Le Ruote (del carro) di Ezechiele |
Probabilmente figlio d’un notaio, nacque a Celico, nei pressi di Cosenza, intorno al 1130; compì un viaggio in Terrasanta, al cui ritorno si fece monaco cisterciense, entrando nel monastero della Sambucina, indi in quello di Santa Maria di Corazzo, di cui fu abate. A seguito d’una profonda crisi spirituale lasciò Corazzo, ritirandosi in un eremo a Pietralata, poi in altro eremo sulla Sila, ove raccolse una piccola comunità e costituì il cenobio di San Giovanni in Fiore (la comunità prese poi nome di Florense), e il nuovo ordine ebbe approvata la regola da papa Celestino III nel 1196. Perseguitato dai Cisterciensi, poté tuttavia godere l’appoggio dell’imperatore Enrico VI. Morì il 30 marzo del 1202. È autore di una nutrita serie di opere profetico-teologiche, la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, la Expositio in Apocalypsim, il Psalterium decem chordarum, il Tractatus super quatuor Evangelia, il De Unitate seu essentia Trinitatis (ora perduto). Non suo, invece, ma compendio delle sue idee e delle sue profezie ad opera di qualche discepolo, è il Liber figurarum, che si disse aver influenzato Dante per la Divina Commedia. *
Dalla «Concordia Novi ac Veteris Testamenti» [1]
Debemus ergo in labore et gemitu in hiis sacris diebus resistere affligentes, ut scriptum est animas nostras quousque quadraginta dies, hoc est generationes totidem et duo quantum in maiori luctu et afflictione pertranseant: ut ad sacra illius Pasche solemnia pervenire possimus et cantare domino canticum novum quod nobis abstulit, ut iam diximus, primus septuagesimae dies canticum letitie quod est alleluia. Nec mirum si hec sacra mysteria clausa hactenus sub velamine nobis iunioribus tempore incipiunt aperiri. Cum illa generatio agatur in extremis quae designatur in sacro quadragesimo die. In quo velum illud mysteriale quod pendet a conspectu altaris tollitur a facie populi. Ut qui hactenus «per speculum in enigmate» amodum «facie ad faciem» videre incipiant veritatem: euntes ut ait Apostolus «de claritate in claritatem...».
Tres denique mundi status nobis ut iam scripsimus in hoc opere divine nobis pagine sacramenta commendant: primum in quo fuimus sub lege, secundum in quo fuimus sub gratia, tertium quod e vicino expectamus sub ampliori gratia...
Primus ergo status in scientia fuit, secundus in potestate sapientie, tertius in plenitudine intellectus. Primus in servitute servili, secundus in servitute filiali, tertius in libertate. Primus in flagellis, secundus in actione, tertius in contemplatione. Primus in timore, secundus in fide, tertius in charitate. Primus status servorum est, secundus liberorum, tertius amicorum. Primus senum, secundus iuvenum, tertius puerorum. Primus in luce siderum, secundus in aurora, tertius in perfecto die. Primus in hieme, secundus in exordio veris, tertius in estate. Primus protulit urticas, secundus rosas, tertius lilia. Primus herbas, secundus spicas, tertius triticum. Primus aquam, secundus vinum, tertius oleum. Primus pertinet ad septuagesimam, secundus ad quadragesimam, tertius ad festa paschalia.
Primus itaque status pertinet ad Patrem qui auctor est omnium... secundus ad Filium qui assumere dignatus est limum nostrum... tertius ad Spiritum Sanctum de quo dicit Apostolus: «Ubi spiritus domini, ibi libertas». Et primus quidem status significatus est in tribus illis hebdomadis que precedunt ieiunium quadragesimale, secundus in ipsa quadragesima, tertius in tempore solemni quod vocatur paschale.
Quocirca si mysterium veli positi inter populum et altare non segniter intuemur, intellegimus non absque circa die quadragesimo, in quo et conficitur sanctum chrisma, eicitur a conspectu altaris ut iam non videant fideles altare ipsum quasi per speculum in enigmate, sed magis facie ad faciem. Nimirum quia in tempore isto in quo agitur quadragesima generatio oportet auferri velamen litere a cordibus multorum.
***
In questi giorni sacri noi dobbiamo resistere nel lavoro e nel pianto, in attesa che si compia il ciclo quaresimale, si chiuda cioè il novero delle quarantadue generazioni del lutto e dell’afflizione, e noi possiamo essere introdotti nella sacra solennità dell’universale risurrezione, per cantare al Signore quel cantico nuovo di gioia, che è l’Alleluia. Nessuna meraviglia se tutto il significato profondo dei vecchi sacri misteri, fino a oggi celati, sotto il velame, agli occhi nostri, di noi, più giovani e più piccoli, si va dischiudendo. Dappoiché apparteniamo a quest’ultima generazione che è designata nell’ultimo sacro giorno della penitenziale quaresima: il giorno in cui si toglie dagli occhi del popolo il velario che tiene l’altare in lutto. Affinché quella verità che il popolo vide finora «in sullo specchio, in enigma», cominci a scorgere «faccia a faccia», passando, secondo l’assicurazione dell’Apostolo, «di chiarezza in chiarezza».
Tutti i simboli sacramentali contenuti nelle pagine della rivelazione di Dio ci instillano la convinzione dei tre stati. Il primo stato è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Legge; il secondo è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Grazia; il terzo è quello che noi attendiamo da un giorno all’altro, nel quale ci investirà una più ampia e generosa grazia.
Il primo stato visse di conoscenza; il secondo si svolse nel potere della sapienza; il terzo si effonderà nella plenitudine dell’intendimento. Nel primo regno il servaggio servile; nel secondo la servitù filiale; il terzo darà inizio alla libertà. Il primo stato trascorse nei flagelli; il secondo nell’azione; il terzo trascorrerà nella contemplazione. Il primo visse nell’ atmosfera del timore; il secondo in quella della fede; il terzo vivrà nella carità. Il primo segnò età dei servi; il secondo l’età dei figli; il terzo non conoscerà che amici. Il primo stato fu dominio di vecchi; il secondo di giovani; il terzo sarà dominio di fanciulli. Il primo tremò sotto l’incerto chiarore delle stelle; il secondo contemplò la luce dell’aurora; solo nel terzo sfolgorerà il meriggio. Il primo fu inverno; il secondo un palpitare di primavera; il terzo conoscerà la pinguedine dell’estate. Il primo non produsse che ortiche; il secondo diede le rose; solo al terzo appartengono i gigli. Il primo vide le erbe; il secondo lo spuntar delle spighe; il terzo raccoglierà il grano. Il primo ebbe in retaggio l’acqua; il secondo il vino; il terzo spremerà l’olio. Il primo stato fu tempo di settuagesima; il secondo fu tempo di quaresima; il terzo solo scioglierà le campane di Pasqua.
In conclusione: il primo stato fu reame del Padre, che è il creatore dell’universo; il secondo fu reame del Figlio, che si umiliò ad assumere il nostro corpo di fango; il terzo sarà reame dello Spirito Santo, dal quale dice l’Apostolo: «Dove è lo Spirito del Signore, ivi è libertà». E il primo stato è simboleggiato in quelle tre settimane che vanno innanzi al digiuno quaresimale; il secondo nella stessa quaresima; il terzo nel tempo solenne di Pasqua. Per cui se convenientemente interpretiamo il mistero del velo interposto fra il popolo e l’altare, comprendiamo come non è senza motivo che nel giorno di quaresima, in cui si consacra il sacro crisma, quel velo è tolto di mezzo, affinché i fedeli non veggano più l’altare quasi attraverso uno specchio, ma più tosto faccia a faccia. Il che per dire che in questo tempo, regnante la quarantesima generazione, occorre ritirare il velo della lettera dal cuore della massa.
(Trad. di E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore, cit., pp. 227-231).
[1] Ediz. Venezia 1519, V, 84.
* Scrittori religiosi del Duecento di Giorgio Petrocchi
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
AL DI LA’ DELLA "FALLACIA DELL’ACCIDENTE", UN NUOVO PARADIGMA. Due soli in Terra e il Sole del Giusto Amore (“Karitas seu recta dilectio”) in cielo. La nuova "unità" della "Monarchia" di Dante
IL GRANDE BALZO DI DANTE ALIGHIERI, NEL NOSTRO PRESENTE: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE.!!! AL DI LA’ DI PLATONE E DI ARISTOTELE, E DI HEGEL, SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO MA, IMPLICITAMENTE, ANCHE SUL PIANO ANTROPOLOGICO.
A. La Charitas o del giusto amore
Monarchia, I. 11:
[...] 12. Sed Monarcha non habet quod possit optare: sua nanque iurisdictio terminatur Occeano solum: quod non contingit principibus aliis, quorum principatus ad alios terminantur, ut puta regis Castelle ad illum qui regis Aragonum. Ex quo sequitur quod Monarcha sincerissimum inter mortales iustitie possit esse subiectum.
13. Preterea, quemadmodum cupiditas habitualem iustitiam quodammodo, quantumcunque pauca, obnubilat, sic karitas seu recta dilectio illam acuit atque dilucidat. Cui ergo maxime recta dilectio inesse potest, potissimum locum in illo potest habere iustitia; huiusmodi est Monarcha: ergo, eo existente, iustitia potissima est vel esse potest.
14. Quod autem recta dilectio faciat quod dictum est, hinc haberi potest: cupiditas nanque, perseitate hominum spreta, querit alia; karitas vero, spretis aliis omnibus, querit Deum et hominem, et per consequens bonum hominis. Cumque inter alia bona hominis potissimum sit in pace vivere - ut supra dicebatur - et hoc operetur maxime atque potissime iustitia, karitas maxime iustitiam vigorabit et potior potius.
15. Et quod Monarche maxime hominum recta dilectio inesse debeat, patet sic: omne diligibile tanto magis diligitur quanto propinquius est diligenti; sed homines propinquius Monarche sunt quam aliis principibus: ergo ab eo maxime diliguntur vel diligi debent. Prima manifesta est, si natura passivorum et activorum consideretur; secunda per hoc apparet: quia principibus aliis homines non appropinquant nisi in parte, Monarche vero secundum totum.
16. Et rursus: principibus aliis appropinquant per Monarcham et non e converso; et sic per prius et immediate Monarche inest cura de omnibus, aliis autem principibus per Monarcham, eo quod cura ipsorum a cura illa supprema descendit.
17. Preterea, quanto causa est universalior, tanto magis habet rationem cause, quia inferior non est causa nisi per superiorem, ut patet ex hiis que De causis; et quanto causa magis est causa, tanto magis effectum diligit, cum dilectio talis assequatur causam per se.
18. Cum igitur Monarcha sit universalissima causa inter mortales ut homines bene vivant, quia principes alii per illum, ut dictum est, consequens est quod bonum hominum ab eo maxime diligatur.
19. Quod autem Monarcha potissime se habeat ad operationem iustitie, quis dubitat nisi qui vocem hanc non intelligit, cum, si Monarcha est, hostes habere non possit?
20. Satis igitur declarata subassumpta principalis, quia conclusio certa est: scilicet quod ad optimam dispositionem mundi necesse est Monarchiam esse.
***
ora il Monarca non ha più nulla da desiderare, poiché la sua giurisdizione è limitata soltanto dall’oceano (il che non si verifica per gli altri prìncipi i cui dominii confinano con altri dominii, come, per es., quello del re di Castiglia, che confina con quello del re di Aragona); quindi il Monarca, tra tutti gli uomini, è il soggetto di giustizia più esente da ogni cupidigia.
Inoltre, come la cupidigia, per quanto piccola sia, offusca l’abito della giustizia, così la carità, cioè il retto amore, lo rende più forte e più illuminato. Perciò, la persona che è capace di raggiungere il più alto grado di retto amore può attingere il massimo livello di giustizia; ora, questa persona è il monarca; quindi, con il monarca si instaura, o può instaurarsi, il massimo di giustizia. Che poi il retto amore produca tali effetti si può dedurre dal fatto che la cupidigia, spregiando il Bene supremo degli uomini, cerca altri beni, mentre la carità, spregiando tutti gli altri beni, cerca Dio e l’uomo, e di conseguenza il vero bene dell’uomo.
E siccome, fra tutti i beni dell’uomo, grandissimo è quello di vivere in pace, come si è detto sopra, e questo bene si raggiunge principalmente ed essenzialmente attraverso la giustizia, questa riceverà grandissimo vigore dalla carità, e tanto più quanto più quest’ultima sarà intensa. Che poi nel monarca debba trovarsi in sommo grado il retto amore degli uomini si dimostra nel modo seguente: ogni oggetto amabile è tanto più amato quanto più è vicino a chi l’ama; ora gli uomini sono più vicini al monarca che agli altri principi; quindi essi sono o debbono essere amati dal monarca più che da ogni altro.
La premessa maggiore è evidente se si considera la natura degli agenti e dei pazienti; la minore è dimostrata dal fatto che agli altri prìncipi gli uomini sono vicini solo in parte, al monarca invece nella loro totalità. Si aggiunga che gli uomini si avvicinano agli altri prìncipi attraverso il monarca e non viceversa, e quindi la cura del monarca verso tutti gli uomini è originaria ed immediata, mentre quella degli altri prìncipi passa attraverso la mediazione del monarca in quanto deriva dalla sua cura suprema. Inoltre, quanto più una causa è universale, tanto più è causa (la causa inferiore infatti non è causa se non in forza di quella superiore, come risulta dal libro «Delle cause»), e quanto più una causa è causa, tanto più ama il suo effetto, poiché tale amore è conseguenza diretta dell’essere causa; ora, il monarca è, tra gli uomini, la causa più universale del loro ben vivere (mentre gli altri prìncipi sono causa attraverso la mediazione del monarca, come si è detto); quindi il monarca ama il bene degli uomini più di ogni altro.
[Per il secondo punto], chi potrebbe mettere in dubbio che il monarca abbia il massimo potere per attuare la giustizia se non colui che non intende che cosa significhi quel nome? Se egli infatti è effettivamente monarca, non può avere nemici. E così è stata sufficientemente dimostrata la premessa minore del sillogismo principale, e pertanto è certa la conclusione che la monarchia è necessaria per un perfetto ordinamento del mondo. trad. di Pio Gaja
B. La fallacia accidentis
MONARCHIA, III. 11:
Gli avversari portano poi un argomento di ragione.
Utilizzando infatti un principio del decimo libro della Metafisica, essi argomentano così:
tutti gli esseri appartenenti ad uno stesso genere si riconducono ad uno, che è misura di tutti gli altri inclusi in quel genere;
ora tutti gli uomini appartengono allo stesso genere;
quindi vanno ricondotti ad uno come misura di tutti quanti.
Se questa conclusione è vera, il Sommo Pontefice e l’Imperatore, essendo uomini, vanno ricondotti ad un solo uomo. Ma poiché non è possibile ricondurre il Papa ad altri, resta che l’Imperatore, insieme a tutti gli altri uomini, deve essere ricondotto al Papa come misura e regola; e così anche con questo ragionamento arrivano alla conclusione da essi voluta.
Per confutare tale ragionamento, ammetto come vera la loro affermazione che «tutti gli esseri appartenenti allo stesso genere debbono ricondursi ad un essere di quel genere, che, nell’ambito di questo, costituisce la misura»; come pure è vera l’affermazione che tutti gli uomini appartengono ad un medesimo genere; ed è vera altresì la conclusione ricavata da tale premessa, che cioè tutti gli uomini vanno ricondotti ad un’unica misura nell’ambito del loro genere. Ma quando da questa conclusione essi inferiscono la conseguenza applicativa nei confronti del Papa e dell’Imperatore, incorrono nella fallacia dell’accidente.
Per afferrare bene questo bisogna tener presente che una cosa è essere uomo e un’altra essere Papa, come d’altra parte una cosa è essere uomo e un’altra essere Imperatore, così come una cosa è essere uomo e un’altra essere padre e signore.
L’uomo infatti è quello che è per la sua forma sostanziale, in forza della quale rientra in una specie e in un genere, ed è posto nella categoria della sostanza; il padre invece è tale per una forma accidentale che è la relazione, per la quale rientra in una specie e in un genere particolari, ed è posto nella categoria dell’«ad aliquid», cioè della «relazione». Se così non fosse, tutto si ricondurrebbe - ma ciò è falso - alla categoria della sostanza, dal momento che nessuna forma accidentale può sussistere per se stessa senza il supporto di una sostanza sussistente.
Pertanto Papa e Imperatore essendo ciò che sono in forza di certe relazioni (quelle appunto dell’autorità papale e dell’autorità imperiale, la prima delle quali rientra nell’ambito della paternità e l’altra nell’ambito del dominio), è chiaro che Papa e Imperatore, in quanto tali, devono essere posti nella categoria della relazione e quindi essere ricondotti ad un elemento rientrante in tale categoria. Quindi affermo che altra è la misura cui debbono essere ricondotti in quanto uomini, ed altra in quanto Papa e Imperatore.
Infatti, in quanto uomini, vanno ricondotti all’uomo perfetto (che è misura di tutti gli altri e, per così dire, loro modello ideale, chiunque esso sia), come a quello che è sommamente uno nel suo genere, come si può rilevare dai capitoli finali dell’Etica a Nicomaco. Invece, in quanto sono termini di relazione, allora, com’è evidente, o vanno ricondotti l’uno all’altro (se l’uno è subalterno all’altro o se sono accomunati nella specie per la natura della relazione), oppure ad un terzo elemento come alla loro comune unità.
Ora, non si può affermare che uno sia subalterno all’altro, poiché, in tale caso, l’uno si predicherebbe dell’altro, il che è falso (noi infatti non diciamo che l’Imperatore è Papa e nemmeno viceversa); e neppure si può affermare che siano accomunati nella specie, in quanto l’essenza formale di Papa è diversa da quella di Imperatore in quanto tale. Quindi si riconducono a qualcos’altro, in cui devono trovare la loro unità.
A questo proposito bisogna tener presente che i soggetti delle relazioni stanno tra di loro come le rispettive relazioni. Ora quelle particolari relazioni d’autorità che sono il Papato e l’Impero vanno ricondotte ad una [suprema] relazione d’autorità, da cui quelle discendono con le loro determinazioni particolari; quindi i soggetti di quelle relazioni, cioè il Papa e l’Imperatore, andranno anch’essi ricondotti a qualche soggetto unitario che realizzi la relazione d’autorità nella sua essenza formale, al di fuori di ogni determinazione particolare.
E questo soggetto unitario sarà o Dio stesso, in cui tutte le relazioni particolari trovano la loro unificazione assoluta, oppure una qualche sostanza inferiore a Dio, nella quale la relazione d’autorità, che proviene da quella relazione assoluta, si particolarizza attraverso una differenziazione nel grado d’autorità. E così diventa chiaro che Papa e Imperatore, in quanto uomini, vanno ricondotti ad un elemento comune, mentre, in quanto formalmente Papa e Imperatore, ad un elemento comune diverso. Attraverso questa distinzione si risponde all’argomento di ragione [portato dagli avversari].(traduzione di Pio Gaja)
Federico La Sala
L’INTERVISTA
Premio Gioacchino da Fiore ad Alexander Patschovsky, Potestà: «È una figura luminosa»
Oggi a San Giovanni in Fiore il riconoscimento allo storico. Il presidente del comitato scientifico parla dei 40 anni di attività
di Emiliano Morrone (Corriere della Calabria, 02 dicembre 2022)
SAN GIOVANNI IN FIORE. Oggi pomeriggio lo storico del Medioevo Alexander Patschovsky riceverà il Premio Gioacchino da Fiore nell’Abbazia florense di San Giovanni in Fiore, per l’alto contributo dato agli studi sulle opere dell’abate calabrese, vissuto nel XII secolo. L’iniziativa inizierà alle ore 17, organizzata dal Centro internazionale di studi gioachimiti, che insieme festeggerà i 40 anni di attività, e patrocinata dal ministero della Cultura, dalla Regione Calabria, dalla Provincia di Cosenza e dai Comuni di San Giovanni in Fiore, Carlopoli, Celico, Luzzi e Pietrafitta. La premiazione dell’accademico Patschovsky sarà preceduta dalla relativa laudatio di Gian Luca Potestà, professore ordinario di Storia del cristianesimo nell’Università Cattolica di Milano e presidente del comitato scientifico del Centro. Dopo la consegna del premio, il presidente del Centro, Riccardo Succurro, ne riassumerà i 40 anni di storia e verranno consegnati dei riconoscimenti a tutti i sindaci di San Giovanni in Fiore, ai dirigenti scolastici locali in servizio, ad alcuni fondatori dell’istituto culturale e ai suoi soci in carica per l’impegno profuso. Con Potestà, che ci ha rilasciato un’ampia intervista, abbiamo discusso dell’importanza e dell’attualità di Gioacchino da Fiore, del rapporto tra l’abate calabrese e Dante Alighieri, del lavoro scientifico di Patschovsky e del futuro del Centro, che ha sede a San Giovanni in Fiore.
Professore, come definisce Gioacchino da Fiore?
«Gioacchino è un tesoro della cultura, della spiritualità e della teologia italiane. Egli si inscrive bene in una linea di pensiero meridionale, cioè quello che, a partire da Platone, ha cercato di riflettere sulla storia. Se noi pensiamo a grandi pensatori che con il Mezzogiorno hanno avuto a che fare - da Gioacchino a Campanella, a Bruno, e poi, scendendo, a Labriola e anche a Croce -, in loro vediamo una costante preoccupazione di riflettere sulla storia, sul senso della storia e sulla direzione della storia».
Perché Gioacchino è importante?
«L’importanza di Gioacchino, detta in poche parole, sta nello scoprire il segno effettivo della Trinità nella storia degli uomini. Questo è un problema, perché la storia degli uomini viene normalmente concepita, in ambito cristiano, in un senso binario, cioè Antico Testamento e Nuovo Testamento. Invece, con Gioacchino abbiamo lo sforzo di leggerla in una prospettiva ternaria, cioè di trovare all’interno della storia non solo la traccia del Padre, l’Antico Testamento, ma anche quella del Figlio, Nuovo Testamento, e soprattutto quella dello Spirito. Ciò vuol dire inscriversi in una linea, che peraltro non era del tutto rara nel XII secolo, per così dire di revival dello Spirito Santo, inteso come forza che spinge in avanti la storia e che ad essa dà un impulso nuovo».
È dunque, quella dell’abate calabrese, una visione aperta della storia? Non di rado, poi, Gioacchino viene collegato ad Hegel e a Marx.
«Sì, l’abate ha una visione aperta della storia. In Gioacchino ci sono tanti aspetti; è un autore, potremmo dire, polimorfo. L’idea di fondo è, per semplificare, che i giochi non sono finiti, che il futuro è ancora davanti a noi e offre tanti elementi nuovi. Questo è, possiamo dire, il senso di Gioacchino. In epoca moderna le teologie della storia sono un po’ passate di moda. Noi troviamo grandi filosofie della storia - da Hegel a Comte, e in qualche modo anche Marx rientra dentro questo territorio - che non sono affatto derivate da Gioacchino, ma ci spiegano come, dentro un orizzonte secolarizzato, quelle grandi idee continuino a vivere».
Gioacchino e Dante, il secondo è un erede del primo?
«È un punto di attualità, perché l’anno scorso abbiamo celebrato il settimo centenario della morte di Dante. Su questo, mi permetta di dire, io andrei con cautela. A partire dal fatto che Gioacchino riceve un posto di rilievo nel Paradiso, ed è quella famosa terzina tante volte citata, si tende a mettere Dante nella scia di Gioacchino. Negli ultimi anni ho lavorato tanto sul profetismo e sulle concezioni escatologiche e apocalittiche di Dante. Il discorso sarebbe lungo, ma mi sono convinto che si debba essere cauti. Dante crea in realtà una propria apocalisse, che è perfettamente percepibile negli ultimi Canti del Purgatorio, nei quali egli mostra uno scenario della storia che a prima vista sembra debitore della visione gioachimita delle età. In realtà Dante riplasma completamente lo scenario, in relazione al proprio linguaggio, alla propria densità letteraria e ai propri fini».
Quindi non trova corretto legare Dante a Gioacchino?
«Per dirla in due parole, Dante conosce Gioacchino così come conosce il pensiero francescano della storia, gli spirituali francescani eccetera. Tuttavia, definire Dante gioachimita mi pare una forzatura. Gioacchino è tra le sue letture, ed è ovvio che lo sia. Forse noi immaginiamo Gioacchino come un pensatore un po’ marginale, ma si tratta di un autore straordinariamente letto e diffuso nel Medioevo. Dell’abate calabrese ho appena tradotto i primi quattro dei cinque libri della Concordia, che è una delle sue tre grandi opere, forse la più audace, in cui egli legge il passato della storia per trovarne una chiave di senso profetica volta verso il futuro. Ebbene, questa è un’opera che mostra una propria cifra della storia, una propria lettura della storia. È molto ambiziosa e quindi, direi, Dante ne è consapevole. Dante conosce Gioacchino come tanti altri intellettuali fra il XIII e il XIV secolo. La Concordia, pensi, è un’opera di cui ci sono rimasti più di 40 manoscritti. Inoltre, abbiamo notizia di almeno 15 manoscritti perduti. È un’enormità per un testo del Medioevo, è come se noi dovessimo moltiplicare per 100».
Il Centro di San Giovanni in Fiore compie 40 anni, è un’età.
«Oggi il Centro studi gioachimiti celebra in un certo senso sé stesso, perché ha voluto fissare una data importante, che è quella dei suoi 40 anni di vita. Credo che sia stata una grande scommessa. Nato a partire dall’intuizione, dall’entusiasmo, dalla passione di alcuni intellettuali di San Giovanni in Fiore, in particolare penso al professore Salvatore Oliverio, è riuscito a darsi una dimensione internazionale e una longevità straordinaria. È giusto, quindi, festeggiare i quarant’anni di età del Centro. Se ci arriveremo, festeggeremo anche i 50».
Il Premio Gioacchino da Fiore coincide, allora, con questo compleanno importante?
«Per celebrare degnamente questi quarant’anni, si è pensato di dare dei riconoscimenti a coloro che erano già attivi agli inizi e che ancora sono presenti sulla scena culturale della regione. Soprattutto, abbiamo voluto conferire un premio allo studioso che maggiormente ha fatto per Gioacchino negli ultimi decenni».
Così siete arrivati a Patschovsky?
«Qui il comitato scientifico, che io presiedo, è stato unanime nell’individuare la figura del collega professor Alexander Patschovsky. Più tardi terrò una laudatio nei suoi riguardi: in alcune cartelle cercherò di mostrare qual è il profilo scientifico dell’autore. Per dirla ora in due parole, Patschovsky è stato allievo di uno dei maggiori medievisti tedeschi: Herbert Grundmann, morto nel 1970. È stato l’ultimo suo allievo e di Grundmann ha raccolto l’eredità su due piani. Nei primi anni si è occupato soprattutto di inquisitori ed eretici. Poi, a partire dalla fine degli anni ’80 - ricordo, e lo ricorderò più tardi nell’Abbazia florense, una sua venuta a San Giovanni in Fiore per un congresso gioachimita - ha deciso di dedicarsi pienamente allo studio di Gioacchino. In questo senso, Patschovsky ha scritto dei saggi e soprattutto ha curato le edizioni critiche di moltissime opere di Gioacchino. Se non ci fosse stato lui, ben poco sarebbe stato pubblicato dell’abate calabrese».
«Delle tre grandi opere di Gioacchino, Patschovsky ha pubblicato in proprio la Concordia, sta per pubblicare il Commento all’Apocalisse e infine ha revisionato a fondo il testo del Salterio a dieci corde, curato dal professor Selge. Quindi Patschovsky è una figura luminosa; è un autore che, già prima della pensione, e a maggior ragione dopo il pensionamento, avvenuto nel 2005, si è dedicato totalmente allo studio di Gioacchino. Questo può sembrare qualcosa di astruso, perché fare delle edizioni critiche vuol dire produrre dei testi latini e con apparati di commento che per un profano spesso non sono facilmente comprensibili».
Me ne rendo conto, seguo il suo ragionamento.
«In realtà, Patschovsky ha posto le basi per un lavoro su Gioacchino che a questo punto ha dei fondamenti estremamente solidi e non più incerti. Perché dico solidi? Lo dico perché, soprattutto per le grandi opere, Gioacchino ha lavorato producendo diverse redazioni delle sue opere. Lei pensi che alla Concordia Gioacchino ha lavorato per 15 anni, con continue revisioni. Ma intanto le prime copie del testo già circolavano. Quindi è stata enorme la difficoltà di arrivare a definire il testo di fronte a tradizioni manoscritte divergenti. Ecco, i testi ora sono stati fissati: si sono poste le basi per un lavoro scientifico di enorme rilevanza».
Adesso di che cosa vi state occupando come studiosi?
«Parallelamente, abbiamo cercato e stiamo cercando ancora di tradurre delle opere. Io stesso ho appena tradotto i primi quattro libri della Concordia in italiano, in modo da rendere Gioacchino accessibile al lettore che non sia iperspecialista. Così viene fuori la straordinaria ricchezza di questo autore, che non si lascia confinare dentro uno spazio isolato».
Il fascino dell’abate calabrese deriva anche dalla sua utopia, concepita tra i monti della Sila, del rinnovamento del mondo?
«Il fascino di Gioacchino è quello di un grande pensatore che nel contempo è stato un monaco, un abate, uno che ha concepito un’idea di riforma del mondo a partire da una località isolata, sperduta, sulla Sila, immaginando un grande sogno, forse anche la grande illusione che da lì sarebbe venuto fuori il rinnovamento del monachesimo e del mondo».
Qual è la sua impressione a proposito della percezione che gli studiosi calabresi hanno di Gioacchino da Fiore?
«In una rivista che ho diretto per parecchi anni e che ancora seguo, Annali di Scienze religiose, noi pubblichiamo ogni anno, da una dozzina d’anni, una bibliografia degli scritti, cioè di tutti gli studi che compaiono su Gioacchino da Fiore nel mondo. Si tratta di un elenco, brevemente commentato, di ciascun articolo, di ciascun libro, di ciascuna voce di enciclopedia. Diciamo che, per darle l’idea, ci sono tra i 20 e i 50 contributi all’anno che escono un po’ in tutto il mondo, prevalentemente in Europa, ma qualcuno anche in Paesi lontani: negli Stati Uniti, in America Latina eccetera. Dirle che c’è un contributo specifico di alto livello scientifico che venga dalla Calabria mi sembrerebbe in fondo una forzatura. Naturalmente ci sono degli studiosi calabresi che si occuopano di Gioacchino. Anche in passato ci sono stati degli studiosi calabresi; penso qui al padre Francesco Russo e credo che fosse calabrese pure Antonio Crocco, che insegnava all’Università di Salerno. Questi ed altri studiosi calabresi hanno lavorato molto sull’abate, ma direi in una fase - naturalmente non uso alcuna tonalità spregiativa - pionieristica, cioè in cui si trattava di aprire la strada su Gioacchino».
Ora qual è il contributo degli studiosi calabresi?
«Adesso, come un po’ dappertutto, il tecnicizzarsi e lo specializzarsi della ricerca fa sì che per fare un’edizione di Gioacchino ci debbano essere competenze paleografiche, filologiche, storiche eccetera, che non si trovano dietro l’angolo. Queste competenze potrebbero trovarsi in Calabria o potrebbero trovarsi, come è stato per il professor Patschovsky, tra Monaco di Baviera, dove lui ha esercitato parte della sua attività di ricerca nei primi anni, e l’Università di Costanza, in Germania, dove lui ha insegnato fino al pensionamento».
Non è, in qualche modo, un controsenso?
«Per quanto le ho già detto, non mi meraviglio che Gioacchino non sia particolarmente considerato, non sia particolarmente oggetto di studio in Calabria. Però proprio per questo sono grato, devo dirle, all’attività che il Centro studi gioachimiti ha fatto e fa. La trovo meritoria. Il Centro ha sempre rispettato il piano della ricerca scientifica, e in questo senso non ha mai posto argini, mai posto limiti alla ricerca degli studiosi che ha cercato di raccogliere intorno a sé un po’ in tutto il mondo, purché fossero bravi».
C’è anche bisogno di rendere Gioacchino da Fiore più alla portata di tutti?
«Il Centro ha messo in atto una grossa attività di carattere divulgativo a livello provinciale, ed anche regionale, che in qualche modo si avvale dei risultati della ricerca scientifica e li ripropone in una prospettiva pure più semplificata; innanzitutto per le scuole, per i centri di cultura, per le università della terza età, per le biblioteche».
Come vede il futuro del Centro internazionale di studi gioachimiti?
«L’ho detto diverse volte, lo dico anche a lei, nella speranza che questa riflessione possa essere raccolta: il Centro studi gioachimiti è una realtà che va ulteriormente potenziata, e ci sarebbero tanti modi per potenziarla. Certo, siamo ormai alla vigilia della conclusione delle edizioni di Gioacchino».
Questo, professore, che cosa significa?
«Che tante altre cose si possano progettare, perché Gioacchino è un personaggio che muore nel 1202 ma la sua impronta resta fino all’età contemporanea. Allora non si fa fatica, non si fa sforzo per trovare altre imprese».
Che cosa servirebbe, dunque, per ravvivare, rivitalizzare le attività del Centro?
«Occorrerebbero, credo, anche grandi finanziamenti. Più volte, mi sono augurato che il Centro studi gioachimiti possa fruire di finanziamenti maggiori, in modo tale da dare nuove prospettive e nuovi orizzonti rispetto a quelli delineati quarant’anni fa e che in parte stanno anche venendo a conclusione. Infatti, dopo che Patschovsky avrà pubblicato l’edizione del Commento all’Apocalisse, mancherà solo il Liber Figurarum, che è già stato preso in carico dal mio collega professor Marco Rainini, dell’Università Cattolica, e con Gioacchino avremmo finito».
La missione del Centro è quasi compiuta?
«Sì, però infiniti altri capitoli si possono aprire sotto il nome di Gioacchino, a partire dalle opere pseudogioachimite composte subito dopo la sua morte. Quindi io mi auguro che il Centro - il quale è, non so se il termine sia tecnicamente giusto, un’eccellenza in Calabria - possa essere ulteriormente valorizzato, sostenuto, finanziato, avvalendosi sempre anche dell’apporto degli studiosi che più tempo e più competenze hanno speso su Gioacchino».
Edificare e riedificare: per una Chiesa in uscita
S.Ecc. Mons Francesco Nolè, Arcivescovo di Cosenza
Nel mistero dell’Incarnazione, il Figlio di Dio fatto uomo ha rivoluzionato la visione e il concetto umano del tempo: Dio non abita più nelle costruzioni fatte dalle mani dell’uomo ma nella comunità cultuale che in essa si raduna.
Questa essenziale novità della fede permette di guardare all’edificio cristiano come uno specchio della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Da quasi ottocento anni la Cattedrale rappresenta per il territorio cosentino non solo un insigne monumento di arte ma, soprattutto, un luogo rappresentativo del cammino di fede che ha plasmato le generazioni passate, conferendo vita alle pietre camminate dell’edificio sacro.
Chi entra oggi nella Chiesa Madre della Città e della Diocesi di Cosenza rimane affascinato dallo stile cistercense realizzato dal suo costruttore, l’arcivescovo Luca da Casamari, già abate e scriba di Gioacchino da Fiore, uno dei figli più illustri della Diocesi bruzia.
L’itinerario pensato conduce all’incontro con il Mistero di una Divina Presenza, che trova spazio e accoglienza nel vero tempio spirituale che è il cuore dell’uomo che si lascia sorprendere dalla manifestazione attraente ed inaspettata di Dio.
La forma fortemente cristocentrica della struttura si rispecchia nella collocazione dell’altare al centro della crociera, sormontato da un artistico Crocifisso del XV secolo appartenente alla nobile famiglia cosentina dei Telesio di cui era membro il famoso filosofo Bernardino, evocando costantemente la visione paolina della Chiesa “mistico corpo in Cristo”.
Questa sacramentale incorporazione rende la Chiesa non un semplice aggregato umano, ma il segno della presenza viva del Cristo Risorto, e si manifesta nelle celebrazioni liturgiche, in cui la diversità gerarchica dei ministeri, fusi nell’unica azione di grazia e di supplica, fa palpitare veramente l’animo umano.
Dalla posizione della cattedra episcopale, collocata - dopo l’ultimo adeguamento liturgico dell’area presbiteriale - in fondo all’abside, si può godere di una visione unica: un popolo unito e articolato, chiamato a plasmare con la propria vita le realtà temporali nello spirito del Vangelo.
Il 30 gennaio 1222 fu solennemente celebrata la Dedicazione di questo edificio sacro, alla presenza dell’Imperatore Federico II, “stupor mundi”, il quale, secondo la tradizione, donò al Capitolo dei Canonici una preziosa Croce reliquiario attualmente custodita nel Museo Diocesano.
L’ottavo centenario di questo evento, per cui sarà indetto uno straordinario anno giubilare per l’Arcidiocesi, sarà per l’intera Chiesa locale di Cosenza-Bisignano e per il territorio cosentino e calabrese un momento di grazia spirituale, per una rinnovata e più solida coscienza ecclesiale.
Dalla riscoperta e riappropriazione della memoria storica, di cui la Cattedrale è scrigno preziosissimo, si auspica che la celebrazione dell’evento permetta di instaurare una rinnovata sinergia tra le ricchezze del panorama culturale calabrese, che dia avvio ad una rinascita del centro storico della città e che rimetta in moto la stima e l’apprezzamento per quella parte di storia plurisecolare che, passando attraverso luci ed ombre, si intreccia con la mirabile storia della salvezza, di cui Dio è origine e fine ultimo.
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Fonte: “ChiesaOggi.com” (RIPRESA PARZIALE - SENZA IMMAGINI).
IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI, LE "SIBILLE" DI ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS".... *
Idee.
Leopardi, Rosmini e la diversità del «nulla»
«Riconoscere intimamente il proprio nulla» è la quinta massima di perfezione cristiana secondo il filosofo. Un approccio all’idea di umiltà e di affidamento prolifico alla grazia di Dio creatore
di Antonio Staglianò (Avvenire, giovedì 29 aprile 2021)
La Quinta massima di perfezione cristiana del Rosmini invita il cristiano a «riconoscere intimamente il proprio nulla», penetrando sempre più e sempre meglio nella propria «infermità» e «nichilità». Lo deve fare, non in modo generico e sentimentale, ma con la massima lucidità e metodicità: «Il cristiano deve avere scritte nella mente le ragioni del suo nulla: prima quelle che provano il nulla di tutte le cose; poi quelle che umiliano specialmente l’uomo; in terzo luogo quelle che umiliano la sua persona». Un ’nulla’ affidato a Dio, un «nulla intimo», custodisce e diffonde la pace interiore. Costruisce anche l’umiltà che ci rende veri! Da qui nasce la fede testimoniale, quella che sa di vero abbandono e di compagnia a Dio il quale «resta in agonia (d’amore) fino alla fine dei tempi», come ha sostenuto B. Pascal. Famosa è la sua definizione dell’uomo quale «canna pensante ». Certo il pensiero renderebbe superiore l’uomo rispetto alla natura che lo sovrasta, eppure come ’canna’ è sbattuta dai venti e dalle intemperie e rischia di continuo di spezzarsi e sparire. La sproporzione dell’universo rispetto a questo piccolo anima-letto umano è grande. Tanto più oggi, nell’immagine scientifica della realtà guadagnata attraverso le scoperte di un universo in continua espansione, con milioni di soli e miliardi di stelle e altrettante galassie.
Sono «gli interminati spazi» che Leopardi non ha bisogno di fingersi (diversamente dai «sovrumani silenzi » e dalla «profondissima quiete» nella poesia Infinito, perché li conosce bene dopo la svolta copernicana e galileiana. Rosmini sostiene dell’uomo: «Siccome egli è un atomo in paragone dell’universo, così è un nulla in paragone di Dio». Sembra che, per adorare la grandezza di Dio, l’uomo debba di necessità giungere a riconoscere il proprio nulla: quanto più l’uomo è niente, nulla, tanto più è nella giusta disposizione per avere «un grandissimo zelo per la gloria di Dio, e del ben del prossimo, con un sentimento che gli dice di essere incapace di ogni bene, incapace di porre alcun rimedio ai mali del mondo». Si tratta di un duplice approfondimento d’essere una «nientità», un nulla: anzitutto quello del limite creaturale (cosa è davvero un atomo rispetto alla totalità?), ma, in particolare, quello della sua debole condizione esistenziale a causa del peccato originale, «quella colpa in cui è stato concepito, l’inclinazione al male che porta in sé». In paragone a Dio, essere perfettissimo, creatore del cielo e della terra, ogni creatura (anche l’uomo, che pure è creato a immagine e somiglianza di Dio) è nulla. Col linguaggio dei medievali, questo si spiega filosoficamente perché solo Dio ’è’ l’Essere, la creatura ’ha’ l’essere per partecipazione.
Emanuele Severino, denunciando la follia dell’Occidente, insiste su questa ovvietà del senso comune di tutti: le cose sono niente, perché vengono dal nulla e scadono nel nulla, perciò sono nulla. Egli vede, così, proprio in Leopardi, colui che ha portato alle estreme conseguenze la follia dell’Occidente, la fede nel divenire delle cose, che porta al tramonto di tutto, anche degli dei, di ogni divinità, anche del Dio cristiano. Tutto è nulla, niente è eterno, nemmeno Dio, e la religione è una dolce illusione che con le sue fantastiche dottrine sull’aldilà (il paradiso, la gioia in Dio, la grazia di Dio e il suo perdono) allevia la sofferenza angosciante dell’uomo posto dalla vita (anche dalla natura matrigna) di fronte al nulla, all’annientamento, attraverso la morte: «sola nel mondo eterna, in cui si volve ogni creata cosa, in te morte riposa nostra ignuda natura ». Così anche nello Zimbaldone giungeva alla stessa scoperta (proposta dal Rosmini nella sua quinta Massima): «E io percepiva e considerava intorno a me solo nulla e, io medesimo, solido nulla». Leopardi non soltanto sente («e io percepiva») ma riflette e conosce intellettualmente («e io considerava») il nulla di tutte le cose e anche di sé, di ogni uomo, di ogni vicenda umana, quasi ripetendo con le parole di Qoelet «vanità delle vanità, tutto è vanità». Le ’parole’ sono le stesse e anche i ’concetti’. Eppure si assiste a un miracolo di vita nel riconoscere rosminiano il proprio «intimo nulla».
In Leopardi, invece, c’è solo la coscienza infelice di una tristezza insuperabile e angosciante, da cui distrarsi con le dolci illusioni della religione (fantastica) per non disperare e morire di crepacuore. Da dove si origina questa differenza di decisione per la vita e per la morte? Per riconoscere il proprio nulla, bisogna prima (ma è un ’prima’ solo logico) conoscere «il proprio nulla», cioè «conoscersi allo specchio del nulla», giungere all’intimità più profonda di sé per accedere davvero alla propria «nichilità- nientità», e così sapere in verità cosa siamo stati dall’eterno in Dio - nell’atto del generarsi eterno di Dio in Dio, Figlio dal Padre - e cosa siamo adesso: nulla, cioè assoluta apertura a un richiamo di vita. È il «nulla eccitante » di cui parla Florenskij nella sua teologia ortodossa La colonna e il fondamento della verità. È il nulla da cui tutte le cose sono state create. ’Questo nulla’ ha un significato che l’avvicina più allo «zero dei matematici che contiene tutti i numeri in positivo e in negativo all’infinito» o al «vuoto degli astrofisici da cui l’universo in espansione con tutta la massa della sua materia si è originato per l’inflazione originaria » che non al «nulla dei filosofi greci e di Leopardi che ne condivide il linguaggio».
Il nulla che Rosmini chiede di riconoscere intimamente è il nulla grazie al quale si può ricevere tutto e da cui tutto si origina nella vita: non è il nulla davanti allo specchio del nulla, che si gode nel suo narcisismo inconsolabile; è, invece, il nulla davanti a Dio, allo specchio della fede cristiana.
È dunque un nulla sorgivo, promettente, come la verginità di Maria di Nazareth che rende possibile addirittura l’incarnazione del Figlio di Dio.
Chi riconosce intimamente questo proprio nulla consegue l’umiltà vera, non quella ’pelosa’ di certi spirituali che puntano a mortificare i doni di Dio e i carismi, orientando a far sotterrare i talenti. È piuttosto l’umiltà di chi si vede dotato per aver ricevuto tutto da Dio e loda il suo Signore pe la sua magnificenza.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
In questo Granel di sabbia, il qual terra ha nome
LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO. IL "TESTAMENTO" DI GIACOMO LEOPARDI
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. -- ANTONIO ROSMINI, LE SIBILLE, E LA "CHARITAS".
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
Federico La Sala
Riletture.
Andare in Paradiso in carne e ossa, bello e possibile?
di Giovanni Cesare Pagazzi (Avvenire, domenica 21 febbraio 2021)
A Dante non sembra vero. La domanda che lo tormenta dall’Inferno, ora, in Paradiso, può esser rivolta alle anime dei sapienti, ricevendone sicura risposta. Toccato dalla pena eterna dei golosi, prostrati nel fango, percossi da un miscuglio di grandine, acqua e neve sporca, il poeta chiede a Virgilio circa la sorte di questi spiriti, dopo il giudizio finale, quando si ricongiungeranno con la loro carne: il tormento diminuirà? Rimarrà invariato? Crescerà? La risposta del latino è pungente: «Ritorna a tua scienza’! Stando a lui, Dante ha già la competenza sufficiente per rispondere da sé. Infatti, la teologia scolastica, ben conosciuta dal fiorentino, afferma che ’quanto la cosa è più perfetta / più senta il bene, e così la doglienza»: la percezione del piacere e del dolore è un criterio per stabilire la gerarchia di quanto esiste.
Insomma: vista la sua insensibilità, un sasso è meno compiuto rispetto a un albero; gli animali sono più raffinati dei vegetali giacché più sensibili; uomini e donne sono i più pregiati perché nessuno percepisce il piacere e il dolore come loro. In breve: quando le anime dei dannati si riuniranno ai corpi, la pena si acutizzerà, dato che, a motivo del corpo, la loro sensibilità sarà più completa (Inferno VI, 100-111).
Ciò significa che la carne porta a compimento l’anima (alla faccia di chi ritiene il pensiero medioevale oscurantista e disincarnato!). Il rimprovero di Virgilio evidenzia il lapsus di Dante che, pur esperto, istruito credente, sul più bello dimentica l’alfabeto e la poesia della sua stessa fede. In Purgatorio, Dante dimostra d’aver appreso benissimo la lezione. Infatti descrivendo il canto degli angeli, non trova immagine migliore di questa terzina mozzafiato: «Quali i beati al novissimo bando /surgeran presti ognun di sua caverna /la revestita voce alleluiando»(Purgatorio XXX, 13-15).
La sublime musicalità degli angeli è audacemente paragonata all’’Alleluia!’ cantato dai risorti con voce finalmente rivestita di carne, quando, nell’ultimo giorno, allo squillo della tromba, svelti usciranno dalle fosse. Senza la carne, le anime non sanno cantare l’Alleluia della vittoria; ovvero sono incapaci di esultare a squarciagola per la rivincita sulla morte. Eppure, manca qualcosa.
Infatti, in Paradiso, in mezzo a due cerchi concentrici di anime di sapienti, la domanda posta nell’Inferno riaffiora. Anzi si moltiplica e appuntisce, trasformandosi in una batteria di quesiti. A quegli spiriti luminosissimi e fiammeggianti di gioia, Dante per bocca di Beatrice chiede: «Con la risurrezione dei corpi, quando la carne si riunirà alle anime, queste saranno ancora così splendenti? La materia non offuscherà la visione di Dio? Appesantite dal corpo, godranno ancora questa gioia raggiante?» (cfr. Paradiso XIV, 10-18).
È Salomone, il più sapiente tra i nati di donna, a prendere la parola, spiegando che, quando i corpi si riuniranno alle anime, queste non subiranno decremento alcuno della loro gioia e potenza; al contrario godranno ancora più, perché ancor meglio vedranno Dio. In altre parole: fino alla risurrezione dei corpi, persino ai santi manca qualcosa: proprio quella carne che li abiliterà alla gioia davvero compiuta. Alle parole del figlio di Davide, i due cerchi di anime s’infiammano di felicità, e gridano ’Amen!’, desiderando riavere al più presto i loro corpi. Ma ecco il colpo di genio del Poeta: quel desiderio delle anime non è solo per se stesse, ma è anche per i loro genitori che quei corpi hanno generato, nutrito, vestito, aiutato a crescere. È anche per rispetto di chi quei corpi ha amato, accarezzato, baciato, goduto, curato, sepolto.
La risurrezione del corpo non è solo la perfezione dell’anima, ma anche un atto di giustizia del Creatore verso gli affetti che hanno consolato quei corpi. La risurrezione della carne è un debito che Dio sente di avere verso chi ha amato quei corpi. Come potrebbe Dio esser giusto se non restituisse a un uomo il corpo della sua donna, a un padre e una madre i corpi dei loro figli, a ciascuno i corpi dei loro fratelli, sorelle e amici?
A questo punto, meglio lasciare la parola a Dante: «Tanto mi parver sùbiti e accorti /e l’uno e l’altro coro a dicer ’Amme!’ /che ben mostrar disio de’ corpi morti; /forse non pur per lor, ma per le mamme, /per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme». (Paradiso XIV, 61-66». Qualcuno potrebbe dire: «Troppo bello per essere vero!». Eppure, esattamente perché è così bello, è difficile che non sia vero.
Vaticano.
Il Papa a Moneyval: impedire ai mercanti di speculare nel tempio dell’umanità
L’incontro con gli esperti del Comitato del Consiglio d’Europa, giunti in Vaticano per la valutazione periodica delle misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 8 ottobre 2020)
Il Papa ha incontrato il Comitato Moneyval e li ha ringraziati per il loro servizio "a tutela di una finanza pulita, nell’ambito della quale ai ’mercanti’ è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore".
"Il lavoro che voi svolgete in relazione a questo duplice obiettivo mi sta particolarmente a cuore", ha detto il Papa sottolineando la necessità di "una finanza che non opprima i più deboli e i bisognosi". "Ritengo necessario ripensare al nostro rapporto col denaro", ha ribadito il Papa.
“Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza”, ha ricordato Francesco, secondo il quale “quando l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune,il denaro deve servire e non governare!”. E proprio per attuare tali principi, ha sottolineato il Papa, “l’Ordinamento vaticano ha intrapreso, anche recentemente, alcune misure sulla trasparenza nella gestione del denaro e per contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo”. Il 1° giugno scorso, infatti, è stato promulgato un Motu Proprio per una più efficace gestione delle risorse e per favorire la trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, mentre i 19 agosto scorso, una ordinanza del presidente del Governatorato ha sottoposto le organizzazioni di volontariato e le persone giuridiche dello Stato della Città del Vaticano all’obbligo di segnalazione di attività sospette all’Autorità di Informazione Finanziaria.
Le politiche di antiriciclaggio e di contrasto al terrorismo costituiscono "uno strumento per monitorare i flussi finanziari, consentendo di intervenire laddove emergano tali attività irregolari o, addirittura, criminali. Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti - ha detto Papa Francesco nell’udienza a Moneyval - e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare".
Operare per una “finanza pulita”, nell’ambito della quale “ai mercanti è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore”, l’appello finale.
Dante Alighieri e il suo ‘Grand Tour’ in Calabria.
Intervista a Giulio Ferroni sui luoghi ‘profetici’ di un’ultima terra del Sud
Ha attraversato l’Italia di Dante per scoprire tanti volti dell’Italia di oggi, le ultime tracce comtemporanee di un’Italia di persistente bellezza ma anche nelle sue contraddizioni attuali. Un viaggio tra i fasti e resti di luoghi d’Italia, tutti citati nella commedia dantesca, nato da un’idea coltivata da (di F.ca Barresi). che ora si è fatta libro, "L’Italia di Dante.Viaggio nel paese della Commedia", La nave di Teseo, in cui si ritrovano anche tanti luoghi di Calabria.
di Francesca Barresi *
Certo, mi risponde online, in collegamento dall’Irlanda dove si è svolta la seconda edizione della Dublin Dante Summer School, nell’arco di quattro giornate tra lezioni, workshop e conversazioni (live e preregistrate) con artisti e dantisti di fama internazionale, coordinati da Trinity College Dublin, University College Dublin e Istituto Italiano di Cultura.
Anzi, il professor Ferroni, già ordinario di letteratura italiana a ‘La Sapienza’ di Roma e che fu tra i docenti ’pionieri dell’Università della Calabria dove insegnò nel 1975, cogliendo la palla al balzo, aggiunge oltre e di più con compiaciuto entusiasmo, per mettere chiarezza in vaghezza, completando e integrando, veri e propri percorsi turistico-culturali del Dante in Calabria, tra conoscenza immaginaria del Sommo e realtà geografica calabrese:
Dante e la Calabria, dunque, un viaggio all’insegna del profetico Gioacchino...
Affiorano ricordi, tra passato e presente, relitti di una storia politica molto vicina e dolorosa?
Un grande onore per il frate calabrese finire in Paradiso, non crede?
Invece mi pare di capire che una volta sul posto si è trovato in ben altra scena sociale e spirituale...
Praticamente per ritrovare le ‘reliquie’ di Dante nel paesaggio attuale, almeno in Calabria, bisogna scavare dentro una consistente profondità stratigrafica di abbandono, incuria, deturpazioni, una storia nella storia degli insediamenti umani?
Incredibile e affascinante il suo arrivo a Catona... quartiere storico, estremo, di Reggio Calabria, alla caccia di ‘ quel corno d’Ausonia che s’imborga”...
Ci racconti ancora di Francesco da Paola e dei suoi miracoli post-danteschi...
* FONTE: http://www.cn24tv.it/
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITA”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO...
"È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della ammirabile carità ...": "Mirae caritatis. De sanctissima eucharistia", della "Ammirabile Carità. La santa eucarestia", così è intitolata e così è tradotta la "Lettera enciclica" di Leone XIII, del 1902:
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi. Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LE DIMISSIONI DI BENEDETTO XVI E GIOACCHINO DA FIORE
di Emiliano Morrone (Il Quotidiano della Calabria,13 febbraio 2013, pagg. 1-19)
Le dimissioni di Benedetto XVI lasceranno un segno profondo. Molti commentatori si sono già sbilanciati sulle cause, spesso collegando la data dell’annuncio, lo scorso 11 febbraio, a precisi eventi della storia: l’apparizione di Maria a Lourdes nel 1858, i Patti Lateranensi del 1929 o l’Editto costantiniano di Milano (313 d.C., giorno incerto). Nei vari giudizi sul suo pontificato, il papa teologo è stato definito custode della tradizione cattolica, aperto all’accoglienza cristiana e politicamente debole; magari troppo per sopportare l’agenda e la “diplomazia” di un capo di Stato, insieme pastore della Chiesa.
Alcuni, poi, hanno riflettuto sulla Croce, già richiamata da Giovanni Paolo II, che Benedetto avrebbe deposto per evitare il calvario umano del predecessore. Espressi dubbi sulla salute di Joseph Ratzinger, presto fugati da padre Federico Lombardi; proposti accostamenti a Celestino V, che fece «il gran rifiuto», e alla figura di Karol Wojtyla, diversa per emotività, comunicativa e comunicazione. Uno avvezzo alla speculazione filosofica, impegnato a giustificare la fede come deliberato della ragione; l’altro intento a erodere il comunismo politico dalle fondamenta, come ricostruito da Ferruccio Pinotti e Giacomo Galeazzi in un loro libro.
Nei tanti articoli di ieri, non sono mancati riferimenti a profezie, per esempio a quella di san Malachia: 112 motti latini che descriverebbero altrettanti papi, compreso Benedetto, sino alla fine della Chiesa. Un opinionista cattolico ha rammentato delle visioni di Pio X e la preghiera di san Michele Arcangelo, convinto che si annuncino tempi durissimi: la lotta tra bene e male sarebbe al culmine e la Chiesa avrebbe problemi proprio a Roma; ben oltre, si può interpretare, i misteri del Vatileaks, le questioni dello Ior e gli scandali sessuali.
Il cardinale Carlo Maria Martini criticò dall’interno certe scelte della Chiesa, insistendo sulla promozione della persona umana come obiettivo dell’evangelizzazione. Egli intervenne, per esempio, a proposito del referendum sulla procreazione medicalmente assistita. Era l’anno 2005. Allora il cardinale Camillo Ruini invitò i cattolici all’astensione e Martini sembrò interrogarsi sugli effetti di quella posizione, soprattutto su come maturò. Inoltre, da biblista, rilevando pecche di esegesi nel libro di Benedetto XVI su Gesù di Nazaret, Martini discusse del metodo del pontefice, che nello specifico riunì il Cristo storico e il Cristo della fede. Il papa ha compiuto sforzi enormi per sistemare in modo coerente la lettera della Bibbia e la dottrina, comprensibilmente preoccupato dal dominio culturale dell’individualismo.
È quest’ultimo un punto fondamentale per tentare di capire le ragioni della rinuncia del papa. Pensatori progressisti l’hanno spiegata argomentando che la secolarizzazione, dunque la modernità, è entrata in Vaticano e nel giudizio del pontefice. Peraltro, nei loro ragionamenti hanno considerato soltanto la dimensione clericale della Chiesa; come se il Vaticano II non avesse qualificato la Chiesa come «il Corpo mistico di Cristo»; come se il Concilio non avesse mai introdotto, se così possiamo definirla, la categoria del «Popolo di Dio».
Nonostante la rivoluzione conciliare, quando si parla di Chiesa, s’intende di solito la gerarchia ecclesiastica. Forse la ragione risiede nel fatto che, parafrasando il “Gesù” di Ratzinger, l’impero «ha cercato di trasformare la fede in fattore politico, sostenendo la debolezza della fede col potere politico e militare». Da qui il connubio tra potere spirituale e potere temporale, autorità religiosa e autorità politica, come noi lo conosciamo nel 2013.
In una discussione telefonica, Gianni Vattimo - padre del pensiero debole e autore di “Dopo la cristianità”, volume che affronta il significato attuale del gioachimismo - ci ha anticipato un suo pezzo sul “Fatto Quotidiano” di oggi. Se ne riporta un estratto in merito alle dimissioni del papa, viste (da Vattimo) come atto di coscienza. «Non è affatto stravagante - sostiene Vattimo - pensare che questa crisi di coscienza papale possa essere davvero, o almeno essere legittimamente interpretata, come un evento decisivo nei rapporti del cristianesimo con la “razionalità occidentale”. La quale da tempo, e con buone ragioni, ha ormai liquidato i preambula fidei; svelandosi per quello che è: la razionalità calcolante del mondo “economicamente” organizzato, dei tecnici motivati dal loro sapere “oggettivo” e, alla fine, della logica bancaria che tutti conosciamo e soffriamo sulla nostra pelle». «Insistere sull’idea che la fede in Gesù Cristo è una scelta razionalmente motivata - afferma Vattimo - significa davvero condannarsi a perire insieme all’Occidente capitalistico ormai in disfacimento».
Benedetto XVI ha riconosciuto per iscritto l’importanza della profezia della Terza Età, dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore. Il pontefice ha invece contestato lo storicismo di Marx ed Hegel, nel suo “Introduzione al cristianesimo”. Per il papa, quell’Età, cioè il tempo dello Spirito preconizzato da Gioacchino, rappresenterebbe la direzione giusta della Chiesa: finalmente pura, liberata dalle logiche e dai rapporti di forza del capitalismo, esso vittima della sua stessa ragione disumana.
Forse la debolezza che ha indotto Ratzinger a rinunciare, non è da rintracciare tanto nell’età. Piuttosto, non è blasfemo pensare che, proprio nel messaggio di Gioacchino, Benedetto abbia trovato la forza per compiere un atto destinato a pesare, più di quanto si possa prevedere, nel futuro della Chiesa, dei cattolici e dell’intero sistema mondiale.
Emiliano Morrone
Parla Carlo Enzo, professore ed esegeta, che racconta i suoi tormentati rapporti con la Chiesa
Rileggere la bibbia
Quello studioso irregolare
“Io, la Genesi e papa Luciani”
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 28.12.2012)
Carlo Enzo è una figura tra le più irregolari del mondo cattolico. Emarginato da quando, più di quarant’anni fa, il Patriarca di Venezia Albino Luciani - che sarebbe diventato Papa - gli impose il silenzio dell’insegnamento. Oggi Enzo ha 85 anni. È uomo carico di pathos. Un sapiente che per tutta la vita si è interrogato sulla Bibbia offrendo una sua personalissima interpretazione che ha stupito e affascinato alcuni e messo in grande allarme le gerarchie cattoliche.
Il risultato sono cinque volumi di commento (altri tre, conclusivi, sono in preparazione) pubblicati da Mimesis. «I miei occhi non mi aiutano più tanto bene. Dopo un intervento, che ha toccato i nervi ottici, sono quasi interamente cieco. Leggo grazie a una luce speciale che ingrandisce i caratteri. Ora sto lavorando alla terza riscrittura dell’ultima parte del Vangelo di Matteo», dice con passione. Enzo vive in un punto molto bello di Venezia, nella Canonica di San Marcuola che la Curia gli ha conservato. Qui, in un appartamento pieno di libri, lavora uno dei grandi biblisti del nostro tempo.
Dove è nato?
«A Burano, un’isola vicina a Venezia. Passai un’infanzia felice. Mio padre era soffiatore di vetro. La nostra vita, tranquilla. A otto anni cominciai a leggere la Bibbia ai miei fratelli».
Immagino che fosse ai suoi occhi di adolescente un insieme di storie avventurose.
«Era l’aspetto che mi interessava meno. Leggevo la Bibbia in una vecchia traduzione che avevamo in casa. E già allora intravedevo alcuni problemi».
Di che natura?
«Intuivo che il testo era stato appesantito dai commenti, dalle interpretazioni, dal tono favolistico».
È fatale che un testo così importante per la storia dell’Occidente si sia arricchito di letture nate anche da scuole differenti.
«Negli anni ho capito che bisognava liberarsi da quella ramificata ermeneutica che si sovrappone e avvolge il testo sacro, e ho cercato di scoprire cosa esso nasconde. La mia idea era di ritornare al midrash».
Ossia?
«Per dirla in modo semplice a una lettura delle Scritture attraverso le Scritture».
È un po’ quello che si prefiggeva Spinoza con il suo Trattato Teologico-politico.
«E che gli creò rilevanti problemi, tra cui l’accusa di ateismo. Midrash significa “ricercare”. È la spiegazione che gli antichi Maestri ricavavano dal Tanakh, che è il nome dato da Israele alla raccolta dei suoi libri sacri, i quali comprendono la Torah, ossia i cinque libri della Legge, tra cui Genesi; i 21 libri dei Profeti; e i tredici libri Agiografi, tra cui Salmi, Giobbe, Cantico e Qohelet».
In che misura Tanakh differisce dalla Bibbia cattolica?
«In modo sensibile. Intanto Tanakh è esclusivamente un codice di vita, attraverso il quale il popolo ebraico prova a diventare moralmente grande. Cioè passa dalla polvere all’anima vivente. Ma c’è un punto ulteriore: Tanakh è un testo mascherato. Perché così hanno voluto i sapienti che lo composero».
Si spieghi meglio.
«Il contenuto non doveva essere conosciuto dai popoli circostanti. Di qui l’invenzione di un genere letterario che nascondesse la vera sostanza agli estranei e la rivelasse solo al popolo ebraico».
Ci sta dicendo che la Bibbia ha uno strato esteriore che maschera una verità più profonda? Ma perché escludere gli altri popoli dalla corretta conoscenza del testo sacro?
«Perché quel testo veniva considerato Elohim del popolo».
Quindi parola di Dio.
«Non esattamente. Perché nella cultura ebraica la parola Dio non esiste. Esiste invece la parola “Elohim” che faceva tutt’uno con il popolo. Ma ogni popolo della Mezzaluna fertile aveva il proprio Elohim».
Verrebbe meno l’idea cardine secondo cui nell’Antico Testamento c’è un Dio non solo unico, ma assoluto.
«Questo accade in una fase successiva. Quando finisce con il prevalere la maschera, ossia una lettura deviata della Bibbia, favolistica, irreale».
Ci faccia un esempio.
«È sufficiente aprire Genesi. Ci siamo abituati a leggerli come la storia di un Dio che in sei giorni crea l’universo. Ma quando il popolo ebraico nasce, l’universo c’è già e quel popolo non ha assolutamente intenzione di rifondare l’universo. È una questione anche di buon senso. Che cos’è l’Elohim della Torah se non il popolo stesso che si è dato la sua costituzione, le sue leggi, i suoi imperativi morali? ».
Quindi il racconto della creazione non riguarda né l’uomo né la natura?
«Creazione qui non significa creare dal nulla, come appunto potrebbe fare un Dio. Creare è progettare un mondo nuovo, un uomo nuovo».
Sta seppellendo la teoria creazionistica.
«La Bibbia non dice come è fatto il Cielo, ma come ci si va. Anche quando ci si riferisce all’uomo non si intende una figura in generale ma l’uomo-Adamo che è diverso dall’uomo greco, romano, babilonese».
Ma “Adamo” è lo stesso che viene scacciato dall’Eden?
«Questo è il lato favolistico, irreale, la maschera. In realtà l’uomo biblico si chiama Adamo perché coltiva l’adamah, ossia è un uomo chiamato a educare la sua natura umana».
Che cosa è l’“adamah” di cui lei parla: la purezza, la predisposizione al sacro, o cosa?
«Nel linguaggio comune “adamah” è la terra fertile, la terra rossa che il Nilo riversa. Nel linguaggio biblico indica la peculiarità di quest’uomo che cerca una chiave morale per stare al mondo».
E la questione del peccato originale?
«Non esiste. Il peccato originale è un’interpretazione tarda, avanzata da Agostino. In ebraico la parola “peccato” significa più omissione di fare qualcosa di buono che offesa al Dio per aver fatto qualcosa di sbagliato. Adamo inizia il suo cammino che è polvere e deve farsi per prova ed errori. E questi ultimi non sono imputabili al peccato originale, ma dipendono dal fatto che Adamo non è un Elohim».
Lei dice “polvere”, ma Adamo nasce dalla polvere, nasce in qualche modo dal nulla.
«Torna la maschera. “Polvere” vuole dire che Adamo all’inizio è un essere inconsistente e l’Elohim soffia in lui non lo spirito, ma l’anelito di vita, cioè la volontà per fare questo percorso, questa crescita».
Quello che lei dice è fuori dal modo in cui l’Occidente ha recepito il testo sacro.
«Certo, perché la logica occidentale parte da Dio che crea il mondo. La logica ebraica parte dall’Elohim del periodo sapienziale, ma prima ancora parte da Abramo. Concretamente parte da colui che viene considerato il padre del popolo che ha il suo Elohim».
Ma dire che ogni popolo ha il suo Elohim non significa limitarne l’assoluto?
«L’obiezione avrebbe senso se traducessimo “Elohim” con “Theos”, giacché Theos è l’assoluto. Ma l’Elohim non è l’assoluto».
La sua lettura l’ha messa in urto con la Chiesa?
«Su di me è sceso un silenzio che dura da decenni».
Lei è stato docente di scienze bibliche?
«Insegnai a lungo. Fu negli anni Cinquanta che l’allora Patriarca di Venezia Angelo Roncalli mi mandò a Roma a studiare. Lavorai con il cardinal Urbani e con il mio maestro Alonso Schökel, poi venne Luciani, la mia croce e delizia».
Avverto dell’ironia.
«Mi stroncò in maniera terribile. Era il 1970. Tenni una lezione biblica sulla secolarizzazione. E dissi che non andava intesa come una riduzione della chiesa alla condizione laica né come un allontanamento dal sacro. Ma al contrario la secolarizzazione era la realizzazione totale del progetto».
E Luciani la stroncò?
«Quando dissi: tutto questo è scritto in Apocalisse 21 ossia che tutto si concluderà, perché quando scenderà la Gerusalemme celeste non ci sarà più né Chiesa né sacerdozio e l’Elohim sarà tutto in tutti, mi portò via il microfono dicendo: sono cose pazzesche».
Era il Cardinale a dirlo.
«Era il Patriarca di Venezia e aggiunse: se avete domande da fare rivolgetevi a me, il professore non deve più parlare e non parlai più».
Ha provato a ricomporre quella frattura?
«Qualche giorno dopo andai da lui e gli dissi: mi dia lei una regola di esegesi biblica. E lui mi rispose: prenda una buona traduzione, per esempio quella della scuola di Gerusalemme: i passi facili li spiega, quelli difficili li salta. A quel punto replicai che non me la sentivo più di insegnare. Non volevo imbrogliare né lui né tanto meno chi mi ascoltava».
Su cosa sta lavorando?
«Sul bacio di Giuda».
Torna, è il caso di dire, il tema del tradimento.
«È un altro dei grandi equivoci filologici».
Double Crossed: Uncovering the Catholic Church’s Betrayal of American Nuns
(Vittime di un doppio gioco: lo svelamento del tradimento delle suore americane da parte della Chiesa cattolica) (dall’intervista a suor Jeannine Garmick della "Lcwr" - Usa).
LA CITTA’ DEL SOLE:
GIOACCHINO DA FIORE NON RIATTIVO’ LA MEMORIA DELL’ALLEANZA SOLO A FRANCESCO D’ASSISI E A DANTE MA ANCHE E ANCORA A CAMPANELLA ....
"[...] il profeta dice: "Ci saranno cinque città in terra d’Egitto, che parleranno la lingua di Canaan, una sarà chiamata la ’Città del Sole’" (Is. 19, 18) .
Ma cos’è quell’unica città che è chiamata la "Città del Sole" (...) che ... mantiene la pace e l’unità con tutte le altre?"
(Cfr.: Gioacchino da Fiore, Sull’Apocalisse [Enchiridion super Apocalypsim], Trad. e cura di Andrea Tagliapietra, Feltrinelli, Milano 1994, p.303).
Federico La Sala
IL NATALE CRISTIANO: L’ARCA DELL’ALLEANZA, IL PRESEPE, E L’AMORE ("CHARITAS") CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE. Una nota
AI DUE CHERUBINI E AI DUE COLOMBI ... A MARIA E GIUSEPPE - E GESU’!!!
COME DA ARCA DELL’ALLEANZA ... COME DAL "GLORIA A DIO NEL PIU’ ALTO DEI CIELI", COME DALLA LEZIONE DEL PRESEPE DI SAN FRANCESCO ("Va’, ripara la mia casa") - E DALLA "MONARCHIA" DI DANTE:
Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri".
L’Amore ("Charitas") muove il Sole e le altre stelle ... e non la Ricchezza ("caritas") del "santo-padre" del cattolicesimo-costantiniano.
In principio era il Logos - non il "Logo" della tradizione vaticana del "Latinorum"!!!
Buon Natale!!!
Federico La Sala
Calabria. A Paola sulle orme di san Francesco. "Il suo motto CHA: charitas".
SAN FRANCESCO DA PAOLA : INIZIANO LE CELEBRAZIONI DEL PATRONO DELLA CALABRIA.
Il dipinto è particolare, perchè la figura del Santo, rappresentato come un vecchio in abiti francescani, è contornato da dieci scene che raffigurano altrettanti fatti prodigiosi a lui attribuiti. Nella mano tiene un bastone al quale si appoggia pesantemente, sormontato da quello che diverrà il suo motto CHA: charitas. Secondo la tradizione, un angelo, forse l’arcangelo Michele, gli apparve mentre pregava, tenendo fra le mani uno scudo luminoso su cui si leggeva la parola Charitas e porgendoglielo disse: “Questo sarà lo stemma del tuo Ordine” (...).
STORIA DELLA CHIESA
Giovanni Filoramo indaga sul periodo tra la conversione di Costantino e Teodosio quando la trasformazione in religione di Stato tramutò la croce in simbolo di potere
Cristiani da martiri a persecutori
di Massimo Firpo (Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2011) *
«Chi di spada ferisce di spada perisce», si legge nel vangelo (Matteo 26, 52), e così anche che nessuno ardisca sradicare la zizzania fino al tempo del raccolto (Matteo 13, 30). Ma nel vangelo di Luca (14, 23) si legge anche «costringili a entrare», san Paolo ordina di scacciare «di mezzo a voi quel malvagio» (I Corinzi 5, 13) e lo stesso Gesù proclama di non essere venuto «a portare la pace, ma una spada» (Matteo 10, 34). Si potrebbero elencare altri luoghi evangelici che nel corso della storia hanno offerto contrastanti argomenti ai (pochi) fautori del rifiuto di ogni violenza in materia religiosa, così come ai sostenitori del contrario, e cioè del diritto-dovere di imporre agli altri la vera fede - qualunque essa sia - di cui ci si erge a interpreti e tutori.
Del che offre conferma la spettacolare disinvoltura con cui i teologi di tutte le confessioni hanno usato la Bibbia per far dire al Padre eterno ciò che le contingenze politiche rendevano opportuno che egli dicesse, ora per rivendicare ora per negare la tolleranza religiosa a seconda del carattere minoritario o maggioritario della propria Chiesa, cattolica o protestante che fosse. Dai pogrom antiebraici alle persecuzioni degli eretici fino alla torri di New York non si contano le schiere di fanatici convinti di agire in nome del loro Dio e legittimati in tal senso da qualche autorità religiosa.
Solo con il Vaticano II, del resto, la Chiesa cattolica ha riconosciuto come inderogabile diritto umano quella libertà di coscienza che ancora nel 1864 il Sillabo di Pio IX aveva definito come un folle «delirio», mero sinonimo di «libertà di perdizione». Ben venga, naturalmente, e onore al merito di coloro che hanno saputo cambiare le proprie opinioni, dando prova ancora una volta di un relativismo storico che, piaccia o non piaccia, è iscritto nella storia del cristianesimo stesso e della sua capacità di adeguarsi al mutare dei tempi.
Sono solo alcune fra le tante riflessioni che scaturiscono da questo denso libro, in cui viene ricostruito il rapido evolversi della nuova religione da Costantino a Teodosio, tra la conversione dell’imperatore vittorioso a ponte Milvio nel 312 grazie alla croce (in hoc signo vinces) e gli editti che, a partire da quello di Tessalonica del 380, imposero la fede di Cristo come unica religione ammessa nei confini dell’impero.
Fu allora che si determinò la trasformazione della croce da simbolo di martirio e di redenzione in simbolo di potere utilizzato dalle autorità politiche ed ecclesiastiche per la «conquista di corpi e di anime». Fu allora che le parole di Cristo «il mio regno non è di questo mondo» (Giovanni 18, 36) - che nell’età dei Lumi avrebbero suggerito a Voltaire amari commenti sulle tenaci commistioni tra Stato e Chiesa - trovarono una clamorosa smentita nel poderoso affermarsi del nuovo monoteismo trinitario che soppiantò il paganesimo.
Fu allora che la Chiesa - costantiniana o teodosiana che dir si voglia - fondò un potere destinato a durare e a rinsaldarsi nel corso dei secoli, recando impressi sino a oggi i segni di una granitica «autorappresentazione identitaria» che non solo consentiva, ma imponeva la coercizione nei confronti di renitenti alla conversione, dissidenti, scismatici, e con essa il ricorso al braccio secolare di un’autorità civile ormai piegata al primato della fede e della teologia.
È in questo nodo tanto aggrovigliato quanto decisivo della storia dell’Occidente che Filoramo accompagna il lettore con rigorosa competenza e non comune capacità narrativa, tale da consentire anche ai profani di orientarsi nelle convulse trasformazioni della fine del mondo antico, fatte non solo di vicende politiche e militari, ma soprattutto di conflitti di culture, di profonde crisi economiche e sociali, di ridefinizioni radicali di poteri e di ruoli, di nuovi popoli e nuove fedi.
La decadenza politico-militare dell’Impero, lo sfaldarsi della sua unità, il dilagare della violenza nella vita quotidiana di tutti fecero da sfondo al radicarsi del cristianesimo, al definirsi del suo impianto dottrinale tra aspre controversie teologiche, eresie, lotte intestine, destinate a intrecciarsi sempre più strettamente con le questioni politiche.
Con l’indebolirsi dell’autorità statuale, infatti, i vescovi vennero assumendo un ruolo pubblico riconosciuto dai redditi, dai privilegi e dai compiti loro assegnati dalla legislazione costantiniana (con il loro prevedibile corredo di simonia, rivalità, scontriviolenti eccetera), mentre gli imperatori si impegnavano sempre più energicamente nelle controversie religiose per garantire un necessario carattere unitario a quella che si accingeva a diventare una religione di Stato. Se Costantino poteva convocare il concilio di Nicea del 325 prima ancora di essere battezzato, pochi decenni dopo sant’Ambrogio era in grado di teorizzare il principio che l’imperatore è nella Chiesa, e non sopra la Chiesa.
Si impose in tal modo una nuova teologia politica, fondata sulla supremazia del sacerdozio sul regno, che invano l’imperatore Giuliano (l’Apostata) cercò di scongiurare nel suo breve regno con una restaurazione dell’antica religione che finì solo con l’incentivare le persecuzioni contro i pagani dopo la sua morte. Mentre anche la violenza diventava un metodo di conversione, le sottili questioni dogmatiche, le lotte antiereticali, il confronto con la filosofia greca imponevano l’inedita autorità dei teologi (figure sconosciute ai culti precedenti) e davano vita al magistero dei primi grandi padri della Chiesa.
Con i decreti conciliari una precisa ortodossia dottrinale si imponeva come legge dello Stato, e di conseguenza l’eresia (alla quale lo scisma veniva omologato) si configurava come un reato politico minaccioso per la stabilità dello Stato. Il Codice teodosiano promulgato nel 438 sancì definitivamente questa criminalizzazione del dissenso religioso. Nel frattempo anche le tenaci persistenze pagane diventavano oggetto di crociata e di conquista da parte «di vescovi zelanti e turbe fanatiche di monaci cristiani» per sostituire il nuovo al vecchio spazio sacro, distruggere gli antichi idoli, insediare le chiese sui templi.
In meno di ottant’anni la Chiesa dei martiri si trasformò nella Chiesa dei persecutori, le pecorelle di Cristo si riconobbero nei fautori di un’aggressiva ierocrazia e la frattura fra la città di Dio e la città dell’uomo teorizzata da sant’Agostino venne ricomponendosi nella cornice asimmetrica di un potere civile fattosi sacro e di una Chiesa fattasi potere (ma fonte della propria e dell’altrui sacralità), i cui rapporti strutturalmente conflittuali sarebbero stati ridefiniti senza tregua dalle vicende storiche (e dai teologi) dei secoli futuri.
Grandi e decisive vicende di secoli lontani, senza dubbio, che tuttavia aiutano a comprendere - conclude Filoramo - alcuni aspetti dell’odierno riproporsi, pur in forma diversa, di una «concezione ierocratica della Chiesa, con conseguenze preoccupanti, a cominciare dalla violazione della libertà di coscienza dei fedeli in nome del rispetto dei supremi interessi legati ai valori non negoziabili».
* Giovanni Filoramo, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Laterza, Roma-Bari, pagg.456, e. 24,00.
La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori. ---- autorizzati da Papi Teologi che hanno sempre teorizzato e cantato in coro le tesi della "Dominus Iesus" - alla Ratzinger e alla Baget-Bozzo. Materiali sul tema:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Nota su tema:
di Enzo Bianchi (La Stampa, 26 novembre 2011)
Titolo essenziale quello scelto da Giovanni Ferretti per una sua organica raccolta di saggi: Essere cristiani oggi (LDC, pp. 184, € 11,50) affronta infatti con profondità e immediatezza «il “nostro” cristianesimo nel moderno mondo secolare», come recita il sottotitolo. Sono considerazioni che l’autore già docente di filosofia teoretica all’Università di Macerata, di cui è stato anche rettore - ha avuto modo di elaborare in questi ultimi anni facendo tesoro di un dialogo fecondo tra filosofia e fede cristiana, in cui il suo essere presbitero della diocesi di Torino non ha costituito un ostacolo ma anzi un prezioso arricchimento. Cogliendo «la crisi ormai irreversibile della cristianità» come uno dei più significativi «segni dei tempi» che i cristiani dovrebbero sapientemente discernere e affrontare anziché negare, Ferretti ne analizza le radici e le manifestazioni, trasformandolo da rassegnata constatazione a stimolo virtuoso per un modo nuovo eppur antico di porsi dei cristiani nella società. Già l’interrogativo che pone in apertura - «tramonto o trasfigurazione del cristianesimo?» - è eloquente sull’approccio offerto dal volume. Se infatti il «tramonto della trascendenza» è una tendenza culturale e sociologica ben più vasta della minor rilevanza di alcune tradizioni cristiane nella società contemporanea, questo può aprire nuove prospettive alla comprensione e all’annuncio di Gesù Cristo e del suo Vangelo: l’uomo Gesù che ha saputo narrare il volto del Padre non costituisce «alcuna opposizione alla piena fioritura dell’uomo, bensì la massima vicinanza e il massimo impegno alla sua più compiuta umanizzazione», come paradossalmente ricorda il teologo protestante Paolo Ricca: «Dio si è fatto uomo perché noi non eravamo ancora uomini».
Proprio per questo il discorso offerto da Ferretti non riguarda solo i cristiani ma anche - e direi forse soprattutto - chi cristiano non è o tale non si ritiene più: «ripensare la risurrezione» in modo anche critico rispetto a un certo immaginario cristiano non è mero esercizio teorico, ma la possibilità di coglierla come «permanenza in Dio, anche dopo la morte, della nostra “identità personale”», come meta finale di ogni essere umano e riscatto di ogni faticosa ricerca di comunione e di gioia condivisa.
Ma la convincente riflessione di Ferretti non si ferma agli aspetti più «rivelativi» della fede cristiana e del suo coniugarsi con l’oggi della storia: passando attraverso un «ripensamento della carità nella società secolarizzata», affronta con lucidità il difficile dialogo con il mondo «laico» sui valori, sulla loro relatività o assolutezza, sulla loro genesi e condivisione, sulle minacce che li sovrastano e le potenzialità anche e soprattutto civili che essi contengono. Decisiva in questo ambito delicato è la dialettica tra «l’assoluto della verità» e «il carattere inviolabile della libertà umana». Per l’autore è quindi evidente che «valori non negoziabili o irrinunciabili non significa e non deve significare “non argomentabili” e tanto meno imponibili all’altro con la forza e la violenza». Un’evidenza che purtroppo non sempre è riconosciuta da tutti, ma che appare indispensabile per una sana crescita di una società civile libera e democratica.