Salento
Radici e diversità, la poesia della taranta
Puoi credere di farcela però poi dici a te stesso: ho bisogno di aiuto, e quella è la parola chiave. Robin Williams in lotta contro l’alcool
Endecasillabi e tamburi. È uscito il cd «La Notte della Taranta», sul grande concerto finale del festival 2005 musicale salentino dedicato al recupero della pizzica e alla sua fusione con altri ritmi, dal rap al jazz
di Alessandro Portelli *
Prendiamo la voce di Francesco De Gregori, i tamburelli incalzanti della pizzica salentina, e versi canonici della Divina Commedia: «nel mezzo del cammin di nostra vita... fatti non foste a viver come bruti...» Mischiamo tutto e facciamoglielo cantare sul palco della Notte della Taranta 2005 e poi nella traccia di apertura del cd appena uscito che raccoglie una selezione di quel concerto (Orchestra Popolare La Notte della Taranta, diretta da Ambrogio Sparagna, La notte della Taranta 2005, registrato dal vivo a Melpignano). Banalmente, potremmo dire che è un esempio di quella che oggi si suole chiamare «contaminazione» o addirittura «dissacrazione» (Dante cantato e ballato? Come si permettono?).
Ma io direi che è il contrario: è l’evocazione di un tempo forse mai letteralmente esistito ma sempre postulato in cui la divisione del lavoro, il mercato, la Chiesa non avevano ancora eretto barriere rigide fra la cultura «colta», la cultura «popolare» e quella che oggi chiamiamo «popular culture». Non un accocchio estemporaneo di cose eterogenee, insomma, ma il richiamo a un profondo sostrato culturale unitario, ben rappresentato dalla poetica condivisa dell’endecasillabo.
La Notte della Taranta è molte cose - un evento di massa, una grossa macchina economica, un’idea di politica culturale, tutte cose su cui si discute e si litiga pure accanitamente e fuori registro, tra divergenze ideologiche da una parte e scontri di potere dall’altra. Ma alla fine è essenzialmente musica e il cd di cui stiamo parlando ci permette di ascoltarla, appunto, in questi termini. Da quando Ambrogio Sparagna ha preso la direzione musicale dell’evento, sono successe alcune cose.
In primo luogo, non c’è più l’equivoco per cui la ricerca di rapporti fra musica popolare e altri linguaggi musicali (la cosiddetta «contaminazione») debba consistere nel «modernizzare» o «elevare» la cultura tradizionale adeguandola a qualcosa d’altro e misurandola su criteri non suoi, ma piuttosto sono gli altri che si devono misurare con la centralità e la piena dignità artistica di questa musica nei suoi stessi termini.
Ospiti famosi come Piero Pelù e lo stesso De Gregori imparano con umiltà a cantare il maggio toscano, la pizzica salentina, il repertorio «grico», senza cercare di assimilarlo a sé; e non si vergognano di stare in secondo piano rispetto a grandi voci popolari come Enza Pagliara, Antonio Castrignanò, Alessia Tordo e altri, che saranno meno famosi ma che qui restano i maestri e i padroni di casa.
E infatti gli unici momenti in cui le cose non funzionano sono quelli in cui a qualche ospite viene meno la fiducia nella piena autosufficienza della musica popolare, e pensano di doverla arricchire o abbellire narcisisticamente con l’«interpretazione» e la drammatizzazione, mandando in frantumi quel senso della forma che è il grande principio estetico della musica di tradizione orale. Ma sono solo un paio di brani. L’altra cosa, più complicata, è il progetto dell’Orchestra Popolare.
Ricordo uno scritto di Alan Lomax in cui lui parlava della rarità delle esperienze orchestrali nella musica popolare, e segnalava fra i non molti esempi quelli delle orchestre tradizionali dei Balcani o delle bluegrass bands americane. Aveva ragione, nella misura in cui la musica popolare, nata in condizione di scarsità, ha imparato a fare il più possibile con mezzi sempre limitati, inventandosi una poetica del limite, della sottrazione, della essenzialità.
L’orchestra della Notte della Taranta è diverso dagli esempi di Lomax perché, anche se parte dalla tradizione orale, si deve collocare in una modalità diversa, quella del grande evento o del circuito dei festival e degli spettacoli con un pubblico di massa, e di una poetica della contemporaneità consumistica in cui invece che sottrarre si pensa che si debba sempre aggiungere.
Ora, non è facile fare in quaranta una musica che è nata per essere fatta in tre o quattro, o magari da soli come nel caso delle canzoni narrative. Sparagna aveva già alle spalle l’esperienza riuscita della Bosio Big Band, con la trasformazione dell’organetto da strumento solista in strumento orchestrale; ma qui le cose sono ancora più difficili e ambiziose. Ci sono momenti collettivi travolgenti, pieni d’orchestra di grande presa che danno davvero il senso di una crescita degli strumenti espressivi tradizionali; e ci sono momenti inevitabili in cui il suono è un po’ più omogeneizzato.
In qualche intervento orchestrale mi è parso di sentire i Pogues - che comunque è tutt’altro che un insulto, visto che sono stati fra i più grandi interpreti della contemporaneità della musica popolare, ma che rinvia un poco a una koiné di world music generale. Comunque, il progetto di inventare qualcosa di nuovo sviluppando le possibilità implicite nella musica popolare, assumendone i rischi e le responsabilità, mi sembra degno di attenzione e rispetto, magari critico se serve, ma in positivo. Ho cominciato parlando di sostrato unitario.
Nel cd, la musica salentina (tutta, non solo la pizzica!) è una base di partenza per un viaggio verso il resto d’Italia. Sparagna, nelle note che accompagnano il disco, rinvia direttamente a un tema antileghista di unità costituzionale del nostro paese, che è stato drammaticamente centrale al referendum dello scorso giugno.
Allora, se il talentino Antonio Castrignanò e il comasco Davide Van de Sfroos si alternano cantando La Cenerina e Port a Romana , ci accorgiamo non solo che l’aria è la stessa e che il carcere è un tormento al Sud come al Nord, ma anche che la nostra ricchezza sta nei modi diversissimi fra loro di coniugare questa diversità.
Quando alla fine i Sud Sound System entrano in campo proclamando «se conosci le radici che hai puoi capire anche quelle degli altri», il loro rap sembra una continuazione naturale, davvero la stessa musica, della pizzica che lo precede e lo segue - musica popolare, musica di tradizione orale, poesia parlata del nostro tempo come la pizzica e la canzone epico-lirica (e Dante) del loro...
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www.ilmanifesto.it, 04.10.2006
DOC.:
Il tarantismo: esorcismo musicale
di Paola Marangio (Psicoterapia.it)
Il tarantismo (o tarantolismo) è un fenomeno tipico delle campagne pugliesi che, pur essendo stato studiato e interpretato più volte nel corso dei secoli, conserva tutt’oggi un velo di mistero riguardo alle sue vere origini ed ai meccanismi del suo funzionamento. Esso tiene ancora vivo l’interesse di antropologi, psicologi, psichiatri, sociologi e teologi. I primi casi di cui abbiamo una testimonianza scritta risalgono alla metà del 1400 ma tale fenomeno è certamente ben più antico: dagli studi di Jeanmaire (1949) si riscontrano delle pratiche simili presenti nei paesi islamici dell’Africa settentrionale, nel Sudan ed in Etiopia dove “i posseduti” si abbandonavano a danze frenetiche che non avevano lo scopo di sopprimere gli stati affettivi e deliranti risultanti dalla loro possessione bensì la loro trasformazione mediante eliminazione del fattore depressivo e utilizzo degli stessi per costruire una nuovo equilibrio della personalità mediante una sorta di simbiosi sono lo spirito sotto forma di trance. De Martino (1959) descrive in modo quasi identico la pratica del tarantismo: “lo stato di crisi, la trance provocata a comando dai direttori di scena, la funzione ordinatrice del ritmo musicale, la danza, il bisogno di ripetere periodicamente la pratica e soprattutto la guarigione come controllo rituale della crisi che senza controllo oscillerebbe nella polarità di depressione melanconica e di eccitazione maniaca, costituiscono elementi caratteristici del tarantolismo”.
In realtà anche Platone nel “Fedro” descrive un fenomeno dell’antica Grecia simile al tarantismo distinguendo la cosiddetta follia dalla “giusta mania” la cui funzione è quella di regolarizzare l’eccesso di follia dandole un’orientazione telestica.
Secondo la credenza salentina, nelle campagne si nascondevano diversi esemplari di ragni (tarantole, dialettalmente dette tarante) che, essendo velenosi, provocavano nelle loro vittime una serie di malesseri fisici invalidanti. Unica speranza di guarigione era una danza sfrenata accompagnata da suoni e ritmi prodotti dagli “esperti” del paese.
Per capire al meglio lo spessore di questo fenomeno bisogna partire dalla comprensione del fatto che il tarantismo si sviluppa nel mondo contadino di un’Italia Meridionale in cui la linea di confine tra magia, religione e medicina era estremamente sottile, se non impercettibile. Ne è un esempio il fatto che, ancora oggi, seppur in minor modo, è radicata (e non solo nelle classi sociali più basse!) la fede nel potere della “fascinazione” che De Martino definisce come “una condizione psichica d’impedimento e d’inibizione, un essere agito da una forza potente e occulta che lascia senza margine d’autonomia la persona. La fascinazione comporta un agente fascinatore e una vittima, se l’agente è un essere umano si tratta di malocchio (influenza negativa proveniente da uno sguardo invidioso), se invece l’agente è una personalità aberrante che invade il comportamento della vittima, il soggetto non sarà più fascinato ma addirittura “spiritato”. La possibilità di fascinare ed essere fascinati può coinvolgere, a qualsiasi età, tutte le sfere della vita, soprattutto quelle affettive e sessuali. Ancora oggi, l’ostinata sopravvivenza di tali credenze in individui appartenenti a diversi strati sociali è giustificata dalla persistenza di un pensiero di tipo magico. Nelle esperienze di fascinazione, possessione, fattura, esorcismo, il soggetto avverte un malessere fisico che va dalla nausea al mal di testa e prova sentimenti di vuoto e depersonalizzazione, vive in uno stato crepuscolare che lo priva dell’autonomia e lo fa agire secondo il volere di qualcun altro, come accade nei deliri d’influenzamento.
Il morso della taranta provocava sintomi inequivocabili: debolezza generale, senso di svenimento, nausea, vomito, tachicardia, senso di angoscia, depressione, ipersensibilità. Coloro che erano stati vittime del ragno (nella maggior parte dei casi erano delle donne), venivano sottoposti ad una sorta d’esame da parte della macara (un’esperta del paese considerata in grado di stabilire se si trattasse o meno di morso di tarantola) e se questa dichiarava “è taranta!”, si dava inizio alla cura. Il rito di guarigione consisteva in una seria di preparativi all’esorcismo musicale: in una stanza sgombra veniva fissata sul soffitto una fune resistente, cui la tarantata si sorreggeva per non cadere durante la danza vorticosa; la donna veniva lavata, vestita di bianco e adagiata su un lenzuolo bianco, con accanto sia gli oggetti collegati all’esperienza del primo morso (ad esempio, grano se il morso era avvenuto mentre la persona stava mietendo), sia piante di basilico, cedro, menta e ruta, che fungevano da stimoli olfattivi. I suonatori si disponevano in cerchio attorno alla tarantata formando la cosiddetta ronda e iniziavano a provare diverse melodie, per identificare il tipo di tarantola (effettuata anche attraverso l’uso di nastri colorati, le nzacareddhe); alla melodia giusta la tarantata si lasciava, come si dice dialettalmente, “scazzicare”(smuovere) cosicché aveva inizio l’esorcismo coreutico-musicale.
Il ciclo coreutico, che si ripeteva fino allo sfinimento della tarantata, o fino alla grazia concessa dal Santo protettore (vedi più avanti), lo si può grossolanemente suddividere in due fasi:
L’intero ciclo continuava a ripetersi identico fino a tarda sera e si ripeteva solitamente per almeno tre giorni, o finché Santu Paulu (San Paolo) non avesse concesso la grazia alla tarantata.
La leggenda secondo la quale San Paolo è il protettore dei tarantati narra che egli sia giunto in uno dei suoi viaggi nella terra salentina e che, per ringraziare dell’ospitalità ricevuta, abbia lasciato in dono il proprio potere di guaritore dai morsi degli insetti e dei rettili velenosi agli abitanti di Galatina rendendoli peraltro immuni ai morsi stessi (un paesino in provincia di Lecce nel quale è stata erta in suo onore una cappella con un pozzo attiguo nel quale giace l’acqua miracolosa a cui ambiscono tutti i tarantati per poter chiedere la guarigione).
Il rapporto taranta-San Paolo è in realtà piuttosto confuso se non addirittura conflittuale: il Santo è contemporaneamente il protettore dei tarantati , al quale si implorava la grazia, ma anche colui che inviava la taranta per punire di qualche colpa. Inoltre, come osserva De Martino nei suoi studi condotti in loco, durante l’esorcismo coreutico-musicale, le tarantate avevano dei dialoghi col santo ma contemporaneamente con l’animale che le aveva morse. Probabilmente il legame fra il tarantismo (fenomeno prettamente pagano e basato su credenze magiche) ed il cattolicesimo è stato stabilito in un secondo momento: dopo che la chiesa ebbe polarizzato il fenomeno sulla religione, diminuirono pian piano le manifestazioni nei paesi e nelle case (divennero addirittura bandite e represse dalle forze dell’ordine) per aumentare nella cappella di Galatina alla quale venivano per altro fatte delle cospicue offerte per ringraziamento della grazia ricevuta o per richiederla (De Martino riporta il caso di un giovane che per ringraziare della grazia ha donato alla chiesa soldi a sufficienza per cambiarne l’intera pavimentazione).
Si dice che S. Paolo potesse concedere la grazia anche durante l’esorcismo, evento che accadeva in ore precise (alle 12 o alle 13, alle 15 o alle 17) ed in cui la tarantata lo vedeva, lo ascoltava e gli parlava; in genere era lo stesso Santo che comunicava alla tarantata cosa fare per ottenere la grazia identificandosi con la stessa tarantola. L’arrivo del miracolo era anticipato da alcuni segni: la tarantata durante le pause mangiava ed i cicli coreutici diventavano più brevi; giunta la grazia, l’orchestrina cessava di suonare, la tarantata e tutti gli astanti si inginocchiavano per pregare e infine venivano raccolte le offerte da portare alla cappella del Santo.
Provare a chiedere una descrizione della cosiddetta “taranta” ad un anziano del luogo si ottengono riposte alquanto bizzarre: essa appare a volte come uno scorpione, a volte come un grosso ragno peloso, di colore scuro, altre volte viene descritto come un ragno più piccolo spesso con il dorso colorato, che “vola” seguendo il vento, altre volte ancora si tratta si “scorzoni” ovvero serpenti che possono causare gli stessi effetti. Inizialmente si pensava che l’animale in questione fosse la Lycosa Tarentula (il cui morso provoca una reazione locale lieve), ma successivamente è stata avanzata l’ipotesi che si potesse trattare del Latrodectus Tredicim Guttatus il cui morso comporta effetti più evidenti (mal di stomaco, debolezza, nausea, pallore). Tuttavia, individuare il tipo di ragno che potrebbe potenzialmente causare tale fenomeno è alquanto futile dato che è evidente oramai che esso abbia ben altre origini, seppur non del tutto definite.
In passato il tarantismo è stato associato all’isteria, alla depressione, alla frustrazione, alla nevrosi, al ritardo mentale, alla licantropia, alle condizioni economiche disagiate, alla noia, alla solitudine e molte altre sono ancora le ipotesi che si possono fare a riguardo. Naturalmente bisogna tenere in considerazione tutti gli aspetti del fenomeno e dei soggetti che ne restano coinvolti, anche volendo considerare il tarantismo come una sorta di psicosi, esso va comunque contestualizzato e capito nel suo complesso. La Puglia degli anni a cui ci stiamo riferendo è, come già accennato, una terra che è ancora profondamente legata a credenze popolari, alla magia ed alla mitologia. La vita di interi paesi, delle famiglie e anche delle singole persone era scandita da una ciclicità programmata che determinava la cadenza di ogni evento che veniva celebrato con una festa che coinvolgeva tutti: per l’inverno il Carnevale, per la primavera la Pasqua e i riti della Settimana Santa, per l’estate le feste dei patroni, in cui le figure dei santi sono connesse ai frutti raccolti al termine del ciclo produttivo. Questo insieme di cristiano e pagano (che sopravvive tutt’ora con il combinarsi di celebrazioni di neotarantismo e sante messe nelle notti estive del Salento), di religioso e magico costituivano una importante rete di valori che consentivano di mantenere un equilibrio a chi, vivendo in condizioni precarie legate all’agricoltura, viveva aspettando questi momenti che gli scandivano la vita. Il fatto che le vittime della taranta fossero preferibilmente donne è da ricercare non solo nel fatto che erano proprio le donne a curarsi dei raccolti e della mietitura del grano (esponendosi, perciò maggiormente al pericolo del morso) ma anche nella struttura della famiglia che era di tipo patriarcale e la condizione della donna era particolarmente difficile: succube del padre prima di sposarsi, con il matrimonio deciso dalla famiglia, successivamente lo diventava del marito. La sua vita era dedicata alle molteplici e ravvicinate gravidanze, alla cura dei figli e della casa; era costretta a lavorare fino a pochi giorni prima del parto e poi a portare il figlio neonato in campagna. I contatti sociali e relazionali erano così annullati o limitati per lo più ai soli parenti; gli unici momenti in cui la donna aveva la possibilità di incontrare qualcuno erano rappresentati dalla messa della domenica e dalle feste patronali. Così, la donna non solo era priva di qualsiasi potere decisionale nella sua vita, ma anche di qualsiasi possibilità di esprimere i propri bisogni.
Non a caso il fenomeno del tarantismo colpiva proprio i contadini della terra del sole, analfabeti, che trascorrevano le loro giornate e spesso le notti nei campi dei ricchi latifondisti, accontentandosi di una paga che forniva loro lo stretto necessario per sopravvivere. Era più frequente nelle donne, generalmente nel periodo puberale e spesso si osservava tra i membri della stessa famiglia. C’è da chiedersi se colpisse i contadini e le donne perchè erano realmente più esposti o perché fossero coloro che “avevano maggiormente bisogno del morso”.
Inoltre i tarantati emergevano prevalentemente durante il periodo estivo e la credenza popolare spiega ciò con la semplice teoria secondo la quale il ragno si risvegliasse dal letargo invernale; escludendo a priori che il morso del ragno abbia realmente qualcosa a che fare con il fenomeno della “possessione”, sono stati fatti alcuni tentativi di spiegazione alternative: quelle più accreditate (che escludevano però l’aspetto psicologico del contesto) affermavano che si trattasse di eccessivo consumo di vino locale o di “colpo di sole” durante le ore di lavoro nelle campagne. De Martino (1959), in accordo con Russell (1979), escludono entrambe le ipotesi facendo notare che la stagione estiva era il periodo della mietitura del grano, della spigolatura, del raccolto di ortaggi, della vendemmia, quando i contadini passavano più tempo nei campi, si sfidavano i raggi del sole, era deciso il destino dell’anno, si pagavano i debiti economici ed esistenziali: il tempo in cui riemergevano i conflitti.
Durante l’estate avveniva di solito il “primo morso” del ragno ma spesso anche il ripetersi della crisi ciclicamente “rimorso” tendeva a manifestarsi durante lo stesso periodo (in modo particolarmente intenso durante la fine di Giugno: il 29 si festeggia S.S. Pietro e Paolo nella cappella di Galatina e questa venva quindi colta come ottima occasione per render grazie al Santo), eccetto una piccola percentuale di casi che subivano il ri-morso durante altri periodi dell’anno.
In una intervista fatta ad una testimone di vari episodi di tarantismo (Tina Monticelli, 82anni, originaria di Lizzano-TA-) viene bene sottolineato che
I tarantati, infatti, sono attratti da colori accesi, di solito rosso o giallo a seconda del tipo di ragno che aveva morso il rito di guarigione non è quindi solo un esorcismo coreutico-musicale ma coreutico-musicale-cromatico. Nell’immaginario popolare si credeva nell’esistenza di diversi tipi di tarantole, che si differenziano per forma, colore, tonalità affettive e comportamento; potevano essere grandi o piccole, colorate o nere (e da questo fattore dipendeva, appunto l’attrazione o la repulsione per i colori), ballerine, in altre parole sensibili alle danze, canterine, che rispondevano al canto, tristi e mute, che richiedevano nenie funebri, tempestose, che inducevano la vittima a “fare sterminio”, libertine, che stimolavano a mimare comportamenti lascivi o, ancora, dormienti, che resistevano a qualsiasi trattamento musicale. Ogni tarantola si pensava sensibile a distinte melodie e capace di indurre a danzare secondo il ritmo ad essa congeniale e a parlare con la tarantata, impartendole ordini e venendo a patti con lei, proprio come uno spirito che possiede e controlla l’esorcismo.
Per escludere la possibilità di una eventuale riduzione del tarantismo a latrodectismo, De Martino fa notare una insolita distribuzione del fenomeno in termini di luogo (immunità locale degli abitanti di Galatina), di tempo (i tarantati aumentavano alla fine di Giugno), di sesso (le donne erano più soggette ad essere vittime del ragno) ed una particolare distribuzione familiare (spesso c’erano più casi in una famiglia perché, come si pensava all’epoca, il veleno che provoca il ri-morso è tramandabile di madre in figlia finché il ragno non muore).
Queste particolarità notate dall’equipe di De Martino fanno capire che già negli anni ’50 il tarantismo aveva assunto un simbolismo totalmente autonomo rispetto ad una qualsiasi forma di latrodectismo. Ciò che naturalmente non è chiaro è se tale simbolismo fosse utilizzato per far defluire forme di frustrazione, conflitti irrisolti nelle biografie individuali dei soggetti colpiti oppure se in occasione di momenti critici della vita di determinati soggetti (morte di una persona cara, crisi di pubertà, fatica estiva del raccolto etc) “insorgesse la crisi” sullo stampo riplasmato del latrodectismo.
Il caso di “Maria di Nardò” riportato da De Martino è esemplificativo di come il morso della taranta possa essere funzionale per la vittima (senza necessariamente essere considerata una finzione):
Per comprendere meglio la possibilità quanto il frenetico ballo estivo fosse un momento importante per Maria, bisogna tener conto non solo della storia che ha portato al primo morso ma anche della situazione economico-familiare in cui si trovava: ha 29 anni, è analfabeta e non ha figli. Vive con il marito che è affetto da TBC e spesso disoccupato, pare quindi che la maggior parte del reddito familiaresiacostituito dalla paga di Maria.La loro casa è costituita da una singola stanza a livello stradale che riceve luce dalla porta d’ingresso, mancano l’acqua ed i servizi igienici.
Il caso di questa tarantata ha attratto l’attenzione dello psichiatra culturale Giovanni Jervis (1960) dichiarandone le indubbie somiglianza con l’isteria: “osservata a lungo durante la danza domiciliare, presentava un’espressione del volto perpetuamente immobile e chiusa, con gli occhi quasi sempre chiusi; nessuna sollecitazione ambientale (a parte il ritmo musicale) influiva in generale sul suo comportamento [...] neppure una mosca posata sulla palpebra”. Allo stesso tempo lo studioso non riesce a trovare una spiegazione al perché, dando per scontato che il tarantismo altro non sia che una manifestazione isterica, esso sia un fenomeno talmente diffuso e concentrato nel Salento.
De Masi et al. (2004) hanno recentemente ipotizzato che le manifestazioni delle tarantate fossero dovute a traumi subiti in passato, non solo quindi considerando lo stress dell’ambiente povero e le condizioni economiche disagiate ma prendendo in considerazione anche la possibilità che ci fossero delle violenze (sessuali e non) nella storia personale dei soggetti tarantati. In quest’ottica, la sintomatologia ed il trattamento coreutico-musicale che la comunità riservava agli individui che ne erano affetti ne rappresenterebbero una ripetizione e una ritualizzazione altamente teatralizzata, si potrebbe dire "isterizzata". Ci sono, poi, diverse caratteristiche del tarantismo che potrebbero avvalorare l’ipotesi che la sua insorgenza si possa rintracciare effettivamente in un evento traumatico di tipo sessuale: il suo presentarsi durante la stagione estiva, in cui uomini, donne e bambini trascorrevano giorno e notte nei campi; la sua maggiore prevalenza in donne in periodo puberale; la sua possibilità di ricorrenza; l’alta simbologia di tipo sessuale che caratterizzava la crisi ed i rituali propri dell’esorcismo, con l’utilizzo di canti a contenuto erotico, lo stato dissociato della coscienza entro cui avveniva la crisi.
La Epifani (1998) nota anche che la posizione a terra con le gambe flesse e divaricate, con la testa che si muove a destra e sinistra, appare proprio un amplesso simulato agli occhi degli estranei, intimamente sentito e vissuto dalla donna, che di tanto in tanto emette delle urla che esprimono il piacere-dolore di un amplesso sostitutivo. Tale posizione, secondo l’autrice, ricorda la posizione naturale "donna sotto e uomo sopra", cioè una posizione di sottomissione cui la tarantata reagisce alzandosi in piedi, opponendosi quindi alla condizione di passività ed avviandosi alla guarigione. Nella posizione orizzontale la donna rivivrebbe lo stato di sottomissione e integrazione all’ordine naturale, strisciando come l’animale, urlando, simulando un amplesso coatto; nella posizione verticale, invece, lotterebbe e si ribellerebbe a tale condizione, risolvendo la malattia. Giordano (1957) ha definito il tarantismo come una forma di psicosi collettiva. Analizzando dal punto di vista clinico i protocolli Rorschach raccolti dall’equipe di De Martino, è stato chiaro notare che le donne in età avanzata che erano state tarantate avevano una mentalità primitiva, erano molto emotive e suggestionabili, e con scarso livello culturale. L’autore ipotizza che la psicosi di massa possa facilmente innescarsi in tale contesto culturale dove predominano idee magiche e false credenze. Classificare in tal modo i soggetti vittime del tarantismo è a dir poco riduttivo. Come dice lo stesso Jervis: “uno psichiatra potrebbe dare una risposta relativamente semplice: il tarantismo sceglie le sue vittime fra i suggestionabili e gli isterici presenti in ogni popolazione, e fa sì che una persona, predisposta per il basso livello culturale ed intellettivo, rimanga prigioniera di certe false credenze e finisca per scaricare nella ripetizione di atteggiamenti istintuali e primitivi le ansie ed i conflitti che non riusciva a risolvere sul piano della realtà”.
A prescindere dalle interpretazioni che se ne possano dare, il particolare fenomeno del tarantismo resta e, data la scarsità di casi osservabili nel presente, resterà probabilmente per alcuni versi inspiegabile. Di fatto si tratta di un fenomeno che comporta uno stato di trance dissociativa che, per quanto possa essere vista come un sintomo patologico, è stato in passato estremamente funzionale per la gente (soprattutto donne) che si ritrovava costantemente in un equilibrio emotivo e psichico precario.
Bibliografia
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De Martino, E. (1961). La terra del rimorso. Il sud tra religione e magia. Il Saggiatore, Milano.
De Masi, M., Marchioli, E., Colombo, G. (2004). Tarantism: a phenomenon at the border between rite and psychopathology. Giornale Italiano di Psicopatologia, 10 (3), 1-12.
Epifani, M. A. (1998). Ematoritmi. Piero Manni, Lecce.
Jervis, G. (1960). Considerazioni neuropsichiatriche sul tarantismo, in “La terra del rimorso. Il sud tra religione e magia”. Il Saggiatore, Milano.
Russell, J., F. (1979). Tarantism. Medical History, 23, 404-425.
Stifani, L.(2000). Io al santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate. Aramirè. Istituto Ernesto de Martino, Sesto Fiorentino (FI)
IL TARANTISMO OGGI. Una nota su "Pellegrino Scardino di San Cesario di Lecce e la tarantata" di Armando Polito:
Tarantismo, la riscossa delle donne ragno
di Marino Niola (la Repubblica, 21 marzo 2015)
Il tarantismo è finito. Anzi no. Le tarantole pizzicano ancora alla grande. Ma questa volta non mordono più le raccoglitrici di tabacco salentine, stremate dalla fatica, cresciute a fave e cicoria e rimaste impigliate negli ingranaggi di una storia inceppata, di una mobilità sociale negata. Quelle che danzavano la loro ribellione sul ritmo sfrenato della pizzica, cercando di schiacciare con il piede quel ragno immaginario che era il simbolo del loro mal di vivere. Oggi ad essere morse dall’aracne mediterranea sono le nuove generazioni che hanno fatto della taranta un emblema identitario trasversale.
Una nuova patria culturale, come avrebbe detto Ernesto de Martino, fondatore dell’antropologia italiana, di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della scomparsa. Ed è proprio de Martino, all’origine di questo revival. Perché con il suo capolavoro La terra del rimorso (1961) fece del tarantismo l’emblema di un Meridione dell’anima, di un Sud stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione. Il reperto di una perturbante archeologia sociale impressa nei gesti e nei corpi, nelle ossessioni e nelle devozioni di un mondo solo apparentemente arcaico e lontano dalle grandi direttrici dello sviluppo che, in quegli anni, rivoltava il paese come un guanto. Mentre in realtà quella scheggia dionisiaca era l’altra faccia del miracolo economico. Perché Rocco e i suoi fratelli, che erano andati ad avvitare bulloni nelle fabbriche del Nord, avevano lasciato al paese le sorelle. Che continuavano a ballare in trance, come menadi disoccupate.
Come accade ai grandi classici, il libro di de Martino da allora ha continuato a scriversi, dando origine a una nuova stagione culturale e politica che dalla metà degli anni Novanta ha rovesciato in positivo l’ombra nera del ragno. Da zavorra del passato a risorsa per il futuro, da relitto folklorico a prodotto tipico, bene culturale. Lo racconta Giovanni Pizza, antropologo dell’università di Perugia, in un bel libro in uscita da Carocci. Titolo, Il tarantismo oggi. Una sorta di making of di quella fabbrica collettiva che in questi anni ha rispolverato la tradizione della taranta ballerina facendone un’icona glocal, un brand ad alta definizione da vendere sul mercato globale delle differenze culturali. E perfino un mito politico. Non a caso il ragno è diventato il leitmotif di una produzione artistica, letteraria, cinematografica, musicale, teatrale. Nel 1994 un regista come Edoardo Winspeare gira Pizzicata, un film liberamente ispirato a La terra del rimorso. Che proprio allora viene ristampata, dopo diciotto anni di assenza in libreria, e sull’onda travolgente del neo-tarantismo diventa, per la prima volta, un bestseller. La Bibbia del tarantismo. L’editoria locale comincia a sfornare a ripetizione libri con storie di tarantolati, veri o presunti, che si vendono perfino nelle tabaccherie di paese.
Ovviamente in questo revival la musica fa la parte del leone, con gruppi come il Canzoniere Grecanico-Salentino e i Sud Sound System, che traducono il mood della pizzica in world music. Anche perché sin dai tempi antichi la cura del morso, l’antidotum tarantulae, è fatta di ritmo e di danza. Sono secoli che il frenetico ballo delle donne possedute dal ragno - quello che Paracelso, il grande medico e filosofo rinascimentale, chiamava Lasciva Chorea, cioè ballo licenzioso - è un topos dell’immaginario colto di tutta Europa. Tanto che un personaggio come Giovanbattista Marino, simbolo della letteratura barocca, dedica sonetti da antropologo ante litteram alle crisi frenetiche dei tarantolati. E un altro grande secentista, il funambolico Giacomo Lubrano, nel poemetto Stravaganza velenosa della tarantola descrive con precisione da etnografo il doppio pizzico del ragno, che è il vero algoritmo del tarantismo. Il primo morso, che provoca la crisi iniziatica e poi il rimorso, che arriva puntuale ogni anno il 29 giugno, giorno di san Paolo, che delle tarantole è considerato il signore e padrone, il mandante e il guaritore.
Ma il primo in assoluto a fare dell’aracnide il logo della Puglia è il grande Cesare Ripa, a fine Cinquecento, quando nella sua Iconologia - uno dei libri più venduti e influenti del tempo - raffigura il tacco d’Italia come una bella donna che danza, vestita di «un sottil velo» costellato di tarantole e ha ai suoi piedi un tamburello, insieme ad altri strumenti che oggi chiameremmo musicoterapici. In fondo questo grande costruttore di immagini e di immaginari inaugura quella “tarantolizzazione” dell’identità pugliese che oggi i politici e gli amministratori locali trasformano in uno strumento di marketing territoriale. Simbolo del riscatto di un Sud che non vuole diventare la brutta copia del Nord e che sceglie di guardare dentro di sé per cercare nuovi cammini. E la Notte della taranta, il festival musicale che ogni anno richiama centinaia di migliaia di appassionati a Melpignano e in altri paesi salentini, è la sintesi esemplare di questa fitta rete di strategie economiche, di narrazioni identitarie, di processi di patrimonializzazione che nascono ancora una volta da quel morso.
Un’inversione della tradizione, che sta facendo del Salento una delle aree più interessanti e innovative d’Italia. A riprova del fatto che il cantiere d’idee aperto da de Martino, ed esplorato ora da Giovanni Pizza, continua a essere un laboratorio culturale anche visto da fuori. Come dire che siamo tutti tarantolati.
Il ragno del Salento
Saggi. «Il tarantismo oggi» di Giovanni Pizza, edito da Carrocci. Un’indagine a tutto campo della costruzione di un’identità e del suo uso, a partire da Ernesto De Martino
di Claudio Corvino (il manifesto, 02.06.2015)
Nel 1959 Ernesto De Martino giunse in Salento per la nota spedizione etnografica sul tarantismo (La terra del rimorso, 1961), un complesso mitico-rituale la cui storia e il cui significato ha interessato fin dal Medioevo medici, studiosi e autorità religiose. Secondo la tradizione salentina dell’epoca, un profondo malessere colpiva le donne, ma anche gli uomini, che erano stati morsi da un ragno. A farli uscire da questa sorta di «disordine» mentale era un rituale basato soprattutto sulla musica suonata da alcuni specialisti che avrebbero provato vari ritmi e melodie fino ad individuare quello giusto, quello che avrebbe permesso alla «posseduta» di ritornare alla normalità.
Non conosciamo esattamente il momento in cui avvenne, ma è certo che il cattolicesimo individuò san Paolo (29 giugno) come eroe liberatore da questo particolare male, visto il potere del santo di guarire dai morsi dei serpenti velenosi, capacità da lui trasmessa ai membri della sua «famiglia», conosciuti come sanpaolari.
Dopo le analisi di De Martino e della sua equipe il tarantismo non fu più visto come un semplice disordine mentale, ma come un ordine simbolico: un pensiero e una pratica popolare che tentavano di conferire senso e un orizzonte di trascendimento a quella che era la sofferenza esistenziale e sociale delle donne e delle genti salentine.
Da quel 1959, dalla «spedizione salentina», prende le mosse l’ultimo lavoro di Giovanni Pizza Il tarantismo oggi (Carocci, 2015, euro 26), uno studio che va molto oltre l’oggetto dichiarato nel titolo e che racconta dei modi e delle forme in cui il tarantismo (e l’intera antropologia di De Martino) sia penetrato nelle dinamiche identitarie e culturali salentine divenendo così un nuovo terreno di ricerca di un’antropologia definita politica, o pubblica.
Il volume racconta di un complesso processo in cui il campo etnografico si è esteso fino ad inglobare e coincidere con il processo intellettuale, storico e soprattutto politico che ha impegnato il Salento dalla pubblicazione del capolavoro di De Martino e fino ai giorni nostri. Soprattutto dagli anni Settanta, quando altri antropologi e studiosi locali hanno cominciato quel lungo processo di risignificazione del tarantismo che ha portato quasi a ribaltare i risultati teorici de La terra del rimorso. Il Salento infatti, oltre al suo più noto e accattivante soundscape possiede anche un poderoso bookscape che ha segnato e a sua volta alimentato il cambiamento. I vari discorsi che si sono succeduti sul tarantismo (quello medico, storico, folklorico, poetico, politico...) sono sempre stati accompagnati da una retorica di costruzione e di negoziazione dell’immagine del Salento, una sentita ricerca di identità e affermazione, anche quando questa sia stata negata, esaltata o derisa.
A partire da una rivisitazione delle teorie di De Martino operate da Gilbert Rouget (Musica e trance, 1980) e poi George Lapassade (Intervista sul tarantismo, 1994) si è sviluppata localmente - e il saggio di Pizza lo analizza con rigorosa puntualità - una visione del tarantismo che, capovolgendo quella demartiniana, allontana il rituale coreutico-musicale da ogni legame con la sofferenza sociale ed esistenziale e lo fa assurgere a tratto identitario positivo, a corollario di una «gioiosa catarsi estatica», a forte valore estetico, grazie anche alle sue naturali potenzialità spettacolari (ma quale rituale in fondo ne è totalmente privo?).
Così, in un continuo gioco di specchi tra «antropologia, politica, cultura», come recita il sottotitolo del volume, vediamo come la reinterpretazione locale del tarantismo, la riattivazione della sua memoria antropologica sia stata in grado di rilanciare il Salento come un «prodotto tipico»: da terra del rimorso a terra di «rinascita», dove il mito del ragno, cambiando di segno, ha voluto far esplodere tutte le potenzialità mediterranee, comprese quelle turistiche e commerciali, che aveva nella sua simbolica rete. Così, proprio negli anni in cui il Salento veniva «rapinato» della sua cultura etnografica, dei suoi olivi secolari, negli anni in cui i suoi particolarissimi muretti a secco difensivi e i suoi trulli cadevano o venivano dismessi per mancanza di una capace manodopera, le amministrazioni locali «inventavano» un altro aracnide che sarebbe riuscito a liberarle dal male attraverso lo sviluppo economico, turistico e culturale. È in quegli anni che nascerà la Notte della Taranta, il noto festival musicale estivo che coinvolge Melpignano e una ragnatela di altri centri salentini.
Il volume di Pizza, nelle tre parti in cui è diviso, non osserva solo il fenomeno del tarantismo, ma indaga anche lo stesso «sguardo» dell’etnografo De Martino, evidenziando sia i suoi legami con Antonio Gramsci sia quegli aspetti dei due intellettuali che ne fanno ora più che mai due casi «buoni da ripensare» per l’antropologia. Fu infatti con la lettura di Gramsci che De Martino «maturò definitivamente la consapevolezza di come la centralità della critica culturale gramsciana potesse coincidere con le forme del ‘viaggio’, dell’’etnografia’: la ’prassi’ della ricerca antropologica» e, inoltre, interpretò etnograficamente il progetto gramsciano di un’antropologia degli intellettuali. Convinzione che divenne anche una espressa condanna agli studiosi di folklore e di tradizioni popolari che, nelle loro analisi avessero separato una dimensione e una cultura colta e egemone da una popolare e subalterna.
Attraverso l’analisi del più grande antropologo italiano, dei suoi legami con la filosofia e la cultura gramsciana, della sua epocale spedizione salentina, Il tarantismo oggi mostra in maniera esemplare le dinamiche che sottendono la costruzione di un’identità, di una cultura, perché - come scrive l’autore - «la cultura è sempre una produzione, una ’invenzione’, e l’identità come essenza intima semplicemente non esiste». Con buona pace di quanti, soprattutto oggi, cavalcando l’onda di mitologici principi identitari, vorrebbero credere e far credere che «la tradizione» sia un bene immutabile ereditato da lontani antenati e che abbiamo il dovere di conservare intatto, nonostante la mutevolezza del mondo circostante. Perché la cultura «non (è) come qualcosa che si ha, si eredita, fissato in un’arcaica quanto indefinita ’tradizione’, ma (è) come un patrimonio che costruiamo tutti insieme come bene collettivo. L’identità quindi non è un dato fisso, una ’essenza’, ma un preciso progetto politico condiviso»
Sulle tracce delle tarantolate nella terra del cattivo passato
Da un viaggio sulle piste di De Martino, «Rosso taranta», il diario sul campo di Angelo Morino uscito per Sellerio. Fra pagine d’epoca e peregrinazioni attuali, il racconto delle invasate, che nelle loro danze esprimono un ordine rituale concertato per ricomporre la crisi
di Paolo Febbraro (il manifesto, 13.06.2007)
In una libreria d’occasione, nell’inverno del 2000, lo scrittore torinese Angelo Morino trovò l’edizione recentemente ristampata della Terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, uno degli ormai classici studi derivati dalle spedizioni che il grande etnologo Ernesto De Martino conduceva nel meridione d’Italia, durante gli anni centrali dello secolo scorso. Quel viaggio, in particolare, era avvenuto nel giugno del 1959 e diretto a sud di Lecce, alla ricerca di una verità antropologica che spiegasse il fenomeno delle donne tarantate, o tarantolate, che, dalle campagne salentine di Nardò o Galàtone, giungevano a Galatina, nei giorni precedenti alla festa di san Paolo, venivano portate nella cappella consacrata all’apostolo e lì si scatenavano nei loro balli frenetici, fino a che l’apostolo stesso non sussurrava loro parole di grazia e di guarigione. All’inizio dell’estate 2001, lo scrittore torinese decise di intraprendere lo stesso viaggio verso quella che De Martino chiamò - riferendosi a tutto il Meridione - la «terra del cattivo passato». Ne è derivato un diario sul campo, un racconto episodico intitolato Rosso taranta (Sellerio, pp. 176, euro 10,00), alla ricerca delle tracce, più somatiche che mnemoniche, di quegli invasamenti.
Il Salento del Duemila solo in parte risponde. Nel tempo del turismo di massa e dell’omologazione ha visto evaporare i suoi miti e le sue ossessioni, blandamente tradotte nelle feste e nelle sagre di paese, ormai programmate come un posticcio teatro di massa. Morino intreccia il resoconto del suo libro-guida, con le testimonianze anche fotografiche raccolte dalla volenterosa équipe di De Martino, e le impressioni del viaggiatore odierno, dettagliate e avide, ma spesso smarrite in un contesto ormai depauperato, generico. Così, il libro è un ibrido: non solo nel senso della contaminazione temporale, ma innanzitutto fra suggestione libresca e ricerca di concreti contatti, fra il richiamo di un sottotesto ormai letterario, quasi fantastico, e le frammentate epifanie che incrinano appena un presente quasi del tutto conquistato dal progresso.
Morino dimostra un notevole talento antropologico, o - che non è così diverso - immaginativo. Il suo obiettivo è quello di andare ancora più a fondo nelle intuizioni del grande etnologo che lo ha preceduto, aggiungendo alle interpretazioni più plausibili i sensibili rilievi di chi comprende la natura spesso sessuale della repressione subita dalle donne, o dagli uomini per motivi di omosessualità, e dunque della straziante energia, della rovinosa esaltazione che dava origine alle danze delle tarantate. Rilievi che l’austerità dell’impostazione non consentiva al De Martino degli anni ’50, ma che l’autore cerca con insistenza, e anche con qualche morbosità, negli andirivieni compiuti fra le pagine d’epoca e le peregrinazioni attuali.
Così, Morino coglie in pieno la natura esorcistica e al tempo stesso invasatrice del movimento in cadenza, del ritmo corporeo accordato con una musica rozzamente demoniaca, capace di contenere in un recinto ciò cui pure riconosce il diritto di esplodere, quasi fosse il risarcimento collettivo e maschile di una relegata marginalità: «Il tarantismo non è un insieme di superstizioni buie, recuperate da un passato ancora più buio. È un ordine rituale, concertato per ricomporre la crisi e reintegrare alla comunità. Ogni anno, in ricorrenza dell’aggressione, la vittima ballerà e, ballando, darà sfogo al suo disturbo. Lo placherà esibendolo e imponendogli una cadenza... Niente chiusure intorno a chi è stato morso dalla taranta, ma neppure un abbandono alle vastità e ai pericoli del mondo. Tutto il contrario: la cura in casa, programmata affinché una giusta follia si sostituisca alla smania».
La dimensione sociale, ossimorica, di quella «giusta follia» testimonia che proprio l’angustia familiare ed economica, che segretamente nutriva l’eccesso, pure s’incaricava di ordinarlo ritualmente, di reggerlo in musica e sguardo contenitivo. Le esagitate recitavano inconsapevolmente un’arcaica superpotenza femminile, che ciclicamente lacerava i convenzionali mandati sociali della donna, vicarietà e generazione, in una lunaticità madornale e errabonda. È questa corporeità danneggiata e ribelle che l’autore cerca di recuperare, grazie anche ai suggerimenti procuratigli dalla sua sensualità accesa. Anche in questo il libro si rivela un ibrido, ma stavolta insidioso: perché la patente antropologica diventa l’alibi per prolungate indulgenze estetistiche sui dettagli, in cui l’aperta, quasi polemica erotizzazione dei dati sensibili, rimanda troppo spesso al cliché dell’intellettuale che dal proprio mondo di libri si immerge nel sanguigno misterioso, nel folklorico inespugnato. Col rischio incipiente, e non sempre controllato, della prosa d’arte, del taccuino elegante, che nelle ripetute fantasie antropofagiche, ad esempio, registra la metafora involontaria di uno stilismo egemone, di un atteggiamento da degustatore, anche vorace, e spesso arbitrario.
NOTTE DELLA TARANTA, IN CENTOMILA AL CONCERTONE
di Roberto Buonavoglia *
MELPIGNANO (LECCE) - Le torri del palco de ’La notte della Taranta’ si vedono già imboccando lo svincolo per Melpignano. Sono maestose. Sovrastano il palcoscenico da 200 metri quadrati e alto 14 metri sul quale stasera, nel tradizionale concertone finale, davanti ad oltre centomila spettatori, si esibiranno Massimo Ranieri, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, Eva Quartet, Morgan, Ginevra Di Marco, Piero Brega, Badarà Seck e l’Orchestra di Piazza Vittorio. A dirigere gli artisti, i 40 musicisti dell’orchestra e a far ballare sotto le stelle e fino all’alba i tarantolati che affolleranno piazza degli Agostiniani, il maestro concertatore Mauro Pagani, indimenticabile fondatore della Premiata Forneria Marconi (Pfm), ex collaboratore di Fabrizio De André (’Crêuza de mà e ’Le nuvole’), e autore delle colonne sonore Sogno di una notte d’estate e Puerto Escondido di Gabriele Salvatores.
L’attesa è grande per l’esibizione del salentino Giuliano Sangiorgi, leader dei Negramaro, al quale saranno affidati i collaudati Lu ruscio de lu mare, Ntoni di Lu Capu e che darà la stura al ’larirollarirolallero’ di Kali Nifta. Sicura l’ovazione del pubblico che ama Sangiorgi prima ancora del suo trionfo nazionale. A Massimo Ranieri spetterà invece esibirsi in Damme nu ricciu assieme all’emergente Alessia Tondo, e in O Guarracino. "Siamo nelle mani della sorte, mi sono infilato in un ginepraio", scherza il maestro Pagani spalleggiato da Mario Arcari con il quale condividerà il palco. Pagani dice di essere felice di dirigere il concertone della Notte della Taranta che quest’anno sponsorizza anche il Lecce calcio: "E’ la prima volta - dice - che un evento culturale compare sulle magliette dei calciatori, al posto di una società che vuole vendere il proprio prodotto".
Fatto questo che testimonia il successo della grande festa di Melpignano e che fa promettere a Pagani: "Se quest’anno il Lecce andrà in serie A replicherò il concertone gratuitamente nello stadio di Via del mare". Intanto, La Notte della Taranta, forte di dieci anni di successi, si prepara ad un tour internazionale che toccherà anche New York e Adelaide dove sarà ospite del Womad di Peter Gabriel, fan della pizzica salentina. In molti sono pronti a scommette anche che sia il concertone sia il tour saranno un autentico trionfo.
* ANSA» 2007-08-25 18:23