I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA. Una nota *
PATTI LATERANENSI (11 FEBBRAIO 1929). A un’udienza concessa ai professori ed agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il 13 febbraio 1929, due giorni dopo la firma dei Patti Lateranensi, Pio XI così illustra il grande evento:
L’INCARICO DI PAPA BENEDETTO XV (1919) E LA PROVVIDENZA DI PIO XI (1929). Sul conseguimento di questo risultato (“conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti”), e sulla sua comprensione (sul meglio capire come sia stato possibile), gettano luce non solo i “grandi” fatti - ricordiamo che la strada era stata già aperta dal Papa precedente, Benedetto XV (morto nel gennaio 1922), che aveva abrogato nel 1919 il “non expedit” e favorito l’ingresso dei cattolici nella vita politica e la nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo - ma anche i “piccoli” fatti: in particolare, una lettera del 1919, inviata da una donna di Lecce a una sua amica pugliese di Mola di Bari.
In questa lettera, la donna salentina così scrive (“Lecce, 27-7-1919”):
MADDALENA SANTORO (1884-1944). Chi è Costei? Come mai di lei non c’è alcuna traccia nei libri di storia? Questo documento apre la pista a infinite domande: fa parte di un "carteggio" sorprendente (32 lettere - dal 1919 al 1938) tra Maddalena Santoro e la sua amica Caterina Tanzarella, riportato nel lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare" (Edizioni Dal Sud, Bari 2016). Tale carteggio (pp. 109-154) è di grande rilevanza: mostra solo la punta di un gigantesco iceberg e sollecita a sapere di più e meglio di questa donna salentina, dirigente di primo piano dell’Azione Cattolica, intellettuale e scrittrice e, non ultimo, anche amante del fratello del Duce, "il fratello di un Grande Fratello", del quale sappiamo fondamentalmente poco (se "preferì restare nell’ombra", come scrive Indro Montanelli nel novembre del 2000 - cfr. "Il fascino di Arnaldo Mussolini", non per questo deve continuare a restarvi).
ARNALDO MUSSOLINI (1885-1931). Sul lungo lavoro, finalizzato alla Conciliazione tra Regno d’Italia e Vaticano, svolto “nell’ombra” (p.38) da Arnaldo Mussolini e probabilmente, alla luce dei “precedenti”, dalla stessa Maddalena Santoro, una grande traccia è in “una lettera inviata, in data 1 gennaio 1927”, dal marito di Caterina Tanzarella, Piero Delfino Pesce a un suo amico. In un linguaggio “volutamente criptico”, così scrive: “La gente di corta vista, la maggioranza grandissima, guarda a Roma; io invece guardo a Fiesole, e so che a Roma impera assolutisticamente l’Abate Tacchi Venturi. (sic.) Questo il filo per intendere molte cose” (p. 38). Il riferimento (evidentemente “eco delle confidenze” della moglie Caterina) è alle trattative sul Concordato e agli incontri segreti in un convento di Fiesole, di Arnaldo con il gesuita Pietro Tacchi Venturi (1861 - 1956), presentato proprio da Arnaldo “a suo fratello Benito verso la fine del 1922”.
Il coraggioso e originale lavoro di Nicola Fanizza, sia per la qualità della sua scrittura sia della sua preziosa documentazione sulla "storia d’amore che il duce voleva cancellare", è una formidabile sollecitazione a riprendere anche una vecchia indicazione di Luisa Passerini (in una sua relazione nel convegno "Il regime fascista. Bilancio e prospettive di studio" Bologna 1993, ora in "Il regime fascista. Storia e storiografia", a c. di Angelo Del Boca, Massimo Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Bari 1995, pp. 498-506).): "coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione" e superare definitivamente la obsoleta prospettiva storiografica che voleva e vuole ancora "le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico". Riguardare l’intera storia della società (e dell’umanità intera) con due occhi, non con un occhio solo!
Da notare che in quello stesso convegno una sola volta è citato Arnaldo Mussolini (p.133), per il connubio tra affari e politica, e una sola volta è citata Rosa Maltoni (p. 504), la madre del "Grande Fratello" (e Arnaldo ed Edvige), la quale invece durante il fascismo fu oggetto di "un culto molto ampio".
MARGHERITA SARFATTI (1880-1961) E MADDALENA SANTORO (1884-1944). In tale prospettiva va finalmente portata alla luce nella storia delle donne del Novecento non solo la complessa figura di Margherita Sarfatti, già oggetto di più ricostruzioni non solo come "amante del Duce", ma anche l’altrettanto complessa figura di Maddalena Santoro, non riducibile affatto a semplice amante del "fratello del Grande Fratello"!
L’UOMO DELLA PROVVIDENZA(1929). C’è da augurarsi allora che il lavoro di Nicola Fanizza cada nelle mani non solo di lettori e lettrici curiosi, ma anche di storici e storiche capaci di ricerche approfondite su queste due figure di grande importanza, specie in rapporto al fatto fondamentale della storia d’Italia che portò Regno, governo fascista e Chiesa cattolico-romana alla firma dei Patti Lateranensi quando, come diceva Papa Pio XI subito dopo ai professori e agli studenti dell’Università cattolica di Milano, “siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti... E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”. - (Federico La Sala 09.02.2017)
Immagine commemorativa. Da sinistra verso destra, Vittorio Emanuele III di Savoia, Papa Pio XI e Benito Mussolini. |
SCHEDA: -(ARCHIVIOSTORICO)
Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini
IL LIBRO - Maddalena Santoro, salentina con la passione per la scrittura, e Arnaldo Mussolini s’incontrano per la prima volta a Milano presso la redazione della casa editrice Alpes.
"Sembra che sia stato un colpo di fulmine - scrive Nicola Fanizza -, un amore a prima vista. Si erano conosciuti presso la redazione della casa editrice Alpes, attraverso la solita presentazione: Maddalena non riuscì a nascondere la sua emozione, pronunziò il suo nome con un filo di voce; lui si inchinò per baciarle la mano. Arnaldo non osò farle ripetere il nome e perciò quel pomeriggio si adattò a conversare con una donna di cui non conosceva il nome. Il giorno dopo si mise sulle sue tracce".
La narrazione viene arricchita da 32 lettere che Maddalena invia, dal 1919 al 1938, all’amica del cuore Caterina Tanzarella di Mola di Bari.
DAL TESTO - "Maddalena era una donna determinata. Aspirava alla felicità, come ogni essere umano, ma voleva conquistarla lottando, senza rinunciare alla sua autonomia; avanzando, passo dopo passo, fra sterpi e rovi, e lasciando attaccati ad essi brandelli della sua carne di lottatrice indomita. La sua volontà era la volontà del vento. Non si era mai arresa e perciò era stata costretta a trasferirsi a Milano. Ed è proprio qui che riesce a trovare l’amore dei suoi sogni: Arnaldo Mussolini."
L’AUTORE - Nicola Fanizza (Mola di Bari, 1951), dopo essersi laureato in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari, si è trasferito a Milano. Qui, a partire dagli anni Ottanta, è stato redattore della rivista «la Balena Bianca» (Pellicani) e, in seguito, della rivista «InOltre» (Jaca Book). Nel 1995 ha pubblicato il saggio "La dolce immaturità. Il transito nell’identità e nella comunità" (Colibrì). Nel 2011 ha pubblicato il saggio "Piero Delfino Pesce e la rinascenza mediterranea nel centenario della nascita della rivista Humanitas (1911-1924)", Giuseppe Laterza editore. Oltre a scrivere su riviste come «L’Acropoli», «Alfabeta2» e «Nazione Indiana», dirige il sito: www.centrodocumentazionepierodelfinopesce.it. Vive a Milano, dove insegna Filosofia e Storia. Si occupa di Storia e di antropologia filosofica.
STORIA E STORIOGRAGIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI)
LA STELLA DEL DESTINO? "LUCIFERO!". MARGHERITA SARFATTI, RENZO DE FELICE, E IL MITO DELLA ROMANITÀ.
INCONTRO PAPA RATZINGER (FORZA "DEUS CARITAS EST") E BERLUSCONI ("FORZA ITALIA"), IL 6 GIUGNO (2008).
O.d. G.:"Lo Stato faccia di più per le scuole cattoliche". La parola "Pubblica" del Ministero dell’Istruzione della Repubblica è da dimenticare, da cancellare!!!
FLS
ARTE E STORIOGRAFIA: "IL POLITTICO DELL’AGNELLO MISTICO", UN MANIFESTO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DEL CATTOLICESIMO EUROPEO.
"Il Polittico dell’Agnello Mistico, o Polittico di #Gand, è un’opera monumentale di Jan van Eyck (e del misterioso Hubert van Eyck), dipinta tra il 1426 e il 1432 per la cattedrale di San Bavone a Gand, dove si trova tutt’oggi. Si tratta di un polittico apribile composto da dodici pannelli di legno di quercia, otto dei quali sono dipinti anche sul lato posteriore, in maniera da essere visibili quando il polittico è chiuso. La tecnica usata è la pittura a olio e le misure totali sono 375x258 cm da aperto. [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Polittico_dell%27Agnello_Mistico ):
Per una contestualizzazione di questo straordinario "testo", forse, è proprio necessario ri-#leggere il lavoro di Johan #Huizinga, "L’autunno del Medioevo" (Sansoni Editore, I ed. it. 1940): "Il desiderio di conoscere - egli scrive nella "Prefazione alla prima edizione dell’opera" del 1919 - un po’ meglio l’arte dei van Eyck e dei loro successori, in stretto rapporto colla vita di quel tempo, m’indusse a scrivere questo libro". Su quanto sia importante il risultato di tale sforzo, è bene ricordare gli anni della metà del Quattrocento con le sue tensioni riformistiche di tipo teologico-politico all’interno della Chiesa e i crescenti attacchi del mondo musulmano: del 1453 è la caduta di #Costantinopoli).
CORPO MISTICO DI #CRISTO. PER COGLIERE IL SENSO SIMBOLICO DEL #SACRIFICIO DELL’«AGNELLO MISTICO», occorre richiamare il tema (e il problema) delle #indulgenze (che darà il via alla #RiformaProtestante), e chiarire, con lo stesso Huizinga, "la dottrina del «thesaurus ecclesiae» o tesoro delle opere superogatorie di Cristo e dei santi. L’idea di tale tesoro, di cui è partecipe ogni credente, come membro del corpo mistico di Cristo, cioè della Chiesa, è molto antica, ma la dottrina che tali buone opere costituiscano una riserva inesauribile, che può essere distribuita dalla Chiesa e più precisamente dal papa, fa la sua comparsa solo nel secolo XIII. [...]. La dottrina si diffuse non senza opposizioni, finché trovò la sua perfetta enunciazione ed illustrazione nella bolla papale «Unigenitus» di Clemente VI nel 1343. In essa il tesoro è considerato come un capitale, che Cristo affidò a S. Pietro e ai suoi discepoli [...]".
NOTE:
“Virgo et Sacerdos. Idee femminili di sacerdozio tra Ottocento e Novecento” di Liviana Gazzetta *
È noto che la questione del diaconato e del sacerdozio femminile si affaccia con chiarezza nella Chiesa della fase conciliare e, ancor più, postconciliare, a partire quindi dagli anni ’60 del XX secolo. Ciò che però emerge da questa ricerca è che anche prima della fase conciliare si è espresso un desiderio, o meglio, un’aspirazione femminile al sacerdozio: è nella devozione alla Vergine Sacerdote (Virgo sacerdos), che si sviluppò in particolare tra le figlie del Cuore di Gesù a cavallo tra ‘800 e ‘900, che si può mostrare l’esistenza di una domanda latente di sacerdozio. Si tratta di una via che definirei di natura cultuale e mariologica al sacerdozio femminile, dove l’aspirazione era espressa sotto il segno della vocazione, e non della rivendicazione, della dedizione e non della pretesa di spazi. E fu questa via a preoccupare la Chiesa ben prima che negli anni ’60 venisse ad essere ufficialmente sollevata la questione dell’ordinazione femminile.
La devozione alla «Vierge Prêtre» o «Virgo sacerdos» si sviluppò in special modo (ma non solo) nella congregazione delle figlie del Cuore di Gesù, fondata nel 1872 da Marie Deluil-Martiny e approvata nel 1902 da Leone XIII: un ordine contemplativo, nato all’incontro di complesse matrici spirituali, centrate sull’oblazione eucaristica, la riparazione dei peccati e l’imitazione di Maria al Calvario o -per usare le parole della stessa fondatrice- sullo spirito eucaristico, lo spirito di vittima, lo spirito sacerdotale.
Il titolo di «Virgo Sacerdos» era entrato apertamente nella liturgia cattolica a partire dal 1709, quando presso il seminario di Saint Sulpice si era cominciato ad utilizzare con regolarità, per la festa della Presentazione al tempio, un inno dei Vespri che lo conteneva. Tale festa era qui diventata la celebrazione per eccellenza della spiritualità sacerdotale e della devozione a Maria, costituendo anche il momento della rinnovazione pubblica della professione per i membri della congregazione di San Sulpizio, oltre che festa del seminario. Se nei secoli precedenti Maria era stata al centro soprattutto di una riflessione teologica e filosofica, ora la via al sacerdozio mariano era tutta spirituale e in alcuni casi misticheggiante: Maria era il modello del prete concepito come culmine delle virtù religiose, sempre più interpretata come riferimento contro ogni forma di degenerazione nella vita del clero.
La spiritualità e la devozione alla «Virgo Sacerdos» o «Vierge Prêtre» fu dunque ereditata dalla scuola francese del ‘700. All’interno di una più complessa elaborazione spirituale, l’aspettativa della madre Maria di Gesù (questo il nome assunto in religione dalla Deluil Martiny) era che si realizzasse il tempo in cui i preti avrebbero adempiuto pienamente il loro ministero, nella purezza e nella perfezione di vita che le sembrava mancare attorno a sé; le sue ‘figlie’ dovevano essere come delle vittime che, in analogia a Maria ai piedi della croce e accanto al ‘discepolo amato’, sostenessero i sacerdoti nella loro missione e si immolassero per riparare l’indegnità dei membri del clero.
Nel 1906 le religiose chiesero di poter usare l’appellativo di «Vierge Prêtre» nei riti del proprio istituto e Pio X accolse la richiesta, facendo stendere una preghiera che fu poi arricchita di indulgenze; lo stesso papa concesse nel 1910 che nelle cappelle dell’istituto si potesse aggiungere alle litanie mariane l’invocazione «Virgo Sacerdos, ora pro nobis». Le religiose fecero allora produrre anche delle immagini collegate alla devozione: immagini che raffiguravano la Vergine, abbigliata in vesti sacerdotali, che al di sopra del globo terrestre schiacciava il serpente con le braccia alzate verso il cielo.
Il tema del sacerdozio di Maria percorre un po’ tutta la storia della cristianità. In origine il titolo di «sacerdos» attribuito alla Vergine è attestato nell’ambito della tradizione omiletica: nel contesto, cioè, di un genere letterario, sviluppatosi nella cultura greca tra VII e IX secolo, in cui si usavano metafore e immagini che stabilivano un rapporto tra Maria e l’Eucarestia, o che riconoscevano un ruolo attivo della Madonna nel donare il pane di vita grazie al suo ruolo materno, anche se va detto che gli omelisti usavano idee e suggestioni che difficilmente possono essere ricondotte a concetti: alla base di questa tradizione, ad esempio, stava l’autorità dello Pseudo Epifanio, che attribuiva a Maria il valore di tavola, di altare e di prete.
Nel Medioevo l’idea del sacerdozio della Vergine conosce un significativo sviluppo sul piano teorico. Una delle vie filosofico-teologiche attraverso cui tra Alto e Basso Medioevo è possibile parlare di sacerdozio mariano è costituita dalla diffusione delle idee dello Pseudo Dionigi. Poiché nella prospettiva sincretistico-neoplatonica di questo autore (e dei molti suoi seguaci) la relazione tra i diversi ordini di realtà si pone in chiave gerarchica, ciò induce inevitabilmente a collocare la Vergine in una posizione di primato nei confronti delle gerarchie della Chiesa (e non di rado anche di quelle angeliche). Chi contribuisce in modo determinante in questa direzione è l’autore come lo Pseudo Alberto Magno: il suo Mariale super missus est in più punti sostiene che la pienezza conferita nell’ordinazione sacerdotale appartiene anche a Maria, anche se non la riceve con apposito sacramento, e lascia intendere che non esiste nessuna motivazione -neppure l’inferiorità indiscussa del sesso femminile- per fondare la sua esclusione dal sacerdozio.
In età moderna, oltre e più che la via dottrinale, si è profilata una ‘via al sacerdozio’ della Vergine di natura più propriamente devozionale e spirituale. Questa declinazione si manifesta in un sentimento del legame speciale tra il prete e la Vergine, in un ricorso particolare del sacerdote alla mediazione di Maria nelle funzioni sacramentali: quasi una somiglianza, un’imitazione particolare della Madonna ad opera del prete, che avvia la tradizione delle messe offerte secondo le intenzioni di Maria e la pratica della rinnovazione delle promesse sacerdotali in concomitanza con le feste mariane. Soprattutto all’interno della scuola francese (in primis il seminario di san Sulpizio) si sostiene che Maria ha una sovranità sugli apostoli che non le deriva tanto da una precisa giurisdizione, sempre ritenuta sconveniente al sesso femminile, ma dalla pienezza dello spirito e della grazia: ciò che la rende, dopo l’Ascensione, non il capo dotato di autorità sulla Chiesa, ma il cuore della comunità dei credenti.
Dimostrando di temere soprattutto le conseguenze della devozione sul piano pastorale, per l’associazione tra figura femminile e titolo di sacerdote che essa comportava, il Sant’Uffizio impose una drastica censura alle figlie del Cuore di Gesù e alle loro iniziative. A partire dal 1912 l’ordine venne sottoposto a più riprese all’esame del Sant’Uffizio, che con tre interventi successivi nel 1913, 1916 e 1927 vietò dapprima le immagini, quindi le forme devozionali alla Vergine sacerdotale che vi erano state sviluppate; nel 1927 una lettera del cardinal Merry Del Val, segretario della Suprema, precisò che tale devozione non era approvata e non poteva essere propagata in nessuna forma. Nonostante non riguardassero la dottrina della partecipazione di Maria al sacerdozio in sé, tali interventi hanno quasi oscurato un’intera tradizione teologico-spirituale sul tema del sacerdozio della Vergine, che per secoli ha attraversato cristianesimo e il cattolicesimo occidentali.
Il Sant’Uffizio affermò che, se da un punto di vista dottrinale non si poteva non attribuire a Maria il titolo di mediatrice nella salvezza, e quindi di sacerdote, non era però conveniente farne uso, soprattutto se a farlo erano delle donne. Le conseguenze della devozione considerate più riprovevoli erano quelle che stabilivano un’associazione tra figura femminile e sacerdozio: perché cioè con il culto alla «Vierge Prêtre» le religiose potevano, da una parte, prefigurarsi quasi come delle sacerdotesse (e magari accreditare queste convinzioni presso i fedeli); dall’altra, proporsi come riparatrici degli errori del clero.
Dopo la bufera d’inizio secolo, nel 1989 la famiglia religiosa ha visto concludersi il processo di canonizzazione della fondatrice, proclamata beata da papa Giovanni Paolo II.
Sul piano spirituale emerge il circuito virtuoso che già tra ‘800 e ‘900 poteva crearsi, in determinati settori del cattolicesimo femminile, tra una soggettività consapevole di sé e il modello della Vergine corredentrice: un circuito che può ‘ispirare’ ancor più oggi, a fronte di una crescita esponenziale dell’autonomia e dell’autorevolezza femminile nella vita ecclesiale.
Sul piano storico la vicenda mostra un protagonismo femminile fin qui insospettato, connesso sia all’esigenza di un maggior ruolo nell’accesso al sacro, sia alla richiesta di una profonda riforma ecclesiale. In essa emerge quanto diffusa e radicata fosse la preoccupazione per l’inadeguatezza del clero maschile tra le nuove fondazioni femminili nel primo ‘900, mentre nei procedimenti inquisitoriali emerge un altrettanto diffuso fastidio nei loro confronti. Sul piano storiografico la ricerca indica che la cosiddetta femminilizzazione del cattolicesimo, che interessa l’età contemporanea, porta con sé un’ambivalenza e una conflittualità strutturali. Se dalle spinte per un maggiore coinvolgimento femminile contro i ‘nemici’ della Chiesa si passava all’idea di una comunanza d’azione delle religiose col clero, si usciva dai confini prescritti alle donne e si poteva incorrere nell’interdizione; ed evidentemente lo sconfinamento risultava tanto più grave in quanto veicolato attraverso l’identificazione con Maria corredentrice. In sostanza si evidenzia come all’interno della Chiesa i rapporti tra i sessi non siano meno conflittuali che negli altri ambiti della società, e ciò nonostante la Chiesa si appelli ricorrentemente al contributo o al ‘genio’ femminile.
Nei fenomeni qui ricostruiti, infine, si comprende come la domanda femminile di sacerdozio possa espressa sotto il segno della vocazione e non della rivendicazione di un diritto, della dedizione di sé e non della protesta: un’offerta cui la Chiesa non riesce ancora a rispondere anche perché (si pensi che alla dichiarazione Inter insigniores) si confondono di fatto questi due piani.
* Fonte: Letture.org
L’IMPERO E LA CHIESA (BARI, 1936). Storia, storiografia, e sonno dogmatico.
Una nota a margine di una segnalazione ... *
Il 9 maggio 1936, Mussolini celebra "dopo quindici secoli, la riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma". Il "5 settembre 1936", nella Basilica di San Nicola di Bari, è murata su una parete una lapide ben illuminata su cui è scritto:
Per capire le ragioni politico-culturali di questo "documento" del Comune di Bari, collocato "nello storico tempio del santo mediterraneo", nella Chiesa di San Nicola di Bari, forse, è bene ampliare lo sguardo intorno alla data del "5-SETT-MCMXXXVI" (5 SETTEMBRE 1936) e quanto meno ricordare gli accordi sottoscritti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede l’11 febbraio 1929 (Patti Lateranensi) e al contempo "riascoltare" e rileggere il "Discorso di proclamazione dell’Impero", tenuto da Mussolini dal balcone di piazza Venezia la sera del 9 maggio 1936:
Il 1° marzo 1924, su "L’Ordine Nuovo", Antonio Gramsci aveva già scritto: "Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, RomoloAugustolo". Evidentemente gli ideologi imperiali avevano ignorato la lezione di Dante sulla Monarchia e sui "venticinque secoli" (Par. XXXIII, 95), come quella di Goethe sui "tremila anni" ("Libro del malumore", 1819).
* Una "lapide che lascia perplessi!", si cfr. la segnalazione di Nicola Fanizza.
Federico La Sala
Santo del giorno: 21 novembre
Solennità di Cristo Re *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
«Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire. In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo. Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo « ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ». Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: « Il mio regno non è di questo mondo ». L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Fonte: Santo del giorno, 21 novembre 2021 (ripresa parziale).
Note:
Martirologio Romano: Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo: a Lui solo il potere, la gloria e la maestà negli infiniti secoli dei secoli:
"[...] Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo - scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 - “in senso pieno, proprio e assoluto, ... è re”. [...]" (cfr. "Santi e beati": Francesco Patruno).
PIO XI, LETTERA ENCICLICA QUAS PRIMAS, 11 dicembre 1925
FLS
Il libro
Contro la retorica del fascismo buono: il caso di Crollalanza
Nel saggio “Un ministro all’ombra del duce” Nicola Fanizza ricostruisce le vicende dell’ex podestà di Bari e sodale di Mussolini: la sua adesione alla barbarie del regime dall’omicidio di Giuseppe Di Vagno alle leggi razziali fu sempre incondizionata
di Mario Spagnoletti*
Contro la scivolosa retorica secondo la quale “anche il fascismo ha fatto cose buone”. Esemplare, in questo senso, è la vicenda di Araldo di Crollalanza, nella vulgata collettiva della memoria cittadina barese salutato come un eroe. Ma non da tutti come attestano vent’anni fa le polemiche in ordine all’erezione del busto in suo ricordo in piazza Eroi del Mare. Fu proprio su Repubblica Bari, allora, che lo storico Luciano Canfora sgombrò il campo da ogni ipotesi di riabilitazione di questa figura: «Chi è rimasto fascista anche dopo il 1938 della promulgazione delle leggi razziali, e Di Crollalanza fu tra questi, non è degno di essere celebrato. La città potrebbe fare tranquillamente a meno di questo monumento. C’è già una strada a portare il suo nome. Mi sembra che basti e avanzi».
Ora nella collana “Storia e memoria” della casa editrice Progedit è appena uscito un interessante contributo di Nicola Fanizza sulla biografia intellettuale e politica di Araldo di Crollalanza: Araldo di Crollalanza. Un ministro all’ombra del duce. Il volume si segnala, sin dalle prime pagine, per essersi sottratto ad ogni forma di mitografia, ancorandosi al solido terreno di una ricostruzione storica basata su fonti giornalistiche, memorialistiche, emerografiche epistolografiche e soprattutto archivistiche. Un’impresa per nulla agevole, se si pensa che non esistevano biografie complete e storiograficamente fondate sul personaggio, ma per lo più scritti di “laudatores” acritici, impegnati a costruire l’immagine di un “santino fascista” da utilizzare per accreditare la falsa immagine di un fascismo “onesto” e “operoso”.
Fanizza si sforza di ricostruire, invece, con ricchezza documentaria e perizia storiografica, l’ambiente familiare e sociale, le difficoltà economiche insorte dopo la morte del padre, il successivo trasferimento a Mola di Bari - città natale della madre Maria Noya - grazie all’aiuto finanziario generoso e disinteressato di Piero Delfino Pesce, i primi anni della formazione nel liceo-ginnasio Domenico Morea di Conversano.
Nel Convitto conversanese, Araldo ebbe per compagni di studio molti personaggi di grande rilievo nella successiva storia intellettuale politica pugliese, da Tommaso Fiore ad Alfredo Violante, da Giuseppe Di Vagno a Michele Viterbo. Le necessità familiari e il non brillante profitto indussero la madre a spingere il giovane Araldo a inserirsi precocemente nel mondo del lavoro, cosa che egli farà secondando la sua passione giornalistica e pubblicistica, con l’aiuto amicale di Piero Delfino Pesce.
Nel biennio 1911-1912 il ventenne di Crollalanza è repubblicano con accenti mazziniani, come Pier Delfino Pesce, ma altrettanto infiammato dalla prosa e poesia dannunziane e assai sensibile al richiamo delle teorie del sindacalismo rivoluzionario. Coniugando la penna con la spada - come più tardi farà con l’azione parlamentare, amministrativa e governativa - di Crollalanza parteciperà alla Grande guerra come volontario e ne riporterà quell’esperienza indelebile che ne segnerà l’impegno politico del primo dopoguerra nel combattentismo pugliese, accanto a Fiore, Violante e Salvemini esitato, più tardi, nell’adesione convinta al movimento dei mussoliniani Fasci di combattimento.
Nella fase cruciale dell’avvento del fascismo di Crollalanza, negli scritti e nell’azione, mostrerà un’inedita e contraddittoria miscela di tutela di istanze sociali e di intransigente difesa dell’ordine e degli equilibri di classe borghesi, con ogni mezzo, compresa la barbarie della violenza squadrista. Non per caso, nonostante le sue esibite posizioni modernizzatrici, “produttivistiche” e sin quasi “industrialiste”, non si schiererà mai apertamente contro il reazionario e violento “fascismo agrario” di Caradonna, neppure quando nel settembre 1921 si giungerà al feroce assassinio del suo antico compagno di studi Peppino Di Vagno.
Su tali basi si spiega anche la fase di ascesa dell’ancor giovane Araldo, accorto e pragmatico, capace di aver ragione e di imporsi sulle posizioni di una parte del fascismo barese politicamente meno dotato di intelligenza “tattica”, tra la marcia su Roma e le elezioni politiche successive. Inizia a partire di qui la sua inarrestabile ascesa: deputato nel 1924, podestà di Bari nel 1926, sottosegretario ai Lavori Pubblici nel 1928 e infine ministro dello stesso dicastero dal 1930 al 1935.
Fanizza ripercorre l’opera amministrativa e di governo del di Crollalanza, non mancando di registrarne la fattività e l’operosità nella realizzazione di grandi e monumentali opere pubbliche a Bari, in Puglia e nella Penisola: opere, peraltro, sempre tese a raffigurare “nella pietra” il volto imperialista e aggressivo del regime, con una monumentalità retorica che sovrasta e sopprime ogni dimensione di una effettiva socialità. E qui spicca il caso delle architetture del lungomare monumentale di Bari che, di fatto, negano il rapporto fra la città e il mare.
L’azione del ministro pugliese è così analizzata senza mitizzazioni e ricostruendo anche l’insieme delle reti e dei rapporti politici e di potere di un personaggio, fondamentalmente onesto sul piano personale, ma “pervasivo” e non alieno da intensi e talora torbidi rapporti clientelari, come mostra la documentata vicenda dello scandalo truffaldino di Alberotanza a Mola di Bari che, probabilmente, sarà alla base del suo allontanamento dal ministero.
Non meno puntuali e storiograficamente preziose appaiono le analisi sull’attività del di Crollalanza quale presidente dell’Opera nazionale combattenti sino al 1943 - tanto più che su questa importante istituzione del fascismo persiste una grave lacuna storiografica -, nonché sulla sua successiva e ingiustificabile adesione alla Repubblica di Salò, vissuta marginalmente ma sempre “all’ombra del duce” e con un’adesione mai rinnegata all’efferata opera del governo nazifascista.
Attenta e documentata appare anche la ricostruzione del lungo impegno politico, amministrativo e parlamentare nel Movimento sociale italiano per tutto il secondo dopoguerra e sino alla sua morte nel 1986.
Impreziosisce il volume la pubblicazione e l’analisi del carteggio D’Annunzio-di Crollalanza, prevalentemente incentrato utilitaristicamente dal Vate sui problemi della viabilità per Gardone e delle ristrutturazioni del Vittoriano e della sua casa pescarese, al di là delle retoriche affermazioni di amicizia e comunanza spirituale.
Se la storia non può essere mitografia questa biografia di Araldo di Crollalanza merita di essere apprezzata per il suo sforzo di documentata storicizzazione che lascia emergere un personaggio “in carne ed ossa”, decostruendo il “santino fascista” accreditato nell’immaginario collettivo delle forze di destra e talora anche in quello di sin troppo tiepidi antifascisti.
* la Repubblica/ Bari Cultura, 28 settembre 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
DANTE (1321-2021): L’ANTROPOLOGIA, L’ANDROLOGIA, E LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" ... *
I 100 anni di Pax Romana.
Quel fertile e globale luogo di dialogo tra chiesa e società
di Stefano Ceccanti (Avvenire, mercoledì 21 luglio 2021)
I cento anni di Pax Romana, associazione internazionale degli universitari cattolici. Caro direttore, una vecchia foto sul sito di Pax Romana ci riporta al luglio 1921, quando nacque l’associazione internazionale degli universitari cattolici. Per la Fuci c’era Giuseppe Spataro, di lì a poco ai vertici del Ppi. In quel primo periodo fu molto attivo anche Pier Giorgio Frassati, che vedeva in questa apertura delle associazioni e delle istituzioni un vaccino importante rispetto ai nazionalismi.
Il nome riecheggiava il verso di Dante che richiamava all’universalità del cristianesimo («quella Roma onde Cristo è Romano») oltre a ricordare i circa duecento anni di pace in cui si collocò anche la nascita di Gesù. Pax Romana svolse un primo congresso a Bologna nel 1925, insieme a quello della Fuci. Un terreno minato: quattro anni prima della Conciliazione la Fuci lo aveva posto sotto il patrocinio del Re per proteggersi dalle minacce fasciste, ma ciò creò un serio problema col Vaticano, che si risolse affidando a Giovanni Battista Montini e a Igino Righetti la guida della Federazione, Per gli anni successivi vi fu una grande prudenza sui rapporti internazionali per non sfidare il regime nazionalista. Però Montini ebbe lo stesso un’influenza chiave, insieme a Maritain. L’impostazione era quella che troviamo nel volumetto del 1930 ’Coscienza Universitaria’.
La Chiesa aveva perso influenza nelle università e nel mondo della cultura; se voleva riacquisirla doveva pensare in termini di rapporto biunivoco, ossia essa aveva certo da dare a questi ambienti, ma aveva anche da ricevere. In particolare ciò richiedeva un attento discernimento dei vari aspetti della modernità e una rilettura positiva della democrazia. «La verità non è folgorazione d’un lampo; è progressivo, graduale, quasi inavvertito albeggiare di luce», scriveva Montini. E per Maritain andava superata «la scissione fra principio democratico e principio cristiano in Europa, dove gli animi sono divisi tra un cristianesimo irriducibilmente formato nella sua struttura e nella sua dottrina, ma per troppi anni isolato dalla vita del popolo, e l’infedeltà aperta e militante o l’odio per la religione». Nel 1947, seguendo lo stesso schema italiano che aveva fatto sorgere dalla Fuci il Movimento Laureati, Pax Romana si arricchì di un secondo ramo.
Nelle giornate fondative, Étienne Gilson pose come obiettivo quello di «organizzare nel mondo intero la fraternità degli spiriti che pongono l’intelligenza al servizio di Dio», ribadendo il collegamento tra fede e ragione e l’apertura internazionalista. Non fu quindi per caso se persone con questa impostazione e che si erano abituate ad assemblee internazionali, utilizzando più lingue e con complesse procedure democratiche, si siano trovate al centro dei lavori conciliari: sia gran parte degli uditori laici (lo spagnolo Ruiz-Giménez, l’esule catalano Sugranyes de Franch, l’australiana Goldie) sia molti teologi che erano stati assistenti (Guano, Murray) o comunque vicini (Chenu, Congar, il neo-cardinale Journet). Lo stesso per l’impegno politico nelle nuove democrazie: per limitarci solo alla guida dei Governi europei sia in Portogallo (Pintasilgo e poi Antonio Guterres, attualmente segretario Onu) sia in Polonia (Mazowiecky) erano stati esponenti di primo piano di Pax Romana. Anche nella Chiesa del postconcilio il contributo è stato ampio e universale: basti solo pensare al Perù, dove sono stati assistenti nazionali Gutierrez e l’attuale arcivescovo di Lima, Castillo. Questi sono alcuni dei nomi più noti, ma molti sono stati coloro che si sono posti come nani sulle spalle dei giganti, tra Chiesa e società, in tutto il mondo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!!
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. La lezione di Pirandello (1918) e di Eduardo De Filippo (1931):
A) PIRANDELLO (Un "Goj",1918) .
B)EDUARDO DE FILIPPO ("Natale in casa Cupiello", 1931) *
Natale in casa Cupiello è un’opera teatrale tragicomica scritta da Eduardo De Filippo nel 1931.
Genesi dell’opera
Portata in scena per la prima volta al Teatro Kursaal di Napoli (oggi Cinema Filangieri), il 25 dicembre 1931, Natale in casa Cupiello segna di fatto l’avvio vero e proprio della felice esperienza della Compagnia del "Teatro Umoristico I De Filippo", composta dai tre fratelli e da attori già famosi o giovani alle prime armi che lo diventeranno (Agostino Salvietti, Pietro Carloni, Tina Pica, Dolores Palumbo, Luigi De Martino, Alfredo Crispo, Gennaro Pisano). A giugno Eduardo aveva firmato un contratto con l’impresario teatrale che lo impegnava per soli nove giorni di recite per presentare il suo nuovo atto unico subito dopo la proiezione di un film. Il successo della commedia fu tale che la durata del contratto fu prolungata sino al 21 maggio 1932. -Originariamente si trattava di una commedia ad atto unico (quello che, nella versione definitiva, costituisce oggi il secondo atto), ampliato successivamente in due distinte fasi: la prima, nel 1932, vide aggiungersi l’attuale primo atto e la conclusiva, nel 1934[1] (secondo anche quanto dichiarato da Eduardo sul numero 240 della rivista Il Dramma uscito nel 1936) o nel 1937[2] o addirittura nel 1943 (secondo un’ipotesi avallata più tardi dallo stesso autore[3]), che configurò l’opera nella sua versione attuale, composta da tre atti. La complessa genesi della commedia portò Eduardo stesso ad affermare che essa era nata come un "parto trigemino con una gravidanza di quattro anni" [4].
Trama
La scena si svolge nell’arco di circa cinque giorni nella casa della famiglia Cupiello, della quale vengono rappresentate la camera da letto (atti I e III) e la sala da pranzo (atto II).
I atto
È la mattina dell’antivigilia di Natale. Luca Cupiello e sua moglie Concetta si svegliano, ma il loro risveglio è reso comicamente faticoso dalle bizze dell’uomo, che si lamenta per il freddo e per il pessimo caffè che lei gli ha preparato. Luca è un fervente amante delle tradizioni natalizie, e non vede l’ora di potersi dedicare maniacalmente alla composizione del Presepe, nonostante le critiche della moglie e del figlio Tommasino (Nennillo), che lo ritengono anacronistico (questa situazione costituirà una gag ricorrente per tutta la messa in scena). La sua impresa è inoltre resa difficoltosa dall’intervento di suo fratello Pasqualino, scapolo collerico in perenne guerra col pestifero Nennillo; Luca sembra inoltre avere alcune difficoltà nei movimenti e nel ricordare le cose, tragicomiche anticipazioni del dramma che seguirà. Irrompe in casa la figlia Ninuccia, agitata per l’ennesima lite con suo marito Nicolino. Ninuccia, che non ha mai amato il marito, vuole scappare con il suo amante Vittorio e confessa alla madre di voler lasciare Nicolino a cui ha scritto una lettera di addio. La donna, a causa delle forti resistenze della madre, ha un attacco nervoso e, nell’impeto, rompe alcune suppellettili e la struttura del presepe. Nel caos che segue Concetta ha un mancamento, e riesce a strappare a Ninuccia la promessa di fare la pace con Nicolino; tuttavia nel trambusto la ragazza perde la lettera, che sarà ritrovata da Luca il quale, ignaro di tutto, la consegna a Nicolino.
II atto
In casa Cupiello è tutto pronto per festeggiare la vigilia di Natale. Tommasino, ignaro della relazione della sorella, arriva a casa accompagnato da Vittorio che, oltre a essere l’amante di sua sorella, è anche suo amico. Il ragazzo insiste perché si trattenga qualche minuto a casa sua. Rimasti soli, Concetta chiede a Vittorio di andarsene immediatamente e permettere a Ninuccia di salvare il suo matrimonio con Nicolino: quest’ultimo infatti, dopo aver letto la lettera consegnatagli incolpevolmente dal suocero, è a conoscenza della loro relazione, e solo i copiosi sforzi di Concetta hanno evitato il peggio. In quel momento tuttavia rincasa Luca che, anch’esso ignaro della relazione extraconiugale della figlia, insiste perché Vittorio si fermi a cena. La serata prosegue con una tensione di sottofondo, stemperata dai pasticci di Luca, Nennillo e Pasqualino e da mille disavventure che costellano la preparazione della cena. Approfittando di un momento di solitudine, Ninuccia e Vittorio hanno un drammatico incontro che sfocia nell’esplosione della passione tra i due; Nicolino li sorprende nell’atto di scambiarsi un dolce bacio, e accusa Ninuccia e Concetta di averlo ingannato. I due uomini e Ninuccia abbandonano quindi la casa per potersi sfidare a duello. Mentre Concetta, rimasta sola in scena, si dispera, giungono Luca, Pasqualino e Tommasino vestiti da re magi con i loro regali per lei.
III atto
Venuto brutalmente a conoscenza della situazione familiare, Luca, per anni vissuto nell’illusione di aver creato una famiglia felice, ha un colpo apoplettico e si ritrova a letto in preda a difficoltà motorie e verbali per l’ictus sopravvenuto. L’intero vicinato è ormai costantemente presente al suo capezzale, dove Luca accusa deliri e allucinazioni che hanno come protagonista il genero Nicolino, che ha lasciato immediatamente la moglie e si è recato da alcuni suoi parenti a Roma. Pur nel delirio Luca spera ancora di vederlo riappacificato con sua figlia, la quale è distrutta dal dolore in quanto è perfettamente cosciente che su di lei ricadono le colpe della malattia del padre. Sopraggiunge il medico, che improvvisa una diagnosi incoraggiante alla moglie ed alla figlia di Luca, ma rivela invece al fratello la cruda verità: Luca non ha scampo e la sua morte è ormai questione di ore. Una improvvisa visita dell’amante Vittorio, che si sente moralmente responsabile dello stato di salute di Luca, ne provoca l’ennesimo equivoco allucinatorio e Luca, scambiandolo per Nicolino, arriva a benedire inconsapevolmente l’unione dei due amanti proprio all’arrivo del marito di lei, che viene subito trattenuto a viva forza e portato fuori dai presenti. Luca Cupiello, ormai definitivamente ripiegato nelle sue allucinazioni, si avvia così a morire ignaro ancora una volta della realtà.
Tommasino, alla domanda che suo padre gli rivolge in punto di morte, «Te piace ’o presepio?» ("Ti piace il presepe?"), alla quale egli in precedenza aveva sempre risposto di no con stizzita protervia, finalmente si "scioglie" e tra le lacrime gli sussurra un laconico sì, proprio mentre suo padre sembra entrare nella gioiosa allucinazione di un "enorme presepe nei cieli".
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale).
C) "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile).
Federico La Sala
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO ... *
«QUELLA ROMA ONDE CRISTO È ROMANO»: LA RICEZIONE DI DANTE NEL MAGISTERO PONTIFICIO CONTEMPORANEO
di VALENTINA MERLA *
In un clima di polemica tra cattolici e non cattolici, negli anni dell’Unità d’Italia, in cui i patrioti italiani avevano studiato la concezione politica dell’Alighieri incasellandola sotto l’egida del ghibellinismo anticlericale, Leone XIII sceglie la strada del dialogo con la società, progettando una riforma della cultura cattolica sulla base del tomismo. La sua ricezione di Dante è possibile proprio alla luce del tomismo: Leone XIII è, in effetti, secondo una definizione di padre Semeria, un’«anima dantesca», soprattutto per la significativa consonanza tra il suo pensiero sociale e la Monarchia (era stato proprio il suo intervento ad assolvere il trattato dantesco dall’accusa di eterodossia, escludendolo dall’indice dei Libri Proibiti). Infatti, come Dante, anche papa Pecci partecipa al dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa, riflettendo “laicamente” sul potere politico e sostenendo la reciproca indipendenza delle due istituzioni.
Alla morte dell’anziano pontefice sale al soglio pontificio Pio X, attento riorganizzatore del Catechismo della Chiesa Cattolica e sostenitore di una nuova concezione pastorale, che considera ogni strumento culturale, anche il testo dantesco, funzionale all’esigenza catechetica. Il pontefice incentiva, dunque, le iniziative in preparazione alla commemorazione del VI centenario dantesco, tra le quali una è particolarmente vicina ai suoi orientamenti pastorali. Si tratta di un lavoro di sinossi e comparazione tra il testo del catechismo del pontefice e la scrittura dantesca, che, in questo modo, viene frammentata al duplice scopo di supportare le affermazioni del catechismo e di dimostrare la perfetta aderenza del poeta al cattolicesimo. L’opera, firmata con lo pseudonimo d Minimo Sacerdote in Cristo, si intitola Il più bel ricordo del VI centenario di Dante, ossia Catechismo della Dottrina Cristiana pubblicato per ordine di sua Santità Pio X, meditato e studiato con Dante.
Una linea spartiacque nella rivalutazione dell’Alighieri da parte del magistero pontificio si ha con l’enciclica In praeclara summorum (1921), scritta da Benedetto XV per commemorare il VI centenario della morte del sommo poeta, che viene per la prima volta apostrofato come figlio prediletto della fede cattolica. Sulla scia del predecessore, sebbene in modi differenti, si colloca il riuso che dell’opera dantesca fa Pio XI, riportando nei suoi documenti ufficiali un ricco corredo di citazioni.
Ciò emerge maggiormente quando riflette sulla romanità della Chiesa, poiché papa Ratti risolve definitivamente la “questione romana”, affermando la necessità della reciproca collaborazione tra potere spirituale e potere politico.
Di questa collaborazione si fa simbolo la città di Roma (residenza del Papato e antica capitale dell’Impero di Roma), che assurge a figura della città di Dio, secondo la più canonica esegesi di Pg XXXII 102, verso prediletto dal pontefice e più volte citato. Con Pio XI Dante si presta per la prima volta, in modo significativo, ad essere rispolverato e letto criticamente. In effetti papa Ratti consacra la Commedia come un’opera di fede e se ne avvale come auctoritas a supporto delle argomentazioni dei suoi discorsi.
Ad imitare il suo esempio è Pio XII, in cui si nota una fitta trama di allusioni desunte dall’Alighieri soprattutto nei discorsi rivolti alla Pontificia Accademia delle Scienze (di cui era membro onorario). Queste prolusioni finiscono inevitabilmente per riflettere sulla vastità dell’universo, sede e immagine di Dio attraverso l’utilizzo della fonte dantesca.
Diversa è la fruizione di Dante da parte di Angelo Roncalli, il cui nome si lega inequivocabilmente al Concilio Vaticano II e all’esigenza di un rinnovato dialogo con il mondo intero, sicché anche la sua ricezione del poeta di Firenze si può ascrivere a questo desiderio di un più agevole confronto con la contemporaneità. Anche se in realtà, nel corpus degli scritti del pontefice, sia in quelli ufficiali che in quelli destinati alla scrittura privata, non se ne conserva una memoria significativa.
Vero e proprio punto di svolta nella lunga vicenda della ricezione dantesca è la lettera apostolica Altissimi cantus, che Paolo VI divulga il 7 dicembre 1965 in occasione del VII centenario della nascita di Dante. In essa il pontefice non esita ad appellare il sommo poeta con l’epiteto di teologo perché ha saputo comunicare le verità di fede servendosi della bellezza del verso. È, quella di papa Montini, una forte presa di posizione che innalza l’Alighieri al ruolo di maestro delle cose di Dio. Non a caso le citazioni del poema abbondano quando affronta temi particolarmente rilevanti, come l’amore di Dio; oppure quando parla del giubileo; numerosi sono poi i documenti che riflettono sul significato simbolico della città di Roma (in cui, a sostegno delle argomentazioni, viene citato If II 22-24 e Pg XXXII 102, evidenziando il significato provvidenziale che il poeta attribuisce all’Urbe).
Albino Luciani è ricordato dalla storia per il suo brevissimo pontificato, ma pur nella esiguità dei documenti del suo magistero, la fonte dantesca non passa sotto silenzio: l’Alighieri, infatti, è uno degli autori più citati dal papa bellunese. La prima interessante presenza si nota nella raccolta, pubblicata nel 1976, sotto il titolo di Illustrissimi. Lettere del Patriarca, in cui non mancano riferimenti danteschi espliciti, tra i quali i più interessanti si ravvisano nella lettera indirizzata a Casella, amico di Dante e personaggio della Commedia. -Tra i documenti che precedono l’elezione al soglio di Pietro, il più interessante è il messaggio quaresimale del 31 gennaio 1978, che risulta essere un vero e proprio microsaggio sul Purgatorio, perché il suo esordio trae spunto proprio da questa cantica.
Durante il periodo del pontificato, Giovanni Paolo I, sceglie di citare Dante nell’udienza generale del 20 settembre 1978, richiamando alla memoria l’esame teologico sulla speranza che il poeta affronta nel paradiso (Pd XXV).
Se per Paolo VI e per i suoi predecessori la scrittura dantesca assume una notevole rilevanza come auctoritas, nei discorsi di Giovanni Paolo II la vastissima gamma di citazioni, oltre che emergere nelle più svariate occasioni, predomina nelle riflessioni che hanno per argomento l’arte e il ruolo dell’artista.
Nel caso del pontefice polacco tale preponderanza assume un particolare rilievo perché, prima dell’elezione papale, Wojtyla è stato drammaturgo e poeta.
Il riuso di Dante si intravede non solo nei documenti ufficiali del magistero wojtyliano, ma anche nella sua produzione letteraria, in cui, al di là delle tracce intertestuali (irrisorie a mio parere), è possibile un accostamento a Dante, considerando non solo la concezione del ruolo del poeta e della poesia, ma anche lo sviluppo di alcuni nuclei tematici, ad esempio: il legame con le terra natia; la ricerca problematica di Dio; l’attenzione alla storia contemporanea considerata nella prospettiva escatologica; l’incontro con l’uomo, la concezione dell’io autoriale come “poeta visionario”. Si possono notare anche confluenze dal punto di vista stilistico come, ad esempio, l’insistenza sulle sfere semantiche dell’acqua, del fuoco, della luce, del viaggio, e ciò soprattutto nell’ultimo lavoro poetico, risalente al 2003: il Trittico romano.
Interessanti sono anche i documenti ad argomento prettamente dantesco. Tra questi, molto significativa è la lettera indirizzata a Mieczyslaw Kotlarczyk, datata 27 maggio 1964 e risalente al periodo in cui Karol Wojtyla era vescovo di Cracovia. Come già nel magistero dei suoi predecessori, anche nei documenti di Giovanni Paolo II le presenze dantesche non sono sporadiche e casuali: numerosissime sono quelle mariane, (desunte essenzialmente da Pd XXIII 73-74, Pd XXIII 88-89 e Pd XXXII 85-87, da Pd XXXIII 1-18). Tra le citazioni ricorrenti si annovera quella riferita all’Ulisse dantesco (If XXVI 118-120) e quella che descrive la scelta ascetica di san Pier Damiani (Pd XXI 117).
La Commedia non è ignorata neanche da papa Ratzinger. È esemplare in tal senso il messaggio per l’incontro promosso dal Pontificio Consiglio Cor Unum, il 23 gennaio 2003 in cui il pontefice, sin dall’esordio, afferma di aver attinto da Dante lo stimolo per elaborare l’intera prolusione. La fonte dantesca è, inoltre, ridondante nei discorsi mariani: è come se i luoghi topici della mariologia dantesca avessero delineato in modo talmente ineguagliabile il profilo di santità della Madre divina, da pretendere di essere richiamati alla memoria, proprio per la loro ineguagliabile bellezza.
* Scheda: Cineca Iris (Università di Foggia, Tesi di dottorato - 24-giugno-2014).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
UNA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" ITALICO-ROMANO. L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma: *
A) Mussolini, Discorso dell’anno IX - Roma, 27 ottobre 1930: "Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. -Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, unì Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo.
Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. Per questo noi sorridiamo quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più non solo la polvere, ma nemmeno il ricordo, e il Fascismo sarà vivo ancora. Del resto ci occorre del tempo, moltissimo tempo, per compiere l’opera nostra. Non parlo di quella materiale, ma di quella morale. Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.
Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani [...]"(Messaggio per l’Anno Nono - Roma, 27 ottobre 1930, in B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIV, p. 283).
B) Mussolini - Milano, Piazza Duomo, 25 ottobre 1932: "Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo darà il secolo del Fascismo. Sarà il secolo della potenza italiana. Sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere direttrice della civiltà umana. Perché fuori dai nostri principi, e soprattutto in tempi di crisi, non c’è salvezza né per gli individui e tanto meno per i popoli.
Fra dieci anni - lo si può dire. Senza fare i profeti - l’Europa sarà cambiata. Non da ora si sono commesse delle ingiustizie, anche contro di noi, soprattutto contro di noi. E niente di più triste il compito che vi spetta di dover difendere quello che è stato il sacrificio magnifico di sangue di tutto il popolo italiano. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata!
L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma [...]" (B. Mussolini, Opera Omnia, XXV, pp. 147-148).
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAFIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO : MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Ripensare i Patti Lateranensi
di Vincenzo Pacillo (Il Mulino, 12 febbraio 2020)
L’ 11 febbraio 1929 venivano sottoscritti presso il Palazzo del Laterano i tre atti giuridici (Trattato, Concordato e Convenzione finanziaria) che posero fine alla «questione romana». I «Patti Lateranensi», termine con il quale si indicano contestualmente gli atti suddetti, furono firmati per la Santa Sede dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri e per il Regno d’Italia dal capo del governo Benito Mussolini: tali patti, a norma dell’articolo 7 della Costituzione italiana, rappresentano ancor oggi (seppur con le modificazioni avvenute nel 1984, le quali hanno riguardato esclusivamente il Concordato) lo strumento giuridico fondamentale diretto a regolamentare i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica (entro i limiti, ovviamente, posti dalla Carta fondamentale e attraverso un apparato di leggi di esecuzione che, nel sistema delle fonti, occupano lo stesso rango della Costituzione).
Il modello della regolamentazione pattizia dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica è stato esteso, a norma dell’articolo 8 della Costituzione, alle relazioni tra lo Stato e tutte le confessioni religiose: la Carta fondamentale ha infatti previsto le intese, atti di diritto pubblico interno bilateralmente convenuti e negoziati tra i rappresentanti della confessione religiosa interessata e i soggetti costituzionalmente competenti per parte dello Stato (il governo, per quanto riguarda l’avvio delle trattative, il sottosegretario-segretario del consiglio dei Ministri e una apposita commissione per la redazione della bozza, il consiglio dei Ministri per l’autorizzazione alla firma dell’intesa da parte del presidente del Consiglio), quale presupposto necessario di ogni legge diretta a regolamentare i rapporti tra Stato e confessioni religiose diverse dalla cattolica. Le confessioni prive di intesa continuano a vedere i loro rapporti con lo Stato disciplinati dalla legge n.1159 del 24 giugno 1929.
A novantuno anni dalla stipulazione dei Patti Lateranensi, il modello bilaterale nato l’11 febbraio 1929, e successivamente confermato e ampliato dal legislatore costituente, sembra piuttosto invecchiato. Il Paese mostra una geografia religiosa profondamente diversa da quella dell’anno VII dell’era fascista, e non solo perché la percentuale di residenti che si dichiarano cattolici è scesa dal 99 al 71%, e solo il 25% della popolazione può essere inclusa nel novero dei «cattolici praticanti». Più in generale, secondo le scienze sociologiche, la secolarizzazione ha condotto i gruppi religiosi istituzionali - di cui l’espressione «confessioni religiose» utilizzata dal Costituente vuole essere sinonimo - a essere socialmente meno determinanti rispetto al passato per ciò che riguarda la costruzione dell’identità spirituale degli individui. Soprattutto i residenti under 30 tendono a coltivare una spiritualità sempre più spesso svincolata da un’appartenenza totale e stabile, preferendo la costruzione di un vissuto in cui vi è una sorta di «bricolage spirituale», un soggettivismo non istituzionalizzato in cui dogmi e pratiche (talora appartenenti a culti diversi) si uniscono a ideologie forti e stili di vita, come il veganismo, l’animalismo, l’antispecismo.
Di fronte a questa «de-istituzionalizzazione» della spiritualità, ci si chiede come sia possibile che solo alcuni gruppi istituzionalizzati siano titolari del diritto (e del potere) di vedere i propri rapporti con lo Stato regolamentati da una legislazione negoziata, tanto più che la recente sentenza n.52/2016 della Corte costituzionale ha - di fatto - ristretto la responsabilità del governo in caso di rifiuto di avviare le trattative con una confessione interessata all’intesa a una dimensione meramente politica (avallando, di fatto, un’ampia discrezionalità dell’esecutivo nel misurare il grado di «religiosità percepita e accettata» di fronte a una controparte).
L’impressione è che oggi gli individui esercitino la propria libertà di coscienza e di religione entro gruppi intermedi diversi dalle «confessioni religiose» così come le intendeva il Costituente; si hanno - in generale - fenomeni aggregativi socialmente e costituzionalmente rilevanti in gruppi diversi da quelli presi in considerazione dagli artt. 7 e 8, per i quali non è però previsto alcuno status giuridico peculiare.
A ciò si aggiunga il fatto che il concetto giuridico di «religione» diventa sempre più liquido: per cui, nelle scorse settimane, corti inglesi e statunitensi hanno stabilito una vera e propria equiparazione giuridica tra religione da una parte e veganesimo (la corte inglese) e satanismo (la corte statunitense) dall’altro. La frammentazione del concetto giuridico di religione, che si somma allo straordinario panorama di gruppi più o meno numerosi e diffusi che si autoqualificano come «religiosi», conduce inevitabilmente a un’incertezza pressoché totale sull’effettiva identità dei soggetti ammissibili alla stipulazione dell’intesa, e di conseguenza alla dimensione (privilegiata) della legislazione contrattata.
Nell’ordinamento costituzionale italiano la bilateralità tra Stato e confessioni è uno strumento ragionevole di governance del fatto religioso solo se essa viene attuata nel rispetto dei principi di laicità, di uguaglianza senza distinzione di religione e di uguale libertà dei culti. Da questo punto di vista, il quadro cui assistiamo nel presente è a dir poco sconfortante.
Due tra i gruppi di minoranza più numericamente significativi nel Paese - ossia musulmani e testimoni di Geova - vedono i rapporti della loro confessione di appartenenza con lo Stato regolati ancor oggi dalla legge 1159/1929: e questo vuoi per questioni endogene o esogene rispetto alla situazione politica generale, vuoi per un vuoto normativo che ancor oggi non riesce a puntellare in modo soddisfacente diritti e doveri delle parti contraenti, affidandoli a una prassi giocoforza piuttosto duttile (se non addirittura «liquida»).
Ma dietro questo fallimento se ne staglia subito un altro, strettamente connesso all’insopprimibile diversificazione e al relativo aumento dei gruppi religiosi presenti in Italia: per cui a oggi l’ipotesi di stipulare intese anche con soltanto la metà di questi ultimi è sospesa in un mondo lontanissimo, senza né tempo né spazio, e consente all’interprete di decretare la fine del progetto di politica ecclesiastica descritto dal terzo comma dell’art. 8 Cost. per impossibilità sopravvenuta. Se non si pensa a una soluzione alternativa, la stanca riproposizione delle dinamiche di politica ecclesiastica dell’ultimo trentennio è destinata soltanto a ridefinire ed aumentare le disuguaglianze, la discrezionalità non laica, il ruolo discriminatorio delle intese.
Senza contare che la stessa definizione giuridica di religione, tanto pericolosa e complessa quanto in fondo richiamata dalla stessa idea che i rapporti tra Stato e confessioni siano regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze, è oggi profondamente in questione da parte di numerosi autori, i quali evidenziano la necessità che essa si svincoli dai parametri della tradizione degli almanacchi statistici per aprirsi a quelle nuove forme di sacralità (anche provocatoria, come il Pastafarianesimo) introdotte nell’era della globalizzazione digitale.
E infine, ancora più vicina, la questione dell’ateismo organizzato. È possibile che la parificazione tra Chiese e «organizzazioni filosofiche e non confessionali» operata dall’art. 17 Tfue sia destinata a continuare a essere giudicata priva di effetti da parte della giurisprudenza amministrativa italiana? Il fatto che la secolarizzazione - quantomeno in Europa - tenda a far crescere in modo rilevante chi non si riconosce in una fede non metterà in crisi il modello che vuole escludere i gruppi che ne rappresentano gli interessi da quei diritti (di concorrere alla ripartizione del finanziamento pubblico o di rispondere - nella scuola pubblica - a eventuali richieste in ordine allo studio del fatto religioso) che spettano alle confessioni in cui rapporti con lo Stato siano regolati per legge sulla base di intese?
Forse l’intero sistema sarebbe da ripensare: ma una certa retorica sulla «Costituzione più bella del mondo» rischia oggi di far apparire assai impervio un percorso di modifica degli articoli 7 e 8 della Carta fondamentale (in quale direzione, poi?): con la conseguenza, che - al netto di moltissimi e pregevolissimi studi teorici sul principio supremo di laicità dello Stato - l’11 febbraio continua a essere ricordato come la «festa dello status quo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
A novant’anni dal Concordato firmato da Mussolini e Pio XI
Stato-Chiesa, i nodi irrisolti
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 11 febbraio 2019)
Sono trascorsi novant’anni da quando, l’11 febbraio 1929, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono stati regolati da un concordato. Un tempo sufficientemente lungo per consentire un bilancio e per verificare se non sia opportuna una nuova revisione, dopo quella operata nel febbraio 1984 sotto il governo Craxi, con la duplice parziale correzione sia dei Patti lateranensi sia del concordato vero e proprio. Una revisione e una correzione, peraltro, dagli esiti ambigui.
In primo luogo, ancora oggi rimane in vigore la norma secondo la quale - nel matrimonio concordatario - in caso di annullamento la norma canonica prevale su quella civile, nonostante i criteri (oltre che i giudici) che presiedono all’annullamento religioso siano difformi da quelli che presiedono all’annullamento civile.
Inoltre, l’eliminazione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato non ha eliminato affatto l’obbligo per lo Stato di garantire l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e, anzi, lo estendeva alle scuole materne, escludendo solo l’università. Il costo finanziario per lo Stato di tale obbligo - sotto forma di stipendi pagati a insegnanti reclutati non dallo Stato bensì dalla Chiesa cattolica - è stato stimato in 1,25 miliardi di euro l’anno. Per mantenere una schiera numerosa di insegnanti di religione a fronte di una crescente diminuzione di coloro che ne frequentano l’insegnamento, raramente viene utilizzata la possibilità, pure prevista dalle modifiche del 1984, di accorpare le classi.
Peraltro, anche la modifica da una condizione di obbligatorietà per gli studenti a partecipare alle lezioni di religione, salva una richiesta di esenzione, alla facoltà di decidere se avvalersene o meno è rimasta in condizione di ambiguità.
L’insegnamento di religione, infatti, fa parte a pieno titolo dell’orario scolastico e può essere collocato in qualsiasi posizione, a prescindere dal numero di studenti per classe che se ne avvale. L’insegnante di religione partecipa a pieno titolo al collegio dei docenti e il suo voto "fa media". Quanto agli studenti che scelgono di non frequentare religione, inclusi i bambini della scuola materna, sono loro a dover uscire di classe per partecipare ad attività alternative più o meno fasulle, lasciate alla discrezione e alla buona volontà dell’insegnante loro assegnato. Ma senza avere l’alternativa di un’ora di scuola in meno, salvo che casualmente l’ora di religione sia messa alla prima o all’ultima ora. Una situazione apparentemente migliore rispetto a quando gli "esonerati" passavano l’ora di religione in corridoio.
Di fatto, tuttavia, chi "non si avvale" dell’insegnamento della religione cattolica continua ad avere meno diritti, in termini di risorse dedicate, di chi "si avvale". Mentre i loro genitori - tramite le imposte - finanziano l’insegnamento della religione cattolica.
Del tutto in contrasto con l’obiettivo del finanziamento da parte dei fedeli si è rivelato il meccanismo dell’8 per mille. In linea di principio, il passaggio dalla congrua - ovvero dal sostentamento del clero direttamente a carico dello Stato, appunto al finanziamento da parte dei fedeli tramite la devoluzione di una quota delle imposte dovute - è stato molto positivo.
Tuttavia, la formulazione di questa norma si è prestata nel tempo e tuttora si presta a un enorme imbroglio a carico dei contribuenti.
In base alla legge 222/85, infatti, ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può scegliere la destinazione dell’8 per mille del proprio gettito Irpef a un’istituzione religiosa che con lo Stato ha stipulato vuoi, come nel caso della Chiesa cattolica, un concordato, vuoi un’intesa, oppure scegliere di destinarlo allo Stato. Mentre all’inizio l’opzione era ristretta a quella tra Stato e Chiesa cattolica, oggi si può scegliere tra tredici alternative: Stato (per scopi sociali e assistenziali), Chiesa cattolica, Unione chiese cristiane avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese metodiste e valdesi, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione comunità ebraiche Italiane, Unione buddhista, Unione induista, Chiesa apostolica, Sacra diocesi ortodossa d’Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e infine, dal 2017, l’istituto buddista italiano Soka gakkai.
Il problema è che non viene attribuita a ciascuna istituzione solo la quota dell’8 per mille per la quale i contribuenti hanno effettuato una scelta precisa - come avviene per il 5 per mille destinato a associazioni non profit - ma anche la quota non specificamente attribuita viene suddivisa in base alle percentuali delle scelte effettuate. Chi non sceglie, ritenendo ingenuamente che il suo 8 per mille rimanga allo Stato, di fatto subisce le preferenze di chi invece lo ha fatto. Stante che negli anni il numero di coloro che effettuano una scelta è progressivamente diminuito ma la priorità delle scelte è rimasta per la Chiesa Cattolica, questa si prende anche il grosso della quota di chi non ha inteso designarla come beneficiaria.
In base agli ultimi dati disponibili - riferiti alle dichiarazioni dei redditi effettuate nel 2015 - solo il 44% degli oltre quaranta milioni di contribuenti aveva espresso una scelta e solo il 35% per la Chiesa cattolica, la quale, tuttavia, in base a una distribuzione proporzionale dell’intero ammontare dell’8 per mille ne ha ricevuto l’81,21% , pari a 1.005.390.045 euro. Anche le altre Chiese ricevono beneficio da questo meccanismo a dir poco ambiguo, anche se si tratta di briciole. Si aggiunga che, a differenza di quanto fanno molte Chiese, lo Stato non pubblicizza neppure l’opzione a proprio favore, e tantomeno esplicita a che cosa destinerebbe l’eventuale gettito, contribuendo all’opacità del tutto e generando sfiducia.
Non vi è, inoltre, l’opzione di destinare il proprio 8 per mille ad associazioni che si battono per la laicità dello stato o che sostengono l’ateismo, mettendo, di nuovo, i cittadini in condizioni di disuguaglianza rispetto alla possibilità di sostenere finanziariamente il proprio orientamento rispetto al fenomeno religioso. Possono farlo solo destinando il 5 per mille, che è normato diversamente.
Alla luce di questi e altri aspetti altamente problematici per la laicità dello Stato, l’uguaglianza dei cittadini (anche minorenni), la trasparenza nei rapporti tra Stato e cittadini, in questi giorni un gruppo di 150 esponenti del mondo della cultura e difensori dei diritti civili ha firmato un appello al Parlamento, al governo, alle forze politiche, affinché - in attesa di tempi più favorevoli a una radicale revisione, se non al superamento, del Concordato - si intervenga per dare almeno piena attuazione alle finalità degli accordi del 1984, con l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica e la revisione degli attuali criteri di ripartizione della quota "non destinata" dell’8 per mille. A queste due richieste si aggiunge quella di un’azione determinata per dare attuazione alla recente sentenza della Corte europea, recuperando nella misura del possibile l’Ici non pagata in passato, 4-5 miliardi di euro. Si tratta, a me pare, di proposte civili e rispettose della reciproca autonomia tra Stato e Chiese. Ma sono sicura che - se non sepolte dal silenzio imbarazzato dei media "laici" - saranno oggetto di anatemi di vario tipo.
I cattolici in politica per costruire il futuro
Oggi come 100 anni fa, l’impegno non è rivolto al passato ma riguarda
la capacità di immaginare una via d’uscita dalla crisi delle società avanzate
di Mauro Magatti (Corriere della Sera, 06.02.2019)
Nelle ultime settimane, in occasione dei cento anni dell’Appello ai liberi e forti di Sturzo, si è riacceso il dibattito sul ruolo dei cattolici in politica (Galli della Loggia e Panebianco sul Corriere ). Comunque la si pensi, il tema è oggi rilevante per almeno due ragioni. In primo luogo perché nell’Italia a pezzi di oggi il variegato mondo cattolico, nonostante la secolarizzazione incalzante, continua a essere - seppur tra mille difficoltà - una delle poche presenze rilevanti. E in secondo luogo perché, nel cambio d’epoca che stiamo attraversando, il rapporto tra politica e religione è tornato centrale. Nel post-2008, in un mondo diventato multipolare, la ricerca di un nuovo equilibrio tra identità cultuali e sviluppo tecno-economico spinge le diverse aree del pianeta a posizionarsi secondo una logica che ricorda da vicino le tesi dello Scontro delle civiltà di Samuel Huntington. Dove la dimensione religiosa è necessariamente tirata in ballo.
Non a caso, in Occidente, le varie forme della nuova destra (da Trump a Orbán a Bolsonaro) sono sostenute dall’ala più conservatrice del mondo cristiano. Un’alleanza teorizzata da Bannon e costruita contro due «nemici»: la cultura progressista (che ha il torto di combinare la fede nella innovazione tecnoscientifica con i diritti individuali); e il mondo islamico, storico avversario oggi accusato di minacciare la cristianità attraverso l’immigrazione e il terrorismo. La «democrazia illiberale» di cui parla Orbán è il prodotto di una nuova «santa alleanza» tra politica e religione - da realizzare su base nazionale - per sconfiggere i due avversari sopra richiamati. La capacità di mobilitare i fermenti identitari di parte del mondo religioso costituisce un elemento importante nella spiegazione dell’avanzata dei nuovi partiti sovranisti.
In Italia la presenza di papa Francesco - con i conseguenti orientamenti della Cei - ha finora limitato l’uso da parte di Salvini dei simboli religiosi. Ma sotto la cenere, la brace brucia.
Cento anni fa, col suo appello, Sturzo tentò di radunare le forze cattoliche per evitare la dissoluzione della democrazia, stretta tra le destre emergenti e le sterili convulsioni della sinistra. Oggi in Italia, in Europa, in Occidente, quel bisogno si ripropone: come allora, il disordine mondiale sta risucchiando gli strati popolari su posizioni estremiste. Col consenso di quella parte del mondo religioso che spera in una rivincita nei confronti della secolarizzazione.
Rispetto a 100 anni fa, si possono notare una somiglianza e una differenza. Sturzo fu il prodotto più maturo della lettura che l’Enciclica Rerum Novarum aveva offerto dei grandi cambiamenti prodotti dall’industrializzazione. Come allora, anche oggi il mondo cattolico ha a disposizione un testo (Laudato si’) che per ampiezza e ricchezza è in grado di fornire la cornice di riferimento per l’azione negli ambiti economico, sociale e politico. La differenza è che l’Appello ai liberi e forti arrivò dopo più di 20 anni spesi ad animare la presenza civile dei cattolici. Vero e proprio tirocinio nella carne delle società, che permise a Sturzo di maturare una concezione politica realista e vicina ai problemi reali delle persone.
Per quanto nel Paese ci sia molto di più di quello che emerge nella comunicazione pubblica, e per quanto molto di questo nuovo venga proprio dalla radice cattolica, c’è da domandarsi se sia già il tempo di serrare le fila o se non sia invece il momento di lavorare con più determinazione a innovare i processi dell’economia, della società, dei territori in modo da maturare i termini di una proposta adeguata ai tempi che viviamo.
Inutile cercare si rispondere in astratto a questa domanda. Quello che occorre fare è partire subito e comunque dalla società: ascoltando i bisogni e i sogni del «popolo» (termine caro a papa Francesco) e orientandoli nella direzione indicata dalla Laudato si’. E cercando poi di capire, strada facendo, quale siano i modi e le forme più adatte per contribuire al rilancio del Paese.
Quel che deve essere chiaro è che un impegno dei cattolici in politica, oggi come 100 anni fa, non riguarda la difesa di un’identità o di interessi di parte. Riguarda invece la capacità di questo sguardo sul mondo di immaginare una via d’uscita dalla crisi nella quale le società avanzate si trovano oggi. Nella convinzione che la radice cristiana abbia qualcosa da dire sul futuro e non solo sul passato.
Fu questa la grande sfida di Sturzo, che, nonostante le sue personali traversie politiche, alla fine portò frutti importanti. Il suo lavoro sul campo e la sua ispirazione politica furono infatti decisivi per la nascita dei partiti di ispirazione cristiana che, nel dopoguerra, ebbero un ruolo importante a livello internazionale.
Circa un eventuale ritorno dell’impegno dei cattolici in politica, sarà dunque di questo che si dovrà parlare: lo sguardo cristiano è capace di dire una parola nuova sulla crisi del mondo contemporaneo? Di costruire un consenso, ben al di là dei propri confini identitari, attorno alle linee tracciate dalla Laudato si’? Di essere voce di quei radicamenti concreti (nel mondo dell’impresa, della ricerca, delle professioni, del sociale e così via) da cui trarre anche quella classe dirigente di cui tutti sentono la mancanza?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... * _______________________________________________
Il caso italiano
Il sacro dovere e la sua torsione populista
di Francesco Palermo (Il Mulino, 31 gennaio 2019)
La Costituzione è il perimetro entro il quale la politica si muove, o meglio, si dovrebbe muovere, con le proprie scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee si svolge, o si dovrebbe svolgere, secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata ad arbitri, a organismi super partes, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il presidente della Repubblica. È, pertanto, non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la Costituzione può svolgersi la politica.
La Costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: "non avrai altro Dio all’infuori di me". E non può esserci politica al di fuori della Costituzione. Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati a interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’Interno ha invocato l’articolo 52 della Costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due vicende, seppur diverse tra loro, della nave Diciotti da un lato (per la quale pende una richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti) e della nave Sea watch dall’altro (la cui vertenza, di fatto, è ancora aperta), il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul "sacro dovere" di ciascun cittadino alla "difesa della patria", previsto appunto dall’articolo 52.
Tale disposizione non ha, naturalmente, nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della Carta. Non a caso, il testo che uscì come definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della Costituente. Tutti erano d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’Interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo.
Il richiamo al "sacro dovere" della "difesa della patria" ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la Costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione ("sacro dovere"), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti.
Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’articolo 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo rimette in tale contesto, facendo intuire che "l’invasione" dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla Costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della Costituzione, di eroderne il ruolo di perimetro dell’attività politica, di limite e parametro della stessa. Un’erosione di cui questo caso è solo il più recente di una lunga serie di esempi, che porta a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della Carta costituzionale.
Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale (o almeno non dovrebbe sfuggire, ma evidentemente per alcuni non è così). E infatti l’operazione politica che distorce il significato della Carta funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della Costituzione sfugge.
Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che in questo caso non è quella dei migranti, ma quella della Carta su cui si fonda il nostro stesso ordinamento in quanto democrazia. Una nave su cui siamo imbarcati tutti.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
Culti e libertà
Processo al concordato
conversazione tra Francesco Margiotta Broglio e Massimo Teodori
a cura di Antonio Carioti (Corriere della Sera, La Lettura, 03.02.2019)
Novant’anni fa, l’11 febbraio 1929, Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri firmarono i Patti lateranensi: un trattato, un concordato e una convenzione finanziaria.
Abbiamo chiamato a confrontarsi su quella vicenda e sul suo seguito, fino alla situazione attuale, Francesco Margiotta Broglio, che partecipò attivamente alla revisione del concordato nel 1984, e Massimo Teodori, anticoncordatario convinto.
Non fu comunque positivo per l’Italia chiudere il conflitto che si era aperto con la breccia di Porta Pia?
MASSIMO TEODORI - Bisogna distinguere. La questione romana viene risolta dal trattato, che riconosce lo Stato Vaticano e l’extraterritorialità della Santa Sede, del resto già assicurata dalla legge delle guarentigie, approvata dall’Italia liberale nel 1871, ma rifiutata dalla Chiesa. Invece il concordato è un accordo di potere tra il regime fascista e il Vaticano. Mussolini si procura consenso per la sua politica totalitaria: da quel momento può contare sull’appoggio della Chiesa. Non a caso Luigi Sturzo e Francesco Luigi Ferrari, cattolici antifascisti in esilio, criticano il concordato. La Chiesa dal canto suo ottiene il riconoscimento del matrimonio religioso, l’esclusione dalla docenza e da altri uffici dei «sacerdoti apostati o irretiti da censura», l’insegnamento della religione in tutte le scuole. Inoltre Mussolini versa alla Santa Sede un miliardo e 750 milioni di lire del 1929: una somma enorme che diventa il nucleo centrale dell’Istituto per le opere di religione (Ior), la banca vaticana di cui conosciamo la successiva opera nefasta. Nel 1929 i liberali ancora presenti in Senato - primo fra tutti Benedetto Croce, che pronuncia un intervento molto coraggioso - si schierano contro i Patti lateranensi. E poi la Santa Sede firma accordi analoghi con la Germania nazista (1933), con il Portogallo salazariano (1940), con la Spagna franchista (1953). Nel Novecento il concordato è il tipico strumento d’accordo tra la Chiesa e i regimi dittatoriali, non è accettabile mantenerlo in democrazia.
F. MARGIOTTA BROGLIO - Vorrei ricordare che il concordato firmato da Adolf Hitler resta tuttora vivo e vegeto nell’ordinamento della Germania e nessun partito tedesco chiede di rivederlo. Ma anche l’Italia liberale prefascista non era laica, perché la sua Costituzione, lo Statuto albertino, attribuiva al cattolicesimo il rango di religione di Stato. E le trattative per superare la questione romana erano cominciate molto prima dell’avvento di Mussolini. Basti pensare che Pio X, Papa dal 1903 al 1914, vieta alla «Civiltà Cattolica», rivista dei gesuiti, di sollevare il problema. E poi tutti i capi del governo liberali perseguono la normalizzazione dei rapporti con la Santa Sede. Quando arriva Mussolini, la questione è già matura, tant’è vero che l’ex primo ministro Vittorio Emanuele Orlando, caduto il fascismo, rivendicherà il merito di aver posto le basi per i Patti lateranensi.
Nel 1947 fu approvato l’articolo 7 della Costituzione, che indica nei Patti lateranensi lo strumento di regolazione dei rapporti tra la Repubblica e la Chiesa cattolica. Fu una scelta inevitabile?
MASSIMO TEODORI - Non era affatto necessario immettere il concordato nella Costituzione. Nessuno nell’Assemblea Costituente rifiutava una soluzione pattizia che garantisse l’indipendenza assoluta della Santa Sede. Piero Calamandrei propose che i rapporti tra Stato e Chiesa fossero regolati in termini concordatari, ma in armonia con le norme costituzionali, cioè nel rispetto della libertà di coscienza. A opporsi fu Pio XII, che non voleva rinunciare ai privilegi concessi da Mussolini al suo predecessore Pio XI. E a fargli da portavoce fu Giuseppe Dossetti: se il concordato non viene inserito nella Costituzione, disse, si mette in discussione la pace religiosa. Così nell’Italia repubblicana gruppi religiosi minoritari come i tremolanti e i pentecostali furono vessati in base a norme fasciste di derivazione concordataria. Decisivo alla Costituente fu l’atteggiamento del Pci, che approvò l’articolo 7 per ragioni teoriche, in quanto non si curava della libertà religiosa, e pratiche, perché voleva trovare un’intesa con il Vaticano in vista del grande incontro tra comunisti e cattolici perseguito prima da Palmiro Togliatti e poi, con esiti disastrosi, da Enrico Berlinguer.
Però alcuni laici liberali alla Costituente votarono a favore dell’articolo 7.
MASSIMO TEODORI - Sì, personaggi come Meuccio Ruini, Carlo Sforza, Ivanoe Bonomi, in prevalenza massoni, fecero quella scelta. Pensarono che fosse necessaria per assicurare alla Repubblica il sostegno della Chiesa. Ma Croce, che non era presente al momento del voto, poi rese noto che era contrario.
F. MARGIOTTA BROGLIO - In realtà il quadro è ancora più nero, dal punto di vista laico. Gli accordi tra l’Italia e il Vaticano erano già stati inseriti nell’ordinamento costituzionale, in vista dei Patti lateranensi, con la legge sul Gran consiglio del fascismo, approvata nel 1928. E la Costituente segue la stessa linea, non c’è rottura. Anzi la formula dell’articolo 7 si ritrova nei progetti costituzionali fascisti abbozzati nel 1940 e sotto la Rsi. La continuità è maggiore di quanto si pensi, perché fascisti e antifascisti, con qualche eccezione, vedevano i rapporti con la Santa Sede allo stesso modo. MASSIMO TEODORI - Non sono d’accordo. Tutti i socialisti e la maggioranza dei laici alla Costituente si pronunciarono contro l’articolo 7. Decisivo fu il voto favorevole dei comunisti.
F. MARGIOTTA BROGLIO - D’accordo, ma quelli che si schierarono per l’articolo 7, cioè la maggioranza, mostrarono di vedere le cose allo stesso modo dei fascisti.
La revisione del Concordato conclusa nel 1984 dal governo di Bettino Craxi fu una mossa opportuna?
MASSIMO TEODORI - Craxi fece un’operazione realista, deciso a raggiungere un accordo con i cattolici che tagliasse fuori i comunisti: all’epoca il duello a sinistra tra Psi e Pci era al culmine dell’asprezza. La leggenda narra che ai socialisti impegnati nel processo di revisione concordataria Craxi abbia detto: ai preti date i soldi e vedrete che si accontentano. Così si ottenne l’eliminazione di norme anacronistiche, ma il guaio è che il concordato del 1984 demandava a leggi successive il compito di regolare molte materie. E le conseguenze in materia economica sono state pessime. In realtà ormai negli anni Ottanta la società italiana si era secolarizzata, erano stati introdotti il divorzio e l’aborto. Capisco la mossa di Craxi in chiave politica, ma riproporre un concordato nel 1984 secondo me non aveva più senso. A mio parere la Chiesa cattolica ribadì all’epoca il suo carattere ambiguo: da una parte esprime un forte messaggio religioso universale, dall’altra tiene a ingerirsi negli affari interni italiani e a ricavarne profitti materiali.
Dunque la revisione del 1984 è stata un errore?
F. MARGIOTTA BROGLIO - Facciamo un passo indietro. Solo con l’ingresso al governo del Psi si comincia a parlare di revisione del concordato. Ma si procede a rilento. Il primo che s’impegna sul serio è Aldo Moro nel 1974, dopo il referendum sul divorzio, ma il testo negoziato allora con la Santa Sede, molto avanzato, viene poi cestinato da Giulio Andreotti. Le trattative proseguirono, furono definite altre bozze, ma solo Craxi arrivò in fondo. Ricordo che io e Giuliano Amato gli portammo il testo del nuovo concordato nel suo studio di Palazzo Chigi, dove teneva un ritratto di Garibaldi. Ci guardò, girò lo sguardo verso il quadro, si voltò di nuovo e disse: «Ci perdonerà?». Ecco lo spirito con cui firmò l’accordo.
Non sarebbe stato meglio allora puntare su un’ipotesi separatista?
F. MARGIOTTA BROGLIO - Secondo me è un’idea che non sta in piedi. L’unico Paese separatista nell’Unione Europea è la Francia, ma quella soluzione è in crisi già da tempo. L’attuale presidente Emmanuel Macron ha detto di voler rivedere la stessa nozione di laicità alla luce del principio non separatista di cooperazione tra le religioni e la Repubblica. L’obiettivo è far coesistere i diversi culti in un dialogo permanente con le istituzioni, ripensando la legge del 1905 che stabilisce la separazione tra lo Stato e la Chiesa cattolica. Non mi sembra realistico che l’Italia possa percorrere il cammino da cui la Francia pensa di tornare indietro.
Il meccanismo di finanziamento pubblico delle confessioni religiose è molto contestato dai laici. Perché?
MASSIMO TEODORI - Il principio per cui il contribuente è libero di destinare alla Chiesa cattolica o alle istituzioni di altri culti che hanno concluso un’intesa con lo Stato (ebrei, valdesi e così via) l’8 per mille della sua Irpef, indicando la scelta nella dichiarazione dei redditi, mi pare sacrosanto. Però c’è il trucco. La scelta compiuta da una minoranza, che si pronuncia in larga prevalenza per la Chiesa cattolica, si estende automaticamente anche all’Irpef di coloro che non conoscono il meccanismo e non indicano nulla, cioè la maggioranza degli italiani. Il loro 8 per mille viene diviso tra le confessioni religiose in proporzione alle scelte espresse da altri, quindi va quasi tutto alla Chiesa di Roma. Di fatto è un imbroglio a spese di cittadini inconsapevoli. Poi c’è la questione fiscale: oggi capita che un hotel di lusso, se ha una piccola cappella al suo interno, possa farsi passare per edificio religioso ed essere esentato dal pagamento dell’Ici. Infine il nodo dello Ior. In base ai Patti lateranensi, secondo una sentenza della Cassazione, la banca vaticana, in quanto ente centrale della Chiesa, non è soggetta alla magistratura italiana. E ciò ha trasformato lo Ior in un intangibile punto di passaggio per la corruzione e il riciclaggio di denaro sporco. Forse, dopo tanti scandali, ora la situazione sta cambiando, ma non sappiamo fino a che punto.
F. MARGIOTTA BROGLIO - La vera svolta è stata l’ingresso del Vaticano nell’euro, perché alcune norme europee hanno costretto la Santa Sede a modificare la disciplina dello Ior: la Corte di giustizia europea oggi può mettere il naso nella banca vaticana. Anche per quanto riguarda il fisco c’è una sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che ha sancito il recupero dell’Ici non pagata dagli enti religiosi. Dell’8 per mille poi beneficiano anche le minoranze religiose, che prima non ricevevano nulla e faticavano a sopravvivere. Il sistema può non piacere, ma vorrei ricordare che in Germania la tassa ecclesiastica è obbligatoria: per non pagarla bisogna abiurare formalmente la propria confessione religiosa, mentre in Italia basta scegliere di dare l’8 per mille allo Stato. E le Chiese tedesche ricevono somme molto più alte di quella italiana.
MASSIMO TEODORI - Però anche in Italia c’è un’obbligatorietà di fatto: l’8 per mille di chi non sceglie finisce quasi tutta alla Chiesa.
F. MARGIOTTA BROGLIO - Bisognerebbe cambiare quel meccanismo, ma vedo che adesso anche le associazioni degli atei chiedono di essere ammesse a ricevere l’8 per mille.
1927- Il Discorso dell’Ascensione di Benito Mussolini
di Luigi Benevelli (Psychiatry on line Italia, 1 febbraio, 2019)
Il 26 maggio 1927, festa religiosa dell’Ascensione, il Duce Benito Mussolini tenne alla Camera dei Deputati un discorso poi detto “dell’Ascensione” nel quale esaltò il "numero come potenza", esaminò la situazione del popolo italiano dal punto di vista “della salute fisica e della razza” e passò in rassegna il nuovo assetto amministrativo dando, infine, “le direttive politiche generali attuali e future dello Stato”. Il discorso fu importante perché declinò i tratti delle politiche razziali del Regime.
Il Fascismo adottò una eugenetica quantitativa di stampo pronatalista. Le politiche per la salute della razza italiana erano state formalmente inaugurate con l’Istituzione dell’Opera nazionale Maternità e Infanzia (O.N.M.I.) - legge 10 dicembre 1925, n. 2277- vero e proprio asse portante dell’eugenetica del Regime[1].
L’O,N.M.I. rispondeva all’esigenza del Fascismo di affermare la propria concezione della donna-madre (per la "modernizzazione della maternità") e seguire l’educazione delle giovani generazioni fin dalla prima infanzia: all’istituzione dell’ONMI seguirà quella dell’Opera Nazionale Balilla (1926), che confluirà nel 1937 nella Gioventù Italiana del Littorio. I 5.700 istituti che in Italia si occupavano di maternità e infanzia soffrivano di scarsità di risorse: per ovviare a tale situazione si era stata decisa la tassa sul celibato “alla quale forse in un non lontano domani potrebbe far seguito la tassa sui matrimoni infecondi”.
Nel 1926 fu messo fuori legge l’aborto, in quanto “crimine contro lo Stato”, e venne vietata qualsiasi propaganda in favore di metodi anticoncezionali.
Grande era la preoccupazione per la denatalità, se si escludeva la Basilicata, alla quale Mussolini tributava il suo “plauso sincero perché essa dimostra la sua virilità e la sua forza, [...] evidentemente non ancora sufficientemente infettata da tutte le correnti perniciose della civiltà contemporanea”, in primis l’urbanesimo industriale che porta alla sterilità delle popolazioni e la piccola proprietà rurale. Per non parlare della “infinita vigliaccheria morale delle classi cosiddette superiori della società. Se si diminuisce, signori, non si fa l’Impero, si diventa una colonia!!”.
Mussolini riportò i dati fornitigli dalla Direzione Generale di Sanità del Ministero dell’Interno, diretta dal prof. Alessandro Messea[2], per i quali le malattie sociali erano in preoccupante sviluppo. Per contrastarne la recrudescenza annunciò che era stata intensificata la “difesa sanitaria alle frontiere marittime e terrestri della Nazione”[3], ci si era occupati “dell’igiene scolastica, dei servizi antitubercolari, della lotta contro i tumori maligni, della vigilanza sugli alimenti e le bevande, delle opere igieniche”. Erano comunque da registrare alcuni successi, fra cui rilevante era la scomparsa della pellagra a causa della quale si erano registrati 198 morti ancora nel 1922. Rilevanti invece rimanevano le cause di morte per tubercolosi (59.000 nel 1925). Forte preoccupazione causava l’alcoolismo: al riguardo erano già state chiuse 25.000 delle ben 187.000 osterie aperte in Italia, mentre “Anche la mortalità per pazzia è in aumento e in aumento il numero dei suicidi”.
[1] L’ONMI, amministrata da un consiglio centrale con sede a Roma, dirigeva e coordinava le attività delle proprie istituzioni locali, diffuse in modo capillare sul territorio nazionale. L’organizzazione era piramidale: al Consiglio Centrale rispondevano le Federazioni provinciali, le quali a loro volta controllavano l’operato dei Patronati comunali, alla base. Le cariche erano quadriennali.
A livello comunale, oltre ai medici specialisti nello staff dell’ONMI entravano di diritto l’ufficiale sanitario, il direttore didattico o un maestro e un sacerdote. I ’"patroni" e le "patronesse" (che comparivano nella titolatura di "patronato comunale") erano generalmente scelti tra esponenti della vita locale, di solito indicate dal Sindaco, che avessero fatto esperienze nelle attività assistenziali.
Con l’istituzione dell’ONMI le politiche per l’infanzia e la famiglia passarono dalla beneficenza, per gran parte a gestione privata, all’assistenza pubblica controllata dallo Stato. Si affermò la sanitarizzazione di tutto il personale, costituito da specialisti in pediatria (professione ufficializzata nel 1932), ostetricia (nel 1937 il termine ostetrica prende il posto di levatrice), otorinolaringoiatria, dermosifilopatia e, in seguito, neuropsichiatria infantile.
[2] Alessandro Messea (1862-1949), medico , allievo di Bizzozzero a Torino, si dedicò allo studio della microbiologia e della parassitologia. Operò nella Sanità Pubblica della cui Direzione generale fu responsabile dal 1924 al 1930.
[3] Erano stati “derattizzati novemila bastimenti, cioè si sono uccisi quei roditori che portano dall’Oriente malattie contagiose; quell’Oriente donde ci vengono molte cose gentili, febbre gialla e bolscevismo...”.
Il mio regno non è di qui
di Piero Stefani ("Il Regno", 22/11/2018)
«Universo» è parola sconosciuta alla Bibbia. Per dire «il tutto», il primo versetto della Scrittura impiega l’espressione «il cielo e la terra» (Gen 1,1; cf. Ef 1,10). Il posto privilegiato che questo modo di dire riserva a ciò che noi definiamo «nostro pianeta» indica una distanza incolmabile tra l’immagine biblica del cosmo e quella attuale. Non ha senso logico definire un campo come fosse costituito da 100 ettari di terreno e da un granello di polvere. I tentativi di intrecciare teologicamente tra loro la visione cosmica biblica con quella odierna non portano da nessuna parte.
Meglio domandarsi allora perché il Nuovo Testamento, e in particolare Giovanni, precludono l’eventualità di qualificare la solennità odierna ricorrendo all’espressione «re del mondo».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: «Il mio regno non è di qui (enteuthen)» (Gv 18,36). Le due espressioni kosmos («mondo») ed enteuthen («qui») gravitano dalla stessa parte.
Kosmos è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27). Il mondo è amato da Dio (cf. Gv 1,29; 4,42) eppure odia Gesù, «perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14).
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna...); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine (cf. Gv 2,16; 7,3; 14,31).
Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che «il mio regno non è di qui» perché è «altrove», come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: «Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra (enteuthen kai enteuthen, una specie di «uno di qui e uno di qua»), e Gesù in mezzo» (Gv 19,18).
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto (cf. Gv 18,36); il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: «“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re» (Gv 18,37). Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22) è una specie di definitivo sigillo posto al «Tu lo dici» (Gv 18,37) rivolto da Gesù a Pilato. È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
NELL’ORIZZONTE DELL’IMMAGINARIO DI COSTANTINO (“IN HOC SIGNO VINCES”). Lorenzo Scupoli, Francesco di Sales, e Maria Gaetana Agnesi ....
PER COMPRENDERE come e perché il libro di Lorenzo Scupoli (nato intorno al 1530 a Otranto, l’antica Hydruntum, che cinquant’anni prima era stata teatro del tragico martirio di ottocento suoi concittadini, decapitati dai turchi sul colle della Minerva), sia diventato un “bestseller senza tempo” (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/01/lorenzo-scupoli-1530-1610-di-otranto-e-il-suo-best-seller-senza-tempo/), non è male RICORDARE CHE
A) [...] il Combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli va collocato all’interno di una ricca e articolata produzione centrata sulla nozione di ‘milizia cristiana’, che poteva esibire un precedente di assoluto rilievo come Le armi necessarie alla battaglia spirituale di Caterina da Bologna e visse la sua stagione più feconda nei convulsi anni del Concilio di Trento e nei decenni successivi [...]” (cfr.: http://www.ereticopedia.org/lorenzo-scupoli).
B) “Francesco di Sales considerava un bene prezioso il Combattimento spirituale, che portava sempre con sé da ben diciotto anni, come ricorda in una lettera del 1607”, E CHE “Discutendone con l’amico e corrispondente epistolare Jean-Pierre Camus, il Sales espresse l’opinione che il Combattimento dello Scupoli costituiva per i teatini, mutatis mutandis, ciò che gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio avevano rappresentato per i gesuiti” (op.cit.),
C) “[...] Il Combattimento spirituale fu una delle letture preferite di Maria Gaetana Agnesi, newtoniana e matematica di respiro europeo, il cui Cielo mistico - rimasto a lungo inedito - attinge soprattutto alla spiritualità teatina dei primordi, a sant’Andrea Avellino e a Lorenzo Scupoli, che con l’ascetica dell’imitatio Christi e la devozione della Croce offrivano immagini e suggestioni di straordinaria efficacia psicologica e visiva. Agnesi possedeva il Combattimento in un’edizione padovana del 1724 e di certo doveva ritrovarvi molte idee proprie, che sul piano spirituale riflettono una fede di matrice teatina, attenta alle deliberazioni del Tridentino ma sensibile alle istanze riformatrici di stampo muratoriano, in dialogo continuo con le esigenze della ragione e la sensibilità tipica dei Lumières. In tale contesto iniziò a diffondersi a metà Settecento il mito che Agnesi, da precoce adolescente qual era, aveva tradotto in greco il Combattimento spirituale di Scupoli [...] (op.cit.).
Federico La Sala
NOTA
SULL’immaginario del cattolicesimo romano e sull’ "istanze riformatrici di stampo muratoriano", nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
FLS
Fascismo
Mussolini censore di Mondadori, colpì libri di Remarque e Simenon.
In un saggio di Giorgio Fabre, edito da Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori,
il rapporto tra l’editore e la dittatura, che si accanì in particolare sugli autori stranieri
di ANTONIO CARIOTI (Corriere della Sera, 18.09.2018)
Arnaldo contro Arnoldo. Portavano nomi molto simili il fratello minore di Benito Mussolini e suo braccio destro (appunto Arnaldo), morto nel 1931, e l’editore Mondadori, uno dei più dinamici imprenditori culturali italiani. I due entrarono in collisione, narra Giorgio Fabre nel libro in uscita oggi Il censore e l’editore (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pagine 525, euro 24), quando Arnaldo Mussolini, il 31 ottobre 1929, invocò una «profilassi energica» contro i libri incompatibili con lo spirito del fascismo, attaccando tre autori. Due di essi, Erich Maria Remarque e l’«amorale» romanziere francese Maurice Dekobra, facevano parte della scuderia di Mondadori. Il terzo, cioè il giovane Alberto Moravia, di cui Arnaldo Mussolini aveva preso di mira l’opera d’esordio Gli indifferenti (pur pubblicata dall’editrice Alpes, vicina al fratello del Duce), vi sarebbe entrato più tardi.
Quell’intervento, nota Fabre, segnò una svolta nel processo di progressiva stretta, ormai estesa anche alla narrativa, che il regime andava esercitando sulla produzione libraria. È significativo soprattutto il caso Remarque, perché Arnoldo Mondadori teneva molto al capolavoro dello scrittore tedesco Niente di nuovo sul fronte occidentale, un bestseller internazionale la cui traduzione era stata bloccata per il modo in cui denunciava gli orrori della guerra. L’editore fece di tutto per convincere il governo ad assumere una posizione più morbida. Alla fine nel 1931 ottenne di stampare una traduzione italiana, ma dovette farlo in Svizzera con la clausola che il volume circolasse solo all’estero, anche se poi qualche copia giunse anche nel nostro Paese. Lo stesso avvenne per il successivo libro di Remarque, La via del ritorno.
Il meccanismo censorio sulla letteratura s’irrigidì con la svolta razzista e totalitaria del regime. Non caso il primo romanzo sequestrato, nel 1934, fu Sambadù, amore negro della scrittrice rosa Mura, edito da Rizzoli, storia di una passione meticcia. Subito dopo venne emessa una circolare che imponeva agli editori di consegnare alle prefetture, prima della messa in vendita, tre copie di ogni loro pubblicazione.
Mondadori, che era in buoni rapporti con il fascismo e ne aveva ricavato notevoli vantaggi, cercò di barcamenarsi. Era, scrive Fabre, un «vivace e disinvolto sperimentatore cosmopolita», pronto a tutto pur di venire incontro ai gusti del pubblico, ma anche un uomo d’ordine. Certamente gli pesò rinunciare a titoli del popolarissimo Georges Simenon, come Quartiere negro (sequestrato) e I clienti di Avenos, bloccato e mai uscito per la presenza di un personaggio femminile assai disinibito, mentre L’eredità Donadieu, anch’esso pruriginoso, uscì mutilato dei brani «sconvenienti».
La pratica di purgare i romanzi fu spesso adottata da Mondadori per salvare il salvabile: per esempio il 3 ottobre 1933 in una ossequiosa lettera al genero del Duce Galeazzo Ciano, all’epoca capo ufficio stampa del suocero, l’editore propose che due libri su cui erano caduti i fulmini della censura fossero tagliati in modo da eliminare il suicidio e l’aborto inseriti nella narrazione. Uno dei romanzi tornò così in circolazione, l’altro no. Mussolini, nota Fabre, stava venendo allo scoperto con le sue ambizioni di «editore della nazione», deciso a controllare «tutto il mercato librario». E anche per un abile navigatore come Mondadori gli spazi di manovra si restringevano.
L’incontro
Il libro di Giorgio Fabre sarà presentato il 19 settembre a Milano (ore 18.30) al Laboratorio Formentini (via Marco Formentini 10). Discutono con l’autore Francesco Cassata e Christopher Rundle. Modera Oliviero Ponte di Pino.
Giorgio Fabre
Il censore e l’editore
Mussolini, i libri, Mondadori *
La censura libraria fascista seguì un percorso incerto e contrastato rispetto ad altri tipi di controllo culturale, come quello su giornali, cinema, teatro e università. Solo in un secondo tempo, nel tentativo di plasmare l’opinione pubblica in senso nazionalista, razzista e bellicista, Mussolini si impegnò in prima persona nella creazione di un sistema di censura accentrato, pervasivo e articolato. Almeno fino al 1934, però, affrontò numerosi ostacoli di natura burocratica e diplomatica, e ancor più ostica si rivelò l’interazione con il mondo editoriale, un settore privato che contava già su un pubblico ampio e dai gusti raffinati.
Ricco di molta documentazione inedita, questo libro offre una rilettura sorprendente di quell’evoluzione e del suo impatto sulla cultura e sull’editoria italiana, e indica anche quale fu l’intreccio tra le vicende della censura fascista e quelle della più importante casa editrice italiana, la Mondadori, il cui «sistema culturale» mostrava un profilo internazionale talvolta indigeribile per il duce. Mussolini fu solito dedicare moltissimo tempo non solo a valutare possibili sequestri e proibizioni, ma anche a indirizzare le pubblicazioni e le traduzioni, a offrire contratti, a lavorare i libri di suo interesse perfino da editor e correttore di bozze. Contro di lui, l’«editore» per eccellenza, Arnoldo Mondadori, difese l’azienda con straordinaria inventiva e un’attitudine pragmatica e camaleontica che spesso permise di aggirare di fatto le restrizioni del regime o di trarne addirittura vantaggio, smentendo le tesi spesso consolidate di una Mondadori allineata al fascismo.
Concludono il volume 220 schede dettagliate su altrettanti libri e 170 autori Mondadori, coinvolti nella censura (tra loro Remarque, Faulkner, Zweig, Mann, Steinbeck, Vittorini, Moravia, Huxley, Simenon). Esse illustrano da un lato la pervicacia della censura, dall’altro la duttilità della casa editrice nel cercare di prevenirla rivedendo in modo opportuno testi, titoli e copertine, rimodulando le collane e tenendo «nel cassetto» le opere più scomode, in vista del crollo del regime.
Giorgio Fabre, storico tra i maggiori esperti italiani in ricerche d’archivio, è stato giornalista culturale per «Rinascita», «L’Unità» e «Panorama». È autore di numerosi volumi sull’antisemitismo fascista e nazista, sull’antigiudaismo cattolico e sulla censura durante il regime mussoliniano, tra cui L’elenco. Censura fascista, editoria, autori ebrei (Zamorani, 1998), Il contratto. Mussolini editore di Hitler (Dedalo, 2004), Mussolini razzista (Garzanti, 2005). Inoltre ha scritto, sulla storia del comunismo, Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato (Sellerio, 2015). È in uscita per il Mulino il volume, scritto a quattro mani con Annalisa Capristo, Il registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti. 1938-1943.
* Milano: Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2018 525 pp., € 24,00
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La nota sul lavoro di
Federico La Sala
Il diario (1930-1943)
De Gasperi, l’antifascista in Vaticano
Criticava i vescovi vicini al regime
Gli appunti dello statista trentino, ora pubblicati dal Mulino a cura di Marialuisa Lucia Sergio, dimostrano che fu avverso a Mussolini anche quando la Chiesa lo appoggiava
di PAOLO MIELI (Corriere della Sera, 28.05.2018)
Susciterà interesse il Diario 1930-1943 di Alcide De Gasperi, curato da Marialuisa Lucia Sergio, che è stato dato adesso alle stampe per i tipi del Mulino. Riferisce, nella prefazione, la figlia dello statista trentino, Maria Romana, che negli anni Venti, quando «il potere fascista» era agli inizi, un ex deputato del Partito popolare, Giovanni Maria Longinotti, accompagnandolo a San Pietro, aveva domandato a suo padre: «Quanto credi che durerà questo regime?». E lui, senza esitazione, gli aveva risposto: «Venti anni». Colui che nella seconda metà degli anni Quaranta e nei primi Cinquanta avrebbe guidato la ricostruzione in Italia da presidente del Consiglio, due decenni prima era stato dunque tra i pochi a non farsi illusioni circa una breve durata del regime mussoliniano. E ad azzeccare la previsione. Durante gli anni Trenta, dopo aver conosciuto il carcere, De Gasperi era stato impiegato alla Biblioteca apostolica vaticana; apparentemente si era appartato dalla politica, ma aveva preso nota di quel che andava leggendo e aveva annotato su un taccuino incontri, conversazioni, riflessioni. Taccuino che adesso viene pubblicato nella sua integrità e con il corredo di un apparato scientifico (a cura della Sergio) davvero eccellente. Con il risultato, scrive Marialuisa Lucia Sergio, di far emergere quanto fosse in errore «la storiografia costruita sul paradigma togliattiano della fondamentale adesione di De Gasperi alla posizione della Chiesa che non rifiutava in blocco il fascismo e non ne condannava i connotati antidemocratici». Viene così smentito «il luogo comune di un De Gasperi in stato d’isolamento, relegato al catalogo stampati della Biblioteca apostolica vaticana, o - al contrario - di un protégé dell’autorità ecclesiastica». De Gasperi, come emerge nitidamente dal diario, non fu né una cosa né l’altra.
Il politico di Pieve Tesino all’epoca in cui iniziò a scrivere il diario era già adulto: un uomo che dai 49 anni fino ad oltre i sessanta dovrà «arrangiarsi con lavori modestissimi», ha notato Alberto Melloni. Ma aveva una notevole esperienza politica alle spalle: era stato un parlamentare di rilievo del Partito popolare ed aveva raccolto l’eredità di don Sturzo quando, nel 1924, quest’ultimo era stato costretto ad emigrare. Nell’estate di quello stesso 1924, dopo l’uccisione di Matteotti, all’epoca dell’Aventino aveva caldeggiato un’alleanza con i socialisti di Filippo Turati e per questo era stato duramente redarguito dall’organo dei gesuiti, «La Civiltà Cattolica». Il suo riferimento era stato all’epoca il partito Zentrum tedesco del teologo Heinrich Brauns. In ciò sostenuto dal nunzio apostolico a Berlino Eugenio Pacelli (futuro Papa Pio XII) che nel 1925, proprio al fine di non destabilizzare lo Zentrum, aveva sconsigliato al pontefice Pio XI di pronunciarsi apertamente contro il socialismo (salvo poi doversi scusare con il capo della Chiesa indispettito per quella sollecitazione). Successivamente De Gasperi è presente all’ultimo congresso del Partito popolare (giugno 1925), subisce lo scioglimento del partito (novembre 1926), viene rinchiuso a Regina Coeli per un presunto tentativo d’espatrio clandestino (a Trieste).
Uscito di prigione, De Gasperi giustifica i Patti lateranensi del 1929, ma solo perché chiudono una volta per tutte la «questione romana». Spesso, soprattutto nel 1931 al momento del contrasto tra fascismo e Azione cattolica, si trova ad essere polemico con Giuseppe Dalla Torre direttore dell’«Osservatore Romano» per quelli che considera come «cedimenti al regime». Regime che lo tiene d’occhio e in più di un’occasione chiede a Pio XI di intervenire per metterlo in riga. Finché il Papa, proprio nel 1931, trasmette a Mussolini il seguente comunicato: «Il S. Padre non si pente e non si pentirà di aver dato ad un onesto uomo e onesto padre di famiglia un poco di quel pane che voi gli avete levato. Dell’azione antifascista di lui risponde il S. Padre; tanto è sicuro che non farà nulla di meno censurabile a questo riguardo». In quello stesso anno - se ne trova conferma nel diario - Pio XI ha frequenti scatti contro il regime mussoliniano. Contro il «negoziatore», padre Pietro Tacchi Venturi: il Papa gli avrebbe risposto battendo il pugno sul tavolo per poi esclamare «Mussolini è il demonio!». E contro padre Agostino Gemelli che gli propone di stringere un rapporto con il fratello del Duce, Arnaldo Mussolini (il quale morirà alla fine del 1931): «Quegli è Tartufo», avrebbe detto il Pontefice. Non mancano, nelle annotazioni degasperiane, giudizi poco lusinghieri (ancorché riferiti a terzi) nei confronti dello stesso Tacchi Venturi - «fuori dei libri non capisce niente»; «accetta cospicue elemosine per messe» - o di qualche eminente prelato come monsignor Enrico Pucci, definito «figura miserabile».
«L’Osservatore Romano», a suo avviso, è eccessivamente corrivo, nel 1932 con le celebrazioni del decennale della marcia su Roma; «rifrigge incontrollate affermazioni sul crocifisso nelle scuole». C’è una reazione indignata a padre Gemelli che ha accompagnato gli studenti della Cattolica ad una Mostra della rivoluzione fascista al Vittoriano e ha reso omaggio al re e al Duce. De Gasperi, nota Marialuisa Lucia Sergio, «censisce gli interventi più plateali dei vescovi locali a favore del fascismo». De Gasperi se la prende con l’arcivescovo di Napoli, cardinale Alessio Ascalesi, che nel settembre del 1932 ascrive alla protezione divina l’invulnerabilità di Mussolini di fronte ai vari attentati contro la sua persona, a suo dire investita di un’ «alta missione» per il bene del «mondo intero». È infastidito dall’amministratore apostolico della diocesi di Velletri, monsignor Giuseppe Marrazzi, il quale ricorda di essere stato tra coloro che applaudivano in piazza all’epoca della marcia su Roma e sostiene essere Mussolini un «uomo mandato da Dio». E anche dall’arcivescovo di Torino, cardinal Maurilio Fossati, che parla del Duce come di qualcuno «messo da Dio a reggere questa nostra cara Patria, con saggezza, prudenza e fortezza».
Secondo De Gasperi, né Pio XI né il cardinal Pacelli gradiscono le manifestazioni di consenso al fascismo tant’è che, nel maggio del 1933, Pacelli interviene per correggere il discorso d’ insediamento del nuovo arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa perché eccessivamente filofascista. Allo stesso modo viene mal considerato un intervento del cardinale Schuster al Duomo di Milano nell’ottobre 1935. All’epoca della guerra d’Etiopia poi le lodi degli alti prelati alla missione civilizzatrice del fascismo si moltiplicano mettendo in imbarazzo la Santa Sede. De Gasperi riferisce di una confidenza di Bernardo Mattarella secondo cui l’arcivescovo di Palermo Luigi Lavitrano nel settembre 1935 avrebbe ricevuto dal Papa la seguente ingiunzione: «Tacere, tacere, tacere!».
Tutti questi cedimenti della Chiesa al regime provocano a De Gasperi acuta sofferenza. Come quando nel 1932 le suore della scuola Pio X a cui sono iscritte due sue figlie pretendono che le ragazze prendano la tessera del Partito fascista: lui non accetta e le sposta all’Istituto francese delle suore di Nevers («lacrime», appunta sul diario). Nel 1934 annota sconsolato: «L’adattamento ha fatto passi da gigante. Nessuno si pone più la domanda di nuovi o possibili rivolgimenti. Lo stato d’animo di opposizione va tramutandosi in rassegnazione». Nell’inverno del 1935 scrive delle «grandi umiliazioni sofferte» e aggiunge: «Se un giorno le mie figliuole leggeranno queste righe, sappiano che ho sopportato soltanto per la famiglia e per loro».
Pio XI, però, nelle pagine del diario degasperiano resiste (e con lui il cardinale Pacelli) a questo «codinismo» dei vescovi e della stampa cattolica. «Sì, sì, il fascismo è il nemico», avrebbe detto il pontefice dispiaciuto perché l’arcivescovo di Firenze Dalla Costa aveva «esagerato in prudenza»: «non mi stanco di ripeterlo da mesi a quanti lo vogliono sentire».
Però il Papa delude De Gasperi per il rifiuto di appoggiare lo Zentrum tedesco ancora all’inizio degli anni Trenta che vedono l’avvento di Hitler al potere (1933). Qui, nota la Sergio, De Gasperi salva solo Pacelli, che detta all’«Osservatore Romano» una nota in difesa del partito cattolico centrista. Nota che però, a limitarne l’effetto, compare sul giornale della Santa Sede «come corrispondenza da Karlsruhe». E, in quanto tale, anonima. Pio XI avrebbe detto in quei giorni: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il Papa». De Gasperi che pure da giovane era stato affascinato dal cristianesimo sociale (e antisemita) di Karl Lueger appare sconcertato e segnala la «meraviglia» del cardinale Michael von Faulhaber per la circostanza «che nei circoli ecclesiastici di Roma si comprendesse così poco la perniciosità del movimento hitleriano». Secondo voci riferite da De Gasperi, Pio XI avrebbe confidato all’ex cancelliere della Repubblica di Weimar Heinrich Brüning la propria intenzione di condannare sia il fascismo che il nazismo (quasi un’anticipazione dell’enciclica Mit Brennender Sorge). Ma Brüning, come nota la Sergio, non menziona quest’episodio nelle proprie memorie pubblicate nel 1977.
Quando nel 1938 la Germania nazista annette l’Austria, De Gasperi annota il proprio stupore al cospetto di una dichiarazione dell’episcopato austriaco in favore dell’intervento hitleriano. E condivide questa sua ansia con «il solo cardinale Pacelli» e con Montini (futuro Papa Paolo VI) che gli confida: «Così va perso il senso della Chiesa!». Poi, nel 1938, scrive che Pio XI avrebbe avuto parole di fuoco sia contro Mussolini che contro Hitler.
Secondo la Sergio il diario di De Gasperi «non ci consegna alcun verdetto su Pio XI». Trattandosi di «annotazioni giornaliere, con un carattere di spontaneità e di immediatezza», esse «hanno il vantaggio di accompagnare il lettore l’ungo l’itinerario del pontificato di Papa Ratti senza la tentazione di tracciare una linearità prestabilita che razionalizzi la complessità di quell’epoca storica riportandola a uno schema interpretativo». Ciò che da queste pagine sembra emergere con chiarezza «è piuttosto l’identikit della vittima del conflitto regime-Chiesa, ossia un laicato cattolico posto nella condizione quotidiana di dover chiedere alla gerarchia il permesso di pensare».
Poi verranno il pontificato di Pio XII, la Seconda guerra mondiale e, a seguito dell’intervento degli Stati Uniti nel conflitto (fine 1941), De Gasperi riprende fiducia. Anche se compare qualche sconsolata allusione alla sua anzianità (l’uomo aveva all’epoca poco più di sessant’anni): «Inverno lungo, 1941-1942; per la prima volta sento gli attacchi dell’età e mi spavento degli anni, perché tutti, parlando d’altri sessantenni, dicono spesso: è un uomo finito, troppo vecchio». Accenna anche a un «esaurimento nervoso che mi durava da quindici giorni», ma subito si rinfranca: «Va migliorando con iniezioni, uova, riposo». Si compiace di alcune (riservate) prese di posizione di Pio XII ostili a Hitler, nota che il cardinale Pacelli fin dal 1942 è favorevole ad una soluzione repubblicana dal momento che non ha alcuna fiducia in casa Savoia. Si accorge che lo stesso Pacelli in qualche modo protegge l’amendoliano Meuccio Ruini. Adesso, avvicinandoci al 1943, De Gasperi non è più un isolato, anzi è l’uomo cardine della ricostituzione politica postfascista e antifascista. Nello stesso tempo si comprende come ritenesse già allora indispensabile, osserva Marialuisa Lucia Sergio, «l’alleanza con i partiti laici, indipendentemente dalla maggioranza di governo, come condizione per impedire al Paese fratture di tipo confessionale e per resistere alle pressioni della destra cattolica». Pagine preziose che contengono una lezione su come sia possibile mettere a frutto gli anni in cui si è costretti alla marginalità e al silenzio per riproporsi in tempi migliori come fulcro di un grande rinnovamento politico.
Il Diario 1930-1943 di Alcide de Gasperi (il Mulino, pagine 271, e22), sarà presentato mercoledì 30 maggio a Roma (ore 17) nella Sala capitolare presso il chiostro del convento di Santa Maria sopra Minerva (piazza della Minerva 38). Intervengono nella discussione Angelino Alfano, Francesco Bonini, Piero Craveri e Marco Impagliazzo. Modera Carlo Felice Casula. Saranno presenti Maria Romana De Gasperi e Marialuisa Lucia Sergio. Tra gli studi sullo statista trentino spiccano la biografia di Piero Craveri De Gasperi (il Mulino, 2006) e quella in tre volumi di Alfredo Canavero, Paolo Pombeni, Giovanni Battista Re, Giorgio Vecchio, Pier Luigi Ballini e Francesco Malgeri Alcide De Gasperi (Rubbettino, 2009).
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
B
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito. UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
"Legge Morale"
e
"Cielo stellato"
sulla tomba dell’EUROPA
Napoleone-Hegel-Heidegger?!
.***CRITICA DELL’ ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA. IL DOLLARO ("IN GOD WE TRUST") E LA CROCE ("DEUS CARITAS EST"): TUTTO A "CARO-PREZZO" ("CARITAS")!!!
EVADERE DALLE IDEE VECCHIE!!! CON MARX E KEYNES, OLTRE. Un’indicazione e "una premessa... di civiltà"
Finanze Vaticane: la leggenda dell’oro di Mussolini
di Andrea Gagliarducci
CITTÀ DEL VATICANO , 12 luglio, 2017/2:00 PM (ACI Stampa). Riguardo le finanze vaticane, c’è una leggenda, che fu riportata tra l’altro dal Guardian poco prima della rinuncia di Benedetto XVI: quello dell’oro di Mussolini. Il giornale inglese sosteneva come il Vaticano, con i soldi datigli da Mussolini, abbia potuto costruire un vero e proprio impero finanziario, tanto che ora possiede negozi di lusso nel cuore di Gucci. Ma davvero le cose stanno così?
Uno sguardo alla storia - con l’aiuto del prezioso volume di Benny Lai “Finanza e Finanzieri Vaticani”, ormai introvabile - aiuta a comprendere il senso di quello che sono le finanze vaticane. Che cominciano a fiorire, nel modo moderno in cui le conosciamo, quando nasce “quel tanto di terra che ci permette di compiere la nostra missione”, come diceva Pio XI, e cioè quando nasce lo Stato di Città del Vaticano. Uno Stato che nasce dalla riparazione di un torto.
Santa Sede: le ragioni di uno Stato
Nel 1870, le truppe di Re Vittorio Emanuele sono entrate a Roma attraverso la breccia di Porta Pia, il Papa è dovuto andare in esilio a Castel Sant’Angelo, e i beni della Santa Sede sono stati in larga parte espropriati. Nasce in quei tempi l’Obolo di San Pietro, una raccolta di offerte spontanea da parte dei fedeli, che permette in qualche modo alla Santa Sede di far fronte alle spese.
Il Regno d’Italia propone una riparazione, la legge delle guarentigie. Ma è una riparazione unilaterale, che non compensa beni e terre che sono state espropriate. In più, quello è il periodo in cui molte terre di monasteri e parrocchie vengono espropriate, con l’intento di dare fiato all’economia del Regno d’Italia. La situazione è tesissima. E poi, con il tempo, i dissidi cominciano ad appianarsi. I cattolici si organizzano, superano il divieto di impegnarsi nella politica del Regno, danno vita a un loro pensiero politico e ad una dottrina sociale ispirata da quello che in molti considerano uno dei più grandi filosofi cristiani degli ultimi due secoli, e cioè Papa Leone XIII.
Arriva la Prima Guerra Mondiale. Papa Benedetto XV si impegna per la pace, ed è frustrato dalla difficoltà ad avere relazioni diplomatiche. Perché gli ambasciatori intrattenevano rapporti con la Santa Sede attraverso le ambasciate ubicate anche in Italia. Ma i Paesi in guerra ritirano i loro ambasciatori. Per Benedetto XV diventerà difficile avere rapporti con la Germania, con un ambasciatore che è in guerra con l’Italia e non si trova più, appunto, fianco a fianco in Vaticano. È necessario un territorio, e uno Stato sovrano, per portare avanti una missione di pace.
Finisce la guerra, e presidente del Consiglio è Giovanni Giolitti. Si parla, da tempo, di una conciliazione tra Stato Italiano e Chiesa. Ma Giolitti è contrario. Il problema - allora come oggi - è la sovranità. “Se il Vaticano mi domandasse in piena sovranità un territorio grande come un francobollo (e certamente me ne domanderebbe uno più grande) io non glielo darei”, dice - e le sue parole sono riportate nelle memorie della Conciliazione del cardinale Pietro Gasparri, ancora inedite e portate alla luce da Benny Lai, decano dei vaticanisti, nel suo libro “Finanze Vaticane”. Furono queste parole che fecero crescere l’attenzione nei confronti di Benito Mussolini. Il quale, da semplice deputato, aveva dichiarato come il fascismo non predicasse e non praticasse l’anticlericalismo. Era il 1921. Mussolini prenderà il potere un anno dopo.
La Conciliazione
Le trattative per la Conciliazione sono lunghe e complesse. E uno dei problemi fu proprio il tema finanziario. Se ne occupò personalmente Pio XI. Il quale puntava ad ottenere una indennità da due miliardi di lire, da versarsi in alcune rate. La stessa somma, con relativi interessi - sosteneva il Papa - che lo Stato italiano si era unilateralmente impegnato a pagare dopo l’occupazione di Roma, con la leggi sulle guarentigie. Si accontenterà, alla fine, di un miliardo e 750 milioni di lire, parte in contanti e parte in titoli al portatore.
Cosa fare di quel patrimonio? Due mesi dopo la firma dei Patti Lateranensi, e quasi trenta giorni prima della loro ratifica, il Papa chiede di prendere contatto con l’ingegner Bernardino Nogara, per dargli l’incarico di gestire i fondi provenienti dalla Convenzione Finanziaria. Sono questi i “soldi di Mussolini” di cui parlava il Guardian. Soldi, in realtà, dello Stato italiano, che andavano a compensare e riparare una occupazione. E che servirono alla Chiesa per riprendere nel modo migliore la propria missione mondiale.
Ma il Guardian sostiene che Mussolini avrebbe ricompensato il Vaticano per il sostegno e il riconoscimento ufficiale del regime con un enorme patrimonio, che sarebbe stato investito a Londra in due immobili di pregio. Questi immobili sarebbero di proprietà della Grolux Investments, controllati dalla società svizzera Profima, che sarebbe riconducibile al Vaticano. Di questa società sarebbe stato infatti parte del Consiglio di Amministrazione proprio Bernardino Nogara (1870-1958).
Finanza vaticana, i primi passi
Dove è il mistero? Bernardino Nogara portò in Vaticano il concetto di partecipazione azionaria. Gli venne affidata la sezione Speciale dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, e da quel posto - analogo ad una banca centrale - comprò azioni, con investimenti cospicui e indovinati. Era il periodo della Grande Depressione del ’29, e permise a Nogara di comprare partecipazioni in varie società. Nogara poté così sedere nei Consigli di Amministrazione di innumerevoli società italiane, e questo ne aumentò il prestigio internazionale. E - proprio durante la Grande Depressione - Nogara creò la Grolux e la svizzera Profima. Una società che rientrava nella strategia di diversificare gli investimenti della Santa Sede, puntando sull’oro e sul mattone.
La storia della Grolux è stata raccontata da John Pollard, nel libro Money and the Rise of the Modern Papacy: Financing Vatican 1850-1950.
Nel libro, Pollard segue il tragitto del denaro lungo tre continenti. La sua vuole essere una storia sul Papato e sull’amministrazione del denaro. Ma in realtà, molti Papi - a parte Pio XI - non si sono occupati per niente dell’amministrazione. Ci sono una ristretta cerchia di laici e religiosi che invece hanno lavorato per la Santa Sede sulle materie finanziarie. E i loro profili sono affascinanti.
Per esempio, Giacomo Antonelli, cardinale segretario di Stato di Pio IX, che gestì la Tesoreria dal 1850 al 1876. Antonelli fu no degli architetti della prima riorganizzazione del budget degli Stati papali. Il suo sforzo di portare in pareggio un bilancio disastrato dall’occupazione e dalla perdita dei territori pontifici dipese soprattutto da un prestito chiesto e ottenuto dalla Banca dei Rothschild.
E qui il lettore si può stupire: hanno chiesto un prestito ad una banca ebrea? Ma non c’è niente da stupirsi. Anzi, i rapporti della Chiesa con il mondo ebraico sono più stretti di quello che si può pensare. Tanto che fu Cameo, un giurista ebreo, a delineare la Legge Fondamentale dello Stato di Città del Vaticano dopo la Conciliazione. E Bernardino Nogara veniva dalla Banca Commerciale Italiana, gestita da una lobby ebraica che faceva capo a Toepliz. Un legame che fece sì che il Vaticano comprasse per anni solo azioni della Banca Commerciale Italiana, a discapito di altre banche.
Nogara poteva contare su una rinata attività diplomatica della Chiesa, che Benedetto XV aveva lasciato con le casse vuote a causa della guerra, che impediva ai vescovi di portare il contributo dei fedeli per l’Obolo di San Pietro nelle visite ad limina. Dal 1930, Nogara investì in una rete di progetti che si estendeva per tutta l’Europa, i centri finanziari degli Stati Uniti e persino il Sud America.
Chi era Bernardino Nogara?
Primo non romano a prendere il controllo delle finanze vaticane, Nogara veniva da una famiglia così cattolica da piangere per l’ingresso dei bersaglieri del Regno d’Italia a Roma. Laureatosi a pieni voti in ingegneria industriale ed elettrotecnica all’Università di Milano, era partito per l’Inghilterra subito dopo il matrimonio, e andò a lavorare in una miniera del Galles. Da lì fu inviato in un’altra miniera in Grecia. Nel 1908 risiedeva a Costantinopoli e dirigeva miniere nell’Asia Minore. Lì fondò la Società Commerciale d’Oriente, un “braccio” della banca Commerciale. Conosceva così bene l’ambiente politico ed economico dell’Impero Ottomano che divenne l’uomo di fiducia del governo italiano per tutti i problemi d’Oriente.
In questa veste, si occupò del Trattato di Ouchy, che pose fine alla guerra libica tra Italia e Turchia. Nel 1914 entrò nel Consiglio di Amministrazione del Debito Pubblico Ottomano come delegato italiano, e alla fine della Prima Guerra Mondale era nelle commissioni economiche e finanziarie delle Conferenze che dovevano stipulare i trattati di pace con Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia.
Un uomo, insomma, dalle molteplici relazioni, che si estendevano dal mondo politico diplomatico al settore bancario. L’uomo giusto per gestire un patrimonio che nasceva con una vocazione internazionale, tanto che agli impiegati della Speciale era richiesta la conoscenza fluente del francese e dell’inglese.
E nel frattempo, crescevano le Opere di Religione. Dopo l’ingresso dell’Italia in guerra accanto alla Germania di Hitler, nel 1940, le possibilità operative delle Opere di Religione hanno bisogno di crescere.
Questo “settore” delle finanze vaticane, sin dall’inizio della guerra, aveva potuto cambiare le lire in valuta pregiata, e questo aveva facilitato i soccorsi del Papa alle vittime del conflitto. Da qui nasce un nuovo tessuto connettivo delle finanze vaticane.
La nascita delle Opere di Religione
Come nascono le Opere di Religione? Lo racconta ancora Benny Lai.
Appena un giorno dopo la morte di Papa Pio XI, il 10 febbraio del 1939, monsignor Angelo Pomata si presentò ad uno sportello delle Opere di Religione. Il cassiere era Massimo Spada. Pomata era lì su ordine di Eugenio Pacelli, che con la scomparsa del Papa aveva assunto l’incarico di Camerlengo.
Pacelli - che nel Conclave che sarebbe seguito sarebbe stato eletto Papa con il nome di Pio XII- aveva ordinato a monsignor Pomata di depositare il denaro trovato nel cassetto della scrivania del Papa, in lire e in dollari.
Spada aprì un conto, sotto la dizione “Segretaria di Stato - Obolo nuovi conti correnti”. Da qui, forse, comincia la storia della finanza vaticana. Perché attraverso quel conto corrente, e poi attraverso la totale autonomia dell’Istituto di Opere di Religione - la cosiddetta “banca vaticana”, che in realtà è più un fondo fiduciario - che si potranno mettere a disposizione del Papa dei fondi a sua discrezione. Fondi con i quali ripianare il bilancio della Santa Sede, come è accaduto di recente. Oppure fondi da destinare alle opere di carità. Oppure fondi - e fu il caso di Pio XII - di far passare in canali sicuri, per aiutare le operazioni di pace.
Dal 1940, le opere di religione furono dirette da una commissione cardinalizia, e attraverso questo canale passarono gli aiuti del Papa alla Polonia occupata dalla Germania, ai Balcani e ovunque decidessero Pio XII e la Segreteria di Stato, tanto che l’Osservatore Romano ha sottolineato in un articolo del 2012 che “Pio XII ha combattuto il nazismo anche con gli investimenti”.
E lì ci si pose il problema giuridico: questi interventi erano leciti? Carlo Pacelli, nipote di Papa Pio XII e consigliere generale dello Stato di Città del Vaticano, pose il problema ad alcuni giuristi italiani, tra cui Vittorio Emanuele Orlando - una figura politica di spicco, che fu anche presidente del Consiglio e parte della delegazione italiana alla negoziazione del trattato di pace di Versailles.
Il tema della sovranità
La domanda era: le azioni delle Opere di Religione, pur essendo in Vaticano, si riferivano allo Stato Città del Vaticano o potevano considerarsi giuridicamente indipendenti? Sì, potevano considerarsi indipendenti, conclusero i giuristi. E questo parere portò alla nascita, con il chirografo di Pio XII del 27 giugno del 1942, dell’Istituto per le Opere di Religione, dotato di personalità giuridica propria. E questo permise alla Santa Sede di inviare aiuti del Papa in ogni parte del mondo, persino a Hiroshima e Nagasaki - anche grazie alla piena disponibilità dei conti presso le banche statunitensi richiesta dagli officiali vaticani all’incaricato d’affari degli Stati Uniti Harold Tittman e accordata dal presidente americano Roosevelt.
Nasce così il patrimonio finanziario della Santa Sede. Si tratta del patrimonio di uno Stato sovrano, e che infatti come uno Stato ha strutturato adesso il suo ramo finanziario per aderire agli standard internazionali e proseguire il suo percorso verso la piena trasparenza. Un percorso aderente con la missione della Santa Sede e rispettoso della sua sovranità.
Archivi Vaticani, Pio X e la mappa del “mondo modernista”
La ricezione e l’applicazione dell’enciclica “Pascendi Dominici Gregis” nella prima analisi comparata di tutte le relazioni pervenute a Roma dai vescovi e dai superiori degli ordini religiosi di ogni continente
di Marco Roncalli (La Stampa, 21/06/2017)
Città del Vaticano. Passato alla storia come la «sintesi di tutte le eresie», il modernismo conobbe all’alba del ‘900 un momento cruciale della sua storia per la condanna di Pio X. Obiettivo del Pontefice era la chiusura di ogni spazio al movimento che ripensava il messaggio cristiano nel confronto con la società del tempo, opponendo però -ai suoi occhi- fede e storia, Sacra Scrittura ed esegesi biblica, dottrina teologica e scienza. La risposta più forte di papa Sarto arrivò, come è noto, con l’ enciclica Pascendi Dominici Gregis ( 8 settembre 1907), decisa a sradicare con energiche misure antimoderniste quello che a giudizio del gesuita Enrico Rosa de “La Civiltà Cattolica” era «un cristianesimo nuovo che minacciava di sopprimere l’antico».
L’enciclica, nelle sue pagine conclusive, prescriveva che i vescovi inviassero ogni tre anni, a partire dal 1908, una relazione giurata sullo stato del modernismo nelle loro diocesi, confermando quanto richiesto: che fosse posta la filosofia tomista a fondamento degli studi; che i rettori e gli insegnanti dei seminari e delle università cattoliche non fossero infetti da modernismo; che venisse vietata la lettura di scritti modernisti; che venissero nominati i censori per le pubblicazioni; che fossero impediti i congressi di sacerdoti; che venisse stabilito un Consiglio di vigilanza.
Prescrizioni che avrebbero avuto una lunga eco. E non solo per il loro rilancio, tre anni dopo, attraverso un nuovo decreto antimodernista Sacrorum antistitum (1 settembre 1910), noto per la parte con la formula del giuramento imposto al clero e nuove accentuazioni nel testo della Pascendi. Anche dopo la morte di Pio X, infatti, richiami al modernismo avrebbero caratterizzato gli anni successivi nella storia della Chiesa, contribuendo (sempre meno dal pontificato di Giovanni XXIII in poi), alla diffusione di un modello monolitico di Chiesa e di disciplina, segnato dal ruolo centrale delle gerarchie ecclesiastiche.
Ma fermiamoci sulle reali conseguenze della Pascendi Dominici Gregis a partire dalla prima ricognizione che ne ha analizzato ogni direttiva e l’ impatto in ogni angolo del pianeta scandagliando una vasta mole di documenti, in larghissima parte inediti. Si tratta di carte custodite negli Archivi della Congregazione per la Dottrina della Fede, della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, della Congregazione per le Chiese Orientali, della Congregazione “Propaganda Fide” (oggi Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli), nell’ Archivio Segreto Vaticano. Carte valorizzate da una ricerca internazionale sostenuta dal German Research Council (Deutsche Forschungsgemeinschaft) durata diversi anni, con contributi di noti specialisti, ora pubblicata con il titolo “The Reception and Application of the Encyclical Pascendi, The Reports of the Diocesan Bishops and the Superiors of the Religious Orders until 1914”, dagli storici Claus Arnold (Università di Mainz) e Giovanni Vian (Università di Venezia) per le Edizioni Ca’ Foscari, in modalità open access (il volume può essere scaricato liberamente dal sito dell’editore).
Come spiega Alejandro M. Dieguez (Archivio Segreto Vaticano) aprendo il volume, alla pubblicazione dell’enciclica nessuno aveva previsto le conseguenze “operative” delle disposizioni: dall’istituzione «quanto prima» del Consiglio di vigilanza in diocesi all’ invio «alla Santa Sede» entro un anno e poi ogni triennio di una «diligente e giurata esposizione sull’attuazione delle prescrizioni dell’enciclica e sulle dottrine che corrono in mezzo al clero». Nemmeno l’organo deputato a ricevere queste relazioni era stato chiaro, motivo dunque di una dispersione dei primi invii approdati in diverse sedi: dalla Segreteria di Stato al Sant’Offizio, dalla Concistoriale a Propaganda.
E se è vero che le prime relazioni arrivate a quest’ultima sede passarono subito alla Concistoriale, il dicastero guidato dal cardinale De Lai, prelato che godeva la totale fiducia di Papa Sarto (non le successive), altre furono a lungo oggetto di contese tra la Concistoriale e il Sant’Offizio superate solo dall’1 maggio 1912. Da quel momento «fu chiaro che l’esame delle relazioni sul modernismo spettava alla Congregazione Concistoriale», osserva Dieguez, spiegando che «se l’analisi di quanto avvenuto al ‘centro della cristianità’ rivela una certa disorganizzazione curiale riguardo alla ricezione ed elaborazione delle notizie richieste dalla Pascendi» l’esposizione di vari casi “getta” luce sulle incertezze e, più in genere, sullo stato d’animo della “periferia”, ossia delle Chiese locali.
Così, al di là del tasso di assolvimento dell’obbligo, dove le cifre che interessano - spiega qui Vian - sono quelle per il 1908 e il gennaio 1912 (quando la presentazione dei rapporti era dovuta dapprima, fino all’agosto 1910, alla scelta dei vescovi di conformarsi alla norma della Pascendi e poi, dal settembre 1910 a tutto l’anno successivo, al suo rilancio con il Sacrorum antistitum), e pur non dimenticando che dal gennaio 1912 l’obbligo poté essere ottemperato anche rispondendo a due quesiti specifici nelle “relationes ad limina” (non considerate in questa monografia), sono dati più che significativi quelli qui raccolti e interpretati. A maggior ragione vista la piena “copertura” di questa prima analisi comparata degli atteggiamenti dei vescovi innanzi agli obblighi della “relazione Pascendi”. Un’analisi che nonostante l’ esiguità delle risposte solo rispetto alle attese, presenta campioni assai esaurienti al fine di trarre conclusioni. Un’enorme mole di documenti qui suddivisi innanzitutto per aree geografiche, con appositi “focus” dilatati nei capitoli dalle diocesi del Vecchio Continente a quelle del globo.
Un primo approfondimento riguarda la Francia dove la repressione antimodernista toccò di fatto solo un piccolo numero di seminaristi e la minaccia di misure più rigorose bastò a imporre il silenzio. «L’enciclica ha bloccato le ricerche più innovatrici e se sembra aver messo un termine alla crisi modernista, non è senza aver sterilizzato per lungo tempi i differenti tentativi di adattare il discorso ecclesiale alle realtà del momento», nota Louis-Pierre Sardella nel suo contributo, aggiungendo che i vescovi constatavano che «molti fedeli, senza aderire al corpus ideologico modernista» avevano «tuttavia preso l’abitudine -come deplorato dall’enciclica, “di pensare, parlare, scrivere con maggior libertà di quanto convenga a dei cattolici”...». Insomma siamo ad una data e in un luogo in cui la distanza tra l’espressione del Magistero (con le sue norme dottrinali e disciplinari) e la vita reale dei cristiani (con i suoi problemi) aumenta, ma parallelamente anche a una crescente indifferenza, mentre si profilano sfide davanti alle quali è difficile presentarsi con la sola armatura dogmatica difensiva di una istituzione gerarchizzata.
Un secondo meticoloso approfondimento affronta la situazione in Italia. Raffaella Perin, dato conto delle assenze anche di vescovi esemplari nel campione di relazioni ritrovate - forse perché i presuli che avevano già fama di antimodernisti le ritennero superflue - osserva che gli altri presuli meno in linea con Pio X «forse non risposero perché non potendo opporsi apertamente o sollevare perplessità, con il loro silenzio avrebbero almeno evitato di accondiscendere o, al contrario di alimentare ulteriori sospetti con risposte che potevano essere interpretate malevolmente». L’analisi delle relazioni pervenute consente sottolineature sull’accoglimento degli ordini papali quanto alla necessità di vigilare e all’impegno nel continuare a sorvegliare il proprio clero e l’ortodossia dei seminari, ma rileva pure la denuncia dell’ignoranza del clero, che limitava - agli occhi dell’episcopato - la possibilità che il modernismo potesse diffondersi nelle diocesi italiane.
Allo scandaglio della Spagna è dedicata invece l’analisi di Alfonso Botti. Lo storico conferma per l’area iberica la mancanza di un vero movimento modernista e, di contro, la presenza di un antimodernismo che rimarca la curvatura conservatrice e tradizionalista di questo episcopato che, nel disorientamento causato da istruzioni poco chiare, non percependo il problema con la stessa intensità della curia romana, o ritenendolo controproducente, rinunciò persino a segnalare le poche posizioni moderniste nelle varie diocesi.
Non c’è qui lo spazio per continuare a ripercorrere l’ampia ricerca con tratti simili o diversi, in altri Paesi europei: dal Belgio ai Paesi Bassi, dalla Svizzera alla Russia (Giovanni Vian); in Germania (e qui Claus Arnold porta il lettore sul terreno delle eccezioni concesse da Pio X per la situazione politica e religiosa che aveva spinto i vescovi a raccomandare alla Santa Sede di non pubblicizzare le misure previste dalla Pascendi, per evitare di suscitare l’irritazione pubblica verso la Chiesa cattolica e il papato); o in Austria (Michaela Sohn-Kronthaler), o in altre aree non germanofone dell’ex Impero austro-ungarico (Otto Weiß). Né c’è lo spazio per descrivere la situazione in Nord America e in America Latina (terreno d’indagine rispettivamente di Charles Talar e di Maurizio Russo che hanno rilevato come, nelle Americhe, il modernismo fosse una questione europea o legata alla presenza di ecclesiastici originari del Vecchio continente); e neppure nelle Indie Orientali, nei mondi lontani dell’ Indocina o dell’Oceania (laddove - rileva Vian - come in altre aree della cattolicità extraeuropea le sollecitazioni di Pio X furono neglette).
E nemmeno possiamo fermarci sulle interessanti “relazioni Pascendi” degli istituti religiosi (analizzate da Dieguez), i cui superiori - si è detto- erano pure stati invitati a inviare reports sul fenomeno a prefissate scadenze. In realtà è proprio l’intero atlante del modernismo che viene qui ricostruito. Piuttosto proviamo qui a condividere con i curatori le ipotesi che la sintesi di questa iniziativa mondiale suggerisce. «Che nell’ottica di Pio X e dei suoi collaboratori di Curia valesse la pena di operare a 360° contro il modernismo, attraverso strumenti come le relazioni, i consigli di vigilanza, i censori sulla stampa e altre misure disciplinari, e questo anche di fronte a limitate adesioni da parte degli ordinari diocesani, sembrano confermarlo le rare vicende, non scontate, di individuazione di nuovi ‘modernisti’, nelle località più disparate della cattolicità, di cui le ricerche confluite nel presente volume danno notizia», afferma Vian.
E se è vero che Arnold concorda sull’efficacia dell’operazione sul piano della mobilitazione antimodernista, sottolineandone l’impatto al di là di quanto risulti dalle relazioni giunte a Roma, lo stesso giunge a rilevare che Pio X aveva buone ragioni per non essere entusiasta dell’episcopato cattolico nel suo insieme. «L’elevato numero di assenze tra i rapporti attesi a norma della Pascendi - un dato ancora più significativo per gli ordinari di diocesi dell’Europa Occidentale, l’area complessivamente più coinvolta dalla crisi modernista - merita la formulazione di un’ipotesi: accanto a probabili negligenze, mi pare che in quel modo si manifestassero perplessità, che in alcuni casi erano anche più o meno velate riserve, di fronte al criterio ampio e quasi onnicomprensivo dell’antimodernismo proposto da Pio X e dagli ambienti curiali più intransigenti e integristi», afferma Vian.
Insomma diversi contributi del volume rilevano che per non pochi ordinari il modernismo visto in diocesi era assai diverso che visto da Roma. Di qui dubbi, incomprensioni, incertezze, ma anche - per alcuni - distinzioni e non condivisione di giudizi e di modalità di intervento: elementi che contribuirono ad alimentare un graduale distacco di una parte dell’episcopato nei confronti del pontificato di Pio X palesatosi con la scelta del conclave dell’estate 1914 , che -afferma sempre Vian- optò per un candidato portatore di una linea almeno in parte di discontinuità rispetto a quella del predecessore. Questo risultò particolarmente evidente- anche se non fu l’unico aspetto - per il disciplinamento del modernismo.
Non è tutto. Infatti, l’appurata convinzione - espressa da vescovi delle Americhe, dell’Asia e dell’Oceania - che il modernismo costituisse un problema europeo (o di importazione dall’Europa, attraverso riviste, libri e missionari), si manifestò pure come l’ indizio di un cattolicesimo che, mentre nei suoi vertici continuava a essere pensato come romano, tutt’al più, europeo, andava prendendo sempre più consapevolezza della necessità di più ampie prospettive. «La predominante dimensione eurocentrica del cristianesimo non era un fenomeno proprio della sola Chiesa cattolica. Anche le Chiese delle altre confessioni cristiane continuavano a ritenersi caratterizzate dal riferimento a culture e teologie profondamente radicate nel contesto europeo. E, come è noto, più in generale era la stessa percezione dell’opinione pubblica europea - che, attraverso i possedimenti coloniali, era trasmessa anche a gran parte della popolazione del pianeta - che continuava a guardare all’Europa, soprattutto a quella dei Paesi occidentali, come al centro e alla guida della civiltà umana», scrive Vian nelle ultime pagine di The Reception and Application of the Encyclical Pascendi. E conclude: «La Prima Guerra mondiale e il dopoguerra avrebbero reso più evidente come la transizione dall’eurocentrismo alla mondializzazione, sviluppatasi in seguito fino all’odierna globalizzazione, fosse una dinamica ormai in atto. Essa coinvolse anche il cristianesimo, il cui eurocentrismo si avviava gradualmente e in mezzo a non poche resistenze, a cedere il passo a una prospettiva di “World Christianity”».
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
Chiedi al teologo
Non abbandonarci «alla» o «nella» tentazione?
di Luigi Lorenzetti (Famiglia Cristiana, 02/06/2017)
Nella nuova traduzione della Bibbia Cei (2008) la dizione «Non c’indurre in tentazione», è cambiata in «Non abbandonarci alla tentazione». La tentazione mette la libertà-responsabilità della persona di fronte a un bivio: il bene e il male. Ad esempio, aiutare il prossimo o lasciarlo perdere? Per scegliere il bene, è necessario l’aiuto di Dio che, d’altra parte, non lo impone a nessuno. Da qui la consapevolezza d’averne bisogno e di chiederlo fiduciosi nella preghiera. Il significato della nuova dizione è tutto nell’invocazione «Non abbandonarci» alla (traduzione ufficiale) o (il che è lo stesso) nella tentazione. Nell’una come nell’altra versione, è chiara la distinzione tra «essere tentati» e «consentire ». È consolante pensare e credere che Dio è sempre presente alla (o nella) tentazione, così da vincerla, anzi, trasformarla in conferma nella scelta del bene.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Margherita Sarfatti. La donna che inventò Mussolini
Roberto Festorazzi
Margherita Sarfatti. La donna che inventò Mussolini
Angelo Colla Editore, pagg.432, Euro 22,00
IL LIBRO - Questa biografia di Margherita Sarfatti, letterata di origini ebree veneziane, amante e consigliera politica di Mussolini, si basa su una duplice inedita documentazione: il memoriale autobiografico, retrospettivo e autocritico intitolato My Fault, scritto dalla Sarfatti in lingua inglese nel 1943-44, e le carte dell’archivio privato del barone Werner von der Schulenburg, soprattutto il dossier “Papen Kreis”.
Il libro restituisce alla Sarfatti tutta la sua dimensione di intellettuale mitteleuropea e di figura femminile intrigante e polimorfa, capace sia di garantire al Duce appoggi nell’alta finanza, sia di fornire di lui un’immagine rassicurante all’estero e negli ambienti delle élite culturali. Rivela anche il ruolo da lei svolto, a livello internazionale, nella seconda metà del 1933, per favorire una successione a Hitler alla cancelleria di Berlino.
Infine l’inedito My Fault ci restituisce anche l’esatta figura umana e psicologica di Mussolini e ci rivela aspetti ed episodi della sua vita finora sconosciuti, come, ad esempio, quello della sifilide da lui contratta in gioventù o del precoce, e sembra temporaneo, consumo di cocaina.
DAL TESTO - “Tra il 1928 e il 1929 Margherita Sarfatti si accostò alla religione cattolica. Nonostante questa conversione sia data ormai per assodata dagli storici, più complicato è invece il discorso che riguarda il suo battesimo. Lo scrittore Sergio Marzorati, nel dopoguerra amico della Sarfatti, ritiene che l’amante del Duce avesse ricevuto il sacramento di iniziazione alla fede cristiana da padre Pietro Tacchi Venturi, gesuita e confessore ufficiale di Mussolini. Dopo la svolta della politica concordataria, infatti, l’autocrate di Predappio aveva deciso di procedere a un lifting d’immagine, sposando il regime con l’altare. La confessionalizzazione del fascismo, naturalmente, procedette sotto la spinta della ragion di Stato e anche Margherita Sarfatti volle adeguarsi diventando, con un gesto riservato, cattolica romana. Per la verità, un po’ papista lo era stata, per ragioni familiari, anche a Venezia, dove suo padre, Laudadio Grassini, era stato molto vicino al patriarca Giuseppe Sarto, futuro Pio x.
“Sta di fatto, però, che l’atto di battesimo di Margherita non si trova: né presso il vicariato di Roma, né presso la curia generalizia dei gesuiti di Borgo Santo Spirito, e neppure nella parrocchia di San Marco, vicina a Palazzo Venezia o in quella di San Giuseppe comprendente la via Nomentana dove la Sarfatti abitava. Ci resta solo un indizio per ritrovare la data eventuale del battesimo. Dalle agende di padre Venturi, si evince infatti che il 31 dicembre 1929, alle 11.30, il gesuita varcò la soglia di casa Sarfatti. Potrebbe essere stata quella la circostanza dall’amante del Duce per ricevere, senza alcuna pubblicità, il battesimo?”.
L’AUTORE - Roberto Festorazzi, laureato in Scienze politiche, giornalista professionista, si occupa prevalentemente di storia contemporanea. Consulente storico dell’Istituto Luce e della Televisione svizzera, ha scritto e scrive per numerosi quotidiani e settimanali, tra cui Il «Giornale», «Il Messaggero», «Il Mattino», «Il Riformista», «La Repubblica», «La Stampa, «Panorama», «Liberal», «Gente», «Corriere del Ticino» e «Libero».
INDICE DELL’OPERA - Ringraziamenti - Introduzione - Parte prima - I. Il giardino veneziano - II. Milano, Boccioni, il Soldo - III. Benitouchka - IV. Il mistero del "mal francese" - V. La lue del Duce: genesi di una rimozione - VI. Il sacrificio di Roberto - VII. La nascita di Novecento - VIII. La "Vela" della rivoluzione - IX. Il maestro e Margherita - X. La "signorina Rachele" - XI. Il caso Matteotti - XII. Il re dice "no" - XIII. Al capezzale del presidente - XIV. Il mito del Dux - XV. Il dittatore illuminato - XVI. La conversione di Margherita - XVII. Dittatrice della cultura - XVIII. Il carteggio D’Annunzio-Sarfatti - Parte seconda - I. Entra in scena il barone Schulenburg - II. La Sarfatti antisionista - III. Renzetti, l’ambasciatore ombra - IV. Il Führer visto da vicino - V. «Quel barone è una spia» - VI. Le convulsioni di Weimar - VII. Hitler al potere - VIII. Schulenburg e Schleicher - IX. Le prime misure antisemite - X. Il Patto a Quattro - XI. Il siluro a Balbo - XII. Jabotinsky e il fascismo: un’attrazione fatale - XIII. Le carte del «Papen Kreis» - XIV. La "grande manovra" di von Papen - XV. La diplomazia parallela di Margherita - XVI. Colloqui segreti a Saint Moritz - XVII. La missione esplorativa di Schulenburg a Parigi - XVIII. Intermezzo a Ginevra - XIX. La seconda missione francese - XX. Gli incontri romani - XXI. La spia italiana e la retromarcia di von Papen - XXII. L’agente da Londra - XXIII. La notte dei lunghi coltelli - XXIV. Il crollo delle illusioni - XXV. Un tè con Roosevelt - XXVI. La guerra d’Etiopia - XXVII. Un monumento per Roberto - XXVIII. La madrina dell’Asse - XXIX. L’oro di Suez - XXX. Nerone a Palazzo Venezia - Parte terza - I. Esilio amaro - II. «Cara Margherita, io vorrei ...» - III. "Mea culpa" - IV. Perché non fu pubblicato il memoriale segreto - V. Il flirt con Werner - VI. La leggenda del buonuomo Mussolini - VII. «Quella notte ho conosciuto il demonio» - VIII. Cocaina per il Duce - IX. Ostracismo contro la "socialfascista" - X. Il mistero delle lettere scomparse - XI. L’ultimo giorno di Margherita - Bibliografia
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
BEST SELLER IN NERO
di Enzo Forcella *
Da qualche parte, nella cantina dei ricordi rimossi, conservo ancora le emozioni che mi suscitarono i romanzi "erotici" di Guido Da Verona, Mario Mariani, Umberto Notari, Pitigrilli. E quelle dei romanzi "mondani" di Luciano Zuccoli e Lucio D’ Ambra. Senza dimenticare l’ oscuro fascino suscitato dal Dux di Margherita Sarfatti o dalle aperture esotiche dei libri di viaggio di Arnaldo Cipolla e Mario Appelius.
Sono i libri, comprensibilmente ignorati da ogni storia della letteratura italiana contemporanea, che per gli uomini della mia generazione (quella che più o meno aveva vent’ anni all’ inizio della guerra) hanno segnato il passaggio dalle letture dell’ infanzia a quelle dell’ adolescenza, l’ ingresso nel mondo dei "grandi". E sono anche i primi libri di successo della nascente industria culturale, con le prime (relativamente) alte tirature, le prime tecniche di diffusione pubblicitaria "all’ americana", le prime copertine "strillate" con una raffinatezza grafica sino allora ignota alla nostra editoria.
Un tormentato eros
Di fronte all’ ampia e succosa antologia che gli hanno dedicato Gigliola De Donato e Vanna Gazzola Stacchini (I bestseller del ventennio - Il regime e il libro di massa Editori Riuniti, pagg. 730, L. 90.000), la prima tentazione è di rileggere queste pagine come un ironico e lievemente nostalgico "amarcord" del tempo fascista. Ma è una tentazione dalla quale le autrici, con un rigore sin troppo accigliato, subito ci distolgono.
Il tentativo di sistemazione di un materiale estremamente vasto ed eterogeneo - spiegano - "ci ha indotto a individuare aspetti e linee di tendenza che fanno emergere, se non una calcolata strategia editoriale, quanto meno l’ intenzione del fascismo di fare del libro di massa, anche di genere inferiore, uno strumento fondamentale di persuasione, di controllo, di propaganda destinato a un pubblico sociologicamente differenziato ma di fatto omologato dalla sostanziale uniformità dei messaggi". (La materia è stata suddivisa in cinque sezioni affidate a Tina Achilli, Silvana Ghiazza, Maria Pagliara oltre che alle due curatrici e a Ermanno Detti che presenta un’ ampia scelta di copertine dell’ epoca).
Per qualche autore la griglia risulterà eccessivamente totalizzante. Il tormentato eros di Mario Mariani, il suo rifiuto dei valori e dell’ universo borghesi sono autenticamente fuori quadro. Anche a prescindere dal suo ribellismo anarchico e dalle incessanti persecuzioni cui lo sottopone il regime, è difficile omologarlo al caramelloso edonismo di Zuccoli, al decadentismo postdannunziano di Da Verona, al frivolo cinismo di Pitigrilli. (Finito, quest’ ultimo, prima spia dell’ Ovra e poi apologeta della più stucchevole ortodossia cattolica). Nel complesso, però, la griglia tiene.
Nella stessa letteratura rosa, strutturalmente metastorica, impermeabile ai diversi regimi politici in cui si trova ad operare, Silvana Ghiazza ha buon gioco a identificare temi e motivi che il fascismo, anche se non inventa, si affretta a potenziare: il nazionalismo, la celebrazione dei fasti italici e romani, l’ esaltazione della maternità come appendice essenziale e obbligata del lieto fine, l’ erotismo sublimato e redento dalla sacralità del matrimonio cui rimane finalizzato. L’ altro versante, solo apparentemente antitetico, è quello delle sezioni dedicate alle biografie del duce, ai romanzi coloniali e a quelli di aperta propaganda fascista. (Non è il caso, di fronte alla modestia dei risultati, di parlare di "ispirazione", neppure per gli autori più dignitosi: il primo Brancati, Malaparte, Marcello Callian, Ugo Ojetti).
Qui, per la verità, ci sarebbe da verificare se questi titoli possano essere davvero classificati nella categoria dei veri bestseller. Più venduti, certo, nel senso che gli si assicurano alte tirature e l’ acquisto da parte di tutte le biblioteche provinciali, dei dopolavoro, delle sedi rionali del Fascio e delle altre istituzioni del regime. Che poi siano stati effettivamente letti e apprezzati, questo è tutto da vedere. Ma hanno ricevuto premi, provocato recensioni e discussioni influendo così, sia pure artificiosamente, nel clima culturale dell’ epoca.
Comunque, nell’ assenza di dati certi sulle effettive dimensioni del mercato editoriale, valeva la pena di indagarne contenuti e intenzioni: come fa, ad esempio, con molta finezza e rigore, Vanna Gazzola Stacchini nella sezione dedicata ai "mille eroi della leggenda", ovvero ai romanzi con protagonisti e ambienti esplicitamente fascisti.
La struttura è sempre la stessa: c’ è un mito da diffondere - quello di un paese dove per merito del fascismo sono scomparsi per sempre tutti i contrasti di natura sociale, la miseria, la violenza, l’ inimicizia - e dei protagonisti che, secondo lo schema ottocentesco delle coppie oppositive, raffigurano la dinamica del passaggio dal vecchio al nuovo, dal disordine all’ ordine, dalla condizione dell’ uomo solo inquieto e senza scopi a quella della adesione alla comunità, della rassicurante immersione nella folla.
Di qui l’ importanza centrale che in tutti questi romanzi assume il rituale dell’ adunata, dai momenti minori che la precedono sino al momento in cui parla Lui, il Duce, il Grande Timoniere. Non importa che spesso non si riesca a cogliere il senso delle sue parole, basta che esse empiano la grande piazza silenziosa a "ondate di sonorità metallica" come scrive la vincitrice di un concorso per il miglior romanzo dell’ età fascista. "Non si vuole l’ appello alla ragione né dunque si richiede la funzione referenziale del linguaggio; si vuole produrre una specie di perdita dei sensi per meglio recepire, e farsi riempire, dal messaggio divino".
La rassegna si ferma alla prima metà degli anni Trenta ed è un peccato perché così rimane fuori quella seconda ondata di bestsellers che segnerà una svolta nella nostra industria culturale e, con essa, negli orientamenti culturali degli italiani. Sono gli anni della "Medusa" e degli "Omnibus" Mondadori, degli einaudiani "Narratori stranieri" e, parallelamente, della scoperta dei "Gialli", della "rivoluzione dei rotocalchi". Persino i "Rosa", con l’ entrata in scena di Liala, si aprono timidamente alle prime avvisaglie della modernizzazione.
Nuovi autori, soprattutto stranieri, nuovi linguaggi, nuove curiosità che penetrano nelle case come frutti proibiti, turbano le apparenti certezze delle masse, aprono inediti orizzonti culturali, mettendo così in crisi l’ edificio della cultura autarchica faticosamente innalzato nel decennio precedente.
Gigliola De Donato, nella introduzione generale, segnala la svolta, ma spiega di averla intenzionalmente lasciata fuori "perché avrebbe reso indecisa la linea della nostra ricerca che vuole essere mirata al rapporto solidale e omogeneo che si era stabilito tra il fascismo e una certa letteratura di successo".
Propaganda martellante
E’ un criterio discutibile perché, come del resto riconosce la stessa De Donato, proprio in quegli anni il rapporto solidale e omogeneo comincia a incrinarsi e si pongono le premesse culturali di quello stato d’ animo di indifferenza, stanchezza, fronda diffusa con cui la società italiana, e in particolare i giovani, vivrà la tragica avventura della guerra. Forse è opportuno, come del resto consiglia ormai anche la maggior parte degli storici, accostarsi al ventennio mussoliniano in un’ ottica non troppo rigidamente "fascistocentrica".
Anche e soprattutto per quanto riguarda la politica culturale. Il regime coglie tempestivamente le potenzialità della nascente industria culturale e fa l’ impossibile per trasformarla in un mastodontico strumento di indottrinamento di massa. I risultati che raccoglie sono tuttavia piuttosto modesti. Controllo assoluto, propaganda martellante, consenso ambiguo e incerto. E’ significativo, oltre alla dubbia accoglienza dei romanzi di aperta esaltazione fascista, il clamoroso insuccesso, come lo definisce Maria Pagliara curatrice dell’ apposita sezione, dei romanzi coloniali. "Passano" soltanto, o soprattutto, i messaggi della ideologia culturale conservatrice piccolo-medio borghese: gli stessi che il fascismo aveva raccolto dalla letteratura di consumo della Terza Italia e che sopravviveranno alla sua fine almeno sino alla seconda metà degli anni Cinquanta.
ENZO FORCELLA
Fatima, una storia tra fede e politica
Il contesto nazionale, la restaurazione cristiana del Portogallo, il conflitto mondiale, la guerra fredda, il Concilio, la decolonizzazione
di MARCO RONCALLI (La Stampa, 10/05/2017)
Roma. Un culto che prima si afferma a livello nazionale e poi si dilata nel mondo per un secolo conquistando fedeli, vescovi, Papi. E tutto che inizia con tre pastorelli analfabeti - Jacinta, Francisco e Lúcia -e il racconto dell’ apparizione di una “signora vestita di bianco”: che il 13 maggio 1917 li invita a dire il rosario per i peccatori e la fine della guerra; il 13 giugno ripete l’invito ed esorta Lúcia a imparare a leggere; il 13 luglio torna a chiedere preghiere per la fine della guerra, promettendo un miracolo entro tre mesi e rivelando loro un “segreto”; il 13 agosto dice di usare le donazioni per il culto; il 13 settembre insiste sulla preghiera per la fine del conflitto e chiede una cappella a Fatima; il 13 ottobre - ultima apparizione, durante la quale si verifica un fenomeno solare (il miracolo promesso?) - rivela come richiesta della Madonna del Rosario preghiere e penitenze, garantendo un rapido rientro dei soldati a casa.
Fermandosi solo sulle relazioni coeve alle apparizioni del ‘17, con le risposte semplici dei tre bambini, considerando che la guerra cessò solo alla fine del ‘18, non è facile capire la devozione popolare concentratasi subito su Fatima.
E forse ha ragione José Barreto nel suo saggio “I messaggi di Fatima tra anticomunismo, religiosità popolare e riconquista cattolica” pubblicato da poco su “Memoria e Ricerca” del Mulino, ad allargare lo sguardo anche alla cornice storica e socio-politica. Proviamo a seguirlo.
«Con Fatima - scrive - si aprì un canale di comunicazione con il sovrannaturale in un periodo tormentato della storia contemporanea portoghese, iniziato con la rivoluzione repubblicana del 1910 durante il quale si era verificata la maggiore offensiva contro la Chiesa mai registrata nel Paese». Chiesa che nel precedente periodo del costituzionalismo monarchico (1834-1910), pur con il cattolicesimo come religione di Stato, aveva vissuto una situazione definita da Manuel Clemente «una gabbia e nemmeno dorata».
È dunque un periodo particolare quello che vede la diffusione dei messaggi di Fatima: di guerra, e in Portogallo di guerra di religione. Con una imperante laicizzazione della società che vede scuole cattoliche chiuse, preti detenuti, beni ecclesiastici nazionalizzati, aule di culto e seminari trasformati in uffici pubblici, e vescovi importanti accusati di comportamenti contrari alle leggi e spediti in esilio persino durante le apparizioni del settembre e ottobre ’17.
«Il tentativo di connotare politicamente Fatima era inevitabile, e iniziò immediatamente a partire dal 1917», ha scritto Barreto. Aggiungendo: «I repubblicani denunciarono lo sfruttamento della “superstizione” popolare da parte delle forze anti-repubblicane; quest’ultime interpretarono le apparizioni della Vergine come le precorritrici del “miracolo” dello schiacciamento della “serpe giacobina“ riferendosi al colpo di Stato del dicembre 1917 di Sidonio Pais che destituì i repubblicani radicali e instaurò un regime presidenzialista terminato nel dicembre successivo».
Se si può convenire che, nella regione di Fatima, nei confronti dell’offensiva antireligiosa non ci fu allora una vigorosa resistenza cattolica, né ci fu un immediato consenso del clero sulle apparizioni, così come non è corretto indicare in quel periodo una correlazione tra apparizioni e militanza antirepubblicana, successivamente invece, la trasformazione di Fatima in una “Lourdes portoghese” finì per riflettere nei fatti un’opposizione allo spirito della repubblica atea e massonica. Senza dimenticare che le apparizioni potevano leggersi come un segno di salvezza per un Paese preda di angosce con le sue truppe in trincea a fianco dell’Intesa, preda di incertezze per la scarsità di beni primari e via dicendo.
Detto questo, restando sul fronte politico, è indubbio che è il golpe militare del dicembre ‘17 a riportare la riappacificazione tra il governo e la Chiesa e il riallacciamento delle relazioni diplomatiche con il Vaticano: che avranno pienezza con la dittatura militare (1926-1933) e larga parte dell’ Estado Novo (1933-1968 con Salazar e 1968-1974 con Caetano nel segno delle “tre F”: fado, futbol, Fatima. Ed è solo in questo arco cronologico che pare convincente l’affermarsi di una connotazione anche ideologica - in chiave anticomunista - dei messaggi mariani. Del resto l’ufficializzazione del culto di Fatima passò attraverso tutte le indagini canoniche avviate nel 1922 e concluse ben otto anni dopo con il riconoscimento formale del carattere sovrannaturale dei fatti, mentre in attesa del verdetto si registrarono un impegno del clero nella ricostruzione ufficiale della storia delle apparizioni, una vasta propaganda sulla stampa cattolica, visite importanti, e persino - dopo che Benedetto XV non si era mai pronunciato - la “indiretta approvazione” di Fatima da parte di Pio XI che nel 1929 benedice una statua della Vergine di Fatima arrivata dal Portogallo al Pontificio Collegio Portoghese di Roma. Lo stesso Pio XI di cui il cardinale Confalonieri che era stato suo segretario riportava questa frase a proposito di mistiche che gli inviavano lettere su lettere circa rivelazioni di Maria: «...Se ha qualcosa da farmi sapere, potrebbe dirlo a me».
Quando nel 1930 il vescovo di Leiria-Fatima Correia da Silva dichiara le apparizioni «degne di essere credute», morti Francisco e Jacinta, è Lúcia l’unica testimone di esse: entrata nel frattempo tra le Suore dorotee di Porto e inviata in Spagna, nel monastero di Tuy ha continuato ad avere visioni e locuzioni interiori (nel ’25 la richiesta di diffondere la «comunione dei cinque primi sabati» in riparazione dei peccati) e ha già steso la prima delle sei “Memorie” (1922, 1937, due nel 1941, 1989, 1993, edite in Italia dalla Queriniana con il titolo “Lucia racconta Fatima”, a cura di António Maria Martins) dedicate ai fatti della Cova da Iria e alle rivelazioni. Rivelazioni che, a ben vedere - una volta rese note - palesano intrecci con drammi del XX secolo: dalle guerre mondiali alla parabola della Russia sovietica.
Tra le istruzioni che alla fine del maggio ‘30 Lúcia afferma di aver ricevuto dal cielo - preceduta da un «se non mi sbaglio» - ecco la promessa divina di «porre fine alla persecuzione in Russia se il Santo Padre avesse, insieme a tutti i vescovi del mondo, compiuto un solenne e pubblico atto di riparazione e di consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria». Sino a questo momento, fissato in una lettera al confessore, il gesuita José Bernardo Gonçalves, non si trova alcun riferimento pubblico o privato alla Russia e al comunismo, ma proprio nel febbraio precedente, peggiorate le condizioni di ortodossi e cattolici, congelate le trattative segrete che la Santa Sede aveva provato a tessere con i sovietici, Pio XI pubblicamente aveva chiesto a tutto il mondo cristiano una «crociata di preghiera per la Russia». In ogni caso, come ha osservato Barreto nel saggio citato, «le istruzioni celesti ricevute da Lúcia nel ‘30 non ottennero una grande attenzione dal vescovo di Leiria fino al ‘36, quando il Fronte Popolare prese il potere nella vicina Spagna». E proprio in quel periodo Lúcia accettò la proposta del suo confessore di insistere con il vescovo e il Vaticano sul tema della «consacrazione della Russia», pur rinnovando per scritto il timore di «essersi lasciata illudere dall’immaginazione», o da qualche «illusione diabolica»,come scrisse in due lettere del 18 maggio e 5 giugno 1936.
L’anno dopo, imperversando la guerra civile spagnola, il vescovo di Leiria mette a conoscenza Papa Ratti delle richieste celesti a Lúcia circa la «consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e Maria» da effettuarsi insieme a «tutti i vescovi del mondo cattolico», e l’approvazione papale della devozione dei «primi sabati», come condizioni per la fine della persecuzione religiosa in Russia. Nella lettera (riportata tra i Novos Documentos de Fátima editi dall’ Apostolado da Imprensa nel 1984), il vescovo ricordava a Pio XI come già nelle raccomandazioni che la Vergine di Fatima aveva fatto nel 1917 fosse chiaro «come Nostra Signora stesse preparando la lotta contro il comunismo», dal quale il Portogallo era stato sino ad allora preservato. Il Pontefice non risponde a questa richiesta (come non rispose ad una analoga richiesta di un’ altra veggente portoghese, Alexandrina da Costa, ai tempi screditata e poi beatificata da Giovanni Paolo II). «Quanto alla consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria, non è stata fatta nel mese di maggio come lei si aspettava. Si farà certamente, ma non subito», così Lúcia il 15 giugno del ’40 a padre Gonçalves.
Nel frattempo successore di Pio XI è Papa Pacelli. Obbedendo al vescovo di Leiria e di Gurza, Lúcia gli scrive nell’ottobre ’40 collocando per la prima volta la richiesta celeste di consacrazione della Russia nel 1917, come parte del segreto da lei custodito dal 13 luglio di quell’anno (lettera che sarà resa nota pubblicamente solo negli anni ’70).
Nell’estate del ’41 mentre è in corso l’invasione dell’Urss da parte della Germania, il vescovo di Leiria ordina a Lúcia di redigere una nuova memoria sulla guerra e la Russia. E a questo testo - completato nell’ottobre ’41 - Lúcia affida la versione definitiva delle due prime parti del segreto (la terza parte, redatta nel ’44 e inviata a Roma nel ’57, sarebbe stata divulgata da Giovanni Paolo II nel 2000) che Pio XII rende pubbliche nel ’42, la visione di un pezzo di inferno («un grande mare di fuoco» con immersi «i demoni e le anime») e il messaggio della Vergine sulla consacrazione della Russia («se ascolterete le mie richieste, la Russia si convertirà e avrete pace; diversamente, diffonderà i suoi errori nel mondo, promuovendo guerre e persecuzioni....»).
Nel frattempo il testo del “segreto”, integro, per sunto, stralci, con riferimenti alla Russia alterati o tagliati, gira per il mondo. Ed è Pio XII che il 31 ottobre ‘42, data delle nozze d’argento delle apparizioni e della sua consacrazione episcopale, con un radiomessaggio consacra il «genere umano» al Cuore immacolato di Maria, invocata con il titolo di “Regina della pace” (come aveva fatto Benedetto XV). In questa preghiera il Papa si allontanava dalla richiesta precisa della Vergine, ma faceva allusioni alla devozione mariana dei russi «popoli separati dall’errore e la discordia», e alla loro auspicata ricongiunzione «all’unico gregge di Cristo, sotto un unico, vero pastore». Nello stesso testo anche però un riferimento all’intervento celeste grazie al quale la «nave dello stato portoghese «persasi «nella tormenta anti-cristiana e anti-nazionale» aveva ritrovato «il filo delle sue più belle tradizioni che la rendevano una nazione fedelissima» e persino un omaggio anche alla classe politica del cambiamento, definita «uno strumento della Provvidenza». Da non dimenticare che Paolo VI alla chiusura della terza sessione del Vaticano II avrebbe fatto riferimento a questa consacrazione del predecessore inviando con una missione la simbolica rosa d’oro al santuario della Madonna di Fatima.
Non solo. Come ha scritto sulla rivista “Jesus” Alberto Guasco: «Se una rivelazione ex post eventu è manna per critici e avversari, Pio XII mostra invece di prenderla sul serio». Eccolo così promuovere l’istituzione della festa del Cuore immacolato di Maria (1944), far incoronare la Madonna di Fatima regina del mondo (1946), ripetere la consacrazione in una lettera apostolica del 7 luglio 1952. A quella data Pio XII conosce anche la terza parte del segreto ricevuta in busta chiusa dal vescovo di Leiria, ma non ne ha ritenuto opportuna la divulgazione. A quella data le peregrinazioni dell’immagine di Fatima continuano in tutto il mondo e sulla “Piazza Bianca” del santuario si sono già viste scene come quella dell’ottobre 1951: con il noto predicatore americano Fulton Sheen, che davanti a 100mila pellegrini profetizza, come risultato delle preghiere dei milioni di fedeli lì affluiti, la trasformazione del simbolo del martello e della falce in una croce e una luna sotto i piedi dell’Immacolata.
Non tutti però manifestano in quel periodo entusiasmi così accesi. Anzi già dalla fine della guerra, Fatima occupa discussioni fra teologi, avviate da Edouard Dhanis, il gesuita belga che ne ha diviso la storia in due parti - una vecchia sulle testimonianze raccolte nel 1917, una nuova sul corpus originale integrato con i nuovi dati contenuti nelle “memorie”- scrivendo già nel ’44: «Siamo portati a credere che, nel corso degli anni, alcuni eventi esterni e certe esperienze spirituali di Lúcia abbiano arricchito il contenuto originale del segreto». Senza porre in causa la sincerità della veggente, Dhanis osservava che «il modo poco oggettivo in cui nel segreto erano state descritte le cause che avevano provocato la Guerra [mondiale] poteva solo essere spiegato dalla influenza che la Guerra civile spagnola aveva avuto sul pensiero di Lúcia». -In effetti, il segreto imputava alla Russia tutta la responsabilità per le guerre e le persecuzioni verso la Chiesa, seppure all’interno di una concezione non storica e apocalittica di questi flagelli come punizione divina per i peccati del mondo. Le tesi di Dhanis poi rettore della Pontificia Università Gregoriana, sarebbero state duramente dibattute negli ambienti vicini a Fatima costringendolo a toni più concilianti. Lui, membro sino alla morte della Commissione teologica internazionale, a fare da apripista per altri teologi come nel suo caso accusati dai tradizionalisti di essere «nemici di Fatima».
Accuse dalle quali non furono risparmiati Papi come Giovanni XXIII e Paolo VI, invitati più volte a rinnovare in modo completo la consacrazione e a divulgare l’ultima parte del segreto, non disposti in tempi di Ostpolitik e di Concilio, a lasciar passare interpretazioni del messaggio di Fatima ultraconservatrici, anti-ecumeniche, in un quadro rinnovato nel quale la Chiesa tesseva nuove relazioni ad Est, affievolendo le aspettative delle tesi legate all’«ultimo segreto di Fatima» che per molti si sarebbe riferito ad una grave crisi interna alla Chiesa causata dal Concilio. Il resto è noto: nel ‘59 e nel ‘65 Giovanni XXIII e Paolo VI lessero il segreto e decisero di non divulgarlo (facendo alimentare nuove speculazioni).
Negli anni ’60 la questione coloniale segnò un divario tra Vaticano e governo portoghese già alle prese con una vera opposizione cattolica interna intensificatasi con l’inasprimento delle guerre in Africa e l’esilio forzato del vescovo di Porto nel 1959. Proprio quest’ultimo, Ferreira Gomes, rientrando nel ’70 dal suo esilio in Francia, fu il primo prelato portoghese a formulare aperte critiche nei confronti di Fatima (già da lui definita una «Lourdes reazionaria»), sottolineandone aspetti di «culto magico» e «religione utilitaristica». «Per i cattolici che in questo periodo combattevano il regime in Portogallo, Fatima ebbe un significato molto diverso, se non opposto, a quello che avrebbe avuto per la lotta di liberazione polacca degli ani ’80», ha notato Barreceto. Aggiungendo che: «L’episcopato portoghese, tra la crescente contestazione proveniente dalla Chiesa e le critiche cattoliche internazionali, riuscì, seppur tardivamente, a svincolarsi dal regime poco prima della rivoluzione dell’aprile 1974 che ne decretò la fine». Apparentemente incurante degli sconvolgimenti politici, il santuario di Fatima continuò ad accogliere folle di devoti. Anzi la forza della fede popolare protesse la Chiesa dal potere rivoluzionario del biennio ‘74-‘76.
Morto Paolo VI e subito dopo Giovanni Paolo I, che da patriarca di Venezia aveva incontrato Lucìa, ecco Giovanni Paolo II: il “Papa di Fatima” nonché «protagonista della terza parte del segreto». Il Papa che a Fatima nel 1982 non esita a riconoscere che la Vergine gli ha salvato la vita, che ripete la consacrazione del mondo (13 maggio ‘82 e 25 marzo ‘84), che beatifica i due pastorelli che ora Francesco canonizza; che ha consentito la divulgazione del terzo segreto con tanto di “guida alla lettura” dell’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger. Sì, il futuro Benedetto XVI, che nel 1996 a Fatima, ricordò l’invito vero di Maria che «parla ai piccoli per mostrarci quanto è necessario sapere: cioè, prestare attenzione all’unico necessario: credere in Gesù Cristo» . Quanto al resto ci vengono in mente solo le parole di Paul Claudel che definì Fatima «un’esplosione traboccante del sovrannaturale in un mondo dominato dal materiale».
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* www.lastampa.it, 10.05.2017.
La nascita della Sapienza
di Arnaldo Casali *
È stata fondata da papa Bonifacio VIII, il 20 aprile 1303, l’università più laica d’Italia: “La Sapienza”; la più grande d’Europa e la ventunesima ed essere nata al mondo.
Un papa che con il concetto di laicità aveva un rapporto molto personale. E cioè grande interesse, attenzione e rispetto, purché anch’essa fosse sottomessa completamente all’autorità religiosa.
A modo suo laicissimo, visto che era più interessato a cultura, politica e turismo ante-litteram che alla spiritualità, non riusciva però proprio a tollerare che tutto questo potesse muoversi autonomamente, senza riconoscere al vicario di Cristo il potere supremo. Mai contrappasso fu più sublime, di un’Università pontificia che oggi ostenta nel nome e nel suo monumento-simbolo una divinità pagana: Minerva, dea della Sapienza, la cui statua troneggia di fronte alla grande vasca nel mezzo della città universitaria e che non bisogna mai guardare - secondo una leggenda studentesca - prima di sostenere gli esami.
Forse fu il più teocratico dei pontefici dell’intera storia della Chiesa, Benedetto Caetani. Era nato ad Anagni, nel Lazio, intorno al 1230 e apparteneva ad una delle famiglie più importanti della Roma medievale che, originaria di Pisa, si spartiva con gli Orsini e i Colonna papi e potere.
Di temperamento energico e dotato di grandi capacità diplomatiche, rese ancora più decisive da una notevole cultura e da profonde conoscenze giuridiche, Benedetto aveva studiato prima a Todi e poi a Bologna, dove si era laureato in Diritto Canonico; poi aveva iniziato la carriera diplomatica in Laterano, prendendo parte anche ad una importante e delicata missione a Londra.
Diventato cardinale a 51 anni e sacerdote dieci anni dopo, nel 1291 era stato in missione in Francia per dirimere una controversia tra clero secolare e ordini religiosi e aveva partecipato a quattro conclavi: quello che aveva eletto Onorio IV nel 1285, quello da cui era uscito papa per la prima volta un frate francescano (Niccolo IV, nel 1288) e poi quello - lunghissimo - seguito alla morte di Nicolò nel 1292 e che era rimasto bloccato due anni a causa della lotta tra le famiglie rivali. Dall’impasse si era usciti quando era venuta fuori l’idea di eleggere una figura completamente al di fuori dei giochi di potere e sicuramente apprezzata dal popolo cristiano: Pietro dal Morrone, monaco eremita con fama di santità, che aveva preso il nome di Celestino V.
Dopo appena 6 mesi di pontificato Celestino, con un gesto del tutto inedito, aveva rinunciato spontaneamente al pontificato. Spontaneamente fino a un certo punto, secondo i suoi sostenitori che poi erano anche i nemici di Bonifacio, accusato di manipolare il papa santo per convincerlo a dimettersi. Quel che è certo è che il cardinale Caetani era diventato quantomeno un autorevole consigliere giuridico per il vecchio eremita finito sul trono più ambito e più scomodo del mondo. E quel che è certo è che appena dieci giorni dopo la rinuncia, i 22 cardinali riuniti in conclave a Napoli (di cui ben 13 erano stati scelti da Celestino) avevano eletto Benedetto, che aveva assunto il nome di Bonifacio VIII.
A scanso di equivoci, la prima cosa che aveva fatto Bonifacio era stata quella di arrestare e chiudere in carcere Celestino, per evitare che i suoi nemici ne facessero un antipapa. Intanto, gran parte del mondo spirituale e intellettuale, accusava il nuovo papa di simonia, ovvero di aver pagato i cardinali che lo avevano eletto.
Convinto assertore della superiorità del potere spirituale su ogni altro potere, dopo aver riportato ordine a Roma, Bonifacio VIII aveva ingaggiato una lotta con il re di Francia Filippo IV il Bello (che gli sarebbe costato il celebre “schiaffo di Anagni”), guadagnandosi - nel frattempo - un posto all’inferno all’interno della Divina Commedia.
Era stato proprio lui, nel 1300, a “inventare” il Giubileo moderno, grande evento turistico-spirituale, ma soprattutto segno tangibile della superiorità della Chiesa su qualsiasi altro potere. Solo lei può infatti perdonare ogni colpa e aprire la porte del cielo.
A rimarcare questa assoluta autorità, Bonifacio aveva aggiunto allo stemma papale la tiara pontificia con due corone, a rappresentare il potere temporale e quello spirituale.
Ultimo importante atto di Bonifacio, pochi mesi prima dell’umiliazione di Anagni e della morte, è la fondazione dell’Università di Roma, formalizzata con la bolla In Supremae praeminentia Dignitatis promulgata il 20 aprile 1303.
L’Università era allora un’istituzione ancora giovanissima, ma in piena espansione.
Con il decadere dell’impero romano, a lungo gli unici luoghi di insegnamento erano stati gli studia organizzati presso le sedi vescovili urbane per l’apprendimento dei fondamenti della grammatica e della retorica e la formazione teologica.
Presso alcuni di essi, a partire dalla fine del decimo secolo, un numero crescente di docenti e studenti provenienti da ogni parte d’Europa, aveva dato vita a gruppi di studio (studia generalia), inizialmente organizzati in modo spontaneo, sulla base della nazionalità, ma presto strutturatisi in corporazioni di docenti e studenti delle Universitates magistrotrum et scholarium.
La prima a sorgere era stata Bologna nel 1088, alla quale era seguita Oxford nel 1167 e poi Parigi nel 1170. Nel corso del XIII secolo le università si erano andate moltiplicando in Italia, Francia, Inghilterra e nella penisola iberica, dove erano diventate un ponte tra mondo europeo e arabo e, tramite questo, veicolo della riscoperta della cultura greca.
Come tutte le corporazioni di mestieri, le università erano dotate di propri statuti e autonome autorità di governo: assumevano i docenti e organizzavano l’attività didattica in un ciclo introduttivo alle arti liberali (6 anni di frequenza), seguito dagli insegnamenti superiori di Diritto, Medicina (6 anni) e Teologia (8 anni), si preoccupavano di garantire gli alloggi e i locali per la comunità di studenti e maestri e ne curavano gli interessi di fronte all’autorità
Dopo Parigi erano nate le università di Vicenza (1204), Valencia (1208), Cambridge (1209), Arezzo (1215), Padova (1222), Napoli (1224), Vercelli (1228), Tolosa (1229), Angers (1229), Salerno (1231), Salamanca (1242), Piacenza (1248), Siviglia (1254), Reggio Emilia (1276), Montpellier (1289), Lisbona (1290), Lerida (1300) e Avignone (1303).
A Roma, prima della istituzione dello “studio bonifaciano”, gli istituti di istruzione superiore erano esclusivamente rivolti al clero di Roma. Tra questi c’era la Scuola capitolare Lateranense, a indirizzo teologico e giuridico, destinata alla formazione dei quadri direttivi del governo ecclesiastico, la Universitas Romanae Curiae, istituita a Lione da Innocenzo IV intorno al 1245, aperta agli impiegati della curia, e che, senza sede stabile a Roma seguiva la corte papale “ubicumque Romanam Curiam residere contigerit” a causa di eventi religiosi o politici; gli Studi generali in teologia, tenuti dalla seconda metà del secolo XIII dagli Ordini mendicanti erano invece riservati ai frati. Mancava quindi un centro di studi superiori aperto alla cittadinanza romana e destinato a formare la futura classe dirigente.
Bonifacio, che è tra i primi papi ad essersi laureato in un’Università (la prima al mondo, quella di Bologna, appunto) vuole dotare anche la sua città di una struttura simile, capace di offrire una formazione in tutte le discipline e aperta anche ai laici. Laici come lui stesso era stato, dopotutto, fino a 60 anni. Quella di Roma diventa così la prima università ad essere fondata dall’autorità politica e religiosa e non costituita spontaneamente da un’associazione di studenti e insegnanti.
Bonifacio la chiama “Studium Urbis” (nome ancora oggi utilizzato nello stemma) e la colloca fuori dalle mura vaticane, ubicazione che segna l’inizio di un nuovo rapporto tra la città di Roma e gli studiosi che in essa giungono da tutte le parti del mondo.
L’università municipale di Roma comprende tutte le facoltà con una forte presenza degli studi giuridici. Nasce come istituzione laica ma subisce inevitabilmente le ingerenze del papato risentendo, nei suoi primi decenni di vita, del clima turbolento che i moti politici e gli scontri tra le fazioni guelfa e ghibellina provocano a Roma.
Nella seconda metà del Trecento, lo Studium è costretto a ricorrere a docenti non romani di Legge, Medicina, Grammatica e Logica, non compromessi nelle lotte politiche. I finanziamenti iniziali giungono dalla tassazione del vino forestiero, oltre che dalla munificenza di alcuni nobili romani. Quando la sede pontificia sarà spostata ad Avignone, la gestione dell’università sarà affidata al Comune di Roma.
Lo Studium Urbis acquista man mano importanza e prestigio e dal 1363 riceve dalla città di Roma un contributo stabile. La sede di Trastevere non è più sufficiente; così nel 1431 papa Eugenio IV, per dare all’Università una struttura più articolata, affianca al rettore quattro amministratori e provvede all’acquisto di alcuni edifici nel rione Sant’Eustachio, tra piazza Navona e il Pantheon. In quell’area sorgerà duecento anni dopo l’edificio della Sapienza.
Già nella seconda metà del ‘400, invece, il termine “Sapientia” viene usato nei documenti per indicare l’insieme di scuole e collegi riuniti nello Studium Urbis.
Con Niccolò V (1447-1455), papa mecenate e protettore di studiosi e letterati, il ginnasio attraverserà un periodo di rinascimento delle lettere latine e greche, con maestri illustri quali Lorenzo Valla, fondatore della critica filologica, Poggio Bracciolini, il grande letterato greco Crysoloras, il cardinal Bessarione e il poeta Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa con il nome di Pio II.
In un periodo di espansione dell’università, Alessandro VI (1492-1503) ne amplierà la sede e i lavori saranno portati avanti da Pio VIII (1503) e Giulio II (1503-1513).
Nel Cinquecento sarà il figlio di Lorenzo De’ Medici, papa Leone X, a dare un forte impulso all’Università romana, chiamando da tutta Europa studiosi famosi. È a Roma che per la prima volta in Europa vengono introdotte materie come i simplicia medicamenta, base della spagirica, un sistema di cure che a partire dall’energia presente nell’uomo cerca di ristabilirne l’equilibrio turbato dalla malattia. È in quegli anni che lavora nello Studium Urbis Bartolomeo Eustachio, uno dei fondatori della scienza anatomica moderna. Sarà sempre papa Leone X a dare impulso agli insegnamenti storici, umanistici, archeologici e scientifici mentre nel 1592 papa Clemente VIII chiamerà a Roma Andrea Cesalpino che l’anno dopo fornirà la prova della circolazione sanguigna.
Sotto l’impulso di Paolo III Farnese (1534-1549), cultore di astronomia e di matematiche, l’università si aprirà inoltre alle scienze e all’archeologia. La crescita continuerà nel Seicento con l’inaugurazione nel 1660 - sotto Alessandro VII - del Palazzo della Sapienza e della chiesa annessa dedicata a Sant’Ivo, protettore degli avvocati. Sarà lo stesso Alessandro VII a fondare la biblioteca universitaria ancora oggi chiamata “Alessandrina”.
Nel 1870, dopo l’unità d’Italia, l’Università passerà al Regno d’Italia e nel 1935 la sede sarà trasferita nella Città piacentiniana, teatro di alcuni dei momenti più importanti della storia politica, sociale e culturale dell’Italia degli ultimi 60 anni. Qui insegnerà infatti Storia del cristianesimo uno dei più importanti teologi del Novecento: Ernesto Bonaiuti, antifascista e modernista, cacciato dall’università per una singolare convergenza di interessi di fascismo e Vaticano, formalizzata in un apposito articolo nei Patti Lateranensi; ma qui fiorirà negli anni ‘60 anche una delle più importanti cattedre di Storia Medievale, destinata a diventare con Raoul Manselli il più importante centro al mondo di studi francescani; e da qui partirà anche la riscoperta della figura di Celestino V, riabilitato in tutta la sua grandezza dopo secoli di luoghi comuni sulla sua presunta vigliaccheria dovuti a quel “fece per viltade il Gran rifiuto” di Dante Alighieri.
Chissà, se lo avesse saputo, cosa avrebbe detto Bonifacio.
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FONTE: FESTIVAL DEL MEDIOEVO )ripresa parziale - senza immagini).
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo):
Libera Chiesa, in catene di Stato
di Riccardo Chiaberge (il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2010)
Corsi e ricorsi dell’onomastica: si chiamava Gasparri, ma non sedeva in Senato e vestiva la porpora del Segretario di Stato vaticano, l’uomo che nel 1923 aiutò Mussolini a far fuori uno dei suoi avversari più temibili, l’odiato don Sturzo. Il leader dei Popolari era passato all’opposizione e avrebbe votato contro la famigerata legge Acerbo che aboliva la proporzionale istituendo un premio di maggioranza su misura per le ambizioni totalitarie del fascismo. Ma il 10 luglio, senza preavviso, lasciò la guida del suo partito.
Secondo il cardinale questo abbandono era un espresso desiderio del Santo Padre, il quale riteneva che “nelle attuali circostanze in Italia, un sacerdote non può, senza grave danno per la Chiesa, restare alla direzione di un partito, anzi dell’opposizione di tutti i partiti avversi al governo, auspice la massoneria come ormai è risaputo”.
POCHI GIORNI prima, dai muri di Roma, il manifesto di una nuova organizzazione cattolica aveva invitato i fedeli a dare pieno sostegno alle camicie nere, in nome di “quei valori religiosi e sociali che costituiscono la base d’ogni sano reggimento politico” e a combattere le forze antinazionali contrarie a “un durevole ordine sociale cristiano e italiano”. L’avrete notato anche voi, lo stile ricorda in modo impressionante i sermoni di Bagnasco o di Bertone: non diversi gli accenti accorati sulla necessità di superare lo scontro, identico l’appello alla pacifica convivenza e al “bene supremo dell’Italia”.
In realtà, scrive lo storico Emilio Gentile nel suo nuovo libro, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi (Feltrinelli, pagg. 442, euro 25), il desiderio del Santo Padre corrispondeva a quello del duce, che “aveva minacciato rappresaglie contro le associazioni cattoliche e il clero se la Chiesa non fosse intervenuta a togliere dalla politica il sacerdote siciliano”. L’uscita di scena di Sturzo accelerò la disgregazione interna del Partito popolare, la cui ala più conservatrice si affrettò a correre in soccorso del vincitore.
A dispetto del suo cognome, Gentile non è prodigo di gentilezze nei riguardi del Vaticano: “La costruzione del regime fascista, tra il 1925 e il 1929 - accusa - non incontrò alcuna resistenza da parte della Chiesa di Roma. La Santa Sede assistette da spettatrice silenziosa, ma evidentemente compiaciuta, alla distruzione delle libertà civili e politiche della democrazia parlamentare, rivendicando per sé unicamente l’esercizio della libertà religiosa, in ciò coerente con la dottrina che considerava la libertà di coscienza e le altre libertà politiche e civili il portato diabolico dell’apostasia moderna”.
Quando la dittatura, nel maggio 1928, decide la soppressione di tutte le organizzazioni giovanili che non facevano capo all’Opera Nazionale Balilla, esclusa l’Azione Cattolica, la stampa vicina alla Chiesa reagisce con manifestazioni di giubilo e grandi “inchini e ringraziamenti alla magnanimità del duce”.
Il parroco anticonformista di un paese del mantovano, don Primo Mazzolari, annota nel suo diario: “Oh, poi non è troppo? Dunque vivete per misericordia, per benigna e sovrana concessione di lui? Non c’è più un diritto comune, una libertà comune da rivendicare, entro cui agire, ma il beneplacito del tiranno, che vi ha accantonati, come spazzatura, in attesa che passi per la strada il carretto della nettezza urbana”.
IL VERO CRISTIANO, secondo don Primo, non deve cercare privilegi per sé ma giustizia e libertà per tutti: “Rivendicare un posto per sé soltanto è venir meno alla missione cattolica, senza contare che un privilegio, concesso e accettato a queste condizioni, è piuttosto un capestro e una tremenda responsabilità di fronte all’avvenire”.
La marcia su Roma era stata salutata con sollievo dalla gerarchia, impaurita dai disordini sociali e dal rivoluzionarismo rosso. La bestia fascista, per quanto manesca e brutale anche nei confronti delle organizzazioni cattoliche, sembrava addomesticabile. Ai primi approcci di Mussolini per risolvere la questione romana, nel 1923, papa Ratti manda a dire che il governo del duce “dura da un anno, mentre la Chiesa conta per secoli”. E sei anni più tardi, poco dopo la firma dei Patti Lateranensi, dichiarerà che “per salvare un’anima sarebbe disposto anche a trattare col diavolo in persona”.
Le anime, beninteso, vanno salvate da quelle che Pio XI considera le minacce più gravi che incombono sulla cristianità: il comunismo, “nemico dichiarato della Santa Chiesa e di Dio”, ma anche la democrazia laica, figlia della Rivoluzione francese e della modernità. E questo benché nei Palazzi apostolici siano in molti a chiedersi se “l’idolatria statalista” di Giovanni Gentile e Alfredo Rocco non sia “una brace” peggiore della “padella framassone e demoliberale”.
Più che Contro Cesare, il potente libro di Gentile, denso di retroscena e documenti inediti, dovrebbe intitolarsi Pro Cesare. Come scrive il grande studioso del fascismo, degno erede di De Felice, “all’inizio di un’era di statolatria quale l’Europa non aveva mai conosciuto, neppure nell’epoca del cesaropapismo romano o medievale o nell’era dell’assolutismo e del dispotismo, la Chiesa si trovò schierata, per i privilegi che ne riceveva, con il regime statolatra del nuovo Cesare in camicia nera e con altri dittatori suoi imitatori o ammiratori”.
Il Cesare totalitario del Novecento ha due volti: quello comunista di Stalin che vuole sopprimere la Chiesa e instaurare l’ateismo di stato, e il volto più ambiguo di Mussolini o di Hitler che tentano di asservire la fede di Cristo mescolandola con la propria ideologia, trasformata in religione politica.
Ma i cattolici e i protestanti che, in Italia e in Germania, mettono sullo stesso piano i due totalitarismi, giudicandoli entrambi antitetici al messaggio cristiano, si contano sulla punta delle dita. Tra gli italiani, ai nomi di Mazzolari e Sturzo possiamo aggiungere quelli di Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari, morti in esilio a Parigi, e pochi altri.
Comprensibile la rabbia di uno studioso non certo ostile alla Chiesa, Arturo Carlo Jemolo: “Con tutto ciò che da penne cattoliche è stato scritto contro il fascismo si riempirebbe a stento uno scaffaletto di libreria; con quanto è stato scritto nello stesso periodo contro il comunismo, una biblioteca”.
La lista dei capi di imputazione a carico della Santa Sede, secondo Gentile, è molto lunga: le dimissioni e l’esilio di don Sturzo, l’opposizione a un fronte antifascista dopo il delitto Matteotti, la sconfessione del Partito Popolare, l’avallo silente al soffocamento della democrazia italiana, e infine gli accordi del Laterano. Soltanto nel 1931, con l’enciclica Non abbiamo bisogno, e soprattutto dopo le leggi razziali del ’38, papa Ratti comincia a prendere le distanze dalla “statolatria pagana” di Mussolini e dai suoi crimini. Ma non arriva mai a paragonare il fascismo al bolscevismo, che rappresenta per lui il male assoluto. Lascio agli storici colleghi e rivali di Gentile, ben più titolati di me, il compito di confutare la sua ricostruzione, certo non tenera, a tratti perfino ingenerosa nei confronti della Chiesa e di Pio XI.
Mi limito a osservare che a quei tempi, almeno, papi e vescovi avevano qualche fondato motivo per essere prudenti. Adesso che non rischiano di finire in un lager o di essere manganellati, recitano un Te Deum al giorno per il Cesare di Arcore, senza nemmeno aspettare il Tartaglia di turno che gli tiri il duomo in faccia. Viene da domandarsi cosa ci voglia ancora, perché i monsignori aprano finalmente gli occhi e la bocca. Magari che Cesare rottami la Costituzione e trasformi il Quirinale in un bordello? O sono pronti a barattare pure quello in cambio di uno sconto sull’Ici e di qualche aiutino alle scuole cattoliche?
Il comune nemico dei regimi totalitari? La fede cristiana
di Giampietro Berti (Il Giornale, Dom, 23/01/2011)
Il comunismo, il fascismo e il nazismo, i regimi totalitari affermatisi rispettivamente in Russia, in Italia e in Germania, sono stati accomunati dal rigetto della modernità laica ed edonistica prodotta dal capitalismo e dalla società liberale. Anche se in modo difforme, queste diverse espressioni totalitarie hanno soprattutto combattuto un nemico comune, l’individualismo, e, per conseguenza, la società di mercato e l’atomizzazione della vita sociale. Le ideologie totalitarie si sono configurate come surrogati della fede religiosa, venuta meno a causa dal processo di secolarizzazione iniziato con l’illuminismo.
L’impressionante somiglianza strutturale fra comunismo, fascismo e nazismo non è consistita, ovviamente, nell’avere avuto i medesimi fini, ma nell’aver attivato mezzi analoghi, volti a imporre il predominio del potere politico (lo Stato) su tutto il resto. Una supremazia che non poteva lasciare immune anche la vita religiosa, vale a dire il cristianesimo e le Chiese che lo rappresentavano: l’ortodossa, la luterana e la cattolica. Con il totalitarismo si è affermata quindi la supremazia di Cesare su Cristo, il primato dell’immanente sul trascendente. Il progetto totalitario fu proteso a veicolare una medesima idea palingenetica di ascendenza nietzscheana, quella dell’uomo nuovo, tradotta nella divinizzazione del proletariato, della nazione e della razza. Di qui la sua micidiale enfasi statocratica formulata nella gigantesca impresa collettiva rappresentata, per l’appunto, dall’azione statale, volta a realizzare obiettivi di sacralità terrena in radicale contrasto con quella cristiana.
Il nuovo e importante lavoro di Emilio Gentile, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi (Feltrinelli, pagg. 441, euro 25), affronta questa complessa tematica politico-religiosa, così come si è manifestata nel comunismo, nel fascismo e nel nazismo. Naturalmente la coercizione totalitaria verso il cristianesimo non ebbe nei tre regimi la medesima fenomenologia perché, come è noto, mentre con il comunismo essa si dispiegò in modo completo (l’ateismo di Stato fu esplicito e totale: di fatto la Chiesa ortodossa e ogni forma di vita religiosa vennero spazzate via), con fascismo e nazismo l’atteggiamento verso la religione cristiana si articolò in modo differente.
E ciò perché - questa è la nostra personale convinzione - solo il comunismo fu un sistema compiutamente totalitario (tutto era nelle mani del Partito-Stato), mentre per il fascismo e il nazismo si deve parlare di sistemi totalitari imperfetti, dal momento che i loro presupposti non erano universalistici, dato che le idee di razza e di nazione erano e sono intrinsecamente parziali. Non a caso continuarono a vivere - sia pure con limitazioni - entità separate: in Italia l’economia mercantile, la monarchia e la Chiesa; in Germania l’economia mercantile e le religioni riformate e cattoliche (questo non significa, ovviamente, che i regimi neri fossero meno nemici della libertà e dell’umanità). Ciò spiega perché questa incompiutezza totalitaria generò fra lo Stato e la Chiesa, specialmente nel nostro Paese, un rapporto più complesso e ambiguo.
Per quanto riguarda il nazismo, sebbene il suo razzismo fosse inequivocabilmente anticristiano (si affermava a chiare lettere la superiorità della razza ariana e il suo diritto a dominare il mondo), non furono molti, all’interno del mondo religioso, coloro che ebbero una lucida cognizione di ciò che significava l’avvento vittorioso della croce uncinata. Gentile dimostra che Hitler e i suoi seguaci si presentarono - almeno all’inizio - come un movimento volto a restaurare l’unità e la grandezza tedesca dopo quella che, agli occhi dell’opinione conservatrice, era stata giudicata la decadenza della repubblica di Weimar. Inoltre la radicale e irriducibile avversione nazista al comunismo ingannò la maggioranza dei fedeli, fossero essi luterani o cattolici, i quali vedevano nella Russia dei soviet il trionfo dell’ateismo più abietto.
Va osservato inoltre che il luteranesimo, di gran lunga la confessione cristiana dominante, era fondato su una «tradizione politica» che, in linea di principio, teorizzava l’ubbidienza verso il potere costituito, secondo l’insegnamento dello stesso Lutero, per il quale, riprendendo San Paolo, era doveroso ubbidire al principe, anche che se malvagio (ogni autorità dipende da Dio). E ciò aiuta a comprendere per quale motivo in Germania il consenso al nazismo sia rimasto pressoché intatto fino alla fine.
Più complessa e ambigua, come abbiamo detto, si presentò invece la questione in Italia, dove la Chiesa cattolica aveva ben altro peso e importanza rispetto a quella luterana. Gentile presenta pertanto, giustamente, il caso del nostro Paese come una sorta di «laboratorio» storico-politico. Si deve registrare anche qui, specialmente per i primi anni, un sostanziale appoggio al regime, sfociato, come è noto, nel Concordato del 1929; conciliazione, ovviamente, che non sancì uno svolgimento lineare fra i due poteri, dato che vi furono anche aperti conflitti, come nel 1927, nel 1931 e, soprattutto, nel 1938, quando vennero approvate le leggi razziali. Atteggiamento dunque, questo della Chiesa cattolica, continuamente oscillante fra l’adesione e il plauso, la deprecazione e il silenzio.
All’interno del cattolicesimo non vi fu dunque una convergenza generale di vedute e di giudizi. Già nella seconda metà degli anni Venti, alcuni cattolici antifascisti - in modo particolare i sacerdoti Luigi Sturzo e Primo Mazzolari, unitamente al giornalista Francesco Luigi Ferrari - compresero il pericolo dell’avanzata integralista del fascismo, proteso a sostituire, con la sua religione politica, la fede nel cristianesimo.
Gentile ricostruisce magistralmente il conflitto che questi e altri cattolici ebbero con l’istituzione ecclesiastica e, ancor più, il travaglio interiore che pervase alcuni di loro negli anni amari dell’esilio. Altri importanti spunti del volume si riscontrano infine nella disamina, a livello internazionale, di forme di dissenso ai totalitarismi, rossi e neri, rappresentate dagli incontri svoltisi negli anni Trenta fra sacerdoti, pastori, teologi e intellettuali cattolici e protestanti di diverse nazionalità: francesi, inglesi, tedeschi e americani. Convegni dettati dalla comune volontà di riflettere sul pericolo totalitario per la sua evidente natura di religione politica volta scalzare le basi della civiltà cristiana, creando un pericolo per l’intera umanità.
Possiamo dire che con questo ulteriore contributo di Gentile abbiamo la possibilità di osservare e capire il totalitarismo, vagliandolo sotto uno dei suoi aspetti più profondi: quello di essere stato, prima di tutto, diversamente dall’ethos cristiano, un progetto pervaso da un prometeismo dove era stato perso ogni senso del limite e della finitudine umana.
L’invisibilità delle donne
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 13 febbraio 2017)
Quando le mie figlie avevano cinque anni mi chiesero di aiutarle a scrivere una lettera alla Rai perché si erano accorte che «al telegiornale parlano solo uomini e nei cartoni le donne o sono cattive o devono essere salvate da un uomo». A quasi quarant’anni di distanza le cose non sembrano cambiate di molto, nonostante oggi ci siano molte più giornaliste, anche nei telegiornali. L’ultimo esempio viene dall’iniziativa di un grande giornale nazionale.
Per festeggiare i propri 150 anni «La Stampa» ha chiesto a 51 «personalità di rilievo internazionale» di scrivere come vedono il futuro.
La prima cosa che balza all’occhio è che tra questi magnifici 51 solo quattro sono donne: le «ovvie» Angela Merkel e Hillary Clinton più Lindsey Vonn e Bebe Vio, due politiche e due sportive. Punto. Nessuna giornalista, scrittrice, economista, filosofa, scienziata, imprenditrice.
È normale che la scelta di chi selezionare per questo compito sia largamente discrezionale e guidata da criteri di notorietà. Meno normale è che ancora nel 2017, quando si individua tra «le personalità» cui vale la pena dar voce su come va o dovrebbe andare il mondo, si «vedano» pressoché solo uomini. Come se nulla fosse mutato in questi anni, come se le donne, salvo qualche rara eccezione, fossero sempre e solo in cucina o a fare i bassi servizi o la spalla a uomini potenti. Come se non avessero nulla da dire su questo mondo che, questo sì, è ancora troppo governato da uomini, con risultati certamente non ottimi.
Me lo ha fatto rilevare indignata una mamma che avrebbe voluto utilizzare l’inserto per parlarne con i suoi bambini, un maschio e una femmina, e si rifiuta di proporre loro una immagine in cui quasi solo uomini sono presentati come importanti, e perciò degni di ascolto. Eppure non mancano donne «di rilievo internazionale» che potrebbero dire e dicono cose interessanti su molti aspetti del presente e del futuro: da Fabiola Gianotti ed Elena Cattaneo per la scienza, a Martha Nussbaum e Seyla Benhabib per la filosofia e la politologia, Christine Lagarde, Melania Mazzuccato e Loretta Napoleoni per l’economia, Svetlana Aleksievic e Alice Munro per la letteratura, Marissa Mayer e Sheryl Sandberg per il settore del digitale, Inge Feltrinelli per l’editoria - per fare solo alcuni nomi ovvi. Ma la lista sarebbe lunga.
Non si tratta di un banale infortunio. Piuttosto è la dimostrazione di quanto persista nel nostro Paese l’invisibilità delle donne nella scena pubblica quando si tratta di fornire analisi e dare opinioni. Chi controlla la comunicazione e quindi contribuisce alla narrazione e all’immagine della società è ancora in larga misura di sesso maschile. Anche se il 48% dei conduttori dei Tg in prima serata è donna, come documenta l’ultimo rapporto dell’Osservatorio di Pavia, le direttrici delle news si contano sulla punta delle dita e così le conduttrici di talk show non di intrattenimento. E uno dei ruoli in cui le donne sono meno visibili è proprio quello degli opinionisti, nonché dei portavoce di associazioni e partiti. Ad esempio, il 30% di donne in Parlamento scende al 17% di presenza in televisione. La figura dell’esperto resta un appannaggio quasi esclusivamente maschile. Solo come vittime o come rappresentanti dell’«opinione comune» (la «casalinga di Voghera») le donne trovano ampio spazio nella narrazione pubblica e in pubblico: sono il 51% fra le persone interpellate come voce dell’opinione popolare, il 45% dei narratori di esperienze personali, il 42% dei testimoni di eventi, e appaiono come vittime più del doppio degli uomini (16% rispetto al 7% degli uomini, nei Tg).
Va detto che l’Italia è in buona compagnia. Secondo i dati dell’Osservatorio di Pavia anche in Inghilterra, Francia e Germania le cose non vanno molto bene, ma stanno migliorando più in fretta che in Italia, dove la situazione sembra invece in stallo. Del resto, è passato del tutto sotto silenzio il fatto che l’AgCom, che dovrebbe controllare la correttezza dell’informazione, è composta esclusivamente da uomini. Difficile che si accorgano dello squilibrio di genere non solo in chi comunica ciò che avviene in società, ma in che cosa è comunicato.
Del resto, anche tra gli studiosi le cose non vanno molto meglio. Nell’Accademia dei Lincei le donne sono pochissime ed entrano con il contagocce. Non molto diversa la situazione nelle Accademie delle Scienze. Quando di tratta di riconoscere il merito e la qualità della ricerca, i guardiani dei cancelli sono sempre singolarmente ciechi rispetto al genere. Non perché non ne tengano conto, ma perché vedono quasi solo il proprio.
Per quella mamma indignata, come per me quarant’anni fa, la strada per comunicare ai suoi figli una visione diversa delle donne è ancora molto in salita.
ITALIA E USA - USA E ITALIA: DAL MITO DEL DUCE AL MITO DELL’AMERICA E DAL MITO DELL’AMERICA AL MITO DEL DUCE. LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA ...
ALLA LUCE DEL NOSTRO PRESENTE STORICO, E DELLA CORAGGIOSA E PREZIOSA ANALISI E AUTOANALISI di Fabrizio Denunzio ("La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin, ombre corte, 2016, 119 pp., € 10), PER NON CONFONDERE I PIANI E NON SCAMBIARE la "RIPRESA" CON LA "ripetizione", non è per niente male rileggersi il bel saggio di Simona Urso, "Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano" (Marsilio, Venezia 2003) e, insieme, il già citato lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare"(cfr.:http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5882) e RIMEDITARE la "vecchia" LEZIONE DI FRANZ KAFKA (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1367).
Federico La Sala
Spiegel, Trump ’sgozza’ Statua Libertà
Prima pagina shock del settimanale che titola ’America First’ *
(ANSA) - BERLINO, 3 FEB - Un disegno di Donald Trump a figura intera, con un coltello insanguinato in una mano e la testa mozzata della Statua della libertà nell’altra, è la provocatoria copertina di Der Spiegel in uscita domani. La rivista accompagna l’immagine con il titolo "America First", il motto della campagna elettorale di Trump. Nel disegno, la faccia del presidente non ha lineamenti, tranne che per la bocca spalancata nell’atto di urlare la sua rabbia.
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Roma, a scuola il "Gran ballo in epoca fascista". La preside fa marcia indietro ma l’Ufficio scolastico chiede chiarimenti
L’iniziativa era stata organizzata dalla scuola G. Alessi di via Flaminia. Dopo alcune lamentele la dirigente ha annullato l’evento
di Red. (la Repubblica, 14.02.2017) *
Roma, a scuola il "Gran ballo in epoca fascista". La preside fa marcia indietro ma l’Ufficio scolastico chiede chiarimentiDietrofront in sole 24 ore sul "Gran ballo in epoca fascista" in un istituto romano. L’iniziativa, organizzata dalla scuola media G. Alessi di via Flaminia, per gli studenti di seconda e terza, viene prima annunciata - per il primo aprile - e poi cancellata. La preside dell’Istituto, Anna Maria Altieri, con due distinte circolari interne inviate la prima il 13 e la seconda il 14 febbraio illustra l’iniziativa a docenti, genitori e alunni, ma alla fine l’annulla. A bloccare il gran ballo, annunciato con tanto di locandina sarebbero state le proteste di alcuni genitori. Ma ora l’ufficio scolastico regionale vuole vederci chiaro. E ha chiesto una relazione alla dirigente dell’istituto.
"L’ufficio scolastico regionale per il Lazio, nell’ambito dell’iniziativa triennale ’azioni innovative per la definizione degli obiettivi di miglioramento della scuola’, ha effettivamente finanziato il progetto di approfondimento storico dal titolo ’Ricostruire la Storia: l’epoca fascista nelle nostre scuole e nei nostri quartierì. Tuttavia, il progetto presentato non faceva menzione alcuna di balli a ’tema’. Per questo l’ufficio scolastico ha chiesto una relazione alla dirigente dell’istituto coinvolto", si legge in una nota.
IL COMMENTO Quel gran ballo che sembrava una burla di MASSIMO ARCANGELI
I DOCUMENTI Le due circolari sull’iniziativa
Nella prima circolare, la 217, inviata ieri la preside annuncia che l’Istituto aveva "ricevuto l’approvazione del Miur, ministero dell’istruzione, per il progetto "Ricostruire la Storia: l’epoca fascista nelle nostre scuole e nei nostri quartierì, presentato nell’ambito dell’iniziativa triennale "Azioni innovative per la definizione degli obiettivi di miglioramento della scuola"".
Nella seconda, firmata e pubblica sul sito della scuola oggi, la preside scrive: “Con riferimento alla circolare n. 217 si precisa che lo scopo dell’iniziativa ivi promossa, non è quello di rivalutare un’epoca su cui la storia e il popolo italiano hanno già espresso chiaramente la loro indiscutibile condanna, ma quello di promuovere un’iniziativa di valore culturale, nell’ambito di un progetto di ricerca storica approvato dal Miur. In ogni caso, al fine di evitare fraintendimenti, si ritiene opportuno sospendere la realizzazione del ballo con ambientazione d’epoca”. Alla fine niente ballo.
Una protagonista: Margherita Sarfatti
di Roberto Dulio (Domus, 20 Aprile 2005) *
Margherita Sarfatti Dal mito del Dux al mito americano, Simona Urso Marsilio, Venezia 2003 (pp. 238, € 21,00).
Senza dubbio Margherita Sarfatti non fu solo la critica d’arte che legittimò il gruppo dei pittori del Novecento, piuttosto che una delle innumerevoli amanti di Benito Mussolini. Rappresentò invece una figura intellettuale di rilievo, che condizionò fortemente - almeno sino all’inizio degli anni Trenta - le scelte culturali del regime, e non solo. Il suo influsso non era riducibile alla preferenza di una data connotazione stilistica, ma comportava una più complessa definizione dell’identità culturale della società fascista, del ruolo degli intellettuali al suo interno, della ricerca di una legittimazione storica dello stesso fascismo.
Trasformò Mussolini nel mito del Dux (Milano 1926, il volume era già apparso in inglese col titolo The life of Benito Mussolini, London 1925), una biografia fortunatissima che ebbe innumerevoli riedizioni e traduzioni, e contribuì in larga misura a forgiare quell’immaginario della “romanità” del fascismo che inebriò lo stesso Mussolini.
A questo proposito Renzo De Felice nella sua Intervista sul fascismo (Bari 1975) ricorda una conversazione con la Sarfatti avvenuta nel 1961, dopo la quale lo storico si domandò “quanto del mito della romanità fosse farina del sacco di Mussolini, e non invece piuttosto frutto dell’influenza della Sarfatti. Perché non ho mai conosciuto in vita mia una persona malata come lei di romanità”.
Il saggio di Simona Urso ripercorre queste vicende, scartando l’opzione biografica e concentrandosi sull’avvicinamento della Sarfatti al fascismo, dalla sua militanza socialista, seppure precocemente revisionista, nella Milano del 1902 - dove la giovane ebrea veneziana, nata Grassini, si era trasferita dopo il matrimonio con l’avvocato Cesare Sarfatti - ai suoi rapporti con l’ambiente futurista, poi con la rivista La Voce, alla propaganda interventista alla vigilia della Seconda guerra mondiale, fino a coniugare la funzione rigeneratrice dell’arte al contesto del rinnovamento politico. Proprio quest’ultima connotazione porterà la Sarfatti, a ridosso della marcia su Roma e della creazione di Novecento, a concepire quell’idea di “politicizzazione dell’estetica” che costituirà una delle chiavi per leggere il suo ruolo all’interno del fascismo. Un impegno all’interno del regime che, come afferma l’autrice, “può essere spiegato, come quello di molti suoi coetanei, con la volontà - non sempre realizzata - del ceto medio intellettuale di trasformarsi in ceto politico, un’inedita classe dirigente convinta di incarnare una nuova idea di nazione”.
Il lavoro di Urso può essere confrontato con quello di Philip V. Cannistraro e Brian R. Sullivan, che con The Duce’s other woman (New York 1993, subito tradotto in italiano col titolo Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce, Milano 1993) si erano misurati con le vicende sarfattiane dopo la reticente autobiografia Acqua passata (Rocca San Casciano 1955) che la Sarfatti aveva pubblicato qualche anno prima della morte, avvenuta nel 1961. Gli studi di Cannistraro e Sullivan erano condotti nell’ambito di una scuola storiografica americana che aveva assunto le contraddittorie vicende dell’Italia fascista come campo di indagine privilegiato, contribuendo a dare uno sguardo nuovo, scevro da coinvolgimenti di sorta, a quegli avvenimenti dal drammatico epilogo.
I due storici americani avevano ripercorso l’intera vita della Sarfatti, dalla formazione, alla militanza socialista, al coinvolgimento fascista, alla sua posizione di rilievo all’interno del regime, fino al sempre più limitato ruolo, e poi, dopo le leggi razziali che la costringono all’esilio, alla permanenza in Sudamerica e al ritorno a Roma nel 1947. Nel volume appariva evidente il peso che aveva avuto la Sarfatti, non solo nel determinare un orientamento culturale nuovo - attento alle tradizioni ma lontano dagli atteggiamenti xenofobi delle direttive più retrive del regime - ma anche nel mettere a punto una strategia in cui le componenti culturali e politiche erano strettamente connesse. Cannistraro era del resto l’autore del noto saggio La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media (Bari 1975) che certo doveva averlo reso ben consapevole dei meccanismi della macchina culturale e politica del regime.
Se la narrazione biografica di The Duce’s other woman disperdeva, a volte, la concatenazione delle varie tappe del progetto culturale della protagonista nell’intimismo e nel colore di molte vicende personali della sua vita, il documentatissimo volume di Urso soffre del difetto opposto. Tutta la vicenda della Sarfatti appare infatti svolgersi in modo preordinato, senza contraddizioni, perfettamente aderente, disillusioni comprese, all’interpretazione dell’autrice. Inoltre l’utilizzo, pur corretto, di innumerevoli “etichette storiografiche” - solo a pagina 32 si susseguono “la crisi del pensiero razionale”, i “sindacalisti rivoluzionari”, la “revisione del marxismo”, la “crisi del positivismo”, la “avanguardia cattolica e, poco più tardi, futurista, che portarono a Milano la cultura francese, il simbolismo, e il mito della modernità”, la “militanza riformista” e i “cenacoli informali della Milano laica” - genera una sorta di ermetismo disciplinare che non sempre giova ad una lettura del volume da parte di un pubblico più ampio di quello degli “addetti ai lavori”.
Difetti comunque minimi per un volume che ha il merito di riprendere in maniera fruttuosa il contributo più qualificato che la storiografia americana ha dedicato all’argomento e, come già sottolineato, di ripercorrere in maniera analitica il ruolo di Margherita Sarfatti nella costruzione del mito fascista e, dopo la disillusione e le leggi razziali, nella ricerca di “una nuova Roma” in America. A questo mito americano allude infatti il sottotitolo del volume, un mito alla cui costruzione la Sarfatti stava già dedicandosi prima di lasciare l’Italia, pubblicando L’America, ricerca della felicità (Milano 1937), un mito verso il quale Urso ci conduce solo fino alla soglia, non occupandosi poi del periodo americano dell’autrice di Dux.
Margherita Sarfatti da un mito all’ altro
di Nello Ajello (la Repubblica, 22.12.2003)
Giornalista, critica d’ arte, corifea del fascismo nascente: Margherita Sarfatti (1883 - 1961) viene descritta in questo volume con molta passione. Si tralascia a bella posta il legame intimo fra la scrittrice - ebrea veneziana trapiantata a Milano - e Benito Mussolini. Simona Urso lavora a un ritratto culturale del personaggio, sul percorso da socialista a «donna-icona» del fascismo».
La Sarfatti conobbe infatuazioni febbrili - interventismo, femminismo, «modernismo» cattolico - e assunse a maestri Prezzolini, Ruskin, Carlyle. Dall’ Avanti! al Popolo d’Italia, dalla Voce ad Ardita, il suo progetto consisteva nel trasformare l’ estetica in una sorta di religione dello Stato nuovo incarnato da Mussolini.
Il «Novecento», la corrente da lei fondata nel 1922, adottò il futurismo come lievito contemporaneo per modernizzare la classicità romana. A quest’ ultima si rifaceva fin dal titolo il volume Dux (1926), precoce e fortunatissima icona biografica di Mussolini. Anzi, «doppia biografia»: di Mussolini e della Sarfatti insieme.
Il tramonto della scrittrice si profila quando la politica culturale del regime «adulto» diventa un compito da apparato; e si concluderà con le leggi razziali.
In un libro - testamento della Sarfatti, L’ America alla ricerca della felicità (1937), il mito eroico da lei fabbricato per il dittatore italiano troverà una reincarnazione imprevista: Roosevelt.
*
NELLO AJELLO
Le donne ancora ai margini della ricerca, si lavora per cambiare
Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza
di Redazione ANSA *
Grandi assenti dai vertici della ricerca, in Italia come in molti altri Paesi, le donne vivono ancora nell’ombra nei laboratori scientifici e nelle universita’. Nonostante molte ricercatrici siano esempi di eccellenza riconosciuti a livello internazionale, la maggior parte di esse non riesce ancora ad emergere come meriterebbe. E’ un problema sentito in tutto il mondo e che affonda le radici nella cultura. Fare in modo che il loro ruolo esca allo scoperto e che abbiano i riconoscimenti che meritano e’ l’obiettivo della Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza promossa dalle Nazioni Unite.
L’iniziativa e’ nata nel 2015 allo scopo di portare le donne ad ottenere parita’ di accesso e partecipazione nella scienza. Scienza e uguaglianza di genere sono infatti, secondo le Nazioni Unite, entrambe vitali per raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo concordati a livello internazionale, compresi quelli previsti dall’agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile.
"Donne e ragazze continuano ad essere escluse da una piena partecipazione nella scienza", rileva sul suo sito il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite. La conferma di questo scenario arriva da una ricerca condotta in 14 Paesi sulla carriera universitaria delle ragazze indica che solo il 18% consegue la laurea triennale, l’8% quella specialistica e appena il 2% arriva al dottorato di ricerca.
Se poi consideriamo in dettaglio la situazione in Italia il quadro e’ ancora meno edificante: una recente indagine europea condotta dalla Fondazione L’Oreal per le donne e la scienza ha indicato che l’Italia e’ il Paese europeo con piu’ pregiudizi nei confronti delle donne nella ricerca: addirittura 7 italiani su 10 sostengono che le donne non possiedano le capacita’ necessarie per accedere a occupazioni di alto livello in ambito scientifico.
In Italia come in molti altri Paesi la presenza delle donne negli studi scientifici segue un andamento a piramide, con una base nella quale fin dalle scuole superiori le ragazze rappresentano oltre il 50% degli studenti e che si assottiglia inesorabilmente procedendo verso il vertice: le disparita’ crescono man mano che si avanza verso posti di responsabilita’ e potere decisionale. E’ cosi’ che le donne sono il 30% dei professori associati, il 20% dei professori ordinari e fra gli 80 rettori le donne sono appena 4 o 5.
Per sollecitare il dibattito le Nazioni Unite hanno organizzato per domani, nel quartier generale dell’Onu, un forum nato dalla collaborazione tra il Royal Academy of Science International Trust (Rasit) e il Dipartimento dell’Onu per gli Affari economici e sociale della Divisione per la politica sociale e lo sviluppo (Desa-Dspd). Tra le iniziative in Italia, quella dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che decida alle studentesse delle scuole secondarie una mattinata in compagnia delle ricercatrici e dei ricercatori impegnati in un campo affascinante come la ricerca sulle particelle.
Cattive ragazze: storie di donne audaci e creative
di Monica D’Ascenzo (Il Sole-24 ore, 18 Gennaio 2017)
Puntavano a raccogliere 40mila dollari, ad oggi hanno superato quota 675mila dollari. Elena Favilli e Francesca Cavallo, con la startup Timbuktu, hanno sbancato nel crowdfunding di idee editoriali lanciate su Kickstarter. Il progetto è Good night stories for rebel girls, pensato per ispirare le bambine attraverso le biografie di 100 donne illustri, dalla regina Elisabetta I alla tennista Serena Williams, narrate come favole della buona notte. Alla composizione del libro parteciperanno 100 illustratrici da ogni parte del mondo.
Nella stessa direzione era andata un’altra iniziativa editoriale, di tre anni prima, che potete trovare ancora nelle librerie: “Cattive ragazze: 15 storie di donne audaci e creative”, graphic novel scritta da Assia Petricelli e illustrata da Sergio Riccardi. “Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate” sottolinea Assia. E non ha tutti i torti. Basta sfogliare i libri su cui studiano i ragazzi per rendersene conto. O girare per le strade delle città, generalmente tutte al maschile.
Come è nata l’idea del libro?
Le questioni di genere e la storia delle donne mi interessano da tempo, ma la scintilla che ha acceso l’idea di “Cattive ragazze” è nata per caso, da un incontro con Della Passarelli di Sinnos Editrice, all’epoca in cerca di progetti per una nuova collana di graphic novel per ragazzi. Sergio e io, che già lavoravamo insieme, non avevamo mai pensato ad un fumetto per ragazzi, però ci piaceva quello che faceva la Sinnos e così abbiamo cominciato a ragionarci su ed è nata l’idea di raccontare biografie di donne realmente vissute che avessero messo in discussione ruoli e stereotipi femminili. Donne forti, ribelli, protagoniste delle proprie vite. E soprattutto donne che alla fine ce la fanno, che non sono vittime. Di storie così ce ne sono tante, ma sono poco conosciute.
Basta sfogliare un manuale scolastico per farsi l’idea che per millenni il genere femminile non abbia fatto altro che accudire mariti, figli e case. Ma non è vero. Le donne hanno scoperto, inventato, costruito, ma non sono state raccontate. Con “Cattive ragazze” volevo rendere giustizia ad alcune di queste figure e offrire alle giovani di oggi delle narrazioni che le aiutassero ad acquisire fiducia in se stesse e nella possibilità di essere quelle che vogliono, al di là degli stereotipi. Per raggiungerle abbiamo scelto una forma che fosse il più possibile semplice e accattivante.
Come hai scelto le 15 storie da raccontare?
Il filo rosso che lega le 15 biografie è riassunto nel sottotitolo del libro, donne “audaci” e “creative”, capaci di inventare per se stesse e per le altre che sono venute dopo un ruolo diverso da quello che la cultura patriarcale imponeva loro. Sulla base di questa premessa mi sono messa a cercare e ho incontrato decine di storie fantastiche. Scegliere non è stato affatto facile. Ho privilegiato le vicende meno note e, anche quando ho incluse figure celebri, l’ho fatto perché mi interessavano alcuni aspetti non particolarmente conosciuti: ad esempio il modernissimo rapporto tra Marie Curie e suo marito Pierre.
Inoltre ho prestato molta attenzione alla varietà, volevo restituire il senso di una ricchezza di possibilità, e così abbiamo l’artista, la giornalista, l’attivista politica e così via, ma anche una varietà di appartenenze culturali e geografiche. Non volevo cadere nella trappola di una narrazione troppo centrata sull’Occidente, che sarebbe stata menzognera e fuorviante: in particolare negli ultimi anni le donne del cosiddetto “Sud del mondo” sono state protagoniste di straordinari movimenti di liberazione. Infine ho inserito figure di donne che hanno partecipato a grandi processi collettivi, perché il mondo non si cambia da soli, ma sempre insieme ad altre e ad altri.
Il progetto ha avuto un seguito?
Da quando sono state pubblicate, le “Cattive ragazze” non si sono mai fermate. Hanno dato vita a uno spettacolo teatrale, a una mostra e sono state il motore di un progetto di ricerca e di educazione alle differenze che ha coinvolto studenti e studentesse dal Nord al Sud del paese. Se invece ti riferisci alla possibilità di realizzare un Cattive ragazze 2, per il momento non abbiamo questa intenzione; preferiamo che il nostro libro funga da stimolo affinché altri e altre vadano alla ricerca e raccontino le proprie cattive ragazze, è quello che facciamo nelle scuole. Noi ci riserviamo di tornare presto a parlare di donne, di identità e relazioni, ma con progetti nuovi e diversi da “Cattive ragazze”.
Cosa ti piacerebbe ne traessero le adolescenti di oggi?
La fiducia nelle proprie risorse e la forza per costruire se stesse e la propria storia senza farsela dettare da nessuno, così come hanno fatto le protagoniste del nostro libro. Se ci sono riuscite loro, possiamo farcela tutte.
Stati Uniti 1938, una nuova terra promessa
di Mario Avagliano (Nuovo Monitore Napoletano, 11 Marzo 2017)
Nelle pieghe della memoria, per molti versi sbiadita, delle leggi razziali in Italia, è conservata una vicenda individuale e collettiva: l’emigrazione forzata di circa duemila ebrei italiani negli Stati Uniti.
Professori universitari, medici, avvocati, scienziati, giornalisti, artisti ma anche gente comune, costretti dai provvedimenti persecutori ad abbandonare la patria che li aveva disconosciuti come cittadini e a rifarsi una vita al di là dell’Oceano Atlantico, spesso ottenendo prestigiosi riconoscimenti.
Dai premi Nobel Salvador Luria e Franco Modigliani all’architetto Giorgio Cavaglieri, dall’artista Leo Castelli al musicista Mario Castelnuovo Tedesco, dal cardiologo Massimo Calabresi al fisico Emilio Segrè e ai manager Giorgio Padovani, Giorgino Funaro ed Enrico Pavia.
Il loro dramma è stata ricostruito nel libro America nuova terra promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal fascismo di Gianna Pontecorboli, giornalista italiana che vive a New York e collabora con il Centro Primo Levi.
Attraverso le interviste ai testimoni e ai loro parenti, la Pontecorboli racconta la corsa ad ostacoli per ottenere il visto per l’America (impresa non facile, anche per l’opposizione di un potente funzionario americano, Breckinridge Long, ex ambasciatore a Roma e ammiratore di Mussolini), l’impatto con il nuovo continente, che non sempre li accetta bene, il legame indissolubile con l’Italia, l’adesione di molti di loro alla causa dell’antifascismo (ad esempio nell’ambito della Mazzini Society), il contributo dato alla Liberazione del nostro paese e al processo di ricostruzione ma anche la decisione della maggior parte di quegli italiani traditi di restare negli Stati Uniti, la nazione che aveva dato loro la possibilità di una vita dignitosa e senza persecuzioni.
Una pagina di storia importante anche per comprendere, come scrive Furio Colombo nell’introduzione, le responsabilità dell’Italia e degli italiani non ebrei, senza indulgere, come si continua a fare, nell’auto-assoluzione. Tanto più in vista del 75° anniversario delle leggi razziali del novembre 2013.
Mario Avagliano
SUL TEMA, NEL SI SITO, SI CFR.:
FASCISMO E LEGGI PER LA DIFESA DELLA RAZZA (1938). De Felice, Mussolini, e la "percentuale" del 1932.
“MADDALENA SANTORO E -- "Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano" (S. Urso).