Radici e diversità...

SALENTO. Festival musicale, 2005: "LA NOTTE DELLA TARANTA". Alessandro Portelli presenta il cd del concerto finale.

Allegato: "Il tarantismo: esorcismo musicale" (di Paola Marangio)
giovedì 5 ottobre 2006.
 

Salento

Radici e diversità, la poesia della taranta

Puoi credere di farcela però poi dici a te stesso: ho bisogno di aiuto, e quella è la parola chiave. Robin Williams in lotta contro l’alcool

Endecasillabi e tamburi. È uscito il cd «La Notte della Taranta», sul grande concerto finale del festival 2005 musicale salentino dedicato al recupero della pizzica e alla sua fusione con altri ritmi, dal rap al jazz

di Alessandro Portelli *

Prendiamo la voce di Francesco De Gregori, i tamburelli incalzanti della pizzica salentina, e versi canonici della Divina Commedia: «nel mezzo del cammin di nostra vita... fatti non foste a viver come bruti...» Mischiamo tutto e facciamoglielo cantare sul palco della Notte della Taranta 2005 e poi nella traccia di apertura del cd appena uscito che raccoglie una selezione di quel concerto (Orchestra Popolare La Notte della Taranta, diretta da Ambrogio Sparagna, La notte della Taranta 2005, registrato dal vivo a Melpignano). Banalmente, potremmo dire che è un esempio di quella che oggi si suole chiamare «contaminazione» o addirittura «dissacrazione» (Dante cantato e ballato? Come si permettono?).

Ma io direi che è il contrario: è l’evocazione di un tempo forse mai letteralmente esistito ma sempre postulato in cui la divisione del lavoro, il mercato, la Chiesa non avevano ancora eretto barriere rigide fra la cultura «colta», la cultura «popolare» e quella che oggi chiamiamo «popular culture». Non un accocchio estemporaneo di cose eterogenee, insomma, ma il richiamo a un profondo sostrato culturale unitario, ben rappresentato dalla poetica condivisa dell’endecasillabo.

La Notte della Taranta è molte cose - un evento di massa, una grossa macchina economica, un’idea di politica culturale, tutte cose su cui si discute e si litiga pure accanitamente e fuori registro, tra divergenze ideologiche da una parte e scontri di potere dall’altra. Ma alla fine è essenzialmente musica e il cd di cui stiamo parlando ci permette di ascoltarla, appunto, in questi termini. Da quando Ambrogio Sparagna ha preso la direzione musicale dell’evento, sono successe alcune cose.

In primo luogo, non c’è più l’equivoco per cui la ricerca di rapporti fra musica popolare e altri linguaggi musicali (la cosiddetta «contaminazione») debba consistere nel «modernizzare» o «elevare» la cultura tradizionale adeguandola a qualcosa d’altro e misurandola su criteri non suoi, ma piuttosto sono gli altri che si devono misurare con la centralità e la piena dignità artistica di questa musica nei suoi stessi termini.

Ospiti famosi come Piero Pelù e lo stesso De Gregori imparano con umiltà a cantare il maggio toscano, la pizzica salentina, il repertorio «grico», senza cercare di assimilarlo a sé; e non si vergognano di stare in secondo piano rispetto a grandi voci popolari come Enza Pagliara, Antonio Castrignanò, Alessia Tordo e altri, che saranno meno famosi ma che qui restano i maestri e i padroni di casa.

E infatti gli unici momenti in cui le cose non funzionano sono quelli in cui a qualche ospite viene meno la fiducia nella piena autosufficienza della musica popolare, e pensano di doverla arricchire o abbellire narcisisticamente con l’«interpretazione» e la drammatizzazione, mandando in frantumi quel senso della forma che è il grande principio estetico della musica di tradizione orale. Ma sono solo un paio di brani. L’altra cosa, più complicata, è il progetto dell’Orchestra Popolare.

Ricordo uno scritto di Alan Lomax in cui lui parlava della rarità delle esperienze orchestrali nella musica popolare, e segnalava fra i non molti esempi quelli delle orchestre tradizionali dei Balcani o delle bluegrass bands americane. Aveva ragione, nella misura in cui la musica popolare, nata in condizione di scarsità, ha imparato a fare il più possibile con mezzi sempre limitati, inventandosi una poetica del limite, della sottrazione, della essenzialità.

L’orchestra della Notte della Taranta è diverso dagli esempi di Lomax perché, anche se parte dalla tradizione orale, si deve collocare in una modalità diversa, quella del grande evento o del circuito dei festival e degli spettacoli con un pubblico di massa, e di una poetica della contemporaneità consumistica in cui invece che sottrarre si pensa che si debba sempre aggiungere.

Ora, non è facile fare in quaranta una musica che è nata per essere fatta in tre o quattro, o magari da soli come nel caso delle canzoni narrative. Sparagna aveva già alle spalle l’esperienza riuscita della Bosio Big Band, con la trasformazione dell’organetto da strumento solista in strumento orchestrale; ma qui le cose sono ancora più difficili e ambiziose. Ci sono momenti collettivi travolgenti, pieni d’orchestra di grande presa che danno davvero il senso di una crescita degli strumenti espressivi tradizionali; e ci sono momenti inevitabili in cui il suono è un po’ più omogeneizzato.

In qualche intervento orchestrale mi è parso di sentire i Pogues - che comunque è tutt’altro che un insulto, visto che sono stati fra i più grandi interpreti della contemporaneità della musica popolare, ma che rinvia un poco a una koiné di world music generale. Comunque, il progetto di inventare qualcosa di nuovo sviluppando le possibilità implicite nella musica popolare, assumendone i rischi e le responsabilità, mi sembra degno di attenzione e rispetto, magari critico se serve, ma in positivo. Ho cominciato parlando di sostrato unitario.

Nel cd, la musica salentina (tutta, non solo la pizzica!) è una base di partenza per un viaggio verso il resto d’Italia. Sparagna, nelle note che accompagnano il disco, rinvia direttamente a un tema antileghista di unità costituzionale del nostro paese, che è stato drammaticamente centrale al referendum dello scorso giugno.

Allora, se il talentino Antonio Castrignanò e il comasco Davide Van de Sfroos si alternano cantando La Cenerina e Port a Romana , ci accorgiamo non solo che l’aria è la stessa e che il carcere è un tormento al Sud come al Nord, ma anche che la nostra ricchezza sta nei modi diversissimi fra loro di coniugare questa diversità.

Quando alla fine i Sud Sound System entrano in campo proclamando «se conosci le radici che hai puoi capire anche quelle degli altri», il loro rap sembra una continuazione naturale, davvero la stessa musica, della pizzica che lo precede e lo segue - musica popolare, musica di tradizione orale, poesia parlata del nostro tempo come la pizzica e la canzone epico-lirica (e Dante) del loro...

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www.ilmanifesto.it, 04.10.2006


DOC.:

Il tarantismo: esorcismo musicale

di Paola Marangio (Psicoterapia.it)

Il tarantismo (o tarantolismo) è un fenomeno tipico delle campagne pugliesi che, pur essendo stato studiato e interpretato più volte nel corso dei secoli, conserva tutt’oggi un velo di mistero riguardo alle sue vere origini ed ai meccanismi del suo funzionamento. Esso tiene ancora vivo l’interesse di antropologi, psicologi, psichiatri, sociologi e teologi. I primi casi di cui abbiamo una testimonianza scritta risalgono alla metà del 1400 ma tale fenomeno è certamente ben più antico: dagli studi di Jeanmaire (1949) si riscontrano delle pratiche simili presenti nei paesi islamici dell’Africa settentrionale, nel Sudan ed in Etiopia dove “i posseduti” si abbandonavano a danze frenetiche che non avevano lo scopo di sopprimere gli stati affettivi e deliranti risultanti dalla loro possessione bensì la loro trasformazione mediante eliminazione del fattore depressivo e utilizzo degli stessi per costruire una nuovo equilibrio della personalità mediante una sorta di simbiosi sono lo spirito sotto forma di trance. De Martino (1959) descrive in modo quasi identico la pratica del tarantismo: “lo stato di crisi, la trance provocata a comando dai direttori di scena, la funzione ordinatrice del ritmo musicale, la danza, il bisogno di ripetere periodicamente la pratica e soprattutto la guarigione come controllo rituale della crisi che senza controllo oscillerebbe nella polarità di depressione melanconica e di eccitazione maniaca, costituiscono elementi caratteristici del tarantolismo”.

In realtà anche Platone nel “Fedro” descrive un fenomeno dell’antica Grecia simile al tarantismo distinguendo la cosiddetta follia dalla “giusta mania” la cui funzione è quella di regolarizzare l’eccesso di follia dandole un’orientazione telestica.

Secondo la credenza salentina, nelle campagne si nascondevano diversi esemplari di ragni (tarantole, dialettalmente dette tarante) che, essendo velenosi, provocavano nelle loro vittime una serie di malesseri fisici invalidanti. Unica speranza di guarigione era una danza sfrenata accompagnata da suoni e ritmi prodotti dagli “esperti” del paese.

Per capire al meglio lo spessore di questo fenomeno bisogna partire dalla comprensione del fatto che il tarantismo si sviluppa nel mondo contadino di un’Italia Meridionale in cui la linea di confine tra magia, religione e medicina era estremamente sottile, se non impercettibile. Ne è un esempio il fatto che, ancora oggi, seppur in minor modo, è radicata (e non solo nelle classi sociali più basse!) la fede nel potere della “fascinazione” che De Martino definisce come “una condizione psichica d’impedimento e d’inibizione, un essere agito da una forza potente e occulta che lascia senza margine d’autonomia la persona. La fascinazione comporta un agente fascinatore e una vittima, se l’agente è un essere umano si tratta di malocchio (influenza negativa proveniente da uno sguardo invidioso), se invece l’agente è una personalità aberrante che invade il comportamento della vittima, il soggetto non sarà più fascinato ma addirittura “spiritato”. La possibilità di fascinare ed essere fascinati può coinvolgere, a qualsiasi età, tutte le sfere della vita, soprattutto quelle affettive e sessuali. Ancora oggi, l’ostinata sopravvivenza di tali credenze in individui appartenenti a diversi strati sociali è giustificata dalla persistenza di un pensiero di tipo magico. Nelle esperienze di fascinazione, possessione, fattura, esorcismo, il soggetto avverte un malessere fisico che va dalla nausea al mal di testa e prova sentimenti di vuoto e depersonalizzazione, vive in uno stato crepuscolare che lo priva dell’autonomia e lo fa agire secondo il volere di qualcun altro, come accade nei deliri d’influenzamento.

Il morso della taranta provocava sintomi inequivocabili: debolezza generale, senso di svenimento, nausea, vomito, tachicardia, senso di angoscia, depressione, ipersensibilità. Coloro che erano stati vittime del ragno (nella maggior parte dei casi erano delle donne), venivano sottoposti ad una sorta d’esame da parte della macara (un’esperta del paese considerata in grado di stabilire se si trattasse o meno di morso di tarantola) e se questa dichiarava “è taranta!”, si dava inizio alla cura. Il rito di guarigione consisteva in una seria di preparativi all’esorcismo musicale: in una stanza sgombra veniva fissata sul soffitto una fune resistente, cui la tarantata si sorreggeva per non cadere durante la danza vorticosa; la donna veniva lavata, vestita di bianco e adagiata su un lenzuolo bianco, con accanto sia gli oggetti collegati all’esperienza del primo morso (ad esempio, grano se il morso era avvenuto mentre la persona stava mietendo), sia piante di basilico, cedro, menta e ruta, che fungevano da stimoli olfattivi. I suonatori si disponevano in cerchio attorno alla tarantata formando la cosiddetta ronda e iniziavano a provare diverse melodie, per identificare il tipo di tarantola (effettuata anche attraverso l’uso di nastri colorati, le nzacareddhe); alla melodia giusta la tarantata si lasciava, come si dice dialettalmente, “scazzicare”(smuovere) cosicché aveva inizio l’esorcismo coreutico-musicale.

Il ciclo coreutico, che si ripeteva fino allo sfinimento della tarantata, o fino alla grazia concessa dal Santo protettore (vedi più avanti), lo si può grossolanemente suddividere in due fasi:

L’intero ciclo continuava a ripetersi identico fino a tarda sera e si ripeteva solitamente per almeno tre giorni, o finché Santu Paulu (San Paolo) non avesse concesso la grazia alla tarantata.

La leggenda secondo la quale San Paolo è il protettore dei tarantati narra che egli sia giunto in uno dei suoi viaggi nella terra salentina e che, per ringraziare dell’ospitalità ricevuta, abbia lasciato in dono il proprio potere di guaritore dai morsi degli insetti e dei rettili velenosi agli abitanti di Galatina rendendoli peraltro immuni ai morsi stessi (un paesino in provincia di Lecce nel quale è stata erta in suo onore una cappella con un pozzo attiguo nel quale giace l’acqua miracolosa a cui ambiscono tutti i tarantati per poter chiedere la guarigione).

Il rapporto taranta-San Paolo è in realtà piuttosto confuso se non addirittura conflittuale: il Santo è contemporaneamente il protettore dei tarantati , al quale si implorava la grazia, ma anche colui che inviava la taranta per punire di qualche colpa. Inoltre, come osserva De Martino nei suoi studi condotti in loco, durante l’esorcismo coreutico-musicale, le tarantate avevano dei dialoghi col santo ma contemporaneamente con l’animale che le aveva morse. Probabilmente il legame fra il tarantismo (fenomeno prettamente pagano e basato su credenze magiche) ed il cattolicesimo è stato stabilito in un secondo momento: dopo che la chiesa ebbe polarizzato il fenomeno sulla religione, diminuirono pian piano le manifestazioni nei paesi e nelle case (divennero addirittura bandite e represse dalle forze dell’ordine) per aumentare nella cappella di Galatina alla quale venivano per altro fatte delle cospicue offerte per ringraziamento della grazia ricevuta o per richiederla (De Martino riporta il caso di un giovane che per ringraziare della grazia ha donato alla chiesa soldi a sufficienza per cambiarne l’intera pavimentazione).

Si dice che S. Paolo potesse concedere la grazia anche durante l’esorcismo, evento che accadeva in ore precise (alle 12 o alle 13, alle 15 o alle 17) ed in cui la tarantata lo vedeva, lo ascoltava e gli parlava; in genere era lo stesso Santo che comunicava alla tarantata cosa fare per ottenere la grazia identificandosi con la stessa tarantola. L’arrivo del miracolo era anticipato da alcuni segni: la tarantata durante le pause mangiava ed i cicli coreutici diventavano più brevi; giunta la grazia, l’orchestrina cessava di suonare, la tarantata e tutti gli astanti si inginocchiavano per pregare e infine venivano raccolte le offerte da portare alla cappella del Santo.

Provare a chiedere una descrizione della cosiddetta “taranta” ad un anziano del luogo si ottengono riposte alquanto bizzarre: essa appare a volte come uno scorpione, a volte come un grosso ragno peloso, di colore scuro, altre volte viene descritto come un ragno più piccolo spesso con il dorso colorato, che “vola” seguendo il vento, altre volte ancora si tratta si “scorzoni” ovvero serpenti che possono causare gli stessi effetti. Inizialmente si pensava che l’animale in questione fosse la Lycosa Tarentula (il cui morso provoca una reazione locale lieve), ma successivamente è stata avanzata l’ipotesi che si potesse trattare del Latrodectus Tredicim Guttatus il cui morso comporta effetti più evidenti (mal di stomaco, debolezza, nausea, pallore). Tuttavia, individuare il tipo di ragno che potrebbe potenzialmente causare tale fenomeno è alquanto futile dato che è evidente oramai che esso abbia ben altre origini, seppur non del tutto definite.

In passato il tarantismo è stato associato all’isteria, alla depressione, alla frustrazione, alla nevrosi, al ritardo mentale, alla licantropia, alle condizioni economiche disagiate, alla noia, alla solitudine e molte altre sono ancora le ipotesi che si possono fare a riguardo. Naturalmente bisogna tenere in considerazione tutti gli aspetti del fenomeno e dei soggetti che ne restano coinvolti, anche volendo considerare il tarantismo come una sorta di psicosi, esso va comunque contestualizzato e capito nel suo complesso. La Puglia degli anni a cui ci stiamo riferendo è, come già accennato, una terra che è ancora profondamente legata a credenze popolari, alla magia ed alla mitologia. La vita di interi paesi, delle famiglie e anche delle singole persone era scandita da una ciclicità programmata che determinava la cadenza di ogni evento che veniva celebrato con una festa che coinvolgeva tutti: per l’inverno il Carnevale, per la primavera la Pasqua e i riti della Settimana Santa, per l’estate le feste dei patroni, in cui le figure dei santi sono connesse ai frutti raccolti al termine del ciclo produttivo. Questo insieme di cristiano e pagano (che sopravvive tutt’ora con il combinarsi di celebrazioni di neotarantismo e sante messe nelle notti estive del Salento), di religioso e magico costituivano una importante rete di valori che consentivano di mantenere un equilibrio a chi, vivendo in condizioni precarie legate all’agricoltura, viveva aspettando questi momenti che gli scandivano la vita. Il fatto che le vittime della taranta fossero preferibilmente donne è da ricercare non solo nel fatto che erano proprio le donne a curarsi dei raccolti e della mietitura del grano (esponendosi, perciò maggiormente al pericolo del morso) ma anche nella struttura della famiglia che era di tipo patriarcale e la condizione della donna era particolarmente difficile: succube del padre prima di sposarsi, con il matrimonio deciso dalla famiglia, successivamente lo diventava del marito. La sua vita era dedicata alle molteplici e ravvicinate gravidanze, alla cura dei figli e della casa; era costretta a lavorare fino a pochi giorni prima del parto e poi a portare il figlio neonato in campagna. I contatti sociali e relazionali erano così annullati o limitati per lo più ai soli parenti; gli unici momenti in cui la donna aveva la possibilità di incontrare qualcuno erano rappresentati dalla messa della domenica e dalle feste patronali. Così, la donna non solo era priva di qualsiasi potere decisionale nella sua vita, ma anche di qualsiasi possibilità di esprimere i propri bisogni.

Non a caso il fenomeno del tarantismo colpiva proprio i contadini della terra del sole, analfabeti, che trascorrevano le loro giornate e spesso le notti nei campi dei ricchi latifondisti, accontentandosi di una paga che forniva loro lo stretto necessario per sopravvivere. Era più frequente nelle donne, generalmente nel periodo puberale e spesso si osservava tra i membri della stessa famiglia. C’è da chiedersi se colpisse i contadini e le donne perchè erano realmente più esposti o perché fossero coloro che “avevano maggiormente bisogno del morso”.

Inoltre i tarantati emergevano prevalentemente durante il periodo estivo e la credenza popolare spiega ciò con la semplice teoria secondo la quale il ragno si risvegliasse dal letargo invernale; escludendo a priori che il morso del ragno abbia realmente qualcosa a che fare con il fenomeno della “possessione”, sono stati fatti alcuni tentativi di spiegazione alternative: quelle più accreditate (che escludevano però l’aspetto psicologico del contesto) affermavano che si trattasse di eccessivo consumo di vino locale o di “colpo di sole” durante le ore di lavoro nelle campagne. De Martino (1959), in accordo con Russell (1979), escludono entrambe le ipotesi facendo notare che la stagione estiva era il periodo della mietitura del grano, della spigolatura, del raccolto di ortaggi, della vendemmia, quando i contadini passavano più tempo nei campi, si sfidavano i raggi del sole, era deciso il destino dell’anno, si pagavano i debiti economici ed esistenziali: il tempo in cui riemergevano i conflitti.

Durante l’estate avveniva di solito il “primo morso” del ragno ma spesso anche il ripetersi della crisi ciclicamente “rimorso” tendeva a manifestarsi durante lo stesso periodo (in modo particolarmente intenso durante la fine di Giugno: il 29 si festeggia S.S. Pietro e Paolo nella cappella di Galatina e questa venva quindi colta come ottima occasione per render grazie al Santo), eccetto una piccola percentuale di casi che subivano il ri-morso durante altri periodi dell’anno.

In una intervista fatta ad una testimone di vari episodi di tarantismo (Tina Monticelli, 82anni, originaria di Lizzano-TA-) viene bene sottolineato che

I tarantati, infatti, sono attratti da colori accesi, di solito rosso o giallo a seconda del tipo di ragno che aveva morso il rito di guarigione non è quindi solo un esorcismo coreutico-musicale ma coreutico-musicale-cromatico. Nell’immaginario popolare si credeva nell’esistenza di diversi tipi di tarantole, che si differenziano per forma, colore, tonalità affettive e comportamento; potevano essere grandi o piccole, colorate o nere (e da questo fattore dipendeva, appunto l’attrazione o la repulsione per i colori), ballerine, in altre parole sensibili alle danze, canterine, che rispondevano al canto, tristi e mute, che richiedevano nenie funebri, tempestose, che inducevano la vittima a “fare sterminio”, libertine, che stimolavano a mimare comportamenti lascivi o, ancora, dormienti, che resistevano a qualsiasi trattamento musicale. Ogni tarantola si pensava sensibile a distinte melodie e capace di indurre a danzare secondo il ritmo ad essa congeniale e a parlare con la tarantata, impartendole ordini e venendo a patti con lei, proprio come uno spirito che possiede e controlla l’esorcismo.

Per escludere la possibilità di una eventuale riduzione del tarantismo a latrodectismo, De Martino fa notare una insolita distribuzione del fenomeno in termini di luogo (immunità locale degli abitanti di Galatina), di tempo (i tarantati aumentavano alla fine di Giugno), di sesso (le donne erano più soggette ad essere vittime del ragno) ed una particolare distribuzione familiare (spesso c’erano più casi in una famiglia perché, come si pensava all’epoca, il veleno che provoca il ri-morso è tramandabile di madre in figlia finché il ragno non muore).

Queste particolarità notate dall’equipe di De Martino fanno capire che già negli anni ’50 il tarantismo aveva assunto un simbolismo totalmente autonomo rispetto ad una qualsiasi forma di latrodectismo. Ciò che naturalmente non è chiaro è se tale simbolismo fosse utilizzato per far defluire forme di frustrazione, conflitti irrisolti nelle biografie individuali dei soggetti colpiti oppure se in occasione di momenti critici della vita di determinati soggetti (morte di una persona cara, crisi di pubertà, fatica estiva del raccolto etc) “insorgesse la crisi” sullo stampo riplasmato del latrodectismo.

Il caso di “Maria di Nardò” riportato da De Martino è esemplificativo di come il morso della taranta possa essere funzionale per la vittima (senza necessariamente essere considerata una finzione):

Per comprendere meglio la possibilità quanto il frenetico ballo estivo fosse un momento importante per Maria, bisogna tener conto non solo della storia che ha portato al primo morso ma anche della situazione economico-familiare in cui si trovava: ha 29 anni, è analfabeta e non ha figli. Vive con il marito che è affetto da TBC e spesso disoccupato, pare quindi che la maggior parte del reddito familiaresiacostituito dalla paga di Maria.La loro casa è costituita da una singola stanza a livello stradale che riceve luce dalla porta d’ingresso, mancano l’acqua ed i servizi igienici.

Il caso di questa tarantata ha attratto l’attenzione dello psichiatra culturale Giovanni Jervis (1960) dichiarandone le indubbie somiglianza con l’isteria: “osservata a lungo durante la danza domiciliare, presentava un’espressione del volto perpetuamente immobile e chiusa, con gli occhi quasi sempre chiusi; nessuna sollecitazione ambientale (a parte il ritmo musicale) influiva in generale sul suo comportamento [...] neppure una mosca posata sulla palpebra”. Allo stesso tempo lo studioso non riesce a trovare una spiegazione al perché, dando per scontato che il tarantismo altro non sia che una manifestazione isterica, esso sia un fenomeno talmente diffuso e concentrato nel Salento.

De Masi et al. (2004) hanno recentemente ipotizzato che le manifestazioni delle tarantate fossero dovute a traumi subiti in passato, non solo quindi considerando lo stress dell’ambiente povero e le condizioni economiche disagiate ma prendendo in considerazione anche la possibilità che ci fossero delle violenze (sessuali e non) nella storia personale dei soggetti tarantati. In quest’ottica, la sintomatologia ed il trattamento coreutico-musicale che la comunità riservava agli individui che ne erano affetti ne rappresenterebbero una ripetizione e una ritualizzazione altamente teatralizzata, si potrebbe dire "isterizzata". Ci sono, poi, diverse caratteristiche del tarantismo che potrebbero avvalorare l’ipotesi che la sua insorgenza si possa rintracciare effettivamente in un evento traumatico di tipo sessuale: il suo presentarsi durante la stagione estiva, in cui uomini, donne e bambini trascorrevano giorno e notte nei campi; la sua maggiore prevalenza in donne in periodo puberale; la sua possibilità di ricorrenza; l’alta simbologia di tipo sessuale che caratterizzava la crisi ed i rituali propri dell’esorcismo, con l’utilizzo di canti a contenuto erotico, lo stato dissociato della coscienza entro cui avveniva la crisi.

La Epifani (1998) nota anche che la posizione a terra con le gambe flesse e divaricate, con la testa che si muove a destra e sinistra, appare proprio un amplesso simulato agli occhi degli estranei, intimamente sentito e vissuto dalla donna, che di tanto in tanto emette delle urla che esprimono il piacere-dolore di un amplesso sostitutivo. Tale posizione, secondo l’autrice, ricorda la posizione naturale "donna sotto e uomo sopra", cioè una posizione di sottomissione cui la tarantata reagisce alzandosi in piedi, opponendosi quindi alla condizione di passività ed avviandosi alla guarigione. Nella posizione orizzontale la donna rivivrebbe lo stato di sottomissione e integrazione all’ordine naturale, strisciando come l’animale, urlando, simulando un amplesso coatto; nella posizione verticale, invece, lotterebbe e si ribellerebbe a tale condizione, risolvendo la malattia. Giordano (1957) ha definito il tarantismo come una forma di psicosi collettiva. Analizzando dal punto di vista clinico i protocolli Rorschach raccolti dall’equipe di De Martino, è stato chiaro notare che le donne in età avanzata che erano state tarantate avevano una mentalità primitiva, erano molto emotive e suggestionabili, e con scarso livello culturale. L’autore ipotizza che la psicosi di massa possa facilmente innescarsi in tale contesto culturale dove predominano idee magiche e false credenze. Classificare in tal modo i soggetti vittime del tarantismo è a dir poco riduttivo. Come dice lo stesso Jervis: “uno psichiatra potrebbe dare una risposta relativamente semplice: il tarantismo sceglie le sue vittime fra i suggestionabili e gli isterici presenti in ogni popolazione, e fa sì che una persona, predisposta per il basso livello culturale ed intellettivo, rimanga prigioniera di certe false credenze e finisca per scaricare nella ripetizione di atteggiamenti istintuali e primitivi le ansie ed i conflitti che non riusciva a risolvere sul piano della realtà”.

A prescindere dalle interpretazioni che se ne possano dare, il particolare fenomeno del tarantismo resta e, data la scarsità di casi osservabili nel presente, resterà probabilmente per alcuni versi inspiegabile. Di fatto si tratta di un fenomeno che comporta uno stato di trance dissociativa che, per quanto possa essere vista come un sintomo patologico, è stato in passato estremamente funzionale per la gente (soprattutto donne) che si ritrovava costantemente in un equilibrio emotivo e psichico precario.

Bibliografia

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Bartholomew, M. E. (1994). Tarantism, dancing mania and demonopathy: the anthropolitical aspects of “mass psychogenic illness”. Psychologycal Medicine, 24(2), 281-306.

Cayleff, S. E. (1988). ‘Prisoners of their own feebleness’: Women, nerves and western medicine. A historical overview. Social Science and Medicine, 26(12), 1199-1208.

De Martino, E. (1961). La terra del rimorso. Il sud tra religione e magia. Il Saggiatore, Milano.

De Masi, M., Marchioli, E., Colombo, G. (2004). Tarantism: a phenomenon at the border between rite and psychopathology. Giornale Italiano di Psicopatologia, 10 (3), 1-12.

Epifani, M. A. (1998). Ematoritmi. Piero Manni, Lecce.

Jervis, G. (1960). Considerazioni neuropsichiatriche sul tarantismo, in “La terra del rimorso. Il sud tra religione e magia”. Il Saggiatore, Milano.

Russell, J., F. (1979). Tarantism. Medical History, 23, 404-425.

Stifani, L.(2000). Io al santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate. Aramirè. Istituto Ernesto de Martino, Sesto Fiorentino (FI)


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