Ratzinger legge san Bonaventura
Il generale dell’ordine del Poverello ammirava la
visione teologica della storia di Gioacchino da Fiore,
ma sottolineava come Francesco, sintesi di «revelatio»
e «humilitas», non avesse avviato il tempo escatologico, ma ne fosse stato l’annunciatore
di ELIO GUERRIERO (Avvenire, 25.01.2008)
Ritorna in libreria, dopo lunga assenza, San Bonaventura. La teologia della storia (Edizioni Porziuncola, pagine 256, euro 28,00), una delle opere fondamentali di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Il giovane studioso si accostò al maestro francescano su invito del suo maestro Gothlieb Söhgen con l’intento di dare un contributo chiarificatore ad un vivace dibattito della teologia del suo tempo.
Nell’incontro tra il pensiero riformato della prima metà del Novecento e il pensiero scolastico prevalente in ambito cattolico emergeva una difficoltà che sembrava insormontabile: lì dove i riformati, in particolare Karl Barth, sottolineavano il carattere di evento della rivelazione che ogni volta pone il credente di fronte alla decisione di aderire, la tradizione cattolica presentava un pensiero metafisico, statico e ben definito, che sembrava prescindere dal carattere ogni volta personale dell’atto di fede. La soluzione verso la quale propendevano alcuni studiosi anche cattolici era quella dell’abbandono della metafisica, della deellenizzazione che sembrava antitetica rispetto all’originale carattere semitico della fede.
Nella prefazione all’edizione italiana, e a quella americana, Ratzinger già cardinale ha continuato a sottolineare l’attualità del tema trattato. All’epoca nel cassetto aveva ancora degli appunti per un’ulteriore messa a punto che speravo di trovare all’inizio della nuova edizione. Non è stato evidentemente possibile.
Il punto di partenza di Ratzinger è l’opera Exaémeron, i sei giorni della creazione del mondo, uno degli ultimi scritti di san Bonaventura, nella quale il maestro francescano, a un anno dalla morte, si confrontava ancora con le correnti spirituali presenti nell’ordine e indirettamente con Gioacchino da Fiore. Entusiasti dell’insegnamento dell’abate cistercense che permetteva loro di riconoscere in Francesco l’iniziatore della nuova età dell’amore contrapposta a quella della legge, gli spirituali più radicali, tra i quali vi era anche il predecessore di san Bonaventura, rischiavano di portare l’ordine fuori dalla Chiesa.
Bonaventura, eletto generale dell’ordine proprio per affrontare una questione così delicata, nei primi anni del suo mandato si immerse nello spirito del fondatore, ne scrisse una nuova biografia, soprattutto meditò sul significato della sua venuta. Nel confronto con Gioacchino, di cui apprezzava la visione teologica della storia, introduceva una precisazione che eliminava ogni equivoco. L’abate calabrese come Francesco non avviava il tempo escatologico, ma ne era l’annunciatore.
Paragonabile a quei semplici per i quali Gesù aveva esultato, il Poverello aveva ricevuto in dono una superiore intelligenza spirituale della Scrittura. Insieme alla revelatio, però, egli aveva ricevuto l’humilitas di modo che si può stabilire un nesso essenziale tra questi due doni dello Spirito. Per Bonaventura questo fa sì che il magistero non debba essere avvertito come un peso, bensì come garante che assicura la comunione con il popolo santo della Chiesa. Coloro che ricevono le rivelazioni - san Bonaventura usa il termine al plurale - sono in intima familiarità con il mistero di Dio e sono in comunione con la Chiesa gerarchica e con il popolo di Dio. In conclusione l’opera di Ratzinger rispondeva pienamente all’ipotesi di ricerca: anche nella tradizione cattolica il concetto di rivelazione porta dentro di sé il carattere di adesione personale e di urgenza.
Un’acquisizione fondamentale che Ratzinger insieme con de Lubac fece valere già al tempo della Costituzione conciliare sulla Divina rivelazione e che è rimasta presente nella sua teologia e nei suoi scritti. Un’altra peculiarità guadagnata dall’incontro con Bonaventura e che da allora è un tratto distintivo del pensiero e dell’opera del papa è la centralità e familiarità con Cristo. A quest’ultima invitava i fedeli nel suo Gesù di Nazareth.
IL SANTO. Da Bagnoregio a vertice dell’ordine francescano
Bonaventura nacque a Bagnoregio presso Viterbo nel 1217. Suo padre era probabilmente medico. Da bambino guarì da una grave malattia grazie all’intercessione di san Francesco. Di qui una grande venerazione verso il santo di Assisi e la decisione di entrare nell’ordine da lui fondato.
Appassionato degli studi nel 1238 si recò a Parigi per portare a termine il suo percorso formativo. Ottenne la licenza in Teologia e successivamente, dopo il 1250, fu nominato maestro.
Dopo pochi anni, nel 1257, lascio l’insegnamento poiché eletto ministro generale dell’ordine francescano. Restò in carica fino al 1273 quando il papa Gregorio X lo nominò cardinale. Come tale partecipò al concilio di Lione e svolse un ruolo nelle trattative unionistiche con i greci. Morì a Lione il 15 luglio 1274. All’apice del Medioevo, contemporaneo di san Tommaso d’Aquino e come lui professore a Parigi, elaborò un pensiero caratterizzato dalla fiducia nella tradizione. Legato a sant’Agostino, ne condivise il primato dell’amore, l’immagine trinitaria riflessa nello spirito creato. Confluiva poi in lui la linea di pensiero avviata da Dionigi l’Areopagita. Tra le sue letture vi erano Anselmo con la sua prova ontologica ed ancor più la teologia spirituale di san Bernardo. Questo patrimonio culturale-spirituale ruotava, tuttavia, intorno al pensiero e alla vita francescana che è il punto sorgivo da cui trae origine ed irradia la teologia e la concezione della vita cristiana di Bonaventura.
Elio Guerriero
SCHEDA 2
IL BEATO.Gioacchino da Fiore e le tre età della storia
Nato a Celico da ricca famiglia nel 1130 circa, Gioacchino da Fiore ricevette un’educazione classica nella vicina Cosenza, prima di entrare in seminario e divenire monaco cistercense. Nel 1188 fondò sulla Sila il convento di San Giovanni in Fiore e l’ordine dei florensi, che riceveranno l’approvazione di papa Celestino III il 25 agosto del 1196. Nei suoi scritti Gioacchino, partendo dal dogma della Trinità, divise la storia dell’uomo in tre epoche fondamentali: quella del Padre, corrispondente alle narrazioni dell’Antico Testamento; quella del Figlio: rappresentata dal Vangelo e compresa dall’avvento di Gesù fino al 1260; e quella dello Spirito Santo: dal 1260 in avanti, ovvero quel periodo in cui l’umanità, attraverso un clima di purezza e libertà, avrebbe avuto un contatto diretto con Dio. I suoi seguaci, i gioachimiti, estremizzarono alcune sue proposizioni escatologiche, tanto che il concilio Lateranense IV dichiarò eretiche alcune tesi attorno alla Trinità falsamente attribuite al beato, morto nel 1202.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Deus caritas est". Sul Vaticano, in Piazza San Pietro, il "Logo" del Grande Mercante.
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
fls
DOTTA IGNORANZA (1440), "PACE DELLA FEDE" (1453), E RILANCIO DI UN "NUOVO" #PRESEPE "FRANCESCANO" (ALL’ORIGINE DELLA "CAPPELLA SISTINA"): #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTO IV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
Federico La Sala #ARCHEOLOGIA, #FILOLOGIA, E #STORIAELETTERATURA ...
Un invito alla lettura di un "vecchio" lavoro di #ricerca di Arnalda Dallaj:
"#ORAZIONE E #PITTURA TRA «#PROPAGANDA» E #DEVOZIONE AL TEMPO DI #SISTOIV. [...] A proposito del dibattito sull’Immacolata Concezione e delle vivacissime forme che lo caratterizzarono tra l’ottavo decennio del #Quattrocento e gli inizi del #Cinquecento sono state utilizzate di recente espressioni come « mezzi pubblicitari » e «manifesti dottrinali» ponendo così l’accento sull’intensa ricerca, da parte delle istituzioni ecclesiastiche, di appropriati canali di comunicazione per ampliare il confronto sulla dottrina che, proprio in quel secolo, aveva conquistato basi più salde, anche se il definitivo assestamento maturerà solo nel 1854. Una data cardine fu il 1477, allorché il #papa #francescano Sisto IV autorizzò la celebrazione della festa e approvò l’Ufficio, appositamente composto da Leonardo Nogarolo, concedendo ampia indulgenza per la partecipazione alla liturgia. La tesi della « preservazione » di Maria dal peccato originale, pur trovando sempre maggiori consensi, continuò ad essere avversata soprattutto dai Domenicani. [...]" (cf. Arnalda DALLAJ: "IL CASO DELLA MADONNA DELLA MISERICORDIA DI GANNA").
La teologia di Joseph Ratzinger
di Massimo Borghesi (Insula europea, 2 gennaio 2023)
Nei commenti che si succedono sulla figura di papa Benedetto l’attenzione cade sulla sua persona, il suo stile, la sua umanità dolce e gentile. Tutto ciò è importante. Ratzinger ha saputo, nonostante il suo riserbo, conquistarsi la stima e l’affetto di milioni di uomini. E tuttavia colui che ha governato la Chiesa per otto anni, dal 2005 al 2013, è stato grande anche per il modo in cui ha percepito l’essenza del cristianesimo nel mondo contemporaneo. Un modo che si riflette nella sua scelta di scrivere tre encicliche dedicate alle tre virtù teologali: Deus caritas est (2005), Spe salvi (2007), Lumen fidei, del 2013 che esce sotto il nome del nuovo papa Francesco. Che si manifesta altresì nella decisione di scrivere e pubblicare tre volumi sulla vita di Gesù di Nazareth nel 2007, nel 2011, nel 2012. Ciò che si palesa, nelle encicliche e nei volumi è un modo storico di intendere la fede.
La teologia di Ratzinger è storica, questo è il lascito spirituale ed intellettuale che egli consegna alla Chiesa. Illuminante, da questo punto di vista, è la sua biografia, il documento che, più di altri, ci apre le porte sulla sua formazione. Qui Ratzinger chiarisce gli autori che, nei suoi studi giovanili, ha sentito affini, e quelli, invece, verso cui maturava una distanza. La teologia di Ratzinger è, da subito, una teologia esistenziale, personalistico-agostiniana, distante dai moduli astratti della neoscolastica dominante prima del Concilio: “L’incontro con il personalismo, che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale, anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino che, nelle Confessioni, mi venne incontro in tutta la sua passionalità e profondità umane. Ebbi, invece, delle difficoltà nell’accesso al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e preconfezionata. Ciò dipese probabilmente anche dal fatto che il filosofo del nostro seminario, Arnold Wilmsen, ci presentava un rigido tomismo neoscolastico, che per me era semplicemente troppo lontano dalle mie domande personali[1]“.
La distanza del giovane Ratzinger dall’intellettualismo neoscolastico non prelude ad un atteggiamento antimetafisico come documenta la sua insistenza, da Papa, sul nesso fondamentale tra fede e ragione. Indica, però, una sottolineatura particolare della dimensione storica della fede la cui attualità non può essere esaurita da nessuna trascrizione filosofica. Il primato della realtà sull’idea, che costituisce un principio fondamentale della gnoseologia di Jorge Mario Bergoglio, è un punto fermo anche in Ratzinger. Ciò implica, dal punto di vista cristiano, un accordo tra storia della salvezza e metafisica che non sacrifichi la prima alla seconda e questo senza acconsentire al fideismo tipico della posizione protestante.
Come scriverà l’autore nella prefazione americana del suo volume del 1959 San Bonaventura. La teologia della storia: “quando nell’autunno del 1953 iniziai il lavoro di preparazione per questo studio, una delle questioni che occupavano un posto di primo piano all’interno dei circoli teologici cattolici di lingua tedesca era la questione concernente la relazione tra storia della salvezza e metafisica.
Si trattava di un problema sorto soprattutto dai contatti con la teologia protestante che, sin dai tempi di Lutero, tendeva a vedere nel pensiero metafisico un allontanamento dall’istanza specifica della fede cristiana, la quale non indica semplicemente all’uomo la via verso l’eterno ma verso quel Dio che opera nel tempo e nella storia. A questo riguardo sorsero interrogativi di carattere differente e di diverso ordine.
Come può divenire storicamente presente ciò che è avvenuto? Come può avere un significato universale ciò che è unico e irripetibile? Ma, d’altra parte, la “ellenizzazione” della cristianità, che tentò di vincere lo scandalo del particolare attraverso una miscela di fede e metafisica, non ha forse portato ad uno sviluppo in direzione sbagliata? Non ha creato uno stile statico di pensiero che non è in grado di rendere giustizia al dinamismo dello stile biblico? Queste domande esercitarono su di me un forte influsso ed io intendevo dare il mio contributo per rispondere ad esse[2]“.
Il giovane Ratzinger partecipava qui ad una tendenza che qualificava la parte migliore del pensiero cattolico, unitamente a quello protestante, del Novecento. Come scriveva Hans Urs von Balthasar nel 1951: «È certamente vero che oggi la teologia cattolica è dominata dall’inarrestabile tendenza a comprendere la storicità nella sua ampiezza e profondità. Preparato in Germania dalla scuola di Tubinga, in Francia da Blondel e Laberthonnière, in Inghilterra dalla scuola di Oxford e da Newman, questo movimento è rappresentato da tutti i maggiori pensatori cattolici»[3].
Nel contesto di allora questa direzione doveva muoversi evitando due tendenze contrarie: quella modernista condannata da Pio XII con la Humani generis, che favoriva il disprezzo degli aspetti razionali e filosofici della teologia; lo scolasticismo arido e razionalistico di un certo tomismo ufficiale dimentico della storicità della Rivelazione. Fuori da questi estremi si muoveva la riflessione di colui che Ratzinger ha sempre considerato come suo «maestro»: Gottlieb Söhngen, professore di teologia fondamentale presso la facoltà teologica di Monaco di Baviera. In Germania Söhngen è uno dei primi che avvia un ripensamento della teologia come historia salutis, centrale poi nel Concilio Vaticano II.
In un saggio del 1967 Ratzinger osserverà come «non si è ancora studiato il problema di quando e dove precisamente abbia avuto luogo la ricezione dell’idea di storia della salvezza in ambito cattolico. A mio modo di vedere nell’ambito della lingua tedesca per primo fu Gottlieb Söhngen che individuò il problema nel dialogo con Karl Barth ed Emil Brunner»[4]. Per Söhngen, il quale sottolineava «con forza che la verità del cristianesimo non è quella di un’idea valida in generale, ma la verità di un fatto avvenuto una volta sola»[5], la complementarità tra modello metafisico-astratto e quello storico-concreto era la chiave del discorso cattolico. Sotto la guida del suo maestro anche il giovane Ratzinger avvertiva l’urgenza di una concezione storica della salvezza come correttivo di un modo di impostare le questioni eccessivamente dislocato sul terreno metafisico.
Il primo lavoro di Ratzinger, su suggerimento di Söhngen, è la dissertazione per il dottorato su Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino. Una ricerca preziosa in cui l’autore tentava «di approfondire il modo in cui la concezione storica è andata sempre più imponendosi in Agostino nei confronti di una posizione inizialmente quasi puramente ontologica»[6].
Agostino, quindi, come correttivo all’eredità della scolastica, contrassegnata da un pensiero astorico. Correttivo parziale, però, nella misura in cui «Agostino nel De civitate Dei interrompe la storia dello stato di Dio con la nascita di Cristo e non include la storia della Chiesa nella sua considerazione»[7]. Vero è che «una certa valenza propria della storia della Chiesa si afferma manifestamente nei noti racconti di miracoli del De civitate Dei, XXII 8 col 760-771. Teologicamente questi racconti significano senza dubbio un nuovo sviluppo del pensiero di Agostino»[8]. Una direzione feconda che, tuttavia, richiedeva una riflessione ulteriore.
È in questa prospettiva che si situa il secondo lavoro di Ratzinger, la tesi di abilitazione per la libera docenza in teologia, a Monaco, San Bonaventura. La teologia della storia. Il grande maestro francescano offriva, al giovane teologo, la possibilità di delineare una teologia della storia comprensiva della Chiesa, capace quindi di delineare la presenza di Cristo nel tempo. Un cristocentrismo, quello bonaventuriano, che non incorreva nella trasformazione della necessità fattuale in quella metafisica. Il che è quanto accade, nel Novecento, nella dottrina della creazione, radicalmente cristologica, di Karl Barth, e, nel Medioevo, nella teologia francescana - e qui Ratzinger pensa a Duns Scoto -, «la quale si presenta dapprima come rigorosamente storico-salvifica, cioè cristologica, poi però nella esasperazione di tale punto di partenza dà all’insieme un ruolo metafisico nell’idea della praedestinatio absoluta di Cristo e raggiunge così l’abbandono del progetto originariamente storico-salvifico»[9]. La cristologia metafisica corre costantemente il rischio di risolvere la verité de fait nella verité de raison, di schiacciare l’Evento nella struttura, l’Unico nel modello. Non così in Bonaventura, per il quale Cristo come «centro» è inizio di una storia nuova al cui culmine v’è, nel tempo a lui presente, la figura cristologica di Francesco d’Assisi, la figura della santità come dilatazione di Cristo nel tempo.
Il tragitto ideale da Agostino a Bonaventura diviene in tal modo, nel giovane teologo, la via di scoperta della teologia della storia, di un approccio storico al cristianesimo. È a questo livello che si pone la differenza tra la sua prospettiva teologica e quella di Karl Rahner: “La sua teologia [di Rahner] - malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni - era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e della sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui alla fin fine la Scrittura e i padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai padri, da un pensiero essenzialmente storico. In quei giorni [durante il Concilio, nel 1962] ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui ero passato, e quella di Rahner[10]“.
Una differenza essenziale, tra teologia trascendentale di ascendenza idealistico-kantiana e teologia realistico-storica, che attraverserà tutto il pensiero teologico post.conciliare e troverà la sua espressione dialettica nelle due riviste che qualificheranno due indirizzi ideali: «Concilium» da un lato e «Communio» dall’altro. La riflessione di Ratzinger si poneva al di là della frattura che segna la teologia cristiana odierna, divisa tra una storia della salvezza radicalmente contraria alla metafisica - come accade nella teologia protestante (Barth, Bultmann, Culmann, Moltmann) - e un cristocentrismo ontologico (trascendentale o cosmico), di matrice cattolica, che svuota la novità della storia della salvezza.
Il pensiero cristiano, secondo Ratzinger, se voleva avere un futuro doveva ritrovare la giusta «tensione fra ontologia e storia», la quale «ha il suo fondamento ultimo nella tensione dello stesso essere umano, che dev’essere fuori di sé per poter essere in sé»[11]. Si rende così manifesto come «salvezza in quanto storia dice proprio che l’uomo non trova la salvezza nel venire-a-sé della riflessione, ma nell’essere portato-via-da-sé che va oltre la riflessione»[12].
Con ciò viene in primo piano la categoria dell’extra, dell’evento, di ciò che sta fuori del cerchio dell’io. È qui che si apre la dimensione storica della fede: “La fede poggia sul fatto che ci viene incontro qualcosa (o qualcuno) a cui la nostra esperienza di per sé non riesce a giungere. Non è l’esperienza che si amplia o si approfondisce - come nel caso dei modelli rigorosamente “mistici” - ma è qualcosa che accade. Le categorie di “incontro”, “alterità” (alterité, Lévinas), evento, descrivono l’intima origine della fede cristiana e indicano i limiti del concetto di “esperienza”. Indubbiamente ciò che ci tocca ci procura esperienza, ma esperienza come frutto di un evento, non di una discesa nel profondo di noi stessi. È proprio questo che si intende col concetto di rivelazione: il non-proprio, ciò che non appartiene alla sfera mia propria, mi si avvicina e mi porta via da me, al di là di me, crea qualcosa di nuovo. Questo è ciò che determina anche la storicità della realtà cristiana, che poggia su eventi e non sulla percezione della profondità del proprio intimo[13]“.
Forte di questa prospettiva Ratzinger ha criticato, con profonda competenza, gli indirizzi razionalistici derivati da un uso improprio del metodo storico-critico in sede esegetica. Un metodo che, laddove non venga assunto con consapevolezza critica, soggiace al dualismo illuministico tra verità di ragione e verità di fatto. È quanto accade nella teologia kerygmatica di Rudolf Bultmann: “Per Dibelius, Bultmann e la corrente principale dell’esegesi moderna, l’evento è l’elemento irrazionale. Esso appartiene al dominio della pura fatticità, composta dal caso e dalla necessità. Come tale, il fatto non può essere portatore di senso. Questo senso non è che nella parola; e là dove gli avvenimenti stessi sembrano essere portatori di senso, bisogna piuttosto considerarli come illustrazioni della parola e ad essa occorre riferirli[14]“.
Questa impostazione, riducendo l’evento storico a fatto “particolare”, irrazionale, si vieta, apriori, la possibilità che Dio possa manifestarsi nella storia. L’invisibile non può farsi visibile, il Verbo non può farsi carne. Con ciò questo metodo dimostra di essere legato ad una pregiudiziale che condiziona il lavoro della ragione. Diversamente, secondo Ratzinger: “occorre considerare tanto la parola quanto l’evento come originali, se si desidera restare fedeli alla prospettiva biblica. Il dualismo tra la parola e l’evento, che relega l’evento in una regione «senza parola», cioè senza significato, in realtà toglie anche alla parola la sua forza significante, perché questa si trova allora in un mondo privo di senso. Questo dualismo conduce ad una cristologia docetista, in cui la realtà, cioè l’esistenza concreta e carnale del Cristo e quella dell’uomo in generale, è esclusa dall’ambito del significato. Ma in questo modo si perde l’essenza della testimonianza biblica[15]“.
Questa “testimonianaza biblica”, fondata sulla realtà storica, è al cuore della teologia di Ratzinger. Per essa, da teologo e da Papa, si è battuto contro le forme “docetiste”, gnostiche, che svuotano, oggi come ieri, il messaggio cristiano, che impediscono al Verbo di farsi “carne”. È il lascito che consegna alla Chiesa e al pensiero cattolico. Come ha scritto nel suo testamento spirituale: “Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita - e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo[16]“.
[1] J. RATZINGER, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 44.
[2] J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, Edizioni Porziuncola, Assisi 2008, pp. 9-10.
[3] H. U. VON BALTHASAR, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1977, p. 358.
[4] J. RATZINGER, Storia della salvezza ed escatologia, in ID., Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1971, p. 74.
[5] Op. cit., p. 75.
[6] J. RATZINGER, San Bonaventura. La teologia della storia, cit., p. 114, nota 88
[7] J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1971, p. 321, nota 27.
[8] Op. cit., p. 321, nota 29.
[9] Op. cit., p. 318, nota 15.
[10] J. RATZINGER, La mia vita. Autobiografia, cit., p. 95.
[11] J. RATZINGER, Salvezza e storia, in Storia e dogma, cit., p. 110.
[12] Op. cit., p. 109.
[13] J. RATZINGER, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, pp. 91-92
[14] J. RATZINGER, L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea, in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Piemme, Casale Monferrato 1991, p. 118.
[15] Op. cit., p. 120.
[16] L’integrale. Ecco il testamento spirituale di Benedetto: “Grazie a Dio e famiglia” («Avvenire» 31-12-2022).
LETTERA INASPETTATA
Il papa emerito Benedetto XVI scrive a sorpresa al presidente del centro dedicato a Gioacchino da Fiore
Nella lettera si esprime un ringraziamento verso l’attività che sta portando avanti il Centro Studi con la pubblicazione delle opere dell’abate calabrese
di Franco Laratta (LaCNews", 5 settembre 2022)
Il papa emerito, Benedetto XVI, a sorpresa scrive al presidente del centro internazionale di studi gioachimiti, Riccardo Succurro: "Quando negli anni Cinquanta scrissi il mio lavoro sulla Teologia della storia di San Bonaventura dovetti utilizzare l’edizione del cinquecento, pubblicata nella Repubblica di Venezia. A quel tempo- scrive il papa emerito al presidente del Centro Studi - Gioacchino da Fiore era ancora considerato un sognatore sulla cui opera si preferiva tacere. Da allora l’opera di Gioacchino è stata al centro di ampi dibattiti e il silenzioso abate di Fiore si meraviglierebbe di tutto quello che oggi gli si attribuisce".
Nella sua analisi, Benedetto esprime un significativo apprezzamento verso l’operazione culturale più importante che sta svolgendo da quarant’anni il Centro Studi, la pubblicazione delle opere di Gioacchino da Fiore che consente di poter attingere al pensiero dell’abate calabrese e non alle interpretazioni e manipolazioni che ne hanno caratterizzato la lettura: "Per questo la pubblicazione di una moderna edizione critica dei suoi scritti rappresenta un’assoluta necessità, alla quale Lei ha corrisposto con il Suo Centro Internazionale di Studi Gioachimiti". Il papa emerito ha infine chiesto l’invio dei libri pubblicati dal Centro Studi di San Giovanni in Fiore.
Perché tutto questo interesse verso Gioacchino da Fiore da parte di uno dei più grandi intellettuali del ‘900? Per darsi una risposta bisogna andare indietro nel tempo, fino agli anni cinquanta, quando Ratzinger scrisse un lavoro molto importante: "San Bonaventura. La teologia della storia", pubblicato successivamente dalla Porziuncola nel 2008. Ratzinger ha approfondito il confronto tra la concezione della storia di Bonaventura e quella dell’abate di Fiore ed ha studiato l’influsso di Gioacchino su Bonaventura.
Secondo Ratzinger, san Bonaventura ha accolto la concezione gioachimita di Cristo "centro dei tempi", e non solo "fine dei tempi". Ratzinger sostiene che "l’idea di considerare Cristo l’asse dei tempi è estranea a tutto il primo millennio cristiano ed emerge solo in Gioacchino... che divenne, proprio nella Chiesa stessa, l’antesignano di una nuova comprensione della storia che oggi ci appare essere la comprensione cristiana in modo così ovvio da renderci difficile credere che in qualche momento non sia stato così."
C’è anche da sapere che il cardinale Ratzinger nel corso dei suoi studi e delle sue ricerche si è più volte confrontato con il pensiero dell’Abate Gioacchino. Durante il suo pontificato, che si è concluso con le clamorose dimissioni, è ripreso con maggiore vigore il processo di beatificazione di Gioacchino. Benedetto XVI con questa sua ultima lettera ha inteso sottolineare lo straordinario ruolo che da 14 anni svolge a livello internazionale il Centro Studi Gioachimiti, chiedendo quindi materiale e libri sul pensiero dell’Abate.
CRISTIANI NEL MONDO MUSULMANO
Quando il Cristianesimo incontra l’Islam: San Francesco e il Sultano
di Viviana Schiavo *
La conversione di Francesco
La storia del Patrono d’Italia è quella, ordinaria, di un giovane nato da famiglia agiata, destinato a una vita di privilegi. Il suo sogno uguale a quello di molti suoi coetanei: diventare cavaliere. Un progetto ambizioso, che subisce una svolta inaspettata. Nel 1203, mentre cerca di raggiungere Lecce per imbarcarsi verso Gerusalemme e partecipare alla IV crociata, bandita dal “Servo di Dio” Papa Innocenzo III, una rivelazione cambia la rotta della vita di Francesco. «Perché cerchi il servo in luogo del padrone?», gli chiede Dio in una visione notturna, secondo le parole del Santo. L’ordine è quello di tornare ad Assisi.
Da quel momento in poi, racconta Tommaso da Celano, Francesco «mutò le armi mondane in quelle spirituali, ed in luogo della gloria militare ricevette una investitura divina»[1]. È con questo invito a seguire il padrone, invece del servo, che Francesco si trasforma, secondo i suoi confratelli, in autentico e spirituale Miles Christi, soldato di Cristo, cioè colui che ama il nemico, invece di ucciderlo. Si tratta di un’espressione attribuita, a partire da S. Bernardo, ai crociati, ma che affonda le sue radici in S. Paolo, con un’accezione tutta spirituale: «Insieme con me prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù» (2Tim 2,3). Non è Francesco a usarla per sé. Piuttosto i biografi, dopo il racconto della visione, iniziano ad attribuirla al Santo, recuperandone il senso originario. L’invito alla pace diventa allora un pensiero costante per il giovane. Al capitolo XIV della sua Regola non Bollata, scrive infatti che «quando i frati vanno per il mondo», in qualunque casa entrino, devono augurare la pace: «non resistano al malvagio; ma se uno li percuote su una guancia, gli offrano l’altra. [...] Diano a chiunque chiede; e a chi toglie il loro, non lo richiedano»[2].
La V crociata e l’incontro con il Sultano
Qual è la posizione di Francesco sulle crociate e la guerra? Non lo sappiamo con certezza. Il Santo non si è mai espresso a riguardo in modo netto e chiaro. Proprio questo silenzio è stato interpretato, nel tempo, in modi diversi. Tra gli storici c’è chi ha criticato fortemente la visione di un Francesco “pacifista”, vista come un’elaborazione strumentale, un “mito” recente. Alcuni, come Michetti, hanno postulato un consenso-assenso, secondo cui la mancanza di scritti di Francesco sulla questione e il suo rispetto delle gerarchie indicherebbero una mancanza di critica, se non talvolta un’approvazione della crociata[3]. Altri studiosi, come Massignon e Basetti-Sani, hanno invece visto nello spirito francescano i semi di un’opposizione netta[4]. Ciò che sappiamo è che nel 1219, nel corso della V crociata, Francesco si imbarca per raggiungere la Terra Santa. Del viaggio dall’Italia si conosce poco. Le fonti, spesso di parte, presentano diverse lacune. L’unico scorcio ce lo offre Tommaso da Celano, secondo il quale è «l’ardore della carità» a muoverlo: «tentò di partire verso i paesi infedeli, per diffondere, con l’effusione del proprio sangue, la fede nella Trinità»[5].
La destinazione finale è il centro dei combattimenti, Damietta, la città sul delta del Nilo considerata dai crociati la chiave per raggiungere il Cairo e andare al cuore dell’esercito musulmano, nell’impossibilità di conquistare Gerusalemme. Ad accompagnare il Santo c’è probabilmente fra’ Illuminato, chiamato così perché si dice miracolato e guarito dalla cecità dallo stesso Francesco. I biografi non raccontano molto sulla permanenza dei due frati nel campo di Damietta. Sicuramente incontrano diversi re cristiani e il legato apostolico, Pelagio Galvan. Pelagio è un uomo autoritario, in dissenso, all’interno del campo, con il re Giovanni di Gerusalemme ed altri capi della crociata. Motivo di divisione era la proposta fatta dal Sultano di porre fine alle ostilità in Egitto, cedendo Gerusalemme ai crociati. Il mite re Giovanni di Brienne vuole accettare l’accordo. Pelagio la pensa diversamente: vuole continuare la guerra per distruggere definitivamente l’armata musulmana il cui cuore, a suo parere, risiede proprio in Egitto.
Il 29 agosto del 1219 l’esercito crociato subisce una clamorosa sconfitta: più di sei mila cristiani muoiono in battaglia. È tra questo momento di lutto e la vittoria finale dei musulmani, nel novembre dello stesso anno, che Francesco va dal Sultano. Nonostante la mancanza di dati certi da parte dei biografi e di testi arabi che descrivano l’incontro, le testimonianze esistenti che ne attestano la storicità sono diverse e provengono da fonti francescane e fonti crociate, come gli scritti del cardinale Jacques de Vitry, presente nel campo di Damietta all’epoca degli avvenimenti. Sull’attendibilità delle Fonti Francescane il dibattito è ancora aperto[6]. Una fonte araba confermerebbe infine la presenza di un monaco cristiano presso la corte di al-Kāmil: è l’epigrafe di Fakhr ad-Din al-Fārisī, direttore spirituale del Sultano.
Non possiamo sapere con certezza cosa si dissero S. Francesco e Malik al-Kāmil. Con sicurezza, sappiamo solo che il Sultano d’Egitto accolse il poverello d’Assisi e lo rilasciò incolume, fatto di per sé strabiliante visto il periodo di forte tensione tra musulmani e cristiani. Inoltre, tutte le principali fonti dell’epoca sono concordi nel presentare lo spirito di coraggio che animava Francesco e la saggezza che caratterizzava il Sultano. Malik al-Kāmil, nipote di Saladino e Sultano di Egitto e Palestina, era un uomo di cultura, conosciuto per la sua giustizia e per il suo interesse verso le discussioni scientifiche e religiose. Dalle cronache cristiane sappiamo anche che non era un guerrafondaio: secondo le parole del cardinale Jacques de Vitry, la sua benevolenza «nei riguardi dei cristiani crociati divenne sempre più grande»[7].
Del contenuto dell’incontro parlano alcune fonti cristiane, tra cui quelle francescane e la Cronaca d’Ernoul, datata 1227-1229. In entrambe le versioni, Francesco riesce a parlare con il Sultano e ad annunciare la sua fede in Cristo, dichiarando a motivo della sua visita la salvezza di al-Kāmil e del suo popolo. A questo scenario, la Cronaca d’Ernoul aggiunge dei dettagli interessanti. Secondo questo testo, il frate di Assisi, interrogato dal Sultano, chiede di poter parlare con lui, anche alla presenza dei suoi dottori, per dimostrar la verità della fede cristiana e la falsità della loro. Il rifiuto dei dottori è categorico[8]. Il racconto prosegue con il Sultano che invita i due frati a restare con lui: Francesco e Illuminato declinano la proposta, così come quella di prendere dell’oro e dell’argento. Se non possono rendere la sua anima e quella del suo popolo a Dio, nulla ha più valore. Vogliono solo tornare nel campo cristiano. La versione concorda con quella di Jacques de Vitry, soprattutto per quanto riguarda l’attraversata coraggiosa dei due frati e l’incontro rispettoso con il Sultano. Il cardinale racconta infatti che «[Francesco] partì per il campo del Sultano d’Egitto senza alcuna paura, forte dello scudo della fede», mentre quest’ultimo venne «convertito alla dolcezza dallo sguardo di quest’uomo di Dio»[9]. Al contrario dell’Ernoul però, il cardinale racconta che Francesco non solo si professò cristiano, ma ebbe modo di parlare al Sultano della sua fede in Cristo nel corso di diversi giorni e di essere ascoltato. Un racconto confermato da San Bonaventura, il quale al contempo, come l’Ernoul e riportando le parole di fra’ Illuminato, descrive un Sultano talmente colpito dal Santo da chiedergli di restare presso la sua corte. Anche in questa versione, Francesco rifiuta, affermando di essere disposto a rimanere solo nel caso di una conversione di al-Kāmil al cristianesimo. Per convincerlo, gli propone la famosa ordalia del fuoco: «Io, con i tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale fede, a ragion veduta, si deve ritenere più certa e più santa»[10]. Una prova che il Santo è disposto a fare anche da solo. Sappiamo però che questo tipo di ordalia, era stata abolita da papa Innocenzo III nel Concilio Lateranense IV. Per questa ragione e visto il carattere umile del Santo, molti storici hanno rifiutato la veridicità di questa offerta. Il racconto di San Bonaventura prosegue con il Sultano che non accetta la prova, per timore, secondo fra’ Illuminato, di una sedizione popolare. Nuovamente appare l’offerta da parte di Malik al-Kāmil di doni preziosi che Francesco rifiuta, con grande ammirazione del Sultano. Questo allora gli propone di accettare quei doni per offrirli ai poveri e alle chiese, ma Illuminato racconta l’ulteriore rifiuto di Francesco, giustificato dal desiderio di rimanere libero dal denaro[11].
Le interpretazioni e la Regola Non Bollata
Negli 800 anni trascorsi da quello storico e misterioso incontro, molti sono stati gli interrogativi sorti, le rappresentazioni e le interpretazioni di cui è stato fatto oggetto. Come ci ricorda John Tolan, autore dell’opera più esaustiva sulle rappresentazioni di quell’incontro, l’evento non ha smesso di nutrire l’immaginario letterario, storico e artistico. Contesto e preoccupazioni storiche hanno determinato la lettura che ne hanno fatto le singole epoche.
Alcuni autori del XV secolo, per esempio, sottolineano la violenza del Sultano e del suo esercito. Il Santo è allora rappresentato, in diversi quadri, mentre legato viene portato violentemente davanti ad un Sultano poco incline ad ascoltarlo. Al contrario, col declino dell’impero ottomano e il depotenziamento delle armate musulmane, i filosofi illuministi del XVIII secolo, critici verso gli ordini religiosi, presentano Francesco come un fanatico pazzo davanti ad un Sultano saggio. Tra il XIX e il XX secolo, la visione è quella di un’azione civilizzatrice, che incarna a pieno lo spirito di bontà attribuito alle colonizzazioni dell’epoca. Conquista militare e evangelizzazione andavano, infatti, di pari passo.
Solo tra il XX e il XXI secolo, in un’ottica di critica alle crociate, l’incontro assume dei colori differenti, diventando esempio e modello di uno spirito di dialogo. L’opera di Francesco diventa sempre di più quella di un uomo che ha cercato un’alternativa pacifica alle crociate[12]. È un’interpretazione contestata, ma che ben si sposa con le posizioni del Santo sulla fraternità, l’amore al nemico e il rapporto con i musulmani. Come anticipato, Francesco non condanna apertamente la guerra e le crociate e la sua opinione a riguardo non può essere definita con certezza. Ma sappiamo quello che afferma sull’amore al nemico, che per imitatio Christi, diventa amico. Fortemente presente nella memoria del poverello di Assisi è infatti il comandamento di Cristo ad amare il nemico, tanto da scrivere, al capitolo 22 della regola che, sull’esempio di Cristo che «chiamò amico il suo traditore [...], sono, dunque, nostri amici tutti coloro che ingiustamente ci infliggono tribolazioni e angustie, ignominie e ingiurie, dolori e sofferenze, martirio e morte, e li dobbiamo amare molto poiché, a motivo di ciò che essi ci infliggono, abbiamo la vita eterna»[13].
Una visione particolare, considerato che il sentire dell’epoca vede i musulmani come dei nemici «immondi», come li definì Papa Urbano II nel famoso discorso di Clermont. Al contrario, Francesco dedica loro un intero capitolo della sua Regola. Estremamente interessante è la versione contenuta nella Regola non bollata del 1221, scritta quindi appena due anni dopo l’incontro con il Sultano, che non lascia dubbi sulla visione francescana dell’evangelizzazione. Francesco comanda ai frati di andare «come agnelli in mezzo ai lupi», laddove la pecora è simbolo dell’umiltà di Cristo.
I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio[14].
I frati non devono quindi nascondere la propria fede. Tuttavia, la professione non ha lo scopo di creare ostilità, né di offendere l’altro. E se Francesco non parla apertamente di fraternità universale, l’umiltà rimane primaria caratteristica dell’ordine e il servizio agli altri una costante. Questi altri non sono più solo i cristiani, ma «ogni creatura umana» a cui i frati devono essere soggetti «per amore di Dio». Il primo compito è quello della testimonianza della vita, più importante delle parole, come ribadisce in diversi scritti: «E tutti i frati si guardino dal calunniare alcuno, e evitino le dispute di parole», scrive al capitolo XIX della stessa Regola. Le parole rischiano di essere sterili. Sono gli atti che permettono di aprire i cuori e manifestare l’amore di Cristo: «Tutti i frati, tuttavia, predichino con le opere»[15]. In un secondo momento può arrivare l’evangelizzazione vera e propria, ma solo «quando piace al Signore». Sono queste le indicazioni che hanno accompagnato l’ordine francescano in questi 800 anni, permettendogli di rimanere presente pacificamente in Terra Santa.
È in questa accezione che lo spirito di Assisi diventa un modello a cui la Chiesa può ispirarsi per improntare il cammino verso la pace. Proprio facendo riferimento a questo spirito, Papa Giovanni Paolo II, il 27 ottobre del 1986, ancora in clima di Guerra Fredda, si recò ad Assisi con i leader cristiani e delle religioni mondiali per pregare per la Pace. Ecco allora che l’approccio di Francesco, basato su rispetto dell’altro e testimonianza della vita, diventa una luce a cui guardare nelle relazioni interreligiose. Un approccio particolarmente presente nel Pontificato dell’attuale Papa Francesco, il quale ha fatto riferimento a quell’incontro e allo spirito d’Assisi in diverse occasioni. Non ultima, il suo viaggio ad Abu Dhabi:
Con animo riconoscente al Signore, nell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco di Assisi e il sultano al-Malik al-Kāmil, ho accolto l’opportunità di venire qui come credente assetato di pace, come fratello che cerca la pace con i fratelli. Volere la pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per questo[16].
Note
[1] Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco, c.2, n.6, in Fonti Francescane, n. 586-587 [consultato il 13/03/2019], http://www.santuariodelibera.it/FontiFrancescane/fontifrancescane.htm
[2] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVI, in Fonti Francescane, n. 40.
[3] Per una panoramica delle posizioni vedi Alfonso Marini, “Storia contestata: Francesco d’Assisi e l’Islam”, in Franciscana. Bolletino della Società internazionale di studi francescani, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 2012.
[4] Giulio Basetti-Sani, L’Islam e Francesco D’Assisi. La missione profetica per il dialogo, La Nuova Italia, Firenze 1975
[5] S. Bonaventura, Leggenda Maggiore, c. IX, n. 7, in Fonti Francescane, n. 1172.
[6] Alfonso Marini, “Storia contestata: Francesco d’Assisi e l’Islam”, p. 1-2.
[7] Jacques de Vitry, Historia de Jerusalem, in Giulio Basetti-Sani, L’Islam e Francesco D’Assisi, p. 159.
[8] Aa. Vv., Chronique d’Ernoul et de Bernard le Trésorier, (TDA) in John Tolan, Le Saint chez le Sultan. Le rencontre de François d’Assise et de l’islam. Huit siècles d’interprétation, L’Univers historique, 2007, p. 76-77.
[9] Jacques de Vitry, Historia occidentalis, (TDA) in John Tolan, Le Saint chez le Sultan, p. 44.
[10] S. Bonaventura, Leggenda Maggiore, c. IX, n. 8, in Fonti Francescane, n. 174.
[11] Ibidem
[12] John Tolan, Le Saint chez le Sultan, p. 21.
[13] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, c. XXII, in Fonti Francescane, n. 56.
[14] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVI, in Fonti Francescane, n. 42-44.
[15] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVII, in Fonti Francescane, n. 46.
[16] Discorso del Santo Padre Francesco, Incontro Interreligioso al Founder’s Memorial di Abu Dhabi, 4/02/2019 [consultato il 13/03/2019], http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/february/documents/papa-francesco_20190204_emiratiarabi-incontrointerreligioso.html
* Fonte: Oasis, Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 (ripresa parziale).
Il filosofo Todisco.
La strada di san Bonaventura per la felicità
A colloquio col filosofo Todisco autore di un saggio sul santo francescano: «Riconoscere come lui che tutto è dono spinge a condividere la vita, a sperimentare la nostra gioia in quella dell’altro»
di Antonio Giuliano (Avvenire, mercoledì 16 maggio 2018)
È inutile nasconderlo. Dentro di noi c’è un desiderio mai sazio di felicità. L’uomo di ogni tempo ha fatto i conti con questo bisogno incalzante che puntualmente riemerge. Nessuna gioia materiale riesce ad appagarlo. Non a caso anche un animo profondo come Giacomo Leopardi si interrogava spesso: «Che cos’è dunque, la felicità? E se la felicità non esiste che cos’è dunque la vita?». Una questione essenziale oggi spesso banalizzata o fraintesa nell’era dei social. Occorre uno sguardo più elevato, anche perché riguarda il destino stesso della nostra esistenza: sentirsi nelle mani di un Padre è diverso dalla prospettiva di essere frutto del caso e finire nel nulla. È questo il percorso tracciato anche da Orlando Todisco, frate minore conventuale, in un ponderato volume filosofico: Stare bene al mondo. L’arte di essere felici secondo san Bonaventura (Porziuncola, pagine 230, euro 18). Docente e autore di numerosi saggi sulla metafisica medievale, Todisco propone un cammino controcorrente, ispirato alle lezioni di un grande mistico e dottore della Chiesa, tra i primi seguaci di Francesco d’Assisi. Quel Giovanni Fidanza, nato a Bagnoregio (Viterbo) nel 1217, a cui da bambino il Poverello guarendolo avrebbe predetto «buona ventura» (da cui fra Bonaventura).
In che cosa si distingue la felicità secondo san Bonaventura da quella intesa oggi?
«Se per Bonaventura è un modo più o meno stabile di stare al mondo, la felicità oggi è l’incrocio di eventi favorevoli, che accadono e scompaiono con grande velocità; più che un saper vivere è l’improvvisa insorgenza di emozioni colte nella loro immediatezza. Questo perché la pupilla dell’occhio moderno è di carattere possessivo, quasi si venga al mondo per prendere e farsi valere».
Come si è arrivati a questo sguardo distorto?
«Abbiamo perso la concezione secondo cui il mondo è un dono e noi siamo chiamati ad abbellirlo, non a depredarlo. Bonaventura ci pone davanti all’alternativa: o il fascino dell’essere come dono, da accogliere e vivere donandolo a propria volta, o la rivendicazione dell’essere come diritto. Eppure nessuno viene al mondo da sé. Il che implica, anzitutto, il riconoscimento che l’altro viene prima di me, colui cioè (Dio, il singolo, la comunità) che mi ha chiamato gratuitamente all’essere. L’egoismo, come misconoscimento del primato dell’altro, è l’idolatria della menzogna».
La consapevolezza di sentirsi amati genera la felicità che però non è tale se non è condivisa.
«Non solo non si viene da sé, ma neppure si può vivere senza il supporto dell’altro. La coscienza della propria auto-insufficienza accompagna l’intera avventura. Ma non è motivo di umiliazione, perché l’altro che mi ama, mi vuole creativo, non suddito. La potenza del dono sta nel suscitare in colui che lo riceve il desiderio di donare a propria volta secondo la logica del dono, che è logica circolare».
Tutti i filosofi hanno cercato la felicità. Ma quale il loro limite secondo Bonaventura?
«Ciò che conta per i filosofi è il sapere, non l’essere Bonaventura, rilevando che Dio non è, ma si dona, espressione suprema della logica oblativa, fa emergere quella dimensione espansiva che evita l’idolatria del sapere e spinge a condividere la vita e dunque a cercare la propria felicità nella felicità dell’altro, perché altrimenti è solo una maschera, più o meno dissimulata, del proprio egoismo».
Chi sono nel concreto gli uomini “oblativi”?
«La logica oblativa matura là dove è in atto il passaggio dall’ “essere-come-diritto” all’ “essere-come-dono”. E non è forse questa l’ispirazione dei missionari, delle famiglie, dove ognuno è padrone e servo, come dell’immenso panorama del volontariato?».
In che cosa è più evidente il francescanesimo di Bonaventura?
«Intuendo la pericolosità del primato della ragione e dunque della filosofia - questo il senso della diffidenza di Francesco per il sapere - che avrebbe fatto crescere il nostro potere ma impoverito l’orizzonte, Bonaventura ha aperto un’altra strada, affermando che le cose sono opera della benevolenza di Dio. Ben diverso è lo scenario della filosofia occidentale, secondo cui il mondo è come una sfinge da interrogare, una minaccia da scon- giurare o una miniera di risorse da sfruttare. È questo il cuore della proposta di Bonaventura: l’amore oblativo, anima dell’alleanza tra Dio e l’uomo oggettivata nel mondo come dono, da accogliere e custodire».
Bonaventura, generale dell’Ordine francescano per diciassette anni, è anche l’autore della prima biografia ufficiale su san Francesco. Ma oggi viene accusato di aver tradito l’immagine storica del Poverello.
«È vero che nel Capitolo generale di Parigi del 1266 ordinò di eliminare tutti gli scritti relativi a Francesco. Ma con l’esplicito obiettivo di impedire il consolidamento dell’immagine del santo teorizzata da Gioacchino da Fiore come se fosse un rivoluzionario politico, un contestatore e un sovversivo dell’ordine ecclesiale, sociale o istituzionale. Bonaventura, ha riscritto la biografia di Francesco, ma senza tradirne i tratti essenziali. La Leggenda Maggiore è un’opera politica, propria di un teologo che ama sopra ogni cosa la comunione della famiglia francescana con la gerarchia, con il clero e l’autorità accademica».
«Per san Bonaventura il destino ultimo dell’uomo è amare Dio, l’incontrarsi ed unirsi del suo e del nostro amore. Questa è per lui la definizione più adeguata della nostra felicità». È quanto ha scritto papa Benedetto XVI, un grande ammiratore del santo francescano.
«Uno dei motivi di questo fascino è costituito dalla “razionalità allargata” di Bonaventura, grazie a cui viene superata la separazione tra ciò che è divino e ciò che è umano, ciò che è eterno e ciò che è temporale, propria di una certa epistemologia occidentale. Per il santo non si possono isolare tra i di loro i rami del sapere. Le grandi interrogazioni e i conseguenti orizzonti di luce sorgono solo quando si associano le conoscenze delle singole discipline. Nel caso del loro isolamento si cade inevitabilmente in errore, come è capitato ai sommi filosofi, Aristotele e Platone, autori di grandi filosofie ma prive della coscienza dell’essere via per forme ulteriori di sapere. Vale anche per la teologia se non oltrepassa se stessa in direzione della santità. Il problema della scienza non è solo teoretico. Non è sufficiente sapere quanto è buono il Signore, occorre gustare tale bontà, vivendola».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GIOACCHINO DA FIORE, DANTE, E LA "GRANDE RUOTA DEL CARRO" DI EZECHIELE - LA "CHARITAS". Alcune pagine dalla «Concordia Novi ac Veteris Testamenti» e dalla "Monarchia", con note.
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO. Il ’cattolicesimo’ è finito...
GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
GIOACCHINO DA FIORE INVITA BENEDETTO XVI AD APRIRE PORTE E FINESTRE IN VATICANO. La Chiesa, il bunker di Papa Ratzinger, e lo Spirito di Gioacchino.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO...
GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac (...)
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
NOTE PRELIMINARI:
di Jacques Noyers (vescovo emerito di Amiens)
in “ www.temoignagechretien.fr ” La lettre, n. 3556, del 3 ottobre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org )
«Francesco anticipa nella sua persona una forma escatologica di esistenza, che, in quanto forma generale di vita, appartiene ancora all’avvenire» (1). È una citazione di Benedetto XVI! o piuttosto di Joseph Ratzinger quando era semplicemente un teologo. Preciso subito che si tratta di Francesco d’Assisi visto da san Bonaventura e non di papa Francesco annunciato dal suo predecessore. Vedendolo abbandonare i segni sfarzosi del Sovrano Pontefice, come il primo Francesco restituì sulla piazza di Assisi i suoi vestiti da borghese al proprio padre, si potrebbe pensarlo. Un papa che augura «buon appetito» ai suoi interlocutori, un papa che paga il conto dell’hotel, un papa che viaggia portando a mano il proprio bagaglio, un papa che parla di stare con i poveri e nelle periferie e che va loro incontro a Lampedusa...
Per mesi, sono rimasto a bocca aperta davanti a tante sorprese. Avevamo delle idee sul futuro della Chiesa, sulle qualità auspicabili del nuovo papa, sulla priorità delle riforme da intraprendere. Ma non avevamo previsto questo: un papa che non “gioca” a fare il papa! Aspettavo quello che sarebbe successo: una fine del mondo? Eravamo forse agli ultimi giorni della chiesa e all’avvento della pienezza del Regno di Dio?
Ohimé, la mia età non mi permette più di volare facilmente nell’entusiasmo dell’apocalisse. Vedevo questa chiesa, il suo peso, le sue abitudini, le sue certezze. Conoscevo la sua inerzia. Come avrebbe potuto quella farfalla risvegliare la balena?
Mi domandavo se fosse possibile lasciar arrugginire senza rimpianti in un angolo la struttura ingombrante e mal funzionante del Vaticano e ripartire da zero, con le parole del vangelo. La nostra chiesa sarebbe stata capace di far la muta come il serpente che abbandona sul posto la propria ingombrante corazza?
Al nostro papa è sufficiente uno spazio libero dove dare appuntamento a tutti gli assetati della Buona Notizia. La speranza
Bene! So di sognare. Non si cancella di colpo il peso di mille anni di cristianità. Ci sono ambasciate. Ci sono cardinali. Ci sono gendarmi. Ci sono guardie svizzere. Ci sono finanze. Ci sono uffici. C’è la curia.
Allora mi domando se saprà, col suo sorriso disarmante, trasformare lo scenario che non può cancellare. Si sono già visti alcuni gesti profetici. Si è già vista la differenza tra un pastore che si cura delle persone e un dottore che si cura dei discorsi. Si è ascoltato il richiamo ad andare verso le periferie, invece dell’invito a riunirsi docili attorno al centro.
Abbiamo visto mettere al primo posto l’attenzione nei confronti di tutti coloro che questo mondo non vuole vedere.
Si aspettano parole nuove, immagini inattese, gesti profetici. Si commenta, ci si diverte... Invece i media vedono solo operazioni di comunicazione più o meno abili. Nella chiesa non c’è la rivoluzione. Si sono cambiate le immagini dei papi nelle sacrestie. Ma tutto continua come prima. Del resto, potrebbe apparire offensivo per il nuovo papa immaginare che possa veramente dire cose diverse dai suoi predecessori. Chi oserebbe mettere in pratica la consegna di papa Francesco ai giovani: fate casino?
Tuttavia non riesco a rassegnarmi a questo comodo pessimismo. Le grandi rivoluzioni richiedono del tempo. Bisogna che si scontrino con ciò che è diventato abitudine. Occorre che corrodano, che minino, che le si creda soffocate perché un giorno le grandi istituzioni crollino. Posso credere nello Spirito di Dio che in questo modo rinnova la faccia della terra?
Già so che uomini e donne scoraggiate dall’immobilismo della chiesa riprendono un po’ fiducia. Iniziative quasi clandestine osano lentamente manifestarsi. I vescovi che avevano creduto di far piacere al papa mandando cristiani sulle strade per difendere la morale si rendono conto che forse il papa attende da loro altri cammini verso i poveri.
Siamo sempre in attesa. Attesa di nuove iniziative del papa per approfondire la rimessa in questione della pseudocristianità del potere. Attesa di un’eco più chiara di questa nuova parola negli ingranaggi complicati della chiesa. Attesa anche di reazioni che certamente non mancheranno di sollevare tutti coloro che si sentono sicuri nelle istituzioni del passato. Attesa soprattutto che il desiderio di avanzare sulle strade del vangelo sia permesso e incoraggiato. Mai la testa avanza senza i piedi! È ancora troppo presto per cantare l’alleluia dell’ultimo giorno. Ma la speranza si è già messa in cammino.
*
évêque émérite d’Amiens
(1)
Joseph Ratzinger,
San Bonaventura. La teologia della storia
, Porziuncola, p 256.
*
LA LETTRE, N°3556 DU 3 OCTOBRE 2013 1,50 €.
L’ARCA DELL’ALLEANZA, IL MESSAGGIO EVANGELICO, E L’APOCALISSE (= RIVELAZIONE). Due soli in Terra e il Sole del Giusto Amore (“Karitas seu recta dilectio”) in cielo...
L’Istituto Opere Religiose è la banca del Vaticano. In deposito 5 miliardi di euro
Ai correntisti offre rendimenti record, impermeabilità ai controlli e segretezza totale
Scandali, affari e misteri
tutti i segreti dello Ior
di CURZIO MALTESE *
LA CHIESA cattolica è l’unica religione a disporre di una dottrina sociale, fondata sulla lotta alla povertà e la demonizzazione del danaro, "sterco del diavolo". Vangelo secondo Matteo: "E’ più facile che un cammello passi nella cruna dell’ago, che un ricco entri nel regno dei cieli". Ma è anche l’unica religione ad avere una propria banca per maneggiare affari e investimenti, l’Istituto Opere Religiose.
La sede dello Ior è uno scrigno di pietra all’interno delle mura vaticane. Una suggestiva torre del Quattrocento, fatta costruire da Niccolò V, con mura spesse nove metri alla base. Si entra attraverso una porta discreta, senza una scritta, una sigla o un simbolo. Soltanto il presidio delle guardie svizzere notte e giorno ne segnala l’importanza. All’interno si trovano una grande sala di computer, un solo sportello e un unico bancomat. Attraverso questa cruna dell’ago passano immense e spesso oscure fortune. Le stime più prudenti calcolano 5 miliardi di euro di depositi. La banca vaticana offre ai correntisti, fra i quali come ha ammesso una volta il presidente Angelo Caloia "qualcuno ha avuto problemi con la giustizia", rendimenti superiori ai migliori hedge fund e un vantaggio inestimabile: la totale segretezza. Più impermeabile ai controlli delle isole Cayman, più riservato delle banche svizzere, l’istituto vaticano è un vero paradiso (fiscale) in terra. Un libretto d’assegni con la sigla Ior non esiste. Tutti i depositi e i passaggi di danaro avvengono con bonifici, in contanti o in lingotti d’oro. Nessuna traccia.
Da vent’anni, quando si chiuse il processo per lo scandalo del Banco Ambrosiano, lo Ior è un buco nero in cui nessuno osa guardare. Per uscire dal crac che aveva rovinato decine di migliaia di famiglie, la banca vaticana versò 406 milioni di dollari ai liquidatori. Meno di un quarto rispetto ai 1.159 milioni di dollari dovuti secondo l’allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta. Lo scandalo fu accompagnato da infinite leggende e da una scia di cadaveri eccellenti. Michele Sindona avvelenato nel carcere di Voghera, Roberto Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, il giudice istruttore Emilio Alessandrini ucciso dai colpi di Prima Linea, l’avvocato Giorgio Ambrosoli freddato da un killer della mafia venuto dall’America al portone di casa.
Senza contare il mistero più inquietante, la morte di papa Luciani, dopo soli 33 giorni di pontificato, alla vigilia della decisione di rimuovere Paul Marcinkus e i vertici dello Ior. Sull’improvvisa fine di Giovanni Paolo I si sono alimentate macabre dicerie, aiutate dalla reticenza vaticana. Non vi sarà autopsia per accertare il presunto e fulminante infarto e non sarà mai trovato il taccuino con gli appunti sullo Ior che secondo molti testimoni il papa portò a letto l’ultima notte.
Era lo Ior di Paul Marcinkus, il figlio di un lavavetri lituano, nato a Cicero (Chicago) a due strade dal quartier generale di Al Capone, protagonista di una delle più clamorose quanto inspiegabili carriere nella storia recente della chiesa. Alto e atletico, buon giocatore di baseball e golf, era stato l’uomo che aveva salvato Paolo VI dall’attentato nelle Filippine. Ma forse non basta a spiegare la simpatia di un intellettuale come Montini, autore della più avanzata enciclica della storia, la Populorum Progressio, per questo prete americano perennemente atteggiato da avventuriero di Wall Street, con le mazze da golf nella fuoriserie, l’Avana incollato alle labbra, le stupende segreterie bionde e gli amici di poker della P2.
Con il successore di papa Luciani, Marcinkus trova subito un’intesa. A Karol Wojtyla piace molto quel figlio di immigrati dell’Est che parla bene il polacco, odia i comunisti e sembra così sensibile alle lotte di Solidarnosc. Quando i magistrati di Milano spiccano mandato d’arresto nei confronti di Marcinkus, il Vaticano si chiude come una roccaforte per proteggerlo, rifiuta ogni collaborazione con la giustizia italiana, sbandiera i passaporti esteri e l’extraterritorialità. Ci vorranno altri dieci anni a Woytjla per decidersi a rimuovere uno dei principali responsabili del crac Ambrosiano dalla presidenza dello Ior. Ma senza mai spendere una parola di condanna e neppure di velata critica: Marcinkus era e rimane per le gerarchie cattoliche "una vittima", anzi "un’ingenua vittima".
Dal 1989, con l’arrivo alla presidenza di Angelo Caloia, un galantuomo della finanza bianca, amico e collaboratore di Gianni Bazoli, molte cose dentro lo Ior cambiano. Altre no. Il ruolo di bonificatore dello Ior affidato al laico Caloia è molto vantato dalle gerarchie vaticane all’esterno quanto ostacolato all’interno, soprattutto nei primi anni. Come confida lo stesso Caloia al suo diarista, il giornalista cattolico Giancarlo Galli, autore di un libro fondamentale ma introvabile, Finanza bianca (Mondadori, 2003). "Il vero dominus dello Ior - scrive Galli - rimaneva monsignor Donato De Bonis, in rapporti con tutta la Roma che contava, politica e mondana. Francesco Cossiga lo chiamava Donatino, Giulio Andreotti lo teneva in massima considerazione. E poi aristocratici, finanzieri, artisti come Sofia Loren. Questo spiegherebbe perché fra i conti si trovassero anche quelli di personaggi che poi dovevano confrontarsi con la giustizia. Bastava un cenno del monsignore per aprire un conto segreto".
A volte monsignor De Bonis accompagnava di persona i correntisti con i contanti o l’oro nel caveau, attraverso una scala, in cima alla torre, "più vicino al cielo". I contrasti fra il presidente Caloia e De Bonis, in teoria sottoposto, saranno frequenti e duri. Commenta Giancarlo Galli: "Un’aurea legge manageriale vuole che, in caso di conflitto fra un superiore e un inferiore, sia quest’ultimo a soccombere. Ma essendo lo Ior istituzione particolarissima, quando un laico entra in rotta di collisione con una tonaca non è più questione di gradi".
La glasnost finanziaria di Caloia procede in ogni caso a ritmi serrati, ma non impedisce che l’ombra dello Ior venga evocata in quasi tutti gli scandali degli ultimi vent’anni. Da Tangentopoli alle stragi del ’93 alla scalata dei "furbetti" e perfino a Calciopoli. Ma come appare, così l’ombra si dilegua. Nessuno sa o vuole guardare oltre le mura impenetrabili della banca vaticana.
L’autunno del 1993 è la stagione più crudele di Tangentopoli. Subito dopo i suicidi veri o presunti di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, la mattina del 4 ottobre arriva al presidente dello Ior una telefonata del procuratore capo del pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli: "Caro professore, ci sono dei problemi, riguardanti lo Ior, i contatti con Enimont...". Il fatto è che una parte considerevole della "madre di tutte le tangenti", per la precisione 108 miliardi di lire in certificati del Tesoro, è transitata dallo Ior. Sul conto di un vecchio cliente, Luigi Bisignani, piduista, giornalista, collaboratore del gruppo Ferruzzi e faccendiere in proprio, in seguito condannato a 3 anni e 4 mesi per lo scandalo Enimont e di recente rispuntato nell’inchiesta "Why Not" di Luigi De Magistris. Dopo la telefonata di Borrelli, il presidente Caloia si precipita a consulto in Vaticano da monsignor Renato Dardozzi, fiduciario del segretario di Stato Agostino Casaroli. "Monsignor Dardozzi - racconterà a Galli lo stesso Caloia - col suo fiorito linguaggio disse che ero nella merda e, per farmelo capire, ordinò una brandina da sistemare in Vaticano. Mi opposi, rispondendogli che avrei continuato ad alloggiare all’Hassler. Tuttavia accettai il suggerimento di consultare d’urgenza dei luminari di diritto. Una risposta a Borrelli bisognava pur darla!". La risposta sarà di poche ma definitive righe: "Ogni eventuale testimonianza è sottoposta a una richiesta di rogatoria internazionale".
I magistrati del pool valutano l’ipotesi della rogatoria. Lo Ior non ha sportelli in terra italiana, non emette assegni e, in quanto "ente fondante della Città del Vaticano", è protetto dal Concordato: qualsiasi richiesta deve partire dal ministero degli Esteri. Le probabilità di ottenere la rogatoria in queste condizioni sono lo zero virgola. In compenso l’effetto di una richiesta da parte dei giudici milanesi sarebbe devastante sull’opinione pubblica. Il pool si ritira in buon ordine e si accontenta della spiegazione ufficiale: "Lo Ior non poteva conoscere la destinazione del danaro".
Il secondo episodio, ancora più cupo, risale alla metà degli anni Novanta, durante il processo per mafia a Marcello Dell’Utri. In video conferenza dagli Stati Uniti il pentito Francesco Marino Mannoia rivela che "Licio Gelli investiva i danari dei corleonesi di Totò Riina nella banca del Vaticano". "Lo Ior garantiva ai corleonesi investimenti e discrezione". Fin qui Mannoia fornisce informazioni di prima mano. Da capo delle raffinerie di eroina di tutta la Sicilia occidentale, principale fonte di profitto delle cosche. Non può non sapere dove finiscono i capitali mafiosi. Quindi va oltre, con un’ipotesi. "Quando il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) venne in Sicilia e scomunicò i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché portavano i loro soldi in Vaticano. Da qui nacque la decisione di far esplodere due bombe davanti a due chiese di Roma". Mannoia non è uno qualsiasi.
E’ secondo Giovanni Falcone "il più attendibile dei collaboratori di giustizia", per alcuni versi più prezioso dello stesso Buscetta. Ogni sua affermazione ha trovato riscontri oggettivi. Soltanto su una non si è proceduto ad accertare i fatti, quella sullo Ior. I magistrati del caso Dell’Utri non indagano sulla pista Ior perché non riguarda Dell’Utri e il gruppo Berlusconi, ma passano le carte ai colleghi del processo Andreotti. Scarpinato e gli altri sono a conoscenza del precedente di Borrelli e non firmano la richiesta di rogatoria. Al palazzo di giustizia di Palermo qualcuno in alto osserva: "Non ci siamo fatti abbastanza nemici per metterci contro anche il Vaticano?".
Sulle trame dello Ior cala un altro sipario di dieci anni, fino alla scalata dei "furbetti del quartierino". Il 10 luglio dell’anno scorso il capo dei "furbetti", Giampiero Fiorani, racconta in carcere ai magistrati: "Alla Bsi svizzera ci sono tre conti della Santa Sede che saranno, non esagero, due o tre miliardi di euro". Al pm milanese Francesco Greco, Fiorani fa l’elenco dei versamenti in nero fatti alle casse vaticane: "I primi soldi neri li ho dati al cardinale Castillo Lara (presidente dell’Apsa, l’amministrazione del patrimonio immobiliare della chiesa, ndr), quando ho comprato la Cassa Lombarda. M’ha chiesto trenta miliardi di lire, possibilmente su un conto estero".
Altri seguiranno, molti a giudicare dalle lamentele dello stesso Fiorani nell’incontro con il cardinale Giovanni Battista Re, potente prefetto della congregazione dei vescovi e braccio destro di Ruini: "Uno che vi ha sempre dato i soldi, come io ve li ho sempre dati in contanti, e andava tutto bene, ma poi quando è in disgrazia non fate neanche una telefonata a sua moglie per sapere se sta bene o male". Il Vaticano molla presto Fiorani, ma in compenso difende Antonio Fazio fino al giorno prima delle dimissioni, quando ormai lo hanno abbandonato tutti. Avvenire e Osservatore Romano ripetono fino all’ultimo giorno di Fazio in Bankitalia la teoria del "complotto politico" contro il governatore. Del resto, la carriera di questo strano banchiere che alle riunioni dei governatori centrali non ha mai citato una volta Keynes ma almeno un centinaio di volte le encicliche, si spiega in buona parte con l’appoggio vaticano. In prima persona di Camillo Ruini, presidente della Cei, e poi di Giovanni Battista Re, amico intimo di Fazio, tanto da aver celebrato nel 2003 la messa per il venticinquesimo anniversario di matrimonio dell’ex governatore con Maria Cristina Rosati.
Naturalmente neppure i racconti di Fiorani aprono lo scrigno dei segreti dello Ior e dell’Apsa, i cui rapporti con le banche svizzere e i paradisi fiscali in giro per il mondo sono quantomeno singolari. E’ difficile per esempio spiegare con esigenze pastorali la decisione del Vaticano di scorporare le Isole Cayman dalla naturale diocesi giamaicana di Kingston, per proclamarle "missio sui iuris" alle dirette dipendenze della Santa Sede e affidarle al cardinale Adam Joseph Maida, membro del collegio dello Ior.
Il quarto e ultimo episodio di coinvolgimento dello Ior negli scandali italiani è quasi comico rispetto ai precedenti e riguarda Calciopoli. Secondo i magistrati romani Palamara e Palaia, i fondi neri della Gea, la società di mediazione presieduta dal figlio di Moggi, sarebbero custoditi nella banca vaticana. Attraverso i buoni uffici di un altro dei banchieri di fiducia della Santa Sede dalla fedina penale non immacolata, Cesare Geronzi, padre dell’azionista di maggioranza della Gea. Nel caveau dello Ior sarebbe custodito anche il "tesoretto" personale di Luciano Moggi, stimato in 150 milioni di euro. Al solito, rogatorie e verifiche sono impossibili. Ma è certo che Moggi gode di grande considerazione in Vaticano. Difeso dalla stampa cattolica sempre, accolto nei pellegrinaggi a Lourdes dalla corte di Ruini, Moggi è da poco diventato titolare di una rubrica di "etica e sport" su Petrus, il quotidiano on-line vicino a papa Benedetto XVI, da dove l’ex dirigente juventino rinviato a giudizio ha subito cominciato a scagliare le prime pietre contro la corruzione (altrui).
Con l’immagine di Luciano Moggi maestro di morale cattolica si chiude l’ultima puntata dell’inchiesta sui soldi della Chiesa. I segreti dello Ior rimarranno custoditi forse per sempre nella torre-scrigno. L’epoca Marcinkus è archiviata ma l’opacità che circonda la banca della Santa Sede è ben lontana dallo sciogliersi in acque trasparenti. Si sa soltanto che le casse e il caveau dello Ior non sono mai state tanto pingui e i depositi continuano ad affluire, incoraggiati da interessi del 12 per cento annuo e perfino superiori. Fornire cifre precise è, come detto, impossibile. Le poche accertate sono queste. Con oltre 407 mila dollari di prodotto interno lordo pro capite, la Città del Vaticano è di gran lunga lo "stato più ricco del mondo", come si leggeva nella bella inchiesta di Marina Marinetti su Panorama Economy. Secondo le stime della Fed del 2002, frutto dell’unica inchiesta di un’autorità internazionale sulla finanza vaticana e riferita soltanto agli interessi su suolo americano, la chiesa cattolica possedeva negli Stati Uniti 298 milioni di dollari in titoli, 195 milioni in azioni, 102 in obbligazioni a lungo termine, più joint venture con partner Usa per 273 milioni.
Nessuna autorità italiana ha mai avviato un’inchiesta per stabilire il peso economico del Vaticano nel paese che lo ospita. Un potere enorme, diretto e indiretto. Negli ultimi decenni il mondo cattolico ha espugnato la roccaforte tradizionale delle minoranze laiche e liberali italiane, la finanza. Dal tramonto di Enrico Cuccia, il vecchio azionista gran nemico di Sindona, di Calvi e dello Ior, la "finanza bianca" ha conquistato posizioni su posizioni. La definizione è certo generica e comprende personaggi assai distanti tra loro. Ma tutti in relazione stretta con le gerarchie ecclesiastiche, con le associazioni cattoliche e con la prelatura dell’Opus Dei. In un’Italia dove la politica conta ormai meno della finanza, la chiesa cattolica ha più potere e influenza sulle banche di quanta ne avesse ai tempi della Democrazia Cristiana.
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)
* la Repubblica, 26 gennaio 2008