IL PAPA: SOLO FRA UOMO E DONNA UN DONARSI CHE CREA FUTURO
di Mimmo Muolo: Benedetto XVI (Avvenire, 12.05.2006, p. 6)*
In onore di Carlo A. Ciampi e di Giorgio Napolitano
L’ “amore debole” della Chiesa cattolica e la Costituzione dei nostri Padri e delle nostre Madri.
Uomo e Donna - ‘Adamo’ ed ‘Eva’... ‘Maria’ e ‘Giuseppe’. “Il papa: solo fra uomo e donna un donarsi che crea futuro” (così il titolo dell’art. di Mimmo Muolo, con il discorso di Benedetto XVI, sull’Avvenire dell’11.05.2006). Ora, se è vero, come è vero, che “la differenza sessuale che connota il corpo dell’uomo e della donna non è [...] un semplice dato biologico, ma riveste un significato ben più profondo: esprime quella forma dell’amore con cui l’uomo e la donna, diventando una sola carne, possono realizzare un’autentica comunione di persone aperta alla trasmissione della vita e cooperano così con Dio alla generazione di nuovi esseri umani”, è altrettanto vero, come è vero, che - se si vuole pensare bene la loro “differenza” - bisogna pensare bene la loro “identità”.
Il problema è proprio questo! Tutto il paganesimo difendeva la natura - ma in modo cieco e zoppo (Edipo: la lezione di Freud) e ... alla fine biologicamente razzista e nazista. La questione, sì, non è assolutamente e riduttivamente biologica, ma ontologica e culturale - e, ben impostata, mostra che tra natura e cultura c’è un rapporto circolare chiasmatico aperto, non chiuso e non oppositivo e di negazione! Ora, se è così, una mezza verità ... è solo e sempre una mezza falsità!
Il messaggio ebraico-cristiano, infatti, riposa - al contrario - tutto sullo e nell’ Amore di D(ue)IO - due esseri naturali, che proprio per essere capaci di riconoscere le loro differenze e di trascenderle amorosamente... rinascono a se stessi come figli dell’ Amore di D(ue)IO, figli e figlie dello stesso “Dio” - il “Padre nostro”, come due persone (sul tema, rileggere l’art. 3 della nostra Costituzione)!
L’Arca dell’Alleanza, con i suoi “due Cherubini”, indica questo e non altro! Teniamone conto, se vogliamo ritrovare o non perdere la bussola - per l’oggi .... per l’ieri, e per il domani!!! (12.05.2006).
Federico La Sala
Da Roma. Il matrimonio monogamico tra l’uomo e la donna è «un autentico bene per la società». Non bisogna dunque confonderlo «con altri tipi di unioni basate su un amore debole». Anche perché «la differenza sessuale che connota il corpo dell’uomo e della donna non è un semplice dato biologico».
Benedetto XVI ha ribadito così, ieri mattina, l’esclusiva centralità della famiglia nell’ambito della compagine sociale. «Solo la roccia dell’amore totale e irrevocabile tra uomo e donna è capace di fondare la costruzione di una società che diventi una casa per tutti gli uomini», ha detto nel discorso ai partecipanti al convegno sui 25 anni del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» per gli studi su matrimonio e famiglia, che Avvenire pubblica in questa pagina.
I convegnisti, molti dei quali accompagnati da coniugi e figli, dopo aver partecipato alla prima sessione del convegno svoltasi all’Università Urbaniana, si sono recati a fine mattinata nel Palazzo Apostolico in Vaticano, dove, nell’Aula della Benedizione ha avuto luogo l’udienza papale. E qui hanno ascoltato le parole del Papa, che ha messo a fuoco, 25 anni dopo la fondazione dell’Istituto, la speciale eredità del magistero di Papa Wojtyla sulla famiglia. Tema, ha sottolineato Benedetto XVI, che «costituì uno dei centri portanti della sua missione e delle sue riflessioni».
Il Papa, dopo il saluto rivoltogli dal preside dell’Istituto, monsignor Livio Melina, ha messo in particolare rilievo la straordinaria coincidenza relativa alla data della sua fondazione. «Proprio il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro - ha ricordato infatti - il mio amato predecessore subì il noto grave attentato durante l’udienza in cui avrebbe dovuto annunciare la creazione del vostro Istituto». Per questo il Pontefice ha incoraggiato a proseguire il lavoro, approfondendo gli studi sull’amore umano.
Oggi l’Istituto, oltre alla sede centrale di Roma (presso l’Università Lateranense), è presente in tutti i continenti: altre sezioni sono state aperte negli Stati Uniti, in Spagna, Messico, Brasile, Benin e India. Alcune collaborazioni sono attive in Australia ed Austria. Tra i corsi, frequentati da sacerdoti, religiosi e laici, anche un master in bioetica.
Nell’Aula della Benedizione del Palazzo Apostolico Vaticano, al termine della mattinata di ieri, Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i partecipanti al Congresso internazionale promosso dal Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia» della Pontificia Università Lateranense sul tema «L’eredità di Giovanni Paolo II sul matrimonio e la famiglia: amare l’amore umano». Ecco il testo integrale del discorso del Papa.
Signori cardinali, venerati fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, cari fratelli e sorelle! Con grande gioia mi incontro con voi in questo 25° anniversario dalla fondazione, presso la Pontificia Università Lateranense, del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia. Vi saluto tutti con affetto e ringrazio di cuore monsignor Livio Melina per le gentili parole che mi ha rivolto a nome di tutti voi.
Gli inizi del vostro Istituto si collegano con un evento molto speciale: proprio il 13 maggio 1981 in Piazza San Pietro, il mio amato predecessore Giovanni Paolo II subì il noto grave attentato durante l’udienza in cui avrebbe dovuto annunciare la creazione del vostro Istituto. Questo fatto riveste un rilievo speciale nella presente commemorazione, che celebriamo a poco più di un anno dalla sua morte. Lo avete voluto evidenziare mediante l’opportuna iniziativa di un congresso su «L’eredità di Giovanni Paolo II sul matrimonio e la famiglia: amare l’amore umano».
Giustamente voi sentite vostra questa eredità a titolo del tutto speciale, poiché siete i destinatari e i continuatori della visione che costituì uno dei centri portanti della sua missione e delle sue riflessioni: il piano di Dio sul matrimonio e la famiglia. Si tratta di un lascito, che non è semplicemente un insi eme di dottrine o di idee, ma prima di tutto un insegnamento dotato di una luminosa unità sul senso dell’amore umano e della vita. La presenza di numerose famiglie a questa udienza è una testimonianza particolarmente eloquente di come l’insegnamento di tale verità sia stato accolto ed abbia dato i suoi frutti.
L’idea di «insegnare ad amare» accompagnò già il giovane sacerdote Karol Wojtyla e successivamente lo entusiasmò, quando, giovane vescovo, affrontò i difficili momenti che fecero seguito alla pubblicazione della profetica e sempre attuale enciclica del mio predecessore Paolo VI, la Humanae vitae. Fu in quella circostanza che egli comprese la necessità di intraprendere uno studio sistematico di questa tematica. Ciò costituì il sostrato di quell’insegnamento che fu poi offerto a tutta la Chiesa nelle sue Catechesi sull’amore umano. Venivano così messi in rilievo due elementi fondamentali che in questi anni avete cercato di approfondire e che configurano la novità stessa del vostro Istituto quale realtà accademica con una missione specifica all’interno della Chiesa.
Il primo elemento è che il matrimonio e la famiglia sono radicati nel nucleo più intimo della verità sull’uomo e sul suo destino. La Sacra Scrittura rivela che la vocazione all’amore fa parte di quell’autentica immagine di Dio che il Creatore ha voluto imprimere nella sua creatura, chiamandola a diventargli simile proprio nella misura in cui è aperta all’amore. La differenza sessuale che connota il corpo dell’uomo e della donna non è dunque un semplice dato biologico, ma riveste un significato ben più profondo: esprime quella forma dell’amore con cui l’uomo e la donna, diventando una sola carne, possono realizzare un’autentica comunione di persone aperta alla trasmissione della vita e cooperano così con Dio alla generazione di nuovi esseri umani. Un secondo elemento caratterizza la novità dell’insegnamento di Giovanni Paolo II sull’amore umano: il suo modo originale di leggere il piano di Dio proprio nella confluenza della rivelazione con l’esperienza umana. In Cristo infatti, pienezza della rivelazione d’amore del Padre, si manifesta anche la verità piena della vocazione all’amore dell’uomo, che può ritrovarsi compiutamente soltanto nel dono sincero di sé.
Nella mia recente enciclica ho inteso sottolineare come proprio mediante l’amore si illumini «l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino» (Deus caritas est, 1). In altre parole Dio si è servito della via dell’amore per rivelare il mistero della sua vita trinitaria. Inoltre, il rapporto stretto che esiste tra l’immagine di Dio Amore e l’amore umano ci permette di capire che «all’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano» (ibid., 11). Questa indicazione resta ancora in gran parte da esplorare. Ecco allora stagliarsi il compito che l’Istituto per Studi su Matrimonio e Famiglia ha nell’insieme delle strutture accademiche: illuminare la verità dell’amore come cammino di pienezza in ogni forma di esistenza umana. La grande sfida della nuova evangelizzazione, che Giovanni Paolo II ha proposto con tanto slancio, ha bisogno di essere sostenuta con una riflessione veramente approfondita sull’amore umano, in quanto è proprio questo amore una via privilegiata che Dio ha scelto per rivelarsi all’uomo ed è in questo amore che lo chiama a una comunione nella vita trinitaria. Quest’impostazione ci permette anche di superare una concezione privatistica dell’amore, oggi tanto diffusa. L’autentico amore si trasforma in una luce che guida tutta la vita verso la sua pienezza, generando una società abitabile per l’uomo. La comunione di vita e di amore che è il matrimonio si configura così come un autentico bene per la società. Evitare la confusione con altri tipi di unio ni basate su un amore debole si presenta oggi con una speciale urgenza. Solo la roccia dell’amore totale e irrevocabile tra uomo e donna è capace di fondare la costruzione di una società che diventi una casa per tutti gli uomini.
L’importanza che il lavoro dell’Istituto riveste nella missione della Chiesa spiega la sua configurazione propria: infatti, Giovanni Paolo II aveva approvato un solo Istituto in differenti sedi ripartite nei cinque continenti, col fine di poter offrire una riflessione che mostri la ricchezza dell’unica verità nella pluralità delle culture. Tale unità di visione nella ricerca e nell’insegnamento, pur nella diversità dei luoghi e delle sensibilità, rappresenta un valore che dovete custodire, sviluppando le ricchezze radicate in ciascuna cultura. Questa caratteristica dell’Istituto si è rivelata particolarmente adeguata allo studio di una realtà come quella del matrimonio e della famiglia. Il vostro lavoro può manifestare in che modo il dono della creazione vissuto nelle differenti culture sia stato elevato a grazia di redenzione da Cristo.
Per poter realizzare bene la vostra missione come fedeli eredi del fondatore dell’Istituto, l’amato Giovanni Paolo II, vi invito a guardare a Maria Santissima, la Madre del Bell’Amore. L’amore redentore del Verbo incarnato deve convertirsi per ciascun matrimonio e in ciascuna famiglia in una «sorgente di acqua viva in mezzo a un mondo assetato» (Deus caritas est, 42). A tutti voi, carissimi docenti, studenti di oggi e di ieri, personale addetto, come anche alle famiglie che fanno capo al vostro Istituto, va il mio augurio più cordiale, che accompagno con una speciale benedizione.
Sul tema, nel sito, cfr.:
FLS
CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" ("charitas") su cui posava l’intera Costruzione... e anche la maschera
IL PAPATO DI BENEDETTO XVI: SETTE ANNI DI OFFESE ALLA CHIESA E ALL’ITALIA. Una nota su un incontro del 2005 e sugli eventi successivi, fino ad oggi
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
A PARTIRE DAL PRESENTE .... UNA CHIAVE PER CAPIRE LA CONFUSIONE IDEOLOGICA E SPIRITUALE (OLTRE CHE LA DERIVA NAZISTOIDE) DELLA "FAMIGLIA" VATICANA. Avendo buttato a mare tutta la tradizione critica e cristiana, i "cattolici" confondono (livello "storico" e livello "logico" e - in piena notte "edipica" - vogliono riportare direttamente l’ intera famiglia umana ... alla preistoria!!! (fls)
Se la famiglia risale alla preistoria
di Fiorenzo Facchini (Avvenire. 17.03.2007)
Nel dibattito in corso sulla famiglia si registrano proposte di legge relative a nuove forme di aggregato o surrogato familiare. C’è chi ha scritto che la famiglia sarebbe una invenzione del cristianesimo. C’è perfino chi ritiene superata la finalità procreativa della coppia prospettando la possibilità di separare procreazione e sessualità mediante le biotecnologie. Sono posizioni tipicamente ideologiche in cui si dimenticano le esigenze squisitamente antropologiche che fondano la famiglia e sono alla base dello sviluppo e del successo della specie umana.
Frugando nelle pieghe del passato si può cercare se e quale possa essere stato il ruolo della famiglia presso i nostri antenati, soprattutto quale famiglia potessero avere. Non mancano documenti su sepolture di madre e bambino, come attesta la più antica sepoltura, datata a 90.000 anni fa e trovata a Qafzè (Israele). Assai interessante la sepoltura (familiare?) di Sungir (Russia, 28.000 anni fa) con un anziano, una donna e due ragazzi. Il tema della sessualità e della coppia emerge con grande evidenza nelle incisioni rupestri della Val Camonica, e si ritrova anche nei petroglifi dell’Asia centrale.
Ma quale poteva essere il modello familiare nelle prime forme umane? Vari argomenti suggeriscono un’organizzazione basata su un nucleo familiare stabile, imperniato sulla coppia.
Lo richiedeva la stessa condizione umana. La prole, generata in uno stato di immaturità, comporta un periodo molto più lungo di crescita, documentato anche dagli studi sulla crescita dei denti in reperti preistorici, rispetto ai primati non umani e fonda duraturi rapporti parentali e di coppia. Il periodo di dipendenza dai genitori assume un significato educativo e consente l’apprendimento per quei comportamenti tipicamente bioculturali, come il bipedismo, il linguaggio e l’uso delle mani nella tecnologia. Viene ammessa una diversificazione di compiti per l’uomo e la donna, il primo impegnato per la caccia, la seconda per la cura della prole, ma anche nella raccolta di cibo nelle vicinanze della base familiare.
Tutto ciò porta a escludere la promiscuità o modelli simili a quelli dei Primati attuali. Isaac sostiene l’ipotesi di una sussistenza duale reciproca richiesta dalla strategie di caccia e raccolta. Lovejoy, che ha studiato il comportamento sociale degli Ominidi, pone l’accento su relazioni stabili tra individui dei due sessi. Secondo questo autore il comportamento riproduttivo legato a in gruppo bifocale, cioè a una coppia monogama, doveva costituire la forma nucleare primitiva di aggregato familiare che sostituì il modello matrifocale degli scimpanzè.
Anche secondo Quiatt e Kelso con l’ominizzazione si ha un passaggio a un’economia duale reciproca a carattere stabile, con legami intrafamiliari non soltanto per l’allevamento della prole, ma anche per possibili ruoli secondari all’interno della famiglia (nonni, zii) in ordine all’acquisizione e trasmissione di aspetti culturali.
L’aggregato familiare consente una intensa prolungata cooperazione parentale, specialmente nell’allevamento della prole. Reali esigenze di carattere biologico ed educativo fondano la famiglia, primo ambito della inculturazione, facendole assumere anche sul piano adattativo un ruolo fondamentale per il successo per la specie umana.
Parla l’archeologo Emmanuel Anati: «Fin dalle incisioni più antiche uomo e donna sono ritratti insieme, in un vincolo sacro»
Il matrimonio? Viene dalle caverne
«Esistono miriadi di esempi, dall’arte rupestre agli Etruschi. Pochissimi i popoli che non si fondarono sul matrimonio»«Antropologicamente,maschio e femmina ebbero bisogno di isolarsi con i loro figli anche per esigenze di sopravvivenza»
di Lucia Bellaspiga (Avvenire, 15.03.2006)
Mancavano tremila anni alla nascita di Cristo il giorno in cui, accucciato sulla roccia, un antico Camuno con la punta dello scalpello incideva la scena che ancora oggi ci appare lampante, come appena fatta: un uomo e una donna in coppia, e accanto i loro due bambini, un maschio e una femmina. In una parola: una famiglia. L’arte preistorica, si sa, ricorre molto spesso al simbolismo: «E infatti simbolica è la linea che unisce i piedi di marito e moglie, come un giogo. Non scordiamo che è questo il significato di "con-iugi": uniti dal giogo, legati stabilmente». Emmanuel Anati, il noto archeologo esperto dell’arte rupestre di tutto il mondo, fondatore in Val Camonica del Centro camuno di Studi preistorici, e Umberto Sansoni, vicedirettore del Centro, oppongono i fatti a chi oggi vorrebbe "posticipare" la coppia unita in matrimonio e la sua estensione, la famiglia, come fosse un’«invenzione» post-cristiana.
Professor Anati, lasciamo allora che a rispondere sia l’archelogia.
«Non c’è civiltà antica che non abbia avuto la sua concezione ben netta di unione matrimoniale e di nucleo familiare. Gli esempi sarebbero migliaia. A dire il vero basterebbe leggere il Vecchio Testamento, dove la solidità dell’istituzione familiare è chiarissima. Ma possiamo andare anche molto più indietro, grazie all’archeologia, per capire che ben prima del cristianesimo il matrimonio come unione stabile e sancita era una realtà consolidata. Cosa che d’altra parte si desume senza dubbio anche studiando gli usi dei popoli attualmente fermi al Paleolitico».
Uomini del Duemila che nulla sanno della nostra mentalità e vivono di tradizioni proprie. Un esempio?
«In Australia ci sono molte pitture su corteccia d’albero o su roccia interessanti: rappresentano gli spiriti ancestrali e li raffigurano sempre in coppia, uno maschile e uno femminile. Per questi aborigeni animisti, che vivono al livello paleolitico, tutte le realtà della vita terrena hanno nel mondo soprannaturale - quasi un mondo "delle idee" - un’immagine riflessa superiore. Anche le realtà sociali dei viventi come la famiglia hanno una loro matrice divina nella creazione dell’universo. Sono sposi gli uomini e le donne perché sono sposi già gli spiriti ancestrali».
Una sacralità del rito, dunque, non solo un’unione sancita. Ma quanto indietro possiamo risalire per incontrare un "contratto" matrimoniale?
«La scoperta è rivoluzionaria e di recente interpretazione: in Dordogna, in Francia sud-occidentale, c’è un complesso di diciannove blocchi di pietra incisi, risalenti a trentamila anni fa. I simboli femminili sono ognuno associato ad animali totemici che indicano l’appartenenza del maschio cui unirsi. Si tratta secondo le ultime interpretazioni del più antico regolamento familiare, vero e proprio contratto di unione stabile. Nessuna invenzione modernista, come vede... Ma potremmo citare miriadi di altri esempi, dall’arte rupestre della Siberia agli Inuit eschimesi del nord canadese, passando per gli Etruschi o tutte le popolazioni di origine indoeuropea... Sarebbe più facile contare semmai quali sono le popolazioni che non hanno avuto alla loro base, come fondamento assoluto e insostituibile, il matrimonio e la famiglia. Pensiamo al bellissimo e famosissimo "sarcofago degli sposi" etrusco, dove il defunto è legato per l’eternità alla moglie, in un’unione che trascende anche la vita. O alle lapidi funerarie romane anche anteriori a Cristo, in cui sono enumerati costantemente il pater familias, la consorte e tutti i figli: una famiglia granitica e inscindibile anche dopo la morte».
Lei da molti anni conduce spedizioni archeologiche nel Sinai. Ci sono testimonianze anche lì?
«Ad Har Karkom abbiamo ritrovato le tracce di gruppi di abitazioni appartenenti a epoche diverse, nel deserto: fino al Paleolitico medio (duecentomila-cinquantamila anni fa) i villaggi hanno ancora la struttura del clan, ma col Paleolitico superiore, quarantamila anni fa, tutto cambia, le case sono disposte in circolo e ogn una è piccola, suddivisa in modo chiaramente adatto ad accogliere un solo nucleo: è nata la famiglia».
Per quali esigenze, dal punto di vista della paletnologia, un uomo e una donna sentirono il bisogno di "isolarsi" assieme ai loro figli, pur rimanendo nel gruppo?
«Per un senso di sopravvivenza: la donna doveva essere protetta e aveva bisogno che il suo uomo, stabilmente, in rapporto fiduciario, procurasse il cibo mentre era gravida e allattava. Il passaggio successivo è la gratificazione, il senso d’appartenenza, lo star bene insieme senza sentire il bisogno di altre relazioni».
Se l’unione coniugale e la famiglia si perdono nella notte dei tempi, c’è qualcosa che invece è davvero solo dei nostri tempi?
«Non esiste in nessuna epoca e in nessuna civiltà passata il concetto di "matrimonio civile": i più diversi rituali per unirsi, dalla preistoria ad oggi, erano sempre stati religiosi. Sarebbe stato inconcepibile il contrario. Il matrimonio è nato come sacralizzazione dell’unione tra due persone. Rigorosamente di sesso diverso».
Ma altre forme esistevano?
«Potevano esistere, a seconda delle epoche, ma non erano mai considerate famiglia, né erano regolamentate da alcuna formula».
Se dovesse indicare l’immagine più "attuale" venuta dal passato?
«Una coppia che cammina tenendosi per mano, dipinta sulle rocce dell’Akakus libico, del VI millennio. Ma la più sorprendente viene dalla Svezia ed è di fine II millennio avanti Cristo. La coppia è ripresa mentre si bacia nel congiungimento, e il dio Thor regge un’ascia sopra le loro teste: nella ritualità vichinga l’ascia di Thor benedice l’unione. Matrimonio e consumazione sono rappresentati contemporaneamente, fusi nella sacralità dell’atto».
DONO E IMPEGNO
l’omelia Nella festa liturgica della Madre di Dio lo sguardo del Pontefice ai Paesi feriti è partito dai luoghi in cui nacque e visse Gesù «Imploriamo con insistente preghiera che anche in quella regione giunga quanto prima il giorno della pace, il giorno in cui si risolverà il conflitto da troppo tempo in atto»
«In Terra Santa sia rispettata la dignità di tutti»
L’invito rivolto agli ambasciatori presenti e ai fedeli durante la Messa nella Basilica Vaticana: «Iniziamo un anno nuovo, che riceviamo dalle mani di Dio come un talento prezioso da far fruttare»«Se gli elementi costitutivi della persona vengono affidati alle mutevoli opinioni umane, anche i suoi diritti, pur proclamati in maniera solenne, finiscono per diventare deboli e variamente interpretabili»
Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia tenuta ieri da Benedetto XVI durante la Messa in San Pietro nella solennità della Madre di Dio che per la Chiesa è la Giornata mondiale della pace. (Avvenire, 02.01.2007)
Cari fratelli e sorelle!
L’odierna liturgia contempla, come in un mosaico, diversi fatti e realtà messianiche, ma l’attenzione si concentra particolarmente su Maria, Madre di Dio. Otto giorni dopo la nascita di Gesù, ricordiamo la Madre, la Theotókos, colei che «ha dato alla luce il Re che governa il cielo e la terra per i secoli in eterno» (Antifona d’ingresso; cfr Sedulio). La liturgia medita oggi sul Verbo fatto uomo, e ripete che è nato dalla Vergine. Riflette sulla circoncisione di Gesù come rito di aggregazione alla comunità, e contempla Dio che ha dato il suo Unigenito Figlio come capo del «nuovo popolo» per mezzo di Maria. Ricorda il nome dato al Messia, e lo ascolta pronunciato con tenera dolcezza da sua Madre. Invoca per il mondo la pace, la pace di Cristo, e lo fa attraverso Maria, mediatrice e cooperatrice di Cristo (cfr Lumen gentium, 60-61).
Iniziamo un nuovo anno solare, che è un ulteriore periodo di tempo offertoci dalla Provvidenza divina nel contesto della salvezza inaugurata da Cristo. Ma il Verbo eterno non è entrato nel tempo proprio per mezzo di Maria? Lo ricorda nella seconda Lettura, che abbiamo poco fa ascoltato, l’apostolo Paolo, affermando che Gesù è nato «da una donna» (cfr Gal 4,4). Nella liturgia di oggi grandeggia la figura di Maria, vera Madre di Gesù, Uomo-Dio. L’odierna solennità non celebra pertanto un’idea astratta, bensì un mistero ed un evento storico: Gesù Cristo, persona divina, è nato da Maria Vergine, la quale è, nel senso più vero, sua madre.
Oltre alla maternità oggi viene messa in evidenza anche la verginità di Maria. Si tratta di due prerogative che vengono sempre proclamate insieme ed in maniera indissociabile, perché si integrano e si qualificano vicendevolmente. Maria è madre, ma madre vergine; Maria è vergine, ma v ergine madre. Se si tralascia l’uno o l’altro aspetto non si comprende appieno il mistero di Maria, come i Vangeli ce lo presentano. Madre di Cristo, Maria è anche Madre della Chiesa, come il mio venerato predecessore, il servo di Dio Paolo VI volle proclamare il 21 novembre del 1964, durante il Concilio Vaticano II. Maria è, infine, Madre spirituale dell’intera umanità, perché per tutti Gesù ha dato il suo sangue sulla croce, e tutti dalla croce ha affidato alle sue materne premure.
Iniziamo dunque guardando a Maria questo nuovo anno, che riceviamo dalle mani di Dio come un «talento» prezioso da far fruttare, come un’occasione provvidenziale per contribuire a realizzare il Regno di Dio. In questo clima di preghiera e di gratitudine al Signore per il dono di un nuovo anno, sono lieto di rivolgere il mio deferente pensiero agli illustri signori ambasciatori del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, che hanno voluto prendere parte all’odierna solenne celebrazione. Saluto cordialmente il cardinale Tarcisio Bertone, mio Segretario di Stato. Saluto il cardinale Renato Raffaele Martino e i componenti del Pontificio Consiglio della Giustizia e della pace, esprimendo loro la mia viva riconoscenza per l’impegno con cui quotidianamente promuovono questi valori così fondamentali per la vita della società. In occasione della presente Giornata mondiale della pace, ho diretto ai governanti e ai responsabili delle nazioni, come anche a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, il consueto Messaggio, che quest’anno ha per tema: «La persona umana, cuore della pace».
Sono profondamente convinto che «rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale» (Messaggio, n. 1). È un impegno questo che compete in modo peculiare al cristiano, chiamato «ad essere infaticabile operatore di pace e strenuo difensore della dignità della persona umana e dei suoi inalienabili diritti» (Messaggio, n. 16). Pro prio perché creato ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gn 1,27), ogni individuo umano, senza distinzione di razza, cultura e religione, è rivestito della medesima dignità di persona. Per questo va rispettato, né alcuna ragione può mai giustificare che si disponga di lui a piacimento, quasi fosse un oggetto. Di fronte alle minacce alla pace, purtroppo sempre presenti, dinanzi alle situazioni di ingiustizia e di violenza, che continuano a persistere in diverse regioni della terra, davanti al permanere di conflitti armati, spesso dimenticati dalla vasta opinione pubblica, e al pericolo del terrorismo che turba la serenità dei popoli, diventa più che mai necessario operare insieme per la pace. Questa, ho ricordato nel Messaggio, è «insieme un dono e un compito» (n. 3): dono da invocare con la preghiera, compito da realizzare con coraggio senza mai stancarsi.
Il racconto evangelico che abbiamo ascoltato mostra la scena dei pastori di Betlemme che si recano alla grotta per adorare il Bambino, dopo aver ricevuto l’annuncio dell’Angelo (cfr Lc 2,16). Come non volgere lo sguardo ancora una volta alla drammatica situazione che caratterizza proprio quella Terra dove nacque Gesù? Come non implorare con insistente preghiera che anche in quella regione giunga quanto prima il giorno della pace, il giorno in cui si risolva definitivamente il conflitto in atto che dura ormai da troppo tempo? Un accordo di pace, per essere durevole, deve poggiare sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni persona. L’auspicio che formulo dinanzi ai rappresentanti delle nazioni qui presenti è che la comunità internazionale congiunga i propri sforzi, perché in nome di Dio si costruisca un mondo in cui gli essenziali diritti dell’uomo siano da tutti rispettati. Perché ciò avvenga è però necessario che il fondamento di tali diritti sia riconosciuto non in semplici pattuizioni umane, ma «nella natura stessa dell’uomo e nella sua inalienabile dignità di persona creata da Dio» (Messaggio, n. 13). Se infatti gli elementi costitutivi della dignità umana vengono affidati alle mutevoli opinioni umane, anche i suoi diritti, pur solennemente proclamati, finiscono per diventare deboli e variamente interpretabili. «È importante, pertanto, che gli Organismi internazionali non perdano di vista il fondamento naturale dei diritti dell’uomo. Ciò li sottrarrà al rischio, purtroppo sempre latente, di scivolare verso una loro interpretazione solo positivistica» (ibid.).
«Ti benedica il Signore e ti protegga... rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,24.26). È questa la formula di benedizione che abbiamo ascoltato nella prima Lettura. È tratta dal libro dei Numeri: vi si ripete tre volte il nome del Signore. Ciò sta a significare l’intensità e la forza della benedizione, la cui ultima parola è «pace». Il termine biblico shalom, che traduciamo «pace», indica quell’insieme di beni in cui consiste «la salvezza» portata da Cristo, il Messia annunciato dai profeti. Per questo noi cristiani riconosciamo in Lui il Principe della pace. Egli si è fatto uomo ed è nato in una grotta a Betlemme per portare la sua pace agli uomini di buona volontà, a coloro che lo accolgono con fede e amore. La pace è così veramente il dono e l’impegno del Natale: il dono, che va accolto con umile docilità e costantemente invocato con orante fiducia; l’impegno, che fa di ogni persona di buona volontà un «canale di pace». Chiediamo a Maria, Madre di Dio, di aiutarci ad accogliere il Figlio suo e, in Lui, la vera pace. Domandiamole di illuminare i nostri occhi, perché sappiamo riconoscere il Volto di Cristo nel volto di ogni persona umana, cuore della pace!
Il Papa: nella vita della Chiesa fondamentale il ruolo femminile *
«A differenza dei Dodici, le donne non abbandonarono Gesù nell’ora della Passione Maria Maddalena fu la prima testimone e annunciatrice di Cristo Risorto»Ieri Benedetto XVI ha dedicato la sua catechesi all’impegno delle donne per la diffusione del Vangelo. A partire dal cristianesimo delle origini
L’Udienza Del Mercoledì
Cari fratelli e sorelle,
oggi siamo arrivati al termine del nostro percorso tra i testimoni del cristianesimo nascente che gli scritti neo-testamentari menzionano. E usiamo l’ultima tappa di questo primo percorso per dedicare la nostra attenzione alle molte figure femminili che hanno svolto un effettivo e prezioso ruolo nella diffusione del Vangelo. La loro testimonianza non può essere dimenticata, conformemente a quanto Gesù stesso ebbe a dire della donna che gli unse il capo poco prima della Passione: «In verità vi dico, dovunque sarà predicato questo vangelo nel mondo intero, sarà detto anche ciò che costei ha fatto, in memoria di lei» (Mt 26,13; Mc 14,9). Il Signore vuole che questi testimoni del Vangelo, queste figure che hanno dato un contributo affinché crescesse la fede in Lui, siano conosciute e la loro memoria sia viva nella Chiesa. Possiamo storicamente distinguere il ruolo delle donne nel cristianesimo primitivo, durante la vita terrena di Gesù e durante le vicende della prima generazione cristiana.
Gesù certamente, lo sappiamo, scelse tra i suoi discepoli dodici uomini come padri del nuovo Israele, gli scelse perché «stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (Mc 3,14-l5). Questo fatto è evidente, ma, oltre ai Dodici, colonne della Chiesa, padri del nuovo popolo di Dio, sono scelte nel numero dei discepoli anche molte donne. Solo molto brevemente posso accennare a quelle che si trovano sul cammino di Gesù stesso, cominciando con la profetessa Anna (cfr Lc 2,36-38) fino alla Samaritana (cfr Gv 4,1-39), alla donna siro-fenicia (cfr Mc 7,24-30), all’emorroissa (cfr Mt 9,20-22) e alla peccatrice perdonata (cfr Lc 7,36-50). Non mi riferisco neppure alle protagoniste di alcune efficaci parabole, ad esempio alla massaia che fa il pane (Mt 13,33), alla donna che perde la dracma (Lc 15,8-10), alla vedova che importuna il giudice (Lc 18,1-8). Più significative per il nostro argomento sono quelle donne che hanno svolto un ruolo attivo nel quadro della m issione di Gesù. In primo luogo, il pensiero va naturalmente alla Vergine Maria, che con la sua fede e la sua opera materna collaborò in modo unico alla nostra Redenzione, tanto che Elisabetta poté proclamarla «benedetta fra le donne» (Lc 1,42), aggiungendo: «beata colei che ha creduto» (Lc 1,45). Divenuta discepola del Figlio, Maria manifestò a Cana la totale fiducia in Lui (cfr Gv 2,5) e lo seguì fin sotto la Croce, dove ricevette da Lui una missione materna per tutti i suoi discepoli di ogni tempo, rappresentati da Giovanni (cfr Gv 19,25-27).
Ci sono poi varie donne, che a diverso titolo gravitarono attorno alla figura di Gesù con funzioni di responsabilità. Ne sono esempio eloquente le donne che seguivano Gesù per assisterlo con le loro sostanze e di cui Luca ci tramanda alcuni nomi: Maria di Magdala, Giovanna, Susanna e «molte altre» (cfr Lc 8,2-3). Poi i Vangeli ci informano che le donne, a differenza dei Dodici, non abbandonarono Gesù nell’ora della Passione (cfr Mt 27,56.61; Mc 15,40). Tra di esse spicca in particolare la Maddalena, che non solo presenziò alla Passione, ma fu anche la prima testimone e annunciatrice del Risorto (cfr Gv 20,1.11-18). Proprio a Maria di Magdala San Tommaso d’Aquino riserva la singolare qualifica di «apostola degli apostoli» (apostolorum apostola), dedicandole questo bel commento: «Come una donna aveva annunciato al primo uomo parole di morte, così una donna per prima annunziò agli apostoli parole di vita» (Super Ioannem, ed. Cai, § 2519).
Anche nell’ambito della Chiesa primitiva la presenza femminile è tutt’altro che secondaria. Non insistiamo sulle quattro figlie innominate del «diacono» Filippo, residenti a Cesarea Marittima e tutte dotate, come ci dice san Luca, del «dono della profezia», cioè della facoltà di intervenire pubblicamente sotto l’azione dello Spirito Santo (cfr At 21,9). La brevità della notizia non permette deduzioni più precise. Piuttosto dobbiamo a san Paolo una più ampia documentazione sulla dignità e su l ruolo ecclesiale della donna. Egli parte dal principio fondamentale, secondo cui per i battezzati non solo «non c’è più né giudeo né greco, né schiavo, né libero», ma anche «né maschio, né femmina». Il motivo è che «tutti siamo uno solo in Cristo Gesù» (Gal 3,28), cioè tutti accomunati nella stessa dignità di fondo, benché ciascuno con funzioni specifiche (cfr 1 Cor 12,27-30). L’Apostolo ammette come cosa normale che nella comunità cristiana la donna possa «profetare» (1 Cor 11,5), cioè pronunciarsi apertamente sotto l’influsso dello Spirito, purché ciò sia per l’edificazione della comunità e fatto in modo dignitoso. Pertanto la successiva, ben nota, esortazione a che «le donne nelle assemblee tacciano» (1 Cor 14,34) va piuttosto relativizzata. Il conseguente problema, molto discusso, della relazione tra la prima parola - le donne possono profetare nell’assemblea - e l’altra - non possono parlare -, della relazione tra queste due indicazioni, apparentemente contraddittorie, lo lasciamo agli esegeti. Non è da discutere qui. Mercoledì scorso abbiamo già incontrato la figura di Prisca o Priscilla, sposa di Aquila, la quale in due casi viene sorprendentemente menzionata prima del marito (cfr At 18,18; Rm 16,3): l’una e l’altro comunque sono esplicitamente qualificati da Paolo come suoi sun-ergoús «collaboratori» (Rm 16,3).
Alcuni altri rilievi non possono essere trascurati. Occorre prendere atto, ad esempio, che la breve Lettera a Filemone in realtà è indirizzata da Paolo anche a una donna di nome «Affia» (cfr Fm 2). Traduzioni latine e siriache del testo greco aggiungono a questo nome «Affia» l’appellativo di «soror carissima» (ibid.) e si deve dire che nella comunità di Colossi ella doveva occupare un posto di rilievo; in ogni caso, è l’unica donna menzionata da Paolo tra i destinatari di una sua lettera. Altrove l’Apostolo menziona una certa «Febe», qualificata come diákonos della Chiesa di Cencre, la cittadina portuale a est di Corinto (cfr Rm 16,1-2). Benché il titolo in quel tempo non abbia ancora uno specifico valore ministeriale di tipo gerarchico, esso esprime un vero e proprio esercizio di responsabilità da parte di questa donna a favore di quella comunità cristiana. Paolo raccomanda di riceverla cordialmente e di assisterla «in qualunque cosa abbia bisogno», poi aggiunge: «essa infatti ha protetto molti, anche me stesso». Nel medesimo contesto epistolare l’apostolo con tratti di delicatezza ricorda altri nomi di donne: una certa Maria, poi Trifena, Trifosa e Perside «carissima», oltre a Giulia, delle quali scrive apertamente che «hanno faticato per voi» o «hanno faticato nel Signore» (Rm 16,6.12a.12b.15), sottolineando così il loro forte impegno ecclesiale. Nella Chiesa di Filippi poi dovevano distinguersi due donne di nome «Evodia e Sìntiche» (Fil 4,2): il richiamo che Paolo fa alla concordia vicendevole lascia intendere che le due donne svolgevano una funzione importante all’interno di quella comunità.
In buona sostanza, la storia del cristianesimo avrebbe avuto uno sviluppo ben diverso se non ci fosse stato il generoso apporto di molte donne. Per questo, come ebbe a scrivere il mio venerato e caro Predecessore Giovanni Paolo Il nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem, «la Chiesa rende grazie per tutte le donne e per ciascuna... La Chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del «genio» femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle donne nella storia del Popolo di Dio, per tutte le vittorie che essa deve alla loro fede, speranza e carità: ringrazia per tutti i frutti della santità femminile» (n. 31). Come si vede, l’elogio riguarda le donne nel corso della storia della Chiesa ed è espresso a nome dell’intera comunità ecclesiale. Anche noi ci uniamo a questo apprezzamento ringraziando il Signore, perché egli conduce la sua Chiesa, generazione dopo generazione, avvalendosi indistintamente di uomini e donne, che sanno mettere a frutto la loro fede e il loro battesimo per il bene dell’intero Corpo ecclesiale, a maggior gloria di Dio.
* Avvenire, 15.02.2007.