: A Framework for Christian Sexual Ethics. Le critiche riguardano la trattazione di questioni come la masturbazione, gli atti omosessuali, le unioni omosessuali e il matrimonio.
In questi ambiti suor Farley presenta dei casi in cui, sulla base di una morale esperienziale e non dottrinale, si difende la moralità di pratiche rigettate dalla morale sessuale ufficiale della Chiesa. La notifica viene non dai vescovi americani, ma dalla Congregazione per la dottrina della fede che attualmente è guidata da un cardinale americano, William Levada. Il libro viene accusato di insegnare in materia morale principi significativamente differenti da quelli insegnati dal papa e dei vescovi, e quindi di provocare confusione tra i fedeli. Il libro di conseguenza «non può essere usato come valida espressione della dottrina cattolica».
Nella sua risposta, Farley ha «ringraziato la Congregazione» per l’attenzione ricevuta e non ha smentito il fatto che il libro contenga opinioni che non sono in accordo con l’insegnamento ufficiale della Chiesa, ma ha anche puntualizzato che il libro è inteso ad offrire non una dottrina cattolica alternativa, ma «un’interpretazione contemporanea di significati tradizionali che sono rilevanti per il corpo umano, la differenza di genere e la sessualità».
Come accade di consueto, i teologi americani si sono schierati in difesa del libro sotto accusa, che al momento della pubblicazione nel 2006 venne accolto da recensioni molto positive. Una delle teologhe moraliste più importanti, Lisa Cahill del Boston College, ha affermato che una delle questioni-chiave del libro è la violenza contro le donne e le sue conseguenze per la teologia morale cattolica - una questione che non viene menzionata nel giudizio della Congregazione, che invece accorda grande importanza alla moralità della masturbazione.
Anche l’ordine religioso a cui appartiene suor Farley, quello delle “Sisters of Mercy of the Americas”, ha espresso il suo sostegno all’autrice del libro, docente a Yale dal 1971, pluripremiata e celebre a livello mondiale non come esperta di morale sessuale bensì di bioetica ed etica medica.
Agli occhi dei cattolici americani, infatti, è chiaro lo schema di azione della gerarchia verso la teologia americana e in particolare contro le teologhe. Risale al 2010 l’inizio delle tensioni tra i vescovi americani e le religiose circa la riforma sanitaria dell’amministrazione Obama, che le religiose hanno appoggiato per il tentativo di estendere la copertura sanitaria a quasi tutti quelli attualmente senza accesso alle cure mediche.
È dell’autunno 2011, poi, lo scontro tra la conferenza episcopale americana e la docente di teologia di Fordham University, Elizabeth Johnson circa il suo libro, Quest for the Living God. Nel maggio 2012 si è infine avuta notizia dell’indagine aperta dai vescovi americani sulle Girl Scouts (che negli Stati Uniti sono separate dai Boy Scouts of America e politicamente molto più liberal e socialmente più impegnate) per i legami che le Girl Scouts hanno con organizzazioni che promuovono la contraccezione e la salute sessuale delle donne.
È una spaccatura grave e crescente quella tra il Vaticano e i vescovi da una parte, e la teologia americana dall’altra: si tenta di ironizzare apprezzando il fatto che immediatamente, qualche ora dopo la pubblicazione di queste “condanne” vaticane, i libri presi di mira scalano le classifiche di vendita. Nel caso di Farley, i proventi andranno al suo ordine religioso, anch’esso nel mirino del Vaticano per i provvedimenti annunciati due mesi fa contro la Lcwr, la più grande federazione degli ordini religiosi femminili degli Stati Uniti.
«Cristo è la vite, non il Vaticano». intervista a suor Gramick sul futuro delle religiose Usa
intervista a Suor Jeannine Gramick
a cura di Ludovica Eugenio (Adista- Notizie, n. 19, 19 maggio 2012)
La Curia vaticana e Benedetto XVI hanno paura «del significato dato dal Concilio Vaticano II a ciò che significa essere cattolico», della «libertà di espressione che esso comporta». Di conseguenza, hanno anche paura di permettere «alle voci critiche di essere ascoltate perché alcune di esse potrebbero legittimamente portare al cambiamento». Un cambiamento che, «nelle personalità autoritarie», fa temere di perdere «potere e controllo». In questa chiave, le suore statunitensi, prese di mira dal Vaticano con il commissariamento del loro organismo di coordinamento più importante, la Leadership Conference of Women Religious (Lcwr) (v. Adista Notizie nn. 16 e 17/12), risultano pericolose «perché forse sono l’ultimo gruppo organizzato a riflettere lo spirito conciliare di ciò che significa veramente essere Chiesa». È molto decisa suor Jeannine Gramick, dal 2001 componente della congregazione delle Sisters of Loretto, da sempre dedita al ministero rivolto alle minoranze sessuali e in tale ambito cofondatrice, insieme a p. Robert Nugent, dell’associazione New Ways Ministry, impegnata nella ricerca della giustizia sociale per gay e lesbiche.
Suor Gramick ha accettato di condividere con Adista le proprie opinioni e il proprio punto di vista sulla misura intrapresa di recente dal Vaticano e sul futuro della Lcwr, Di seguito, in una nostra traduzione dall’inglese, l’intervista che suor Gramick ci ha rilasciato.
Con il Vaticano II la Chiesa, popolo di Dio, è stata chiamata ad essere più vicina al mondo. Le
religiose statunitensi hanno incarnato questo appello in un’ampia varietà di ministeri, vivendo
profondamente nel mondo e ascoltando le persone che, in diversi modi, si trovano in difficoltà.
Ci può dire quali tipi di ministeri si sono sviluppati?
Prima dell’inizio degli anni ’60, le religiose svolgevano il loro ruolo soprattutto come insegnanti nelle scuole o come infermiere o amministratrici negli ospedali. Dopo il Concilio Vaticano II, si sono impegnate in numerose nuove forme di ministero. Per esempio, in attività riguardanti la giustizia e la pace, per cambiare le politiche e le strutture nella società e nella Chiesa, a beneficio dei poveri e degli emarginati. Questo ruolo è stato portato avanti in un ministero di tipo politico che puntava sull’educazione e sulle pressioni, lavorando con i media, alla radio, alla tv e attraverso un ministero che si occupa di ecologia e di cura della terra. Molte religiose si sono messe a difendere le persone lesbiche e gay e per una partecipazione più piena delle donne in ogni forma di ministero ecclesiale, compresa l’ordinazione. Oltre al tradizionale ministero di servizio sociale, le suore hanno raggiunto i divorziati risposati, le prostitute, i detenuti, i senza fissa dimora e le donne maltrattate.
Il Vaticano ha accolto positivamente questa vicinanza al mondo e alle persone?
Il Vaticano non ha obiettato al fatto che le suore si facessero più vicine al mondo e alle persone, ma ha contestato le implicazioni di questa vicinanza nei ministeri non tradizionali che si occupano di politica, di sessualità o di entrambi. Per esempio, nel 1983 il Vaticano obbligò suor Agnes Mary Mansour a dare le proprie dimissioni dalla congregazione delle Sisters of Mercy a causa del suo incarico di direttore del Dipartimento dei servizi sociali del Michigan, che finanziava l’aborto per le donne povere. Nel mio caso, il Vaticano mi ha ingiunto, nel 1999, di interrompere il mio ministero pastorale rivolto ai cattolici gay e lesbiche perché avevo scelto di affermare che non condividevo la posizione tradizionale sulla moralità dell’omosessualità.
Si sono verificati numerosi casi meno noti nei quali vescovi diocesani hanno messo in pratica le posizioni vaticane. Per esempio, le religiose hanno ricevuto l’ordine di dimettersi dalla direzione di organismi che hanno a che fare con l’Hiv-Aids, perché promuovevano l’utilizzo dei condom. Alcune religiose sono state licenziate dai loro incarichi parrocchiali o diocesani perché appoggiavano l’ordinazione sacerdotale femminile.
L’attuale valutazione dottrinale della Lcwr da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (Cdf) ne costituisce un ulteriore esempio. Le due obiezioni concrete citate dalla Cdf sono state la posizione dell’Lcwr sull’omosessualità e sull’ordinazione femminile.
Il suo ministero ha portato la sua congregazione, quella della School Sisters of Notre Dame, ad
escluderla perché lei aveva scelto di non obbedire al silenzio impostole, e nel 2001 è entrata
nella congregazione delle Sisters of Loretto che, al contrario, l’hanno sostenuta nel suo
ministero. Da allora ha più avuto problemi con il Vaticano?
Tra il 2001 e il 2009 il Vaticano ha mandato nove lettere alla presidente delle Sisters of Loretto riguardanti il mio ministero. In ognuna di esse, in sostanza, si affermava che dovevo interrompere il mio ministero a favore delle persone Lgbtq o sarei stata allontanata dalla vita religiosa. Le mie consorelle hanno scelto di non allontanarmi e, a questo punto, non l’ha fatto nemmeno il Vaticano.
Dal 1956 la Lcwr rappresenta la maggioranza delle congregazioni religiose femminili
statunitensi. Quali sono state le sue maggiori conquiste, attività e interessi?
La Lcwr offre una vasta gamma di attività e programmi che sono di supporto alle superiore e sono tese al rafforzamento delle relazioni tra le componenti della Lcwr con altri gruppi importanti. Tra queste attività vi è un workshop con cadenza annuale, comprensivo di un ritiro, per le nuove leader e un manuale che aiuta a sviluppare le competenze importanti per la leadership. Produce regolarmente anche materiali scritti, come una pubblicazione trimestrale sulla giustizia sociale, un volumetto di preghiera e riflessione, un diario di Occasional Papers e informazioni su giustizia e pace.
Credo che la conquista più importante dell’Lcwr sia stata quella di aver reso tutte le religiose che vi aderiscono, ma anche un pubblico più ampio, consapevoli di ogni genere di tema che implichi la giustizia. Offre riflessioni teologiche, analisi sociali e suggerimenti per l’azione su molti temi, come la giustizia economica, la difesa dei poveri, il dialogo con l’islam e interreligioso, la pena di morte, la riforma delle politiche migratorie, il cambiamento climatico e le questioni ambientali, la riforma sanitaria, gli armamenti nucleari, la testimonianza contro la tortura, la cancellazione del debito per i Paesi impoveriti, il traffico d’organi e la militarizzazione dello spazio e molti altri temi legati alla giustizia. La lista è praticamente inesauribile.
Negli ultimi anni, le religiose sono state nel mirino del Vaticano. Oltre a singoli casi
individuali, le congregazioni religiose femminili hanno subìto una visita apostolica. Lo stesso è
accaduto alla Lcwr. C’è una relazione tra le due visite apostoliche? Di cosa ha paura Roma?
Non sono stata licenziata, perché la Cdf non è il mio datore di lavoro e non mi ha mai supportata finanziariamente in questo ministero. La Cdf, nel 1999, ha affermato che non avrei dovuto impegnarmi in questo ministero, ma dopo un discernimento approfondito ho concluso che Dio continuava a chiamarmi ad esso, quindi ho deciso di non cooperare con l’oppressione del silenzio. Continuo a occuparmi delle persone lesbiche e gay.
Per il resto sì, credo che ci sia un legame tra le visite alle singole congregazioni religiose e la valutazione dottrinale (o inquisizione dottrinale) dell’Lcwr, entrambe avviate all’inizio del 2009. Sono in molti a ritenere che entrambi i progetti di indagine sono stati avviati per eliminare il dissenso e spazzare via le ultime vestigia del rinnovamento portato dal Vaticano II. Nel documento che presenta il processo della visita, una delle domande poste ai leader delle comunità era: «Qual è il processo messo in atto per rispondere alle consorelle che esprimono pubblicamente o privatamente il loro dissenso dall’insegnamento autoritativo della Chiesa?».
A mio giudizio, la Curia vaticana e papa Benedetto XVI hanno paura del significato dato dal Concilio Vaticano II a ciò che significa essere cattolico. Hanno paura della libertà di espressione che esso comporta. Hanno paura di permettere alle voci critiche di essere ascoltate perché alcune di queste voci potrebbero legittimamente portare al cambiamento. Le personalità autoritarie hanno paura del cambiamento e di perdere potere e controllo. Ken Briggs, autore di Double Crossed: Uncovering the Catholic Church’s Betrayal of American Nuns (Vittime di un doppio gioco: lo svelamento del tradimento delle suore americane da parte della Chiesa cattolica, ndr), ritiene che le suore abbiano conservato più di qualsiasi altro gruppo nella Chiesa l’etica e lo spirito conciliare, nonostante una strenua opposizione da parte dei due ultimi papi. Le suore statunitensi sono pericolose perché forse sono l’ultimo gruppo organizzato a riflettere lo spirito conciliare di ciò che significa veramente essere Chiesa.
Come vede il futuro della Lcwr, alla luce della nomina di un commissario che ne riveda gli
statuti e i programmi?
Penso che la Lcwr abbia due scelte: sottomettersi al controllo Vaticano o sciogliere la Lcwr e ricostituirla come organismo privo di legami con il Vaticano. Credo che la prima scelta rappresenterebbe un ripudio dei quarant’anni e più di rinnovamento nei quali le comunità religiose si sono impegnate. Bisogna ricordare che è stato chiesto alle religiose di rivalutare e aggiornare le loro comunità affinché rispondano alle esigenze dei tempi. Le religiose hanno preso sul serio questa richiesta e ora al Vaticano non piacciono i risultati. Il Vaticano vuole che le suore tornino alla vita religiosa del passato.
La storia ha dimostrato che la politica di appeasement (accomodamento, ndt) di Neville Chamberlain (primo ministro del Regno Unito dal 1937 al 1940, ndt) non ha soddisfatto i desideri di un dittatore come Hitler. La Chiesa istituzionale cattolica, come è attualmente, è uno stato totalitario religioso che dall’epoca del papato di Pio IX ha vissuto una sempre crescente centralizzazione. Il Concilio Vaticano II ha tentato di riportare la Chiesa sul binario di una comunità di credenti sulla via di Cristo, ma le forze curiali hanno cercato di far deragliare il rinnovamento negli ultimi 30 e più anni.
La seconda opzione, ritengo, rispetterebbe l’onore e l’integrità delle congregazioni religiose che hanno cercato, con la loro fedeltà, di tenere vivi i valori di una Chiesa come comunità di discepoli fedeli di Cristo. La ricostituzione della Lcwr come organismo che rispetta il Vaticano ma non abbandona nulla della propria autonomia rappresenterebbe un’applicazione del valore conciliare della sussidiarietà. Tale ricostituzione sarebbe un vantaggio per le religiose, ma anche per la Chiesa nel suo complesso. Essa affermerebbe la necessità di abbandonare un atteggiamento di obbedienza cieca a favore di una capacità decisionale morale adulta.
Fin da papa Pio IX, la Chiesa ha dato prova di un’atmosfera di infallibilità strisciante in forza della quale si partiva dal presupposto che ad ogni decisione, da parte di qualsiasi leader, accettata spesso come infallibile, si dovesse obbedire senza discutere. Il Vaticano II ha cercato di cambiare questo atteggiamento sottolineando la libertà di coscienza. Una ricostituzione mostrerebbe che la Chiesa consiste in molti rami radicati in Cristo, la vite. Il Vaticano è uno dei rami. Le singole diocesi, congregazioni religiose apostoliche, ordini monastici e contemplativi e movimenti laicali sono altri rami. Dobbiamo ricordarci sempre che Cristo, non il Vaticano, è la vite.
Non so per quale scelta opterà la Lcwr. Ha già cooperato con la Cdf nella sua investigazione dottrinale, quindi non so se l’organizzazione continuerà a collaborare nella sua oppressione invece di resistere alla presa di possesso da parte del Vaticano. Continuo a nutrire la speranza che i nuovi vertici della Lcwr siano più realistici nel constatare che si ha a che fare con il totalitarismo religioso e che esso rifiuterà la misura come intrusione indebita e come affronto alla natura profetica della vita religiosa.
In che misura questo passo del Vaticano toccherà la vita, il ministero e il ruolo delle religiose
nella Chiesa Usa in futuro?
L’intervento vaticano avrà effetti enormi sulla vita, il ministero e il ruolo delle religiose negli Usa e nella Chiesa mondiale. Gli effetti dipenderanno dal corso che la Lcwr sceglierà di intraprendere. Vorrei essere ottimista e credere che la decisione della Lcwr rafforzerà non solo le religiose ma la Chiesa intera. Rifiutare garbatamente di essere dominate da un sistema patriarcale che non comprende la natura comunitaria della Chiesa significherà dimostrare che un cristiano maturo non obbedisce ciecamente agli uomini, ma segue la chiamata di Dio nella preghiera. Tale scelta dirà che non c’è bisogno di persone controllori dell’ortodossia o di inquisizioni. Tale scelta dirà che Cristo, e non il Vaticano, è la vite e noi ne siamo i rami. Tale scelta dirà che lo Spirito di Dio guida la Chiesa e che sotto questa guida non abbiamo paura. Sotto questa guida abbiamo fede e fiducia. (l. e.)
I cattolici americani si mobilitano per le loro religiose
di Céline Hoyeau
in “La Croix” del 10 maggio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Da Boston a Seattle, da Los Angeles a Washington, davanti alle cattedrali di una quindicina di metropoli americane, martedì sera sono cominciate delle veglie di preghiera e delle manifestazioni che dureranno fino alla fine del mese. “Vogliamo mostrare il vasto sostegno di cui godono le religiose negli Stati Uniti e invitare il Vaticano ad abrogare la dichiarazione critica nei loro confronti”, spiega Jim Fitsgerald del Nun Justice Project, una rete di associazioni cattoliche creata per sostenere la Leadership Conference of Women Religious (LCWR).
Un mese fa, la Congregazione per la dottrina della fede ha chiesto, con l’approvazione di Benedetto XVI, una riforma completa di quell’organismo che rappresenta l’80% delle 57000 religiose americane, ritenendo che le sue prese di posizione dottrinali siano “un argomento di preoccupazione serio e grave”, e facendo riferimento ad un femminismo radicale. Questa decisione ha suscitato la collera di migliaia di cattolici che non comprendono che ce la si possa prendere con delle religiose impegnate a tutti i livelli nella sanità, nell’istruzione, nell’aiuto ai più deboli...
Circolano molte petizioni, una delle quali, sul sito change.org ha già raccolto più di 40 000 firme. In questo dibattito virulento e molto polarizzato, molti non esitano ad opporre senza mezzi termini queste “pioniere della giustizia”, queste “avvocate della pace” al Vaticano e ai vescovi americani accusati di volerle ridurre al silenzio. L’articolo di Nicholas Kristof, famoso giornalista americano, sul New York Times del 28 aprile, riassume questo clima: “Sono le persone più coraggiose, più solide, più ammirevoli del mondo. Durante i miei viaggi ho visto delle religiose eroiche sfidare i signori della guerra, i protettori di prostitute e i banditi. Perfino quando i vescovi sono stati la vergogna della Chiesa coprendo gli abusi sui bambini, le religiose l’hanno riscattata con il loro umile lavoro a favore dei più bisognosi.”
L’associazione Share el Salvador, che ha beneficiato dell’appoggio delle suore negli anni ’80 per l’accoglienza dei rifugiati salvadoregni, coordina una campagna nazionale di raccolta di firme: “Riaffermiamo il nostro amore e la nostra gratitudine, scrivono, per le migliaia di religiose che negli Stati Uniti hanno servito i poveri, curato i malati, accolto i senzatetto, istruito i nostri figli, cercato la pace invece della guerra (...). Rifiutiamo la rivendicazione di certi vescovi di essere l’autorità ultima e i soli arbitri della verità.”
Questo braccio di ferro ha radici molto profonde. Se la LCWR è stata fondata nel 1956 per “facilitare la comunicazione tra il Vaticano e le religiose”, a partire dal 1971, quando ha riscritto i suoi statuti, ha avuto un’evoluzione diventando “un’organizzazione indipendente, professionale, con una propria agenda”, dichiara la giornalista Ann Carey, che ha pubblicato nel 1997 uno studio documentato su Le Suore nella crisi. Secondo lei, molte sono andate oltre rispetto a quello che preconizzava il Concilio. La loro “esperienza vissuta” sul campo è diventata per molte “un riferimento teologico più importante delle voci ufficiali del magistero della Chiesa”.
Ad esempio, nel 2006, le benedettine di Madison (Wisconsin) sono state sciolte dai loro voti per trasformare il loro monastero in un centro ecumenico, dove vivono suore di diverse confessioni. Non vi si celebra più la messa, ma dei culti nel corso dei quali si è invitati a “condividere il pane di vita attorno alla tavola comune”... George Weigel, storico della Chiesa, scrive che in molti casi “la loro vita spirituale è influenzata più da Enneagramme e da Deepak Chopra (NDLR: figura dello sviluppo personale) che da Teresa d’Avila e da Edith Stein, che le loro nozioni di ortodossia sono, per esprimersi gentilmente, innovatrici, e che la loro relazione con l’autorità della Chiesa può essere descritta come un disprezzo appena mascherato.”
A diverse riprese, il Vaticano ha inviato degli avvertimenti alle religiose americane. Nel 1992, una parte delle suore ha lasciato la LCWR e creato un gruppo alternativo, il Consiglio delle superiori maggiori delle religiose (CMSW). Un nuovo avvertimento è stato inviato dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 2001. In particolare il Vaticano metteva in discussione gli incontri annuali della LCWR in cui venivano invitati relatori le cui posizioni etiche erano divergenti rispetto a quelle del Magistero della Chiesa. “La Congregazione per la dottrina della fede può aver ricevuto lettere individuali di religiose contestatrici, ma la LCWR, in quanto organizzazione, non ha mai preso ufficialmente posizione contro l’insegnamento della Chiesa”, dichiara padre Thomas Reese, ex redattore capo della rivista America. “Certe suore sono forse andate un po’ troppo in là, ma per la stragrande maggioranza si tratta di persone buone che non fanno altro che cercare di applicare il Vangelo nel quotidiano, e sono rimaste profondamente legate alla Chiesa cattolica. Anche sulla riforma sanitaria di Obama, che comprende il finanziamento dell’aborto e della contraccezione, è vero che alcune religiose si sono opposte ai vescovi, ma non per i contenuti, bensì per la forma.”
Andando più a fondo, si tratta di un “conflitto di potere”, secondo il gesuita. Di fatto, le religiose americane oggi sono piene di diplomi e lauree e dirigono università, ospedali, servizi diocesani, con la levatura di PDG (Presidenti Direttori Generali) di grandi imprese. “Sono donne brillanti, che da decenni si sono specializzate nelle questioni sociali, di istruzione, ecc. I vescovi non devono dire loro ciò che devono pensare”, ritiene padre Reese. Intervistata recentemente dalla Radio pubblica nazionale, Suor Simone Campbell confermava: “Pio XII ha ordinato alle religiose di istruirsi in teologia. Lo abbiamo preso sul serio e lo abbiamo fatto. Ed ora, cercano di modellarci secondo quanto pensano che dobbiamo essere, senza rendersi conto che noi siamo state fedeli all’appello per tutto il tempo.”
Madre Viviana, suor femminista: la Chiesa non apprezza il genio delle donne
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 7 maggio 2012)
Il genio femminile? Non sempre nella Chiesa sembra essere apprezzato. Suor Viviana Ballarin, presidente dell’Usmi, l’organismo dal quale dipendono tutti gli ordini religiosi femminili italiani, un esercito di circa 70 mila suore, riflette sulla mancanza di adeguati riconoscimenti da parte del Vaticano.
Non vuole parlare di maschilismo strisciante, né di discriminazione su base sessuale ma sul tappeto - effettivamente - restano diversi problemi insoluti. «Il cosiddetto genio femminile è una ricchezza per la società e anche per la Chiesa, ma molto spesso si ha paura del diverso; ciò che è diverso rappresenta per molti non tanto una ricchezza ma anche una minaccia e io credo che in gran parte per questo anche negli ambienti ecclesiastici si preferisce non confrontarsi con il diverso» dice.
Ecco che così iniziano i guai. «Allora si affidano alle donne, anche plurititolate, servizi e ruoli secondari ed esecutivi», afferma suor Viviana osservando la presenza di diverse religiose in curia e in altri organismi ecclesiali, con mansioni non adeguate per gli studi e la preparazione maturati nel corso degli anni. «E’ ancora piuttosto raro che vengano affidati nella Chiesa alle donne ruoli a più ampio respiro, intendo dire di responsabilità, di decisionalità. E’ abbastanza raro che possano sedere ai tavoli dove si pensa o si programma».
La questione che intende affrontare la presidente dell’Usmi è ampia e affonda le radici nella cultura del nostro tempo. «Quando nelle culture, nelle società e anche nella Chiesa non viene rispettato il progetto creazionale si cade o nel maschilismo o nel femminismo o altro. Gli ismi dicono sempre qualcosa di negativo».
Se ne deduce che il problema non è tanto della Chiesa ma di un influsso culturale che «volere o no influenza e condiziona anche la Chiesa degli uomini. Ma non la Chiesa di Cristo. Gesù, infatti, nella vita terrena ha dato esempi meravigliosi di rottura con leggi molto sfavorevoli nei confronti delle donne, pensiamo ad esempio al suo rapporto con la donna emorroissa, con la peccatrice in casa di Simone, con l’adultera, con la Samaritana e altre ancora».
Alla domanda se vorrebbe che il Papa introducesse il sacerdozio femminile, suor Viviana risponde subito di no. «Non sono smaniosa di rivendicazioni per quanto riguarda le questioni teologiche aperte. Come donna mi sento pienamente realizzata sia nella mia identità che nella mia missione. Se un giorno il sacerdozio e il diaconato verranno dati alle donne ben venga, mi pare però che ciò che conta veramente per ogni donna sia vivere quella diaconia e quel sacerdozio che sono stati impressi nella sua carne come fuoco il giorno in cui Dio l’ha voluta femmina e non maschio». Le religiose in Italia sono circa 70 mila secondo le ultime statistiche dell’Usmi.
Inserto sulle donne all’Osservatore. Armeni: esempio per i laici
di G. G. V. (Corriere della Sera, 07.04.2012)
CITTÀ DEL VATICANO - L’idea si è fatta concreta durante una passeggiata in campagna, un mese fa, e una chiacchierata tra la storica Lucetta Scaraffia, Ritanna Armeni e il direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian. Il prologo, in un certo senso, era andato in scena prima di Natale, il 19 dicembre a Palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede. Si presentava Uno sguardo cattolico, libro che raccoglie cento editoriali pubblicati tra il 2007 e il 2011 dal quotidiano della Santa Sede. E Ritanna Armeni, donna di sinistra che fu portavoce di Bertinotti, notò con una punta di sarcasmo: «Per me, ma non solo per me, è importante vedere le firme di tante editorialiste, di tante donne sull’Osservatore. Ce ne sono molte di più di quante si potrebbe supporre. Sicuramente più di quante ne possono vantare tanti grandi quotidiani che si definiscono laici e progressisti, che fanno battaglie per la dignità delle donne e poi le confinano in gran parte nelle pagine di cronaca e di moda».
E così, dalla svolta «rosa» dell’Osservatore - nata con la direzione di Vian e propiziata da Benedetto XVI - all’idea di un inserto al femminile, il passo è stato breve. Almeno all’inizio avrà quattro pagine e cadenza mensile, il titolo di lavoro è «Donne, chiesa, mondo», anche se tutto è ancora allo stadio iniziale: si sta cominciando a lavorare al numero zero, la speranza è di debuttare a fine maggio. Laiche e cattoliche, conservatrici e progressiste, credenti e non credenti o credenti di altre religioni: «Non è la Pravda», scherzava il direttore.
E certo sarà un passaggio storico, per il Vaticano, se si considera che la prima donna a poter entrare nei Sacri Palazzi fu negli anni Venti del Novecento Teodolinda Banfi, governante di Pio XI, mentre si racconta che tra l’Ottocento e il Novecento Giuseppe Sarto, poi Papa Pio X, avesse ritegno ad uscire in calesse con le sorelle perché, insomma, non stava bene. Nel frattempo molta acqua, anche Oltretevere, è passata sotto i ponti. Ci sono donne in posizione di responsabilità negli atenei e nei dicasteri vaticani, nel 2008 Silvia Guidi è stata la prima giornalista mai assunta dal quotidiano, Giulia Galeotti si è aggiunta nella redazione Cultura, l’edizione settimanale inglese dell’Osservatore è tutta femminile: due inglesi, due americane e un’australiana.
Del resto le pagine coordinate da Scaraffia, Armeni e Galeotti saranno un inserto al femminile, non un «inserto femminile» nell’accezione corrente. L’idea è di creare una pubblicazione mondiale sulle notizie e le questioni che riguardano le donne, e non solo nella Chiesa. Un’intervista in ogni numero, certo, sarà dedicata a una figura femminile della Chiesa. Ma notizie, cultura, inchieste spazieranno su tutto ciò che riguarda le donne.
L’Osservatore si rivolge al pianeta e l’inserto ha la stessa ambizione, già si pensa a una versione inglese sul sito web. Da tutto il mondo arriveranno quindi i contributi, «un taglio mondiale sia nelle collaborazioni sia nelle notizie», a cominciare da editorialiste e firme del giornale. Tra le altre, oltre alle «coordinatrici», la storica Anna Foa e Laura Palazzani, Sylvie Barnay, Marta Lago, Marguerite Peeters, Isabella Ducrot, Cristiana Dobner, Sandra Isetta.
Un’apertura elogiata dallo stesso Benedetto XVI nel messaggio per il 150° anniversario del giornale: «In questo tempo, il quotidiano della Santa Sede si presenta come un “giornale di idee”, un organo di formazione e non solo di informazione. Perciò deve sapere mantenere fedelmente il compito svolto in questo secolo e mezzo, con attenzione anche all’Oriente cristiano, all’irreversibile impegno ecumenico delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali, alla ricerca costante di amicizia e collaborazione con l’Ebraismo e con le altre religioni, al dibattito e al confronto culturale, alla voce delle donne, ai temi bioetici. Continuando l’apertura a nuove firme - tra cui quelle di un numero crescente di collaboratrici...».
LA MISURA E LE PAROLE. PARLARE PER SE’ E PARLARE "IN GENERALE", "IN PERSONA CHRISTI". L’ideologia del superuomo e della superdonna: Note di premessa sul tema:
Esiste il sesso delle parole
di Luisa Muraro (Metro, 28 marzo 2012) *
Non m’interessa che si faccia una politica in favore delle donne. Quello che invece m’interessa, è che le donne che entrano in politica, sappiano farsi valere con tutta la loro esperienza e competenza. Perché lo dico? Perché troppe di loro, man mano che fanno carriera, rinunciano invece al nome di donna e si presentano come dei neutri. Mi riferisco a quelle che, parlando ai giornalisti, dicono: chiamatemi ministro, sindaco, segretario, professore... La trovo una cosa scandalosa e incomprensibile, tanto più che negli altri paesi europei non lo fanno. Angela Merkel era deputata ed è diventata cancelliera della Germania. Ma guardiamo anche da noi: la donna che lavora in fabbrica si chiama operaia; quella che lavora in campagna, contadina; quella che vende, commessa. È giusto, lo vuole la lingua che parliamo, lo insegnano i vocabolari. Nei vecchi vocabolari non troviamo il femminile di sindaco, di ministro, di deputato, ma solo perché erano vocabolari di una civiltà patriarcale che escludeva le donne dalla vita pubblica. Questo non succede più. Da qui viene per me lo scandalo: se quelle che entrano nei posti di comando vogliono chiamarsi al maschile, che messaggio danno? Che il femminile è buono per sgobbare ma non per dirigere? Buono per la scuola elementare ma non per l’università?
Che una donna ammiri un uomo, ammesso che abbia qualche merito, non ci sono obiezioni, l’ammirazione è un sentimento libero. Ma che lo prenda come una misura per sé, in generale, questa o è soggezione o trasformismo. E ha degli effetti deteriori, perché in un posto di responsabilità, grande o piccola, bisogna portare non solo le conoscenze ma anche le esperienze, non solo un titolo di studio ma anche il proprio essere.
Per un 8 marzo nella Chiesa
di Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 7 marzo 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Buona festa a voi, donne della Chiesa, in questo 8 marzo 2012, giornata internazionale delle
donne! Attraverso una serie di contributi diversi, il Comité de la Jupe denuncia fermamente la
dominazione maschile in una istituzione che costantemente umilia la metà dell’umanità.
“Il Comité de la Jupe ha già ampiamente denunciato, da un lato la discriminazione fobica di cui
sono vittime le ragazze e le donne nella liturgia - anche per la predicazione e per l’accesso al
ministero ordinato - dall’altro il tentativo di dominio sul corpo delle donne che l’istituzione perpetua
giudicando l’esercizio della sessualità e demonizzando la teoria del genere.
È urgente proseguire, denunciando, ad esempio:
un linguaggio che, in buona coscienza, impone il maschile come definizione di tutto l’umano;
l’uso ricorrente del singolare “la donna” come se esistesse un modello unico;
l’esaltazione di una figura mariana eterea, vergine e condiscendente a tutto ciò che viene dal
modello paterno clericale;
il quasi generale dominio degli ordini religiosi monastici maschili sulle branche femminili.
Sì, la Chiesa non fa meglio degli altri: ha le sue proletarie, quelle “manine laboriose”, quelle
domestiche per tutti i servizi, quel corpo che non vuole vedere. Il suo corpo che offende ogni
giorno.
Allora, donne e uomini, apriamo gli occhi, curiamo la nostra Chiesa denunciando quello che le fa
male. La nostra parola - la sua - non le fa che bene.”
(Anne Soupa)
“Un giorno un vescovo mi confidava quanto le donne nella vita politica avessero difficoltà nel conquistarsi uno spazio. Lo deplorava sinceramente. Maliziosamente, gli ho fatto notare che, almeno, anche se è difficile, nella società civile le donne potevano essere ministri! La mia riflessione lo ha lasciato senza parole! La Chiesa cattolica romana si priva così di tesori di fede, di energia, di competenza, escludendo le donne dai ministeri ordinati. Essa giustifica così una visione del femminile che non può che essere in posizione di ricezione e non di iniziativa, una visione del femminile che non può rappresentare l’iniziativa di Dio. Così facendo, e benché il discorso ufficiale lo neghi, essa giustifica, nei fatti, un posto di second’ordine per le donne. Quando usciremo da questo immobilismo?” (Sr. Michèle Jeunet, rc)
“Padre Moingt, in un articolo su Etudes, esprimeva la preoccupazione per la disaffezione delle donne rispetto alla Chiesa, allontanate dagli altari e umiliate. È ancora peggio. Tristezza fondamentale nel constatare che il dominio maschile è onnipresente e che è peggiore nella religione, perché viene fondato su giustificazioni teologiche che fanno passare le discriminazioni per volontà divina. La tendenza recente di affidare ai soli uomini o ragazzi maschi le letture liturgiche mi sembra un provvedimento inverosimile: ingiustizia enorme nei confronti delle donne e cieca di fronte al modo di funzionare delle società moderne. Oggi, la pratica religiosa si accompagna troppo spesso per me ad un sentimento di alienazione. Esperienza quanto mai dolorosa!” (Sylvie)
“Trent’anni fa, infastidita dai singolari su “La” Donna e la sua vocazione, avevo scritto un articolo“Donne e Chiesa: un amore difficile!”. A distanza di trent’anni, dopo che molte mie contemporanee hanno lasciato la Chiesa in punta di piedi, dovrei scrivere: “Donne e Chiesa: un disamore consumato.” Emorragia annunciata, proposta fatta di istituzionalizzare i servizi delle donne nella Chiesa: donne cappellane, diaconesse, e perché no, preti. Un sistema obsoleto, unito ad un discorso unisex sulla sessualità, è tuttavia continuato. Delle teologhe come France Quéré hanno allora spalancato la porta di una parola sul ruolo decisivo delle donne bibliche nella Rivelazione, non guardiane di un Tempio intoccabile, ma vettori irrinunciabili della Speranza cristiana in un mondo in trasformazione. Al fiat di Maria “celestificata” ad vitam, successe la valorizzazione di Maria radicata, contestatrice dell’ordine stabilito maschile, che ha visto la miseria di un popolo maltrattato dai superbi. Le nuove tecnologie dell’informazione svolgeranno un ruolo per il riconoscimento della dignità delle donne nella Chiesa cattolica, importante quanto quello svolto nelle recenti primavere di popoli asserviti.” (Blandine)
“Parlare dell’ordinazione delle donne resta un tabù nella Chiesa cattolica, e il prendere ufficialmente
posizione a suo favore viene minacciato di scomunica. Per la Chiesa cattolica, il prete è un “altro
Cristo”. Riflettiamo un po’ su questo...
Non siamo tutti chiamati ad essere “configurati a Cristo” secondo l’espressione di Paolo?
Noi confessiamo, seguendo gli apostoli, che Dio si è fatto “uomo”. Ma la parola usata è “umano” e
non “maschio”... Incarnandosi, Dio ha optato per il maschile, piegandosi alle convenienze del suo
tempo per poter essere ascoltato.
Non è lo Spirito Santo che consacra il pane e il vino delle nostre tavole eucaristiche?
La donna resterà sempre quell’essere incompleto, inferiore, tentatore ed impuro?”
(Claude)
“Nella mia vita professionale, familiare, cittadina, posso far sentire la mia voce e pesare sulle
decisioni. Nella Chiesa, sono doppiamente muta ed impotente poiché laica e donna.
Eppure si può essere cattolica e femminista. Ma perché restare in questa Chiesa il cui discorso
ufficiale mi glorifica per meglio togliermi la parola?
Perché, come la Samaritana, voglio avvicinarmi il più possibile e bere alla sorgente che disseta per
sempre. Perché essere vicini a Cristo è possibile, senza la mediazione delle pompe, dell’organo,
dell’incenso e del latino, dei riti e dei divieti, ma attraverso la preghiera e l’incontro dei miei fratelli
e delle mie sorelle nella Chiesa.
Ecco quello che fa paura al clero: perdere il potere che conferisce loro lo statuto che si sono
concessi (malgrado l’insegnamento di Cristo) di mediatori, soli atti a veicolare il “sacro” nei due
sensi...
L’intrusione delle donne - del femminile - nell’edificio lo farà andare in frantumi. Da Maria
Maddalena a santa Teresa di Lisieux, in tutta la storia della Chiesa, delle donne - e degli uomini
come san Francesco d’Assisi! - hanno fatto sentire la loro musica delicata: un incontro è possibile e
questo incontro passa dal cuore.”
(Françoise)
“Il magistero cattolico maschile, quasi muto sugli uomini (maschi), affronta la “differenza dei sessi”
solo attraverso le donne. Questo non è estraneo al fatto che sono degli uomini a definire la natura
delle donne. Loro sono i soggetti della dottrina, e le donne gli oggetti. Della loro natura maschile
non parlano. Senza dubbio la identificano alla natura umana. Gli uomini (vir) si identificano agli
uomini (homo), all’universale, al neutro, al prototipo, mentre assegnano le donne alla particolarità,
alla specificità, alla differenza.
Che cos’è il genere? I documenti romani lo manifestano: uomini investiti dell’autorità dicono alle donne chi esse sono e quali rapporti devono intrattenere con gli uomini. Il genere quindi è un
rapporto di potere che si costruisce nello stesso tempo in cui costruisce i suoi due termini.”
(Gonzague JD)
“La frase infelice del cardinal Vingt-Trois che ha provocato la nascita del Comité de la Jupe non era
un increscioso incidente. Era, nel senso psicanalitico del termine, una parola involontaria. Svela non
la misoginia dell’uomo, ma quella di un’istituzione che è in una fase di ripiegamento. Nel fenomeno
di “restaurazione” al quale assistiamo oggi nella Chiesa cattolica, le donne sono le prime vittime: le
si rimette “al loro posto”, quello “di ausiliaria di vita” della solo metà dell’umanità che conta, la
metà maschile che si prende per il tutto.
In questo 8 marzo, noi donne cattoliche possiamo dare l’allarme. Quando delle società o delle
istituzioni sono in crisi, le donne ci rimettono per prime. L’emancipazione delle donne nelle nostre
società occidentali è un bene prezioso ma ancora fragile; il rischio di “restaurazione patriarcale” è
reale per l’insieme della società. Queste circostanze invitano alla vigilanza e alla solidarietà di tutte
le donne e anche degli uomini che considerano come un ottimo bene che le donne siano loro
contemporanee sulla base di parità.”
(Christine Pedotti)
“Buona festa a voi, sì, a voi, donne della Chiesa. Quelle che hanno seguito gli stessi incontri di catechismo di tutti gli altri bambini. Quelle che hanno detto sì, a un uomo o a una vita consacrata a Dio. Quelle che hanno portato un figlio o una figlia al fonte battesimale, come madre o come madrina. Buona festa a voi che tornate ogni giorno, ogni settimana, ogni domenica, per accompagnare, studiare, condividere, organizzare, informare, pulire, benedire, ornare di fiori, insegnare, cantare, preparare, lodare, predicare, pregare, meditare, tenere per mano, sollevare la testa... Buona festa a voi tutte, che siete Chiesa, che fate la Chiesa...” (Estelle Roure)
8 marzo 2012, ancora streghe
di Giancarla Codrignani (“Adista” - Segni Nuovi, - n. 10, 10 marzo 2012)
A Bologna, un islamico osservante ha sentito «impuro» il proprio rapporto con una donna cristianoortodossa e ha tentato di decapitarla «come Abramo fece con Isacco» (la donna, un’u-craina di 45 anni, se la scampa, rischia di ritrovarsi paraplegica).
Non è solo un caso di fondamentalismo maniacale. In questi giorni, si apre a Palmi un processo di stupro che testimonia il persistere italico della maledizione di Eva: a San Martino di Taurianova una bambina di 12 anni (che oggi ne ha 24 e vive sotto protezione perché alcuni dei persecutori che ha denunciato erano mafiosi) per anni è stata considerata da tutto il paese la colpevole degli stupri di gruppo, delle violenze e dei ricatti subiti e anche il parroco a cui aveva tentato di confidarsi giudicava peccatrice una dodicenne violata che solo la penitenza poteva redimere. Sembra incredibile, ma nella santità delle religioni albergano tabù ancestrali che gli studi antropologici e le secolarizzazioni non sono riusciti a eliminare. Sono i tabù peggiori perché responsabili dei pregiudizi sessuofobici e misogini che, sacralizzati, hanno prodotto, nel nome di dio, discriminazioni e violenze.
Nel terzo millennio le religioni dovrebbero andare in analisi e domandarsi quanto la sessuofobia e la misoginia insidino nel profondo la loro possibilità di futuro. Il concetto di “purezza” che ha represso, nell’ipocrisia mercantile e proprietaria dei valori familiari, milioni di ragazze non è nato certo dalla scelta delle donne. Alla Lucy delle origini, mestruata e responsabile della riproduzione, non sarebbe mai venuto in mente di sentirsi sporca o colpevole. Forse percepiva già come colpa, certo non sua, la violenza che connotava la bassa qualità di molte prestazioni maschili. Tanto meno, quando si fosse inventato il diritto, avrebbe distinto i “suoi” figli in legittimi o illegittimi. Eppure si continua a credere che la mestruata faccia ingiallire le foglie e inacidire il latte; in Africa, in “quei giorni”, è confinata in capanne speciali per non contaminare le case; a Roma Paolo la voleva velata e zittita, mentre i papi, forse senza sapere perché, le hanno vietato di consacrare. Siamo ancora qui, a fare conti sul puro e l’impuro e a ripetere il capro espiatorio nel corpo di qualche altro Isacco per volere di qualche Abramo che credeva di interpretare Dio, di qualche altra Ifigenia proprietà di Agamennone padrone della sua morte.
Noi donne non siamo certo migliori degli uomini, ma nelle società maschili permangono residui di paure che neppure Darwin ha fatto sparire. I responsabili delle religioni che intendono salvare la fede per le generazioni future debbono purificarle dalle ombre del sacro antropologico: il papa cattolico deve non condannare, bensì accogliere come servizio di verità nelle scuole un’educazione sessuale che dia valore all’affettività non solo biologica delle relazioni fra i generi e al rispetto delle diverse tendenze sessuali; l’islam che fa imparare a memoria fin da piccoli le sure del Corano, si deve rendere conto che i tabù violenti producono strani effetti se un uomo si sente un dio punitore davanti a donne-Isacco; i rabbini dovrebbero fare i conti con Levy Strauss e smettere di chiedere autobus separati per genere e di insultare le bambine non velate; in Cina e in India non si deve perpetuare l’insignificanza femminile trasferendo gli infanticidi delle neonate alla “scelta” ecografica, mortale solo per le bimbe. Sono tutte scelte di morte. Per ragioni di genere.
Ma, se la responsabilità delle religioni monoteiste è particolarmente grave per l’immagine anche non raffigurata di una divinità di fatto maschile, più precisa è quella dei cristiani. Si è detto infinite volte: perché il nostro clero, ancora così pronto a chiedere cerimonie riparatrici per spettacoli che non ha visto, non pensa ad evangelizzare i maschi invece di sospettare costantemente peccati di cui non può essere giudice, condannato com’è al masochismo celibatario per paura della purezza originaria della sessualità umana?
C’è un salto logico - certamente non illogico per le donne che stanno leggendo i pezzi sull’8 marzo
ma anche la società civile persevera troppo nel negare rispetto al corpo delle donne: i tre caporali
del 33esimo reggimento Acqui indagati per lo stupro di Pizzoli (L’Aquila) sono rientrati in servizio
nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”...
"La grammatica è maschilista"
Le donne francesi vogliono cambiarla
"La cosa grave è che arrivi nelle scuole l’idea di un genere superiore all’altro"
Quattromila persone hanno sottoscritto una petizione ripresa da "Le Monde" chiedendo nuove regole
Nei plurali il femminile risulta penalizzato, l’Académie Française però si oppone a ogni riforma
- di Anais Ginori (la Repubblica, 24.01.2012)
«Que les hommes et les femmes soient belles!», che gli uomini e donne siano belle. Nessuno può pronunciare questa frase senza venire immediatamente bacchettato dai puristi della lingua. Eppure è questo il titolo di un appello per riformare la grammatica che sta circolando in Rete, ripreso anche da Le Monde. Da secoli infatti la concordanza dell’aggettivo prevede che il genere maschile prevalga su quello femminile. Si dice "gli uomini e le donne sono belli", non il contrario.
Sembra una di quelle tipiche sfumature che appassionano studiosi e accademici. Invece, secondo i gruppi che hanno promosso la petizione già firmata da oltre 4mila persone, questa regola nasconderebbe un immaginario maschilista duro a morire e avrebbe addirittura conseguenze nella vita di tutti i giorni. «Se neanche nella lingua esiste la parità di genere - spiega Clara Domingues, docente di letteratura e presidente di un’associazione femminista - come sperare che la condizione delle donne faccia progressi in famiglia o negli uffici?».
La forza delle parole. Nonostante pari diritti e dignità per entrambi i sessi siano iscritti nella Costituzione, argomentano le promotrici dell’appello, esiste ancora una grammatica "sessista". «La cosa più grave - si legge nella petizione - è il fatto che questa idea di un genere superiore all’altro venga trasmessa anche a scuola nell’insegnamento del francese ai bambini». Le associazioni militano per un cambio dei manuali nel quale sia prevista la possibilità di accordare aggettivi e participi secondo il genere del nome più vicino. Ad esempio: «Un cappello e una giacca nere». Oppure: «Laura, Giacomo e Paola sono simpatiche».
Femminismo a parte, una grammatica meno schiacciata sul maschile, offrirebbe più libertà nella costruzione delle frasi e sarebbe esteticamente più elegante, aggiungono le promotrici. Contrariamente a quel che si pensa, già nel greco antico e nel latino funzionava così. La petizione è stata inviata all’Académie Française, guardiano della purezza della lingua, con scarse speranze di essere accolta.
L’istituzione fondata nel 1635 dal cardinale Richelieu ha sempre fatto argine ad ogni cambiamento in questo senso. Già dieci anni fa, l’organismo si era rivolto con allarmismo al capo dello Stato. Le socialiste Martine Aubry e Elisabeth Guigou, appena nominate nell’allora governo, avevano osato farsi chiamare "Madame la Ministre". Da allora, ci sono state molte altre ministre e prima o poi l’Académie dovrà registrare la novità.
Per tradizione, si tratta di un’istituzione esclusivamente maschile, sette donne tra i quaranta membri, la prima fu la scrittrice Marguerite Yourcenar nominata solo nel 1980. «Non abbiamo mai seguito le mode. La superiorità del maschile esiste almeno da tre secoli e non ho l’impressione che sia rimessa in discussione nell’uso comune del francese» spiega Patrick Vannier, che si occupa del dizionario dell’Académie. La parità di genere può aspettare, almeno in senso linguistico.
La spinta di Ratzinger
di Emma Fattorini (l’Unità, 10 gennaio 2012)
Il senso dell’importante discorso tenuto ieri da Benedetto XVI è ben racchiuso nelle parole conclusive quando il Pontefice afferma che occorre riandare al duplice insegnamento della Gaudium et Spes. Secondo questo testo fondamentale del Concilio Vaticano II, di cui ricorre il 50° anniversario, nulla è più importante «della vocazione dell’uomo».
L’umano è valore assoluto al punto che racchiude la scintilla del divino. L’insegnamento che ne deriva è quello di «offrire all’umanità una cooperazione sincera, che instauri quella fraternità universale che corrisponde a tale vocazione».
Perché è contenuto qui lo spirito del messaggio di inizio anno di Papa Ratzinger? Perché c’è un senso molto unitario, nel suo appello affinché l’umanità trovi le strade di una nuova cooperazione. Unitario in quanto tutti gli aspetti dell’umano si integrano senza scissioni o preferenze tra chi pensa sia più importante l’aspetto economico e chi quello morale. Unitario in quanto una comune umanità implica la difesa materiale dei più poveri e non di meno condanna la selezione prenatale del sesso.
Il suo ragionare parte dai più deboli, che la crisi rende ancora più esposti e svantaggiati: dopo avere sottolineato che la Santa Sede è finalmente membro a pieno titolo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, il Papa riflette sugli effetti devastanti che la crisi può avere sui Paesi in via di sviluppo.
La crisi nella quale il mondo occidentale è ormai precipitato è etica prima che economica e può essere «uno sprone» - sono le sue parole - per ridisegnare le priorità dell’esistenza umana nel nuovo millennio, il cui destino non «finisce nel nulla e non è la corruzione». Per un cambiamento dei meccanismi economici e delle risorse in quel quadro di «rispetto del creato» al quale tante volte ha fatto riferimento in questi anni.
È, il suo, un approccio che sembrava controcorrente fino a poco tempo fa ma che ora molti sono costretti a condividere e che però contiene un significato specifico preciso: sarebbe irrealistico prima che immorale, parlare di una nuova cooperazione se essa si limitasse al solo piano economico-materiale. È irrealistico - dice Benedetto XVI - pensare ai bisogni dei giovani, i più penalizzati dalla crisi, come pure opportunità di occupazione e di futuro se non si investe sulle «istituzioni educative».
Non è uno stanco ripetere, è davvero così: non si potrà ricostruire nulla se non si capisce che la formazione delle persone giovani, la loro cultura è inscindibile dalla loro maturità interiore, dalle loro possibilità materiali mai scisse dalla forza interiore di sperare e progettare, di essere onesti e generosi. E in questo grande disegno e progetto formativo la famiglia è centrale.
Famiglia non come convenzione sociale, ma come nucleo di affettività solidale al proprio interno e mai escludente l’esterno.
Quello della famiglia è il nodo da cui occorrerà ripartire tutti. Per ridisegnarne il senso, per non appiattirla al familismo egoistico che è la versione più ingannevole di quella degenerazione individualistica così lontana da una vera, matura soggettività libera.
Quella sì ricca di capacità relazionali come l’esperienza delle donne non smette di insegnarci. Le donne, il vero, grande “ponte” tra esperienza materiale e sapienza del cuore. E però proprio per questo più sfruttate che aiutate. Eppure non si può parlare di famiglia senza ripartire da loro. E dovrebbe capirlo molto bene la Chiesa quando nei Paesi più oppressi, quelli nei quali le religioni sono causa principale della soppressione dei diritti, sono proprio le donne a convertirsi in maggior numero al cristianesimo perché trovano lì, nel suo senso di eguaglianza e di giustizia, una superiore occasione di affrancamento e di liberazione.
Insomma, quello del Papa è stato un discorso rivolto a tutti i Paesi del mondo con l’occhio fisso alla singola persona nella sua unitarietà e interezza. Per ridisegnare un’idea di genere umano nella quale davvero si possano ormai riconoscere credenti e non credenti, tutti gli uomini di buona volontà, indispensabili, per i difficili tempi che ci aspettano.
L’alleanza si è rotta La Chiesa non abbia paura delle donne
di Emma Fattorini (l’Unità, 11 febbraio 2012)
La donna è più predisposta a quell’unità di vita tra piccolo e grande, tra dentro e fuori, tra interiorità ed esteriorità che è il modo contemporaneo in cui Cristo ci appare oggi. In un tempo come il nostro nel quale è forte la scissione tra le affermazioni di principio e i comportamenti pratici, anche tra i cristiani che tanta fatica fanno a raggiungere una unità di vita.
Però, come non credo all’inferiorità femminile, non credo neanche ad una superiorità della donna neppure nel rapporto con Gesù. Credo invece, profondamente, in un’assoluta parità della donna con l’uomo, ma una parità così radicale da consentire una sua altrettanto radicale differenza con lui. Una differenza anche nel loro rapportarsi a Dio. Una differenza che purtroppo gli uomini, tutti, anche quelli di Chiesa hanno tradotto, banalmente, con inferiorità. Un errore, ma direi di più: un vero e proprio peccato che non solo Gesù non commise mai, ma dal quale proprio e solo lui, in tutta la storia umana, ha aiutato davvero ad affrancarci, cambiandone il segno.
Questo non è ciò che avviene nella Chiesa. Le suore oggi sono consapevoli dell’assurdità di questa posizione, dell’errore enorme, della perdita secca che, non loro, ma il mondo maschile della Chiesa subisce nel non valorizzare il femminile. Qualcosa che non può dominare, controllare e che pure sarebbe una ricchezza e una benedizione per lui e per la Chiesa.
Credo che la Chiesa rischi di perdere l’occasione storica di una grande, potente, alleanza con il genere femminile. La Chiesa, lungo la sua storia, si è alleata tante volte con le donne: nei momenti in cui si è sentita sconfitta, ad esempio dopo la rivoluzione francese, o in i tutti i passaggi cruciali del processo di secolarizzazione, si è sempre alleata con quel senso di pietà religiosa che la donna riusciva a fare vivere in casa comunicandola ai propri uomini, ai figli, al proprio marito sempre più lontani dalle pratiche religiose. Si trattava di una devozione mai disgiunta da un profondo e rigoroso cambiamento interiore, fatto di onestà, formazione del carattere e coerenza. Ecco allora, ancora una volta, la capacità femminile di tenere uniti il dentro e il fuori.
Poi, con il processo di emancipazione femminile, dalla fine dell’Ottocento in poi, questa alleanza si è spezzata: la donna è diventata sempre di più veicolo e metafora della modernità vista solo nei suoi pericoli, in primo luogo la libertà dell’individuo.
Oggi questo processo è giunto agli esiti più estremi. Quello che papa Wojtyla ha chiamato svolta antropologica, che non è quella bandiera ideologica rinfacciata su tutti i fronti. Lui l’assume, fin dal tempo in cui, lavorando al Concilio contribuì al n. 22 della Gaudium et Spes in questi termini:
Cristo svela pienamente l’uomo all’uomo, perché solo nel mistero del Verbo anche il mistero dell’uomo incarnato trova vera luce. Dio ha posto nell’uomo un seme di eterno. Cioè Cristo aiuta l’uomo ad essere pienamente uomo e qui Wojtyla aggiunge che, in questo passaggio, la cooperazione femminile è fondamentale, essenziale. È fondativa, non accessoria o secondaria.
Oggi la libertà soggettiva e i diritti individuali sono la cultura dominante, come a fine Ottocento fu la questione sociale. E come allora la Chiesa riuscì a farsene carico con una dottrina sociale capace di rispondere in avanti alle domande del collettivismo socialista e dell’individualismo liberale, così deve fare ora con il tema delle libertà individuali.
E la donna da minaccia suprema potrebbe essere la più preziosa alleata.
Vorrei dire molto serenamente ai nostri sacerdoti e alle nostre gerarchie: non dovete avere paura del rapporto vero con le donne. E questo significa in primo luogo che, quando si parla giustamente e inevitabilmente di valori irrinunciabili, l’etica, che ne è il fondamento, si può fondare solo sull’amore e non sullo scambio politico: quello, lo sappiamo bene, ci vuole, sarebbe dannosamente ingenuo ignorarlo. Ma non è mai, assolutamente mai il patteggiamento politico a dovere avere l’ultima parola. E questo non per purismo imbelle ma perché, semplicemente, non funziona. Le donne possono essere il centro propulsore di una sorta di nuova costituente antropologica, in cui in nome di un comune umanesimo, che non può esistere se non è anche un umanesimo femminile, si possono trovare più ragioni comuni con i non credenti che argomenti di divisione. Due sono i vizi da evitare perché questo sia possibile: la colpevolizzazione o il moralismo, ne abbiamo avuti tanti esempi in questi dieci anni e abbiamo visto come siamo finiti.
Nel nuovo protagonismo dei cattolici nella politica italiana le donne possono essere centrali, quale ponte e dialogo con i non credenti, possono essere pilastri di una nuova cooperazione. E, invece, come sono apparse le donne sulla scena pubblica nell’ultimo ventennio? O come corpi mercificati, o come fattori divisivi dei valori non negoziabili.
Eppure è altro lo spazio per le donne.
È chiaro ormai per tutti che la crisi del mondo occidentale è etica prima che economica. Ma se nuove regole, una stessa nuova etica non cresce e matura dall’interiorità, dalla maturità complessiva delle persone non potremo mai risollevarci. È irrealistico, prima che sbagliato, pensare ai bisogni dei giovani, i più penalizzati dalla crisi, come pure opportunità di occupazione. Lo so, sembra da pazzi, eppure è proprio adesso, quando la situazione materiale si fa più difficile, che la forza interiore dell’amore e della generosità diventa potente per sperare e progettare, per essere onesti e generosi. Un sentire che dobbiamo comunicare alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi di un Occidente ormai neppure più sazio ma solo disperato.
di Luisa Muraro ("Alias”, 24 dicembre 2011)
Maria di Nazaret (Palestina) è tornata di moda. Dico tornata perché chi sa un po’ di storia religiosa la conosce come una figura che si è regolarmente prestata a interpretare esigenze del momento, provenienti dall’alto e dal basso, da destra e da sinistra.
La sua carriera comincia prestissimo, alle nozze di Cana, quando si accorge che manca il vino e chiede al figlio di provvedere. Il culmine lo raggiunge nel Concilio di Efeso, quinto secolo, quando i padri conciliari le danno il titolo di madre di Dio. Chi ha lottato per questo risultato?
Sorpresa, quel Cirillo di Alessandria al quale gli storici imputano una parte di responsabilità nell’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia. Cirillo era un politico spregiudicato,ma anche buon teologo. A lui interessava essenzialmente la dottrina su Gesù e la sua identità: doppia (uomo e dio) o una? Una, sosteneva Cirillo, quella divina; il titolo dato a Maria veniva di conseguenza. Non è finita lì, le peripezie continueranno, una storia in cui si trova di tutto, pensate soltanto alla Porta di Gaudí (la natività) nella Sagrada Familia di Barcellona, che fu concepita per recuperare alla religione le famiglie operaie.
La Maria di moda ai nostri giorni trionfa con il femminismo che combatte il patriarcato ancora annidato nella religione. Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico,ma anche le agnostiche si sono dedicate e strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti), che ha convocato una schiera di amici a commentare il canto che Luca mette in bocca a Maria. Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini.
Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni ’80, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso: memorabile quel numero della rivista “Inchiesta” (1989) da lei curato, Il divino concepito da noi, con numerosi testi mariani. Per i nostri giorni penso a Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente. Riaffiora a questo punto il titolo esorbitante dato a Maria dai padri conciliari di Efeso: madre di Dio. E perché non Dio lei stessa? La donna che dà corpo a Dio, come non vedere Dio nel suo, di lei, corpo? Mi pare che ci sia una sentenza dell’ex Sant’Uffizio che vieta di pensarlo, ma come fermare le idee? Solo la mediocrità e la paura fermano le idee, altrimenti premono per svilupparsi.
Teresa di Lisieux (una femminista, qualcuno ha scritto di lei) va in quella direzione. In una sua poesia di meditazione sulla Vergine che allatta Gesù, dice: il serafino contempla Dio faccia a faccia, beato lui, io su questa terra che cosa posso vedere? un’ostia bianca come il latte... Ecco che cosa io posso vedere e godere: il latte della Vergine. Cirillo, vescovo di Alessandria e padre della Chiesa, aveva altro in testa, indubbiamente, ma la umana testa, per quanto robusta, sarebbe limitata, la fa grande e libera che la teniamo aperta al soffio delle idee.
La femminista e la violenza
Muraro: "quando possiamo dire sì all’uso della forza"
La provocazione della filosofa su "Via Dogana" rivista storica delle donne
A cui replicano in tante, criticando una tesi mai condivisa: "Non esiste un modo di scontrarsi intelligente"
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 07.03.2012)
"Violenza giusta": ma non è dissennato riproporla oggi? Nella redazione di Via Dogana devono averci pensato un po’ prima di dare alle stampe il centesimo numero, che non passerà inosservato. La storica rivista della Libreria delle donne di Milano s’apre infatti con una sorprendente riflessione di Luisa Muraro Al limite, la violenza, che non è certo un inno alla violenza ma non la «esclude a priori».
Un’apertura a «un uso della forza» adeguato alla violenza che è nelle cose e nei rapporti tra le persone. Esisterebbe in sostanza una «violenza giusta», distinta da quella «stupida» e «controproducente». E sarebbe sbagliato «separare la violenza dalla forza» perché «lo sconfinamento tra una e l’altra è inevitabile».
Accanto alla citazione de L’Iliade poema della forza di Simone Weil, ecco l’improvvido elogio della sassaiola contro i cattivi politici. Bisognava «mandarlo indietro a fischi e sassate, come si meritava, come si usava una volta, come chiedevano i loro morti, quelli uccisi dal crollo di edifici pubblici taroccati», scrive Muraro rievocando la passerella di Berlusconi all’Aquila dopo il terremoto. "A fischi e sassate", proprio così dice l’autrice.
Ma che succede nello storico laboratorio del pensiero della differenza, di cui Muraro è indiscussa e mite sacerdotessa? Non erano state proprio loro, le femministe della Libreria delle donne, a liquidare negli anni Settanta la violenza come rispecchiamento di bellicose logiche maschili? E dopo gli esiti luttuosi di quella stagione, non è sbagliato e pericoloso rilanciare ora una riflessione sulla «violenza giusta»?
Al momento Muraro non parla. Il suo articolo di Via Dogana è l’anticipazione di un saggio che sarà pubblicato a giugno da nottetempo - Dio è violent... - e l’autrice preferisce aspettare l’uscita del libro. Per capirne di più, bisogna risalire all’estate scorsa, all’epoca dei disordini nella Val Susa, quando sul sito della Libreria compare una voce femminile che invita "a rompere un tabù", il silenzio sulla «violenza nella realtà e nel discorso della politica».
Muraro condivide: «È un tema urgente, bisognoso di una nuova e spregiudicata riflessione», dove spregiudicata significa «pensarci senza dire automaticamente no alla violenza». E ancora: «Bisogna cominciare a fare la differenza tra la violenza stupida e quella che tale non è, di cui abbiamo smesso di pensare e di parlare, dimenticando che l’agire umano non si dà senza questa componente».
Violenza stupida? Violenza intelligente?
A sette mesi da quella riflessione, ecco il nuovo articolo su Via Dogana, in un numero dedicato alla "forza necessaria". «C’è una violenza nelle cose e tra i viventi che prelude a un ritorno alla legge del più forte: dobbiamo pensarci», invoca Muraro. Alla propria forza non si deve rinunciare, «si tratterà dunque di dosarla senza perderla».
Ma come? La studiosa rifiuta il confine indicato dalla «predicazione antiviolenza», ossia quello che distingue forza e violenza. «No, lo sconfinamento è inevitabile». E allora? E allora «la misura da cercare» è in «una violenza giusta» misurata non sul diritto ma sulle circostanze storiche. Due gli esempi indicati nel breve scritto.
Il primo risale agli eccidi di Srebrenica, che potevano essere evitati dai militari dell’Onu, «incapaci di percepire il mostro dell’odio davanti ai loro occhi».
Il secondo è invece preso dalle storie di casa nostra, quando «era nelle possibilità degli abitanti dell’Aquila impedire al capo del governo di fare della loro sventurata città la cornice massmediatica per la sua autopromozione».
Della contundente soluzione suggerita da Muraro abbiamo già detto: sarebbe questa la violenza "intelligente"? «Muraro ha ragione, c’è una violenza stupida. Quello che però non riesco a concepire è la sassata intelligente, o la carica di polizia intelligente». Anna Bravo, storica dell’età contemporanea sensibile ai temi delle donne e della nonviolenza, appare piuttosto sorpresa. «Se Zizek sostiene che il pacifismo è facilmente assimilabile non mi turba molto. Muraro invece mi inquieta, perché è lei, e perché donna. Per noi donne, che abbiamo alle spalle una storia millenaria di disobbedienza e di manipolazione delle norme, è più semplice capire non solo che legge e giustizia sono due cose diverse, ma che si può agire di conseguenza senza inabissarsi nella distruttività. Per di più, il crescere della violenza e la militarizzazione dei movimenti - sia nella Resistenza che negli anni Settanta - ha sempre tolto respiro alle iniziative delle donne».
Nel suo bel saggio sul Sessantotto A colpi di cuore - titolo di per sé espressivo - Bravo rievoca il disagio delle donne di Lotta Continua quando portavano le molotov nel tascapane. La legittimità della violenza, annota la studiosa, è un tema estraneo alla tradizione femminista. E neppure nella letteratura di guerra e della resistenza l’argomento è centrale. «L’Italia è stata definita la patria del femminismo più forte e violento ma non è vero», dice ora Bravo. «Certo, i gruppi potevano risentire del clima di allora. C’era una pressione politica molto forte ed era acquisito il principio che si potessero fare cose illegali. Ma molte ragazze di Lotta Continua contestavano il servizio d’ordine e avevano paura di trovarsi in mezzo ai cortei più caldi. E quando Lc si sciolse, soprattutto per opera delle femministe, fu anche per una diversità di vedute sulla violenza».
Violenza legittima, uso della forza. Il pensiero corre a Carla Lonzi, la femminista che tra le prime liquidò la violenza dell’inconscio maschile, «ricettacolo di sangue e paura». La discussione sembra ora aperta all’interno della stessa Via Dogana, che ospita voci contrastanti.
«Alla sollecitazione della Muraro», scrive Annarosa Buttarelli, «fa obiezione la scelta storica di gran parte delle donne di lottare in modo non violento. La scelta di segno femminile è di custodire l’integrità dei corpi e dei luoghi». E Lia Cigarini chiude: «Schivare lo scontro guerresco è segno di forza, non di debolezza».
Al gioco del più forte, insiste ora Bravo, noi perdiamo sempre. «L’invito di Muraro a ripensare il nostro rapporto con la violenza si lega al giudizio sul presente, che prefigurerebbe un ritorno alla legge del più forte. Ammettiamo che sia così: ma spostarsi su questo livello di scontro, questo sì mi sembra un passo in sintonia con uno spirito militare. Voi usate la vostra forza? Noi siamo in grado di tenervi testa con la nostra. Mentre la potenza dell’oppositore nonviolento sta proprio nel sottrarsi a questo meccanismo». Un meccanismo, conclude la studiosa, che ha portato tanti movimenti alla sconfitta. Sconcertante, davvero, riconsiderarlo oggi.
“La Chiesa mancherebbe al suo dovere di agire da «esperta in umanità» se non riconoscesse il posto delle donne”
dell’episcopato del Québec (1990)
in “www.comitedelajupe.fr” del 17 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Davanti a 1000 persone tra le quali i rappresentanti dell’Assemblea nazionale del Québec e di gruppi di donne, l’episcopato del Québec ha saputo fare un atto di pentimento. Preghiamo perché queste dichiarazioni dei vescovi del Québec nel 1990 possano ispirare le nostre Chiese d’Europa! (Comité de la Jupe)
«L’episcopato del Québec, in quest’anno che segna il cinquantesimo anniversario dell’ottenimento del diritto di voto delle donne in Québec, vuole celebrare, in un incontro di amicizia e di festa, questo avvenimento storico che ha riconosciuto alle donne del Québec il loro pieno diritto di cittadine. Questa festa avrà anche, diciamolo, una dimensione riparatrice poiché a quel tempo, l’episcopato e il governo avevano manifestato una lunga opposizione all’attribuzione di quel diritto. (...)
Quelle donne non sono sempre state riconosciute nel loro tempo. I loro inviti, spesso direttamente ispirati dal Vangelo, non sono sempre stati accolti con la necessaria disponibilità. A volte persino sono state frenate dalla diffidenza e dai pregiudizi dei loro capi politici e religiosi. Chi potrà raccontare le sofferenze di una Marguerite Bourgeois, desiderosa di portare l’istruzione alle Amerindiane nomadi, e alla quale Mons. de Saint-Vallier si è lungamente ostinato ad imporre il velo e la clausura? Quelle di una Marie Lacoste-Gérin-Lajoie, militante impegnata nella causa nazionale ed ecclesiale, ma alla quale i suoi capi spirituali tolsero il sostegno quando pretese di estendere alla sfera politica l’azione della Federazione nazionale San Giovanni Battista? (...)
Henri Bourassa e i vescovi dell’America del Nord (...) stigmatizzando il femminismo erano convinti di denunciare una pericolosa eresia. (...) Solo nel 1940 il Governo del Québec (...) si arrende alla fine agli argomenti delle donne. Ma si sente bene, nei commenti riservati dell’episcopato, che il femminismo vittorioso di quelle pioniere è ben lungi dall’essere riconosciuto come una forza positiva di cambiamento sociale. (...)
L’analisi femminista della storia e della tradizione cristiana (condotta nello specifico dalle teologhe) porta a volte scompiglio nelle nostre certezze e nelle nostre maniere secolari di vedere. Ma un numero sempre maggiore di teologi uomini si sentono solidali con il cammino delle donne e cercano di parteciparvi. Perché in questo procedere collettivo abbiamo acquisito la convinzione che la Chiesa, come la società, deve riconoscere il posto delle donne. Altrimenti si impoverisce essa stessa e manca al suo dovere di agire, secondo le parole di Paolo VI, come “esperta in umanità”. Questa convinzione ispira ampiamente la creazione, avviata dieci anni fa nelle nostre diocesi, di una rete di referenti per la condizione delle donne. E più recentemente, l’attuazione di forum diocesani di riflessione riguardanti il partenariato uomini-donne nella Chiesa.
Certo tutte queste donne che partecipano attivamente - spesso da volontarie - alla missione della Chiesa sono ancora troppo poco numerose. Ma soprattutto, il loro statuto nella Chiesa resta profondamente ambiguo. Ostacoli di ordine canonico, che dipendono per lo più dalla forza d’inerzia e dall’abitudine, dovranno essere tolti. Altri, molto più fondamentali, perché di ordine teologico, dovranno esser affrontati con umiltà e coraggio. L’universalità della Chiesa e la diversità delle culture che vi si trovano rappresentate non devono servire di pretesto per mantenere nella Chiesa, nei confronti della donna e della sua missione, una posizione minimalista. Posizione che, se incontra ancora qualche indulgenza storica presso una minoranza di cristiane, viene sempre più considerata un anacronismo, se non un ostacolo insormontabile, presso le credenti della generazione successiva. (...)
Non ce lo nascondiamo: è ad un’autentica conversione evangelica che siamo chiamati. Si tratta per tutti noi, credenti del Québec, di andare incontro allo Spirito che riconosciamo all’opera nelmovimento di affermazione delle donne, che caratterizza questo ultimo decennio del nostro secolo.
Vogliamo contribuire, come segno di riconciliazione e di pace, alla realizzazione del progetto di Dio sulla coppia umana, che si estende non solo alla famiglia, ma anche alla società e alla Chiesa. (...) “Obbedire, è anche resistere”. Resistere al venir meno della speranza di vedere un giorno abolite tutte le disuguaglianze, riconosciute tutte le competenze, realizzata finalmente la giustizia tra uomini e donne, nella Chiesa come nell’intera società. (19 aprile 1990)
Tratto da: Mons. Gilles Ouellet, “Messaggio del presidente dell’Assemblea dei vescovi del Québec in occasione del 50° anniversario dell’ottenimento del diritto di voto delle donne in Québec”, Assemblea dei vescovi del Québec, 1990. Recueil de Gonzague J.D.
Voir le texte complet.
Il Québec, laboratorio della modernità? (2)
di Jean-François Bouchard
in “www.baptises.fr” del 16 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
La storia del cattolicesimo e dei cattolici nel Québec degli ultimi cinquant’anni è ricca e complessa. Per motivi di sintesi, ci limiteremo qui a tre punti di vista, che sono rivelatori di quanto è avvenuto in questo paese. Analizzeremo la questione del posto delle donne e del femminismo nella configurazione ecclesiale; poi vedremo il percorso degli intellettuali all’interno della Chiesa; infine affronteremo il fallimento dei nuovi movimenti nel rinnovare il tessuto della comunità.
1. Il posto delle donne e del femminismo
Non si può capire nulla del Québec contemporaneo se non si valuta l’importanza dell’emancipazione femminile e della cultura femminista nella costruzione sociale. Poche società occidentali hanno fatto entrare fino a questo punto il dato dell’uguaglianza dei sessi e dell’importanza della promozione delle donne in tutte le sfere della collettività. Siamo passati in trent’anni da una società patriarcale nelle sue istituzioni sociali (e matriarcale nello spazio domestico) ad una società nella quale l’uguaglianza è un’esigenza di tutti i momenti. Certo, niente è perfetto, e soprattutto niente è mai del tutto acquisito. Ma, oggi, i progressi oggettivi renderebbero difficili i tentativi di far fare dei passi indietro. Questo dato di fatto ha avuto due conseguenze tra i battezzati.
La prima è stata una diserzione massiccia delle donne dalla Chiesa e dalle chiese. Per un gran numero di donne che oggi hanno più di 70 anni era diventato inimmaginabile trasmettere il cattolicesimo ai loro figli, e alle loro figlie in primo luogo, tanto l’istituzione era subito apparsa loro passatista, sessista e maschilista. Ci sono state persone che lo hanno proclamato a voce alta. Tuttavia, la maggior parte ne ha preso atto senza rumore, allontanandosi de facto da una Chiesa che rappresentava ormai un elemento nocivo nell’educazione all’emancipazione. In conseguenza di ciò, molte persone della mia generazione (io ho 50 anni) sono cresciute nel silenzio domestico su Dio e sulla Chiesa.
La seconda conseguenza del femminismo è stata la sua influenza diffusa all’interno stesso della Chiesa del Québec. Infatti, benché un gran numero di donne abbiano disertato la Chiesa a partire dagli anni ’60, molte sono però rimaste, motivate dalle riforme nate dal Concilio. E queste donne, molte delle quali hanno, a partire da quel periodo, invaso le facoltà di teologia e di scienze religiose, hanno sviluppato una riflessione nuova che ha introdotto il femminismo nella teologia e nell’ecclesiologia. Negli anni ’70 e ’80 un certo numero di vescovi hanno prestato attenzione a questo, e alcuni di loro hanno preso delle decisioni d’avanguardia nominando delle donne a funzioni riservate fino ad allora a degli uomini (ordinati, evidentemente).
Meglio ancora, i vescovi del Québec hanno promosso la questione femminile presso le istituzioni romane, e nei sinodi. Cosa che è valsa loro a volte di essere ridicolizzati, non tanto da prelati romani, quanto da confratelli francesi! Questa dinamica felice col tempo si è indebolita. Perché da parte della Chiesa universale sono venuti in risposta pochi segni di evoluzione. Perché il discorso ufficiale si è a poco a poco riclericalizzato. Da una quindicina d’anni, domina nettamente la sensazione di blocco. Ciò detto, bisogna ricordare che le organizzazioni fondamentali della Chiesa, in particolare le parrocchie, non vivrebbero oggi senza l’apporto delle donne. Senza il loro impegno, la Chiesa del Québec sarebbe in brevissimo tempo una conchiglia vuota.
2. Il percorso degli intellettuali
Come le femministe, una forte percentuale di intellettuali del Québec si è allontanata dalla Chiesa a grande velocità dall’inizio della Rivoluzione tranquilla. Ma anche in questa categoria certi sono rimasti. Il Concilio ha svolto un ruolo di motivazione. Molti vi hanno visto la porta aperta ad un dialogo con la modernità, e quindi, ad un contributo delle scienze umane al pensiero cristiano. Come altrove, le facoltà di teologia e i centri di formazione hanno dato ampio spazio allasociologia, alla psicologia, alla pedagogia... Il campo dei possibili appariva vasto, senza limiti. Dei battezzati, uomini e donne, hanno creduto possibile partecipare a pieno titolo alla riflessione della Chiesa.
In Québec, il segno più forte di quella speranza è stato lo svolgimento di una commissione di inchiesta sui laici e sulla Chiesa, istituita dall’episcopato, e presieduta dal sociologo Fernand Dumont, uno dei massimi intellettuali del secolo. I lavori della commissione hanno permesso di affrontare tutte le questioni del momento, e di condurre una riflessione molto articolata in un dialogo franco ed esigente.
Fino alla metà degli anni ’80, la riflessione comune “dei battezzati e della gerarchia” è stata portata avanti dall’episcopato. I vescovi del Québec sono stati a lungo riconosciuti per l’audacia di cui davano prova nei testi che pubblicavano su questioni sociali, culturali e religiose. I messaggi annuali del 1° maggio hanno alimentato la riflessione delle parti sociali a diverse riprese. In quel contesto, degli intellettuali sono stati motivati ad alimentare la riflessione, spinti dalla sensazione di contribuire tanto all’edificazione del pensiero credente che al dibattito sociale.
Dobbiamo constatare che anche questo bello slancio è venuto meno. Tra le altre cose per il fatto che i vescovi sono stati seriamente occupati dalla crisi del declino istituzionale che devono affrontare (diminuzione del clero, chiusura di parrocchie, deficit finanziari...). Ma anche perché il discorso istituzionale cattolico si è ricentrato sulla dottrina e sull’affermazione identitaria. I luoghi di dialogo con la modernità diventano rari. E poche persone ne vedono la pertinenza per la credibilità del cristianesimo. Cosicché si assiste ad un secondo esodo dei cervelli in cinquant’anni. Questo è grave per il futuro del cristianesimo in questo paese.
3. I nuovi movimenti religiosi
Come in quasi tutte le Chiese occidentali, l’influenza dei movimenti evangelical ha preso la forma del “Rinnovamento carismatico” presso i cattolici di qui. Il Rinnovamento ha riunito migliaia di persone. È arrivato a riunire 70 000 persone allo Stadio olimpico di Montréal nel 1970! La forza di un tale movimento ha lasciato tracce in certe Chiese in vari paesi del mondo, sono nate delle “comunità nuove”. La cosa che sorprende, è che (quasi) niente di simile è avvenuto nel Québec. Il “soufflé” è lievitato in maniera spettacolare. E si è afflosciato in modo altrettanto sorprendente.
Mentre si sarebbe potuto credere che sarebbe stato una fonte di rivitalizzazione del cattolicesimo di qui, ne sono derivate poche cose. Certo, ci sono state alcune comunità nuove che continuano a vivere in alcune zone del paese. Ma non hanno nulla a che vedere con la creazione di un nuovo tessuto sociale portatore di un futuro significativo per il cattolicesimo del Québec.
Per ragioni difficili da spiegare, poco di quanto è avvenuto dopo il Concilio, e dopo la Rivoluzione tranquilla, ha portato frutti durevoli per un avvenire possibile.
La Chiesa in Québec si trova oggi in uno stato di grande fragilità. Moli battezzati, pure motivati a vivere sinceramente la loro fede, si trovano smarriti. I luoghi dove ritrovarsi diventano rari. E l’Istituzione sembra spesso più occupata a “gestire la decrescita” che ad aprire la porta alla speranza.
L’anno della fede secondo Ratzinger
di Lucetta Scaraffia (Il Messaggero, 18 ottobre 2011)
BENEDETTO XVI ci ha abituati ormai a un pensiero che vola alto, al di sopra delle circostanze storiche che stiamo vivendo, un pensiero che segnala la meta più alta, quella vera, in momenti in cui tutti sembrano solo presi dai problemi del momento. Lo ha fatto anche adesso, nella lettera apostolica che introduce all’Anno della fede, da lui proclamato per il periodo che va dall’11 ottobre 2012 al 24 novembre 2013. Con questa proclamazione si riporta l’attenzione dei cristiani alla radice profonda del loro impegno, la fede, cioè ciò che giustifica tutta la loro vita Questo fa capire chiaramente come tante dispute a cui assistiamo oggi sul ruolo dei cattolici, ad esempio in politica, o davanti ai problemi posti dalle tecnoscienze, siano in realtà questioni secondarie, che si possono affrontare e risolvere solo ritornando al fondamento di tutto, la fede. E invece proprio della fede, spesso, i credenti sembrano dimenticarsi: «Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, scrive il Papa continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune.
In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato». Negato non solo come atto volontario del cuore e della mente, quando non accettano di credere, ma anche come presupposto culturale che informa le nostre vite: «Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone». All’origine di ogni crisi culturale e sociale che travaglia la post-modernità in cui viviamo, ricorda il Papa con queste parole, c’è solo la mancanza di fede. È una risposta che vale anche nei confronti della crisi economica perché, come ha detto Gesù, bisogna darsi «da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la via eterna». E tutto il resto seguirà.
La data scelta per iniziare questa riflessione sulla fede è l’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, perché, dice Benedetto XVI, questo anno della fede deve essere considerato una «conseguenza ed esigenza postconciliare». In un momento in cui sembrano riaprirsi le grandi polemiche sull’interpretazione del Concilio, in cui gli opposti schieramenti rivendicano la correttezza della loro visione di ciò che è stato e delle conseguenze che ha avuto, il Papa, con questa coincidenza voluta, fa capire come l’unica interpretazione possibile sta proprio al cuore dell’essere cristiano, piuttosto che nelle tante possibili declinazioni che ne possono derivare.
In questo modo egli ci ricorda come il Concilio non sia solo opera degli uomini, ma momento in cui la rivelazione ha continuato a manifestarsi, a farsi ascoltare, come è avvenuto sempre nel corso della storia della Chiesa: «Sento più che mai il dovere di additare il Concilio come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre». Il Concilio letto alla luce della fede, che unifica i cristiani invece di dividerli.
Questo anno della fede, ovviamente rivolto ai credenti nella duplice via di attenzione rinnovata alla liturgia e alla testimonianza di ciascuna vita, testimonianza che deve essere intesa anche pubblica, si rivolge anche a coloro che, pur non credendo ancora, cercano un senso nella vita, perché «questa ricerca è un autentico preambolo», alla fede, perché muove le persone sulla strada che conduce al mistero di Dio. La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di «ciò che vale e permane sempre».
L’attenzione di Benedetto XVI è sempre rivolta come abbiamo visto anche recentemente nel viaggio in Germania, come si legge in tutte le sue opere oltre che ai credenti, anche alle persone che cercano, a coloro che vorrebbero incontrare la verità. Ogni suo atto e decisione viene sempre declinata e spiegata anche per loro. Per i cristiani, la fede è raccolta e tramandata attraverso due strumenti indispensabili: il Credo e il Catechismo. Chi, come me, ha avuto ancora la fortuna di impararli a memoria, sa come essi diventino il cuore parlante che guida la vita di ogni cristiano.
Nella lettera apostolica, il Papa cita spesso il suo amato Agostino, ma alla fine ci ricorda che l’esempio più perfetto di fede è Maria, che con la sua semplice ma forte adesione alla fede ha cambiato le sorti del genere umano.
Nel Paradiso terrestre chi lavava i piatti?
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “Témoignage Chrétien” del 29 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
La risposta, se ci fosse, sarebbe per noi di grande utilità per porre fine al dibattito nel quale la chiesa è impegnata oggi con passione. Di fatto, la teoria del genere sarebbe il nemico principale della tradizione cristiana a vedere recenti dichiarazioni. Questa ideologia mirerebbe a distruggere completamente la morale del matrimonio cristiano, ma anche a relativizzare le più antiche certezze della struttura ecclesiale che attribuisce a ciascun sesso ruoli specifici.
Queste diverse e spesso sofisticate teorie conducono, mi sembra, a togliere le relazioni uomo-donna dalla sfera della natura per situarle solo nell’ambito della cultura. Sappiamo da tantissimo tempo che le società umane si sono costruite attorno a strutture familiari molto diverse. I ruoli sociali di uomini e donne si distribuiscono in modo differente tra i Bororos dell’America o tra i Pigmei dell’Africa.
Anche se i bambini nascono sempre allo stesso modo, quest’ultimi entrano in mondi molto diversi. Ma sino ad ora abbiamo potuto, con un po’ di ingenuità e molta sufficienza, affermare che c’era un modo “naturale” di vivere la sessualità e di fondare una famiglia, che le relazioni sessuali, la cui finalità procreatrice è evidente, trovano solo nella famiglia stabile, monogamica, educante, così come la incontriamo nei nostri paesi, coerenza e quindi moralità.
In fondo è un po’ la stessa cosa di quando i teologi del passato si chiedevano quale lingua utilizzassero Adamo, Dio ed Eva nel Paradiso terrestre. Quale lingua parlerebbe un bambino se non incontrasse nessuna lingua parlata attorno a lui: il latino? l’ebraico? Facciamo fatica ad accettare questa realtà benché evidente: l’uomo non esiste allo stato naturale ma sempre e solo all’interno di una cultura. Non esiste una sessualità naturale come non esiste una lingua naturale. Non si potrà mai fondare sulla natura una morale della famiglia o della sessualità. La bibbia ci dice che l’essere umano è stato creato, uomo e donna, il che significa non solo una differenza biologica ma una struttura relazionale attorno alla quale si costruisce ogni cultura umana.
Quali che siano le leggi e i costumi di una società, la sola esigenza cristiana è il rispetto, l’uguaglianza, l’amore tra le persone senza dimenticare evidentemente il figlio frutto e posta in gioco di queste relazioni.
Si potrà dire che una certa istituzione sia la più favorevole all’amore rispetto ad altre. Ma la regola dell’amore vicendevole resta il solo criterio veramente cristiano nelle relazioni tra uomini e donne ... e figli.
So che dicendo queste cose faccio vacillare tutte le certezze che permettono di rifiutare i divorziati, di proibire l’accesso all’altare alle ragazze, di riservare il ministero agli uomini, di trattare gli omosessuali come devianti.
Non è possibile, a sostegno di quelle certezze, invocare l’autorità divina ricavabile dalla legge naturale o dal comportamento di Gesù.
Non esiste altra legge all’infuori di quella dell’Amore ed essa è inscritta nel cuore di ogni uomo e di ogni donna
di Natalia Aspesi (la Repubblica/Velvet, n. 56, luglio 2011)
Che uomini e donne siano diversi lo sappiamo, e ne siamo contentissime; però dovrebbe essere scontato che abbiano gli stessi diritti (e doveri), ma in realtà non è ancora così, questo lo sappiamo, sulla nostra pelle.
Michela Murgia nel nuovo bel libro “Ave Mary” ci ricorda che, nella Mulieris Dignitatem, Giovanni Paolo II, esaltando l’originalità femminile, ha confermato che comunque l’uomo e la donna sono pari in dignità davanti a Dio. Menomale. Questa dignità è intaccata, secondo me non credente, dal modo in cui la Chiesa, negando l’uguaglianza, intende la differenza, che non è quella sostenuta da una parte del femminismo.
E’ chiaro che le donne continuano ad essere imbarazzanti, poco gestibili, per la Chiesa, soprattutto per i papi. Non so quante donne, in questo caso credenti, aspirino alla santità, ma se ce ne sono, sappiano che la strada sarà meno ampia che per gli uomini. Per esempio, durante 27 anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha canonizzato 482 persone, di cui 248 laici: fondatori di banche e associazioni caritatevoli, politici, eroici carabinieri e altri beatificati o nominati servi di Dio. Tutti maschi.
Papa Wojtyla, scrive la Murgia, “ha elevato agli altari molte donne, soprattutto martiri, ma anche suore comuni e fondatrici di ordini religiosi. Solo una non aveva preso voti ...”. Gianna Beretta Molla, qualificata dal sito del Vaticano come “madre di famiglia”, santa nel 2004: medico, cattolica praticante come il marito, madre di tre bambini, nel ’61, a 39 anni, durante la quarta gravidanza, le fu riscontrato un voluminoso tumore benigno che richiedeva l’asportazione immediata, il che avrebbe comportato l’interruzione della gravidanza. La signora rifiutò, anche se in un caso come il suo la Chiesa, pur giudicando l’aborto un male, l’avrebbe considerata incolpevole: nacque una bellissima bambina e la madre morì. Esaltando con la canonizzazione il martirio che lasciava un padre solo con quattro figli, si mostrava che la nuova via alla santità femminile era la maternità, soprattutto se costava la vita. Non si conoscono maschi fatti santi per aver accettato di essere padri sino al sacrificio di sé.
Più facile diventare sante in quanto suore, com’è stato per Madre Teresa di Calcutta, cui è stato assegnato il Nobel per la Pace ’79, per aver dedicato la vita ai poveri e agli ultimi del mondo. Quanto alla santità, certo è stata affrettata dalla sua guerra ad aborto, contraccezione, divorzio. Comunque la santificazione femminile privilegia le “morte in verginità”, le donne che, per difendersi dallo stupro, sono state ammazzate. Ovviamente Maria Goretti, non più indicata alle adolescenti come modello, e Antonia Mesina, “martire della purezza”, sedicenne sarda fatta fuori a colpi di pietra dall’assalitore, e altre.
La santità delle donne laiche, e non quella degli uomini, passa insomma attraverso la morte, eventuali opere di bene contano niente.
Michela Murgia e il suo saggio: dalle Madonne di ieri e di oggi fino agli stereotipi patriarcali
Madre nostra dove sei nei cieli?
“Eva e Maria, così la Chiesa ha sacrificato la donna"
"Ave Mary" intreccia Sacre scritture e vita. E ricorda come una certa teologia ignori le immagini femminili di Dio
La scrittrice sarda, che è credente, smitizza Madre Teresa di Calcutta e cita Giovanni Paolo I
di Natalia Aspesi (la Repubblica, 12.05.2011)
Pare di sentire il sussurro di decine di computer con cui geniali signore stanno scrivendo libri sugli errori e gli orrori del mondo verso le donne, e la fonte di tali orrori-errori, perpetrati ovviamente dagli uomini, sembra inesauribile: è un boom attuale che aveva già trionfato negli anni del femminismo militante e vincente, e poi si era spento verso la metà degli anni ’90, quando una valanga di altre intrepide signore, adattandosi all’intorpidimento generale, si era messa a scrivere sulle meraviglie del mondo verso le donne, tipo come fare shopping, come non restare single, come assomigliare alle top model, cosa fare proficuamente a letto.
Da un paio di anni per fortuna c’è stato un risveglio di brontolii femminili colti, intelligenti, creativi, appassionanti, impeccabili, sotto forma di saggi di successo, che entusiasmano i maschi più maschilisti (tanto sanno che non cambia nulla) e vengono regolarmente massacrati dai talk-show rimasti ancorati alla necessità di banalizzare sia l’esposizione del corpo delle donne che la loro lapidazione, per essere sicuri di fare audience.
In questo fervore di scrittura femminile molto terrena, che chiama in causa i poteri contemporanei, la politica, la televisione, la pubblicità, le escort e le ministre col tacco a spillo, appare finalmente il personaggio più inaspettato, umano e celestiale, antico ed eterno, celebre e sconosciuto, mitico ed universale, da imitare e inimitabile: la Madonna, Maria di Nazareth, per Michela Murgia semplicemente Mary: Ave Mary, come si intitola il suo nuovo libro (Einaudi Stile libero), sottotitolo "E la chiesa inventò la donna".
Si sa che la scrittrice sarda, 39 anni, che con il suo romanzo Accabadora ha vinto il Campiello, il SuperMondello e il Dessì, è una credente «organica, non marginale», come si definisce lei, che rivendica il diritto di critica dall’interno della Chiesa che, con gli ultimi due papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, sta vivendo una lunga continuità conservatrice. E mentre racconta l’uso spesso distorto che è stato fatto e si continua a fare di Maria di Nazareth, la placida e ferrea signora di Cabras ricorda quanto sia ancora difficile per le Mary di oggi, credenti e no, fuori e dentro la Chiesa, sfuggire agli stereotipi incongruentemente patriarcali, essere davvero libere.
Per secoli la Madonna ritratta dagli artisti è stata una giovane madre bellissima, talvolta anche carnale, addirittura a seno nudo, riccamente abbigliata, con in braccio il suo bambino: vengono per esempio in mente la rinascimentale Adorazione dei magi di Jan Gossaert attualmente nella mostra dedicata all’artista cinquecentesco fiammingo alla National Gallery di Londra; oppure la meravigliosa Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, una affascinante popolana dall’abito scollato, che incrociando le gambe e tenendo in braccio il suo piccino, si affaccia curiosa da una porta. Poi, dalla metà del XIX secolo, con i nuovi dogmi mariani e i veggenti di Lourdes e di Fatima, Maria smise di essere madre, lasciò da qualche parte il suo piccino, si vestì solo di bianco e azzurro, adombrando il viso dentro un velo, si sistemò su una nuvola con le mani raccolte in preghiera, rivolse gli occhi al cielo e assunse un’espressione afflitta, quella della Mater Dolorosa, che in altre raffigurazioni luttuose si sarebbe inginocchiata ai piedi del figlio crocefisso.
Finalmente si era trovato il vero destino delle donne, un’ascesa verginale alla solitudine e alla sofferenza, per accollarsi la sofferenza degli altri, prendersene cura e nel caso personale di Maria, assistere al sacrificio del figlio, in un moltiplicarsi di drammatiche Pietà che, come quelle di Michelangelo, non intaccano la giovinezza della Madre, rimasta sedicenne, ad accogliere sul suo grembo il corpo martoriato del figlio trentenne. Non esistono immagini della Madonna vecchia, (e neppure morta) se non di sfuggita in qualche film non convenzionale, e non si vorrebbe essere blasfemi imputando anche a questa scelta santa il fatto che pure oggi, anzi soprattutto oggi, invecchiando le donne sembrano scomparire nel nulla, perdere senso e potere.
Ancora è difficile capire per quale ragione a un certo punto della storia del mondo le donne furono considerate nemiche del genere umano, e per terrorizzarci Murgia cita l’incazzatissimo apologeta Tertulliano, vissuto tra il II e il III secolo: «Ogni donna dovrebbe camminare come Eva nel lutto e nella penitenza...La condanna di Dio verso il tuo sesso permane ancora oggi... Tu sei la porta del demonio! A causa di ciò che hai fatto il figlio di Dio è dovuto morire!».
Ogni fregatura femminile nei secoli è dunque partita dalla disubbidiente Eva (e infatti le donne ancora oggi si sentono dire dai maschi di famiglia, ubbidisci!, segue gestaccio da parte delle signore) e dal suo peccato originale, che fece cacciare Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre e condannò l’uomo a lavorare con sudore e la donna a partorire con dolore. Quando dalla metà dell’800 la scienza cominciò a studiare la possibilità di separare il parto dal dolore con l’anestesia (e dal 1930 con l’epidurale), il dibattito teologico, tutto maschile, si fece rovente; come osava la scienza eliminare la punizione divina obbligatoria per le donne? Finalmente nel 1956 Papa Pio XII definì "non illecito" il parto indolore, anche se la maternità dolorosa restava la maledizione specifica per le figlie di Eva. A me pare che nessun teologo andò in crisi quando il diffondersi delle macchine aiutò gli uomini a non faticare e quindi a non sudare.
Michela Murgia ha una cultura teologica vasta e una avventurosa esperienza di vita: ha lavorato in un call center e ha fatto il portiere di notte, l’insegnante di religione, la venditrice di multiproprietà, l’animatrice dell’Azione Cattolica, la dirigente di una centrale termoelettrica, è stata per anni lo scandalo del suo paese andando a vivere col suo fidanzato, (ignominia!) poi sposandolo civilmente (che è sempre peccato!), infine, cristianamente convinta, in chiesa.
Ave Mary intreccia sapienza e ironia, Sacre Scritture e vita, non dando tregua a tutti gli errori e le stupidaggini che credenti chic e atei devoti hanno scritto e soprattutto diffuso attraverso la televisione. Smitizza Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace, beatificata, essenziale esempio di femminilità sacrificale, che per la Chiesa cattolica «non rappresentava solo una campionessa di carità, era soprattutto una vestale della sua dottrina morale sulla vita, quella che maggiormente interferiva con la libertà delle donne di disporre di sé stesse».
Rilegge per noi Mulieris Dignitatem, il documento del 1988 in cui Giovanni Paolo II usa per la prima volta l’espressione "genio femminile": e rifiutando l’eguaglianza tra uomo e donna, sceglie la differenza, come una parte importante del femminismo, però riconfermando la subordinazione sociale e familiare della donna, «non più enunciata in nome di una inferiorità di genere, ma fondata su una pretesa superiorità di ruolo spirituale...».
Darà certamente fastidio al rumoroso e ingombrante divismo dei nostri atei devoti, la grazia con cui ricorda come la Chiesa abbia deliberatamente ignorato nella Bibbia le decine di immagini femminili di Dio, «privando le donne del diritto di riconoscersi immagine di Dio, in un Dio che fosse anche a loro immagine». E il modo malizioso in cui rispolvera una frase molto pericolosa pronunciata nel 1978 da quel povero Giovanni Paolo I dal brevissimo papato: «Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile: è papà, più ancora è madre». Panico in Vaticano, terrore di uno spaventoso abisso teologico e simbolico, subito sepolto con la morte di papa Luciani. Ma Joseph Ratzinger quando era ancora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ci ricorda l’implacabile credente devota Murgia, «si espresse con molta chiarezza in merito alla questione del Dio Madre che ancora si aggirava per i corridoi vaticani come una patata bollente: "Non siamo autorizzati a trasformare il Padre Nostro in una Madre Nostra: il simbolismo usato da Gesù è irreversibile, è fondato sulla stessa relazione uomo-Dio che è venuto a rivelarci"».
di Miriam Mafai (la Repubblica, 12.05.2011
La vittoria del "no" che nel maggio del 1981 confermava, con il voto popolare, la legge che tre anni prima aveva abolito il reato di aborto e rendeva possibile, a determinate condizioni, l’interruzione volontaria delle gravidanza, resta un momento cardine nella storia delle donne e del nostro Paese. La campagna elettorale fu durissima, conobbe toni da vera e propria crociata.
Il Paese aveva già votato, pochi anni prima, nel 1974, a favore della legge sul divorzio anch’essa sottoposta a referendum e condannata dalla Chiesa. Ma la questione dell’aborto appariva, e senza dubbio era, più delicata e controversa. E più incerto appariva l’esito del referendum. A favore del mantenimento della legge sul divorzio, ad esempio, si erano pronunciati pubblicamente, nel corso della campagna elettorale, anche personalità e gruppi cattolici che evitarono, invece, di esprimersi a proposito della legge sull’aborto
Massimo fu l’impegno del Vaticano e delle gerarchie, prima per impedire l’approvazione della legge (ricordo un discorso del Papa a Piazza S. Pietro ed una manifestazione allo stadio S. Siro di Milano affollato di almeno centomila persone), poi perché la legge venisse bocciata dal voto popolare. Nel corso dei comizi e degli incontri in parrocchia, le madri che avessero pensato di abortire e quelle che avessero votato a favore della legge venivano indicate, senza pietà, come assassine.
E tuttavia, alla fine, a favore del mantenimento della legge votò la maggioranza degli italiani e delle italiane, al Nord come al Sud. Votarono a favore della legge le donne che per abortire andavano all’estero o in qualche disponibile clinica privata, votarono a favore della legge le donne che per abortire erano costrette a far ricorso alle cosiddette "mammane" che intervenivano introducendo un ferro o un gambo legnoso di vegetale là dove una vita indesiderata stava germinando. Votarono insomma a favore della legge l’80% degli elettori e delle elettrici, al Nord come al Sud, in Veneto come in Sicilia, sordi ai richiami alla disciplina della Chiesa e delle organizzazioni cattoliche scese in campo contro la legge assieme alla Dc e al Msi.
Nel giro di pochi anni dunque, con la vittoria del referendum, diventava realtà una delle parole d’ordine più audaci di quel movimento femminista che aveva investito la nostra società a cavallo degli anni Settanta: «L’utero è mio e lo gestisco io». Non è esagerato dire che si apriva così anche nel nostro Paese una nuova fase della storia delle donne all’insegna della loro piena libertà, della piena padronanza del proprio corpo. La donna sarà ancora il "recipiente del seme maschile", come dall’inizio della storia aveva raccontato Eschilo («soltanto chi getta il seme nella terra fertile è da considerarsi genitore, la madre coltiva, ospite all’ospite, il germoglio...»). Ma di quel seme è lei ormai la responsabile, è lei che decide della possibilità e della prosecuzione della sua gravidanza, sottraendola al caso, alla inevitabilità della natura e persino (fu uno degli aspetti più controversi della legge) alla volontà del partner.
Non è esagerato dunque dire che entriamo da questo momento in una nuova storia dell’umanità, segnata dalla piena libertà e autonomia della donna sul proprio corpo.
E tuttavia, a distanza di tanti anni, vale la pena di ricordare l’ammonimento di un cattolico "laico" come Pietro Scoppola che ci invitava a leggere il risultato di quel voto non solo come la legittima affermazione di diritti civili, ma anche come «volontà della maggioranza di non essere inquietati da problemi morali e di principio», espressione di un pericoloso "vuoto etico", un processo sotterraneo che verrà pienamente alla luce nel corso degli anni Ottanta.
“il sogno tradito delle donne partigiane”
di Liliana Cavani (la Repubblica, 7 febbraio 2011)
Quando ho fatto il documentario "La donna della Resistenza" (1965) intervistando varie partigiane ho scoperto con sorpresa che avevano combattuto (fisicamente) per un mondo dove la donna avesse avuto emancipazione. Erano contadine, operaie, intellettuali (ricordo Ada Gobetti) e ciascuna con le sue parole mi disse che aveva rischiato la vita per una "palingenesi" sociale (ricordo questa frase) che prevedeva il riconoscimento della parità della donna. Una sopravvissuta a Dachau e un’altra ad Auschwitz mi dissero che durante la guerra erano persuase che il loro sacrificio avrebbe contribuito a dare uno scossone alla vecchia cultura. E in effetti le donne ottennero nel dopoguerra il diritto al voto (in Svezia lo ottennero 40 anni prima). Ma la vera rivoluzione culturale che le donne antifasciste speravano di ottenere non avvenne mai neanche col Sessantotto anche se di certo aprì molte teste.
Del resto la storia della donna Italiana salvo punte rarissime (spesso a merito dei Radicali) è tra le meno emancipate del mondo occidentale. La cosa che mi stupisce è che questo accada in un Paese che ha un grande e popolare culto di Maria (vergine), una ragazza di duemila anni fa che con il suo FIAT ha affrontato con coraggio l’avventura culturale e spirituale più spericolata che si possa immaginare.
Oggi la fonte comunicativa più influente sul costume è quella dei media, specialmente tv e Cinema. Ebbene a mio parere i media oggi propagano (consci o meno) per gran parte il Regresso in atto nel Paese. La famosa frase "la donna sta seduta sulla sua ricchezza" è propalata in tutto il suo significato nei programmi tv e nel Cinema più popolare. Vale a dire che con la testa la donna non ci fa nulla, non va da nessuna parte, in nessun Consiglio di Amministrazione, in nessuna posizione dove sia necessaria preparazione e intelligenza.
Come può accadere tutto questo in un Paese che in percentuale è il più cristiano d’Europa, che non ha mai avuto un governo comunista (vale a dire materialista) ma ha avuto una scuola con le ore di religione? Sta di fatto che accade e fra le cause penso alla cultura-maschia del Ventennio che ha pervaso la generazione dei nostri nonni e si è trasmessa ai nostri padri per cui la donna (se non è tua madre tua figlia o sorella) è in primis oggetto di piacere. Oggetto che si prende o si compra e ci si vanta.
E l’uomo è uomo soprattutto se si fa donne gratis o pagate che sia. E la donna è donna se per cultura e costume considera la seduzione il mezzo più diretto per essere presa in considerazione e per trovare orizzonti di carriera. Questa cultura-maschia di marca fascista connessa alla tradizione paternalistica plurimillenaria è la cultura corrente. E a causa di queste ragioni così radicate non deve stupirci (e infatti molti italiani non si stupiscono) se chi ha la più alta carica del Governo fa i comodi suoi. "Beato lui!" diceva un intervistato dalla tv. Ma l’Italia non è un Paese sperduto oltre le valli del Pamir.
Siamo un Paese inserito in un Occidente che dalla rivoluzione francese in poi ha preteso dai suoi rappresentanti o regnanti comportamenti di probità in linea con quello che gli Stati si aspettano dai cittadini. Il rispetto massimo della dignità della donna è tra i requisiti. Nell’Occidente dove in media la cultura è laica il costume è politica. E cultura laica significa pari diritti uomo e donna.
Di conseguenza se non è neanche pensabile avere una specie di harem da cittadino lo è ancora di meno per la più alta carica politica. Il fatto che il consenso al premier a quanto pare sia sempre alto è il sintomo del nostro Regresso con tutte le vecchie porcherie che si porta dietro. È in atto un furto di Progresso. Hanno ragione le donne democratiche che per la prossima manifestazione hanno in mente una maglietta con scritto "Mi riprendo il mio Futuro". Un Futuro che è stato interrotto.
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
Strappi e mimose
di Ida Dominijanni (il manifesto, 05.02.2011)
Per quanto tecnica sia la formula, l’aggettivo «irricevibile» con cui Napolitano ha respinto al mittente e rinviato alle camere il decreto sul federalismo ha un suono ben più forte dello strappo procedurale cui si riferisce. Irricevibile è un governo che disprezza il parlamento e prescinde dal Quirinale, irricevibile è una maggioranza di nominati arroccata nel bunker del suo padrone, irricevibile è un capo di governo che usa sistematicamente la scena internazionale per denigrare «la Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure», irricevibile è lo stesso capo di governo che su quella stessa scena difende, unico in Occidente, lo zio - anch’esso di sua nomina - della propria favorita, irricevibile è una prassi istituzionale fondata per metodo e sistema sullo scontro fra i poteri dello Stato. Se ne contano almeno nove al calor bianco, in tre anni, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, su questioni di procedura e di merito. È un segno, e non l’ultimo, che la situazione è da tempo oltre il livello di guardia.
Perché allora, con le pinze, si tiene ancora? Perché in campo c’è una sola strategia riconoscibile, nei suoi tratti devastati e devastanti: quella di un raìs in pieno delirio di onnipotenza («sono l’unico soggetto universale a essere tanto attaccato», ha detto di sé ieri testualmente il premier) e deciso a resistere, resistere, resistere a tutti costi, nessuno escluso. Senza limiti, perché non ne conosce. Senza vergogna, perché non ne ha. Senza tema di smentite, perché la sua capacità di scambiare il vero col falso è segno non più di manipolazione bensì di negazione della realtà. Intorno a questa maschera, solo una corte di figuranti asserviti che finiscono col restituirle lo scettro anche quando potrebbero sfilarglielo, alla Bossi o alla Maroni per capirci. Dall’altra parte, una strategia felpata, una ricerca di alleanze senza selezione e senza seduzione, una promessa di liberazione senza desiderio. Il risultato è una paralisi che si alimenta di una lacerazione al giorno, una rivelazione all’ora, uno scandalo al minuto, senza che la tela si strappi davvero e mentre chiunque non faccia parte dello zoccolo duro del raìs si chiede: com’è possibile?
È possibile, perché c’è un fantasma lì dietro la scena, che nessuno vuole davvero vedere. Berlusconi lo rimuove, i suoi avversari lo scansano in attesa della foto del peccato o della prova del reato, e tutti quanti pensano di parlare, ancora, di «politica» (federalismo, fisco e quant’altro), come se, per citare Gustavo Zagrebelsky, le notti di Arcore non fossero la notte della Repubblica. Lo sappiamo, i numeri in parlamento sono quelli che sono. Ma la democrazia parlamentare non esclude altre forme dell’azione politica, e non domanda nemmeno che si resti in parlamento a recitare una farsa. Una società stremata da vent’anni di berlusconismo merita qualcosa di più della promessa di una parodia del Cln. O di una raccolta di firme offerta l’8 marzo come un mazzo di mimose dal segretario del Pd «alle nostre donne». Non siamo di nessuno, non amiamo le mimose né tantomeno, per citare stavolta Luisa Muraro, chi conta di usarci come truppe ausiliarie di una politica inefficace.
“è una donna che evangelizza gli evangelizzatori”
di Carlo Maria Martini (Corriere della Sera, 30 gennaio 2011)
Amatissimo Cardinale, parliamo di «viva Tradizione» . Nell’Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini del 30 settembre 2010 l’espressione «viva Tradizione» ricorre molto frequentemente. (...). Le pongo qui due domande limitatamente ad altrettanti esempi, che a mio avviso evidenziano le conseguenze di cattiva esegesi e di cattiva ermeneutica. 1) È «viva Tradizione» l’insegnamento del disprezzo per gli Ebrei, espresso anche nella nostra Liturgia, ripudiato finalmente dal Concilio Vaticano II? 2) È «viva Tradizione» - per giunta irriformabile come affermano alcuni teologi- ciò che di fatto è delirio di superiorità nei confronti della donna, per giustificare la sua esclusione dal ministero ordinato? Mi torna sempre in mente il Logion di Gesù, il quale in polemica intragiudaica risponde ai suoi interlocutori: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini... annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,8.13).
Maria Luisa Rigato biblista teologa, Roma
Auspico con lei che si faccia chiarezza con serietà e metodo sul significato di «viva Tradizione». Certamente nessuna forma di disprezzo può essere considerata come «tradizione» né, ancor meno, come «evangelica». Il versetto di Marco da lei citato ne è il fondamento. Nei Vangeli l’immagine della donna emerge quanto mai prediletta rispetto a molte delle figure maschili. Il dato più schiacciante in questo senso è il presentarsi del Risorto ad una donna come prima ed assoluta testimone. È una donna che evangelizza gli evangelizzatori. La Chiesa in questo senso ha ancora molto da scoprire.
Carlo Maria Martini
PER UNA COMPRENSIONE DELLE PAGINE qui di seguito riprese DAL LIBRO DI IRIGARAY, FORSE, NON E’ MALE LEGGERE L’ARTICOLO CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A UNA DIMENSIONE:
[...] Ci illudiamo di essere tutti e tutte delle grandi ‘volpi’, degli eroi (Ulisse) e delle eroine (Penelope), ma in fondo stiamo solo illudendoci sulla nostra condizione: in verità, siamo solo e ancora degli esseri umani ‘preistorici’, con un solo occhio, un solo orecchio, una sola mano, un solo piede, una sola bocca, una sola testa, e ... un solo genere sessuale - degli esseri ciclopici, che hanno paura di aprire tutti e due gli occhi e pensare davvero con una sola testa - all’altezza del nostro presente storico! Nutriti da ‘bibliche’ e ‘platoniche’ illusioni, continuiamo a vivere come dei bambini e delle bambine che non vogliono crescere e, da millenni, a cantare il ritornello di questa ‘visione’ ballando su un solo piede (non solo a livello del senso comune, ma anche e soprattutto della scienza e della filosofia). [...] (Federico La Sala). Il silenzio di Maria
[ Luce Irigaray. Il mistero di Maria, Paoline 2010, pp. 26-32] *
Nella cultura occidentale parlare è più valutato che non tacere. Chi parla manifesta le sue capacità mentre chi tace dimostra la sua impotenza o la sua sottomissione. Il valore della parola rispetto al silenzio è inverso in certe tradizioni, per esempio orientali. Per un filosofo come Hegel, la fine del nostro cammino dovrebbe essere una sintesi di tutti i discorsi possibili, e il nostro Dio è colui che detiene la chiave del senso della parola. Invece Budda è il saggio capace di pervenire al silenzio. In un caso è alla parola che dobbiamo mirare, nell’altro al silenzio. Il silenzio, allora, non significa un’assenza di un qualcosa, specialmente di vocaboli, ma il compimento di sé, la realizzazione di una perfetta interiorità. Certe rappresentazioni di Budda esprimono l’attuazione di un tale silenzio sbocciando in un sereno raccoglimento dell’intero essere. Budda appartiene a una cultura meno maschile della nostra, in cui il fare, il creare o il dire al di fuori da sé è più apprezzato che non un cammino interiore.
Il silenzio di Maria è spesso interpretato in modo negativo, in particolare dalle donne. Un simile giudizio è determinato da valori occidentali in prevalenza maschili. Il silenzio di Maria può essere inteso in un altro modo. Può significare un mezzo di preservare l’intimità con sé, l’auto-affezione, per non perdersi, segnatamente in un discorso che non è il proprio.
Il silenzio che accompagna le labbra che si toccano l’un l’altro non è necessariamente negativo ma può rappresentare, al contrario, un luogo privilegiato di custodia di sé mediante un ri-toccarsi che segna la soglia fra il dentro e il fuori, le mucose e la pelle. Giungere le labbra - come giungere le mani, ma anche le palpebre - è una via di adunare le due parti di sé per raccogliersi, e dimorare o tornare in sé.
Provare un simile raccoglimento di sé con sé, attraverso le due parti di sé che si toccano l’un l’altra è necessario affinché sia possibile vivere un affetto nella relazione con l’altro senza perdervi se stessa. E’ essenziale partire da, e tornare a, l’unione fra le due parti di sé prima di essere capace di vivere la relazione in due con un altro differente. In mancanza di una tale auto-affezione, di questo raccoglimento di sé con sé, esiste continuamente il rischio di confondere l’altro con una parte di sé o di confondersi, almeno in parte, con l’altro.
Nella mitologia greca possiamo osservare un’evoluzione negativa della posizione delle labbra nelle sculture della giovane dea Korè fra il momento in cui è un’adolescente vergine e il momento in cui è rapita e sposata per forza al dio degli inferni: le sue labbra sono armoniosamente chiuse, toccandosi l’un l’altro, prima del rapimento di Ade, poi sono deformate e, infine, la bocca non si richiude completamente, le labbra rimanendo aperte. Korè-Persefone ha perso l’intimità con se stessa, la possibilità di tornare a sé dopo il suo rapimento.
Il ruolo delle labbra chiuse per custodire un raccoglimento con se stessa spiega anche la reazione di rifiuto della giovane Dora quando il signor K. vuole baciarla allorché stanno assistendo insieme al passaggio di una processione. Freud interpreta un tale gesto come una manifestazione nevrotica quando, invece, mi appare come una volontà del tutto legittima e sana di preservare un’intimità con se stessa - in particolare al momento di un evento religioso - rispetto a un uomo che intende costringere la ragazza ad amarlo, affermando che lei lo desidera senza volerlo riconoscere. Cosa che equivale a una maniera di costringerla, di violentarla, non solo a livello fisico ma anche a livello psicologico, spirituale.
L’importanza del conservare le labbra chiuse, che si toccano l’un l’altro, ci è anche insegnata dalla sillaba sacra om. L’ultima lettera di questa sillaba, la cui pronuncia richiede che le labbra si chiudano, è supposta salvaguardare ciò che non si è ancora manifestato, e si dice che essa corrisponda al colore nero. Il silenzio di Maria non è, quindi, necessariamente assenza di parole ma riserva di parole o eventi futuri la cui manifestazione è ancora sconosciuta. Maria - come ogni donna? - sarebbe colei che porta in sé il mistero del non ancora accaduto, al di là di ciò che è già apparso. Cosa che sarebbe vera non solo a livello di una generazione naturale ma anche di una generazione spirituale. Partorire un bambino divino significa portare alla luce una nuova epoca della storia dell’umanità. E a una donna che colui che designiamo con il nome di Dio chiede di compiere una tale opera.
Una simile interpretazione è possibile ed essa affida alla donna un ruolo fondamentale nell’incarnazione del divino sulla terra. Molte donne, nella nostra tradizione, sono incapaci di riconoscere che hanno un compito privilegiato da assumere per l’avvento del divino nel mondo. Il carattere molto maschile della nostra cultura le impedisce di valutare a loro ruolo fondatore nel divenire spirituale dell’umanità, un ruolo che trascurano, e perfino disprezzano, in favore di un incarico ecclesiale, più sociale e più visibile, che spetta piuttosto agli uomini.
(Luce Irigaray. Il mistero di Maria, Paoline 2010, pp. 26-32)
«L’angelo apre l’attenzione di Maria al fatto che lei non può generare un bambino divino senza impegnarsi a essere fedele alla verginità del suo respiro, cioè a preservare una riversa di soffio, di anima, capace di accogliere e condividere con, un altro, pur essendo fedele alla propria vita spirituale»
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Carisma da teologa
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2010)
Edith Piaf la cantava con la sua voce appassionata e calda nel 1942, proprio quando io nascevo. Ma, cresciuto, l’avevo forse sentita risuonare anche nell’eco screziata e frusciante della radio o del vinile e persino nel canticchiare di mia madre durante il lavoro domestico: La vie en rose è, certo, l’emblema di un’epoca, di un modello esistenziale, di un’atmosfera. Tuttavia, vedere l’intera vita con lenti rosa alla fine stanca e fin sconcerta. Questa sensazione mi accompagnava mentre percorrevo qua e là le pagine del Dizionario di teologie femministe, curato da due teologhe americane del Connecticut ed edito in italiano dall’alacre Claudiana di Torino con la consulenza di una teologa e di un teologo del nostro paese (in questa materia incandescente è necessario usare sempre il linguaggio "inclusivo").
Intendiamoci, il volume è molto utile e quasi indispensabile per conoscere di prima mano la teologia femminista, sulla quale per altro siamo intervenuti più di una volta su queste pagine, consapevoli che la questione femminile ha registrato una presenza importante nella trama della storia recente del pensiero teologico (e non soltanto nell’orizzonte sociale, psicologico o filosofico).
Non è il caso, infatti, di documentare quanto una concezione maschilistica o patriarcale abbia pesantemente rivestito e condizionato il pensiero religioso del passato, a partire dalle stesse Scritture Sacre, immerse in un contesto "sessista". Tanto per esemplificare, Qohelet non esita a proclamare la donna «amara più della morte, tutta lacci, una rete il suo cuore, catene le sue braccia; chi è gradito a Dio la sfugge, ma chi fallisce ne resta catturato...» (7,26). E il suo collega Siracide va anche più avanti, certo com’è che «è meglio la cattiveria di un uomo che la bontà di una donna» (42,14).
È, quindi, ovvio che una grande e faticosa operazione di rilettura ermeneutica di quelli e di altri testi religiosi, così come una revisione delle prospettive e degli stili pastorali siano necessarie. In questo senso il monito continuo presente nelle voci di questo Dizionario non è da sbeffeggiare o da smitizzare in modo radicale, ma da considerare un po’ come una spina nel fianco delle stesse Chiese. Molto cammino al riguardo è stato compiuto, sia pure nella differente calibratura dottrinale e pastorale delle diverse confessioni cristiane, ma un altro è ancora aperto, anche perché non è con un semplice decreto o con un pronunciamento pur autoritativo che si cancellano concrezioni secolari fatte di ideologia, di prassi e di costumi.
Che c’entra, allora, La vie en rose? C’entra nell’esasperata e parallela unilateralità di certe teologie femministe che colorano tutto di rosa (forse rigettando persino l’assegnazione di questo colore come "esclusivo"), nell’ansia di trasformare una deprecata his-story in una her-story. Così, se prendiamo la prima voce, «Abbà/Padre», è ovvio che bisogna subito "salvare" Gesù, che usava indubbiamente questo appellativo: ma egli lo faceva in un «contesto antipatriarcale», «affermando un significato non-patriarcale» e «rovesciando l’idea stessa per porla al servizio della critica femminista del patriarcato e delle sue divinità». La «Nascita verginale» di Gesù, tanto per proseguire negli esempi, «nelle teologie femministe o è rifiutata in quanto mito cristiano androcentrico che sostiene il patriarcato e denigra le donne» o, al contrario, è «l’inizio della fine dell’ordine patriarcale». Persino l’apparentemente asettica «Archeologia» non svilupperà la sua vera identità «finché non saranno superati i suoi preconcetti tradizionali ed elitari» che puntano a «esaminare strutture e manufatti pubblici e monumentali, in cui predomina l’impronta maschile... dirigendo la maggior parte delle sue energie verso i prodotti dell’atti vità maschile» e non ai contesti domestici (che, però, si riconosce essere ora fmalmente oggetto di analisi), tuttavia inesorabilmente scoprendo in essi la subordinazione al primato androcentrico.
È scontato che ben più incandescente sia la voce sui «Ministeri ecclesiastici e il culto», molto articolata ma con una netta opzione di principio: «Le femministe stanno mettendo in discussione tutte le forme gerarchiche, i ruoli tradizionali di leadership, la distinzione tra clero e laici, le forme, il linguaggio, le immagini di culto e spiritualità che non siano inclusive. Sono oggetto di critica anche le definizioni della vita familiare e dei ruoli sessuali che stanno alla base dell’educazione religiosa». E qui bisognerebbe invitare il lettore a seguire alcuni temi scottanti connessi - tutti destinatari di un lemma proprio - come famiglia, educazione religiosa, sacramenti, cura pastorale, ministero, liturgia e soprattutto le varie voci dedicate al "genere" (gender), sul quale però si deve registrare una notevole polimorfia di approcci, meno automatici rispetto all’impostazione del celebre asserto «On ne naît pas femme, on le devient» della de Beauvoir, che considerava il sesso come una mera costruzione socio-culturale e non biologico-naturale.
La notevole questione del «Linguaggio inclusivo» a cui sopra accennavamo, pur nell’indiscussa istanza che propone, tende a trascendere verso estremismi che scardinano i concetti e le verità teologiche sottese (è noto che il mezzo linguistico non è mai neutro e inoffensivo rispetto al contenuto). Queste esasperazioni giungono al punto di avanzare perplessità anche nel chiamare Dio «Madre» oltre che «Padre»: «Ci si chiede, infatti, se Madre è sufficiente come unico nome femminile di Dio, dal momento che tale uso implica che le donne sono come Dio solo quando partoriscono e allevano figli». Ripetiamo: «Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi, dalla teologia e dall’ermeneutica femminista» (e questa frase è desunta da un documento cattolico ufficiale, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa della Pontificia Commissione Biblica). Soprattutto Giovanni Paolo II ha ribadito la necessità di una conversione della comunità ecclesiale nei confronti della donna e del suo "carisma" (in senso teologico). Ripetiamo pure che questo Dizionario, nella sua qualità fenomenologica, è un sussidio significativo per conoscere il variegato orizzonte delle teologie femministe.
Detto questo, rimane l’impressione di essere di fronte a una sorta di sessuologia teologica che corre il rischio di procedere in modo parallelo all’approccio adottato dal detestato patriarcalismo fallocratico, scivolando in eccessi unilaterali, in parzialità smodate, in visioni che calzano appunto solo occhiali a lenti rosa, cadendo talora in quelle trappole che si denunciano. Ha ragione la pastora battista Lidia Maggi quando scrive, nel suo Evangelo delle donne, un volumetto che esce in contemporanea al Dizionario e che è dedicato a una quarantina di figure femminili neotestamentarie: «La riscoperta della presenza femminile non venga appiattita quale strumento per rivendicare quote rosa all’interno delle Chiese: percorso legittimo, che dà voce all’altra metà del cielo, troppo spesso messa a tacere. Ma la posta in gioco è ben più alta, di tipo teologico: custodire e difendere la rivelazione evangelica nella sua integralità... C’è un’eccedenza dell’evangelo rispetto al nostro desiderio di essere valorizzate da Gesù. Eccedenza non vuol dire che l’evangelo rema contro, ma che va oltre: anche oltre il riconoscimento del ruolo delle donne».
Letty M. Russell e J. Shannon Clarkson (a cura di), «Dizionario di teologie femministe», edizione
italiana a cura di Gabriella Lettini e Gianluigi Gugliermetto, Claudiana, Torino, pagg. 546, € 47,00;
Lidia Maggi, «L’Evangelo delle donne», Claudiana, Torino, pagg. 136, € 12,00.
L’emergenza “femminicidio” e il ruolo delle Chiese cristiane
di Maria Cristina Bartolomei (Jesus, settembre 2010)
Molte sono attualmente le emergenze, nel nostro Paese e nel mondo. Per citarne solo alcune, pensiamo alle devastanti inondazioni nel Pakistan, con migliaia di morti; ai continui suicidi nelle carceri italiane; pensiamo alla sorte delle centinaia di Eritrei, in parte respinti dall’Italia, prima prigionieri e poi "liberati" in pieno deserto libico; pensiamo ad Haiti: a distanza di più di sei mesi dal terremoto le condizioni sono tremende, anche se non se ne parla più. Vi sono poi emergenze croniche, di cui ci si rende conto per qualche fatto acuto: si pensi allo sfruttamento del lavoro minorile, su cui si concentrò l’attenzione mondiale per l’impegno di Jqbal Masih (1982-1995), dall’età di quattro anni schiavizzato a lavorare per 12 ore al giorno e che per le sue iniziative in favore dei diritti dei bambini venne assassinato.
Tra le emergenze più "strutturali" vi è la assurda mostruosità delle mille forme di oppressione e violenza maschile sulle donne. Anche nel nostro Paese i casi di assassinio di donne (per lo più da parte di mariti, fidanzati, padri, ecc.) sono aumentati al punto da far coniare un nuovo termine: «femminicidio». Le radici sono molto complesse e affondano nelle profondità della psiche individuale, della cultura e dei rapporti sociali. Si può dire in breve che è come se il riconoscimento di eguaglianza di uomini e donne sul piano del diritto non venisse tollerato e vi si reagisse riaffermando la propria perduta supremazia con una violenza privata individuale. E vi è una estesa, antica e spessa trama di pregiudizi, di usi e costumi di assoggettamento che può facilitare in alcuni il passaggio alla violenza fisica. L’Evangelo di Gesù ha segnato al riguardo una rivoluzione netta e inequivoca, ma anche nella mentalità dei cristiani ripresero ben presto piede i modi di pensare della cultura dominante, così che anche la storia della cristianità e delle Chiese è stata segnata da tratti di misoginia che neppure ora sono del tutto scomparsi.
Ricordando nel 50° anniversario l’articolo su La condizione umana: una prospettiva femminile, pubblicato nel 1960 dalla teologa Valerie Saiving Goldstein -divenuto famoso dopo che venne citato sul Time e che segnò una svolta nel pensiero teologico femminile -, Susan Henking ha recentemente scritto che le donne hanno poi, sì, prodotto teologia e studi al femminile, ma non hanno «fatto un mondo in cui le donne sono libere». Ma questo le donne non possono farlo da sole né tanto meno contro gli uomini. Questo è un compito comune dell’umanità, nel quale le Chiese cristiane debbono sentirsi profondamente impegnate, interrogandosi anche se il rapporto uomo-donna al loro interno sia esemplare della reciprocità ed equivalenza nella diversità voluta dal Creatore e se il linguaggio in cui esprimono annuncio e dottrina sia scevro di maschilismo.
L’apporto delle teologhe in questo senso è stato ed è di estrema rilevanza (cfr. tra tanta letteratura il recente Dizionario delle teologie femministe, pubblicato dall’editrice Claudiana), anche se non ancora sempre riconosciuta. Ma esso non può bastare, se non trova sufficiente ascolto e interlocuzione nei responsabili delle Chiese, soprattutto di quelle - come la cattolica - nelle quali le donne, essendo escluse dai ministeri ordinati, sono escluse dall’area della autorità e della responsabilità per tutto ciò che riguarda la Chiesa. Quest’ultima deve avere cura estrema di correggere i possibili effetti negativi collaterali di tale situazione e deve urgentemente impegnarsi a scindere la teologia del ministero dalla ideologia della subordinazione della donna.
Un esempio per assurdo ci può aiutare. Immaginiamo infatti, che una comunità cristiana avesse sviluppato una teologia (eretica, sia chiaro) che, facendo leva sul fatto che fu Maria a dare alla luce Gesù e identificando con Maria la Chiesa nella sua funzione di "dare" Gesù al mondo, ne avesse dedotto che solo le donne potessero rappresentare visibilmente questa funzione e avesse quindi una "gerarchia" tutta e solo femminile, pur essendo stata la prima a riconoscere la dignità degli uomini e la specificità e il valore del loro compito nel mondo e nella Chiesa. Una prospettiva, questa, ovviamente assurda: non solo teologicamente, ma anche storicamente, in quanto presupporrebbe una società "al rovescio", in cui le donne avessero una tradizione di supremazia culturale e sociale.
Ma come si sentirebbero gli uomini in una simile situazione? Non proverebbero mai un certo disagio, un certa preoccupazione che una simile impostazione comporti o trascini - involontariamente - con sé anche una certa minore valutazione della loro condizione umana, che essa certifichi e perpetui una supremazia culturale e sociale femminile? In tempi di femminicidio, da un lato, e di silenzioso allontanamento di tante giovani donne da una vita ecclesiale nella quale non si sentono riconosciute, è ancora più urgente che i responsabili delle Chiese cerchino insieme con le donne, con fantasia creativa, apertura allo Spirito e riscoperta della Chiesa delle origini, risposte adeguate alle sfide attuali.
LA RIVOLUZIONE COPERNICANA, L’ILLUMINISMO, E LA "VIA MAESTRA" DELLA "CRITICA" .. ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
di Dominique Greiner ("La Croix", 28 luglio 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
“Quando i padri presenti al Concilio di Trento crearono la disciplina della teologia morale per la formazione dei preti nei seminari, non potevano immaginare chi l’avrebbe insegnata cinque secoli dopo: uomini, donne, chierici, religiose, laici...”, constata padre James Keenan, il principale organizzatore, che ha accolto i 600 teologi moralisti venuti da 73 paesi per il secondo incontro mondiale di specialisti di etica riuniti a Trento, nell’Italia settentrionale, dal 24 al 27 luglio.
Il profilo dei partecipanti colpisce innanzitutto per la giovane età ed il carattere internazionale. I grandi nomi della teologia morale sono presenti (Charles Curran, Lisa Cahill, Marciano Vidal, Klaus Demmer, Margaret Farley...) accanto alla nuova generazione. Ma è anche il notevole numero di donne a caratterizzare questo incontro: sono 150, religiose e laiche, 90 delle quali insegnano teologia morale, mentre le altre sono essenzialmente impegnate in un lavoro di tesi o lo hanno appena terminato.
Viviane Minikongo Mundela è una di loro, una delle prime laiche africane dottore in teologia. Ha sostenuto la sua tesi di morale alcuni mesi fa all’Università cattolica di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo). Trentottenne e madre di tre figli, l’ultimo dei quali ha cinque anni, questa congolese (RDC) ha ottenuto il visto solo alla vigilia della partenza e dopo molti interventi degli organizzatori, che tenevano alla sua presenza.
“Per gli uomini, e forse ancor di più per le donne, è veramente una corsa a ostacoli uscire dal paese. Le ricchezze del paese, invece, non hanno bisogno di visti”, constata non senza amarezza ed in linea con la sua tesi su un’etica planetaria per rispondere alla sfida della globalizzazione. “Il nostro paese è ricco, ma paradossalmente è la nostra ricchezza a renderci poveri, perché suscita le bramosie e non ci dà alcun beneficio”, riassume. Senza il sostegno del marito, Viviane non avrebbe certo potuto portare a termine il suo dottorato.
Ma l’accesso al massimo livello della formazione teologica è difficile anche per le religiose, per ragioni che non sono economiche. Suor Léocalie Billy, camerunense che prepara la sua tesi a Friborgo (Svizzera) e a Strasburgo sulle sfide della solidarietà, ne fa il suo cavallo di battaglia. “La tradizione africana dà alla donna un posto che le istituzioni ecclesiali continuano a non riconoscerle”, dichiara. Il suo impegno in una lavoro di tesi sulla morale è già in se stesso un atto di liberazione “perché la donna, perché la religiosa possa studiare”. Ma anche per il fatto che le donne hanno un sensibilità propria, preziosa per la teologia morale. È pure l’opinione di Viviane Minikongo: “Oltre alla ragione, la teologia morale ha bisogno anche di emozioni, di cuore, d’amore.”
Del resto, certi teologi lo riconoscono. Ad esempio, all’altro capo del mondo, Dominador Bombongan, laico filippino, dice di trovarvi “un approccio più intuitivo, più olistico (cioè globale), particolarmente prezioso in un contesto di dominio maschile, e che viene a completare utilmente le teologie della liberazione”.
Queste esperienze testimoniano una grande circolazione di idee, favorita da una forte mobilità internazionale di studenti ed insegnanti. La disciplina ne viene arricchita. “L’Asia ci porta la dimensione del dialogo interreligioso e ci invita all’armonia, l’Africa ci parla di liberazione e di inculturazione, l’India ci fa sentire in maniera particolare la voce di chi soffre”, riassume padre Keenan, felice di un congresso, in cui i disaccordi, a volte profondi, si esprimono, ma sempre in maniera rispettosa.
È quello che, a suo modo, sintetizza il logo che accoglie i partecipanti: il rosone dai colori caldi della cattedrale del capoluogo dell’Alto Adige che interseca il globo terreste, illuminato da una luce bianca che evoca l’ostia eucaristica - eucarestia le cui basi dottrinali sono state definite dal Concilio di Trento. Un modo per dire che la teologia morale intende contribuire a portare una luce al mondo, illuminata dalle risorse della fede espresse dalla tradizione cristiana.
I 240 contributi hanno effettivamente permesso di tornare sugli apporti del Concilio di Trento, di esplorare gli sviluppi della tradizione morale nell’epoca moderna fino alle problematiche contemporanee (sviluppo, guerra giusta, diritti umani fondamentali, ecologia...). Ma, sorprendentemente, i problemi di etica economica, di etica degli affari e di etica dei media non sono stati affrontati, con grande rammarico degli organizzatori, mentre particolarmente numerosi sono stati i contributi nel campo della bioetica e, un po’ meno, dell’etica sociale.
Prova che la teologia morale, come le altre discipline, è tributaria della domanda sociale e dei finanziamenti, che oggi favoriscono ampiamente la bioetica. Certi teologi lavorano all’avvicinamento dei settori: “L’aids non è solo una problema di bioetica, spiega padre Keenan. È anche un problema di giustizia nell’accesso alle medicine e alla cure.”
Il sesso, il gender, le femministe e la Chiesa cattolica
di Ritanna Armeni (il Riformista, 5 maggio 2010)
Che cosa diventerebbe il mondo senza i sessi? Che cosa potrebbe accadere se non ci fossero più maschi e femmine, ma solo “persone” nelle quali si incrociano e si incontrano caratteri femminili e maschili ma nessuno dei due è così assoluto da determinare una differenza incolmabile? Ed è questa un’eventualità reale? Sicuramente per molti è un fantasma, uno spettro pericoloso che distruggerebbe un pilastro “naturale” della vita e della storia degli esseri viventi (non solo degli umani) quello che li divide in maschi e femmine. Ed è un fantasma soprattutto per la Chiesa.
Di questo fantasma è dominato il libro - agile e intenso - di Giulia Galeotti “Gender - genere”. In esso si descrive con precisione, preoccupazione (e qualche esagerazione) la teoria femminista del Gender e i timori che provoca, le conseguenze gravi a cui - secondo l’autrice - si va incontro. Secondo questa teoria l’identità sessuale dell’uomo e della donna non sono il prodotto di una differenza biologica ma il frutto di cultura, costruzione sociale e rigida determinazione dei ruoli. Sono questi ad aver provocato la disuguaglianza fra i sessi e la conseguente costrizione della donna in un ruolo emarginato e subalterno. Devono quindi essere smantellati, ma insieme ad essi si chiede che sia cancellata anche la differenza sessuale.
Il “gender” - scrive Galeotti - si contrappone al sesso. Di sesso maschile e femminile possiamo nascere, ma questo non impedisce - se si eliminano gli ostacoli culturali - di divenire “un genere” che non coincide esattamente con esso. Così si può essere insieme donne e uomini, si può nascere donne e divenire uomini e viceversa. Oppure l’umanità potrebbe scivolare verso una neutralità sessuale.
Alla cultura del “genere” che ha acquistato un peso nella cultura planetaria e si è diffusa nelle organizzazioni internazionali si contrappongono due forze diverse, ma alleate: il femminismo della differenza e la Chiesa cattolica. Entrambe sono interessate a confermare la differenza fra i sessi e a contestare le teorie del genere. Entrambe pensano che la differenza femminile contenga una ricchezza che non contrasta con l’eguaglianza ma la potenzia e la arricchisce.
L’alleanza di cui parla Giulia Galeotti effettivamente esiste. Nella Mulieris dignitatem fu affermata da Giovanni Paolo II. «La donna nel nome della liberazione dal dominio dell’uomo - scriveva - non può tendere ad appropriarsi delle caratteristiche maschili, contro la sua propria originalità femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si realizzerà, ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme...» E ancora «Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque - come, del resto, anche l’uomo - deve intendere la sua realizzazione come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell’immagine e somiglianza di Dio».
Quella alleanza diventò evidente nel 2004 quando Benedetto XVI, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, nella sua lettera «sulla collaborazione fra uomo e donna» attaccò sia il femminismo paritario perché - scriveva - «sottolinea fortemente la condizione di subordinazione della donna allo scopo di suscitare un atteggiamento di contestazione» e poi una seconda tendenza del femminismo quella secondo cui «per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico-culturale. In questo livellamento la differenza corporea, chiamata sesso, viene minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria. L’oscurarsi della differenza o dualità dei sessi produce conseguenze enormi a diversi livelli. Questa antropologia, che intendeva favorire prospettive egualitarie per la donna, liberandola da ogni determinismo biologico, di fatto ha ispirato ideologie che promuovono, ad esempio, la messa in questione della famiglia, per sua indole naturale bi-parentale, e cioè composta di padre e di madre, l’equiparazione dell’omosessualità all’eterosessualità, un modello nuovo di sessualità polimorfa».
Le femministe gridarono alla svolta. Stupendosi e compiacendosi della cultura di colui che sarebbe diventato Benedetto XVI. Luisa Muraro, la più nota esponente del femminismo della differenza giudicò la lettera una «novità interessantissima» e «dirompente». Ratzinger, sentenziò, ha assunto e ha fatto proprio il pensiero della differenza. Ida Dominjanni sul Manifesto trovò nella lettera del cardinale «un ascolto del divenire storico, del mutamento innescato dalla rivoluzione femminile che va riconosciuto e incassato». Marina Terragni scrisse sul Foglio: «Nessun pensiero politico maschile oggi dialoga con il femminismo della differenza, come la Chiesa mostra di voler fare».
Il libro di Giulia Galeotti lascia però senza risposta alcune domande. Perché la Chiesa nei suoi ordinamenti istituzionali ha dato sempre alla donna un ruolo secondario facendo coincidere la differenza con la subordinazione e la relazione con l’abnegazione? Quando la teoria del gender è nata e poi si è sviluppata negli anni 70 a partire dal femminismo statunitense aveva poi tutti i torti a individuare nelle costruzioni sociali e culturali della femminilità l’origine di tanta discriminazione nei confronti delle donne? L’assenza di una donna-Papa per fare il più banale degli esempi, non è una delle dimostrazione di quanto quelle costruzioni sociali abbiano avuto cittadinanza anche nella Chiesa? La teoria del gender non era un passaggio storico necessario per arrivare a quella nuova libertà femminile che oggi può anche rivendicare la differenza? Una libertà femminile con cui persino la Chiesa che tanto ha contribuito nella storia alla costruzione sociale della donna “costola dell’uomo” oggi deve fare i conti? Insomma le teorie e le loro conseguenze sono importanti. Ma la storia e l’esperienza lo sono altrettanto.
La Chiesa e la misoginia
di Marie-Thérèse Van Lunen Chenu
in “www.temoignagechretien.fr” del 24 marzo 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
L’ondata di notizie su ripetuti casi di pedofilia nella Chiesa cattolica ha suscitato molti commenti che portano in ritorno delle valutazioni interessanti. Vi si legge che una prima messa in discussione del celibato obbligatorio per i preti trova ora degli ardenti oppositori, mentre restano stigmatizzate la frequente immaturità della scelta di vita da parte di persone troppo giovani, una formazione rimasta a lungo inadeguata nei seminari, la mancanza di relazioni con il mondo femminile, l’autoritarismo, la cultura del segreto e della negazione nell’istituzione ecclesiale.
Mi stupisco tuttavia che il dibattito non sia ancora stato allargato fino a prendere in considerazione il problema sempre più sensibile della marginalizzazione - se non dell’eliminazione - delle donne nelle strutture dell’istituzione romana. E che i commentatori neppure abbiano affrontato un problema di fondo: la natura della testardaggine con cui Roma si impegna nella difesa del primato del sesso maschile.
Quali sono allora le cause e gli effetti di questo attaccamento eccezionale dell’istituzione romana ad un primato del sesso maschile, fino a giungere alla sua vera “sacralizzazione” nel clericalismo? Una critica che potremmo definire “pastorale” (venuta proprio dall’interno della Chiesa) si è unita, almeno da un decennio, ad una prima analisi femminista che smaschera quel gioco semantico che si ostina a chiamare “servizio” ciò che, scelto ed esercitato spesso con la più grande generosità personale, resta tuttavia un monopolio ed un potere.
Ci si chiede allora come questo servizio ultimo della “rappresentazione di Cristo per compiere l’eucarestia”, quel potere-servire che si declina solo al maschile, non influenzi l’identità clericale e, per ciò stesso, l’idealizzazione e il carattere di rifugio che dei giovani possono investirvi? E sembra ingenuo stupirsi che alcuni di loro siano tentati di sfuggire, con questa scelta, ad una identificazione sessuata esigente.
La mia riflessione va quindi più in là rispetto al deplorare ciò che pudicamente viene chiamato “difficoltà a vivere la castità”. Parlo qui delle turbe del comportamento che possono essere legate ad una difficoltà non risolta dell’identificazione personale. Essere capaci di identificarsi come un essere maschile significa poter accettare il “di fronte” di una uguale partner femminile. E sostengo che l’idealizzazione del primato maschile, la sua canonizzazione in qualche modo, e la giustificazione permanente che ne viene fatta attraverso il rifiuto della competenza e dell’autorità delle donne, possono turbare il processo di identificazione maschile e arrivare talvolta ad influenzare una scelta per il presbiterato o la vita religiosa.
In fondo, le cause sarebbero ben più imbricate di quanto non si pensi tra la proibizione fatta alle donne di accedere al ministero sacerdotale e l’obbligo del celibato per il prete maschio. Sono radici profonde e tenebrose che si intrecciano tra denigrazione della sessualità, marginalizzazione delle donne, primato accordato al sesso maschile, sacralizzazione del sacerdozio, rapporto sclerotico alla tradizione e questo governo autoritario, clericale e monosessuato.
Così, che ci si ponga all’interno o all’esterno dell’istituzione, la crisi attuale designa come una sfida insieme ecclesiale e sociale la necessità di un vero dibattito e di cambiamenti la cui importanza non si limiterà al solo campo religioso. Infatti la Chiesa cattolica è in ritardo sulla società per mettere in atto questi cambiamenti che ormai vengono definiti “umani”: nell’identificare e curare le cause di una valutazione negativa della sessualità, le è necessario, al contempo, affrontare il suo rapporto con la sessuazione.
Chi dice “sessuazione” riconosce evidentemente la bi-sessuazione fondamentale dell’umanità. Con quali mezzi allora far comprendere che l’istituzione si è sclerotizzata e si esaurisce in un approccio maschile della femminilità, proprio al contrario rispetto a quello che fu l’atteggiamento di Cristo verso le donne? Non è “la questione delle donne nella Chiesa” che fa problema, come si sente dire con leggerezza..., è quella di una Chiesa autoritaria che difende il suo primato clericale maschile e rifiuta un confronto pieno con una buona metà dei suoi membri.
Si tratta qui di una mancanza strutturale legata, più di quanto non faccia pensare una prima apparenza, agli scandali attuali. Ci si chiede fino a quando Roma penserà di poter attenuare tali scandali con delle scuse pubbliche ed una vergogna manifestata “a nome di tutta la Chiesa”? E fino a quando le donne, che sono state più spesso cuoche che consigliere nei seminari, non esprimeranno pubblicamente il loro disaccordo?
Molte di loro sono già, di fatto, unitamente a degli uomini anch’essi consapevoli delle riforme necessarie, se non in rottura pastorale, almeno in rottura di coscienza con l’istituzione... Accettare in maniera riconoscente e responsabile la sessuazione, la sessualità, e quindi le donne di oggi come vere partner, suppone insieme un lavoro pluridisciplinare ed un ampio dibattito di società e di Chiesa.
Teologia ed ecclesiologia sono interpellate: che cosa abbiamo fatte per perdere la capacità profetica del messaggio cristiano, che testimoniava il principio del rispetto delle donne in un’epoca di misoginia sociale, ma che resta ridotto al silenzio dalla sua contro-testimonianza di sessismo ecclesiale nell’oggi di parità sociale?
La sfida è importante per il cattolicesimo, se vuole conservare il suo posto in seno al cristianesimo e la sua credibilità “umana”. Certi cristiani, e in maggior numero certe cristiane, sperano ancora che la gravità attuale delle accuse e delle messe in discussione possa diventare un punto a cui far riferimento per una conversione profonda del cattolicesimo romano.
*Marie-Thérèse van Lunen Chenu è membro di “Femmes et Hommes en Église” e di “Genre en christianisme”
Venerdì Benedetto XVI firmerà la lettera pastorale per gli irlandesi "scossi da una situazione dolorosa"
L’ammissione di colpa di Sean Brady: "Mi vergogno per non aver detto nulla. Rifletterò sul mio ruolo"
Pedofilia, il Papa: "Guarire le ferite"
Primate d’Irlanda si scusa: "Ho taciuto"
Merkel al Parlamento: "Gli abusi sessuali sui minori sono un dramma che affligge la società Necessario fare chiarezza, ma senza puntare il dito su un solo gruppo" *
BERLINO - Dalla Germania all’Irlanda, si torna a parlare degli scandali dei preti pedofili che negli ultimi tempi hanno travolto ambienti della Chiesa cattolica. Oggi il Papa ha annunciato che venerdì prossimo firmerà una lettera per i fedeli irlandesi scossi dagli episodi di pedofilia, nella speranza che possa essere di aiuto nel "processo di pentimento, guarigione e rinnovamento". E nel giorno di San Patrizio ha parlato anche il capo della Chiesa cattolica irlandese, il cardinale Sean Brady, che ha fatto le sue scuse per non aver avvertito la polizia dei comportamenti di un sacerdote pedofilo a metà anni Settanta. Brady, rivolgendosi ai fedeli, ha anche detto che "rifletterà" sul suo ruolo nel futuro. Per quanto riguarda la Germania, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha condannato duramente gli abusi sui minori, invitando però a non demonizzare un unico gruppo, perché "la pedofilia è un problema abominevole che tocca tutta la società e non solo la Chiesa cattolica".
La lettera del Papa agli irlandesi. Il Papa ha annunciato che questo venerdì, giorno di San Giuseppe, firmerà la lettera ai fedeli irlandesi sui casi degli abusi sessuali sui bambini. "Come sapete - ha detto il Papa salutando i pellegrini irlandesi nella festa di San Patrizio - negli ultimi mesi la Chiesa in Irlanda è stata severamente scossa in conseguenza della crisi degli abusi sui minori". "Come segno della mia profonda preoccupazione - ha aggiunto - ho scritto una lettera pastorale che tratta di questa dolorosa situazione. La firmerò nella solennità di San Giuseppe, il guardiano della Sacra Famiglia e patrono della Chiesa universale, e la manderò presto". "Vi chiedo - ha concluso il Pontefice - di leggerla voi stessi, con cuore aperto e spirito di fede. La mia speranza è che aiuti nel processo di pentimento, guarigione e rinnovamento".
Le scusa di Sean Brady. "Questa settimana mi è tornato davanti un episodio doloroso del mio passato", ha detto il cardinale Brady. "Ho ascoltato la reazione della gente al mio ruolo negli eventi di 35 anni fa. Voglio dire a chiunque sia stato ferito da qualsiasi mancanza da parte mia che gli chiedo perdono con tutto il cuore. Chiedo perdono a coloro che sentono che li ho delusi. Guardando indietro, mi vergogno di non aver sempre tenuto fede ai valori che professo e in cui credo’’. Per il porporato, la Chiesa d’Irlanda deve ’’continuare ad affrontare l’enorme dolore causato dall’abuso di bambini da parte di alcuni preti e religiosi e dalla risposta disperatamente inadeguata a questi abusi nel passato’’. ’’Come San Patrizio e San Pietro - ha proseguito - noi vescovi, successori degli apostoli nella Chiesa d’Irlanda, dobbiamo oggi riconoscere i nostri errori. L’integrità della nostra testimonianza del Vangelo ci sfida a confessare e a assumerci la responsabilità per ogni errore nella gestione o per ogni copertura degli abusi sui minori. Per il bene dei sopravvissuti, per il bene dei fedeli cattolici e dei preti e dei religiosi di questo Paese, dobbiamo mettere fine allo stillicidio quotidiano di rivelazioni di errori".
Merkel: "Problema che affligge tutta la società". "Il dramma degli abusi sessuali sui minori è un problema abominevole che si è ripetuto in numerosi settori della società", e dunque non riguarda solo il Vaticano. Lo ha detto oggi la cancelliera tedesca Angela Merkel, dopo l’emersione di una serie di casi di pedofilia avvenuti negli istituti scolastici. "Non ha senso - ha spiegato Merkel al Bundestag, la Camera bassa del Parlamento tedesco - puntare il dito su un solo gruppo, anche se i primi casi sono emersi nella Chiesa cattolica". La conferenza episcopale tedesca, da parte sua, si è impegnata a far luce sullo scandalo dei preti pedofili in Germania.
"C’è solo una possibilità affinché la nostra società venga a capo di questi casi - ha detto Merkel - fare chiarezza e appurare la verità su ciò che è successo". La cancelliera ha inoltre sottolineato che si deve parlare anche dei termini di prescrizione per questo tipo di reati e dei risarcimenti alle vittime. "Questa è una prova per la società", ha poi sottolineato, spiegando che "la gente che ha fatto queste esperienze terribili" deve almeno poter "ricevere un pezzo di risarcimento".
Denunce di abusi nel coro dei Piccoli Cantori di Vienna. Nel mentre crescono le denunce di abusi sessuali e fisici avvenuti all’interno del rinomato coro dei Piccoli Cantori di Vienna negli anni Ottanta. Dopo le rivelazioni di un giornale austriaco, la direzione del coro - che è un’istituzione privata e non dipende dalla Chiesa - ha istituito una linea telefonica per raccogliere ulteriori testimonianze. Da allora altri otto ex allievi del coro hanno fornito le loro testimonianze. Secondo il quotidiano Der Standard, i ragazzi avrebbero subito "forti pressioni" e "umiliazioni permanenti" e nelle accuse il coro viene paragonato a un "campo di concentramento". La responsabile del servizio telefonico, Tina Breckwoldt, non ha specificato la natura degli abusi segnalati, né se le vittime fossero bambini o adulti. Le denunce finora pubblicate dalla stampa riguardano due ex membri del coro, oggi adulti, che hanno raccontato di essere stati vittime di violenze sessuali.
* la Repubblica, 17 marzo 2010
COSTITUZIONE E ORIENTAMENTO SESSUALE.
La sfida del cardinale Schoenborn
"Gli abusi dei preti colpa del celibato"
di MARCO ANSALDO *
CITTÀ DEL VATICANO - Le cause degli abusi operati dai sacerdoti? Vanno ricercate "sia nell’educazione dei preti, sia negli strascichi della rivoluzione sessuale fatta dalla generazione del 1968". Un problema che riguarda "il tema del celibato, così come la formazione della persona". Proprio sul celibato, anzi, ci vuole "un cambiamento di visione".
A sostenere questa tesi che non mancherà di suscitare reazioni è l’arcivescovo di Vienna, Christoph Schoenborn. L’alto prelato, un cardinale giovane, ma autorevole e aperto, messo a capo della Chiesa viennese dopo gli scandali degli abusi sessuali per cui fu cacciato il suo predecessore Hans Hermann Groer, ritiene che il celibato ecclesiastico spieghi in parte gli atti di pedofilia commessi da religiosi cattolici, emersi ultimamente a cascata in Germania e in Austria.
In una pubblicazione della sua diocesi, l’arcivescovo di Vienna ha fatto appello al "cambiamento" sul celibato, argomento che invece per il Vaticano non è in discussione. "Basta scandali - ha detto Schoenborn - come è possibile che veniamo considerati sospetti di infrazioni che non abbiamo commesso? Perché è sempre la Chiesa nel suo insieme che viene messa in dubbio".
La questione del celibato verrà più volte affrontata oggi e domani a Roma, all’Università Lateranense, in un interessante convegno promosso dalla Congregazione per il clero. Sarà presente il prefetto Hummes, autore all’inizio del suo incarico di una dichiarazione che suscitò qualche perplessità. "Il celibato non è un dogma", disse. Tesi poi mai più affermata pubblicamente. Ci saranno poi il vescovo di Ratisbona, Gerhard Mueller, il primo a parlare dei casi nella città tedesca, e una serie di alti esponenti del mondo ecclesiastico.
Il tema delle violenze in chiese e sacrestie, imposto dalle cronache, sta conquistando spazio anche sulla stampa vaticana. L’Osservatore Romano ieri ha affrontato in prima pagina l’argomento con un articolo della saggista Lucetta Scaraffia. Una maggiore presenza femminile nella Chiesa, è la tesi della studiosa, "avrebbe potuto squarciare il velo di omertà maschile che spesso in passato ha coperto con il silenzio la denuncia dei misfatti". "I cambiamenti delle società occidentali - continua la storica - che hanno aperto alle donne gli spazi prima riservati agli uomini, cambiamenti che stanno influenzando le altre culture del mondo, hanno provocato una rivoluzione nella configurazione dei ruoli sessuali, ponendo anche per la Chiesa cattolica la questione di ampliare il ruolo delle donne". Un problema che si pone non solo in termini di "pari opportunità", ma al fine di "fare fruttare energie e contributi spesso di primaria importanza".
Oggi intanto i vescovi tedeschi partono per Roma. L’incontro fra la loro delegazione, guidata dal presidente della Conferenza episcopale locale, Robert Zollitsch, e Papa Benedetto XVI, è previsto per domani. Sul tavolo lo scottante dossier dei casi di pedofilia scoppiati nella Chiesa tedesca. In Germania, lo scandalo è arrivato a coinvolgere, secondo i dati conosciuti, 19 diocesi su 27.
© la Repubblica, 11 marzo 2010
Il silenzio è il rimedio peggiore
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 12 marzo 2010)
Quello che sta accadendo nella Chiesa cattolica tedesca, dopo l’inattesa esplosione e l’apparente incontrollabilità dello scandalo della pedofilia e della violenza sui minori in alcuni istituti religiosi, è molto serio.
Con risonanze profonde e riflessi diretti in Vaticano, perché Papa Ratzinger reagirà tenendo conto di come si svilupperà il caso in Germania. Ci si aspetta una risposta non soltanto disciplinare ma anche e soprattutto di natura religiosa e teologica.
Mi spiego. Cardinali, ecclesiastici e difensori d’ufficio rispondono o reagiscono alla vergogna pubblica appellandosi a patologie psicologiche, a pedagogie sbagliate, ad esistenze umane infelici. Nessuna argomentazione religiosa.
Apparentemente è un sollievo per tutti poter dire che «la religione non c’entra», che il problema non
è religioso ma pedagogico. Certo. Ma non è proprio la Chiesa a presentare se stessa come la vera ed
unica educatrice affidabile? Specificatamente nella gestione della «sana sessualità»?
Accompagnandola con le polemiche continue contro il modernismo laicista licenzioso e permissivo
soprattutto in tema di omosessualità?
Chiariamo subito un possibile equivoco: nessuno intende mettere sotto accusa o sotto sospetto le istituzioni educative dirette da religiosi come tali. Assolutamente no. Abbiamo troppo rispetto della Chiesa per non essere sinceramente dispiaciuti per quanto sta accadendo. Ma proprio per questo ci aspettiamo una reazione rigorosa e forte.
Invece in Germania accanto ad impressionanti confessioni pubbliche spontanee di alcuni educatori implicati, accanto a coraggiose autodenunce da parte di responsabili di istituti coinvolti, al massimo livello gerarchico si è sentita la voce irritata dell’arcivesovo di Ratisbona contro la ministra della Giustizia, che aveva lamentato la mancata collaborazione della Chiesa nel fare sistematicamente piena luce sugli episodi.
In Germania sembra profilarsi una certa tensione tra la Chiesa cattolica e lo Stato che si sente in dovere di rispondere ad un’opinione pubblica sconcertata, che ogni sera viene informata dai telegiornali (spesso come prima notizia) dell’ultima rivelazione di abusi su minori.
Giustamente il governo non può rimanere indifferente quasi si trattasse di una questione che possa risolversi privatamente tra psicologi, avvocati e magistrati. Si è davanti ad una emergenza pubblica che esige la piena e leale collaborazione dell’istituzione ecclesiale. Si fanno così varie proposte di «tavole rotonde pubbliche», sulle quali tornerò più avanti.
Riprendendo la problematica generale, l’unico nesso evocato per ora - ad alto livello - per spiegare i comportamenti patologici di alcuni uomini di Chiesa è la questione del celibato. Nel mondo cattolico questo tema solleva notoriamente sempre molto rumore. Ma esso diventa davvero significativo e discriminante soltanto se si riconosce che le sue radici scendono in profondità nella visione religiosa e teologica cattolica tradizionale.
Ciò che manca è una sorta di rivoluzione teologica in tema di sessualità, di cui non si vedono ancora i segni. Lo stesso vale per la richiesta che le donne abbiano finalmente un ruolo più significativo e riconosciuto nella Chiesa. Anche questo è vero. Ma sin tanto che non si rompe il tabù del sacerdozio femminile, la questione rimane irrisolta. Insomma gli scandali di oggi non sollevano semplicemente un problema di disciplina ecclesiastica ma la necessità di una revisione teologica radicale.
Ma qui urtiamo contro l’insuperata incapacità degli uomini di Chiesa di coniugare il dato religiosoteologico tradizionale con la (post) modernità. Avendo ossessivamente interpretato quest’ultima come quintessenza della licenza, del libertinismo, del laicismo, non hanno capito l’originale moralità che sta al fondo del moderno. E si ritrovano con le peggiori patologie in casa propria, nelle proprie istituzioni pedagogiche.
Nel mondo pluriconfessionale tedesco ci sono fortunatamente anche episodi di segno opposto. Alcune settimane fa la Presidentessa delle Chiese evangeliche, il vescovo-donna Margot Kaessmann, è incappata in un increscioso incidente. Con cattivo gusto da sagrestia la nostra stampa (anche quella che si ritiene laica) si è limitata a scrivere che la «papessa ubriaca» era stata beccata dalla polizia e costretta alle dimissioni. Da noi tutto è finito lì.
In Germania invece per alcuni giorni il pubblico ha assistito sui giornali e nei grandi mezzi televisivi ad una straordinaria manifestazione di dignità, di senso di responsabilità e di altissima religiosità della donna-vescovo che ha considerato il suo errore incompatibile con il suo ruolo istituzionale. Molti hanno avuto la conferma paradossale che la Chiesa evangelica tedesca - matura anche per quanto riguarda la teologia della sessualità - meritava proprio quella donna al suo vertice.
Tornando alla questione degli scandali sui minori può darsi che nelle prossime settimane si arrivi a due tavole rotonde pubbliche. Una, proposta dalla ministra della Giustizia, dovrebbe essere riservata ai rappresentanti delle istituzioni coinvolte e alle vittime. Bisognerà parlare anche di risarcimenti.
L’altra iniziativa promossa dalla ministra della Famiglia e da quella dell’Istruzione (e caldeggiata dalla stessa cancelliera Merkel) dovrebbe essere aperta anche alle associazioni dei genitori e avere come obiettivo la prevenzione degli abusi e l’aiuto psico-pedagogico alle vittime.
La strada della discussione pubblica aperta è la più giusta e coraggiosa. Ne aspettiamo gli esiti. Mentre da noi in Italia si tace.
Un sinodo sulla donna?
di Liliana Cavani e Emma Fattorini (Il Sole-24 Ore, 27 dicembre 2009)
Una domanda pacata ma radicale: perché le diverse componenti che animano la chiesa, divise su tanti aspetti, hanno però in comune uno stupefacente silenzio sulla donna? Un richiamo stanco e di maniera, frutto più di rivendicazioni esterne che non di una convinzione vera, quale sarebbe logico di fronte a un così evidente segno dei tempi?
Le ragioni sono tante e come sempre quasi tutte dettate da paura. Forse però non aiuta una fìdes che, pur riconoscendo giustamente le «ragioni della ratio», finisce con il trascurare troppo la dimensione dell’esperienza, della relazione personale e in ultimo del corpo e della sua vita. Nella sua concreta incarnazione nell’uomo e nella donna, come ci ricordava Wojtyla, nei troppo dimenticati discorsi sul corpo che teneva i mercoledì mattina. Con quale «ragione», con quale pensiero laico e razionale il cristiano oggi è invitato ad aprirsi e a misurarsi?
Con una ragione e una teologia troppo disincarnata che non vede la verità nell’esperienza religiosa fatta dall’incontro con Cristo come persona. La paura del soggettivismo-relativismo rischia di fare perdere la ricchezza spirituale che c’è nell’entrare in contatto con il Signore anche con il corpo, con le emozioni, con tutta la propria persona e non solo con la testa, non solo con il pensiero. E così si perde quell’unità della persona che deve unificare e non separare le diverse esperienze umane.
Non si può certo dire che siano state onorate le aspettative suscitate dalle parole che Giovanni Paolo II aveva dedicate alle donne, parlando di «genio femminile», una visione poi approfondita da Joseph Ratzinger. La grande novità delle affermazioni contenute nella Mulieris dignitatem, non stava tanto nel riconoscere la parità della donna con l’uomo, ma nel capire finalmente che la donna, senza più camuffare la sua più profonda identità, poteva e doveva essere protagonista, con pari dignità alla costruzione di un mondo condiviso: questa la straordinaria novità di quelle bellissime parole. Non dunque l’ennesimo riconoscimento retorico di una idealizzata e disincarnata essenza femminile, ma la sua concreta promozione nella società senza svisarne la sua intima identità. Tutto ciò avrebbe richiesto un maggiore "investimento" sulle donne e non il contrario. Non c’entra nulla la rivendicazione del sacerdozio femminile. Non è questo che le donne chiedono. E altra la loro influenza e diverse le loro aspettative, esse mirano direttamente a Dio e non a diventare preti. Non trarre tutte le conseguenze pratiche di come il “genio femminile" possa agire nel mondo non solo impoverisce la chiesa cattolica ma finisce con il tradirne la sua stessa vocazione di civilizzazione; il ruolo della donna infatti è oggi e sarà sempre di più il cuore dei grandi cambiamenti di tutte le culture del mondo, la cartina di tornasole dei loro processi di democratizzazione e di umanizzazione.
Che fare perché ai pur autorevoli riconoscimenti del Magistero seguano finalmente atti di grande portata e concretezza? E troppo ingenuo pensare all’urgenza addirittura di un Sinodo sulla donna?
Cattoliche vogliono un Parlamento ecclesiastico contro il monosessualismo
di nic[oletta] til[iacos] (il Foglio, 29 dicembre 2009)
“Perché le diverse componenti che animano la chiesa, divise su tanti aspetti, hanno però in comune uno stupefacente silenzio sulla donna?”. La storica Emma Fattorini e la regista Liliana Cavani aprono così il loro intervento sull’ultimo Domenicale del Sole 24 Ore, con il quale lanciano l’idea di un Sinodo sulla donna.
Necessario, scrivono, per dare seguito alle grandi aspettative - che finora “non si può dire siano state onorate” - suscitate a suo tempo sia dall’enciclica “Mulieris dignitatem” (1988) di Giovanni Paolo II, sia dalla Lettera sul tema della collaborazione dell’uomo e della donna nella chiesa e nel mondo, indirizzata ai vescovi, nel 2004, dall’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Da una parte l’affermazione wojtyliana del “genio femminile”, dall’altra la “stupefacente e sostanziale assenza delle donne - dice al Foglio Emma Fattorini - in momenti importanti come il convegno su Dio organizzato all’inizio di dicembre dal Comitato per il Progetto culturale della Cei.
Nel dibattito sulla bioetica, per esempio, questa assenza delle donne - l’incapacità stessa di pronunciare la parola ‘donna’ - significa un impoverimento assoluto. E’ una resa proprio a quell’astrattezza che tutti, a parole, vogliono combattere”. Proprio nei giorni di quel convegno è nata l’idea di riportare l’attenzione sulle promesse mancate.“Liliana Cavani e io - continua Fattorini - abbiamo quindi chiesto udienza al patriarca di Venezia, Angelo Scola, interlocutore attento e sensibile, come dimostra il suo libro su Maria, con cui abbiamo lungamente parlato.
Pochi giorni fa, Scola ha rilasciato a Marina Terragni, sul Corriere della Sera, un’intervista sul tema della differenza. In quell’occasione, ha detto che “Gesù le donne le ha scandalosamente ascoltate. E l’attenzione del Santo Padre non manca. Se vi è un problema, a questo proposito, nella chiesa, è lo stesso che esiste nella politica e nella società: e cioè il fatto che la questione del femminile non è pensata fino in fondo”.
Sul perché di tante resistenze, Fattorini pensa ci sia “un elemento di paura. L’idea che appena si dia un po’ di spazio alle donne, quelle rivendicheranno il sacerdozio. Ma è un alibi. Per questo abbiamo esplicitato nell’intervento che non è quel che si vuole. E poi c’è un approccio tutto di testa, disincarnato. Ci vuole una sede sapienziale che tenga presente anche il corpo, che tenga conto dei soggetti. E se ammetti il soggetto, ammetti il corpo, che è corpo di donna e di uomo”.
La storica Lucetta Scaraffia condivide l’idea che sia necessario riportare l’attenzione sulle donne nella chiesa, “ma più di un Sinodo, che significherebbe ancora una volta uomini che parlano di donne, penserei a un convegno vero, magari promosso dall’organizzazione delle superiore delle congregazioni femminili. I due terzi dei religiosi cattolici sono donne. Sono loro che prima di tutto devono raccontare che cosa fanno e che cosa propongono. Non certo per rivendicare il sacerdozio, ma per avere voce in capitolo nella vita della chiesa”.
“Oggi la suora deve essere lievito culturale”, ha detto suor Maria Barbagallo (per dodici anni superiora generale delle cabriniane) intervistata il 21 dicembre sull’Osservatore romano: “E infatti quello che manca è proprio l’apporto culturale delle donne - aggiunge Lucetta Scaraffia - mentre sono loro a far andare avanti la chiesa. E’ importante anche la voce delle laiche, ma penso sia fondamentale che si cominci a sentire la voce delle religiose. Spesso la loro visione è diversa da quella degli uomini, perché entrano diversamente in relazione con le situazioni - aggiunge Scaraffia - oltre al fatto che, non dovendo far carriera come vescovi e cardinali, in genere sono più libere, all’interno della chiesa. Troppo spesso, invece, sono considerate come assistenti o cameriere. Queste donne hanno moltissime cose da dire sui temi di cui discute la chiesa, mentre ora la loro voce non viene ascoltata”.
Silvia Guidi, giornalista dell’Osservatore romano e “memores domini” (laica che si richiama ai consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza), pensa che “per affrontare il tema urgente delle donne nella chiesa, più che un Sinodo servirebbero un’enciclica o altri strumenti del magistero. Ora, secondo me, scontiamo un deficit culturale. Basterebbe ritornare alla storia della chiesa, per valorizzare le figure femminili
CHIESA E DONNE, DIBATTITO OLTRE LE IDEOLOGIE
di PAOLA RICCI SINDONI (Avvenire, 09.01.2010)
«Tra il dire e il fare c’è di mezzo.....», a volte più del mare, un intero oceano, visto la difficoltà a far interagire idea e prassi, pronunciamenti ideali e traduzione pratica. La storia del femminismo è da sempre dentro questo vuoto, quasi che la raggiunta evidenza della parità dei diritti e dell’uguale dignità tra maschi e femmine -guadagnata pienamente solo nel ’900 e nel mondo occidentale - si dovesse fermare impotente di fronte al muro della discriminazione e dell’indifferenza costruito nei secoli.
Pure il mondo della Chiesa sembra soggiacere a questa empasse, anche se - è il caso di sottolinearlo - è stata questa istituzione a più forte impronta maschile ad offrire con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI il maggior contributo all’elaborazione culturale dell’antropologia uniduale di femminile e maschile. Il suo innegabile rifiuto verso ogni violenza e ingiustizia sociale l’ha resa sensibile al tema della donna, nella convinzione - propria del teologo Hans Urs von Balthasar - che la Chiesa prende vita dal suo Capo ed energia dalle sue due radici, quella petrina e quella mariana.
Quest’ultima non deve essere di certo considerata come marginale, rappresentandone la dimensione creativa, rispetto alla dimensione istituzionale, dunque maggiormente orientata alle pratiche della carità e responsabilità sociale, come la storia di molte congregazioni religiose femminili hanno dimostrato nel tempo.
La vitalità del laicato cattolico nel nostro Paese chiede comunque ulteriori passi in avanti, come si evince in questi giorni dalle voci di molte donne credenti, espresse su alcuni quotidiani, dal «Sole24ore» al «Corriere» della sera al «Foglio». Forse si chiede di più a chi può dare di più, a fronte di altri mondi, come quello della politica che sembra privilegiare figure stereotipate o spente, oppure appiattite sulle dinamiche maschili, con l’inevitabile perdita della propria identità.
La ricerca di una specifica fisionomia all’interno della comunità dei credenti, chiede ad ognuna che vuol vivere sul serio la comunione nella fede e nella speranza con tutto il corpo ecclesiale, di offrire al meglio le proprie competenze nate dall’intelligenza e dal cuore, potenziando in sé la logica moltiplicatrice dei talenti, messi al servizio di tutti.
È ben vero che le donne oggi non cercano più, come voleva Virginia Woolf, «una stanza tutta per sé», ma l’opportunità di abitare ogni stanza in cui sia possibile esprimere al meglio tutte le loro potenzialità. Si rende così necessario ricreare le condizioni di questa coscienza comune, impegnandosi ancora di più in ambiti di approfondimento e ricerca, mai avulsi dal contesto concreto, e non certo per formare piccoli ghetti autoreferenziali, ma spazi in cui sia possibile interagire con serietà e fermezza, per offrire a tutti alternative efficaci, a misura delle proprie competenze.
Un esempio concreto è dato in questo periodo dall’esperienza di un gruppo di donne - politiche, docenti, religiose - riunite periodicamente nell’Ambasciata italiana presso la Sante Sede, che hanno proposto alcune idee forti - come la dignità della donna eretta a simbolo dell’incontro interculturale - nel tentativo di legare riflessione e concretezza del vivere e contribuire a sconfiggere la piaga della violenza. Moltiplicare questi luoghi di incontro fra credenti è contribuire a fecondare quel vasto terreno fertile che nutre la radice mariana. Si può essere sicure che anche l’istituzione «petrina» ne farebbe tesoro.
Chiesa, quali spazi al genio femminile?
di Brunetto Salvarani (Avvenire, 31 agosto 2010)
Qualche anno fa, in una delle non frequenti interviste concesse, Liliana Cavani aveva confessato di essere stata abituata sin da piccola a immaginare che le cose impossibili siano meno impossibili da realizzare di quanto si ritenga comunemente: che si può fare, o, almeno, che si deve tentare. In effetti, gli elementi che più caratterizzano l’opera della regista carpigiana, e che l’hanno fatta apprezzare da critica e pubblico nel corso di una lunga carriera artistica ancora aperta, sono in primo luogo la capacità di pensare in grande, l’estremo rigore professionale e la severa tensione intellettuale. Un cinema di idee, il suo, che ha prodotto nel tempo una galleria di figure clamorosamente fuori del coro nel loro tempo e nel loro ambiente: dal Galileo cultore a testa alta della laicità del sapere al mistico Milarepa alla ricerca di se stesso; dall’ex nazista Aldorfer, protagonista de Il portiere di notte, di cui Primo Levi discusse nel suo I sommersi e i salvati , al filosofo della crisi Nietzsche in Al di là del bene e del male ; e poi, su tutti, naturalmente il santopoeta del Cantico delle creature, su cui l’autrice si è dedicata - evento più unico che raro - in ben due film, quello d’esordio, Francesco d’Assisi (1966) e poi il Francesco con Mickey Rourke del 1989.
Vorrebbe dirci qualcosa delle sue prime relazioni con la dimensione religiosa dell’esistenza? Ha ricevuto un’educazione religiosa? Se sì, che cosa le ha lasciato a vari anni di distanza?
«Per rispondere alle sue domande servirebbero volumi, o tante ore di pensiero. Ma in questo caso devo dire che sarebbero volumi e pensieri di incertezze, di illusioni e di speranze lanciate nello spazio. Essendo donna, infatti, non ho sempre trovato nelle religioni un’accoglienza aperta, completa. Anzi! Nella storia della Chiesa l’eccezione è proprio Francesco, che elegge a musa di saggezza la ragazza Chiara sapendo di non sbagliare. Pensiamo ad esempio al comandamento biblico che esorta a non desiderare la donna d’altri, la casa d’altri, e così via... Non si dice anche: non desiderare l’uomo d’altre... Insomma, la donna, a partire dalle Scritture, è considerata alla stregua della roba necessaria al maschio. I comandamenti in sostanza sono rivolti agli uomini. Non anche alle donne! Il genio femminile, che esiste da sempre ed è tanto, non ha pari ospitalità nei testi sacri, peraltro scritti e trasmessi da uomini. Non mi si risponda che Maria però è al centro di una grande devozione, e via dicendo. Questo lo so, ma avviene solo in quanto scelta come madre dell’Incarnato, e quindi c’è più l’esaltazione perpetua della maternità e della sua persona».
Liliana va avanti. Il tema, evidentemente, lo sente molto. A fine dell’anno scorso, il 27 dicembre 2009, ha firmato insieme alla storica Emma Fattorini un appello, comparso su «Il Sole 24 ore», con l’auspicio che la Chiesa si risolva a dedicare un Sinodo al tema delle donne. Appello che ha suscitato un discreto dibattito, anche per l’autorevolezza delle due promotrici. L’intervista sta diventando monografica, sulla questione femminile nella Chiesa...
«Mi chiedo pacatamente, ma anche consapevole che si tratta di una domanda radicale: perché le diverse componenti che animano la Chiesa, divise su tanti aspetti, hanno però in comune uno stupefacente silenzio sulla donna? Un richiamo stanco e di maniera, frutto più di rivendicazioni esterne che non di una convinzione vera, quale sarebbe logico di fronte a un così evidente segno dei tempi? Le ragioni sono tante e come sempre quasi tutte dettate da paura... In sostanza, Maria chi era? Il dato di fatto è che, nei testi religiosi, la donna non è mai persona alla pari dell’uomo. Io ho avuto la ventura di essere cresciuta in una famiglia atea, e in casa la donna aveva pari dignità dell’uomo, come si usa dire oggi. Sono cresciuta come persona completa alla pari e a tutti gli effetti. Per me è sempre stato naturale sentirmi persona a tutti gli effetti, e penso che questo sia stato il mio punto di forza. Avevo il diritto di essere me stessa e sentivo questa cosa con naturalezza, senza essere femminista. Al tempo della mia formazione ho conosciuto, devo ammettere, donne religiose straordinarie (prima su tutte Romana Zelocchi), pur se coscienti di non avere ’pari opportunità’ (come si dice oggi): ma nessuna, tuttavia, che desiderasse fare la sacerdote. Non è questo, infatti, il punto centrale: però la pari dignità sì. La donna non nasce per servire gli uomini, ma per realizzare la compiutezza della sua originale persona, che diventi madre o non lo diventi. Esattamente come l’uomo».
Da questo punto di vista, cosa pensa della situazione della fede cristiana oggi, in una stagione di grandi cambiamenti?
«Simone Weil scrisse saggiamente che occorre ripensare da capo la nozione di fede, in tutti i sensi. Concordo in pieno! Può darsi che i responsabili di una Chiesa che vuole essere universale (cioè cattolica, etimologicamente) riescano in un non lontano futuro a comprendere che non hanno dedicato a mio parere il tempo e l’attenzione necessaria a capire la creatura donna, e di conseguenza non hanno potuto averne la comprensione che hanno avuto per gli uomini. Spero che si possa capire a fondo il mistero di Maria, e che senza la collaborazione della sua sapienza nulla sarebbe accaduto... Probabilmente, la paura del soggettivismo relativismo rischia di farci perdere la ricchezza spirituale che c’è nell’entrare in contatto con il Signore anche con il corpo, con le emozioni, con tutta la propria persona e non solo con la testa, non solo con il pensiero. E così si perde quell’unità della persona che deve unificare e non separare le diverse esperienze umane. Di conseguenza, preferisco rinviare la risposta alle domande su fede, religione e Bibbia al momento nel quale potrò parlare della ricchezza dello Spirito che è sopra al mondo di tutte le creature, quale che sia il loro genere».
Torna alla mente un passo dell’appello Cavani-Fattorini sopra citato, in cui si sostiene che «non trarre tutte le conseguenze pratiche di come il genio femminile possa agire nel mondo non solo impoverisce la Chiesa cattolica, ma finisce con il tradirne la sua stessa vocazione di civilizzazione; il ruolo della donna infatti è oggi e sarà sempre di più il cuore dei grandi cambiamenti di tutte le culture del mondo, la cartina di tornasole dei loro processi di democratizzazione e di umanizzazione». Ma anche le parole del cardinale Paul Poupard in occasione del conferimento alla Cavani di una laurea honoris causa in Scienze della comunicazione alla Lumsa di Roma, quando definì la sua opera cinematografica «umanistica, intensamente intrisa di eticità», fino a esaltare i due film su Francesco, in cui risalta fortemente «la traccia dell’avventura umana, senza dimenticare il dolore e il male». Un riconoscimento non da poco, per una donna che ha fatto della ricerca del senso della vita, della libertà da ogni bandiera e da qualsiasi etichettatura ideologica il suo credo profondo.
Parabole
di Adriana Zarri (il manifesto, 19 dicembre 2009)
Io mi chiamo Adriana Zarri e non Zarri Adriana, anche se, come Zarri Adriana sono scritta nella guida telefonica e in ogni altro elenco stilato secondo l’ordine alfabetico ed ovviamente per cognome. Ho messo correttamente il nome prima del cognome come è normale per uno scrittore che, di mestiere, è un tecnico del linguaggio. Ma non tutti sono così né così dicono e scrivono. Anzi l’invertire l’ordine dei termini, mettendo il cognome prima del nome, è uno degli errori più comuni. Ma il fatto di essere frequentissimo nulla toglie all’errore (e all’orrore) di una sì fatta sovversione. Che si può mettere solo in alcuni casi, come ad esempio per la mia postina che forse di Adriane ne ha parecchie e per non sbagliare può chiamarmi per nome, ma seguito dal cognome.
Carceratum
L’art. 27 della nostra Costituzione recita: «La responsabilità è personale l’imputato non è considerato colpevole fino alla conclusione definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla riabilitazione del condannato». Purtroppo così non è. I detenuti in Italia sono aumentati e i servizi diminuiti. Il sovraffollamento, la carenza di personale e altri disagi sono stati più volte denunciati. Il 24 novembre il dossier curato da «Ristretti Orizzonti» (associazione sul carcere) ha presentato cifre spaventose: 65 suicidi su 157 morti in poco più di dieci mesi. E poi le morti sospette la cui causa è ancora da accertare. Accertiamola subito e subito prendiamo provvedimenti. I carcerati, per quanto colpevoli possano essere, sono pur sempre persone umane e, come tali, vanno trattate.
Suore
Siamo soliti pensare alle suore come creature miti e sottomesse, sempre a chinar la testa, sempre a dire di sì , mai a levare il capo con fierezza. E certo molte (troppe) son così fatte. Ma non tutte. Un’aria nuova circola anche nei conventi femminili. Molte religiose raddrizzano la schiena, anche di fronte al Vaticano. È il caso di un gruppo di suore americane che, ritenendo inopportuna una visita apostolica decisa a Roma, ha detto: «Basta!».
Perché fa ancora scandalo il Duce seduttore?
Benito Mussolini aveva carisma. È ora di accettarlo
Le critiche di Natalia Aspesi al film di Bellocchio derivano dall’impossibilità di ammettere la capacità di seduzione del Duce. Basta con la favola degli italiani stupidi e accecati, ieri con lui e oggi con Berlusconi
di Lucetta Scaraffia (il Riformista, 21.05.2009)
In Italia, quando si parla di Mussolini, tutti si agitano ancora, e molto. Come sta avvenendo per il film di Bellocchio presentato a Cannes Vincere, che, come ormai ben si sa, riprende una storia d’amore della sua gioventù con Ida Dansen, dalla quale nacque un figlio, Benito. Il giorno dopo l’anteprima, Natalia Aspesi sgridava il regista su Repubblica, dicendo che era sbagliata la rappresentazione di Benito Mussolini, secondo lei macchiettistico. Peccato però avesse detto, appena qualche riga prima, che nei cinegiornali dell’epoca, che inframezzano la finzione cinematografica, il dittatore vero appariva macchiettistico.
Forse la Aspesi non possiede una collezione di fotografie di famiglia, in cui gli uomini di quell’epoca si mostrano con colletti duri e facce feroci in mezzo a donne e bambini, in una rappresentazione esasperata e guerriera della mascolinità che certo poco si addiceva magari a tranquilli borghesi ma che era tipica e ampiamente diffusa. Il mio nonno, che aveva fatto il bersagliere nella prima guerra mondiale, e che era l’uomo più buono che io ricordi di avere conosciuto, nelle foto ha una faccia da cattivo che avrebbe dovuto terrorizzare noi nipoti, che invece lo adoravamo.
Anche l’idea di fascino maschile è molto cambiata: ai nostri occhi appare buffo il grande seduttore Rodolfo Valentino, per cui si sono addirittura suicidate delle donne, mentre troviamo affascinante l’eleganza spiegazzata di un Jeremy Irons e l’autoironia di Sean Connery, tanto per citare solo due seduttori di lungo corso.
Quindi è chiaro questo primo punto: macchiettistico è un comportamento, un modo di proporsi di altri tempi, che oggi ci infastidisce perché non corrisponde per nulla alla nostra concezione della vita, ma che può essere perfettamente autorizzato in un film storico, o meglio addirittura richiesto dal soggetto. Ma quello che disturba la Aspesi, mi viene il dubbio, non è questo, ma piuttosto il fatto che Mussolini viene rappresentato come affascinante sciupafemmine di sinistra invece che il dittatore rigido e imbolsito quale ormai siamo abituati a vedere. Certo, è un mascalzone, ma come ben si sa i mascalzoni sono sempre piaciuti, come ben prova il fatto - verità storica - che la povera Ida Dalsen, se pure non richiesta, vende il suo istituto di bellezza e tutti i suoi averi per fornirgli i soldi necessari a iniziare la pubblicazione del nuovo giornale nazionalista, Il Popolo d’Italia.
Mussolini, quindi, è un seduttore dei primi decenni del 900, con una vita sentimentale complicata e confusa, in cui si barcamena a fatica: l’unica cosa ben chiara è che il suo interesse principale non sono le donne - che pure gli piacciono molto - ma il suo destino futuro, la sua ambizione smisurata di figlio del popolo che vuole disperatamente arrivare in alto, il più alto possibile.
In questo senso agli sceneggiatori del film si può imputare un’assenza importante, quella di Margherita Sarfatti, in quegli stessi anni certo la donna più influente nella vita di Mussolini, non tanto per amore, ma perché estremamente utile alla sua scalata sociale. A differenza di Ida e di Rachele, Margherita era una donna colta e ricca, di alta classe sociale, moglie di un avvocato socialista che era stato parlamentare, e soprattutto molto intelligente: non solo è lei che insegna a Mussolini a vestirsi e a mangiare in modo decente, dirozzandolo dal punto di vista sociale, ma è anche una utilissima ed esperta consigliera culturale. È lei che lo mette in contatto con i futuristi - che compaiono nel film - e con vari intellettuali, che gli suggerisce di utilizzare il mito di Roma imperiale e che scrive la biografia Dux, tradotta in molte lingue, che contribuirà in modo decisivo a creare consenso e approvazione intorno al dittatore non solo in Italia. E fu Margherita a suggerirgli di sposare Rachele, e non Ida, perché pensava che una povera contadina le avrebbe dato meno ombra: si sbagliava, però, e le leggi razziali avrebbero dato il colpo definitivo ad una influenza già declinata.
Invece nel film è molto ben ricostruita la figura di Ida, certo vittima di una situazione sbagliata e di un uomo di potere senza cuore, ma anche artefice essa stessa, con la sua fissazione amorosa, della sua fine tragica.
Mussolini non fa certo bella figura, ma neppure risulta un mostro di cattiveria: è un uomo ambivalente ed egoista, e anche un po’ vigliacco con le donne, come spesso i seduttori, ma si capisce, almeno, quale fascino abbia potuto esercitare sulle donne, e in generale sugli italiani. Perché non si può continuare a dire che gli italiani che hanno favorito e accettato l’ascesa di Mussolini erano solo stupidi e accecati, esattamente come oggi si dice di chi vota Berlusconi: nella vita politica moderna il fascino carismatico occupa un posto importante, e bisogna farsene una ragione.
LA POLEMICA
Cosa ne è delle donne ai tempi del Cavaliere
di MICHELA MARZANO *
CENE, balli, barzellette, "ragazze-immagine" in abiti neri e trucco leggero, bellissime escort i cui volti si sovrappongono fino a sfumare l’uno nell’altro... No, non si tratta del copione di un film di serie B, ma di un rituale che, in questi ultimi anni, si è banalizzato in Italia, ripetendosi in modo ossessivo nel cuore stesso del potere, a Palazzo Grazioli come a Villa Certosa, eco di un mondo in cui le donne non sono più che delle controfigure sbiadite.
"Casting", "fashion", "book": le donne, ormai, nell’Italia di Berlusconi, non sembrano più contare per quello che fanno o sanno fare, per le loro competenze professionali, per la loro preparazione o per la loro storia (dolorosa, a volte; difficile, sempre), ma per il ruolo che giocano, per come appaiono, per ciò che non esprimono. Le donne sono sempre più corpi e volti ritoccati per sottomettersi tutti ad un’unica ingiunzione: sii bella e seducimi! "Io sono una bambola" afferma con fierezza una show girl alla televisione, credendo così di essere irresistibile. "Le donne belle vanno sempre con gli uomini ricchi e potenti", sembra confermare Vittorio Sgarbi in una recente intervista telefonica tirando fuori la carta ormai usata e abusata dell’apologia dell’italiano "scopatore". Ma cosa dicono questi corpi sottomessi (alle diete, alla chirurgia plastica, allo sport, allo sguardo dell’uomo), il cui volto rifatto ha ormai perso ogni segno di singolarità e di vulnerabilità? Che tipo di relazione con l’altro possono stabilire? Si può ancora parlare di relazione e di desiderio quando l’alterità (l’irriducibile alterità dell’altro, come direbbe Levinas) scompare sotto la maschera di un oggetto di piacere e di pulsione intercambiabile? Quale donna si rivolgerebbe oggi al truccatore che vuole nasconderle le occhiaie come fece Anna Magnani, che "ci aveva messo degli anni per farsele e non voleva nasconderle"?
"Ad un volto", scriveva Deleuze, "possiamo porre due generi di domande, a seconda delle circostanze: a cosa pensi? Oppure: cosa ti succede, che cos’hai, che cosa senti o che cosa provi?". È attraverso il viso che ognuno di noi può esprimere la propria singolarità e la propria specificità: un viso non è mai "un" viso in generale, ma sempre "il" viso di qualcuno che porta su di sé i segni del tempo che passa, delle emozioni vissute, dei dolori, delle gioie. Cosa accade allora quando "il" viso diventa "un" viso, uno qualsiasi tra i tanti, conforme alle norme in vigore, ma inespressivo: un "volto angelico" di una ragazza, il cui nome può essere Noemi, ma anche Roberta, Barbara, Patrizia, Lucia? Perché in fondo poco importano nome e viso di queste ragazze. Si tratta quasi sempre di giovani donne sorridenti e sognanti. E quando non sono più tanto giovani, tutte continuano a avere le labbra formose, il naso rifatto, le rughe cancellate, l’abito nero, il trucco leggero... per continuare a occupare la scena di una vetrina luccicante, per non smettere mai di sedurre i maschi, per incarnare l’immagine della donna perfetta che continua a guardarsi nello specchio deformante del piacere virile.
Perché allora così poche persone insorgono contro questa mascherata tutta italiana che da anni cancella "il" viso delle donne, per ridurle al ruolo subalterno e umiliante della semplice comparsa teatrale, come se, per continuare a esistere, le donne fossero ormai costrette a interpretare sempre lo stesso personaggio? Perché tante donne credono che il solo modo per emergere dalla massa informe dell’anonimato sia quello di ridursi a oggetti di pulsioni, contemplate per il corpo-feticcio che incarnano, e ridicolizzate - senza per questo scomporsi - per la loro incompetenza professionale davanti alla telecamera?
Non si tratta di criticare le scelte personali di alcune donne. In fondo, ogni persona è libera di fare quello che vuole della propria vita. Perché non diventare una velina? La questione, qui, riguarda la libertà. Quale libertà resta oggi alle donne in un paese in cui il potere in carica propone loro un modello unico di riuscita e di comportamento? Quale libertà resta quando si fa loro credere che il desiderio non sia altro che pulsione? Il desiderio, che è il sale della vita, e che spinge ognuno di noi ad andare verso l’altro, non può ridursi alla voglia frenetica di "consumare" corpi seducenti e impeccabili; il desiderio emerge e si sviluppa solo quando l’altro, l’oggetto del nostro desiderio, resta giustamente "altro": colui o colei che è ciò che io non sono, che ha ciò che io non ho e che, nonostante tutto, al di là della seduzione e dei rapporti sessuali, rimane irraggiungibile. A differenza di un pezzo di pane o di un bicchiere d’acqua che si consumano quando si ha fame o sete, la donna non è un semplice oggetto che può essere consumato a proprio piacimento. E non per ragioni morali (la "moralina", direbbe Nietzsche). Ma perché, molto più semplicemente, in ogni relazione umana c’è un "resto", qualcosa dell’altro che non si può distruggere perché l’altra persona sfugge sempre alla "presa" e, in quanto persona, resiste alla volontà dell’altro di assimilarla a sé. È in questo "resto" che risiede la sua specificità e la sua umanità. Un volto che dice "no" e che si oppone all’onnipotenza del potere, della ricchezza, della violenza. Solo nei film pornografici il volto scompare e non esprime più nulla, producendo un sistema nel quale gli uomini e le donne non sono altro che due polarità complementari: l’attività e la passività, il potere e la disponibilità. Tutto si riduce a ripetizione, accumulazione e moltiplicazione: la ripetizione ossessiva degli stessi gesti; l’accumulazione delle donne come trofei di caccia; la moltiplicazione delle conquiste... Fino a che non emerge un mondo in cui, guardando o essendo guardati, tutti restano intrappolati nella ripetizione di un atto che simula il sesso senza più nessun riferimento all’incontro sessuale, come mostra magistralmente Kubrick nella scena dell’orgia del suo ultimo film, Eyes Wide Shut. Un mondo che, in fondo, altro non è che il vecchio sistema patriarcale in cui gli uomini amano delle donne che non desiderano e desiderano delle donne che non amano, come diceva Freud, e in cui le donne sono costrette a scegliere a quale gruppo appartenere: le "madonne" o le "puttane".
Con il 1968 e la rivoluzione sessuale degli anni Settanta, questo sistema era stato rimesso in discussione: la libertà per le donne di disporre finalmente del proprio corpo aveva come finalità principale il raggiungimento di un’uguaglianza a livello di diritti che doveva permettere a tutti di diventare soggetti della propria vita. Uomini e donne uguali. Uomini e donne capaci di costruire la propria vita, di lottare per affermarsi, di mostrare il proprio valore e le proprie competenze. Che cosa resta, nell’Italia di oggi, di questa rivoluzione? Che messaggio dà alle adolescenti di oggi un paese il cui presidente del consiglio è fiero del proprio machismo? Un paese in cui un personaggio pubblico celebre può dichiarare senza vergogna che "chi scopa bene, governa bene"? Guardando quello che accade negli altri paesi europei, l’Italia "liberista e moderna" sfigura, presentandosi come l’emblema stesso del ritorno all’atavico machismo dei paesi mediterranei. È questo che stupisce e scoraggia quando ci si rende conto che l’unico modello femminile valorizzato oggi in Italia è quello della bambola impeccabile la cui sola preoccupazione è l’immagine del proprio corpo e la seduzione maschile. Non perché non ci si debba occupare del proprio corpo, ma perché quando il corpo non è altro che un oggetto di consumo, la donna perde la possibilità di esprimersi indipendentemente dallo sguardo degli uomini.
Facciamo, allora, in modo che il ventunesimo secolo, col pretesto di essere "alla moda", non sia la tomba di tutte le conquiste femminili del secolo scorso.
* la Repubblica, 30 luglio 2009
L’irrosolto lascito della rivoluzione sessuale
di Francesco D’AGOSTINO (Avvenire, 1 Agosto 2009)
Condivido tutte le preoccupazioni di Michela Marzano sulla sorte delle donne «ai tempi del Cavaliere» (la Repubblica del 30 luglio): nel contesto del sistema mediatico e culturale oggi dominante, esse si sentono sempre più umiliate, vedendo il loro corpo ridotto a oggetto di consumo e avvertendo la crescente impossibilità di "esprimersi" indipendentemente dallo sguardo degli uomini.
Il dissenso dalla Marzano comincia subito, però, quando essa individua nel 1968 e soprattutto nella rivoluzione sessuale degli anni Settanta un momento di svolta, che avrebbe consentito alle donne di «disporre finalmente del proprio corpo» e a tutti (uomini e donne!) di lottare per costruire secondo libertà la propria vita.
Ancora una volta il 1968 e gli anni Settanta vengono indebitamente mitizzati. Nessuno vuole negare il rilievo sociologico di quegli anni, ma continuare ad attribuire loro il merito di aver (per la prima volta!) messo in discussione il «vecchio sistema patriarcale» che avrebbe governato per millenni il rapporto tra i sessi è profondamente mistificante. Riconosciamo almeno che è dall’avvento del cristianesimo che uomini e donne sono considerati assolutamente pari in dignità e in diritti (nel matrimonio cristiano non c’è differenza tra il rilievo conferito al consenso coniugale dello sposo rispetto a quello della sposa) e che tutte le battaglie per attualizzare questo principio epocale (evangelico nel suo fondamento, ma laicissimo nella sua sostanza) hanno avuto successo solo quando pensate, lette, attivate all’interno della tradizione cristiana e non contro di essa. L’errore del 1968 e degli anni Settanta fu appunto quello di coniugare la "liberazione" della donna a diverse varianti del marxismo e comunque a un materialismo programmatico; e se oggi ci interroghiamo, come giustamente fa la Marzano, su cosa resti di quella "rivoluzione" (per concludere che ne resta ben poco, anzi pochissimo) la ragione consiste probabilmente proprio nella sua velleitarietà antireligiosa.
Posso provare quanto ho appena detto? Ma la prova migliore ce la dà, senza rendersene conto, la stessa Marzano, nel corso delle sue stesse riflessioni, quando mette le mani avanti per prevenire possibili e imbarazzanti critiche dei nostalgici del ’68. «Non si tratta di criticare le scelte personali di alcune donne... - essa scrive - in fondo ogni persona è libera di fare quello che vuole della propria vita». Sarà vero per l’ideologia sessantottina, ma non è vero, non è così, sul piano etico e culturale, che è quello su cui intelligentemente si muove la Marzano (sul piano giuridico, è ovvio che, finché non si danneggiano gli altri, ogni persona è libera di fare ciò che vuole della propria vita: ma qui non stiamo utilizzando le fredde categorie del diritto, ma le calde, caldissime categorie della morale).
Non ci sarà mai liberazione per le donne (e, simmetricamente, per gli uomini) finché si continuerà a pensare che la vita individuale sia moralmente insindacabile, perché insindacabile sarebbe la stessa libertà. La libertà è invece sindacabile, anzi sindacabilissima, quando si allontana dal bene. La libertà per le donne (come per gli uomini) consiste in primo luogo nell’offrirsi allo sguardo degli altri come «persone» e non come «corpi», come persone chiamate a scegliere se svolgere «funzioni» umanizzanti (familiari e sociali), o disumanizzanti (come quella delle veline o delle escort).
Il problema è tutto qui: la rivoluzione sessuale degli anni Settanta, scuotendo alle radici le società occidentali e spezzando il vincolo antropologico essenziale che unisce sessualità e persona, non ha risolto i problemi che intendeva risolvere (e questo spiega le giustificate angosce della Marzano) ed ha anzi creato problemi nuovi, di cui ancora si fatica a prendere coscienza. Questo è il problema.
Francesco D’Agostino
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PERVERSIONI di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
Le donne e la libertà ai tempi del Cavaliere
di MIRIAM MAFAI *
E se tutto questo scialo di donne, convocate a Roma da uno spregiudicato affarista di Bari, e messe a disposizione del nostro presidente del Consiglio, avesse provocato, non la simpatia, l’invidia e il consenso di cui parlano i suoi più fedeli collaboratori, ma, soprattutto tra le donne, irritazione, e persino un po’ di vergogna?
E non è possibile che sia stato proprio questo sentimento di una parte dell’elettorato femminile ad aver provocato un sia pur tardivo atteggiamento di critica da parte della stampa e delle gerarchie cattoliche?
Una velina, una escort, una prostituta è una donna che dispone del suo corpo come crede. O come può. Il mestiere più antico del mondo, si diceva una volta. Esercitato in modi diversi, con maggiore o minore eleganza, riservatezza e sobrietà. Un mestiere che si sceglie o al quale si può forse essere costrette. Ma non è lecito pensare che siccome esistono le veline, tutte le donne italiane sarebbero classificabili come aspiranti veline. E la prova di questa latente aspirazione starebbe nel fatto che le donne italiane, giovani e meno giovani, dedicano ormai una cura ossessiva al proprio corpo, sperando di farne strumento non solo di piacere ma anche, se possibile, di guadagno e di successo.
Ha ragione Michela Marzano quando, su queste pagine, qualche giorno fa, denunciava il fatto che questo sia l’unico modello di riuscita e di comportamento che il potere in carica oggi propone alle donne. E’ questo, nei fatti, il modello vincente insistentemente proposto alle donne dalla nostra tv. Donne esibite come merce, donne spogliate, donne in vendita offerte al miglior acquirente: una proposta umiliante che non viene avanzata solo dalla tv berlusconiana, ma anche purtroppo da quella pubblica.
Ma le donne italiane sono davvero tutte, o nella loro maggioranza, disponibili a questa subalternità al desiderio maschile? Io non lo credo. Penso, al contrario, che in maggioranza le donne italiane stiano da tempo perseguendo un’altra strada. Quella della propria realizzazione come individui liberi e responsabili, attraverso una faticosa combinazione tra studio, organizzazione della vita familiare, maternità e lavoro. E questo mi pare il senso dell’interpellanza su Berlusconi presentata la scorsa settimana in Parlamento dalle donne e dalle ex ministre del Pd. E questo mi pare anche il messaggio di quelle 15 mila donne italiane che hanno firmato l’appello della professoressa Chiara Volpato: "il comportamento del premier offende le donne".
Il 1968 ci perseguita. É sempre a quella data che facciamo riferimento per ricordarne le conquiste o lamentarne le sconfitte e le delusioni. Quello che si è convenuto chiamare il 1968 è un processo lungo e tumultuoso che nel nostro paese è durato almeno dieci anni. Ci stanno dentro le occupazioni delle Università e l’autunno caldo operaio, la legge sul divorzio (e il successivo referendum) e lo Statuto dei Lavoratori, il nuovo diritto di famiglia e la legge sull’aborto, la chiusura dei manicomi e la riforma sanitaria, Piazza Fontana e il delitto Moro. Quello che chiamiamo il 1968 è uno spartiacque. C’è un prima e un dopo. E oggi, a distanza di quarant’anni molti di noi continuano a misurarsi con quelle speranze, quei successi e le successive delusioni.
Cosa ne è, si chiede Michela Marzano (che all’epoca, beata lei, non era nemmeno nata) della rivoluzione sessuale di quegli anni, che dava finalmente alle donne la libertà di disporre del proprio corpo, che prometteva a tutti di diventare autonomi soggetti della propria vita? Cosa ne è, di tutto questo, "ai tempi del cavaliere" in un paese in cui il presidente del Consiglio può dichiarare, senza vergogna, che "chi scopa bene governa bene"?
Tutto questo, le veline e le escort, le Noemi Letizia e le Patrizie D’Addario, le feste a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli, le barzellette da trivio e le volgarità di Berlusconi ("un uomo che non sta bene" come lo ha definito, correttamente e sobriamente, la moglie Veronica Lario), tutto questo rappresenta senza dubbio un pezzo, il più sgradevole e avvilente del nostro paese, ma non può essere assunto a simbolo dell’Italia, del nostro costume, delle aspirazioni, delle ambizioni, dello stile di vita delle donne italiane di oggi. Al contrario: sono convinta che il femminismo o comunque si voglia chiamarlo, quel movimento cioè che rivendicava la fine di ogni forma di discriminazione tra uomini e donne, la uguaglianza di diritti e la possibilità, quel movimento nel corso degli anni ha certamente cambiato faccia, stile, modo di esprimersi ma ha messo radici profonde nella nostra cultura e nella nostra vita quotidiana. La rivoluzione femminista, nata negli anni lontani che chiamiamo " il 68", resa possibile anche dal processo di secolarizzazione che allora percorse il nostro paese (coinvolgendo una parte notevole del mondo cattolico), quella rivoluzione si scontrerà negli anni successivi con movimenti e culture che ne tenteranno un ridimensionamento. Parlo di movimenti e culture che esaltano la violenza e il successo, comunque conseguito, che irridono ai deboli o ai meno dotati, e che tentano di riportare la donna a un ruolo subalterno contestandone il diritto alla propria autonoma capacità di decisione anche nel campo delicatissimo della procreazione. (Basti ricordare la vicenda della legge sulla fecondazione assistita, i ripetuti tentativi di rivedere la legge 194, e, in questi giorni la posizione del Vaticano sulla pillola Ru487 e la relativa minaccia di scomunica rivolta ai medici che dovessero prescriverla).
La libertà della donna è certamente a rischio. Ma resta tuttora un elemento fondante della nostra società. Ormai padrone del proprio corpo, le donne se ne possono servire, se vogliono, per fare le veline o per fare carriera, ma anche per scegliere se e come e quando fare un figlio, o per vincere una gara sportiva come le nostre splendide Federica Pellegrini e Alessia Filippi. Si possono servire dalla loro intelligenza per affrontare percorsi di studio e ricerca sempre più complessi, per dare la scalata a posti di sempre maggiore responsabilità. Il fatto è che, purtroppo, non ci vengono mai proposte come modello. Tutti conosciamo la faccia di Patrizia D’Addario. Ma nessuna tv ci propone la faccia di Cristina Battaglia, a 35 anni vicepresidente dell’Enea, o quella di Amalia Ercoli Finzi che al Politecnico di Milano insegna come volare nello spazio, o quella di Sandra Bavaglio, giovane astronoma cui Time ha già dedicato una copertina.
Insomma, il 1968, la sua cultura dell’uguaglianza e dei diritti è ancora tra noi. Quali che siano i messaggi che ci invia una tv sempre più volgare o quelli proposti dal patetico machismo del nostro presidente del Consiglio.
* la Repubblica, 4 agosto 2009
INTERVISTA.
«Molti Paesi e istituzioni vogliono limitare la Dichiarazione universale: solo la Chiesa la difende»: il j’accuse di Mary Ann Glendon
Da oggi un simposio in Vaticano
Diritti umani, solo briciole?
«Spesso sono ritenuti un lusso che non ci si può permettere: politica e affari hanno la precedenza. Dagli anni ’50 ai ’70 nel mondo la Santa Sede fu l’unica a sostenerne l’universalità».
DI LUIGI DELL’AGLIO (Avvenire, 01.05.2009)
« Nessun Paese, nessuna istituzione al mondo, quanto la Chiesa cattolica, ha fatto propri e ha difeso i diritti umani, che Benedetto XVI definisce ’ la vera conquista dell’Illuminismo’. E nessun Paese e nessuna istituzione, quanto la Chiesa cattolica, ha tanto influenzato la teoria e la pratica dei diritti umani ».
Mary Ann Glendon, dopo essere stata per circa un anno ambasciatore Usa in Vaticano, è di nuovo presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, e apre oggi la XV sessione plenaria sul tema ’ Dottrina sociale cattolica e diritti umani’, cui interverranno fra l’altro Joseph Stiglitz, Pierre Manent, Partha Dasgupta, Hans Tietmeyer.
La Chiesa riesamina l’Illuminismo...
« Gli stessi pensatori illuministi, anche se non sempre lo riconobbero, avevano un debito enorme nei confronti del patrimonio intellettuale e spirituale della cristianità ( ricerca della verità, rispetto della dignità e del valore di ogni essere umano e - soprattutto - l’alto posto riservato alla ragione). Quanto all’influenza della dottrina sociale cattolica sui moderni diritti umani, basta notare che il documento stilato dalla Commissione Onu incaricata di preparare un ’ bill of rights’, cioè una carta dei diritti umani, ricordava molto da vicino le encicliche sociali, la Rerum Novarum di Leone XIII ( 1891) e la Quadragesimo anno di Pio XI (1931) » .
Quali sono i diritti per i quali si è battuta la Chiesa?
« Prima di tutto, l’intrinseca dignità e il valore della persona umana, dotata di ragione e di coscienza; il diritto di formare sindacati, il diritto a una giusta remunerazione, il riconoscimento della famiglia come cellula naturale e fondamentale che unifica la società e perciò merita di essere protetta; il diritto dei genitori di scegliere l’educazione dei figli, e il diritto della madre e del fanciullo di ricevere cure speciali e assistenza. Negli anni della Guerra Fredda la cultura dei diritti umani rischiò di estinguersi. Si era appena asciugato l’inchiostro sulla Dichiarazione Universale del 1948, e i diritti umani non erano più una norma gradita ai due blocchi di potere che si erano formati nel mondo. L’amministrazione Eisenhower licenziò i diritti umani come una creazione ’ socialista’, la controparte sovietica li bollò come ’ borghesi’ » .
Ed erano odiati dai nuovi dittatori nel Terzo Mondo.
« Formalmente i nuovi Paesi indipendenti modellavano le loro Costituzioni tenendo presente la Dichiarazione Universale. Ma i loro leader facevano capire subito che i diritti umani erano un ’ lusso’ che non ci si poteva permettere: stabilità politica e sviluppo economico avevano la precedenza. Insomma, dai primi anni ’ 50 alla fine degli anni ’ 70, nel mondo non ci fu che la Santa Sede a sostenere l’universalità e l’indivisibilità dei diritti umani. Questi diventarono la piattaforma su cui puntare per un cambiamento pacifico ma profondo nell’Europa dell’Est e in Sudafrica » .
Quale ruolo ha svolto la Chiesa in quel giro di boa?
« La storia cambia il proprio corso grazie a un pugno di uomini e donne coraggiosi. Nel 1989, Vaclav Havel scrive: ’ Mi sembra incredibile ma io vivo in un mondo in cui le parole di verità possono scuotere dalle fondamenta interi sistemi di governo e risultare più forti di dieci divisioni corazzate’. Ma nessuno ha usato il linguaggio dei diritti umani con maggior vigore di Giovanni Paolo II. Gli storici dibatteranno sul peso avuto dalle varie forze nel crollo dei regimi comunisti nell’Est ma non c’è dubbio che il primo posto spetta a papa Wojtyla. Inoltre le sue encicliche rappresentano un importante sviluppo del pensiero sociale cattolico su molti fronti. Centrale in questi scritti è anche il concetto che va rifiutata la libertà come licenza. ’ Quando gravi mali morali ( aborto, eutanasia) vengono legalizzati come diritti, allora l’intero sistema dei diritti umani è pericolosamente minacciato’ » .
Le traversìe non cessano con la fine dell’Urss...
« Sopraggiungono gli anni neri dei sanguinosi conflitti etnici che minano l’unità della famiglia umana. Nelle conferenze internazionali ( specialmente al Cairo e a Pechino) la Santa Sede lotta per difendere la Dichiarazione Universale dai tentativi di ridurla in briciole o di politicizzarla, e per garantire il legame tra libertà e solidarietà. Nel suo discorso di un anno fa all’Onu, Benedetto XVI definisce la Dichiarazione ’ il risultato di un processo che mira a collocare la persona umana nel cuore delle istituzioni, delle leggi e dello stesso funzionamento di una società’. Ma occorre cautela, aggiunge. E indica nove minacce da fronteggiare: il relativismo culturale, il positivismo, il relativismo filosofico, l’utilitarismo, l’approccio selettivo ai diritti, la crescente domanda di nuovi diritti, l’interpretazione iper- individualistica dei diritti, la negligenza riguardo alle responsabilità, e il secolarismo dogmatico » .
Spesso, per mascherare la violazione dei diritti umani, si sostiene che paesi culturalmente lontani dall’Occidente non possono abbandonare le loro antichissime tradizioni per sintonizzarsi con gli usi occidentali.
« La Chiesa respinge il relativismo culturale che mina alla base i principii universali; è per un legittimo pluralismo che permetta differenti modi di esprimere e proteggere i diritti fondamentali. Nessuno vuole riesumare l’imperialismo culturale di marca coloniale. Il relativismo filosofico è penetrato così profondamente nella cultura popolare che uomini e donne non sono più in grado di dire perché vanno difesi certi valori e perchè vanno condannati certi comportamenti. Questo afferma il Papa. Ma se non ci sono più verità comuni cui possano fare appello persone di diversa formazione e cultura, come sostenere i diritti fondamentali? Come portare avanti la ricerca della verità? L’approccio di papa Ratzinger è, al tempo stesso, paolino, agostiniano e postmoderno. Egli vede soltanto due opzioni possibili: riconoscere la priorità della Ragione, la Ragione creativa che è all’origine di tutte le cose, oppure la priorità dell’irrazionale, cioè credere che tutto sulla Terra e nella nostra vita, compresa la ragione, sia accidentale. ’ Il cristiano sceglie la priorità della ragione’ » .
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
John Stuart Mill e la proprietà dei nostri corpi
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 16.04.2009)
Caro Augias,
una sommessa protesta per la fretta, forse eccessiva, con cui ha riportato alcune mie parole estrapolandole, dunque dandogli un significato più radicale che nella versione originale. Vorrei esprimere anche qualche dubbio sulla frase di Stuart Mill con cui lei ha creduto di mettermi a tacere. Il modo in cui lei cita il grande pensatore inglese - "ipse dixit! come si permette di contraddirlo?" somiglia molto al modo (giustamente ridicolizzato dal nostro Manzoni) di citare Aristotele, fuori dal suo contesto. Mill si riferiva a quelle che erano le libertà in discussione al suo tempo: libertà di pensiero e di vita, libertà politiche e civili, in particolare la libertà che bisognava garantire ad ogni essere umano purtroppo non garantita neppure oggi nel mondo. L’esistenza di un supposto diritto ad avere l’assenso dello Stato al coinvolgimento di un’altra persona nella propria morte è un’idea recente, essenzialmente motivata dal timore che le scoperte tecnoscientifiche, che tanto sono servite a prolungare l’età media, in alcuni casi possano essere impiegate anche per prolungare una lenta, troppo dolorosa agonia. Problema vero, che però non si può risolvere con un semplicistico: ma sì, ognuno faccia come vuole! E neppure ricorrendo all’autorità di un filosofo dell’800, vissuto in una situazione sociale così diversa dalla nostra.
Lucetta Scaraffia lucerne@iol.it
Su La Stampa del 2 aprile è apparsa tra virgolette questa frase della prof Scaraffia: «La verità è che nessuno è libero, e la vita non è proprietà di cui si può disporre. Ognuno è in una rete di condizionamenti fatta da parenti, amici, stati d’animo, situazione economica, ed è dunque utopia, quella sì ideologia, credere che possiamo essere noi a disporre di noi stessi».
In forma più concisa lo stesso concetto appariva in un’intervista su ’Panorama’ del gennaio scorso in risposta alla domanda ’Come giudica il testamento biologico?’ «Non lo chiamerei testamento perché la vita non è una proprietà di cui l’individuo possa disporre a suo piacimento». Del resto è lo stesso concetto base che informa il ddl Calabrò approvato di recente al Senato.
La mia opinione è che negare ad un individuo la disponibilità piena della propria esistenza è delittuoso e assurdo. Di che altro dovremmo essere considerati proprietari se nemmeno della nostra carcassa possiamo disporre?
Quanto a Mill, ogni pensatore elabora certo attraverso il filtro del suo tempo e della sua vita. Scrivendo però che: «per l’aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano», il filosofo fondava uno dei canoni del liberalismo progressivamente affermatisi nel mondo civile. Infatti oggi contestati solo in questa povera Italia.
GIOVANNI XIII
PREGO PER GLI EBREI
di Orazio La Rocca *
CITTA DEL VATICANO - «Perdonaci, Signore, per non aver capito la bellezza del Tuo popolo eletto... perdonaci, perché nel corso dei secoli non sapevamo quello che stavamo facendo contro gli ebrei...». è un Papa anziano, molto malato, costretto a letto perché colpito da un male incurabile, che scrive queste parole pochi giorni prima di morire. è Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, il papa Buono per antonomasia, il padre del Concilio Vaticano II e del successivo rinnovamento ecclesiale, che Giovanni Paolo II beatificherà nel 2000 sotto i riflettori di tutto il mondo, facendone una delle più importanti icone del grande Giubileo del 2000.
Quasi nessuno, però, finora ha mai saputo che il futuro beato Giovanni XXIII nel chiuso della sua stanza nel Palazzo apostolico, in Vaticano, verso la fine del mese di maggio 1963 - morirà dopo una lunga agonia la sera del successivo 3 giugno all’ età di 82 anni - dedica le sue ultime energie al popolo ebraico sotto forma di preghiera composta quasi di getto su un foglio bianco, davanti al Crocifisso al cospetto del quale ogni notte si era sempre raccolto in preghiera prima di dormire. è una chiara e appassionata richiesta di perdono per le "colpe" commesse dai cristiani nel corso dei secoli con i loro atteggiamenti antisemiti, che papa Roncalli intitola, significativamente, "Preghiera per gli ebrei". Un gesto fatto quasi di istinto, sincero, scritto con grande passione e dettato da un forte desiderio di "pulizia interiore" per le colpe antiebraiche dei cristiani, che anticipa di molti anni le due storiche tappe di avvicinamento al popolo ebraico compiute da Giovanni Paolo II, la visita alla Sinagoga di Roma del 1986 e la richiesta di perdono per le colpe e le omissioni dei cristiani verso gli ebrei nell’ ambito dei mea culpa del Giubileo del 2000. E che spiega, in qualche modo, anche la nascita del testo conciliare Nostra Aetate, approvato nel 1965, con cui la Chiesa cattolica si aprì al dialogo interreligioso e cancellò l’ anacronistica accusa di deicidio con cui per circa duemila anni erano stati apostrofati tutti gli ebrei.
La Preghiera agli ebrei è un documento finora sostanzialmente inedito in Italia. Era stato pubblicato solo in parte nel 1965, due anni dopo la scomparsa di Giovanni XXIII, su un giornale olandese e brevemente accennato nello stesso anno su un periodico italiano, sembra per iniziativa di un giovane monsignore statunitense che aveva preso parte al Concilio come esperto ed era molto amico dell’ allora pontefice. Lo stesso prelato che ne aveva parlato successivamente nel corso di un incontro interconfessionale, negli Stati Uniti d’ America. Da allora, però, se ne erano perse le tracce.
Il testo giovanneo - una quindicina di righe appena - dopo circa 45 anni di sostanziale e inspiegabile oblio domani pomeriggio (alle 16,30) sarà letto integralmente in pubblico per la prima volta al monastero di Santa Cecilia, in Trastevere, a Roma, nell’ ambito del recital Roncalli legge Roncalli interpretato da un discendente di Giovanni XXIII, l’ attore Guido Roncalli che - accompagnato dal violoncellista Michele Chiapperino - presenterà una serie di documenti editi e inediti di papa Roncalli, relativi sia al suo pontificato che agli anni passati nelle nunziature apostoliche in Turchia e in Francia. Il recital è stato presentato con successo una decina di giorni fa in Vaticano alla presenza del cardinale-governatore Giovanni Lajolo. Ma senza la lettura della preghiera ebraica che domani costituirà, inevitabilmente, il momento clou dell’ incontro, che - preannuncia Guido Roncalli - «avrà un carattere e una impostazione ancora più ecumenica». Nella lettera la parola "perdono" viene evocata più volte.
Nel dirsi certo che Cristo è morto e risorto non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini, anche per gli ebrei, Giovanni XXIII chiede al Signore «di perdonarci perché per molti e molti secoli i nostri occhi erano così ciechi che non erano più capaci di vedere ancora la bellezza del Tuo popolo eletto, né di riconoscere nel volto (di tutti gli ebrei - ndr) i tratti dei nostri fratelli privilegiati...». Una espressione, quest’ ultima, che rievoca in maniera impressionante un’ altra famosa frase, quella con cui Giovanni Paolo II nel 1986 nella Sinagoga di Roma salutò gli ebrei chiamandoli «nostri fratelli maggiori».
«Perdonaci, Signore», si legge ancora nella preghiera di papa Roncalli: perdonaci per le tante "ingiustizie" subite dagli ebrei nel corso dei secoli passati e per le "colpe" commesse dai cristiani nei loro confronti. Colpe, mancanze e ingiustizie che il papa Buono accomuna, con "rammarico", al primo delitto raccontato nel primo libro della Bibbia, la Genesi, dove si parla dell’ assassinio di Abele per mano di Caino. La chiusura del testo è contrassegnata anche da un forte impatto teologico perché Giovanni XXIII si spinge a prendere quasi "in prestito" le parole con cui Gesù sul Golgota dall’ alto della croce, prima di spirare, invocò il Padre per perdonare quelli che lo stavano uccidendo. Signore, "perdonaci", conclude infatti papa Roncalli, «perché i cristiani non sapevano cosa facevano» contro gli ebrei.
«Se da un lato la recita fatta in Vaticano mi ha dato un onore immenso perché ospite del successore di Giovanni XXIII, il recital di domani - commenta Guido Roncalli - sento che sarà particolarmente calzante per la rievocazione di un pontefice sensibile al dialogo interreligioso e all’ ecumenismo, e che in punto di morte si è sentito in dovere di scrivere parole bellissime e profonde per chiedere perdono agli ebrei, come una sorta di testamento».
ORAZIO LA ROCCA
* la Repubblica - 20 dicembre 2008
anticipazione
L’accusa è di quelle che pesano e attribuisce alla Chiesa un pensiero «antimoderno» sulla sessualità. Due studiose, una laica e l’altra credente, smontano il luogo comune
Riconciliare eros e libertà
Non si tratta di emancipazione o di oscurantismo. Il clima oggi è più favorevole a un confronto tra etica laica e religiosa che veda nell’atto sessuale un nuovo incontro fra anima e corpo
DI MARGHERITA PELAJA E LUCETTA SCARAFFIA (Avvenire, 17.09.2008) *
Quasi tutte le culture hanno fatto ricorso alla religione per governare la sessualità e conferirle un senso simbolico. La sessualità si presenta agli esseri umani come contraddittoria: da un lato potente origine della vita, dall’altro forza oscura che si impadronisce dell’uomo, gli fa perdere la padronanza di sé, e quindi deve essere domata. L’impeto della passione infatti può minacciare la debole coerenza dell’io: le religioni forniscono i mezzi più efficaci per salvaguardare la sua integrità e controllare la violenza degli istinti. Le più antiche attitudini umane nei confronti della sessualità sono state la divinizzazione e la sacralizzazione, entrambe espressioni della percezione dell’amplesso come di una esperienza superiore, divina, per l’energia del desiderio e l’estasi del piacere, per la partecipazione al potere fecondatore.
Il monoteismo, stabilendo la trascendenza del sacro, implica la desacralizzazione delle potenze vitali e sessuali. Il cristianesimo si differenzia tuttavia dagli altri monoteismi a causa dell’Incarnazione, e inaugura così un nuovo modo di dare senso spirituale, all’atto sessuale. Dio che si è fatto carne, i corpi che resuscitano, i corpi visti come tempio dello Spirito Santo conducono infatti a una complessità nuova del rapporto con la carne, che diventa essa stessa parte e strumento del cammino spirituale che ogni cristiano deve compiere. Per la cultura cristiana, il desiderio dell’altro fa parte della dimensione corporea, ed è quindi positivo, perché in essa si rispecchia la volontà di Dio. Il comportamento sessuale diventa allora un altro percorso dell’evoluzione spirituale, sia nella via ascetica, sia in quella matrimoniale: e in tale percorso si intrecciano naturalmente carne e spirito, sentimenti ed eros.
Ma la posizione attuale della Chiesa nei confronti della sessualità è veramente oppressiva e «antimoderna»? Abbiamo voluto consapevolmente sfuggire all’atteggiamento che Odo Marquard individua come specifico dell’epoca moderna, cioè la trasformazione della storia in un tribunale al quale «l’uomo sfugge solo identificandosi con esso». Abbiamo preferito non diventare un tribunale, né due tribunali in confronto fra loro, ma invece ricostruire il processo storico che ha portato fino alla situazione attuale sia la Chiesa sia i suoi critici. Nel ricorso alla storia che giudica infatti, abbiamo colto quello che si può considerare un luogo comune tipico della modernità: quello che fa sì che colui che accusa «assumendo monopolio dell’accusa biasima, quanto al male nel mondo, gli altri uomini in quanto riluttanti all’emancipazio- ne, in quanto cattivi uomini creatori, e li condanna immediatamente a diventare passato».
La concezione rivoluzionaria dell’atto sessuale proposta dal cristianesimo delle origini e poi approfondita e articolata dalla Chiesa è stata considerata negli ultimi secoli obsoleta e dannosa: le scienze moderne - medici, antropologi, poi sessuologi - hanno elaborato una categoria astratta, quella di sessualità,da studiare come fenomeno a parte, e da disciplinare secondo criteri generali, che si sarebbero voluti scientifici ma che spesso sono diventati ideologici. A tali criteri si sarebbe dovuto conformare il comportamento dei singoli, magari con il sostegno e il consiglio degli «esperti».
Per lunghissimi secoli, la visione cattolica ha inserito invece il comportamento sessuale all’interno del cammino personale di purificazione e di santificazione che è compito di ogni cristiano, in quel fragile equilibrio tra corpo e anima che è costitutivo di una tradizione religiosa fondata sull’Incarnazione; ma anche all’interno di un sistema morale globale, costruito sugli enunciati generali del peccato e della sua condanna, e sulla distinzione del lecito dall’illecito. Almeno fino alla metà del Novecento queste due impostazioni non potevano comunicare fra di loro, perché erano per molti aspetti incommensurabili.
Sarà solo quando la Chiesa - a partire dall’Humanae vitae, per proseguire più decisamente con la nuova proposta teorica di Wojtyla - comincia ad affrontare in termini astratti il problema del comportamento sessuale, che lo scontro si trasferirà su un terreno comune. Solo allora cioè diventerà chiaro che non si tratta semplicemente di una dialettica fra libertà e oppressione, tra emancipazione e oscurantismo, ma del conflitto fra due diverse concezioni di sessualità: l’una, quella laica, che colloca anche l’atto sessuale nella sfera della libertà individuale, l’altra, quella cattolica, che lo giudica e lo definisce come momento importante del percorso spirituale di ogni credente, un incontro fra anima e corpo che non si può sottrarre al rispetto delle regole religiose. L’una basata su un’analisi scientifica della sessualità e sull’autonomia del soggetto intesa come valore dominante, l’altra fondata sulla costituzione dell’individuo come soggetto morale in un sistema di norme definite. Per dirlo con le parole di Foucault, «il compito di mettersi alla prova, di analizzarsi, di controllarsi di una serie di esercizi ben definiti pone la questione della verità - di ciò che si è, di ciò che si fa e di ciò che si è capaci di fare - nel cuore della costituzione del soggetto morale».
Oggi - paradossalmente, vista l’asprezza del dibattito politico-ideologico - è possibile forse un approccio meno conflittuale al problema, almeno dal punto di vista teorico. La differenza fra le due concezioni non costituisce più un momento bruciante di scontro nelle società occidentali, come è stato almeno fino alla metà del Novecento: nei paesi «avanzati » sembra aver prevalso, nella mentalità comune, la proposta laica, ma questa nello stesso tempo è stata sottoposta a critiche da diversi punti di vista - quello femminile, ma anche quello di intellettuali laici come Marcel Gauchet - senza che ciò abbia comportato l’adesione alla visione cattolica, come sarebbe accaduto quando i due schieramenti si fronteggiavano polarizzati. Mentre sono caduti alcuni orpelli ideologici, e soprattutto l’illusione che la libertà sessuale costituisca di per sé una condizione fondamentale per la felicità individuale, altre categorie hanno subito slittamenti di collocazione e di significato: la natura, ad esempio, invocata dai teorici della rivoluzione sessuale come garante di una sessualità finalmente libera da condizionamenti sociali e religiosi, è diventata richiamo severo della Chiesa e un ordine immutabile nella procreazione; la sfera privata, difesa dai modernizzatori laici come ambito intoccabile di scelta individuale, appare prosciugata di senso e di valori, e sembra respingere soprattutto le donne in antiche solitudini, nel rapporto con il proprio corpo e con il proprio desiderio, nella scelta di maternità. È tempo, forse, che il comportamento sessuale torni a essere problema collettivo.
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IL LIBRO
Oltre il cattivo stereotipo della sessuofobia cattolica
Il luogo comune è solido: per il cattolicesimo il piacere è colpa, il sesso peccato. Da praticare con parsimonia e disagio esclusivamente nel matrimonio e principalmente per procreare. Alcuni enunciati si ripetono nel corso del tempo nella predicazione cattolica fino a rendere possibile una sintesi così brutale. Ma sensibilità più libere, analisi circostanziate dei testi e delle politiche possono di volta in volta articolare, smentire, fino a sgretolare il potenziale conoscitivo di un assunto così generico. È quel che intende mostrare il libro «Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia» scritto da due studiose - una laica e l’altra cattolica, Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia - che esce oggi da Laterza (pagine 322, euro 18) e dal quale anticipiamo un brano.
La loro indagine rivela come il tentativo di unire lo spirito alla carne, e quindi valorizzare spiritualmente la sessualità, segni potentemente periodi e figure della storia della Chiesa - basti pensare al «Cantico dei Cantici» - mentre una politica della sessualità che alterna repressione e clemenza scorre parallela e agisce da efficace sistema di governo delle anime dei fedeli. La soluzione è sofisticata e funziona per secoli, finché non viene erosa dal primato della scienza che sembra dominare la modernità.
Una riflessione che tocca l’essenza della società contemporanea, ove l’elemento virtuale si presenta «come una sorta di eternità contraffatta»
Illich, domande al cristianesimo
di LUCETTA SCARAFFIA (Avvenire, 22.07.2008)
È stata tradotta da Quodlibet una delle ultime interviste a Ivan Illich, registrata per la radio canadese, dal titolo provocatorio (e un po’ eccessivo) Pervertimento del cristianesimo (Conversazioni con David Cayley su Vangelo, Chiesa, modernità) che conclude in una atmosfera apocalittica ma intrisa di speranza. Il volume comprende una accurata ricostruzione biografica, che offre informazioni utili per ricostruire il complesso percorso intellettuale e spirituale del filosofo e pedagogista scomparso nel 2002, confermando l’idea che sia stato uno degli intellettuali più fertili e innovativi del Novecento.
La lucidità e la forza del suo pensiero critico sulla modernità, infatti, nasce da un percorso di vita intenso e originale, a cominciare dalla sua origine ebraico-croata, le sue esperienze di vita in varie parti del mondo, rese più interessanti dalle doti di poliglotta, gli incontri significativi con alcuni fra gli intellettuali più interessanti del tempo, da Maritain a Guardini, da Fromm a Foucault, Peter Berger, Paolo Prodi, nonché René Voillaume, iniziatore dei Piccoli Fratelli di Gesù. Ma anche dal suo essere stato sacerdote, e di esserlo rimasto, in fondo, sino alla fine della vita, nonostante avesse rinunciato allo stato sacerdotale dopo essere stato sottoposto a una inchiesta del Sant’Uffizio.
Lo dimostra l’appassionata contrapposizione della fides alla religio che costituisce il senso profondo dell’intervista. Una contrapposizione ispirata alla forza rivoluzionaria del messaggio di Cristo, che ha accolto senza mediazioni, come prima di lui hanno fatto eretici e santi: rischio esistenziale contro sicurezze assistite, gesto d’amore personale e imprevedibile contro le agenzie di assistenza organizzate, anarchica rinuncia contro l’obbligo di soddisfare i ’bisogni’.
Ma, a differenza di tanti eretici, Illich non ha mai cercato di radunare intorno a sé una Chiesa alternativa, ma solo un gruppo di intellettuali con i quali, in serena amicizia, discutere. La sua forza è stata nei libri coraggiosi, che hanno fatto riflettere le élites intellettuali di tutto il mondo. La sua funzione nei confronti della Chiesa, che ha continuato a guardare con rispetto, è stata di pungolo vivificatore, di sguardo critico che spinge a una costante verifica della sua funzione, del suo operato. Il suo pensiero si dipana sempre sul filo di un confronto storico e comparativistico, così da dissacrare i luoghi comuni in cui siamo immersi, e quindi ottenere la libertà di giudizio.
La novità dei Vangeli, per lui, è la capacità di volgersi verso l’altro in modo spontaneo, non premeditato e disponibile a farsene sorprendere, come ha fatto il samaritano nei confronti del giudeo ferito nella parabola evangelica: «Qualcosa di cui Gesù ci ha parlato come di un modello della mia personale libertà di scegliere chi sarà l’altro per me, è stato trasformato nell’uso del potere e del denaro allo scopo di fornire un servizio». La trasformazione di questa teoria rivoluzionaria in un sistema giuridico da parte della Chiesa, secondo Illich, ha formato i presupposti che avrebbero creato la società moderna.
In questa intervista, quindi, Illich riprende una per una tutte le critiche alla modernità che ha elaborato nel tempo, riallacciandole al principio base sul quale egli le ha misurate, cioè le parole di Cristo. Egli ritiene cioè il mondo moderno frutto di un tradimento del suo antecedente cristiano ed è convinto, quindi, che solo attraverso un attento studio del passato si possa arrivare a cogliere quanto strana e stonata sia la nostra società contemporanea. Così i cambiamenti nel modo di avvicinarsi all’immagine, non più una soglia verso l’altro mondo - come aveva sostenuto a Nicea Giovanni Damasceno - ma espediente didattico, fino ad arrivare al mondo virtuale di oggi, in cui l’immagine, nel suo essere senza tempo e senza spazio, ci si presenta come una sorta di eternità contraffatta. Qualcosa che secondo Illich «non avrebbe mai potuto esistere senza l’originale cristiano».
Ma il suo non è un pensiero negativo e nostalgico del passato: Illich è infatti convinto che la perdita di credibilità delle moderne istituzioni ci ponga davanti al cristianesimo come mai era avvenuto prima d’ora, proprio perché oggi viviamo in un tempo apocalittico, quindi di rivelazione.
Occidente, quale democrazia senza valori?
di Mary Ann Glendon (Avvenire, 30.03.2008)
A prima vista, la democrazia appare trionfante all’alba del ventunesimo secolo. Repubbliche democratiche si sono sviluppate in Europa orientale, in America latina e in molte parti di Asia e Africa. La maggioranza degli Stati nel mondo, oltre cento nazioni, si definiscono democratici, anche se la locuzione «in via di democratizzazione» sembra più appropriata in alcuni casi. Gli studiosi ci dicono che le democrazie non sono solite farsi la guerra l’un l’altra e non vi è mai stata alcuna carestia in un regime democratico. Le idee e i principi democratici sono sempre più pressantemente sostenuti e fatti propri da molti gruppi sociali.
Ma sotto le forme democratiche si possono mascherare realtà antidemocratiche. Il futuro delle esperienze democratiche nel mondo appare oscurato da molte linee di tendenza simultanee. In primis, vi è stata una certa atrofia degli elementi democratici negli Stati moderni. La centralizzazione dell’amministrazione ha allontanato il potere decisionale dai governi locali che una volta erano vere e proprie «scuole di cittadinanza» e davano al cittadino medio l’opportunità di partecipare alla vita pubblica. La globalizzazione ha drenato il potere dallo Stato nazione. Gruppi particolari di interesse non rappresentativi e lobby hanno spesso giocato un ruolo decisivo nella formazione delle leggi e nell’attività amministrativa. Una linea di tendenza di alcuni Stati, che può estendersi ai tribunali internazionali, è rappresentata dall’esercizio eccessivamente ambizioso del potere giudiziario per rendere invalide le leggi approvate democraticamente, così come dall’uso di un’interpretazione iper-individualista dei diritti, per minare i gruppi sociali.
Complessivamente, è sempre più difficile per la maggior parte degli uomini e delle donne negli odierni regimi democratici avere voce nel definire le condizioni nelle quali vivere, lavorare e allevare i figli.
Inoltre, gli esperimenti democratici sono altresì minacciati dal declino dei vivai delle virtù civiche. Il carattere e le capacità non emergono di punto in bianco. Essi sono acquisiti solo attraverso una pratica abituale. Tali abitudini saranno rafforzate o indebolite dal contesto nel quale la persona vive, lavora o gioca. Le democrazie dunque non possono permettersi di ignorare la cura e l’educazione dei minori o le istituzioni sociali e politiche nelle quali si sviluppano e si trasmettono da una generazione all’altra le qualità e le capacità che creano buoni cittadini e uomini di Stato. Inoltre, le ’megastrutture’ della società civile hanno assunto un potere tale da suscitare lo spettro di nuove forme di oligarchia. In termini di risorse economiche e di capacità di influenzare politiche ed eventi, il potere di alcuni attori economici, fondazioni e gruppi di interesse è superiore a quello di molte nazioni. Di conseguenza, gli Stati hanno un potere limitato di influenzare i grandi gruppi economici che regolano la vita dei loro stessi cittadini. La condizione e la sicurezza sociale di molti cittadini sono sempre più dipendenti dai grandi datori di lavoro privati, piuttosto che dallo Stato. Gli stili di vita delle famiglie sono stati modificati per adattarli alle richieste e ai ritmi dell’economia. Il livello generale di vita è cresciuto in molti luoghi, ma al contempo le disparità tra ricchi e poveri si sono accentuate [...]. E come diventeranno le nuove oligarchie, se gli elementi democratici negli stati moderni dovessero divenire un giorno mere forme vuote? Gli uomini e le donne che detengono posizioni chiave nell’amministrazione, nei partiti politici, nelle imprese, nei media, nelle fondazioni e così via sono spesso distanti dalle preoccupazioni del cittadino medio. I legami forti a persone e luoghi, le fedi religiose, l’attaccamento alla tradizione e persino la vita familiare sono valori che tendono ad essere meno rilevanti per chi è al vertice piuttosto che per gli uomini e le donne la cui vita questi influenzano [...].
Infine, vi è l’effetto corrosivo sul sistema di governo della crescente mancanza di fiducia che esistano verità comuni, alle quali possano richiamarsi uomini e donne di differenti origini e cultura. Molti seri pensatori del ventesimo secolo ritengono che le dittature, vecchie e nuove, sia della maggioranza che di minoranze, abbiano le loro radici nel nichilismo.
Hannah Arendt, ad esempio, scrisse che «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più».
Papa Giovanni Paolo II, riflettendo sull’esperienza del totalitarismo nell’Europa orientale, scrive: «Il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro». In vista della atrofia della partecipazione democratica, del caos tra le piccole strutture della società civile, della minaccia dell’oligarchia, dell’espansione del materialismo dell’iper-individualismo e del relativismo popolare, che cosa si può dire sulle prospettive di rinnovamento della cultura americana?
Testimone imbarazzante per gli antichi, lo sposo di Maria diviene popolare solo nell’Ottocento, come operaio da contrapporre al socialismo. Ma oggi la sua figura viene rivalutata
Giuseppe, il padre che ci manca
Mai immagine di potere, bensì mediatore che risolve situazioni complicate. Un modello contro la crisi della figura maschile
di Lucetta Scaraffia (Avvenire, 28.12.2006)
Oggi, quando la figura del padre è indebolita e messa in discussione dalla procreazione artificiale, più volte si è sottolineato che il santo ricordato nel giorno della «festa del papà», Giuseppe, non è un padre naturale. L’indagine su questa figura evangelica e sulla sua storia nelle società cristiane è di grande interesse, come prova un’importante ricerca appena pubblicata in Francia (Paul Payan, Joseph. Une image de la paternité dans l’occident médiéval, Aubier), che parte dagli inizi della devozione allo sposo di Maria. Inizi non facili, se si osserva che come nome di battesimo quello di Giuseppe era pochissimo diffuso fra i cristiani sino alla fine del Quattrocento, quando appunto cominciò a decollare, grazie soprattutto alla propaganda dei francescani. Giuseppe è un personaggio difficile, se non imbarazzante: il dogma della perpetua verginità di Maria lo pone infatti, fin dai primi secoli del cristianesimo, nello spinoso ruolo dello sposo forzatamente casto, capo di una famiglia dove la moglie e il figlio sono entrambi molto superiori a lui.
Per rendere credibile questa situazione l’apocrifo Protovangelo di Giacomo lo raffigura anziano, per adombrarne l’inattività sessuale, e vedovo, per spiegare in questo modo la menzione dei «fratelli» di Gesù nei Vangeli. E l’età avanzata gli è rimasta addosso, nonostante i tentativi - il più importante fu quello di Jean Gerson - di diminuirne l’età, facendo così della castità di Giuseppe una scelta non obbligata che lo avvicina spiritualmente alla Vergine. Anzi, una delle ragioni della diffidenza dei cristiani verso lo sposo di Maria sta proprio in questa sua somiglianza con un personaggio tipico delle novelle satiriche, lo sposo anziano tradito dalla giovane moglie e costretto ad allevare un figlio non suo. Versione dileggiante del ruolo di Giuseppe riproposta anche da molte opere d’arte sacra: queste lo ritraggono come un contadino goffo, che suscita il riso per la sua inabilità di artigiano, riverber andosi sull’incapacità di mantenere dignitosamente la moglie e il figlio. E sino alla fine del medioevo egli non viene mai rappresentato da solo, e sempre un po’ separato dai personaggi più importanti, Gesù e Maria.
Soltanto dal Quattrocento, in nuove rappresentazioni della natività di Gesù, sia Maria che Giuseppe sono inginocchiati davanti al figlio, ad adorarlo nella stessa posizione. È difficile rivolgere le proprie preghiere a un uomo così umile che non sembra capace di soccorrere i fedeli come altre figure più eroiche di martiri o difensori della fede. Il culto dello sposo di Maria, padre putativo di Gesù, si sviluppa quindi solo in età moderna, quando il santo comincia a essere un modello, non solo un protettore, e non diviene davvero una devozione popolare fino all’Ottocento, quando è valorizzato anche come lavoratore in contrapposizione al socialismo dilagante. Nel 1870 Pio IX lo dichiara protettore della Chiesa universale, e nel corso del Novecento gli verranno dedicate ben due feste, il 19 marzo come patrono e modello dei padri, e il 1° maggio come artigiano, in palese contrappunto con la festa d’origine socialista. Nel cristianesimo antico Giuseppe era percepito come l’ultimo patriarca, anello di unione fra antica e nuova economia: proprio per questo è stato rappresentato spesso lontano dalla scena principale, pensoso, testimone dell’incarnazione di Cristo, ma poi anche in veste di ultimo ebreo, che come copricapo talvolta portava proprio il berretto a tre punte imposto in molte città medievali agli ebrei. Il culto di san Giuseppe, incentrato sulla sua umiltà e sul servizio a Gesù, nasce in ambiente monastico, spesso con sfumature mistiche, come in san Bernardo, che valorizza la sua intimità fisica con il figlio.
Ma sono i francescani, nell’ambito della loro complessiva valorizzazione dell’umanità di Gesù, a proporre Giuseppe come esempio da seguire. Per loro diventa positiva la povertà della sacra famiglia e del suo umile custode, e per i loro superiori non usano il termine «abate», che significa padre, ma quello di «custode», attribuito appunto a colui che doveva custodire il piccolo Gesù e sua madre. Nel promuovere la figura di Giuseppe, più successo dei francescani ebbero però i Servi di Maria, primi a festeggiarlo il 19 marzo, poco prima della festa dell’Annunciazione: il santo costituiva infatti il modello naturale del loro ordine, che ne legittimava l’identità impedendo una fusione con altri ordini mendicanti.
Ma il vero riscopritore dell’importanza teorica del padre putativo di Gesù fu Gerson, che influenzò l’ambiente universitario parigino del primo Quattrocento proponendolo come modello politico di pace e di unione. In un momento di forte crisi del papato, durante lo scisma d’Occidente, il teologo scrive che la Chiesa ha bisogno di nuovi punti di riferimento e di nuovi modelli di mediazione perché Pietro non sembra più sufficiente, e in un sermone pronunciato al concilio di Costanza propone Giuseppe come nuovo modello di guida politica, capofamiglia ma anche umile servitore di Gesù.
La proposta di Gerson non ebbe seguito immediato, ma fu ripresa nel Cinquecento dai francescani, che fecero di san Giuseppe un esempio di padre spirituale, e quindi del clero, mediatore fra Dio e gli uomini. Ma, al tempo stesso, anche modello per i padri naturali in un’epoca che, dopo la svalutazione della paternità naturale di fronte a quella spirituale, aveva il problema di ricostruire in ambito cattolico il modello paterno di fronte alla Riforma che, abolendo il clero, aveva accentuato il ruolo del padre di famiglia. In questa lunga e affascinante storia Giuseppe dunque non compare mai come figura di potere, ma piuttosto si afferma come mediatore, un pacificatore che risolve situazioni complicate. E di un padre così c’è molto bisogno anche oggi.
La «josephologie» parla francese
La «josephologie» muove grandi passi in Francia. Un nuovo vigore di studi ha indotto a fondare nel novembre 2005 presso il santuario di San Giuseppe ad Allex un «Centre Français de Recherche et de Documentation Joséphaines» (http://www.josephologie.info); lo dirige l’archeologo Christian-Michel Doublier-Villette, il quale ha appena firmato «La saga de Saint Joseph», in cui passa in rassegna le fonti (anche apocrife) relative al falegname di Nazareth e delinea il contesto culturale che ne ha influenzato l’interpretazione nei secoli. Il Centro progetta inoltre di coordinare i centri di «giuseppologia» sparsi nel mondo e la creazione sul Web di una banca dati multidisciplinare.
il caso
Il falegname piace pure a Boff e Coelho
(R.Be)
Beh, che il più prestigioso esponente della «teologia della liberazione» si occupasse del vecchio e pio san Giuseppe forse non ce l’aspettavamo... E invece Leonardo Boff, il celebre ex frate brasiliano che è stato una delle bandiere della teologia progressista, dedica il suo nuovo libro proprio a «Giuseppe di Nazaret. Uomo giusto, carpentiere» (Cittadella Editrice, pp. 240, euro 16,50), per di più con la prefazione di un «mostro sacro» - forse suo malgrado... - della New Age contemporanea: ovvero lo scrittore Paulo Coelho, il quale rivela di avere per il padre putativo di Cristo «una particolare devozione» e di immaginare volentieri che il tavolo dell’Ultima Cena sia stato costruito proprio dal falegname galileo. Da parte sua, Boff interpreta arditamente Giuseppe come una «personificazione del Padre celeste» e quale completamento - insieme a Gesù e Maria - di una «trinità terrena», attraverso la quale «la Famiglia divina si autocomunica alla famiglia umana».
CRITICARE IL PAPA, SPORT DI MODA
La caduta di Pippo Baudo polemista indecente
di Lucetta Scaraffia (Avvenire, 06.02.2007)
Ci mancava Pippo Baudo che, dall’alto di un popolarissimo programma televisivo dedicato al calcio, ha criticato Benedetto XVI per non essere subito intervenuto sui gravi fatti di Catania, ma piuttosto - è sembrato suggerire - su questioni di secondaria importanza come l’eutanasia, l’aborto o i pacs. Tutti i media, con poche eccezioni, sembrano impegnati in una critica serrata al Papa, e ogni pretesto pare buono. La violenza negli stadi sarebbe l’unica contro la quale è legittimo - anzi, doveroso - pronunciarsi, mentre tutto il resto sarebbe meglio lasciarlo ai politici. Questa era l’aria sui giornali italiani di ieri, dai quali, in misura maggiore o minore, la giornata della vita, celebrata domenica dalla Chiesa italiana e da Benedetto XVI, risulterebbe solo un’inutile ripetezione di rimproveri già fatti, un arroccamento perdente su posizioni conservatrici non condivise neppure da tutti i cattolici. Perfino i ragazzi del Movimento per la Vita - ridotti a "poche migliaia", in un implicito confronto con l’alto numero di giovani presenti in altre manifestazioni - con i loro palloncini bianchi e verdi, sembrano poveri fanatici, fuori della storia e del tempo. Del resto già due settimane fa L’espresso, mandando un suo giornalista nei confessionali - con una grave violazione della deontologia professionale prima ancora che con un affronto al sacramento della confessione, quasi da nessuno deplorato (e proviamo solo a immaginare le conseguenze di qualcosa di simile nei confronti di ebrei o musulmani) - ha cercato di dimostrare che il Papa è un generale senza esercito. Mentre abbondano critiche e accuse, non c’è nessuno che risponda veramente alle obiezioni di Benedetto XVI sulle questioni della intangibilità della vita e della famiglia. Al massimo si dice che i suoi allarmi sono inutili, le sue parole insensate. Di fronte alle sue ragioni, che sono forti e ben argomentate, si sbandiera solo una generica ideologia in cui le parole libertà e amore fanno balenare un avvenire di felicità contrapposto a un presente di oppressione. Oppure, la necessità di adeguarsi in proposito ai paesi più avanzati, senza tenere conto che là dove sono in vigore da più tempo queste leggi libertarie - come in Olanda e Gran Bretagna - giornali e osservatori di ogni tendenza denunciano il degrado sociale e morale in cui è caduta la società, ben visibile nella crisi delle nuove generazioni. Si aggiungono i sondaggi dalle domande manipolate, per convincere che ormai tutti pensano così, che bisogna mettersi in linea per non rimanere tagliati fuori. E si sorvola invece quando altre ricerche rivelano come fra le comunità immigrate quelle che riescono a sfuggire in maggior numero a prostituzione, droga e delinquenza sono quelle asiatiche, tra le quali la famiglia è ancora fortissima. Se non si sa cosa rispondere - o se la risposta vera è solo quella della necessità politica di tenere unito il governo di centrosinistra facendo concessioni a radicali e sinistra - si arriva alla lapidazione mediatica del Papa, nel tentativo di delegittimarlo e quindi di rendere le sue parole inefficaci. Tutto questo svela una grande paura di aprire un dibattito autentico su questi temi, per riflettere su cosa stiamo facendo e sulle conseguenze di provvedimenti di questo tipo nella nostra società. E stupisce che quanti hanno a cuore la libertà di espressione - cattolici di varie tendenze o laici che siano - non denuncino questa situazione, chiedendo che le parole di Benedetto XVI siano ascoltate e discusse con il rispetto e l’attenzione che si devono non solo al capo di una confessione religiosa, ma a chiunque esprima un’opinione controcorrente.
Il Papa: nella vita della Chiesa fondamentale il ruolo femminile *
«A differenza dei Dodici, le donne non abbandonarono Gesù nell’ora della Passione Maria Maddalena fu la prima testimone e annunciatrice di Cristo Risorto»Ieri Benedetto XVI ha dedicato la sua catechesi all’impegno delle donne per la diffusione del Vangelo. A partire dal cristianesimo delle origini
L’Udienza Del Mercoledì
Cari fratelli e sorelle,
oggi siamo arrivati al termine del nostro percorso tra i testimoni del cristianesimo nascente che gli scritti neo-testamentari menzionano. E usiamo l’ultima tappa di questo primo percorso per dedicare la nostra attenzione alle molte figure femminili che hanno svolto un effettivo e prezioso ruolo nella diffusione del Vangelo. La loro testimonianza non può essere dimenticata, conformemente a quanto Gesù stesso ebbe a dire della donna che gli unse il capo poco prima della Passione: «In verità vi dico, dovunque sarà predicato questo vangelo nel mondo intero, sarà detto anche ciò che costei ha fatto, in memoria di lei» (Mt 26,13; Mc 14,9). Il Signore vuole che questi testimoni del Vangelo, queste figure che hanno dato un contributo affinché crescesse la fede in Lui, siano conosciute e la loro memoria sia viva nella Chiesa. Possiamo storicamente distinguere il ruolo delle donne nel cristianesimo primitivo, durante la vita terrena di Gesù e durante le vicende della prima generazione cristiana.
Gesù certamente, lo sappiamo, scelse tra i suoi discepoli dodici uomini come padri del nuovo Israele, gli scelse perché «stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (Mc 3,14-l5). Questo fatto è evidente, ma, oltre ai Dodici, colonne della Chiesa, padri del nuovo popolo di Dio, sono scelte nel numero dei discepoli anche molte donne. Solo molto brevemente posso accennare a quelle che si trovano sul cammino di Gesù stesso, cominciando con la profetessa Anna (cfr Lc 2,36-38) fino alla Samaritana (cfr Gv 4,1-39), alla donna siro-fenicia (cfr Mc 7,24-30), all’emorroissa (cfr Mt 9,20-22) e alla peccatrice perdonata (cfr Lc 7,36-50). Non mi riferisco neppure alle protagoniste di alcune efficaci parabole, ad esempio alla massaia che fa il pane (Mt 13,33), alla donna che perde la dracma (Lc 15,8-10), alla vedova che importuna il giudice (Lc 18,1-8). Più significative per il nostro argomento sono quelle donne che hanno svolto un ruolo attivo nel quadro della m issione di Gesù. In primo luogo, il pensiero va naturalmente alla Vergine Maria, che con la sua fede e la sua opera materna collaborò in modo unico alla nostra Redenzione, tanto che Elisabetta poté proclamarla «benedetta fra le donne» (Lc 1,42), aggiungendo: «beata colei che ha creduto» (Lc 1,45). Divenuta discepola del Figlio, Maria manifestò a Cana la totale fiducia in Lui (cfr Gv 2,5) e lo seguì fin sotto la Croce, dove ricevette da Lui una missione materna per tutti i suoi discepoli di ogni tempo, rappresentati da Giovanni (cfr Gv 19,25-27).
Ci sono poi varie donne, che a diverso titolo gravitarono attorno alla figura di Gesù con funzioni di responsabilità. Ne sono esempio eloquente le donne che seguivano Gesù per assisterlo con le loro sostanze e di cui Luca ci tramanda alcuni nomi: Maria di Magdala, Giovanna, Susanna e «molte altre» (cfr Lc 8,2-3). Poi i Vangeli ci informano che le donne, a differenza dei Dodici, non abbandonarono Gesù nell’ora della Passione (cfr Mt 27,56.61; Mc 15,40). Tra di esse spicca in particolare la Maddalena, che non solo presenziò alla Passione, ma fu anche la prima testimone e annunciatrice del Risorto (cfr Gv 20,1.11-18). Proprio a Maria di Magdala San Tommaso d’Aquino riserva la singolare qualifica di «apostola degli apostoli» (apostolorum apostola), dedicandole questo bel commento: «Come una donna aveva annunciato al primo uomo parole di morte, così una donna per prima annunziò agli apostoli parole di vita» (Super Ioannem, ed. Cai, § 2519).
Anche nell’ambito della Chiesa primitiva la presenza femminile è tutt’altro che secondaria. Non insistiamo sulle quattro figlie innominate del «diacono» Filippo, residenti a Cesarea Marittima e tutte dotate, come ci dice san Luca, del «dono della profezia», cioè della facoltà di intervenire pubblicamente sotto l’azione dello Spirito Santo (cfr At 21,9). La brevità della notizia non permette deduzioni più precise. Piuttosto dobbiamo a san Paolo una più ampia documentazione sulla dignità e su l ruolo ecclesiale della donna. Egli parte dal principio fondamentale, secondo cui per i battezzati non solo «non c’è più né giudeo né greco, né schiavo, né libero», ma anche «né maschio, né femmina». Il motivo è che «tutti siamo uno solo in Cristo Gesù» (Gal 3,28), cioè tutti accomunati nella stessa dignità di fondo, benché ciascuno con funzioni specifiche (cfr 1 Cor 12,27-30). L’Apostolo ammette come cosa normale che nella comunità cristiana la donna possa «profetare» (1 Cor 11,5), cioè pronunciarsi apertamente sotto l’influsso dello Spirito, purché ciò sia per l’edificazione della comunità e fatto in modo dignitoso. Pertanto la successiva, ben nota, esortazione a che «le donne nelle assemblee tacciano» (1 Cor 14,34) va piuttosto relativizzata. Il conseguente problema, molto discusso, della relazione tra la prima parola - le donne possono profetare nell’assemblea - e l’altra - non possono parlare -, della relazione tra queste due indicazioni, apparentemente contraddittorie, lo lasciamo agli esegeti. Non è da discutere qui. Mercoledì scorso abbiamo già incontrato la figura di Prisca o Priscilla, sposa di Aquila, la quale in due casi viene sorprendentemente menzionata prima del marito (cfr At 18,18; Rm 16,3): l’una e l’altro comunque sono esplicitamente qualificati da Paolo come suoi sun-ergoús «collaboratori» (Rm 16,3).
Alcuni altri rilievi non possono essere trascurati. Occorre prendere atto, ad esempio, che la breve Lettera a Filemone in realtà è indirizzata da Paolo anche a una donna di nome «Affia» (cfr Fm 2). Traduzioni latine e siriache del testo greco aggiungono a questo nome «Affia» l’appellativo di «soror carissima» (ibid.) e si deve dire che nella comunità di Colossi ella doveva occupare un posto di rilievo; in ogni caso, è l’unica donna menzionata da Paolo tra i destinatari di una sua lettera. Altrove l’Apostolo menziona una certa «Febe», qualificata come diákonos della Chiesa di Cencre, la cittadina portuale a est di Corinto (cfr Rm 16,1-2). Benché il titolo in quel tempo non abbia ancora uno specifico valore ministeriale di tipo gerarchico, esso esprime un vero e proprio esercizio di responsabilità da parte di questa donna a favore di quella comunità cristiana. Paolo raccomanda di riceverla cordialmente e di assisterla «in qualunque cosa abbia bisogno», poi aggiunge: «essa infatti ha protetto molti, anche me stesso». Nel medesimo contesto epistolare l’apostolo con tratti di delicatezza ricorda altri nomi di donne: una certa Maria, poi Trifena, Trifosa e Perside «carissima», oltre a Giulia, delle quali scrive apertamente che «hanno faticato per voi» o «hanno faticato nel Signore» (Rm 16,6.12a.12b.15), sottolineando così il loro forte impegno ecclesiale. Nella Chiesa di Filippi poi dovevano distinguersi due donne di nome «Evodia e Sìntiche» (Fil 4,2): il richiamo che Paolo fa alla concordia vicendevole lascia intendere che le due donne svolgevano una funzione importante all’interno di quella comunità.
In buona sostanza, la storia del cristianesimo avrebbe avuto uno sviluppo ben diverso se non ci fosse stato il generoso apporto di molte donne. Per questo, come ebbe a scrivere il mio venerato e caro Predecessore Giovanni Paolo Il nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem, «la Chiesa rende grazie per tutte le donne e per ciascuna... La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del «genio» femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità: ringrazia per tutti i frutti della santità femminile» (n. 31). Come si vede, l’elogio riguarda le donne nel corso della storia della Chiesa ed è espresso a nome dell’intera comunità ecclesiale. Anche noi ci uniamo a questo apprezzamento ringraziando il Signore, perché egli conduce la sua Chiesa, generazione dopo generazione, avvalendosi indistintamente di uomini e donne, che sanno mettere a frutto la loro fede e il loro battesimo per il bene dell’intero Corpo ecclesiale, a maggior gloria di Dio.
* Avvenire, 15.02.2007.
Cantalamessa: la nostra civiltà ha bisogno di amore
Sulle donne prime testimoni del Risorto e sul loro insegnamento, ieri pomeriggio in San Pietro la riflessione del predicatore
Da Roma Mimmo Muolo (Avvenire, 07.04.2007)
Accompagnarono Gesù lungo la Via Crucis. Rimasero con lui sotto la croce e al momento della deposizione. Furono le prime testimoni della Risurrezione e anche alle donne e agli uomini di oggi hanno molto da insegnare. «Avevano seguito le ragioni del cuore e queste non le avevano ingannate», sintetizza padre Raniero Cantalamessa, in riferimento alle pie donne di cui parlano i Vangeli. «In ciò - aggiunge il predicatore della Casa Pontificia - la loro presenza accanto al Crocifisso e al Risorto contiene un insegnamento vitale per noi oggi. La nostra civiltà, dominata dalla tecnica, ha bisogno di un cuore perché l’uomo possa sopravvivere in essa, senza disumanizzarsi del tutto. Dobbiamo dare più spazio alle "ragioni del cuore", se vogliamo evitare che, mentre si surriscalda fisicamente, il nostro pianeta ripiombi spiritualmente in un’era glaciale».
Il frate cappuccino pronuncia la sua omelia nella Basilica Vaticana, durante il rito della Passione del Venerdì Santo e si sofferma in particolare su questo gruppo di discepole del Signore - le uniche a non averlo mai abbandonato anche quando tutti gli uomini erano scomparsi. Le loro eredi, dice, «sono le tante donne, religiose e laiche, che stanno oggi a fianco dei poveri, dei malati di Aids, dei carcerati, dei reietti d’ogni specie della società».
Ma l’esegesi del testo biblico offre a padre Cantalamessa l’occasione per attualizzare la pagina evangelica, anche con riferimenti a opere letterarie e persino con la citazione di Centochiodi, l’ultima pellicola di Ermanno Olmi. «Tutti i libri del mondo non valgono una carezza», dice a un certo punto il protagonista del film. E il predicatore della Casa Pontificia (sempre attento alla cultura contemporanea - in un’altra omelia del venerdì santo aveva citato anche una nota canzone di John Lennon, Imagine) la prende a prestito per ribadire che oggi «al potenziamento dell’intelligenza e delle possibilità conoscitive dell’uomo, non va di pari passo, purtroppo, il potenziamento della sua capacità d’amore». La conoscenza, infatti, «si traduce automaticamente in potere, l’amore in servizio». Così padre Raniero si chiede come mai ci sforziamo di misurare il quoziente d’intelligenza - «una delle moderne idolatrie è appunto l’idolatria dell’"Iq" - e nessuno «si preoccupa di tener conto anche del "quoziente di cuore". Eppure solo l’amore redime e salva mentre la scienza e la sete di conoscenza, da sole, possono portare alla dannazione».
Di qui la sua proposta. «Dopo tante ere che hanno preso il nome dall’uomo - homo erectus, homo faber, fino all’homo sapiens-sapiens, cioè sapientissimo, di oggi -, c’è da augurarsi che si apra finalmente, per l’umanità, un’era della donna: un’era del cuore, della compassione, e questa terra cessi finalmente di essere "l’aiola che ci fa tanti feroci" (Dante)».
Da ogni parte emerge, dunque «l’esigenza di fare più spazio alla donna». «Noi non crediamo che "l’eterno femminino ci salverà" (citazione dal Faust di Goethe, ma è evidente anche l’implicito riferimento a Dan Brown, ndr). L’esperienza quotidiana dimostra che la donna può "sollevarci in alto", ma può anche farci precipitare in basso. Anch’essa ha bisogno di essere salvata da Cristo. Ma è certo che, una volta redenta da lui e "liberata", sul piano umano, da antiche soggezioni, essa può contribuire a salvare la nostra società da alcuni mali inveterati che la minacciano: violenza, volontà di potenza, aridità spirituale, disprezzo della vita».
Bisogna solo evitare «di ripetere l’antico errore gnostico secondo cui la donna, per salvarsi, deve cessare di essere donna e trasformarsi in uomo. Per affermare la loro dignità, le donne hanno creduto necessario a volte assumere atteggiamenti maschili, oppure minimizzare la differenza dei sessi, riducendola a un prodotto della cultura». Per non incorrere in questo rischio padre Cantalamessa invita a imitare le pie donne. Anche e soprattutto nella loro capacità di andare ad annunciare che il Signore è risorto
Se l’antropologo inciampa sul Papa
di LUCETTA SCARAFFIA (Avvenire, 21.02.2008)
L’ antropologo Francesco Remotti, in un volume che esce oggi in libreria per i tipi di Laterza dal titolo Contro natura, ha scritto uno studio che vuole essere una pacata ma circostanziata ’lettera al Papa’ e si domanda quali siano «le idee che un Papa esprime in campo antropologico». Ascoltando le sue parole, infatti, ha il sospetto che questo tipo di sapere - che lo studioso insegna e diffonde, e cioè l’antropologia culturale - rappresenti agli occhi di Benedetto XVI «una prospettiva che occorre combattere e possibilmente debellare». I nodi del contendere stanno nell’appoggio che il Papa dà alla famiglia occidentale, considerata come unica e naturale forma di famiglia da difendere e da sostenere; come anche nella accusa di relativismo rivolta a chi sostiene che ci sono tanti tipi di famiglie, e che quindi quella affermatasi nella storia dell’Europa costituisca solo una particolare forma storica che ha assunto la società occidentale.
Naturalmente, come antropologo Remotti elenca e illustra tanti tipi di famiglie diverse - che si possono ordinare in due assi di parentalità, quello coniugale e quello consanguineo (il nostro risulterebbe un misto dei due) e all’interno di questi tipi non rintraccia un nucleo primario costitutivo, come la coppia coniugale o il rapporto tra madre e figli. Gli antropologi, nelle loro ricerche sul campo, si sono imbattuti infatti in bambini allevati dalle nonne, bambini allevati dal fratello della madre che non sapranno mai chi è il loro padre, per non parlare dei matrimoni poligamici: è impossibile quindi, secondo l’antropologo, individuare un nucleo comune nei diversi tipi di famiglia, ma piuttosto si possono rinvenire delle somiglianze che fanno capire come si tratti di forme che hanno qualcosa in comune. Si tratterebbe perciò di una rete di rapporti che appartengono a un insieme comune, che si può allargare e trasformare. Nei capitoli del libro dedicati agli aspetti religiosi, invece, egli mette in dubbio che nella tradizione cristiana ci sia mai stata - a cominciare dai Vangeli - una vera attenzione verso la famiglia. Non solo Gesù invita spesso ad abbandonarla per seguirlo, ma la storia della Chiesa può essere letta come una sovrapposizione di una rete di legami spirituali una famiglia ’superiore’, dunque - su quelli naturali. Non solo manca, secondo Remotti, nella tradizione cristiana un vero sostegno alla famiglia umana, ma addirittura essa sarebbe permeata di principi e modelli ’contronaturali’, come ad esempio il celibato dei preti o la verginità della Madonna. Tutto questo - chiede l’antropologo - non è forse in contraddizione con il continuo ricorrere, nei discorsi del Papa, di appelli alla famiglia naturale?
Stupisce un po’ che Remotti sembri ignorare che il Papa, quando parla di antropologia, non intende certo l’antropologia culturale, ma il significato primo del termine, cioè il discorso sull’essere umano. L’argomentare sulla famiglia di Benedetto XVI si fonda non su studi etnologici, ma su una concezione particolare di essere umano, che è quella cristiana: il Papa sa benissimo che quella che difende è una famiglia particolare, quella emersa dal cristianesimo, che considera la migliore per l’essere umano. Criticare il relativismo non significa infatti negare che siano esistite e persistano nel mondo e nella storia esistano tante forme di famiglia - e quindi negare una realtà incontestabile ma solo non attribuire a tutte le forme lo stesso valore.
Contrastare il relativismo equivale ad affermare che esiste una forma ’naturale’ di famiglia, quella nata in Occidente e consolidatasi con il cristianesimo, famiglia che del resto ha dato ottima prova di sé per secoli garantendo una società coesa ma mobile, capace di educare i giovani e far loro esprimere il meglio di sé. È su questi piani infatti che si giudica il valore di una famiglia, che comunque, in tutte le culture, è una struttura sociale creata per garantire l’allevamento, la crescita e l’educazione dei figli.
La naturalità della famiglia occidentale consiste nel rappresentare in forma sociale i rapporti naturali che permettono la nascita di un essere umano, che nasce dall’incontro fra una donna e un uomo, anche se questo avviene in provetta. E senza dubbio la famiglia monogamica è quella che corrisponde a questa realtà, non culturale ma naturale.
E per quanto riguarda gli esempi di ’innaturalità’ di cui è ricca la tradizione cristiana, risponde lo stesso Remotti, ricordando come essa sia aperta alla nozione di mistero, a cui queste realtà appartengono.
Viene da pensare, alla fine della lettura, al titolo di Shakespeare ’tanto rumore per nulla’: tanto affannarsi a trovare prove ’scientifiche’ per smentire il Papa, quando il discorso è un altro, perché l’antropologia a cui si riferisce non è la stessa. Il Papa, pur essendo stato un professore, in questo caso non parla certo con il linguaggio di Claude Lévi-Strauss. Perchè ignorare il concetto e la forma di famiglia come si sono venuti configurando nella storia dell’Occidente?
intervista
Possenti: il ’mero fatto’ può diventare fondamentalismo
di ANDREA GALLI (Avvenire, 21.02.2008)
« Pluralismo e relativismo, di per sé non sono la stessa cosa. Pluralismo diventa relativismo quando si ritiene che ogni elemento della pluralità valga come qualunque altro, quando ad esempio ogni modello di famiglia è considerato di pari valore». Vittorio Possenti, docente di filosofia politica all’Università di Venezia - dove dirige il Centro interdipartimentale di ricerca sui diritti umani - con più di 20 volumi alle spalle su politica, metafisica ed etica, fa questa premessa nel commentare a caldo la ’lettera aperta’ di Francesco Remotti a Benedetto XVI. Dove i cosiddetti «antirelativisti » vengono più meno esplicitamente accusati di soffocare la libertà umana e la varietà del reale.
Il discorso di Remotti si presenta come ’provato’ da una lunga serie di dati ’scientifici’.
«L’antropologia culturale è una disciplina basata su ricerche empiriche e comparative, che vanno però interpretate ed è qui che il concetto di natura umana e di sviluppo dell’uomo diventa indispensabile. Senza questo concetto si corre il rischio di un fondamentalismo del mero fatto. È possibile che questo equivoco sia presente come tentazione di numerosi espressioni dell’antropologia culturale. In merito è essenziale che si mediti sulla natura umana, sottolineando l’aggettivo: non si parla della natura come cosmo, ma della natura dell’essere umano. I concetti di ’secondo natura’ e di ’contro natura’ si rendono sempre in rapporto alla nozione di natura umana, e significano che esistono azioni e inclinazioni che vanno nel senso della custodia e della promozione del- l’umano e altre che vanno contro questo».
Ma chi critica un approccio relativistico, propone automaticamente un ’fissismo’ etico?
«Secondo una lunga tradizione, la natura umana è fissata nelle sue inclinazioni essenziali - tra cui spiccano quella a vivere in società, a conoscere la verità, a persistere nell’esistenza, all’unione fra l’uomo e la donna per la generazione ed educazione della prole - ma è altresì aperta nel suo sviluppo. Viene con ciò delineato un ideale di perfezione umana, non solo a livello etico, che si distingue da preferenze, desideri, bisogni, e che apre il cammino a pratiche sociali multiple ma non di pari valore, in quanto alcune conducono verso l’eccellenza, altre no».
Ciò vale anche per la famiglia?
«Certo, non possiamo accontentarci di porre uno accanto all’altro i modelli di convivenza, o i differenti costumi, se non li rapportiamo ad un’intuizione sullo sviluppo dell’essere umano. Occorre anche un delicato sondaggio della coscienza morale umana e del suo evolversi , mantenersi e precisarsi nel tempo».
Un parere da saggista: cosa ne pensa di questo vezzo di indirizzare lettere aperte a chicchessia, in particolare al Papa?
«Nel caso del Pontefice l’espediente verosimilmente aiuterà la diffusione del volume, ma andrebbe verificata meglio la conoscenza della tradizione teologica e filosofica sulla natura umana, il diritto naturale e il relativismo etico, che si esprime nelle posizioni di Joseph Ratzinger. Non basta incrociare più o meno frettolosamente alcune sue frasi con alcuni risultati dell’antropologia culturale per sentirsi arrivati in porto».