L’11 SETTEMBRE SCORSO È MORTO, ALL’ETÀ DI 92 ANNI THOMAS SZASZ, UNO DEI PROTAGONISTI PIÙ SCOMODI, INFLUENTI E OSTRACIZZATI DELLA STORIA DELLA PSICHIATRIA.
Il «bombarolo» della psichiatria
Thomas Szasz, il ricercatore che disse «La malattia mentale è un’invenzione»
Il ricordo Uno dei protagonisti più scomodi influenti e ostracizzati della scienza psichiatrica (la considerava pseudoscienza) è morto l’11 settembre scorso all’età di 92 anni
di Stefano Carta, psicoanalista (l’Unità 22.09.2012)
Szasz era nato a Budapest da una coppia ebrea ungherese, che rifugiò negli Stati Uniti nel 1938 a causa delle persecuzioni naziste. Nel 1960, un anno dopo avere vinto la cattedra di psichiatria all’università di Syracuse, nello stato di New York, pubblicò quello che è considerato il suo libro più importante, Il mito della malattia mentale, al quale è seguita una produzione di decine di libri e centinaia articoli scientifici.
Il mito della malattia mentale fu accolto dalla comunità scientifica internazionale, così come in generale dal mondo della cultura, come una vera e propria bomba destinata ad esplodere nel cuore stesso della psichiatria. La tesi centrale del libro era, infatti, assolutamente «radicale»: la malattia mentale qualsiasi malattia mentale non esiste, essendo un artefatto inventato per ragioni di potere, prestigio e controllo dalla psichiatria, e fondato su quelli che Szasz considerava fondamentali errori epistemologici e metodologici.
Secondo Szasz, infatti, il termine malattia può essere riferito esclusivamente a malattie organiche, vale a dire a particolari condizioni osservabili e relative a organi o parti del corpo (come per esempio uno sbilanciamento nel metabolismo del litio). Alla base di questa definizione di malattia nei termini di malattia organica Szasz ha fatto posto il padre della patologia moderna, Rudolf Virchow, e il suo trattato del 1858 su La patologia cellulare nella sua fondazione dall’istologia patologica e fisiologica, considerato il punto di ancoraggio della patologia medica moderna.
Secondo l’acuta analisi di Szasz, imbevuti della cultura materialistica e riduzionista dell’epoca, gli psichiatri ottocenteschi, come Charcot e Freud (il quale era un neurologo «prestato» alla psichiatria) estesero il concetto di malattia dagli organi somatici e dai segni che ne evidenziano all’osservazione le patologie, a delle cosiddette «funzioni», creando così dal nulla una nuova classe di malattie, come l’«isteria di conversione», che vennero denominate, appunto, malattie funzionali.
Tuttavia, mentre la malattia organica, per esempio, neurologica o neurochimica, è osservabile, quella funzionale, ovvero quella relativa ai comportamenti di una persona, era, secondo Szasz, inferita, e quindi letteralmente inventata da colui che interpreta un certo comportamento in termini, appunto, di malattia.
Per Szasz, quell’artefatto inventato e reificato che chiamiamo «malattia mentale» sarebbe quindi il frutto di una abusiva letteralizzazione di una metafora: il paziente che si comporta come se avesse una malattia organica (o sul quale uno psichiatra fa una simile attribuzione e assimilazione) viene etichettato come «malato mentale».
Successivamente, a questa etichetta si sottrarrà il suo carattere metaforico, e si agirà come se il paziente fosse veramente affetto da una entità morbosa da eliminare. È evidente che l’eliminazione non sarebbe relativa ad un’entità inesistente, ma a forme particolari di comportamento, a forme particolari di vita. Un esempio di questo processo socioculturale di etichettamento è quello dell’omosessualità, fino a qualche decennio fa psichiatrizzata e «diagnosticata» come malattia mentale.
Szasz la pensava diversamente: secondo lo psichiatra la persona che, per esempio, si comporta da isterica o da depresso, mette in atto, esattamente come una persona «sana», comportamenti specifici orientato versi scopi. E questi comportamenti, a loro volta, iscrivendosi all’interno di una matrice intersoggettiva e sociale particolare, si organizzano e si articolano in forme e stili peculiari, che Szasz chiamava «giochi comunicativi».
Pertanto, la differenza che passa tra un «sano» e un «malato» sarebbe data dal fatto che il secondo, iscritto in una matrice psicosociale di potere, non può o non riesce ad esprimere autonomamente, responsabilmente e liberamente gli scopi che desidera perseguire. In sostanza, per Szasz, la psichiatria, reificando la posizione subalterna del «malato», la confermerebbe isolandolo, etichettandolo e controllandolo sia attraverso processi di istituzionalizzazione che di «cura» farmacologica.
Szasz ritiene che colui a cui attribuiamo un’entità «reale» in verità un artefatto di carattere magico-religioso comunica, attraverso modi speciali, i propri scopi, cercando di evitare proprio ciò a cui la psichiatria, in analogia con i sistemi di etichettamento e «salvazione» delle streghe medioevali, poi lo condannerà.
Per Szasz, quindi, la malattia mentale è un etichettamento patologizzante, controllante ed espulsivo di un comportamento intelligente che usa strategie difensive e di occultamento rispetto ad un ambiente oppressivo o comunque fortemente asimmetrico. Queste strategie comunicative per Szasz utilizzavano codici protolonguistici e linguaggi non-discorsivi, iconici e performativi, per manifestare ciò che in una posizione di maggior potere negoziale il soggetto potrebbe esprimere in forma più consapevole, libera e diretta. Spesso Szasz è stato assimilato all’antipsichiatria, o addirittura ne è stato considerato il padre. Niente di più falso.
Più volte, infatti, riportando il motto di Voltaire: «Dio mi protegga dai miei amici, che dai nemici mi proteggo io», Szasz sottolineò come Cooper a Laing in primis, e tutta l’antipsichiatria inglese, a partire dalla questa orrenda denominazione, anziché avvalorare l’inesistenza della malattia mentale la perpetuava attraverso pratiche comunque psichiatriche, unite ad una sinistra pseudo-idealizzazione di questa entità creata ad hoc. Se, come recita un suo libro recente, la psichiatria era un’ «impostura» per Szasz, l’antipsichiatria era un’impostura al quadrato.
Se mai un inquadramento filosofico fosse possibile, Szasz era un radicale esistenzialista; una sorta di estremo Sartre di «destra» (nel senso ampio che Bobbio diede a questa categoria) difensore radicale della libertà individuale, vicino all’interazionismo simbolico, al costruzionismo sociale (come nel caso di Goffman), alla psichiatria di Sullivan e, forse, alla «psicologia dell’azione» di Shafer nonché alla critica mossa dall’etnopsichiatria di Tobie Nathan all’impianto psicoanalitico a partire dai suoi dispositivi tecnici. Ma Szasz certamente non apparteneva all’antipsichiatria, né all’atteggiamento di Foucault, che considerava un critico algido e non impegnato in nessuno degli effetti che le sue analisi mettevano in luce.
Szasz fu sempre molto chiaro nel non voler essere «infangato» dall’etichetta di antipsichiatra proprio per il fatto la sua era una critica radicale, paradigmatica, alla psichiatria nel suo complesso. E, come fu con il flogisto prima di Lavoiser, sotto la critica di Szasz letteralmente scompare tutto un mondo che, nel paradigma precedente alla critica (quello, quindi, psichiatrico) sembra ovvio e reale.
Per questo lo psichiatra dichiarava che la sua non era un’opera di psichiatria, ma una critica sulla psichiatria, e ai pochi psichiatri che non lo liquidavano con una scrollata di spalle, ma contrattaccavano, rispondeva che la loro richiesta di dimostrare l’inesistenza della malattia mentale e il suo carattere mitico e coercitivo era insensata, proprio perché verteva ancora su una invenzione inesistente di una pseudoscienza.
Oggi viviamo in un’epoca dominata dal manuale statistico diagnostico (Dsm) delle malattie mentali: una vera e propria Bibbia nosografica che, come un lupo essenzialista travestito da agnello nominalista (Brierley), deculturalizza i propri soggetti descrivendoli attraverso moduli comportamentali parcellizzati i quali escludono a priori la possibilità di un progetto e un senso simbolico delle condotte, e che, così facendo, nomina entità nosografico-nosologiche quasi-reali.
Viviamo in un mondo in cui la «farmacocrazia» non solo produce strepitosi profitti, ma anche promette l’estirpamento di quella «malattia mentale» che Szasz riteneva essere invece il tentativo di progetti ed espressione simboliche individuali da tradurre e interpretare. Viviamo in un mondo di straordinari progressi neuroscientifici (quindi appartenenti al regno dell’organico), che vengono spesso invocati per giustificare la «cura» della malattia «mentale».
Un buon atteggiamento scientifico, falsificazionista fino in fondo, imporrebbe non di espellere Szasz dalla riflessione e dalla letteratura psichiatrica contemporanea, ma, al contrario, di assumerlo come il più formidabile critico dell’impostazione dominante. È infatti, possibile che Szasz fosse un visionario e fosse in errore, tuttavia credo che la domanda più utile e dotata di maggior forza euristica oggi resterebbe questa: «E se avesse avuto ragione»? Agli psichiatri, agli psichiatri in primis, l’onere di accettare davvero la sfida.
CHI È
LETTERA *
La malattia non è un’invenzione
A volte succedono cose inspiegabili, come quella di ricordare un personaggio come Thomas Szasz, le cui idee sono state sconfessate dalla Storia. Il pubblico dei vostri lettori, ne siamo certi, per scelta o per necessità crede nel Sistema Sanitario Nazionale cioè crede (o deve credere) nella competenza dei tanti psichiatri che quotidianamente si «dannano» per cercare di rispondere alle domande dei tanti che, nonostante le rivoluzionarie idee dei Szasz, affollano gli ambulatori dei Csm distribuiti su tutto il territorio nazionale.
È forse di sinistra dire che «la malattia mentale non esiste?» oppure che «la malattia è solo una forma particolare di comportamento, una forma particolare di vita», oppure ancora che «il malato, esattamente come una persona sana, mette in atto comportamenti specifici orientati versoscopi». Insomma la mamma che butta la figlia di otto anni dal settimo piano e poi la segue ponendo fine alla vita di entrambe ha fatto solo un «gioco comunicativo?».
Urge fare qualche semplice considerazione rimanendo saldamente ancorati alla realtà: innanzitutto l’idea che «la malattia mentale è un’invenzione» ha ispirato, almeno in Italia, la chiusura di quelle orrende istituzioni che erano gli ospedali psichiatrici, ma sciaguratamente l’unico effetto che abbiamo ottenuto è stato che l’assistenza ai malati di mente gravi ricade oggi quasi completamente sulle spalle delle rispettive famiglie con il conseguente carico di sofferenza che si riverbera su un gruppo ben più vasto di persone, tutte obbligate dal «sistema» a farsi carico di realtà patologiche di cui non conoscono nulla se non che si tratta di malattie «a causa sconosciuta e per questo croniche ed incurabili».
Questi pensieri ancorché vecchi di decine di anni, contraddicono, nascondono, omettono quanto la psichiatria va proponendo negli ultimi 20 anni: è ormai patrimonio acquisito a livello internazionale che la malattia mentale grave dell’ adulto comincia durante l’infanzia, dando segni nel corso dell’adolescenza. Negli adolescenti sono presenti sintomi sfumati che danno malessere, sofferenza e isolamento sociale; tali sintomi smettono di apparire tali al momento della transizione nella psicosi e si accompagnano ad una totale perdita di rapporto con la realtà.
Altrettanto evidente è che le malattie mentali sono fortemente influenzate, se non determinate, da fattori ambientali grossolani (come le migrazioni, uso di sostanze, isolamento sociale etc.) o meno evidenti come le violenze fisiche e non. Vale, poi, la pena soffermarsi sul ragionamento di Szasz che «il termine malattia può essere riferito esclusivamente a malattie organiche» mentre quelle mentali (mancando del corrispettivo organico) vengono definite malattie «funzionali».
Falsificando la realtà, si dice che dei comportamenti normali vengono «interpretati» come malati dalla psichiatria, ma in verità sono solo scappatoie in cui si rifugerebbe chi non riesce ad «esprimere autonomamente, responsabilmente e liberamente gli scopi che desiderano perseguire». È proprio questa idea che promuove e spinge l’intera ricerca biologica e il conseguente ricorso ai farmaci. Siccome non abbiamo ancora individuato le basi biologiche delle malattie mentali dobbiamo investire miliardi di dollari e utilizzare sistemi di indagine altamente sofisticati allo scopo di confermare un’idea vecchia di 2.500 anni. E cioè che le alterazioni della mente devono essere il prodotto di un danno biologico. E così accade che le persone non vanno dallo psichiatra, delegittimato, reso impotente, grazie anche alla confusione generata da scritti come quello di Stefano Carta.
L’ennesimo messaggio «nichilista» che confonde e dispera la gente. Perché invece non cominciare, proprio su questo giornale, a diffondere un messaggio di possibilità di prevenzione e di «cura» attraverso la diagnosi e l’intervento precoce? Per concludere, una riflessione importante: non più tardi di un anno fa la VI sezione penale della Cassazione ha depositato la sentenza 14408, relativa ad un caso di «abuso della professione medica», che recita: «Né può ritenersi che il metodo del «colloquio» non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v’è dubbio che tale metodica (...) rappresenti un’attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica».
Insomma i giudici della Cassazione, a differenza di Szasz e di Carta, sono certi che le malattie mentali sono vere e proprie malattie e che debbono essere curate e guarite. Ed è per questo che Noi scriviamo a l’Unità e non raccogliamo la sfida di Carta («E se Szasz avesse avuto ragione? Agli psichiatri, agli psichiatri in primis, l’onere di accettare davvero la sfida»). Ma ogni giorno raccogliamo quelle dei nostri pazienti psichiatrici.
*
T. Amici, Dirigente medico Asl Grosseto; G. Cavaggioni, prof. Aggregato di Psichiatria "Sapienza" Università di Roma; G. De Simone, Psichiatra e Psicoterapeuta; P. Fiori Nastro, prof. Aggregato di Psichiatria "Sapienza" Università di Roma; F. Fagioli, Dirigente medico Asl RmE; M. Fagioli, Dirigente medico Asl RmB; A. Filippi, Dirigente medico Asl Terni; A. Masillo, Psichiatra e Psicoterapeuta; A. Masini, Dirigente medico Asl RmD; E. Pappagallo, Dirigente medico Asl Viterbo
* l’Unità, 27.09.2012
Szasz, l’antipsichiatria, la malattia e quella lettera...
di Stefano Carta (l’Unità /Lettere, 0 8.10.2012
Caro direttore,
poiché, con il massimo rispetto per la Cassazione, non sono in grado di smettere di pensare per forza di legge, vorrei replicare alla lettera (pubblicata su l’Unità del 27 settembre a pagina 16 dal titolo La malattia non è un’invenzione) seguita alla mia recensione dell’opera di Thomas Szasz (pubblicata su l’Unità del 22 settembre a pagina 20 dal titolo Il «bombarolo» della psichiatria). Innanzitutto, Szasz (o io, figurarsi!) non ha mai negato l’esistenza di forme di condotta che chiamiamo, per esempio, «schizofreniche», per cui su ciò vorrei tranquillizzare gli estensori della lettera.
Per Szasz il problema era essenzialmente quello di evitare un etichettamento delle condotte psico-pato-logiche (i trattini dovrebbero essere mantenuti sempre) che le assimilerebbe, attraverso un processo medicalizzante riduzionistico, al biologico e al somatico. Il senso di questa critica è a mio parere molto cogente proprio perché difforme dalla maggior parte della psichiatria; ed è per questo che credo che Szasz sarebbe un autore da prendere comunque in considerazione e a cui andrebbero date le risposte che merita, ovviamente come si usa nella ricerca scientifica anche per non confermarne le tesi. Perciò affermare di «non raccogliere la sfida» (la sua, non la mia, che non sono Szasz) è semplicemente un peccato, sia dal punto di vista della riflessione e della discussione che su quello dei possibili esiti positivi sui «nostri» pazienti.
Che esistano forme di vita che chiamiamo psicotiche, depresse, anoressiche, ecc., è un’ovvietà. Per Szasz il rischio era quello di assimilarle a entità simil-organiche. Al contrario, Szasz riteneva corretto epistemologicamente ed eticamente mantenere l’analisi delle condotte (con le loro possibili motivazioni situate entro matrici intersoggettive e sociali), in quanto espressioni appartenenti allo psicologico, entro la dimensione psicologica. Dall’equivoco sull’esistenza e la serietà delle condizioni psico-pato-logiche nasce l’errata opinione degli estensori della lettera per cui Szasz si disinteresserebbe alla cura. Al contrario, per quanto si possa non essere d’accordo, la posizione di Szasz implicava una «psicoterapia» non coercitiva e situata nella consapevolezza delle matrici intersoggettive e sociali evolutive dei soggetti sofferenti. Insomma, proprio quella psicoterapia che, rispetto all’intervento farmacologico (che, a differenza di Szasz, io non demonizzo) è, nei Servizi pubblici, purtroppo, del tutto sottofinanziata.
Vorrei sottolineare un altro punto criticato nella risposta al mio articolo, e relativo alla presenza di scopi nelle condotte, siano esse sintomatiche o meno. Tutti, e quindi anche lo schizofrenico, agiamo mossi da cause e orientati verso scopi, se non altro perché ogni sistema complesso è potenzialmente comprensibile solo se l’analisi delle cause del suo funzionamento viene messa in rapporto con i suoi scopi ipotizzabili. Questo rapporto cause/scopi diviene, per esempio, evidente e mostra la sua rilevanza nel momento in cui si riconosce che, se è legittimo affermare che un comportamento è «causato dal cervello» (cioè dallo strato biologico), non è possibile affermare che anche i suoi scopi si riferiscano ed esauriscano nel cervello stesso.
Gli scopi delle condotte umane, infatti, sono ipotizzabili solo se iscritti nel regno delle relazioni, dei significati e dei valori, per cui negare l’esistenza di piani e scopi delle condotte umane comporta il rischio di negare contemporaneamente l’umanità di coloro che tali condotte mettono in atto. Tutto ciò, ovviamente, non significa condividere tali scopi (come uccidere qualcuno allo scopo di tacitare una voce che te lo impone), poiché il «comprendere» non comporta certo il «giustificare», o tantomeno il celebrare! (Vedi la critica all’antipsichiatria).
Ma ciò che nella lettera mi ha più colpito è stata l’evocazione della schizofrenica che uccide la figlia, brandita per discutere delle tesi sulle quali non si concorda. Questo tipo di rappresentazioni generalizzanti della «malattia» mentale non rendono un buon servizio agli schizofrenici, né a nessun altro perché, così evocato, il «malato mentale» sembrerà un povero mostro spaventoso e, inconsapevolmente, cattivo (Persecutore) da cui qualcuno (Salvatore) proteggerà noi (Vittime), sempre che non si sollevino mai dubbi, riflessioni, alternative. Altrimenti: anatema!
Salve
non riesco a trovare la lettera a cui sta rispondendo, dunque non mi è chiaro, il suo contendere. Mi piacerebbe poter avere gli strumenti di confronto.
grazie lorenza