Memorie ... e politiche

SECONDA GUERRA MONDIALE: STORIA NAZIONALE E STORIA LOCALE. La relazione di Gabriella Gribaudi, tenuta al convegno “Nicola Gallerano e la storia contemporanea” (Roma,15 giugno 2006)

venerdì 13 ottobre 2006.
 
[...] Oggi i patimenti assurgono a linguaggio pubblico della memoria [...] Tutto ciò emerge dalla crisi dei vecchi discorsi nazionali e dall’apertura delle memorie, memorie plurali che dovrebbero condurre alla critica delle vecchie categorie di analisi e della retorica della guerra. In realtà il riconoscimento della sofferenza si accompagna a un nuovo processo: il tentativo di un’élite politica di riunificare, conciliare le memorie riproponendo il linguaggio risorgimentale della nazione. Così le memorie della sofferenza, che sono nate come plurali e irriducibili al discorso nazionalista, vengono utilizzate per riproporre un indifferenziato discorso sulla guerra e annegate in una nuova logica patriottica e retorica [...]

Seconda guerra mondiale: storia locale e storia nazionale

di Gabriella Gribaudi *


Questo testo è la relazione tenuta al convegno “Nicola Gallerano e la storia contemporanea” organizzato dall’Irsifar (Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza) il 15 giugno 2006 a Roma.

Parlare di storia nazionale e storia locale significa immediatamente parlare di memoria. Il Novecento europeo è attraversato dalla memoria di due grandi guerre. Il numero delle vittime è tale che l’elaborazione del lutto attraversa quasi tutto il secolo e sembra non risolversi mai.

La memoria della prima guerra mondiale si sviluppa da una generazione che è cresciuta e ha ricevuto la sua educazione secondo i valori del nazionalismo ottocentesco: la nazione sorge dall’eroismo, dal sacrificio, dal sangue dei suoi uomini. Il rapporto fra culto dei morti e nazionalismo era parte fondante del discorso risorgimentale, i sepolcri vuoti dei militi ignoti ne erano, secondo Benedict Anderson, gli emblemi più impressionanti e significativi. Un nazionalismo mortuario lo ha definito Alberto Banti.

Le caratteristiche della Grande Guerra - anni di trincea su un fronte stabile, relativo coinvolgimento dei civili con eccezioni significative nelle regioni di frontiera - rendevano possibile la costruzione di una grande narrazione nazionale unica attraverso i suoi soldati caduti per la patria. I civili erano esclusi, comparivano come “meri consumatori del mito nazionale, e non come una sua rappresentazione” (Jay Winter).

Nella seconda guerra mondiale, come è noto, cambia il rapporto fra vittime militari e civili, e cambia profondamente il ruolo stesso dei civili nella guerra. Miti, riti e simboli della prima guerra mondiale risultano del tutto inadeguati per rappresentare la seconda e per elaborare quel lutto, essi sono riproposti, tuttavia, subito dopo il conflitto per rappresentare l’epopea della Resistenza. Tornavano i miti risorgimentali del sacrificio e del sangue versato per la patria e per la libertà, si riproponeva una macro-narrazione nazionale della guerra. Le liste delle vittime si aggiungevano nelle piazze dei paesi sui cippi e sulle lapidi dei soldati uccisi nel 1915-18. Lo stesso inno nazionale, scelto nel 1946 per sostituire la Marcia Reale, riproponeva i valori risorgimentali del sacrificio e della morte per la patria: stringiamoci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò...

Ma la narrazione pubblica era profondamente dissonante dalla esperienza che della guerra donne e uomini avevano vissuto in molte parti del paese. Un discorso questo valido per l’Italia, ma ancora di più per molte regioni d’Europa. Silenti o ai margini serpeggiavano in realtà altre memorie e altre interpretazioni, che si sono rimesse in moto quando, dopo la fine del mondo bipolare e delle ideologie a esso connesse, sono stati ridiscussi i valori che avevano sostenuto la costruzione ideologica dell’Europa occidentale.

Tutto ciò porta al centro della riflessione sulla guerra proprio il rapporto tra storie nazionali e storie locali, fra memorie pubbliche e memorie private. E dunque ci conduce al tema di questa relazione.

La dicotomia storia nazionale/storia locale rinvia a un’altra nota dicotomia, macro/microstoria, su cui negli anni passati si è verificato un acceso dibattito e su cui si sono confrontati opposti schieramenti di storici e scienziati sociali.

Gli storici sociali che hanno lavorato alla microstoria hanno messo in evidenza alcuni temi: nel micro si possono analizzare i comportamenti individuali, si possono studiare come in un laboratorio le dinamiche sociali, si possono mettere a fuoco le interrelazioni fra i fenomeni globali-nazionali e i fenomeni locali, infine attraverso una lente microanalitica è possibile decostruire, criticare le macro-narrazioni. Negli anni settanta e ottanta gli studiosi che hanno adottato tale metodologia hanno lavorato alla decostruzione delle macro-narrazioni relative ai processi di modernizzazione e sviluppo, ai processi di costruzione nazionali, alla formazione dei gruppi sociali eccetera.

L’analisi micro può oggi essere applicata proficuamente allo studio della seconda guerra mondiale per una serie di motivi che cercherò di mettere in luce nella mia relazione. Mi concentrerò su cinque punti:

1) L’emergere della memoria della Shoah, memoria di vittime civili. Due fasi: una prima fase imperniata sulla memoria dello sterminio nei campi di concentramento, una seconda invece attenta a ricostruire le dinamiche locali dei massacri.

2) Le contraddizioni che emergono dalla guerra in relazione al concetto di “liberazione”, coppia “amico/nemico”. Caso italiano (linea Gustav, bombardamenti...) caso tedesco, polacco, eccetera.

3) Critica al concetto di “resistenza” e alla dicotomia “resistenza/collaborazione” dal punto di vista locale. I casi di memoria divisa, i casi di resistenza non riconosciuta. Il problema della collaborazione.

4) La spiegazione delle violenze locali. Polonia e regioni dell’Europa dell’Est, l’Italia dei confini orientali, le vendette in Emilia, alcuni casi campani.

5) I linguaggi. Linguaggi nazionali e locali, linguaggi religiosi. Mediatori locali della memoria. Lapidi, riti. Interpretazioni e linguaggi individuali, familiari.

1. La memoria della Shoah è il primo momento di critica al discorso pubblico sulla guerra e al mito dei combattenti. Oltrepassava le frontiere delle nazioni, era di per sé una critica alle grandi narrazioni nazionali e maschili, e metteva al centro dell’attenzione per la prima volta le vittime civili.

Si trattava di storia locale? No, non ancora, per vari motivi. Primo perché l’Olocausto supera i confini nazionali per le caratteristiche delle vittime e dei principali perpetratori, i nazisti. E da questo punto di vista ha rappresentato, invece, un elemento unificante della storia europea della seconda guerra mondiale e della storia della civiltà occidentale e delle sue contraddizioni. Secondo perché i primi studi hanno concentrato la loro attenzione sullo sterminio sistematico attuato nei campi di concentramento, enfatizzando gli aspetti della violenza di stato e delle tecniche utilizzate per attuarla, rinforzando il paradigma dell’unicità. “Lo sviluppo degli studi sull’Olocausto ha fatto della soluzione finale - genocidio perpetrato da un apparato di Stato perfettamente organizzato - un paradigma per la comprensione della violenza - se non della vita - moderna” (Mark Mazower). Secondo Mazower il paradigma del genocidio e dell’unicità avrebbero portato alla costruzione di una nuova grande narrazione, che avrebbe impedito di comprendere e accogliere altre violenze. Ragionare nel solco del concetto di genocidio, sostiene Christian Gerlach, implica creare delle gerarchie tra forme diverse di uccisioni di massa, quali ad esempio i massacri coloniali, suggerisce inoltre un modello meccanicistico di spiegazione delle origini della violenza: un crimine omogeneo e centralizzato basato su una pianificazione di lungo termine.

Proprio per questo nei lavori più recenti l’attenzione si è spostata dal centro alle periferie: sono stati fatti studi regionali in cui si è ricostruito il contesto politico dei massacri, sono state investigate le idee e le ragioni dei perpetratori locali, si sono studiati i collaboratori, si è prestata attenzione alla violenza di massa. Si pensi agli studi di Jan Gross, di Gerlach e di altri. Si è mostrato, fra l’altro, che una gran parte dell’Olocausto si è svolto fuori dai campi di sterminio nelle stragi perpetrate da SS e Wehrmacht, molto spesso con l’ausilio di forze del luogo. Ecco che la storia locale entra con forza anche nella storia della Shoah, portando alla luce contraddizioni, memorie divise, conflitti nascosti.

2. Questa nuova visione dell’Olocausto si collega con una rinnovata fase di studi sulla seconda guerra mondiale, in cui l’attenzione si sposta sulla popolazione civile e sulle dinamiche che coinvolsero i vari territori: una prospettiva di storia sociale e culturale che mette al centro l’analisi dei soggetti e le diverse “esperienze di guerra” (non a caso titolo di un colloquio internazionale svoltosi poco fa a Parigi). è a partire dalla fine del bipolarismo, con la crisi delle ideologie che lo avevano sostenuto, che si può finalmente sviluppare una critica serrata ai discorsi nazionali, alle grandi macro-narrazioni sulla guerra.

Entrano in gioco, nello stesso tempo, altri fattori. Cominciano a dare risultati compiuti i lavori di una generazione più distante e meno coinvolta nei conflitti che hanno diviso i loro padri e le loro madri, ma che nello stesso tempo ne ha raccolto la memoria; una generazione, inoltre, che non è cresciuta con ideali nazionalisti.

Entrano poi prepotentemente nella vita delle persone e nell’immaginario collettivo le visioni delle nuove guerre, che ripropongono alcune delle contraddizioni della seconda guerra mondiale, mettendo in crisi categorie cruciali come le dicotomie amico/nemico, occupazione/resistenza, il concetto stesso di liberazione eccetera.

A questo punto gli ambiti locali e regionali diventano livelli cruciali di analisi. Quasi tutte le nazioni hanno vissuto al loro interno esperienze diverse, hanno fatto parte di diversi sistemi politici e di occupazione (Francia e Italia ad esempio) che hanno influito profondamente sugli esiti politici dei dopoguerra. Molti studiosi sostengono che si debba parlare di guerre e non di guerra. Nel recente colloquio di Parigi, cui ho già fatto riferimento, sono emerse a questo proposito interessanti riflessioni. Sulla Polonia (Piotr Madajczyk): la Polonia risulta tra i vincitori, ma chi sono i vincitori? I soldati che hanno fatto la parata? Gli insorti di Varsavia? C’è stata una violazione sistematica dei ricordi personali nella presentazione ufficiale della guerra. La memoria comunista mette al centro la resistenza e il ruolo dei comunisti, invece nel ricordo della gente al centro c’è la sofferenza: la fame, il lavoro obbligatorio, la perdita dei beni... Sulla Germania dell’Est (Dorothee Wierling). “Noi abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta”, dice un testimone all’interlocutore dell’ovest. Alla fine della guerra una parte della Germania ha vissuto un’esperienza enormemente scioccante, quella della violenza delle truppe sovietiche.

La violenza dell’occupazione sovietica, i prelievi dell’Urss, la ricostruzione lenta, la repressione politica confermavano la propaganda nazista. La catastrofe della guerra veniva allontanata dalla memoria, la catastrofe era l’occupazione sovietica. Solo per una minoranza i russi erano liberatori. Si costruivano ricordi privati, racconti di famiglia che si sarebbero riperpetuati attraverso i figli.

E arriviamo attraverso questi esempi anche al caso italiano. Microstorie che ho ricostruito nel mio recente volume (“Guerra totale”).

Linea Gustav. Due piccoli paesi: Lenola e Campodimele. Due donne intervistate, che avevano subito lo stupro dalle truppe del Corpo di spedizione francese, avevano perso la madre sotto le bombe degli alleati, un’altra aveva visto morire la figlioletta di pochi mesi per gli stenti e dopo pochi giorni il marito partire per la guerra. Prima i bombardamenti, le cannonate, la fame, il freddo, le deportazioni, poi lo stupro.

“Dicevano che erano arrivati i liberatori, gli americani, ma al posto loro arrivarono i marocchini. La liberazione non l’ho mai festeggiata, perché sono ricordi che non posso scorda’.. Che liberazione era quella? Liberati a quel modo là! Si sono sfiziati come hanno voluto loro... che ti credi... Ci stanno femmine che hanno perso la vita”.

“Ricordo bene che arrivarono il 22, perché proprio quel giorno vennero da noi, ma con precisione non so dirti quando andarono via... stettero 9-10 giorni e in questi lunghissimi giorni fecero quello che non hanno fatto i tedeschi in sei mesi”.

“Ricordo benissimo che vennero il mese di maggio e la loro non si deve chiamare liberazione, ma distruzione vera e propria”.

“Erano lazzaroni i marocchini, ma ugualmente gli americani erano lazzaroni perché loro avevano permesso a quella gentaglia di fare tante cose. La liberazione si doveva chiamare quella e invece...”

Parole analoghe si trovano in tutte le testimonianze. I vincitori, i portatori delle democrazia vestono qui i panni dei criminali, prima con il bombardamento inaspettato e inspiegabile con le ragioni militari agli occhi degli abitanti di un piccolo paese dell’Appennino, poi con gli stupratori marocchini. Nulla di più lontano dal discorso nazionale sulla guerra. Che cosa può accadere quando la dissonanza tra l’esperienza vissuta e la narrazione pubblica è così forte? Affiora alla memoria un sentimento immediato di stupore. “Veramente noi ci nascondevamo per paura della guerra, noi aspettavamo che erano liberatori e difatti la suocera mia uscì con una bandiera bianca... noi credevamo che erano i liberatori”. Uno stupore sostituito subito da un indefinibile sgomento, un dolore che non può essere espresso, che diventa silenzio per lunghi anni e che si esprime non tanto attraverso un rifiuto quanto attraverso una distanza consapevole dalla retorica pubblica.

L’esperienza ha insegnato che in guerra tutti sono potenziali assassini, che spesso le ragioni si confondono, che le popolazioni dei territori in cui si combatte sono le vere vittime del conflitto. Sulla linea Gustav si sommarono evacuazioni forzate, deportazioni, sfollamento sulle montagne in grotte e capanne, freddo, fame, bombardamenti...

Il ricordo del dopoguerra con il ritorno in cittadine e paesi distrutti è il ricordo della catastrofe per cui non ci sono parole. Come in Germania, per un lungo periodo è la ricostruzione a coprire la memoria della catastrofe.

I bombardamenti. Le prospettive dall’alto e dal basso, che potremmo definire in questo caso quella militare e quella locale, sono assolutamente divergenti. Nella documentazione militare troviamo target primari e secondari, elenco di danni inferti alle strutture, piani strategici, rapporti degli equipaggi...

Alcuni esempi tratti dal mio volume. Pressoché tutti gli ordini di operazioni su Napoli indicano come obiettivo l’area del porto, troviamo inoltre il target primario e uno o due target secondari. Se l’obiettivo era coperto dalle nuvole, se si verificavano incidenti o contrattempi, l’equipaggio si dirigeva sugli obiettivi secondari. Napoli era in genere accoppiata a Crotone, a Villa San Giovanni, Messina, Palermo. Nei rapporti i capitani dichiaravano spesso di aver colpito senza aver potuto individuare con precisione l’obiettivo a causa del maltempo e di aver sganciato le bombe senza “prendere la mira accuratamente”, come affermò il comandante dell’equipaggio della Raf che colpì il 25 aprile del 1943 Torre del Greco, provocando la morte di un centinaio di persone, fra cui un numero impressionante di bambini (colpiscono sei fratellini fra i 3 e i 13 anni).

Notizia, quest’ultima, che veniamo a sapere non certo dai rapporti dei bombardieri, ma dalla relazione dei nostri vigili del fuoco che quel bombardamento vedevano dal basso. Un comandante affermava il 13 marzo 1943 di non aver potuto “individuare il porto e di aver sganciato le bombe in un area a sud del porto”, un altro di aver lanciato le bombe attraverso un tappeto di nubi “nell’area della città nel mezzo del tragitto”. Un equipaggio dichiarava di aver fatto cadere le bombe nella zona dell’obiettivo secondario su un villaggio la cui identità rimaneva sconosciuta. Ovviamente nessun rapporto parlava delle conseguenze sulle popolazioni colte dalle loro azioni.

La guerra raccontata dai militari non ha morti civili. Questi sono costantemente negati. Si trovano liste e stime precise dei danni inferti a beni e servizi, mai una nota sui morti provocati. Sono un non detto della guerra. Lo ricostruiamo solo se ossessivamente ricostruiamo la microstoria della guerra.

Caso di Teano. Ho ricostruito, attraverso i registri del comune, le morti avvenute nei mesi fatidici: settembre e ottobre 1943. I morti registrati sono 141 (non possiamo sapere il numero dei cadaveri insepolti, che rimasero sotto le macerie e la cui scomparsa fu registrata in anni successivi), di cui 31 per “fatti di guerra”, definizione che indica quasi sempre l’uccisione per mano tedesca, e 110 per le due incursioni aeree. Fra le 110 vittime dei raid si possono contare 61 bambine e bambini fra i 5 mesi e i 14 anni (22 di loro non avevano ancora compiuto 5 anni), più del 55%, e fra gli adulti (19-55 anni) le donne sono il 70%. I numeri non hanno bisogno di commento. Proviamo ancora a entrare nella tragica lista. Il 25 novembre del 1943 si presentavano al comune i due cognati Claudio Trifiletti e Francesco Adinolfi per denunciare la scomparsa totale delle loro due famiglie. A piazza Duomo il 6 ottobre erano state travolte dalle macerie le loro due mogli con i figli: le due sorelle Sara (46 anni) con i quattro figli Mario di 6 anni, Maria Rosaria di 10 anni, Enrico di 13, Anna Maria di 15, ed Elisabetta Zarone (49 anni) con i figli Antonio di 5 anni e Armando di 13. Insieme a loro morivano le cognate Ada (45 anni) e Clelia Trifiletti (47 anni) con la figlia di 16 anni, e la suocera Emilia Danese (73 anni) rispettivamente sorelle e madre di Claudio Trifiletti. Quest’ultimo perse contemporaneamente madre, due sorelle, moglie e quattro figli. La maggior parte dei componenti delle famiglie distrutte vivevano a Napoli e si erano riuniti nella casa avita per evitare i bombardamenti della città. Anche in questo caso il commento è superfluo. La freddezza degli elenchi dice molto di più.

Ecco la cronologia secca degli eventi: 23 settembre razzia di 600 uomini circa e deportazione in Germania al lavoro coatto, 3 ottobre uccisione di tre uomini arsi vivi in un pagliaio da parte dei tedeschi, 6 ottobre bombardamento alleato, 22 ottobre nuovo bombardamento e rappresaglia tedesca, 25 ottobre nuove uccisioni per mano tedesca, che si verificano, tuttavia, in maniera sparsa per tutto il tempo dell’occupazione. L’interpretazione dei fatti a Teano è, ovviamente, ambigua, contraddittoria, conflittuale.

3. Categoria di Resistenza. Questo è uno dei temi più frequentati ormai da una serie di studi, che hanno messo in risalto, contro il modello maschile, nazionalista e armato, forme diverse di resistenza: forme di resistenza popolare diffusa, una resistenza civile declinata in differenti forme, disobbedienza, ruolo delle donne eccetera. Anche in questo caso diverse configurazioni locali, diversi tempi della guerra, diversi sistemi di ordini (non dimentichiamo che anche l’ordine nazista è stato fortemente diversificato a livello territoriale) hanno provocato risposte differenziate sia a livello di resistenza sia a livello di collaborazione. Di nuovo il caso dell’Italia è emblematico.

Le popolazioni che vissero sulle linee del fronte campano nei territori definiti “zone di operazioni” subirono una breve ma intensissima occupazione tedesca che diede origine a forme di resistenza specifiche, diverse per ragioni contestuali a quelle del modello di resistenza organizzata sotto il comando del Cln (per questo non accolte nel mito nazionale). Ed ebbero, invece, scarse possibilità di sviluppare condotte collaborazioniste per i tempi rapidi della guerra, ma anche per l’atteggiamento dell’esercito tedesco che non tollerava la benché minima forma di disobbedienza e quindi rifiutava nella maggior parte dei casi forme di negoziazione.

Il livello locale ha reso possibile, d’altro canto, là ove effettivamente si è verificata la lotta partigiana guidata dal Cln, mettere a fuoco, al di là della retorica, il rapporto tra la popolazione e i partigiani. Su questo molto si è detto e si è scritto. Ricordo solo l’immagine estremamente forte delle donne di Civitella in Val di Chiana che cacciano letteralmente dal palco gli oratori giunti per celebrare i loro mariti, rifiutando e rovesciando il discorso pubblico: i loro uomini non erano martiri sacrificatisi per una giusta causa ma vittime involontarie di una violenza scatenata, secondo loro, dall’irresponsabilità dei partigiani.

Il discorso sulla resistenza, sulla collaborazione, sulla guerra civile si fa sempre più complesso proprio a partire dall’analisi dei contesti locali. E a partire dai contesti locali sono le stesse categorie a essere superate. Finisce la sacralizzazione dei concetti.

4. I contesti locali ci aiutano, quindi, a spiegare il senso e le dinamiche delle violenze. Come ho detto, questo approccio ha consentito di ampliare l’analisi dello sterminio degli ebrei nell’Europa orientale, mettendo in luce la partecipazione della popolazione (Jan Gross sul caso di Jedwabne) e dei funzionari locali nelle regioni e nei territori occupati dai tedeschi (H. Christian Gerlach) e ha quindi aperto la strada alla possibilità di comparare casi diversi, fra cui la violenza sovietica, quella turca contro gli armeni, eccetera.

Nel caso italiano il livello locale è fondamentale per ricostruire la dinamica dei conflitti e dei massacri verificatisi ai confini orientali: nella “giornata del ricordo” il male viene assolutizzato, è un male ontologico che discende dall’indole balcanica e dalla aberrazione del comunismo. Il livello locale ci narra invece di una storia di violenze e di vendette di lungo periodo che trovano le loro ragioni nella storia di nazionalismi feroci, di assimilazioni forzate e di pulizie etniche.

Guido Crainz ha ricostruito a partire dal contesto locale i motivi delle violenze dopo la liberazione: linciaggi e uccisioni di fascisti o di collaborazionisti veri o presunti coincidono con la mappa dei massacri e delle violenze naziste e fasciste. Nel caso da me studiato il linciaggio del segretario del fascio di Ponticelli (quartiere napoletano) avviene il giorno successivo alla rappresaglia nazista. E se si andasse indietro nel tempo si troverebbero le radici nelle violenze del ’21-22, quando Ponticelli, allora comune socialista, fu teatro di azioni di intimidazione e di brutalità da parte di fascisti locali spalleggiati da squadracce napoletane.

5. I linguaggi. Come ho detto, il linguaggio nazionale si struttura, nell’immediato dopoguerra, intorno alla retorica risorgimentale e nazionalista: i partigiani hanno lottato contro l’invasore tedesco e per la libertà contro il fascismo. Le vittime di rappresaglie e massacri vengono in questo discorso equiparate ai caduti in combattimento. Il linguaggio, come è stato fatto notare da più studiosi, riprende e riformula immagini e simbologie religiose: il martirio, il sacrificio, il sangue che rigenera la nazione... Inutile sottolineare che è un linguaggio maschile, utilizzato, non a caso da una generazione che è stata ancora educata al mito della nazione e della guerra.

Come si declina a livello locale? Nel centro-nord dove si è svolta la lotta partigiana organizzata dal Cln e dove i partiti di sinistra e le associazioni dei partigiani hanno un ruolo istituzionale più elevato, il discorso resistenziale acquisisce una visibilità pubblica attraverso cerimonie e riti celebrativi, tuttavia, gli studi di questi anni ce lo hanno mostrato con grande evidenza, si formano e persistono nel tempo saldissime memorie antipartigiane, memorie private, di comunità, che confliggono in maniera ostinata con le memorie pubbliche e cercano di mostrarlo anche apertamente. è il caso di Civitella che ho citato, quello di Sant’Anna di Stazzema dove ogni anno i sopravvissuti manifestano contro i rappresentanti dell’Anpi presenti alla celebrazione, quello di Bardine San Terenzio, e tanti altri.

Nel centro-sud e nel sud, dove quel processo di normalizzazione che nel resto dell’Italia prenderà avvio nel 1946-’47 era cominciato all’indomani dell’arrivo degli alleati, dove le epurazioni erano state assai limitate e il vecchio apparato dello stato si era già riorganizzato (qui il pensiero va proprio a Nicola Gallerano che per primo ci aveva mostrato le dinamiche prodottesi nel Regno del Sud) il linguaggio pubblico più che alla resistenza si rifaceva alla tradizione patriottica e militare. Nella maggior parte dei casi le vittime, tutte le vittime (militari, combattenti, civili) venivano accomunate e ricordate (vale a dire non ricordate) il 4 novembre, l’anniversario della vittoria della prima guerra mondiale. è quanto ho ancora potuto vedere, quando ho iniziato la ricerca sulle stragi naziste.

Solo alcune comunità trovarono mediatori volonterosi. Come nel caso di Bellona, piccolo paese del casertano, dove nella rappresaglia del 7 ottobre 1943 erano stati uccisi molti esponenti dell’élite locale (il dottore, il farmacista, cinque sacerdoti, cinque studenti eccetera) che per questo dunque si attivò costituendo subito un’associazione e rivolgendosi a Benedetto Croce per comporre il testo della stele commemorativa che fu eretta già nel 1945. Sul luogo dell’eccidio venne successivamente costituito un ossario. La commemorazione a Bellona si svolge tuttora in un’incredibile mescolanza di linguaggi. Ci sono il sacerdote, il sindaco, un rappresentante del governo, un rappresentante dell’autorità militare, un reparto di soldati... Le autorità svolgono i loro discorsi, quindi vengono letti i nomi delle vittime a uno a uno, nel sottofondo suona l’inno del Piave, poi il silenzio d’ordinanza e il presentatarm ai caduti... Eppure la commemorazione è sentita dalla popolazione che è presente massicciamente alla cerimonia. Si ha l’impressione che linguaggi e riti siano, tuttavia, estremamente distanti dal sentire della gente, e che vengano tollerati come espressione inevitabile della sfera pubblica, come era il latino nelle celebrazioni religiose, misterioso e distante ma necessario. Tutti questi riti e linguaggi della memoria includono episodi, eccidi, vittime che possono entrare nella narrazione nazionale, tutte le altre vittime e sventure rimangono un fatto privato. Un esempio dal racconto di una donna di Bellona: il fratello ucciso nella rappresaglia nazista è nell’ossario delle vittime e ogni anno viene ricordato e onorato; il padre vittima sparsa dei tedeschi, la madre e le due sorelline vittime di un bombardamento americano, portate al cimitero su un carro qualsiasi e composte in una bara arrangiata sul momento, sono un ricordo vivissimo ma privato.

I morti per i bombardamenti. Ho trovato molte più lapidi di quanto pensassi, ad esempio a Napoli. Sono lapidi scarne, poche parole messe in genere dal vicinato, a volte dalle parrocchie.

E qui veniamo al ruolo della chiesa e dei sacerdoti, cruciale nel dopoguerra. Nel sud evidentissimo, ma anche nel nord. Penso ai vari parroci, preti di campagna che compaiono nei racconti delle stragi ricostruiti da Paolo Pezzino, da Giovanni Contini...

In contrasto con il partito comunista che poneva l’accento sulla resistenza come lotta contro l’occupante nazista, ma anche e soprattutto contro il regime fascista caduto il 25 luglio del 1943 e risorto con la Repubblica Sociale nel settembre dello stesso anno, i democristiani avevano sottolineato il ruolo popolare e moderato dei combattenti cattolici, che avrebbero manifestato un maggiore rispetto per i beni e l’incolumità delle popolazioni a loro vicine, si sarebbero mostrati più magnanimi e moderati con i nemici, avrebbero infine combattuto i propositi e le azioni di vendetta contro fascisti e collaboratori nell’immediato dopoguerra.

Dopo la rottura dei governi di unità nazionale nel 1947 i cattolici accentuarono la loro immagine di pacificatori e mediatori nella lotta fratricida fomentata invece dai comunisti. Proponevano al ricordo figure di eroi positivi, morti per salvare la popolazione da possibili rappresaglie (Salvo D’Acquisto, ad esempio), di sacerdoti che avevano tentato delle mediazioni tra occupanti e popolazione. La Resistenza era in questa visione una naturale risposta al nazismo, frutto di uno specifico carattere positivo della popolazione italiana: una profonda religiosità che avrebbe favorito pratiche di solidarietà verso tutti i perseguitati e sentimenti di riconciliazione con i nemici. Questo atteggiamento veniva contrapposto alle pratiche “classiste” e “rivoluzionarie” dei comunisti, fomentatori di odi tra fratelli. è questo uno dei temi che emergono con forza dalla documentazione locale. Il discorso cattolicoebbeunadiffusionecapillaresulterritorio, utilizzando, ovviamente, la estesa rete delle istituzioni della chiesa e intervenendo con forza sulle scene politiche locali. Il linguaggio della chiesa si incontrò con alcune esigenze profonde della popolazione e si prestò a dare voce attraverso le tradizionali immagini religiose alla sofferenza e al lutto. Il richiamo cattolico all’armonia contro i conflitti, si faceva, d’altro canto, esplicito richiamo all’oblio. “Il popolo vuole dimenticare Cefalonia, Salerno, le Fosse Ardeatine e tutte le tremende cose che non devono essere cinematografate”. Così si esprimeva la critica cinematografica cattolica nel 1947: accusava i registi neorealisti, della statura di Rossellini e De Sica, di rivangare nei mali dell’Italia, riportando a galla “lacrime e fango”, e invitava invece a offrire quadri ottimisti e di speranza a una popolazione esausta e funestata dai lutti (Gian Piero Brunetta).

La chiesa, che nel dopoguerra partecipò attivamente al conflitto politico schierandosi con la Democrazia cristiana, ebbe un ruolo cruciale nella costruzione del racconto sulla guerra e sulla violenza. Essa mirò a rappresentarsi come istituzione al di sopra delle parti, tesa a garantire un ritorno all’armonia e alla solidarietà contro la guerra civile; contribuì in modo decisivo a rappresentare la società meridionale in contrapposizione con il “vento del nord” come una società non politicizzata, lontana da risentimenti antifascisti, oscurando gli episodi di resistenza e di conflitto interno alla popolazione.

Il ruolo della chiesa nella gestione della memoria della guerra fu cruciale, non solo in Campania. Alcuni studiosi ne hanno sottolineato il ruolo a Roma, nel Lazio, ma anche nell’Italia centrale e settentrionale. D’altro canto le istituzioni ecclesiastiche si erano spesso mostrate presenti e solidali nel momento in cui tutte le altre autorità erano svanite. I vescovi di Benevento e di Avellino unici a presidiare la città tra bombardamenti e saccheggi. Il vescovo di Acerra seduto a terra insieme agli uomini rastrellati. Sono immagini che sarebbero rimaste nella memoria delle comunità locali e si sarebbero rafforzate nella misura in cui la gente si rendeva conto di essere stata abbandonata a se stessa dalle istituzioni dello Stato. In alcuni casi i sacerdoti si erano volontariamente offerti di mediare tra tedeschi e popolazione, in altri erano stati letteralmente prelevati dalle parrocchie, dai conventi, dalle case e spinti di fronte ai comandi tedeschi per impetrare clemenza. I religiosi apparivano agli occhi della gente le uniche figure in grado di salvaguardare la popolazione; inoltre si pensava che anche il più crudele dei soldati si fermasse di fronte a un rappresentante della sfera sacra. Gli occupanti avevano mostrato in molte occasioni di non distinguere tra notabili fascisti, antifascisti, gente comune. Appariva inutile e a volte impossibile rivolgersi a una qualche autorità civile e ci si rivolgeva ai sacerdoti. In alcuni limitati casi la loro opera ebbe qualche risultato (a Buonalbergo in Campania un prete di origine tedesca riuscì a impedire una rappresaglia per l’uccisione di tre soldati) ma nella maggioranza delle situazioni fallì l’obiettivo. Anzi, i sacerdoti divennero essi stessi vittime dei massacri. Ovviamente, nel dopoguerra essi poterono incarnare degnamente il discorso cristiano del “sacrificio”. La chiesa seppe usare i suoi martiri.

La memoria pubblica, che ha spesso rimosso i massacri nazisti e le loro vittime, ha invece scelto di ricordare i martiri religiosi, innalzandoli a simbolo di umana carità contro le “belve naziste”. Il linguaggio è chiaro: umanità cristiana contro ferocia demoniaca. Un’interpretazione al di sopra della contingenza, che trasforma carnefici e vittime in simboli di un bene e di un male astorici, lontani dalla realtà complessa della guerra. La retorica cristiana destorifica l’episodio e lo rende inoffensivo, impolitico. Cancella le ragioni storiche e specifiche della violenza per rimandare a un discorso astratto sulla natura umana, sulla malvagità e sulla impotenza del buono, vittima sacrificale.

Sarebbe riduttivo, tuttavia, attribuire al linguaggio religioso solo un carattere strumentale. La simbologia sacra ha una forza spontanea particolarmente adatta a rappresentare, molto meglio di qualsiasi retorica politica, la sofferenza delle vittime della guerra. Simboli e rappresentazioni religiose che trasformano e trasfigurano il dolore di uomini e donne sono radicati nella tradizione e nella cultura popolare, suscitano emozioni, offrono metafore forti e comprensibili. Nei racconti echeggiano tutta una serie di immagini sacre: la madonna addolorata, la deposizione di Cristo, la via crucis, le scene dei martiri. Sono le raffigurazioni della sofferenza dei deboli, dei vinti, che ben più degli altisonanti e retorici inni patriottici potevano offrire un linguaggio a chi nei panni di un vincitore marziale non si poteva certo identificare.

Nel dopoguerra sono spesso i sacerdoti e le associazioni cattoliche a costituire quelli che Jay Winter ed Emmanuel Sivan definiscono gruppi sociali secondari nella costruzione della memoria. Insieme a loro organizzazioni informali di quartiere, gruppi di cittadini che non hanno avuto però la possibilità di avere voce oltre l’ambito locale né di costruire un discorso sulla guerra.

Disseminate sul territorio si trovano numerosissime iscrizioni, poste dagli abitanti di un gruppo di case, da associazioni di quartiere, da unioni cattoliche, che testimoniano di una pietà popolare intensa e di un desiderio di ricordare i parenti e i vicini di casa travolti dai raid aerei. Sono lapidi semplici senza discorsi, senza frasi altisonanti. Non hanno un vocabolario pubblico cui riferirsi.

E qui veniamo all’ultimo punto e alle conclusioni di un discorso che dovrebbe essere ben più complesso... Questa memoria privata di lungo periodo, che si è espressa solo in termini religiosi, oggi riemerge e in parte trova un riconoscimento nel discorso pubblico. È la memoria della sofferenza. Fenomeni analoghi si stanno verificando anche altrove (vedi Germania, Polonia...). In Italia c’è una estesa richiesta di riconoscimenti pubblici, medaglie d’oro, d’argento, di bronzo, in nome della sofferenza patita. Ciò sta avvenendo, ad esempio, in moltissimi paesi e cittadine campane, del basso Lazio. E questa richiesta può attivare memorie locali, che in alcuni casi si erano già manifestate attraverso libri, opuscoli, che narravano la storia vista dal punto di vista della comunità e che puntualmente si chiudevano con l’elenco di tutte quelle che venivano considerate vittime della guerra: per mano tedesca, sotto le bombe degli alleati, per le malattie contratte negli sfollamenti in montagna o nelle deportazioni forzate, per le mine negli anni successivi alla guerra.

Oggi i patimenti assurgono a linguaggio pubblico della memoria. A Lenola viene scoperta una lapide che ricorda gli stupri di massa, a Formia una targa commemorativa che rammenta i nove mesi passati fra bombardamenti e violenze tedesche. Nelle motivazioni delle medaglie si parla di “aspro calvario, lungo martirio, immani rovine”, di “cittadini inermi e stremati dalle privazioni”. Foggia che aveva già avuto la medaglia d’oro al valor civile riesce nel 2006 a conquistare la medaglia d’oro al valor militare per “aver subito tragici bombardamenti” .

Tutto ciò emerge dalla crisi dei vecchi discorsi nazionali e dall’apertura delle memorie, memorie plurali che dovrebbero condurre alla critica delle vecchie categorie di analisi e della retorica della guerra. In realtà il riconoscimento della sofferenza si accompagna a un nuovo processo: il tentativo di un’élite politica di riunificare, conciliare le memorie riproponendo il linguaggio risorgimentale della nazione. Così le memorie della sofferenza, che sono nate come plurali e irriducibili al discorso nazionalista, vengono utilizzate per riproporre un indifferenziato discorso sulla guerra e annegate in una nuova logica patriottica e retorica.

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www.lostraniero.net

Lo Straniero, 76 - ottobre 2006


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