ANTISEMITISMO E OPPOSIZIONE AL NAZISMO:
PACELLI CENSURÒ PAPA PIO XI
33908. ROMA-ADISTA. Sembra sempre più vicino alla beatificazione, eppure papa Pio XII, al secolo Eugenio Pacelli, è tornato ancora una volta al centro di roventi polemiche per il suo controverso ‘silenzio’ di fronte al nazifascismo. L’occasione è stata l’uscita del libro di Emma Fattorini, docente di Storia Contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma, Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa (Einaudi, pp. 252, 22 euro) che, per la prima volta, ha potuto basarsi sui documenti dell’Archivio Segreto Vaticano - da poco resi accessibili agli storici - relativi al pontificato di Pio XI, al secolo Achille Ratti.
Come noto, Pio XI, eletto papa nel 1922, era stato sin dall’inizio e per molti anni favorevole all’avvento dei regimi totalitari, considerati un eccellente baluardo non solo contro il comunismo ma anche - come scrive sul Sole 24 Ore del 27/5 Emilio Gentile - “in odio alla modernità laica e liberale”. Ma dallo studio della Fattorini emerge la progressiva disillusione di papa Ratti verso i totalitarismi nazifascisti, che ai suoi occhi passano sempre più da ‘male minore’ a ‘male maggiore’: e proprio questa conversione è quella che ha scatenato le nuove polemiche su Pio XII.
Il futuro papa Pacelli era infatti segretario di Stato di Ratti e dal libro emerge la progressiva divergenza delle strategie dei due nei confronti del nazifascismo. Agli inizi del ‘39, scrive la Fattorini, “Pacelli è sempre deciso a seguire una via diplomatica di mediazione con il regime nazista - via che, del resto, cercherà di recuperare ansiosamente appena salirà al soglio pontificio - mentre le posizioni di papa Ratti sembrano propendere per la rottura”. Anche se Pio XI era legatissimo a Pacelli e lo aveva chiaramente ‘designato’ come suo successore senza mai fargli “mancare la fiducia”, il segretario di Stato “smorza”, “stempera”, “diluisce in una continua mediazione” il desiderio di Pio XI di lasciare un messaggio profetico di condanna del totalitarismo.
Lo studio mette in luce due eventi decisivi al riguardo. Il primo, è l’enciclica sull’antisemitismo, che Pio XI aveva commissionato al gesuita statunitense LaFarge e che non riuscì mai a far pubblicare, anche per l’ostilità di larghi settori della Curia e del generale dei Gesuiti, l’antisemita polacco Wladimir Ledochowski.
Il secondo è invece il discorso - fino ad oggi noto solo parzialmente - che Pio XI aveva preparato in occasione del decimo anniversario del Concordato con il regime fascista: “Un discorso durissimo di condanna dei totalitarismi” che suscita “una crescete preoccupazione nella Segreteria di Stato e in Mussolini che non vuole partecipare alle celebrazioni”. Papa Ratti morirà il giorno prima di pronunciarlo e Pacelli - Camerlengo di Santa Romana Chiesa - lo mette prontamente da parte, facendo distruggere addirittura le matrici già preparate per la stampa sull’Osservatore Romano: la Fattorini presenta addirittura la nota presa da mons. Domenico Tardini, con l’ordine di raccogliere e distruggere tutto il materiale relativo al discorso.
“Il papa attribuiva enorme importanza all’anniversario” del Concordato e al discorso che doveva pronunciare, osserva la Fattorini, e “il fatto che Pacelli ne chieda l’accantonamento, senza neanche presentarne una sintesi, un accenno, ai vescovi ormai giunti a Roma è un segnale chiarissimo del suo dissenso da una linea di rottura o di contrapposizione frontale”. “Scelta che del resto”, conclude, “non tarderà a rimarcare, appena eletto papa, nel colloquio con i vescovi tedeschi convocati a Roma per il Conclave”. Fin qui le nuove acquisizioni degli storici. Di fronte ai documenti, puntuali sono scoppiate le polemiche tra detrattori e difensori di papa Pacelli, proprio nel momento in cui la causa di beatificazione ha fatto lo scorso 8 maggio un passo in avanti, con il riconoscimento da parte della Congregazione per le Cause dei Santi delle “virtù eroiche” di Pio XII: manca adesso soltanto un ‘miracolo’ a lui attribuibile per concludere la causa e dichiararlo ‘beato’.
Il vaticanista del Giornale Andrea Tornielli - che ha da poco pubblicato un’ampia biografia di Pacelli (Pio XII. Un uomo sul trono di Pietro, Mondadori, pp. 660, euro 24) - sostiene che il Segretario di Stato non fece che il suo dovere: ma si tratta, secondo Alberto Melloni sul Corriere della Sera, di “uno zelo che è difficile chiamare prudenza”. Non ha fatto mancare la sua voce il quotidiano dei vescovi Avvenire, che affida una tempestiva recensione del libro della fattorini a Gian Maria Vian, il quale riscontra “imprecisioni e toni qua e là enfatici facilmente evitabili”, ma soprattutto rifiuta in toto la tesi della “‘solitudine’ di Pio XI rispetto alla sua Curia”: nessuna novità, a suo giudizio, nemmeno nella vicenda del discorso ‘sparito’. Il libro, secondo Vian, va salvato solo per i nuovi documenti che presenta, malgrado “manchevolezze” e “ipoteticità del quadro interpretativo”. Per screditare il lavoro della Fattorini, Vian polemizza anche su alcuni dettagli, come la grafia del cognome del primo nunzio in Italia, Francesco Borgongini (o Borgoncini) Duca o l’identificazione di alcuni personaggi secondari: “Sorprendenti imprecisioni”, “imputabili alla fretta”, secondo Vian; rilievi “di una piccineria bestiale”, secondo quanto ha dichiarato la Fattorini in un’intervista a La Stampa. (alessandro speciale)
"MA LA STORIA NON È APOLOGETICA".
EMMA FATTORINI RISPONDE AGLI ATTACCHI DI "AVVENIRE"
33909. ROMA-ADISTA. Sono “reazioni scomposte”, per Emma Fattorini, quelle suscitate dal suo libro su Pio XI (v. notizia precedente), giudicato forse ancora prima di essere letto e soltanto alla luce della causa di beatificazione - ormai prossima alla conclusione - di papa Pacelli. Una coincidenza che ha fatto sì che l’attenzione si concentrasse solo su un aspetto non certo centrale dello studio: “Il mio libro parla di altro, parla di una Chiesa in difficoltà perché, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, le sue categorie di giudizio della realtà politica non funzionano più”. Adista ha fatto alcune domande alla professoressa Fattorini.
D: Si aspettava queste polemiche all’uscita del suo libro?
R: Francamente, la mia impressione è che il libro non sia stato letto e sia stato soltanto un’occasione per parlare di tutt’altro. Tutti si sono accapigliati su questa vicenda di Pacelli e del discorso ‘distrutto’, che non è però centrale nell’economia del libro. Io non mi soffermo particolarmente sulla relazione tra Pio XI e il suo Segretario di Stato, il futuro Pio XII, ma racconto dello sconcerto di una Chiesa che, nei mesi precedenti la Seconda Guerra Mondiale, è completamente disorientata perché non funzionano più le categorie attraverso le quali aveva agito fino ad allora, quelle delle politiche concordatarie, e perché non aveva assimilato in quegli anni il rapporto con la democrazia. Provo a raccontare questa vicenda nella sua dimensione umana, piuttosto che in quella diplomatica di cui sappiamo già tutto. Nella Chiesa c’erano le anime più diverse, dai clericofascisti a coloro che vedono nella Germania nazista l’unica difesa contro il comunismo, a quelli, infine, che cominciavano a vedere nel nazifascismo il vero nemico. È un momento in cui anche le democrazie occidentali sono disorientate, come si vede dagli esiti della Conferenza di Monaco, metafora lampante del fallimento della politica dell’appeasement. E la Chiesa è disorientata più di ogni altro: non bisogna temere di rappresentarne le diverse anime. In mezzo a questo passaggio, Pio XI è prima sorpreso, poi deluso, poi incollerito con il fascismo, perché aveva creduto nei regimi conservatori. Ma è un papa che non usa tanto le categorie politiche, tanto meno ragiona in termini di diplomazia e di equilibri come faceva Pacelli. Ratti, alla fine della sua vita, vive una sorta di conversione spirituale che lo porta a leggere il precipitare degli eventi sulla scena europea alla luce della fede. Lo scoop sarebbe stato se Pacelli avesse diffuso il discorso e non se si fosse affrettato a non diffonderlo. È evidente che avessero posizioni diverse.
D: Perché allora questa reazione così violenta?
R: Il mio è un discorso storico, non è giornalistico né apologetico. Ma di questi tempi si fa solo apologia. La Chiesa si sente sotto attacco, ma reagendo così si isola sempre più. Forse la vera causa di queste polemiche così violente, scatenate ancora prima di leggere il libro, è la causa di beatificazione di papa Pacelli. L’uscita del mio libro, poi, è coincisa con i passi avanti nella causa di beatificazione e con il libro di Tornielli: coincidenza del tutto casuale, ma c’è da registrare che ogni volta che il processo di beatificazione ha una accelerazione, subito arriva la reazione difensiva contro ogni cosa che sembra poterlo rallentare. Tra l’altro, i miei studi precedenti, erano stati giudicati in maniera opposta, perché valorizzavano il contributo di Pacelli nel sostenere la Repubblica di Weimar (Germania e Santa Sede: le nunziature di Pacelli in Germania, ndr) Ma io, anche se capisco la preoccupazione della Chiesa, trovo che le reazioni scomposte siano sempre frutto di debolezza e, in questo caso, completamente ingiustificate. Invece di reagire subito, sarebbe bastato aspettare un giorno e scrivere con più pacatezza. (a. s)
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Sul numero 41 di Adista del 9 Giugno viene riportata la notizia di un libro su Pio XII e il contrasto con il predecessore, Pio XI, sui rapporti con il nazismo. Segue l’intervista con l’autrice. Perché la memoria non dorma e la coscienza non taccia vi riporto il tutto, come da fonte. Un abbraccio a tutte e a tutti.
Aldo [don Antonelli]
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
FLS
Nazismo.
Il no a Hitler che costò la vita a padre Reinisch
Prete cattolico, non giurò fedeltà al Führer e nel 1942 subì la condanna alla ghigliottina. Dal 2013 è in atto il processo di beatificazione, lo scrittore irlandese David Rice ne racconta la vita
di Riccardo Michelucci (Avvenire, mercoledì 21 novembre 2018)
«Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare; ma bisogna prenderla, perché è giusta». Molti anni prima che Martin Luther King pronunciasse una delle sue frasi più famose, padre Franz Reinisch trovò la forza di opporsi a Hitler sacrificandosi fino alle estreme conseguenze per non tradire la sua fede in Dio. Sarebbe passato alla storia come l’unico prete cattolico ghigliottinato ai tempi del Terzo Reich.
A lungo preso di mira dalla Gestapo per la sua aperta e radicale disapprovazione nei confronti del Führer, padre Reinisch subì prima il divieto di tenere conferenze e di predicare in tutto il territorio del Reich, poi ricevette la chiamata dalla Wehrmacht con il conseguente obbligo di prestare il giuramento fedeltà a Hitler.
«Sapeva bene che agli obiettori di coscienza erano riservate pene durissime e molti cercarono di fargli cambiare idea, ma lui fu sempre irremovibile nel suo rifiuto. Disse che sarebbe stato disposto a giurare fedeltà al popolo tedesco ma non al Führer», ci spiega lo scrittore irlandese David Rice, autore di I will not serve: The priest who said no to Hitler, un romanzo biografico appena uscito per i tipi di Mentor Books, che racconta la vita di questo martire cattolico.
Franz Reinisch era nato nel 1903 nella città austriaca di Feldkirch, e dopo studi in diritto e filosofia era entrato nel Seminario maggiore di Bressanone. Nel 1928 prese gli ordini ed entrò a far parte della comunità pallottina nel movimento di Schoenstatt, iniziando a prendere posizione pubblicamente contro il nazismo subito dopo l’ascesa al potere di Hitler, che lui definiva «la personificazione dell’Anticristo».
Quando nel 1942 ricevette l’ordine di entrare nelle forze armate - al pari di migliaia di altri esponenti del clero dell’epoca - era ancora all’oscuro dell’esistenza dei campi di sterminio, non poteva sapere che il regime stava attuando la Soluzione finale, ma aveva già visto gli ebrei perseguitati per le strade, intere famiglie strappate dalle loro case e sparite nel nulla. Aveva assistito con i propri occhi alle violenze contro i religiosi e alla repressione di qualsiasi forma di dissenso. Per questo si convinse che non avrebbe potuto prestare giuramento di fedeltà a Hitler senza tradire i principi nei quali credeva così fermamente.
Nel 1937 papa Pio XI aveva denunciato il nazionalsocialismo con la sua enciclica Mit brennender Sorge, definendolo «l’apostasia orgogliosa da Gesù Cristo, la negazione della sua dottrina e della sua opera redentrice». Negli anni seguenti migliaia di persone vennero costrette con la violenza a rinunciare alla fede cristiana, e persino professarsi cattolici equivaleva ormai a opporsi al nazismo.
Il libro di Rice racconta in forma romanzata il percorso interiore che condusse padre Reinisch verso un coraggioso rifiuto che sbalordì persino i vertici della Wermacht. «Ci deve pur essere qualcuno che si oppone agli abusi di potere. Io, come cristiano, sento di essere chiamato a esprimere questa protesta», spiegò durante la consegna delle divise militari nella caserma di Bad Kissingen. Era il 15 aprile 1942. Il religioso 38enne fu immediatamente tradotto nel carcere di Berlino: poche settimane più tardi si aprì il processo contro di lui, che si sarebbe concluso ineluttabilmente con la sua condanna a morte.
«Si sentiva talmente legato alla fede da scegliere di sacrificare la sua vita per essa. Oltre al suo straordinario coraggio mi ha sempre sconvolto il fatto che sia stato decapitato con la ghigliottina», afferma David Rice, che per scrivere questo libro è rimasto a lungo tra i pallottini di Schoenstatt, vicino alla città tedesca di Coblenza, dove ha avuto accesso ai suoi documenti personali.
Uno dei momenti più drammatici ricostruiti nel libro è quello in cui padre Reinisch, dopo aver trascorso molte notti insonni, apprende che non sarà fucilato bensì ghigliottinato. «Il plotone di esecuzione è riservato ai soldati - gli spiegano - per i criminali comuni è prevista la decapitazione».
La sentenza di morte fu letta la sera del 21 agosto 1942 nella prigione di Brandenburgo-Görden. Reinisch ribadì di non essere un rivoluzionario, ma soltanto un prete cattolico armato della sua fede nello Spirito Santo. Trascorse l’ultima notte pregando, poi scrisse una lettera d’addio alla sua famiglia, alla quale lasciò i suoi paramenti liturgici, il suo crocifisso e il suo rosario, insieme ad alcuni libri.
Nelle prime ore del mattino seguente gli furono tolte le scarpe e legate le mani dietro la schiena, infine fu condotto nella stanza dell’esecuzione. Il boia indossava un abito da alta cerimonia: cappello a cilindro, pantaloni a righe, tight, panciotto e guanti bianchi, con i quali scoprì un vecchio esemplare della famigerata “Fallbeil”, la ghigliottina usata fin dall’Ottocento per decapitare i criminali comuni.
«Pronunci il suo nome», gli gridò. «Franz Reinisch, prete cattolico», rispose il condannato. Dopo una lunga pausa, il boia gli chiese per l’ultima volta se era disposto a sottoscrivere il giuramento di fedeltà e gli indicò un foglio appoggiato su un tavolo, ricordandogli che se l’avesse firmato avrebbe avuto salva la vita. «La ringrazio per la sua gentilezza - replicò Reinisch - ma non posso prendere parte a una guerra ingiusta e neppure giurare fedeltà a un regime antidemocratico. Muoio per Cristo re e per la madrepatria. Possa Dio benedirvi tutti».
Il suo martirio avrebbe risvegliato molte coscienze, ispirando altri prigionieri a compiere simili atti di resistenza nonviolenta a Hitler. Uno di questi fu il contadino austriaco Franz Jägerstätter, di profonda fede cattolica, che incontrò padre Reinisch nel carcere di Brandeburgo e trovò anche grazie a lui il coraggio dell’obiezione di coscienza. L’anno dopo si rifiutò anch’egli di entrare nelle file naziste, finendo sulla ghigliottina. Il 28 maggio 2013 il vescovo di Treviri, monsignor Stephan Ackermann, ha aperto ufficialmente il processo di beatificazione di Franz Reinisch.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA.
PIO XII, OGGI?! DOPO E CONTRO LA LEZIONE DI PAPA WOJTYLA, IL REVISIONISMO NOSTALGICO DI RATZINGER.
GESÙ E IL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
Federico La Sala
Vaticano e Alleati sordi agli appelli non salvarono gli ebrei a Ferramonti
Il campo di internamento di Ferramonti presso Tarsia (Cosenza) fu inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940
di Mirella Serri (La Stampa, 28.08.2018)
Il presidente del World Jewish Congress, Stephen Wise, a fine dicembre 1942 inoltrò una lettera dal contenuto assolutamente inquietante a Myron Taylor, ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Wise univa una forte e decisa personalità a una grande prudenza, cercava di non fare passi falsi ed era molto legato a personaggi illustri che lo stimavano, come Albert Einstein. Non a caso si rivolse a Taylor che, prima di assumere un ruolo diplomatico, era stato un imprenditore di enorme successo: confidava sul suo attivismo per individuare rapide soluzioni.
La lettera era un grido di dolore proveniente dallo sperduto Comune di Tarsia, in provincia di Cosenza. Nel campo di Ferramonti presso Tarsia, inaugurato dal regime fascista tra il giugno e il settembre 1940 dopo l’entrata in guerra dell’Italia, erano rinchiusi ebrei, cittadini stranieri e apolidi. Nella missiva da loro inviata al governo degli Stati Uniti e poi arrivata a Wise, gli ospiti del campo non usavano perifrasi. Non solo in quella zona malarica si diffondevano epidemie ma con il procedere del conflitto mancavano cibo e medicine, e arrivavano con dovizia di terribili dettagli le notizie sugli ebrei deportati in Polonia. I lager polacchi non erano luoghi di lavoro ma di sterminio. A Tarsia si temeva una sorte analoga e si chiedeva un permesso di transito per l’Africa o il Medio Oriente.
Lo spettro della Polonia
Attraverso vari passaggi, la proposta planò sul tavolo di Luigi Maglione, nominato da Pio XII nel 1939 cardinale Segretario di Stato. Vi fu anche una presa di posizione di Giovanni Montini: il rastrellamento e la spedizione in Polonia «sembravano imminenti», osservava il futuro papa Paolo VI. «La deportazione in Polonia degli ebrei... significa la loro condanna a morte».
Furono valutati seriamente questi disperati appelli? Per nulla. Gli Alleati e la Santa Sede non mossero un dito per passare il Rubicone e salvare la vita di migliaia e migliaia di ebrei italiani e stranieri che avevano trovato rifugio nella Penisola: lo testimonia il tourbillon di lettere e risposte, fino a oggi inedito in Italia, che Michele Sarfatti, notissimo studioso di storia della Shoah, porta alla luce nella riedizione di Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione (Einaudi).
In coincidenza con la ricorrenza degli 80 anni dall’emanazione delle leggi razziali annunciate il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, il saggista nell’ampia ricerca utilizza documenti reperiti negli American Jewish Archives e presso la World Jewish Congress Collection. E offre una drammatica testimonianza sulle reazioni negative a questa prima tornata di allarmi provenienti dal Congresso mondiale ebraico: la notizia che i tedeschi si attivassero per la deportazione «è destituita di fondamento», protestava con sicumera Francesco Borgoncini Duca, nunzio apostolico in Italia.
Tutto precipita
I tempi della shoah sono rapidissimi, ricorda lo studioso, e tutto cambiò in un breve arco di tempo: prima dello sbarco alleato in Italia, gli ebrei di Ferramonti desideravano fuggire dal Sud della penisola. Ma nel luglio 1943 il rappresentante a Washington del World Jewish Congress fece un’audace proposta:
tutti gli ebrei italiani, anche quelli risiedenti al Nord, dovevano essere spostati in massa al Sud.
Era una soluzione assolutamente praticabile. Vennero mandati cablogrammi alla rappresentanza vaticana e all’ambasciatore svizzero negli Usa nei quali si diceva: quattro milioni di ebrei sono già stati uccisi. Che aspettiamo? Gli appartenenti alla comunità ebraica italiana vanno dislocati nel Mezzogiorno. Ma Berna e Washington si tirarono indietro: non c’era nulla da fare, affermarono, un intervento sul governo italiano non avrebbe nessun successo. Il 6 agosto la Santa Sede garantì che avrebbe fatto «tutto il possibile a favore degli ebrei».
Nulla fu attivato. Il maresciallo Pietro Badoglio, alla richiesta del presidente del Wjc che fosse garantito lo spostamento al Sud degli ebrei, promise che avrebbe facilitato «lo spostamento in zone che possano destare minore preoccupazione». Era una menzogna. Non voleva prendere iniziative sgradite all’alleato tedesco che stava per tradire.
«Tutti i governi sapevano dello sterminio», scrive Sarfatti. E rileva che «i tempi della diplomazia non conobbero accelerazioni particolari». Dispacci e lettere, al contrario, procedevano a passo di lumaca. Né il Vaticano né il governo statunitense «risultarono adeguati alla situazione». Per salvare la pelle al Sud però vi si trasferirono lo stesso Badoglio e la casa reale. Abbandonando i cittadini italiani e le comunità ebraiche al loro destino.