A "REGIME LEGGERO", FINO ALLA CATASTROFE ....

L’ITALIA HA TRADITO (1938) E RI-TRADISCE ANCORA SE STESSA (2008): "SE CADE IL TABU’ DEL RAZZISMO". LINGUAGGIO, "POLITICALLY CORRECT" E IPOCRISIA. Una nota di Nadia Urbinati e una di Michele Sarfatti - a cura di Federico La Sala

La cifra media del comportamento degli italiani «bianchi ariani cattolici» sembra sia stata di noncuranza, adesione passiva o adesione attiva. Quelli perbene furono una ridotta minoranza. E forse non è un caso se proprio su questo tema la storiografia è rimasta così indietro
venerdì 26 settembre 2008.
 

[...] Benedetto Croce manifestò la sua netta ripulsa in una lettera del 21 settembre all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, impegnato a censire razza e religione di soci e famigliari: «Ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l’avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant’anni di attività letteraria e ha partecipato all’attività politica del suo Paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me che ho per cognome CROCE, all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata».

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Il linguaggio può essere usato per deumanizzare o onorare, per spogliare della dignità o per dare dignità. Per stimolare comportamenti violenti o comportamenti civili. Per questa ragione tutti coloro che svolgono servizi di responsabilità collettiva. dai politici agli insegnanti ai giornalisti agli operatori dello spettacolo. devono sentire tutta la gravità del loro ruolo: perché le loro parole circolano più estesamente e velocemente di quelle di tutti gli altri cittadini e perché essi creano modelli di comportamento. Il fatto gravissimo è che in Italia, sui giornali, in televisione e perfino in Parlamento, si fa a gara per tirar fuori la parola più razzista o l’espressione più volgare e intollerante. E il pubblico ride, senza rendersi conto che ridicolizza se stesso per l’insipienza con la quale questa sua noncuranza trascina la società in una spirale di disunione e violenza, con prezzi altissimi per tutti, anche per i razzisti [...]


Se cade il tabù del razzismo

di Nadia Urbinati (la Repubblica, 25.09.2008)

ANCORA una volta è la Chiesa a ricordarci dove sta il giusto e lo sbagliato e ad ammonirci che l’Italia tradisce i diritti umani. La politica (quella del governo) è non soltanto insensibile al giusto ma è colpevole di non perseguirlo. È colpevole di violare i diritti fondamentali promuovendo una legislazione e un’ideologia che sono razziste nei contenuti e nello spirito, perché escludono e criminalizzano chi ha come unica colpa quella di non essere "uno di noi".

La parola razzismo spaventa, ma deve essere pronunciata, ha scritto molto giustamente Stefano Rodotà su Repubblica di qualche giorno fa. Deve essere pronunciata anche perché questa, solo questa, è la parola che riesce a descrivere quello che sta succedendo con sempre più frequenza nelle nostre città.

Ovviamente, non è razzista la città di Milano o la città di Roma - razzisti sono gli individui quando usano un linguaggio che offende gli altri, i diversi. Negli anni ‘60 erano razzisti molti italiani del Nord verso gli italiani del Sud - ancora oggi, tra il lessico razzista in uso presso i leghisti, è facile trovare la parola "terrone". Gli italiani del Sud erano allora l’equivalente dei neri di oggi: fatti oggetto di parole offensive e denigratorie.

Non è necessario che al linguaggio segua la violenza perché ci sia razzismo e perché ci sia comportamento violento. Il linguaggio può fare violenza oltre che istigare alla violenza. E il razzismo è un linguaggio violento. È una forma di violenza che è prima di tutto un modo di pensare che riceve energia dalla pigrizia mentale.

Il pregiudizio (del quale il razzismo si alimenta), vive della nostra inettitudine mentale e della nostra faciloneria, perché è poco faticoso associare molte persone sotto un’unica idea: tutte insieme senza distinzioni individuali, solo perché nere o asiatiche o mussulmane. Al razzista questi aggettivi dicono da soli tutto quello che egli vuole sapere senza fare alcuno sforzo ulteriore di conoscenza, osservazione, distinzione, analisi. «Sei nero, allora sei anche A, B, C». Questa faciloneria rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d’accordo, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda e accorgendosi che non sono soli a pensare in quel modo concludono che hanno ragione, perché la maggioranza ha ragione. Proprio perché genera emulazione il razzismo è facilmente portato a espandersi; l’atteggiamento razzista non è mai "un fenomeno isolato" perché se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull’appoggio dell’opinione pubblica.

Ecco perché quando si legge a commento di un fatto di razzismo che si tratta di "un fenomeno isolato" si resta allibiti (io resto allibita): perché il commento è sbagliato e figlio della stessa faciloneria di chi ha commesso il fatto. Questa è una osservazione di grande importanza, un’osservazione che si può comprendere prestando attenzione a quello che con superficiale supponenza molti osservatori italiani criticano degli Stati Uniti: il "politically correct".

L’idea che ci si debba vergognare di usare un linguaggio razzista in pubblico (questo è il "politically correct") riposa sull’osservazione ben documentata che l’escalation di comportamenti riprovevoli è indotta dal consenso (anche implicito o tacito) da parte degli altri. Se so di essere in minoranza quando dico "sporco negro" mi guardo bene dal dirlo in pubblico. I moralisti tacciano questa strategia educativa di ipocrisia dimostrando così di non capire che molto spesso i vizi privati (e l’ipocrisia è un vizio) sono facitori di virtù pubbliche.

Ha scritto Jon Elster che una delle molle psicologiche che ha reso la deliberazione pubblica possibile (e con essa il radicamento della democrazia) è stata proprio l’ipocrisia, la quale ha per questo, quando esercitata nella sfera pubblica, una funzione civica. Qual è infatti quel deputato che in Parlamento ha il coraggio di dire apertamente di essere lì a rappresentare un interesse fazioso o l’interesse di qualcuno, che vuole fare leggi per se stesso e i suoi interessi? Sappiamo che questi comportamenti sono tutt’altro che rari eppure è raro che vengano così pubblicamente confessati. Anche chi è lì a rappresentare solo se stesso giustificherà le proprie proposte di legge con l’argomento dell’"interesse generale". Certo, è ipocrita; ma è un’ipocrisia che mentre mostra che quel deputato è inaffidabile denota anche un fatto di grande valore: che l’opinione generale ritiene ancora che sia l’interesse generale a dover essere perseguito dai rappresentanti non quello privato o della propria fazione. Insieme alla doppiezza del deputato, l’ipocrisia rivela, se così si può dire, una certa solidità della cultura etica democratica. Il problema sorge quando non c’è più ipocrisia, quando il deputato non ha alcun ritegno a dire apertamente la ragione vera della sua elezione.

L’autocensura del "politically correct" presuppone una società nella quale il razzismo non è un’abitudine mentale della maggioranza. Ma una società nella quale ciascuno sa di poter apertamente essere razzista senza venir mal giudicato o redarguito (punito cioè con la disapprovazione pubblica) è a rischio di barbarie. L’Italia ha di fronte a sé questo rischio. Sarebbe sbagliato mettere la testa sotto la sabbia o rifiutare di vedere. E ancora più sbagliato scegliere la strada assolutoria. Prima che alla violenza, e proprio affinché questa venga scongiurata, è quindi al linguaggio che occorre prestare attenzione, perché esso è il veicolo primo e più potente del razzismo, proprio a causa della natura del linguaggio, un mezzo con il quale costruiamo l’oggetto di riferimento e il suo significato, una costruzione che è condivisa da altri e imitativa, non privata e personale.

Il linguaggio può essere usato per deumanizzare o onorare, per spogliare della dignità o per dare dignità. Per stimolare comportamenti violenti o comportamenti civili. Per questa ragione tutti coloro che svolgono servizi di responsabilità collettiva. dai politici agli insegnanti ai giornalisti agli operatori dello spettacolo. devono sentire tutta la gravità del loro ruolo: perché le loro parole circolano più estesamente e velocemente di quelle di tutti gli altri cittadini e perché essi creano modelli di comportamento. Il fatto gravissimo è che in Italia, sui giornali, in televisione e perfino in Parlamento, si fa a gara per tirar fuori la parola più razzista o l’espressione più volgare e intollerante. E il pubblico ride, senza rendersi conto che ridicolizza se stesso per l’insipienza con la quale questa sua noncuranza trascina la società in una spirale di disunione e violenza, con prezzi altissimi per tutti, anche per i razzisti.


-  In pochi dissero no alle leggi razziali
-  Quando gli italiani si scoprirono ariani

-  Alcuni vennero sospesi dal partito per
-  atteggiamenti «pietisti», la maggior parte si pentì dopo

di Michele Sarfatti (Corriere della Sera 26.09.2008)

Gli italiani che il fascismo nel 1938 definì «di razza ariana» contestarono le idee razziste e la persecuzione dei concittadini «di razza ebraica»? Questa domanda viene posta di frequente, specie da studenti, desiderosi di comprendere di quali comportamenti si trovino a essere di fatto eredi. Quando viene posta a me, rispondo che vi furono contestazioni, ma pochissime, e sottolineo che mancano ricerche scientifiche sul tema. Una delle testimonianze più note è quella di Ernesta Bittanti, la vedova di Cesare Battisti, che nel diario di quei mesi annotò: «La stampa che è tutta statale, e vuole avere uno spirito antiebraico, dà uno spettacolo pietoso ributtante di incongruenze, contraddizioni, spropositi storici, nefandezze da sciacalli». Poi sul Corriere della Sera del 18 febbraio 1939 pubblicò un caldo necrologio dell’amico ebreo Augusto Morpurgo, tuttavia non meglio precisate «autorità» fecero cancellare le parole attestanti l’italianità dei Morpurgo.

Di recente Ruth Nattermann ha riportato che l’alto dirigente del ministero degli Esteri Luca Pietromarchi annotò sul suo diario: «Le idee fasciste sul razzismo ... un ammasso di sciocchezze » (14 luglio 1938). E poi: «Infierisce la campagna contro gli Ebrei ridotti a essere il vilipendio della nazione. Misure violatrici non solo dello statuto e delle leggi ma degli elementari diritti dell’uomo» (3 settembre).

Benedetto Croce manifestò la sua netta ripulsa in una lettera del 21 settembre all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, impegnato a censire razza e religione di soci e famigliari: «Ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l’avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. Ha senso domandare a un uomo che ha circa sessant’anni di attività letteraria e ha partecipato all’attività politica del suo Paese, dove e quando esso sia nato e altre simili cose? L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me che ho per cognome CROCE, all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata».

Del tutto pubblica fu la contestazione del periodico L’igiene e la vita, diretto da Giulio Casalini («un vecchio medico socialista, deamicisiano ed umanitario », lo definisce Roberto Gremmo). Nel fascicolo di agosto 1938 il giornale riaffermò l’origine ebraica di Cristo e dei suoi primi discepoli; in quelli successivi si impegnò nella critica scientifica del Manifesto fascista della razza. E proprio «atteggiamento antirazzista» fu la motivazione con la quale le autorità ne disposero ripetuti sequestri sino alla soppressione nel 1939.

Fuori d’Italia la condanna poté essere espressa liberamente. Ne Il razzismo in Italia, edito nel 1939 in Francia, l’esule comunista Giuseppe Gaddi scrisse: «Il giovane operaio o il giovane impiegato di Milano non può risolversi a considerare come un essere inferiore la piccola dattilografa milanese che dopo una visita alla sinagoga va a ballare con lui, come lo studente non può risolversi a considerare come una nullità il grande professore che lo ha educato e salutare invece come un grande scienziato il fascista che occupa la sua cattedra per il solo merito del "puro sangue ariano"».

In questo elenco non possono trovare spazio i membri del Gran Consiglio del Fascismo che, nella seduta del 6 ottobre che approvò la Dichiarazione sulla razza, chiesero di ampliare le categorie di «benemeriti» (combattenti, ecc.) da esentare parzialmente dalla normativa antiebraica. Essi infatti non contestarono la persecuzione nel suo complesso (salvo affermarlo nelle memorie scritte dopo la sconfitta del fascismo). Vanno invece aggiunti gli espulsi dal partito fascista per atteggiamenti definiti «pietisti»: Ilaria Pavan ha rintracciato la menzione di quattro casi, non sempre lineari; altri potrebbero esservene stati.

Sono note alcune altre contestazioni. Ma Annalisa Capristo ricorda che, per gli accademici, la lettera di Croce fronteggia solitaria una moltitudine di dichiarazioni di arianità noncuranti del suo «proprio quando». Ecco, la cifra media del comportamento degli italiani «bianchi ariani cattolici» sembra sia stata di noncuranza, adesione passiva o adesione attiva. Quelli perbene furono una ridotta minoranza. E forse non è un caso se proprio su questo tema la storiografia è rimasta così indietro. Forte è la sensazione che il silenzio sugli italiani perbene sia il prezzo che il nostro Paese ha pagato per non mettere troppo in rilievo troppi italiani mala gente.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

-  POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA.
-  L’Italia come volontà e come rappresentazione di un solo Partito: "Forza Italia"!!!

-  L’IDEOLOGIA CATTOLICO-FASCISTA DEL MAESTRO UNICO E L’ART. 7 DELLA COSTITUZIONE, UN BUCO NERO CHE DISTRUGGE L’ITALIA E LA STESSA CHIESA CATTOLICA.
-  Per un ri-orientamento teologico-politico.


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