Il libro dei sogni del dottor Jung
Esce dopo quasi un secolo l’opera in cui lo psichiatra svizzero
tentò di capire l’inconscio a partire dalle sue visioni e fantasie
di Sonu Shamdasani (Il Sole-24 Ore, 18.10.2009).
C.G. Jung è considerato una delle personalità più importanti del pensiero occidentale e i suoi lavori continuano a dare adito a controversie. Egli ha avuto un’importanza fondamentale nella formazione della psicologia moderna, della psicoterapia e della psichiatria. Ma l’influenza più profonda del suo lavoro risiede al di fuori della cerchia di esperti: Jung e Freud sono i due nomi che i più associano pensando alla psicologia, e le loro idee si sono diffuse ampiamente nelle arti e nelle scienze umane, nei film e nella cultura popolare. Jung è anche ritenuto uno dei promotori dei movimenti New Age. Tuttavia è sorprendente che il libro al centro della sua opera, al quale egli lavorò sedici anni, venga pubblicato solo ora.
Non ci possono essere molti lavori inediti che hanno già avuto un’influenza così vasta sulla storia sociale e intellettuale del Ventesimo secolo come il suo Libro Rosso, o Liber Novus. Da lui ritenuto il lavoro che avrebbe contenuto il nucleo della sua opera successiva, esso da tempo è considerato come la chiave per comprenderne la genesi.
Jung chiamò «confronto con l’inconscio» il periodo tra il 1912 e il 1918. Egli in questi anni elaborò i principi delle sue teorie psicologiche degli archetipi, dell’inconscio collettivo e del processo di individuazione, trasformando la psicoterapia da una pratica dedicata principalmente al trattamento della malattia in un mezzo per lo sviluppo superiore della personalità. La psicologia analitica divenne così una disciplina teorica e una forma di psicoterapia. Al centro di ciò vi fu il Liber Novus.
Nell’autunno del 1913 in un viaggio in treno verso Schaffhausen Jung ebbe una visione che racconta così: «Vidi una terribile alluvione che inondò tutte le terre tra il Mare del Nord e le Alpi. Si estendeva dall’Inghilterra alla Russia e dalle coste del Mare del Nord fino alle Alpi. Vidi onde gialle, macerie galleggianti e migliaia di morti. La visione durò due ore, mi confuse e mi fece star male. Non seppi interpretarla. Trascorsero due settimane, poi la visione tornò, ancora più violenta di prima e una voce interiore disse: "Guardala, è del tutto reale, e accadrà. Non puoi dubitarne". Lottai ancora per due ore con essa, ma mi trattenne con fermezza, lasciandomi esausto e confuso. Pensai di essere diventato pazzo».
La reazione a questa esperienza fu un’investigazione psicologica con se stesso. L’introspezione è stata uno dei molti strumenti della ricerca psicologica. Jung diede libero sfogo alle sue fantasie e annotò accuratamente quanto derivato, chiamando in seguito questo processo immaginazione attiva. Egli trascrisse le sue fantasie nei Libri Neri, che non sono diari personali, bensì le registrazioni di un esperimento con se stesso.
Quando scoppiò la Prima guerra mondiale Jung comprese che una serie di queste sue fantasie furono premonitrici. Ciò lo indusse a comporre il primo manoscritto del Liber Novus, formato dalla trascrizione delle principali fantasie dei Libri Neri, insieme a dei commenti interpretativi ed elaborazioni liriche. Qui Jung cercò di derivare dei principi psicologici dalle fantasie, inoltre cercò di capire fino a quanto gli eventi descritti in esse in forma simbolica presentassero sviluppi futuri nel mondo.
Il materiale venne rivisto varie volte, per poi essere ricopiato in una scrittura gotica ornata su un grande volume rilegato in pelle rossa, al quale aggiunse fregi di capoverso, bordi ornati e molti disegni. L’opera era composta sul modello dei manoscritti illuminati del Medioevo. L’insieme dei testi e delle immagini ricorda fortemente i lavori illuminati di William Blake.
Il tema generale del libro è come Jung ritrovi la sua anima e superi il moderno turbamento dell’alienazione spirituale. Questo è possibile permettendo che in essa rinasca una nuova immagine di Dio e sviluppando un nuovo mondo visto secondo una cosmologia psicologica e teologica. Il Liber Novus presenta il prototipo del processo di individuazione, da lui considerato la forma universale dello sviluppo psicologico individuale.
All’inizio del libro Jung ritrova la propria anima e intraprende una serie di avventure di fantasia che formano una narrazione consecutiva. I capitolo seguono un formato particolare, iniziando con l’esposizione di fantasie visive drammatiche. Jung incontra varie figure in molteplici situazioni e conversa con loro. Si trova innanzi a situazioni inaspettate e affermazioni scioccanti. In seguito cerca di capire cosa si è palesato e formularne il significato in concetti psicologici generali.
Jung riteneva che l’importanza di queste fantasie consistesse nel provenire da quell’immaginazione mitopoietica che nella moderna epoca razionale è mancante. Il compito dell’individuazione è quello di stabilire un dialogo con le figure di fantasia - o contenuti dell’inconscio collettivo - e integrarli nella coscienza, rivalutando così l’immaginazione mitopoietica.
Nel Libro Rosso sono discussi una serie di temi, tra cui: la natura della conoscenza di sé, l’importanza del pensare e del sentire e i tipi psicologici, la relazione tra virilità e femminilità interna ed esterna, l’unione degli opposti, la solitudine, l’importanza del sapere e dell’imparare, lo stato della scienza, il significato dei simboli e come si deve interpretarli, la pazzia, la pazzia divina e la psichiatria, l’imitazione di Cristo, la natura di Dio e degli dei, Nietzsche, la magia, la natura del bene e del male, il significato del passaggio dal paganesimo al cristianesimo, il rapporto con la morte e i propri antenati.
Anima mia, salvami dal drago
di Carl Gustav Jung *
Quando, nell’ottobre 1913, ebbi la visione dell’alluvione, questo avvenne in un periodo per me incisivo sul piano personale. Allora, all’età di quarant’anni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato. Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e ogni tipo di felicità umana. Cessò allora dentro di me il desiderio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desiderio e fui colmo d’orrore. La visione dell’alluvione mi sopraffece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso però mi forzò causandomi un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo... sei lì? Sono tornato, sono di nuovo qui. Ho scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te.
Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c’è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta, mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato. Mi conosci ancora? Quanto a lungo è durata la separazione! Tutto è così mutato. E come ti ho trovata? Com’è stato bizzarro il mio viaggio! Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuosi sentieri una buona stella mi ha guidato fin da te? Dammi la mano, anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti, o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato a te. Diciamo grazie alla vita perché ho vissuto, per tutte le ore serene e per quelle tristi, per ogni gioia e ogni dolore. Anima mia, il mio viaggio deve proseguire insieme a te. Con te voglio andare e ascendere alla mia solitudine».
Questo mi costrinse a dire lo spirito del profondo e al tempo stesso a viverlo contro la mia stessa volontà, perché non me l’aspettavo. In quel periodo ero ancora totalmente prigioniero dello spirito di questo tempo e nutrivo altri pensieri riguardo all’anima umana.
Pensavo e parlavo molto dell’anima, conoscevo tante parole dotte in proposito, l’avevo giudicata e resa oggetto della scienza. Non credevo che la mia anima potesse essere l’oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. Perciò lo spirito del profondo mi costrinse a parlare all’anima mia, a rivolgermi a lei come a una creatura vivente, dotata di esistenza propria. Dovevo acquistare consapevolezza di aver perduto la mia anima. Da questo impariamo in che modo lo spirito del profondo consideri l’anima: la vede come una creatura vivente, dotata di una propria esistenza, e con ciò contraddice lo spirito di questo tempo per il quale l’anima è una cosa dipendente dall’uomo, che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare i confini. Ho dovuto capire che ciò che prima consideravo la mia anima, non era affatto l’anima mia, bensì un’inerte costruzione dottrinale. Ho dovuto quindi parlare alla mia anima come se fosse qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me, ma grazie alla quale io stesso esistevo.
Approda al luogo dell’anima colui il cui desiderio si distoglie dalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall’orrore del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l’angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue di questo mondo. Impazzirà per la sua insaziabile cupidigia e si allontanerà dalla sua anima, per non ritrovarla mai più. Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà, ma non ritroverà la sua anima, perché solo dentro di sé la potrebbe trovare. La sua anima si trovava certo nelle cose e negli uomini, tuttavia colui che è cieco coglie le cose e gli uomini, ma non la propria anima nelle cose e negli uomini. Nulla sa dell’anima sua.
Come potrebbe distinguerla dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desiderio stesso, ma non negli oggetti del desiderio. Se lui fosse padrone del suo desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadronirsi di lui, avrebbe toccato con mano la propria anima, perché il suo desiderio ne è immagine ed espressione.
Se possediamo l’immagine di una cosa, possediamo la metà di quella cosa. L’immagine del mondo costituisce la metà del mondo.
Chi possiede il mondo, ma non invece la sua immagine, possiede soltanto la metà del mondo, poiché l’anima sua è povera e indigente. La ricchezza dell’anima è fatta d’immagini. Chi possiede l’immagine del mondo, possiede la metà del mondo, anche se il suo lato umano è povero e indigente.
Ma la fame trasforma l’anima in una belva che divora cose che non tollera e da cui resta avvelenata. Amici miei, saggio è nutrire l’anima, per non allevarvi draghi e diavoli in seno.
© Reprinted with the permission of WW Norton & Company, Inc. Copyright (c) 2009 by the Foundation of the Works of C.G. Jung.
Traduzione di Maria Anna Massimello per gentile concessione di Bollati Boringhieri editore
* Da Domenica Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
LA GABBIA E IL "FILO D’ORO" DI ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
PSICOANALISI E FILOSOFIA:
METAPHYSICS ANTHROPOLOGY PSYCHOANALITIC. Shakespeare, dopo Lutero e prima di Nietzsche e Freud, con Amleto s’interroga sul come sia possibile andare oltre la vecchia "imitazione di Cristo". Una nota a margine di un programma di ricerca intitolato “Hamlet’s Bible”... *
TEATRO E METATEATRO. La straordinaria ricchezza di Hamlet, a mio parere, sta proprio in questo doppio movimento: "The tension or dissonance between these similarities and differences is an important source of irony" (Paul Adrian Fried). Con questo "gioco" il meta-obiettivo di Shakespeare appare essere proprio quello di indicare una direzione di riflessione che possa portare oltre il proprio #tempo e rendere praticabile l’idea di rimettere i suoi cardini in sesto!
Europa e "Globe Theatre": "Ecce Homo". Dato che la posta (storicamente e teologicamente) è epocale, il "gioco" è ancora più importante: qui, nell’Hamlet, il tema è "ripensare" lo #specchio dell’intera "Danimarca".
*
P. S.
"ECCE HOMO": NIETZSCHE E LA VOLONTA’ DI POTENZA DI JUNG. Carl Gustav Jung ha fatto un brillantissimo lavoro su «Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39», ma alla fine la sua stessa ombra gli ha impedito di giungere a fondo e a capo dell’enigma di Edipo, della domanda (la "question") di Amleto, della "visione e l’enigma di Zarathustra e, infine, di accogliere il bambino nato dalla metamorfosi del cammello e del leone (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991).
DA TENER PRESENTE, infine, che i capitoli dello "Zarathustra" commentati (contando dalle "Tre metamorfosi" ed escludendo i capp. 35-39 e 50) non vanno oltre il cap. 56, intitolato "Delle tavole antiche e nuove" (mancano gli ultimi quattro della "Terza parte" e tutti quelli dell "Parte quarta e ultima").
IL MISTERO DELL’ANALISI DI JUNG *
Nell’infuocata lettera inviata a Freud il 18/12/1912 Jung contrappone all’autoanalisi di questi (“Lei sa bene fin dove arriva un paziente con l’autoanalisi: non viene fuori dalla nevrosi, proprio come Lei”) la propria analisi (“Io” scrive “non sono assolutamente nevrotico...infatti mi sono fatto analizzare”). Si tratta qui, ovviamente/freudianamente, d’una proiezione. Così ne parla Jones (introdotto da Jung nel milieu psicoanalitico) in una lettera inviata a Freud il 5/12/1912, sulla quale dovrò ritornare. Sembra che Jung vada dicendo anche ad altri della grave nevrosi di Freud. Non glielo ha detto Brill? domanda Jones a Freud. E aggiunge: “un’altra bella proiezione”. Come tale la considera anche Freud, che oltre a definire, in una lettera a Ferenczi, “nevrotico-abietto” il comportamento di Jung (lettera del 5/1/13) gli rivolge le seguenti parole di congedo: “Chi, pur comportandosi in modo anormale, non la smette di gridare che è normale, risveglia il sospetto che gli manchi la coscienza della propria malattia” (lettera del 3/1/13). Da chi si sia fatto analizzare, comunque, Jung non lo dice, né in questa né in altre occasioni. Si potrebbe sospettare che, nella circostanza, stia mentendo. Sul nome dell’analista di Jung, però, Freud ha un’ipotesi che trasmette a Ferenczi e Jones.
Nella lettera a Jones del 26/12/1912, oltre a riferire dell’insolente comunicazione inviatagli da Jung, Freud ipotizza che l’analisi Jung l’abbia fatta con la signorina Moltzer. A ciò fa seguire il commento “Può immaginare che analisi è stata”. Stessa indicazione la si ritrova in una lettera inviata a Ferenczi il 23/12/12. Nell’occasione il commento di Freud suona ancora più irridente. Freud scrive di poter padroneggiare la propria nevrosi, laddove è Jung quello che si comporta “come un pazzo e un uomo brutale, quale egli è.” Il “maestro” che ha analizzato Jung, ipotizza Freud, può soltanto essere la signorina Moltzer. E cosa pensa Freud della Moltzer? Che è una “donnetta”. Jung “è abbastanza stolto da andare fiero dell’opera di una donnetta con la quale ha una relazione.” Freud suppone che sia stata anche questa “donnetta” ad aizzare Jung dopo il suo ritorno a Zurigo. Che le donne o le “donnette” possano aizzargli contro i suoi allievi psicoanalisti Freud lo penserà anche altre volte, ad esempio nel caso di Ferenczi. In quell’occasione l’accusata di turno sarà la psicoanalista Clara Thompson.
Ma chi era la signorina Moltzer? Maria Moltzer (1874-1944) era la figlia del proprietario della fabbrica di liquori olandese Bols. Si sa che fu analizzata da Jung, di cui fu anche traduttrice, e che lavorò come psicologa analista a partire dal 1913. La stessa Moltzer aveva avuto in analisi una ragazzina di undici anni il cui caso Jung aveva ripreso nella sua conferenza Über Psychoanalyse beim Kinde in occasione del primo congresso internazionale di pedagogia tenuto a Bruxelles nel 1912. Il testo della conferenza confluì poi nel Saggio di esposizione della teoria psicoanalitica, pubblicato l’anno seguente. In esso Jung parla della signorina Moltzer come d’una sua “assistente” e ne introduce il trattamento analitico con le seguenti parole: “Premetto che questo caso, per durata e per decorso, è altrettanto poco tipico della psicoanalisi quanto poco un singolo individuo lo è di tutti gli altri.” Il saggio fu tradotto in inglese da Montague David Eder (convertitosi al freudismo dopo un’analisi con Ferenczi), dalla moglie Edith e, appunto, da Maria Moltzer.
Quanto alla notizia d’una relazione di Jung con la Moltzer, essa è confermata (sebbene per sentito dire) da Jolande Jacobi. Jung avrebbe conosciuto la Moltzer (che era diventata infermiera, si dice, per protesta contro l’alcolismo) al Burghölzli, prima di incontrare Toni Wolff. Freud deve essere stato al corrente della vicenda (non sappiamo come) e a riguardo ha modo di assestare un altro colpo a Jung in una lettera inviata a Ferenczi il 2/2/1913 nella quale parla della Moltzer (che non nomina) come della “sua Egeria”, la ninfa con cui aveva un rapporto amoroso e intellettuale il re Numa Pompilio. Un’allusione (a rigore non si può essere certi del fatto che Egeria stia per Moltzer) che lascia comunque trapelare un vissuto: agli occhi di Freud, Jung appariva come un re (laddove Ferenczi fu da Freud promosso soltanto a gran visir). Del resto nella lettera dell’8/9/1910 Jung scrive a Freud che tra “sorella Moltzer” e Martha Boeddinghaus, un’altra junghiana (il cui marito era amico di Jung), “regna una gelosia amorosa” che ha Jung come oggetto. Nella lettera del 29/8/1911, poi, Jung ha modo di comunicare a Freud che, in occasione del terzo congresso dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale (che si sarebbe tenuto a Weimar il 21 e il 22 settembre) avrebbero presenziato, tra le altre, “Sorella” Moltzer, la dottoressa Spielrein e una sua “nuova scoperta” la signorina Antonia Wolff (oltre a - last not least - sua moglie).
Una lista (di amanti) davvero interessante e resa tale anche dal fatto che Freud era perfettamente a conoscenza del coinvolgimento di Jung con Sabina Spielrein. Nella lettera inviata a Freud il 26/12/1912, Ferenczi, che soffriva nei confronti di Jung, per sua stessa ammissione, di un complesso fraterno (o forse dovremmo dire che Jung era capace di costellare il suo complesso fraterno), rincara se possibile la dose. A differenza di Freud, Jung non è capace di padroneggiare alcunché. Egli ha semplicemente trovato la psicoanalisi bell’e pronta senza verificarla. Al che segue il commento (tra parentesi): “Un’analisi a opera della sig.na Moltzer non è, a mio parere, del tutto valida.” Giudizio, questo di Ferenczi, così come quello riportato sopra di Freud, non suffragato da alcuna cognizione di causa. L’analisi di Jung resta comunque un mistero, anche se forse, siamo riusciti, nei luoghi degli epistolari freudiani, a catturare il nome della sua analista.
Dal luogo degli epistolari freudiani emerge anche il nome dell’analista della signora Jung. A rivelarlo a Freud, in maniera strettamente privata, è Jones in una lettera del 18/9/1912. Si tratta di Leohnard Seif, che di Jones è in quel periodo amico. Seif opera a Monaco come neuropatologo e psicoanalista. L’analisi ha luogo nell’autunno del 1911 e, secondo Jones, avrebbe reso Emma Jung edotta delle manchevolezze del consorte. Jones spera che Emma eserciti sul marito una influenza benefica per la causa della psicoanalisi. Per un intrigante divertissement del destino lo psicoanalista di Emma sarebbe in seguito passato tra le fila degli adleriani.
* FONTE: CSPL FONDATO DA ALDO CAROTENUTO
QUEL FREUD E’ PEGGIO DI KAFKA*
LONDRA - Non li divideva soltanto il dissidio ideologico sulla natura ultima dell’ uomo e sulla pratica psicoanalitica. Carl Gustav Jung detestava Sigmund Freud con tutto il cuore, e per lui finì per nutrire soprattutto disprezzo. "Mi dà sui nervi per il suo arido razionalismo", confessa Jung in una lettera ad una devota seguace, la psicologa ungherese Jolande Jacobi. Questa e altre ottantasei missive inedite, sempre con destinataria la Jacobi, saranno messe all’ asta a Londra da Sotheby’ s il 26 maggio e dovrebbero essere vendute ad un prezzo notevole: da sessanta a settantacinque milioni di lire.
Tra i primi e più zelanti discepoli del "padre della psicoanalisi" Freud, Jung ruppe ogni rapporto con l’ autorevole maestro nel 1913 dopo un sodalizio di sei anni: non ne accettava il principio basilare della libido sessuale come motore profondo della personalità. Dalle 87 lettere inedite (56 scritte a mano e 31 a macchina, la prima è del 1928 e l’ ultima del 1961) emerge con lampante chiarezza che le divergenze filosofiche si tramutarono in sprezzante antipatia: "Freud - denuncia ad esempio Jung - è troppo piatto per me. Ha la stessa psicologia di Kafka, che io trovo altrettanto intollerabile". "Freud - si legge in un altra polemica missiva a Iolande - è un dottrinario mentre io non ho dottrine ma descrivo i fatti. Io non insegno come si sviluppa la nevrosi ma descrivo che cosa si trova nelle persone nevrotiche". Pur avendo spesso e volentieri teorizzato e fantasticato sui simboli universali presenti nell’ inconscio collettivo (gli "archetipi"), Jung contesta a Freud anche l’ audace tentativo di una categorizzazione dei sogni e il discutibile metodo della "libera associazione".
L’epistolario non è importante soltanto per la nuova luce che getta sul tormentato rapporto con Freud ma per meglio capire il laborioso sviluppo della teoria psicologica junghiana.
Nato in Svizzera, morto nel 1961 a 86 anni, Jung rivela in una lettera che si guarda bene dal prendere in cura pazienti cattolici: "Io non mi metterò mai in opposizione alle credenze della chiesa cattolica. Rimanderò sempre un cattolico praticante e convinto al suo confessore, non pretendo di mettermi in opposizione al potere guaritore della Chiesa". In una missiva del giugno ’ 33 lo psichiatra elvetico si mostra lungimirante sull’ascesa del nazismo in quel "calderone di gorgoglianti streghe" che è la Germania.
* Fonte: la Repubblica (20 maggio 1994)
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Inconscio collettivo, principio di individuazione, e disagio della civiltà (1929): che cosa chiede Edipo alla sfinge? (Elvio Fachinelli, 1969).Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ...
La psiche collettiva: una profezia di Jung
di Gian Paolo Caprettini (L’Indipendente, 15 Gennaio 2022)
È uscito il mese scorso in Francia un interessante libro di Frédéric Lenoir che espone con appassionata chiarezza l’opera di Carl Gustav Jung (Jung. Un voyage vers soi, Albin Michel editore). Folgorante questo attualissimo passaggio dello psicanalista svizzero, 1944, giustamente ripreso da Lenoir: “Sono convinto che lo studio scientifico dell’anima sia la scienza dell’avvenire... Appare in effetti, con una chiarezza sempre più accecante che non sono né le carestie, né i terremoti, né i microbi, né il cancro ma che è proprio l’uomo a costituire per l’uomo il più grande pericolo. Il motivo è semplice: non esiste ancora alcuna protezione efficace contro le malattie psichiche: ora, queste epidemie sono infinitamente più devastatrici delle peggiori catastrofi! Il supremo pericolo che minaccia tanto l’essere individuale quanto i popoli nel loro insieme è infatti il pericolo psichico”.
L’inconscio collettivo che, secondo Jung, noi avremmo ereditato da tempi ancestrali, con i suoi miti, le sue interdizioni e le sue potenti pulsioni, se viene sollecitato per esercitare potere, per influenzare i comportamenti mediante le emozioni, impedisce a ciascuno di armonizzare il retaggio del passato, il proprio patrimonio di sensazioni materiali e spirituali, con l’ esperienza del vissuto.
Una accelerazione, una forzatura che produce choc emotivi, provocando sovrapposizioni di razionale e irrazionale, sconfinamenti tra salute individuale e benessere sociale. Il disagio che ne deriva gioca nell’interesse di chi vuole dominare senza farlo risultare troppo.
[di Gian Paolo Caprettini - semiologo, critico televisivo, accademico]
Scheda *
JUNG, UN VIAGGIO VERSO SE STESSI
Presentazione
Carl Gustav Jung (1875-1961), medico svizzero, pioniere della psicoanalisi, è uno dei più grandi pensatori del XX secolo. Rimane relativamente sconosciuto in Francia, sebbene le sue idee abbiano avuto una profonda influenza sulla nostra cultura contemporanea e sia stato l’inventore di molti concetti rivoluzionari, come la sincronicità, l’inconscio collettivo, gli archetipi oi complessi.
È con Spinoza uno di quelli che mi ha segnato di più e che ha avuto un impatto decisivo sulla mia visione del mondo e di me stesso.
Questo è il motivo per cui ho voluto rendere accessibile a un vasto pubblico il suo pensiero visionario, che collega psicologia e fisica quantistica, che mostra quanto gli esseri umani abbiano bisogno di significato e di una vita simbolica o spirituale per il loro bene. Questa convinzione lo allontanerà da Freud e lo porterà a sperimentare e sviluppare il suo “processo di individuazione”: uno straordinario viaggio interiore, dove ognuno di noi impara a far dialogare il proprio conscio e inconscio per diventare pienamente se stessi e per acquisire accesso a un sentimento di unità e di gioia profonda.
È a questo affascinante viaggio verso se stessi che ho voluto invitare il lettore, alla scoperta di uno dei pensatori che mi sembra essere andato più lontano nella comprensione dell’essere umano e del senso della sua esistenza.
* Albin Michel, 3 novembre 2021 - 336 pagine - EAN: 978-2226438195
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
Federico La Sala
Immagini simboliche /
La metafora viva dell’alchimia
di Moreno Montanari *
Ernst Cassirer lo aveva colto perfettamente: l’essere umano non è un animale razionale ma un animale simbolico; per noi, cioè, non è in alcun modo possibile accedere al reale senza l’intermediazione del simbolico che ne organizza l’esperienza. Ma che succede se proprio la più peculiare delle nostre caratteristiche si atrofizza, sino a farci temere di vivere in un mondo caratterizzato da un analfabetismo simbolico figlio di una sempre più diffusa e pericolosa tendenza alla letteralizzazione? Si tratta di una condizione più volte denunciata da James Hillman che invocava come antidoto il recupero della visione alchemica, nella quale Jung riconosceva una protopsicologia del profondo.
Ecco perché il libro Jung e la metafora viva dell’alchima, curato da Simona Massa Ope, Arrigo Rossi e Marta Tibaldi, e con contributi anche di Stefano Carta, Clementina Pavoni e Nicole Janigro, uscito di recente per Moretti & Vitali (pp. 265, euro 20) appare quanto mai utile e attuale. Questa antica pratica, trasversale a tutte le culture, invita infatti l’essere umano a confrontarsi simbolicamente con ogni realtà, allo scopo di “trasformare il metallo vile della propria esperienza quotidiana nell’oro della riscoperta della propria identità più profonda” (Arrigo Rossi, p. 14).
In questa prospettiva, “l’oro è l’illuminazione che libera dalle tenebre dell’incoscienza, di cui si fa carico, per le sue intrinseche qualità, la materia prima, opaca, caotica, plumbea; sono infatti emozionalmente pesanti e inintelligibili i materiali psichici grezzi, non ancora lavorati dall’elaborazione analitica, che tende a estrarre da essi l’oro della presa di coscienza e il senso delle cose dalla scorsa dell’apparenza”
(Simona Massa Ope, p. 57) - viene in mente la funzione alfa di Bion. Ma non nell’ingenua illusione di poter cogliere la verità dietro l’apparenza, ma nella consapevolezza acquista che non può mai darsi un’unica interpretazione di una realtà viva e complessa e che il compito della ricerca consiste piuttosto nell’esercitarsi nella moltiplicazione di prospettive di senso, come accade in sogno e come insegna, sotto ogni aspetto, l’irriducibile paradossalità ed eccedenza di significato di ogni simbolo.
Ed è proprio per questa sua straordinaria “riserva immaginale di intuizioni psichiche che, nella loro paradossalità, sono capaci di abbracciare la pienezza della vita in contrapposizione all’univocità, segno di debolezza e limitazione,” (ibid., p. 16) che gli autori scorgono nell’alchimia un’opportunità preziosa per esercitare un’ermeneutica simbolica che si rivela un esercizio dialettico, non solo con il testo, ma con se stessi e in particolare con quella “alterità che è in noi” che chiamiamo inconscio.
Particolarmente interessante risulta in questo senso la rilettura che Stefano Carta offre della fase alchemica della nigredo, come stadio psicologico di profonda sofferenza e angoscia che può preludere, “deo concedente”, a una rinascita psichica che, tuttavia, non è guadagnata per sottrazione dal negativo ma, piuttosto, attraverso la sua integrazione nel rinvenimento del senso tragico dell’esistenza, nel significato nietzschiano del termine.
Contro “l’aberrazione del moderno DSM-V” che persegue l’ideale di una “cura a ogni costo della depressione” (p.68), l’alchimia vede nella nigredo una fase certamente dolorosa ma straordinariamente feconda che può corrispondere “allo stato in cui l’esperienza della vita unilateralmente affogata e imprigionata nel suo aspetto materiale (l’esperienza, come si pontifica oggi: evidence based, fondata e crocifissa sui presunti fatti oggettivi, o l’illusione dell’io di bastare e di coincidere con se stesso) coglie l’insensatezza, l’illusorietà e la limitatezza della propria condizione e, acquisendo coscienza di sé, trova compimento nella realizzazione trascendentale della natura spirituale del corpo e corporea dello spirito, o della realtà per la quale ciò che è eterno si realizzerà nel tempo” (p. 89). Un processo che, tuttavia, non si compie da sé né ma richiede la personale presa in carico del soggetto, la sua messa in opera nel travaglio dello spirito, che può aprire le porte a una trasformazione nel segno di un nuovo stile di vita, più consapevole e meno identificato con l’io e i suoi attaccamenti.
Una rinascita potenzialmente caratterizzata da valori nuovi, nella quale la gratitudine per la vita appare facilitata dal superamento dell’apparente cosalità e materialità della realtà. Quando, e se, questo avviene, si perviene allora alla fase alchemica dell’albedo, della quale si occupa il contributo di Simona Massa Ope, tutto giocato sull’analogia con la poetica della parola “che attraversa e interrompe l’opacità delle cose” con la “sua bianca luce metaforica”.
Come l’alchimia la parola poetica “esprime il mistero senza dissiparlo” e stimola in noi una diversa forma di pensiero che “non è opera dell’intelletto ma dell’anima” (pp. 129-130). Le sue metafore vive svolgono una funzione analoga ai simboli vivi di Jung, hanno cioè carattere psicagogico, trasformativo e indicano la strada per un’ermeneutica simbolica che eserciti, ancora una volta, “a sorvolare sul letteralismo dei territori” della psiche (p. 157). Lo sguardo simbolico, infatti, non dipende dagli oggetti ma dalla nostra capacità di osservarli, di immaginarli altrimenti, di coglierne altri significati possibili.
Quando ciò riesce si giunge a quella che, nel linguaggio alchemico, si definisce rubedo, la fase finale del processo caratterizzata non tanto dall’emersione di un materiale inconscio ma dal nostro modo di rapportarci ad esso.
Ce ne parla Mari Tibaldi che riprende alcune delle pagine più suggestive di Jung su “l’esperienza del compimento” intrecciandole alle sue personali esperienze nella stanza d’analisi e a più recenti studi di neurobiologia. La rubedo costituisce il compimento del processo come sintesi creativa delle due fasi precedenti quale sforzo consapevole, individuativo, estetico nel senso più profondo del termine, che mira alla totalità dell’essere umano e che coopera alle sorti del cosmo, di cui si riconosce espressione. Una completezza che Jung, come ci ricorda Tibaldi, differenzia totalmente dalla perfezione, non solo irraggiungibile ma persino sterile.
La realizzazione dell’oro filosofico alla quale la rubedo fa riferimento appare dunque come la possibilità di realizzare l’integrazione di sé con lo spirito vitale che abita tutte le cose e che ci trascende, aprendo anche alla pratica analitica nuovi scenari di senso.
Il più celebre esempio alchemico della nostra innata capacità di osservare simbolicamente ogni realtà è senza dubbio incarnato alla “pietra filosofale”, alla quale si dedica il saggio di Clementina Pavoni, che ha il merito di ricostruire la centralità di questo tema non solo nella teoria di Jung ma anche nella sua personale vicenda biografica. Le sue sculture, i suoi dipinti e i suoi sogni, ne sono una vivida testimonianza che ritorna costantemente nelle sue narrazioni. Appare evidente che “le pietre per Jung non sono rovine, ma materia viva e presente, elementi importante per creare e costruire” (p. 222), capaci di ridestare il bambino che era stato e le sue funzioni eto-poietiche, potremmo dire con Foucault. Quando Jung chiederà a Sabine Spilrein di “custodire la sua anima”, le consegnerà del resto un sasso che portava con sé dai tempi dell’infanzia. E fu per esercitare “una particolare professione di fede in pietra” che Jung eresse una torre nella casa di Bollingen, ed è proprio alla pietra, non meno che al libro rosso, che ritenne di dovere la sua rinascita, “l’autorealizzazione dell’inconscio”. (pp. 227-228).
Non dovrebbe stupirci che l’immagine del lapis costituisca per Jung la metafora viva del lavoro su di sé che anima la materia e incarna lo spirito: “la storia della nostra esistenza”, osserva Nicole Janigro, “è in fondo un racconto per immagini”. Il nostro essere soggetti visivi ci offre la possibilità, ben spiegata da Cristopher Bollas, di vivere “un’esperienza dell’essere e non della mente, radicata nel coinvolgimento totale del Sé e non oggettivata dal pensiero rappresentativo e astratto” (p. 234) in maniera analoga a quanto Jung sostiene di quella immaginazione poetica alla quale affida le più importanti intuizioni psichiche del lavoro analitico e, più in generale, su di sé.
Come Freud, osserva Janigro, anche Jung temette di essere troppo artista e troppo poco scienziato (quantomeno agli occhi di quanti chiedevano a questa nuova disciplina di accreditarsi nel mondo delle scienze positive). Ma specie il libro I tesori dell’inconscio. C. G. Jung e l’arte come terapia svela come il ricorso all’arte costituisse per Jung un metodo terapeutico grazie al quale invitava le sue analizzanti a esprimere le loro immaginazioni e a riconoscere il carattere non esclusivamente passivo delle immagini, che Jung aveva già sperimentato con la pratica dell’immaginazione attiva.
Analogamente con la produzione artistica, piena di simboli archetipici, il paziente crea le condizioni non solo per familiarizzare con il proprio mondo inconscio, ma apprende, per usare le parole dello stesso Jung, “a rendersi indipendente per auto-creazione, a non dipendere più dai suoi sogni o dal sapere del suo terapeutica” per apprendere che “nel dipingere per così dire sé stesso può plasmare se stesso, perché quel che dipinge è fantasia operante, che opera in lui”. (Jung, Pratica della psicoterapia, cit. a pag. 243). Una pratica terapeutica che Janigro assimila a Vita? o teatro? di Charlotte Salomon, ebrea berlinese che non conosceva Jung al quale tuttavia appare vicinissima per la sua capacità di “raccontare e rappresentare n una sistemazione armonica elementi personali e collettivi, intimi e storici, inconsci e archetipici” con “la struttura di un montaggio mito-biografico” (p. 245), rivelando quel punto di congiunzione tra l’arte e la vita che permette la fioritura e lo sprigionamento di entrambi.
Ecco perché un buon programma di alfabetizzazione simbolica può partire da questo libro collettaneo e dai molti stimoli che sa suscitare, non certo come dizionario alchemico e riserva di immagini simboliche ma come opportunità per familiarizzare con la nostra capacità di scorgere aspetti e potenzialità simboliche in ciò che esiste, questione fondamentale non solo per i singoli individui ma per la società e per l’avvento di quella che alcuni hanno chiamato una democrazia del profondo.
* Fonte: Doppiozero, 21 marzo 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
LA METAFORA NEL MITO E NELLA RELIGIONE E I PROLEGOMENI AD OGNI FUTURA METAFISICA CHE SI PRESENTERA’ COME SCIENZA.... *
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 marzo 2020).
“Come fuori, così dentro” si potrebbe riassumere così, parafrasando la celebre massima alchemica, la tesi dell’ultimo libro di Joseph Campbell, Le distese interiori del cosmo. La metafora nel mito e nella religione, Nottetempo, 2020. Si tratta di una raccolta di saggi che amplificano delle conferenze tenute tra il 1981 e il 1984 nello sforzo, consueto per Campbell, di illuminare la transculturalità, ossia gli elementi costanti, nonostante le variabili etnico-culturali, dei miti. Al cuore di ogni narrazione mitologica, che Campbell ha il merito indiscusso di mostrare ancora viva negli aspetti più comuni delle nostre culture, ci sono temi che Adolf Bastian (1826-1905) chiamava “idee elementari” e Carl Gustav Jung (1875-1961) “archetipi”; si tratta di cristallizzazioni di risposte millenarie che la fantasia e l’immaginazione delle diverse civiltà umane hanno elaborato per affrontare questioni esistenziali che le hanno profondamente interrogate. Naturalmente queste forme archetipiche variano a seconda delle idee etniche che una determinata cultura esprime, ma esiste tra di loro una dialettica che Campbell riassume così: “l’idea elementare è radicata nella psiche; l’idea etnica attraverso cui si manifesta è radicata nella geografia, nella storia e nella società” (p. 145); si accede al punto di vista del mito quando “nelle forme di un ambiente traspare la trascendenza” (p. 28).
Il suo lavoro più celebre sull’universalità del mito è sicuramente quello relativo a L’eroe dai mille volti (1949, tr. it. Lindau, Torino, 2012) figura che, nelle più disparate e diversificate espressioni culturali, lontanissime tra loro nello spazio e nel tempo, passa comunque sempre attraverso i seguenti snodi esistenziali: una nascita misteriosa, una relazione complicata con il padre, ad un certo momento della sua vita sente l’esigenza di ritirarsi dalla società e, in questa condizione, apprende una lezione, o elabora un sapere, che orienterà diversamente la sua vita, poi ritorna alla società per mettere al suo servizio la lezione che ha appreso, molte volte (ma non necessariamente) grazie ad un’arma che solo lui può usare.
In questo libro, invece, l’attenzione si rivolge alle diverse cosmologie e ai miti soteriologici elaborati nel corso dei millenni dalle differenti culture che si sono susseguite, e affiancate, nel nostro pianeta, comprese le attuali, e si organizza intorno alla felice intuizione kantiana che spazio e tempo siano categorie interiori della psiche che vengono applicate alla realtà esterna. Citando Novalis Campbell scrive: “La sede dell’anima è laddove il mondo esterno e il mondo interno s’incontrano”, e aggiunge, “è questo il paese delle meraviglie del mito” (p. 43).
Non si equivochi: il paese delle meraviglie, non è un mondo fantastico, illusorio, ma lo spazio nel quale apprendere a ridestare la meraviglia, ad attivare l’intero psichismo dell’uomo, a sviluppare una particolare capacità di attenzione che, facilitata dalla forma narrativa del mito, insegna ad aprirsi alla trascendenza, ossia all’eccedenza di senso e significato che incarna ogni simbolo, mai riducibile a una perfetta equazione con quanto rappresenterebbe.
Ed è qui che Campbell ci regala una delle sue pagine più interessanti:
Mi sembra un esempio realmente illuminante per comprendere il senso di ogni comparazione e di ogni ermeneutica simbolica. Lo ha spiegato bene Jung: il simbolo, centrale in ogni mito, non rimanda a una realtà significata, è esso stesso realtà operante, costituisce la specifica capacità umana di “orientare la coscienza verso ulteriori possibilità di senso”, poiché non è mai del tutto riconducibile ad un significato univoco e definitivo; per questo non può essere ridotto alla semiotica perché la sua funzione è piuttosto psicagogica, vale cioè per gli effetti che produce nella psiche, per le energie, le immagini, le interpretazioni, i processi psichici che sa evocare, promuovere, mettere in gioco (C. G. Jung, Tipi psicologici, 1921; tr. it. Bollati Boringhieri, 1977 e sgg, p. 527). Ecco perché il ricorso a Kant, a quell’x che resta inconoscibile e che apre alla metafisica, a ciò che trascende ogni possibilità di possesso e de-finizione del senso ultimo, appare particolarmente pertinente.
I rapporti che vengono suggestivamente indagati da Campbell, dicevamo, sono quelli che comparano lo spazio interiore e quello esteriore, secondo la celebre analogia tra macrocosmo e microcosmo:
Attraverso un nutrito numero di calcoli e dati ricavati dagli studi di astronomia, i calendari ideati dalle diverse culture a partire dagli antichi babilonesi, le fonti bibliche, le arcaiche Upanisad induiste e i più remoti testi taoisti, Campbell giunge ad analizzare suggestivi - per un certo tipo di lettore - consonanze tra i cicli biologici del sistema solare (macrocosmo) e quelli dell’individuo (microcosmo). Ma non mi sembra questo il punto cruciale dei suoi sforzi, che consiste piuttosto nel promuovere una diversa prospettiva sul mondo e sulla vita, non più incentrata sulle nostre idee etniche, sui limiti delle nostre culture, ma aperta al riconoscimento di un’unica realtà “il cui centro è ovunque”, della quale dovremmo finalmente farci carico in maniera universale (si pensi agli assurdi sforzi dei singoli stati, in questi difficili giorni, di arginare il coronavirus secondo strategie nazionali, anziché comprenderne la portata globale che richiederebbe interventi condivisi, in tutti i sensi, su scala mondiale e non, addirittura, regionale - per non parlare delle differenti valutazioni a seconda delle fasce di età).
Dopo aver preso in esame i miti cosmologici e soteriologici delle diverse religioni delle nostre principali culture, Campbell giunge a questa conclusione:
Il pensiero mitologico, quando non viene letteralizzato, promuove dunque un’apertura alla transculturalità, alla trascendenza di ogni appartenenza storico-culturale e si propone, in maniera apparentemente contro intuitiva, come strumento di laicità. Qui incontra l’arte, per la sua capacità di trasformare la coscienza e la visione abitudinarie della realtà in favore di un punto di vista nel quale, “la mente viene fermata e innalzata al di sopra del desiderio e dell’odio”; sono parole di Joyce che Campbell fa sue e che trova affini all’esperienza ascetica che dovette compiere il Buddha prima di raggiungere l’illuminazione: vincere i tre demoni del desiderio (Kāma), della paura della morte (Māra) e l’identificazione con i vincoli sociali (Dharma), per accedere a una condizione che li sappia trascendere (pp. 201-201).
Un percorso e un’opportunità che, in chiave individuativa, sono poste al centro del lavoro di Giovanna Morelli nel suo Poetica dell’incarnazione. Prospettive mitobiografiche nell’analisi filosofica (Mimesis, 2020). In questo libro - uscito per la collana di Mimesis “Philo-pratiche filosofiche” curata da Claudia Baracchi - l’arte appare lo sfondo dal quale può emergere una rappresentazione mitobiografica della vita di ciascuno di noi, ossia, secondo la lezione di Ernst Bernhard, il modo di riconoscere come ogni singola esistenza si apra, o meglio si riconosca, in alcuni mitologemi (singoli aspetti di un mito) che si prestano a leggerne alcune gesta. Lo sguardo mitobiografico con il quale Morelli invita a osservare la vita, a partire dal racconto della propria, permette di “scoprire e amare l’universale attraverso il particolare, preservando entrambe le dimensioni”, di “narrare la propria vita secondo il disegno di senso che la illumina, la magnifica, la collega a figure universali e pertanto la rende epica, emblematica” (p. 127).
L’arte che indaga l’analista filosofo è dunque quella incarnata, ossia, consapevole che la vita di ciascuno di noi accede al simbolico grazie e attraverso quelle che James Hillman chiamava “metafore radicali” offerte dall’inconscio collettivo, ossia le strutture percettive, gli archetipi, che organizzano l’esperienza umana come già da sempre sovrapersonale.
Lo specifico di ogni vicenda biografica non viene meno se riconosce nel suo sviluppo echi, modalità e variazioni di temi ricorrenti nella storia dell’umanità - di cui la psiche mantiene una traccia in forma, appunto, archetipica - ma procede al contrario verso la sua individuazione, la possibilità di autenticare in modo esclusivo la propria esistenza, “se comunica con se stessa alle più diverse latitudini spazio-temporali, attraverso le tante narrazioni-quadro che si sono avvicendate nella storia” (pp. 38-39).
L’arte è qui poiesis, anzi, mitopoiesi e la vita, vista dall’osservatorio privilegiato della stanza d’analisi, ne costituisce il principale teatro (Giovanna Morelli è anche regista d’opera e critica teatrale), lo spazio in cui s’incontrano e si scontrano le nostre maschere sociali e i nostri doppi impresentabili, ma anche dove si facilita una più profonda espressione di sé che, in una vicenda personale, sa scorgere tracce di qualcosa di universale - il che, osserva Jung, è già di per sé terapeutico:
Un’operazione che, in modo diverso, sia Campbell che Morelli, ci invitano a fare per riconoscere nei miti la via maestra alla coltivazione di quella trascendenza che non rimanda a mondi altri e paralleli ma anima l’immanenza, qui ed ora, da sempre.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DAL "CHE COSA" AL "CHI" : NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
Meditare la vita
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 Febbraio 2019)
Nonostante sia “mushotoku” ossia, secondo la definizione Zen, senza scopo né spirito di profitto, si parla spesso della meditazione a partire dai (molti) benefici psicofisici che è in grado di produrre in chi vi si dedica con una certa continuità; tuttavia tale approccio rischia di tradire il senso originario e decisamente più profondo di questa pratica che, come spiega con una prosa ispiratissima e a tratti poetica Chandra Livia Candiani, consiste piuttosto nel fare i conti con se stessi per provare, e non necessariamente imparare, a stare con quel che c’è:
Si tratta di un passo molto denso, sul quale vale la pena di meditare, che prende immediatamente le distanze da un uso strumentale della meditazione che è piuttosto presentata come un vero e proprio stile di vita, una postura grazie alla quale, zittendo il brusio del pensiero e delle sue rendicontazioni, ripristinare una certa intimità con il mondo.
Meditare, come scriveva infatti María Zambrano, “è riconquistare il sentire originario delle cose, del paesaggio, della gente, degli uomini e dei popoli, il sentire della realtà immediata che apre la realtà del mondo” (Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 87).
Non si pensi che questo significhi accedere a una dimensione straordinaria: si tratta piuttosto di apprendere a prestare attenzione a quelli che Chandra chiama “i miracoli del noto, del così già tanto visto che lo si dà per scontato.” Riuscendo a fare “spazio intorno a quei gesti tanto ordinari”, la meditazione “li fa brillare e permette che aprano un varco nell’oscurità in cui si solito viviamo, nel nostro quotidiano sonno. Allora pian piano si ricevono le visite di quella consapevolezza” (p. 19) che si rivela una “forma di amore” (p. 40), una premura e un’attenzione realmente maieutiche perché capaci di facilitare la fioritura di ciò di cui si prendono amorevolmente cura, rivelandosi capaci, prosegue idealmente Zambrano, di chiamarle “non solo a rivelarsi, ma a divenire, a divenire presenti» (M. Zambrano, L’uomo e il divino, Ed. Il lavoro, Roma, 2009, p. 246), a farsi vive, direbbe, altrove, Chandra.
Che vuol dire che questa particolare forma di «intimità» con ciò che accade, in noi e fuori di noi, è «impersonale»? Significa che essa non pone più l’io al centro della propria narrazione ma il Sé, ossia, come spiegava Jung, qualcosa che “anche noi siamo”. L’esperienza che ne consegue non è affatto spersonalizzante, essa chiama anzi in causa l’intero psichismo dell’individuo, ma si dà in virtù di quella che la psicoanalista Marion Milner definiva “una resa creativa” dell’ego, (M. Milner, Una vita tutta per sé, Moretti &Vitali, 2013, pp. 207, 12 euro) grazie alla quale il soggetto smette di girare attorno al proprio ombellico, a parlare sempre di sé, per provare piuttosto a essere davvero presente a sé e a osservarsi. Scrive Chandra:
Una forma di meditazione zen invita a prendere coscienza dei propri pensieri e stati d’animo, a riconoscerli con chiarezza, a etichettarli con una definizione chiara (ad esempio “ansia”) e poi a dirsi, mentalmente, “non io”. Non siamo di fronte ad un invito alla negazione, tutt’altro, bisogna avere piena coscienza degli stati d’animo che ci attraversano, ma occorre imparare a non identificarsi con essi, ad esercitare quello che il buddismo chiama, “non attaccamento”. Questa capacità che “consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto”, spiega Simone Weil, si chiama “attenzione” (Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, 2008, pp. 197) che a sua volta - come Chandra la consapevolezza e Zambrano il sapere filosofico - considera una forma d’amore.
Allo stesso modo, il pensiero non è affatto svilito nelle sue funzioni, al contrario; proprio perché non ha coperto le emozioni, sostituendosi ad esse, può rielaborarle e contribuire a chiarirne il senso, il significato, la portata, dando vita a quello che lo psicoanalista Thomas H. Ogden chiama “pensiero trasformativo”. Siamo di fronte ad un pensiero che segna “il passaggio da una mentalità basata sull’evacuazione dell’esperienza emotiva disturbante, non mentalizzata, a una mentalità in cui si prova a sognare/pensare la propria esperienza e, più avanti, il passaggio dalla conoscenza della realtà della propria esperienza, al divenire la verità della propria esperienza” (Thomas H. Ogden, Vite non vissute. Esperienza in psicoanalisi, Raffaello Cortina editore, 2016, p. 27).
Si capisce qui come quella sospensione del pensiero come atteggiamento giudicante o anche solo intellettualizzante che Chandra scorge al centro della meditazione e che, ancora una volta sotto altre forme, sta anche al cuore dell’analisi (“prego astenersi da giudizi” a vantaggio delle “libere associazioni”), non abbia nulla a che vedere con la condanna del pensiero, ma costituisca piuttosto un metodo per valorizzarlo appieno, imparando innanzitutto a prendere posizione sulle sue prese di posizione, permettendoci di comprendere come, spesso, gli schemi abituali attraverso i quali organizza la nostra esperienza non siano gli unici possibili.
Per questa ragione, lo psicoanalista Christopher Bollas si spinge ad affermare che “la psicoanalisi è una forma speciale di pratica meditativa che permette agli assiomi del sé di emergere” (C. Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, 2013, p. 106). Nonostante si tratti di due percorsi di consapevolezza evidentemente differenti, è possibile scorgere tra loro alcune suggestive analogie che vorrei qui indicare: entrambi invitano a liberarsi dalle idealizzazioni per imparare ad essere se stessi e a stare con quel che (si) è, cosicché ciò che Chandra dice dell’esperienza della meditazione, vale senz’altro anche per quella della psicoanalisi: “non mi chiede di essere esemplare, non mi chiede di essere eroica, non mi chiede di tendere a niente di ideale, non cancella, non acuisce, sta. Con me. [mi permette di] Imparare a stare” (p. 4).
Non solo, dunque, non si tratta di percorsi per uscire dalla condizione che ci preoccupa ma, semmai, per imparare, come direbbe Hegel, “a soggiornarci, a guardarla faccia in ogni suo farsi,” (G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Bompiani, Torino, 2000, p. 87.) al tempo stesso non per accettarla e rassegnarsi ad essa ma, come spiega bene Chandra, per accoglierla (p.75) e solo dopo averla accolta, poterla rielaborare, sino a cambiarle di segno e di significato.
Certo è possibile che si abbia l’impressione che simili svolte, le stesse che sottolinea Ogden, avvengano all’improvviso, come a seguito di un insight particolarmente fecondo; tuttavia esse sono piuttosto il frutto di una pratica costante che nel tempo ci ha esercitato a stare, ad ascoltare, a comprendere e poi, grazie a questi passi, a concepire e vivere diversamente, ciò che ci faceva problema; non solo a inquadrarlo da un altro punto di vista, ma anche a porci diversamente rispetto ad esso.
Ma non si tratta di scoprire una verità profonda sull’esistenza, che si svela dietro le apparenze che la nascondevano, quanto, piuttosto, di sviluppare la possibilità di sperimentare, concepire e poi restare fedele, a una diversa maniera di vivere, di sentire, di concepire se stessi, il mondo e l’esistenza tutta. Una fedeltà che sarà stimolata da un senso di consonanza con ciò che nell’esercizio di queste pratiche sarà stato percepito come maggiormente autentico e significativo rispetto ai precedenti e abituali schemi di recettività e di elaborazione dei nostri pensieri e delle nostre emozioni.
L’irriducibilità di questo processo a uno schema impersonale - nel senso, questa volta, di valido per tutti, indipendentemente dalle specificità di ciascuno -, sottolinea come tanto la meditazione, quanto la psicoanalisi nelle sue diverse forme, non siano tecniche ma arti (Chandra, p. 59): le prime indicano procedure valide in se stesse che, se correttamente applicate, conducono necessariamente a risultati prevedibili e già testati, le seconde sono invece attività che coinvolgono l’intero psichismo dell’individuo e non possono verificarsi che secondo i suoi personali talenti, ossia le peculiarità di ciascuno, assumendo una piega e uno sviluppo mai del tutto prevedibili a priori e sempre, in qualche modo, unici. Mentre le tecniche richiedono di compiere atti oggettivi, le arti chiamano in causa comportamenti soggettivi nei quali gli individui non sono semplici esecutori di procedure ma interpreti, proprio come lo si può affermare di un artista del quale si dice che ha dato prova di una straordinaria interpretazione, frutto non solo del suo sapere ma, non di meno, della sua personalità e del suo percorso di vita.
Per questo entrambe, da ultimo, restano depotenziate se confinate in una o due ore a settimana nelle loro reciproche stanze di riferimento e compiono davvero la loro missione solo se il soggetto assume su di sé la responsabilità di estenderne l’esperienza alla vita di tutti i giorni. Scrive Chandra:
Che cosa c’è di male a sviluppare una vita un po’ più quieta e a incentrarla sull’io, vi chiederete? Niente in sé, ma non è per questo che nascono sia la meditazione che la psicoanalisi; entrambe, nel solco della filosofia antica, mirano piuttosto alla piena fioritura delle nostre potenzialità, che non significa diventare straordinari ma divenire, appieno, se stessi, compiendo quello che Jung chiamava il processo di individuazione. E non è forse delle possibilità di quel tanto vituperato io che comunque si parla in questo processo, non è lui che deve diventare se stesso? potreste chiedervi. No, spiega Jung, il soggetto di questo processo deve essere il Sé, centro della personalità non solo conscio e pienamente consapevole di non essere il padrone di casa, per citare Freud.
In gioco, come intende sottolineare il titolo di questo articolo che mi accingo a concludere, non c’è l’io ma la vita. Meditare sulla vita permette di meditare anche sull’io, meditare sull’io rischia di non dischiudere mai le questioni della vita. Ma soprattutto chiunque meditasse a fondo sulla propria condizione esistenziale finirebbe per comprendere, per dirlo con le fulminanti parole del filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag, che “la mia vita non sono io” (M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 120), che, semmai, ne faccio parte.
Etnologia.
Archetipi, il senso intimo dell’umanità
In un convegno i motivi che hanno reso simile il linguaggio simbolico in regioni e culture lontane: la spiegazione è nel patrimonio genetico e psichico che rende gli uomini uguali a ogni latitudine
di Lucia Bellaspiga (Avvenire, mercoledì 25 luglio 2018)
Come può accadere che il simbolo della svastica si trovi inciso in modo identico sulle rocce preistoriche della Valcamonica come in Scandinavia, in Mongolia come in America? Perché dall’India all’antico Egitto, dal Nord Europa al Sud dell’Africa l’uomo ha rappresentato migliaia di volte, ad esempio, lo stesso simbolo di due impronte di piede umano? Come si spiega che in Israele o nel Tibet e in Yemen le scene di caccia rituale ripropongano particolari così simili da sembrare l’opera di una stessa mano, a secoli di distanza? Insomma, per quale mistero popoli che mai si incontrarono ripeterono le stesse figurazioni e gli stessi miti?
Forse esistono formule universali comuni a tutti gli uomini, insite nel subconscio e pronte a riemergere in zone ed epoche diverse: archeologi, biologi, studiosi delle religioni, antropologi, linguisti, paletnologi, medici e filosofi ne sono certi, e si sono confrontati giorni fa a Bergamo in un convegno organizzato da Dipartimento Valcamonica e A.l.a. intitolato ’La danza degli archetipi. Alle radici del linguaggio simbolico’, partendo dalle diverse discipline per dimostrare la stessa cosa: l’essere uomo appartiene tutto a una sola specie, al di là delle differenze esteriori abbiamo tutti un patrimonio genetico sostanzialmente identico, una sola struttura fisica e psichica, e prima o poi tutto questo origina pensieri e visioni misteriosamente uguali negli angoli più lontani del pianeta.
Niente di nuovo, la teoria degli archetipi (formule primordiali, da arché = principio, typos = forma, immagine) fu elaborata all’inizio del ’900 dallo psicanalista Carl Gustav Jung, secondo il quale l’inconscio collettivo porta in sé immagini primordiali di comportamenti provenienti da una matrice comune a tutti i popoli, senza distinzioni di tempo né di luogo.
«Ma la nostra sfida è importare la teoria di Jung dall’ambito psicologico a quello dell’arte», spiega Umberto Sansoni, direttore del Dipartimento Valcamonica del Centro camuno di studi preistorici. «In epoca di esasperato settorialismo, argomenti di questa portata oggi vengono analizzati secondo visioni ristrette - continua Sansoni -. Ma il linguaggio simbolico dell’Homo sapiens ha bisogno di un approccio multidisciplinare: come in medicina nessuno specialista è in grado di valutare l’organismo nel suo insieme, così nessuna disciplina da sola può spiegare il meraviglioso patrimonio espressivo che noi Sapiens ci portiamo dentro».
Per Emmanuel Anati, paletnologo di fama mondiale, fondatore del Centro camuno di studi preistorici e scopritore della gran parte delle incisioni preistoriche in Valcamonica, già l’arte paleolitica è un’associazione logica di simboli che seguono le stesse strutture del linguaggio e costituisce quindi una ’pre-scrittura’, alla base del sistema cognitivo comune a tutta la specie Homo sapiens.
«Secondo i testi scolastici la scrittura si è sviluppata 5.000 anni fa in Mesopotamia o in Egitto - sostiene Anati -, ma simili processi si sono verificati, in tempi diversi, anche in Cina o in Messico, ogni volta per la necessità di avere strumenti standard di comunicazione: è nata quindi in diversi continenti e tempi, ma da premesse comuni». Molto prima della scrittura formalizzata, però, alcune scene incise su osso nel Paleolitico in tutta l’area franco-cantabrica mettono già in sequenza una serie di ideogrammi allo scopo di narrare migrazioni e miti. I simboli usati in questa ’scrittura’ (teste di cavallo, segni astratti, personaggi con lo stesso bastone sulla spalla sempre a indicare il viandante...) si ripetono identici e ci riportano «memorie di esodi ancora leggibili dopo 20.000 anni senza neppure conoscere la lingua che lo scriba parlava».
Gli archetipi lasciano traccia sulla roccia, sulle ceramiche, nei miti, nella memoria dei popoli, «e quindi anche nei riti che ne derivano », aggiunge l’antropologo Giovanni Kezich, che nelle ’mascherate invernali’ celebrate tuttora in Europa ha riscoperto millenarie radici comuni: «In Austria la mascherata dei ’Trebbiatori’ mima riti della fertilità rimasti inalterati dal Neolitico.
Ricordiamoci che proprio un’aia di trebbiatura era il luogo in cui nacque il tempio di Gerusalemme. E nelle ’mascherate’ danzano coppie di animali predatore/predato, in particolare stambecchi e lupi, gli stessi che Federico Mailland trova a migliaia di chilometri nell’Età del bronzo». Mailland, medico, condirettore della missione di ricerca italiana ad Har Karkom nel deserto nel Negev in Israele, snocciola infatti una stupefacente serie di similitudini in centinaia di ’scene di caccia’ rituali ripetute dall’inizio dell’età dei metalli fino all’alba del cristianesimo, nel Vicino Oriente e in tutta l’Asia centrale: «Har Karkom secondo Anati è il monte della Rivelazione di Dio a Mosé. Ma molto prima, nel IV millennio, in quel deserto veniva rappresentato in modo quasi ossessivo il culto al dio Luna, ogni volta legato ai simboli della fertilità e quindi della pioggia, lì così preziosa». Sui vasi del 4.000 a.C. ritrovati a Susa (Iran), nei manufatti scoperti in Tibet, sulle rocce del Pakistan e dell’Afghanistan, giù fino allo Yemen, così come in Armenia, ci sono scene assolutamente comparabili, «tutte con la luna calante associata alla caccia mitica del cane allo stambecco». Ancora nel secolo scorso, pur senza più ricordarne le origini, in Yemen si celebrava per giorni lo stesso rito pagano e all’antropologo che ne chiedeva spiegazione lo sciamano rispose: «Altrimenti non pioverebbe».
L’impronta psichica di Jung riemerge nella spiegazione che Pier Luigi Bolmida, specialista in psicologia clinica all’università di Paris V, dà invece delle cosiddette figure ’grandimani’, presenti in molte epoche e latitudini: simbolo di potenza e protezione benefica, archetipo per eccellenza, sono nell’inconscio di ogni uomo «perché il neonato come prima cosa vede le mani della madre, e le vede enormi».
Tra tutti, si discosta in parte Gabriella Brusa Zappellini, paletnologa, che per spiegare il «linguaggio profondamente unitario in almeno 30 mila anni di preistoria» accoglie la teoria degli archetipi solo quando di sicuro non ci sono stati contatti tra i popoli, ma in molti altri casi ritiene più semplicemente che «l’origine dei simboli ricorrenti sia nel diffusionismo: per decine di millenni siamo rimasti in Africa, e quando nel Paleolitico è partita da lì la nostra diaspora ci siamo portati dietro la caccia, la raccolta, ma anche le matrici di una visione unitaria del mondo». Poi, nel Neolitico, la globalizzazione dei simboli sarebbe passata attraverso le tante vie mercantili (dell’ambra, dell’ossidiana...) sulle quali «viaggiavano materiali e tecniche, ma anche riti e immagini, per cui troviamo decori identici in Cina e in Occidente».
Certo però - conclude Sansoni - il diffusionismo non spiega che cosa ci fa un ’nodo di Salomone’ in Sud America o un labirinto di tipo cretese in Canada, «simboli nati di sicuro autonomamente in loco, non da contatti tra popoli troppo lontani nel tempo e nello spazio»: lampante il paragone che Sansoni traccia tra «l’archetipo e le cellule staminali embrionali, quelle che ancora non sono programmate, ma portano in sé la possibilità innata di svilupparsi in mille forme».
Insomma, ancora nel 2018 noi Sapiens moderni abbiamo nel nostro bagaglio un patrimonio che è pronto a mani-festarsi, nemmeno noi sappiamo più da quale profondità. Esempio per eccellenza, il ’nodo di Salomone’, che «a livello planetario ha sempre rappresentato il legame indissolubile e benefico tra gli opposti (uomo e Dio, corpo e spirito, terra e cielo) ed è stato così nel III millennio a Susa, nell’Indocina del VII millennio, nelle abbazie cistercensi medievali, nei mosaici paleocristiani, tra i crociati e nel mondo islamico ed ebraico, dipinto da Giotto nelle aureole della Madonna e scolpito in capitelli, cripte e altari». Fino a oggi: scelto nei Paesi del Nord Europa per indicare sulle cartine le località culturali, dalla Apple per identificare il ’tasto di comando’, nei loghi delle banche di credito cooperativo e della Cgil... Tutti ignari, probabilmente, di aver attinto alle radici più profonde della nostra umanità.
Sabina Spielrein
di Nicole Janigro (Doppiozero, 01 marzo 2018)
Sabina Spielrein è una delle irregolari, rappresenta il lato in ombra della storia della psicoanalisi che da una parte accompagna la liberazione femminile, dall’altra tende a conservare la legge del primato e della complicità maschile. Il suo destino è segnato dall’essere donna, ebrea e russa. E proprio tutto questo rende così interessante inseguire, quasi stessimo nella trama di un giallo, la passione di Sabina. Cancellata, dimenticata, Sabina Spielrein (1885-1942) era solo una nota a piè di pagina nelle opere di Freud e di Jung. Poi è stata casualmente ritrovata nei sotterranei del Palais Wilson a Ginevra dove, prima di tornare in Russia, aveva lasciato i suoi documenti, lo scambio di lettere con Jung e Freud e pagine del suo diario.
Così, con il Diario di una segreta simmetria di Aldo Carotenuto, del 1980, Sabina è diventata la protagonista di un intrigo vertiginoso che condensa l’avventura delle origini della psicoanalisi, la Grande guerra, la rivoluzione sovietica e l’olocausto.
Un personaggio quasi letterario, cinematografico attraverso il film Prendimi l’anima, ricostruito attraverso i carteggi raccolti da Kerr in Un metodo molto pericoloso nella pellicola A Dangerous Method, con un’intensa Keira Knightley, storicamente determinato nel bellissimo documentario Ich hiess Sabina Spielrein di Elisabeth Màrton, come se la sua figura, in analogia a tante vicende del primo secolo di vita della psicoanalisi, potesse essere meglio narrata dalla struttura del romanzo.
Sabina Spielrein. Una pioniera dimenticata della psicoanalisi, curato da Coline Covington e Barbara Wharton, è il testo che permette al lettore di conoscere la doppia vita di Sabina. La vita vissuta attraverso pagine di diario, cartelle cliniche che segnano il suo ricovero al Burghölzli, scritti finora inediti e lettere (per la prima volta la versione integrale in italiano anche delle lettere di Jung).
Arriva al Burghölzli nel 1904 con una diagnosi di isteria e trova a Zurigo la guarigione, Jung, ma anche la possibilità di studiare medicina che in patria le era preclusa. L’incontro tra Sabina e Jung sarà l’occasione della prima lettera di Jung a Freud, produrrà l’incontro tra Sabina e Freud, mentre il distacco tra Sabina e Jung scorre in contemporanea al distacco tra il maestro ebreo di Vienna e l’allievo ariano di Zurigo. Un plot dove le dinamiche esistenziali del loro triangolo si mescolano alle conquiste teoriche: isteria, talking cure, traslazione. È il primo caso al quale Jung applica il metodo freudiano, è il caso per il quale chiederà aiuto a Freud, e Freud parlerà per la prima volta di controtransfert, dopo aver messo in guardia Jung da “la felicità perfetta sotto mentite spoglie”. È il qui e ora della relazione tra la paziente e il suo medico, quello che affascina della lettura epistolare. E la cosiddetta controtraslazione, non considerata più un ostacolo ma il mezzo più potente della trasformazione analitica, quel Leitmotiv che oggi unisce le psicologie del profondo, agita ancora i sogni e le coscienze degli analisti.
Sabina Spielrein è il successo di Jung, “il mio caso da manuale”. L’esperienza con questa giovane donna russa lo porterà molto vicino a un’idea di cura come “un’esperienza emotiva correttiva”, quel nuovo complesso che deve liberare un io non abbastanza forte dal dominio del complesso morboso. Ma è anche la sua fatica - non a caso nelle lettere Jung la accomuna a Otto Gross: “in tutta questa faccenda anche le idee di Gross mi hanno occupato un po’ troppo il cervello. (...) Gross e la Spielrein sono amare esperienze. Non ho dato tanta amicizia a nessuno dei miei pazienti, e con nessuno ho mietuto tanto dolore” (lettera a Freud del 4/6/1909).
Entrambi gli permettono di legittimare il suo bisogno d’amore - Sabina nel suo fare Anima, Gross con la sua teoria antimonogamica. Affinità elettive e competizione per chi ha pensato prima un’idea si confondono, sono i “misteriosi parallelismi”, è il concetto di pulsione di morte che Freud deve anche all’originale testo di Sabina, La distruzione come causa del divenire (1912). E lei tiene testa anche teoricamente a Jung e Freud: L’origine delle parole infantili papà e mamma (1922) stimola riflessioni sulle stratificazioni linguistiche, sulle due forme del pensare e sul piacere stesso della parola in analisi. Rimarrà fedele al suo sentimento per Jung, conserverà quell’intelligenza del cuore capace di quel e-e che la condurrà a cercare di riconciliare i due ex amici.
Risucchiata dalla storia collettiva della seconda guerra mondiale, la sua morte avvenne in circostanze rimaste a lungo sconosciute. Ma Sabina lascia a Ginevra tracce che sfuggiranno alla cancellazione nazista e comunista: la vita ritrovata interrompe un lungo oblio. E il testo Sabina Spielrein. Una pioniera dimenticata della psicoanalisi presenta numerosi interventi di analisti e studiosi che offrono diversi punti di vista sul significato della sua figura e in particolare sul casus belli: quando Sabina parla della poesia che passa tra lei e Jung allude al sentimento d’amore o all’atto?
Alla fine tornerà in Unione Sovietica dove seguirà la sua vocazione fino al sacrificio. Nell’estate del 1942 morirà, insieme alle due figlie, a Rostov, in un massacro nazista che fece ventottomila vittime.
A ventun’anni, prima di lasciare la clinica, aveva affidato al suo medico le ultime volontà: «Il corpo dovrà essere cremato. Nessuno potrà assistervi. Divida le ceneri in tre parti. Metta una parte in un’urna e la mandi a casa mia. Sparga la seconda parte sulla terra del nostro campo più grande. Lì pianti una quercia con la scritta: “Anch’io fui una volta un essere umano. Il mio nome era Sabina Spielrein”. Mio fratello Le dirà che cosa fare con la terza parte».
Jung contro Einstein
Meglio il Dio che gioca a dadi
Affascinato dalle coincidenze, lo psicanalista contestava il principio di causalità e alla Teoria della relatività preferiva la Meccanica quantistica di Pauli. Una lettera del 1954
di Fabio Sindici (La Stampa, 18.02.2018)
«Non so se è vero che il signor Einstein abbia detto che non può credere che Dio giocasse ai dadi quando ha creato il mondo, ma se è così, non ha realizzato che l’alternativa è che Dio ha creato una macchina». Regala una battuta carica di provocazioni elettriche Carl Gustav Jung in una lettera inedita del marzo 1954 (in vendita ora presso la libreria antiquaria L’Autographe di Ginevra), indirizzata al giornalista scientifico Henri Corbière. Il patriarca della psicologia del profondo si schermisce nella riga successiva, assicurando che questa sua considerazione non è poi particolarmente importante. Ma certo non lo pensava.
La ricerca di un passaggio segreto tra le rivoluzionarie prospettive nel campo della fisica teorica e l’indagine nei labirinti della psiche era una sua speciale ossessione da più di quarant’anni. Jung scrive in risposta ad alcune domande di Corbière riguardo alla sua opinione sulla Teoria della relatività di Einstein. Il suo corrispondente era autore di un omaggio al grande fisico e aveva lavorato a un saggio sull’avvenire della scienza con un approccio trans-disciplinare, cercando punti di contatto tra le diverse regioni del sapere e con questionari inviati a celebrità «sapienti» e premi Nobel.
L’idea dello spazio curvo
Jung era sempre stato attratto dalle porte che si schiudono tra filosofia e psicologia, arte e scienza. Aveva amato Nietzsche e Schopenhauer. Aveva conosciuto Albert Einstein in una serie di cene a Zurigo, tra il 1909 e il 1912, in cui lo scienziato aveva illustrato i fondamenti della relatività corredati da formule matematiche e una nuova idea sul rapporto tra spazio e tempo. È proprio questo a ispirare Jung: «Ho avuto la grande opportunità di discutere con lui [Einstein, ndr] le origini della sua Teoria della relatività. Dal momento che non sono né un fisico né un matematico, non ho potuto seguire l’evoluzione della parte matematica che mi sembra troppo difficile da capire» scrive nella missiva a Corbière.
Lo intriga però l’idea dello spazio curvo, del tempo come dimensione, di un nesso di non causalità tra due avvenimenti apparentemente slegati. «Il sincronismo è il pregiudizio dell’Oriente. La causalità è il moderno pregiudizio dell’Occidente» dichiarò a un seminario sull’interpretazione dei sogni nel 1928. Due anni dopo torna sul punto in un discorso di commemorazione in onore di Richard Wilhelm, lo studioso di filosofia cinese e traduttore dello I Ching, il Libro dei Mutamenti, usato fin dall’antichità come sistema di divinazione: «La scienza dello I Ching è basata non sul principio di causalità ma su uno che - ancora senza nome in quanto non ci è familiare - ho provato a chiamare principio sincronistico».
Jung ammetterà in seguito i suoi debiti con Einstein che lo avevano spinto verso un altro fisico brillante: Wolfgang Pauli, uno dei principali teorici della Teoria dei quanti, premio Nobel per la scoperta del principio di esclusione, che spiega la stabilità degli atomi e della materia. Con Pauli il rapporto è però molto più profondo, terapeutico all’inizio e poi di collaborazione, un ping pong tra inconscio umano e microcosmo subatomico. Sono proprio i sogni raccontati da Pauli ad affinare il concetto di sincronicità. Ora i seminari tenuti da Jung negli Anni 30 del secolo scorso sull’individuazione di quei sogni saranno riuniti in un libro dalla Philemon Foundation, che cura la pubblicazione della sterminata riserva di inediti junghiani.
Apparentemente lontane, le due grandi rivoluzioni del ’900, l’analisi psicologica e la fisica teorica, incrociano più volte i loro sentieri. Einstein e Sigmund Freud nel 1933 scambiano pensieri sulle ragioni profonde della guerra (Perché la guerra?, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri), corrispondenza aperta sotto l’egida della Società delle Nazioni. Più fertile e scivoloso il rapporto tra Jung e Pauli, che lo stesso Einstein aveva nominato per il Nobel. La Meccanica quantistica, basata sulla probabilità, si adatta meglio delle teorie di Einstein al principio di sincronicità acausale che Jung stava elaborando. E la battuta nella lettera a Corbière lo dimostra: la metafora di Dio che non gioca ai dadi con l’universo era stata usata da Einstein per sfiduciare la fisica dei quanti.
Jung invece preferisce i dadi alla macchina. Per illustrare il concetto di sincronicità racconta l’episodio di una paziente che, durante una seduta, gli descrive un monile a forma di scarabeo egizio che le era stato donato in sogno; nello stesso momento Jung sente picchiettare gentilmente alla finestra, quando la apre entra ronzando nella stanza un insetto dalle ali verde smeraldo. Un’immagine che ricorda il corvo dell’omonimo poemetto di Edgar Poe. Lo psicologo degli archetipi avverte il pericolo di sconfinamenti in zone esoteriche e poco scientifiche, ma la ricerca di un graal che leghi il mondo fisico a quello psichico lo attrae irresistibilmente.
«La lezione di piano»
Mentre invia a Jung sogni pieni di mandala e diagrammi - e si correggono a vicenda le bozze dei loro scritti - Pauli esprime i suoi dubbi ai colleghi: «Il pericolo di questa situazione è che Jung pubblichi dei nonsense nel campo della fisica citandomi a suo sostegno» scrive all’assistente Marcus Fierz. Però continua a studiare fenomeni paranormali e discute le sue visioni oniriche con la discepola di Jung Marie Louise von Franz, con la quale è romanticamente coinvolto e che più tardi proverà a unire psiche e materia nella teoria dell’Unus Mundus.
In uno di questi sogni, noto come La lezione di piano, Pauli si trova insieme a uno scienziato, a un uomo identificato come il maestro e a una donna cinese che lo invita ad abbandonarsi alla musica e danzare. Pauli non ci riesce. Il sogno fa pensare a una prosa poetica delle Illuminazioni di Rimbaud che forse Jung conosceva: il titolo è Favola e culmina nell’incontro di un principe crudele e di un genio che insieme si fondono e muoiono. Di sicuro avrebbe amato la frase finale: «Al nostro desiderio manca la musica sapiente».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
"INDIVIDUAZIONE": LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ! ... *
Psicoanalisi.
Dante ci aiuta a ritrovare noi stessi. Ne sono convinti gli junghiani. Che portano i pazienti a percorrere un viaggio dentro di loro. Sulle orme del poeta. Uno specialista spiega di Paolo e Francesca, Cunizza da Romano ... E del Paradiso
Nel mezzo del cammin mi trovo sul lettino
Il canto V ci racconta della incapacità di controllare noi stessi I golosi ci parlano dei disturbi alimentari. Gli avidi della compulsività
di Elisa Manacorda (la Repubblica, 29.08.2017)
QUANDO RIPASSIAMO mentalmente quei versi che tante volte abbiamo incontrato sui libri di scuola (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”, “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, “Fatti non foste a viver come bruti”...) non stiamo solo facendo un esercizio di memoria. Stiamo, in parte, costruendo noi stessi. Stiamo cercando di dare un senso alla nostra imperfezione di esseri umani, stiamo cercando di contenere in un unico individuo le mille contraddizioni che lo compongono. Leggendo e ricordando la Divina Commedia stiamo, in ultima analisi, facendo pace con quello che siamo.
È una straordinaria e affascinante lettura laica della più famosa opera di Dante quella che ne fa la psicologia junghiana. E Claudio Widmann - analista junghiano e membro del Centro italiano di psicologia analitica (Cipa) - l’ha riproposta nel corso del seminario promosso dalla Scuola di specializzazione in psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva dell’Istituto di ortofonologia (Ido) di Roma.
«È una lettura certamente poco istituzionale e classica, che tuttavia può aiutare non soltanto noi analisti, ma gli stessi pazienti, a compiere una sorta di percorso dantesco dentro le nostre vite, per affrontare e risolvere lo smarrimento che a volte ci coglie: momenti di sofferenza, di crisi, di insoddisfazione profonda, di infelicità nei quali non ritroviamo più la “diritta via”», dice Widmann. In questo senso i dannati che animano i gironi infernali, con una interpretazione non letterale dei loro peccati, aiutano a riconoscere le tante debolezze che punteggiano le nostre vite.
«Tutti noi siamo stati, in un certo momento della nostra esistenza, avidi, ingordi, violenti», continua Widmann. I golosi ci parlano non soltanto dei disturbi alimentari così diffusi oggi, ma anche, in un senso meno letterale, dell’avidità di affetti, di denari, di oggetti: basta aprire uno dei nostri armadi per capire quanto ci siamo lasciati andare all’ingordigia dell’acquisto. E il celebrato Canto V dedicato ai lussuriosi, nel quale i due amanti chini sul libro sono condannati per l’idea di un bacio clandestino, ci racconta anche della nostra incapacità di controllare gli impulsi. «Non a caso Paolo e Francesca sono trasportati dal vento, trascinati dalle folate, incapaci di fermarsi: e questo - continua l’analista - ci ricorda di tutte quelle volte in cui non abbiamo saputo prendere una decisione autonoma, lasciandoci in balia delle convenienze, delle mode del momento o di un amore sbagliato».
Nella psicologia junghiana, dunque, la Divina Commedia assume le sembianze di un percorso maturativo, di evoluzione dell’individuo. Inizialmente si procede in discesa, nelle viscere della terra, a significare l’introspezione psicologica. Ma è proprio quando ci sentiamo sprofondati nei gironi infernali, avverte Widmann, che sappiamo di poter risalire la china. Possiamo uscire dal regno della sofferenza per entrare in quello della fatica. Salire insomma sulla montagna del Purgatorio, il luogo dove innanzitutto si ristabiliscono le regole: il ritmo del giorno e della notte, che nell’Inferno era cancellato, qui è ben delineato. Anche il tempo riacquista un suo valore, dunque non va sprecato. «Quando, nel Canto II, Dante incontra il suo amico compositore Casella, gli chiede di suonare per lui. Ma Catone li richiama presto all’ordine: non bisogna attardarsi nel percorso di ricostruzione del sé. Le cose vanno fatte bene, fino in fondo, se si vuole imparare a camminare sulle proprie gambe. Come quando i pazienti ci chiedono di interrompere la terapia perché si sentono già meglio, e non capiscono che si tratta di un benessere illusorio», aggiunge Widmann.
Nella psicologia junghiana, continua l’analista, questo percorso maturativo è detto di “individuazione”, perché parla di ciò che fa di noi degli individui a tutto tondo. Così come è tondo - meglio, sferico - il Paradiso. «Regno della complessità, dove ciascuno di noi riesce a tenere insieme le sue parti contrastanti, le sue contraddizioni », sottolinea l’analista. Qui i francescani e i domenicani, avversari in seno alla Chiesa, possono riconoscersi vicendevolmente i pregi. Qui, ancora, uno “spirito amante” come Cunizza da Romano, donna dalla vita amorosa movimentata, con tre mariti morti in circostanze misteriose e numerosi amanti passeggeri, può autoassolversi senza rimpianti (“lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte”), perché, dice Widmann : Tutto quello che ha fatto in vita è andato a comporre la sua esperienza amorosa, e in questo modo ha affinato la sua capacità di amare. Ha, insomma, fatto pace con i suoi difetti e le sue imperfezioni».
Così alla fine del suo percorso di individuazione, nell’ultimo canto, Dante può raccontare la sua visione della trinità, tre cerchi concentrici che si riflettono l’un l’altro. Al centro dei quali emerge una figura umana: il riflesso di se stesso.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
Al di là del principio di prestazione
di Moreno Montanari (Doppiozero, 26.02.2017)
La psicoanalisi è un fenomeno di cui si può parlare solo al plurale e ben oltre i differenti indirizzi delle sue principali scuole (freudiana, junghiana, lacaniana) perché la sua pratica è sempre legata all’unicità di “due persone che s’incontrano in una stanza”. Senza mai venir meno alla sua originale vocazione clinica, la psicoanalisi si è sempre vissuta anche come una teoria critica, uno straordinario armamentario di chiavi ermeneutico-simboliche per leggere le diverse dinamiche che innervano il mondo umano, si è apertamente proposta come un’etica del riconoscimento dello straniero e del minaccioso che ci abitano, come una pratica di comprensione ed elaborazione della propria Ombra e come luogo in cui esercitarsi a coltivare la possibilità di dirsi la verità, di prendere sul serio le proprie fantasie, di guardare in faccia le proprie illusioni, di prendersi cura del destino del proprio desiderio, facendo al contempo i conti con un serio esame di realtà. In questa sua feconda ed irriducibile polimorficità è possibile scorgere quella che, con una bella formula, Nicole Janigro chiama “un’eredità al futuro” (Psicoanalisi. Un’eredità al futuro, Mimesis).
Questa “scaturisce dalla sua capacità ineguagliata di mettere in relazione, leggere e legare, le soggettività”, dalle quali è nata e sempre rinasce e nella quale, spiega l’autrice, rischia a volte di arenarsi, di relegarsi, mettendo tra parentesi il mondo. “Arte artigiana”, pratica clinica, chiave interpretativa, fonte di ispirazione di correnti letterarie - il romanzo analitico, ricorda l’autrice, ha attraversato il Novecento - ed essa stessa espressione narrativa, la psicoanalisi “può partecipare ad un discorso critico integrato dove l’io e il noi siano capaci di passare da mondi esterni e interni, autisticamente chiusi e scissi, da un o/o che procede per differenze e opposti, a incontri di un e/e che fluidifica e avvicina”.
Contro i pregiudizi che ancora l’accompagnano, Nicole Janigro - con un taglio in cui la dimensione biografica e quella sociologica s’intrecciano arricchendosi vicendevolmente - rivendica “l’andare in analisi (...) come la continuazione della politica con altri mezzi” che rovescia “lo slogan il privato è politico”. Ma la stanza di analisi si rivela al contempo “un luogo linguistico, di un piacere legittimo e riconquistato” fatto di parole che nutrono, che orientano, danno voce a quanto altrimenti resterebbe inespresso, all’altrimenti indicibile o a quel silenzio che rischiamo di non sapere più ascoltare. Poiché, come spiegava già nel 1939 Jung, “è caratteristica della psiche non soltanto di essere matrice e fonte di ogni attività umana, ma anche di esprimersi in tutte le forme e le attività dello spirito, (...) lo psicologo (...) non riuscirà a catturare la psiche nel chiuso del suo laboratorio né nello studio del medico, ma dovrà seguirne le tracce in tutti quei campi che pure possono risultargli estranei, ove essa si manifesta”. La personale sensibilità di Janigro la porta ad indagare in particolare due canali privilegiati: il romanzo e le forme artistiche in generale.
La porta di Magda Szabó, Vite che non sono la mia di Emanuel Carrère, ad esempio, ma nel solco di quanto già affermava Freud per il quale “nella psicoanalisi si ritrovano e si compendiano, trasposte in gergo scientifico, le maggiori scuole letterarie del secolo decimonono: Heine, Zola e Mallarmé si congiungono in me sotto il patronato di mio vecchio maestro, Goethe”. Nella letteratura che chiama il lettore a prendere parte allo svolgimento emotivo della narrazione, a empatizzare con i personaggi, a interrogarsi su quanto farebbe al loro posto, Janigro scorge un’analogia con la seduta di psicoanalisi nella quale “l’idea e l’immagine originale nascono in due” e in cui “il momento estetico”, come scrive Bollas, “evoca in noi una sensazione profonda di essere stati in rapporto con un oggetto sacro (...) in un’esperienza dell’essere e non della mente”. Così, mentre Lacan invitava gli aspiranti analisti ad esercitarsi a risolvere i cruciverba, Janigro ritiene che “analizzante e analista possono farsi l’orecchio” alle conversazioni che intrattengono con se stessi, con “la poesia, la narrativa e la musica”.
Insieme a questo esercizio, ampiamente suffragato da citazioni di diversi indirizzi analitici che ne confermano l’importanza, l’autrice propone un lavoro sulle immagini - oniriche, emerse dal gioco della sabbia, scaturite dall’immaginario collettivo, profondamente individuali, reminiscenze del passato e prefigurative del futuro - che “in quest’epoca di inflazioni di immagini dove il tutto-detto, tutto-esposto è privato di ogni possibilità simbolica”, si fa sempre più urgente, delicato ed importante. In questo contesto la centralità del lavoro immaginale di Jung incontra la lezione americana sulla Visibilità di Calvino e porta l’essere umano in una dimensione che apre all’al di là del principio di prestazione - titolo dell’ultimo capitolo del libro.
Superare questo imperativo categorico del nostro tempo e fare i conti con le proprie incapacità e debolezze, non più vissute come deficit ma come tratti personali umanizzanti, può fare della psicoanalisi, come scrive Franco Borgogno, un laboratorio esistenziale dove sperimentare “un’educazione alla vita e al vivere (...) un apprendimento dell’esperienza delle emozioni e delle relazioni, che quando funziona genera una nuova fiducia e un nuovo inizio”, che ha radici antiche che affondano in un patrimonio terapeutico non meno che culturale di cui il libro ci offre una breve ma puntuale sintesi, appassionata che, senza nascondere le polemiche e i colpi bassi che hanno attraversato la sua storia, si muove, anche biograficamente, alla ricerca di punti d’incontro che ne rilancino la funzione e l’attualità, al di là degli aridi steccati dei particolarismi.
Quelle lettere tra Jung e Neumann
di Moreno Montanari (Doppiozero, 03 febbraio 2017)
Chissà se è vero che, come scrive Joseph Roth a Stefan Zweig, l’amicizia è una patria. A sfogliare il lungo carteggio tra Jung e Neumann (Jung e Neumann, Psicologia analitica in esilio. Il carteggio 1933-1959) si direbbe piuttosto un ponte che congiunge sponde opposte. A tenerle unite un centinaio di lettere che, per un quarto di secolo, viaggiano dalla Svizzera, una terra tutto sommato risparmiata dalla seconda guerra mondiale e della successiva guerra fredda, all’allora Palestina, dove parte del popolo ebraico sopravvissuto alla Shoà cercherà invano la pace. Ma questa non è che una delle tante sponde opposte dalle quali i due si scrivono; Jung, che ha 59 anni, è chiaramente il maestro del secondo, che ne ha 28 ed è il suo più promettente allievo; il primo, dal ‘33 al ’34, è anche suo analista didatta; l’uno è uno svizzero che, secondo le logiche dell’epoca, può considerarsi espressione del “germanismo ariano”, l’altro un tedesco che non può considerarsi tale perché “di razza ebraica”.
Colpisce il modo in cui i due abbracciano queste categorie, seppure in un’accezione evidentemente diversa da quella propagandata dall’ideologia nazista, che la cultura dell’epoca, evidentemente anche alta, non considerate politicamente scorrette. Ne abbiamo una chiara testimonianza in una lettera che Neumann, poco prima di trasferirsi a Tel Aviv per sfuggire alla persecuzione ebraica e abbracciare convintamente il sionismo, scrive a Jung per chiedergli conto di alcune sue infelici ed ambigue affermazioni appena apparse in un saggio intitolato Situazione attuale della psicoterapia che gli era costato molte polemiche e persino accuse di antisemitismo e di acquiescenza nei confronti del nazismo.
Nel testo Jung afferma, tra altre grossolanità, che “l’inconscio ariano dispone di un potenziale più elevato di quello ebraico”, che quest’ultimo non affonda su radici proprie ma si sviluppa per gemmazione dalle culture nelle quali s’innesta (giudizio in questo consonante con l’idea nazista degli ebrei come parassiti). Pur difendendolo pubblicamente da ogni accusa di antisemitismo, in questa lettera Neumann, con vero spirito di parresia (l’antica franchezza filosofica propria di chi, per amore della verità, è disposto a mettere in gioco se stesso e la sua relazione con l’interlocutore) attacca e decostruisce una per una le tesi del maestro chiedendogli conto, senza infingimenti, delle sue affermazioni: “Da dove tra le sue conoscenze della razza e del popolo ebraico, caro dott. Jung? Alla fine dei conti non Le pare possibile che la Sua valutazione erronea sia causata anche da una mancata conoscenza di questioni ebraiche e da una segreta avversione medioevale nei confronti di esse? E che di conseguenza lei sappia tutto dell’India di 2000 anni fa e nulla sul chassidismo di soli 150 anni addietro?” Poco dopo avanza l’ipotesi che Jung “confonda Freud - che oltretutto aveva classificato come pensatore sociologico-europeo - con l’ebreo prototipico”, lasciando intendere che il suo conflitto irrisolto con il padre della psicoanalisi possa avergli giocato qualche scherzetto proiettivo.
Ma oltre a contestare l’infondatezza dei diversi pregiudizi junghiani sulla “psicologia ebraica” Neumann rigetta con fermezza, e in maniera persino commovente se si tiene conto del contesto storico, l’equazione junghiana tra nazismo e germanicità: “mi creda se Le dico, proprio come ebreo, che senz’altro adoro la fecondità germanica, per quanto riesca a vederla e intuirla. Ma l’equazione nazismo = germanismo ariano potrebbe essere fatalmente erronea. E devo dire non concepisco per quale via Lei vi sia arrivato”. La lettera è dunque molto ferma e non priva, come ammetterà lo stesso Neumann, di una certa dose di aggressività che tuttavia non sfocia in rancore né mette a rischio la relazione di amicizia e stima reciproche, anzi: è un segno di piena fiducia in essa: “Non mi sento di cambiare nulla di questa lettera. Così è scritta e così rimane. Spero che sia comprensibile l’intenzione con cui l’ho scritta. Credo che sia proprio la mia gratitudine nei Suoi confronti a impormi la sincerità”.
Jung pare essergliene grato: è importante che sia un ebreo a difenderlo da queste accuse ed è certo favorevolmente impressionato dalla sua capacità di muovere critiche stringenti e radicali senza tuttavia prendersela personalmente - cosa che in altre circostanze, su altri temi, non sempre gli riuscirà. Non senza imbarazzo, Jung prova a difendersi dalle critiche del collega rivedendo e spiegando meglio qualche sua affermazione ma ammette gli errori e lo invita convintamente ad approfondire autonomante il tema della psicologia ebraica, invitandolo di fatto a superarlo e mostrandosi in questo, come nota nella sua bella introduzione Luigi Zoja, un maestro migliore di quanto non si fosse rivelato, in questo, Freud nei suoi confronti. Neumann, da parte sua, ne uscì forse rafforzato psicologicamente: il discorso si spostava ora su argomenti rispetto ai quali era oggettivamene più competente del maestro del quale, tuttavia, poteva constatare la capacità di accettare le critiche. Buona parte della corrispondenza tra il 1934 e il 1940, quando l’entrata in guerra dell’Italia isolerà la Svizzera e renderà impossibile la corrispondenza, verterà soprattutto su quella che Neumann vivrà come “l’esigenza di spingere Jung a scrivere qualcosa di fondamentale sull’ebraismo”.
Colpiscono, nelle lettere di questo periodo, alcune dinamiche transferali, da parte di Neumann, ben gestite da Jung che sceglie con accortezza parole e tempi di risposta, tanto da indurre Luigi Zoja - ottimo curatore di un’edizione italiana arricchita di 150 nuove note e migliorata dalla scelta di presentare in due parti, relative alle due trance di corrispondenza, il saggio del curatore dell’edizione originale, originariamente unico e posto all’inizio del testo - a parlare di “un’analisi condotta per lettera (...) per gli scopi e i risultati dell’evoluzione e del flusso individuativi che fluiscono ininterrotti dal discorso del paziente-allievo”. E come spesso accade in analisi, alcune delle elaborazioni personali più feconde e importanti si compiono proprio quando si è costretti a fare i conti con una sospensione, o con la fine, della relazione analitica.
Come osserva Martin Liebscher, curatore dell’edizione tedesca e autore del saggio sopracitato, “sembrerebbe quasi che i cammini dei due si siano scambiati durante gli anni in cui non erano in contatto: Neumann (...) spostò il centro della sua attenzione su questioni di etica e psicologia dello sviluppo; mentre Jung, dopo la guerra, s’interessò sempre di più del misticismo ebraico e del simbolismo riguardante la separazione e la riunificazione tra l’aspetto maschile e quello femminile di Dio, rispettivamente Tiferet e Malkuth”, che giunse persino sognare.
Quanto a Neumann è davvero straordinario, e commovente insieme, il fatto che proprio durante gli anni della secondo guerra mondiale, quando mezza Europa proietta la propria Ombra sugli ebrei e l’altra metà non sembra preoccuparsene troppo, di fronte a l’esperienza della Shoah che in molti considerano l’esempio per antonomasia del male assoluto, vivendo in un paese in cui l’odio antisemita sta già facendosi sentire e armando gli eserciti, elabori una teoria che chiama Nuova etica, il cui centro è la rinuncia a considerare il male come assoluto ed esterno a noi, per abbracciare una visione che rigetti la concezione del bene e del male come opposti che si escludono a vicenda. Essi abitano al contrario l’interiorità di ogni uomo che, quanto più rimuoverà e reprimerà questo aspetto, tanto più sarà portato a proiettarlo fuori di sé, come era accaduto durante la seconda guerra mondiale, come stava per accadere con la nascente guerra fredda e come non smette ancora di accadere per la cosiddetta questione palestinese. In Psicologia del profondo e nuova etica Neumann propone una nuova etica che provi al contrario a fare i conti con la propria Ombra, si disponga a riconoscerla, ad accettarla e provi ad integrarla - “venirne a capo”, scrive Jung correggendo l’ottimismo del collega, “non è possibile”; riuscirvi, sarebbe proprio di un “superuomo”.
Il libro ruota attorno alla tesi per la quale “com’è dimostrato da una quantità di esempi della storia, ogni forma di fanatismo, ogni dogma e ogni tipo di comportamento unilaterale compulsivo alla fine è soppiantato esattamente da quegli elementi che aveva represso, soppresso, ignorato”. Il che vale, scrive con assoluta lucidità e onestà intellettuale a Jung già negli anni ’30, vale anche per il nascente stato ebraico: “Temo che in Palestina si manifesteranno tutti i nostri istinti repressi, tutta la nostra brama di potere e di vendetta, tutta la nostra insensatezza e brutalità nascosta”.
Jung legge e in parte corregge (come dimostra l’interessantissima appendice numero 3 che riporta la proposta di correzione e modifica che questi invia a Neumann) le prime bozze del testo che saluta subito con entusiasmo battendosi, con alterne fortune e qualche atteggiamento equivoco, per la sua pubblicazione. Apprezzamento ed entusiasmo analoghi saluteranno la lettura della Storia delle origini della coscienza che Neumann scrive sempre in quegli anni riuscendo, scriverà Jung nella sua prefazione, sviluppare e portare avanti molti temi meglio di lui, giungendo dove egli si era arenato.
La tormentata storia della pubblicazione di queste opere è per altri versi una impietosa denuncia delle dinamiche di potere, e di ottusità, insite allo Jung Institut di Zurigo, che ne osteggerà la pubblicazione nella collana ufficiale dell’istituto, considerandole, nonostante il parere favorevole di Jung, troppo poco ortodosse e mettendone persino in discussione la fondatezza scientifica. Dalle lettere appare però anche uno spirito di confronto e di apertura maggiore che caratterizza i seminari di Eranos, ai quali Neumann parteciperà spesso, grazie anche all’intercessione di Jung, che ne difenderà il valore.
Problemi di salute, lutti, bombardamenti, entusiasmi per la ricchissima produzione saggista di entrambi e delusioni per questioni personali e politiche scandiscono la lunga corrispondenza che s’interrompe improvvisamente il 5 novembre del 1960 (ma l’ultima lettera di Neumanna a Jung è dell’11 settembre dell’anno precedente) quando Neumann muore di un tumore fulminante, a soli 55 anni.
C’è da chiedersi, data la sua eccezionale produttività, quali altri tesori avrebbe potuto lasciare in eredità se fosse vissuto più a lungo. I pochi libri che ci lascia sono comunque sufficienti a farne, per usare un’espressione buddhista, l’autore di un vero e proprio secondo giro di ruota della psicologia del profondo che si svela e si propone apertamente come una pratica intrinsecamente etico-pedagogica capace di guardare anche alle dinamiche collettive e di farsene cura. La sua assoluta attualità non sarà certo sfuggita al lettore. In tempi in cui si innalzano nuovi muri c’è bisogno di un pensiero che costruisca ponti tra gli opposti.
L’eredità junghiana come individuazione
di Moreno Montanari
Vietato imitare. Il titolo del primo capitolo del libro nel quale Romano Màdera traccia la sua personalissima maniera di raccogliere l’eredità terapeutico-culturale dell’opera junghiana ci conduce immediatamente al cuore del problema: l’unico modo per restare fedeli all’insegnamento di un maestro che amava dire che grazie a Dio non era junghiano, è rigettare ogni tentazione di assumerlo a modello da imitare. Per raccoglierne davvero l’eredità occorre, scrive Màdera, "abbandonare la via dell’imitazione a favore di quella dell’individuazione". È lo stesso Jung, del resto, a suggerirci di muoverci in questa direzione quando, in Ricordi, sogni e riflessioni, prende le distanze dal convenzionale modo d’intendere l’imitatio Christi:
"Cristo è l’esemplare che vive in ogni cristiano come sua personalità totale. Ma il corso della storia portò alla imitatio Christi, con la quale l’individuo non segue il proprio fatale cammino verso l’interezza, ma cerca di imitare la via seguita da Cristo. Anche in oriente lo sviluppo storico portò a una devota imitatio del Buddha, e questi divenne un modello da imitare: con ciò la sua idea perdette di forza, così come l’imitatio Christi fu foriera di una fatale stasi nell’evoluzione dell’idea cristiana."
Nel Libro rosso Jung - tracciando forse una sorta di inconsapevole double bind - chiarisce che un simile atteggiamento vale anche per il suo insegnamento:
"La mia via non è la vostra via, dunque non posso insegnarvi nulla. (...) In noi è la via, la verità e la vita. Guai a coloro che vivono seguendo dei modelli! La vita non è con loro. Se voi vivete seguendo un modello, allora vivrete la vita del modello, ma chi dovrebbe vivere la vostra vita, se non voi stessi? (...) Cercate la via? Vi metto in guardia dall’imboccare la mia strada. Per voi può essere quella sbagliata."
Chiunque voglia muoversi in consonanza con l’esperienza junghiana e provare a tesaurizzarne l’esperienza è chiamato al paradossale compito di "universalizzare l’esperienza individuale e individualizzare il lascito universale", in osservanza al motto programmatico junghiano per il quale “il metodo è l’analista”.
Come dimostra l’epigrafe che ho scelto di porre in apertura, a una simile conclusione era arrivato anche Nietzsche, che tuttavia non aveva il difficile compito di dare vita a una sua scuola non solo di pensiero ma anche di pratica terapeutica. La citazione non intende dunque sminuire l’originalità della proposta junghiana ma riconoscerla, come invita a fare Màdera, come figlia dello "spirito del tempo", di cui Nietzsche era stato precursore.
"Jung può solo intuire come un rabdomante la corrente che scorre sotto la superficie, non ha né la mentalità né le competenze, per afferrare in modo più complesso e articolato la trasformazione della costellazione di civiltà e della configurazione culturale. (...). Le sue doti intuitive sprigionano però folgorazioni che illuminano a giorno il passaggio dell’epoca. qui sta la pregnanza del suo appello a dismettere imitazione e modelli esemplari."
Intuizioni, come abbiamo visto, particolarmente presenti nel Libro rosso nel quale, secondo Màdera, Jung sperimenta e tesaurizza “l’unione tra biografia e teoria”, realizzando un’alchemica “opera al rosso” che “rimette in questione del suo sapere scientifico e psichiatrico, le linee della psicoanalisi fino ad allora seguita”, affronta - anche grazie all’elaborazione della pratica dell’immaginazione attiva - “l’irrisolta partita dell’esperienza religiosa”, si confronta “con i fantasmi della sua famiglia di pastori protestanti” e si lancia in un vero e proprio “corpo a corpo con Nietzsche”.
Il tema centrale è infatti “la morte di Dio” e la risposta di Jung al celebre annuncio nietzschiano. Il suo convincimento è che, anziché sentenziare che "Dio è morto, sarebbe più giusto dire che Egli si è svestito dell’effige che gli avevano conferita", per cui "non sarà più ritrovato laddove il suo corpo venne deposto" ma dovrà essere ricercato altrove e in altre forme, come "Dio che sta tra le cose, il mediatore della vita, la via, il ponte, il passaggio", quasi un’anticipazione, commenta Màdera, della "struttura che connette" che sarà teorizzata da Bateson.
Ma questa risposta, aspetto assolutamente saliente, non viene elaborata a livello razionale ma piuttosto ricavata mitobiograficamente. Nel Libro rosso Jung si chiede infatti: "qual è il tuo mito? non vivi più nel mito cristiano, ma in quale mito dunque vivi?". L’iniziale incapacità di offrire una risposta a questa domanda spalanca a Jung, come prima di lui a Nietzsche, le porte al più inquietante degli ospiti: il nichilismo. Un segno dello spirito del tempo. Secondo Màdera, la nietzschiana morte di Dio, la presa d’atto di non vivere più nella narrazione originata dal suo mito, simboleggia la fine del patriarcato che Jung, designato "principe ereditario" dal padre simbolico Freud, vive, dapprima solo inconsapevolmente, in prima persona ma di cui è anche una testimonianza l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando II, principe ereditario dell’impero austro-ungarico, che apre le porte alla Grande guerra.
Una guerra simile, sul piano simbolico, a quella interiore nella quale sprofonda lo psicoanalista svizzero e della quale il Libro rosso ci fornisce un’ampia testimonianza. In esso, osserva Màdera, "il nesso tra la dimensione collettiva e individuale è quindi strettissimo: le figure del dramma personale sono prese dalla storia culturale, il conflitto interiore si specchia nella guerra esterna e viceversa".
"Gli uomini - scrive Jung - impazziscono perché non sanno che il conflitto è dentro di loro, e ciascuno addossa il torto all’altro. Se una metà del mondo è in torto, allora è in torto - per metà - ogni essere umano". Differentemente da Nietzsche, Jung impara a fare i conti con la propria Ombra, attraverso una riappropriazione delle sue proiezioni e una compassionevole, anziché superominica, accettazione dei propri limiti, trovando una soluzione al suo personale travaglio e offrendo al contempo la possibilità di "una sorta di clinica del mondo".
Nascono qui la crescente centralità del simbolo (ciò che mette insieme) e del processo di individuazione (la realizzazione di una condizione indivisa) in Jung. Ma la tesi per la quale ogni esistenza e una teoria ruotano attorno a un particolare mitologema che ne costiuisce il seme e la circonferenza non è junghiana, costituisce piuttosto il principale lascito di Ernst Bernhard, autore che Màdera indica come biograficamente decisivo per il proprio avvicinamento all’esperienza dell’analisi junghiana.
"Forse a me serviva Bernhard per provare a fondo un’esperienza junghiana senza troppi pregiudizi. Il salto dall’impegno politico - e dai ancor più radicati, per quanto allora tracurati, sentimenti religiosi - alla temperie del medico svizzero, blandamente liberale, ovviamente anticomunista, classicamente borghese in alcuni aspetti del suo modo di vivere, mi urtavano non poco."
Bernhard invece era un ebreo tedesco, socialista sionista, finito nei campi di concetramento fascisti, tra l’altro a Ferramonti, in Calabria, terra per ragioni biografiche cara a Màdera, e si prestava dunque bene a fungere da figura ponte per facilitare l’avvicinamento ad un mondo, quello della psicologia del profondo, che all’epoca Màdera viveva con più di qualche reticenza. Ma a fargli scegliere Bernhard e a spingerlo ad andare in analisi da un suo diretto allievo - Paolo Aite - era stato innanzitutto il titolo dell’unico libro riconducibile allo psicoanalista tedesco: Mitobiografia. In quella formula Màdera scorgeva la possibilità, già intuita autonomamente e trattata filosoficamente, di guardare alla "biografia come ad un punto di incidenza cosmico-storica". Ma, prosegue, "il titolo di Bernhard prometteva un altro scatto, qualcosa che disturbava da sempre ogni indagine razionale, il fondo oscuro del mito innestato nel vivo del biografico, senza troppi schemi e prevenzioni nei confronti dell’inevitabile racconto che in noi mescola, inestricabilmente, gli specchi dell’io ai suoi ideali e alla vita sottostante dell’inaccettabile, dello sgradevole, del rimosso e dell’incompreso. Il continente inconscio."
In Bernhard Màdera trova anche riferimenti al taoismo, al buddhismo e all’ebraismo che gli fanno intravedere la possibilità di dare ospitalità, anche nella stanza d’analisi, ai temi e agli aspetti propri di quella che poi, sulla scia di Besret, chiamerà una “spiritualità laica” che “non sia dogmatica, non si appelli a nessuna rivelazione che pretenda di imporsi come l’unica via di passaggio verso la pienezza (...) una spiritualità che raggiunge così ciò che è alla radice delle diverse tradizioni, non in ciò che hanno di più specifico, ma al contrario in ciò che la loro specificità traduce di più universale”.
Spiritualità laica, filosofia come esercizio di espansione nella vita quotidiana della ricerca di senso e analisi come clinica del processo di individuazione sono “i tre segmenti”, che compongono la personale maniera nella quale Màdera ha inteso “abbandonare Jung per rilanciarne l’insegnamento”. Un’idea dalla quale, dieci anni fa, è nata Philo, la scuola di pratiche filosofiche che forma alla professione dell’analisi biografica ad orientamento filosofico (abof) e dalla cui costola ha preso quest’anno vita Mitobiografica. Scuola del mestiere di vivere. Ad esse è dedicato l’ultimo capitolo di questa appassionata ed appassionante testimonianza sulla possibile eredità in senso individuativo dell’insegnamento junghiano particolarmente preziosa in questo tempo nel quale “la trasmissione del lascito culturale delle generazioni precedenti è diventata stentata, incerta, a volte impossibile, inutilizzabile, e il canone, generatore di mille variazioni, sembra ormai irricevibile.”
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DOPPIOZERO, 15 Dicembre 2016. Questo articolo è apparso in forma più breve su La Repubblica.
Il viaggio di Jung dentro di sé
Le sue scoperte, l’anima, i demoni
Lo psichiatra si ritirò sul lago di Zurigo e si immerse nell’autobiografia
«Se fossi vissuto nel Medioevo mi avrebbero bruciato come eretico»
di MARCO GARZONIO *
Per sua volontà non figura nei diciannove volumi delle Opere. Eppure Ricordi, sogni, riflessioni è «il tutto Jung», un libro unico, dove scienza e biografia sono le due facce d’unica realtà. Per non addetti ai lavori e specialisti è la porta d’accesso alle scoperte di Jung sull’inconscio, al modo in cui lavorava su di sé, sui sogni suoi e dei pazienti, al suo carattere («Ho offeso molta gente... non avevo pazienza con gli uomini»), alla sua idea di Dio, che per lui «era una delle più certe esperienze immediate» («tutti i miei pensieri ruotano attorno a Dio»), con una chiosa: «Nel Medioevo mi avrebbero bruciato come un eretico».
È la storia di un’anima questo libro cominciato sessant’anni fa, nel 1956, quando Carl Gustav Jung, a 81 anni (era nato il 26 luglio del 1875 a Kesswil, sulla sponda elvetica del lago di Costanza), era al culmine della fama. Ma guai a cercarvi aforismi sapienziali come molta pubblicistica e derive di tipo New Age sono solite fare; basta un giro sul web per rimanere sconcertati da equivoci e superficialità di una psicologia-fai-da-te che Jung invece condannava: si legga il capitolo «Attività psichiatrica». I Ricordi sono racconto, intensa, godibile, opera d’uno psichiatra (come egli ribadisce d’essere), di uno scienziato che per bussola ha una visione empirica del lavoro clinico e ha distanza critica e coscienza etica nei confronti di sogni, fantasie, passioni, errori. Jung mostra un’alta considerazione dei suoi vissuti: «Solo ciò che si è verificato nel mio intimo si è dimostrato essenziale e determinante». Si fa prendere dal lavoro, per cinque anni, sino alla morte. Matura consapevolezza del valore della memoria: «Annotare i miei primi ricordi è diventato un bisogno, e se trascuro di farlo, anche per un solo giorno, immediatamente ne conseguono sintomi fisici spiacevoli». È quasi impietoso nel mettersi a nudo: «Ciò che sono e ciò che scrivo sono una cosa sola». Sa di esporsi a fraintendimenti: «La mia vita è stata la quintessenza di ciò che ho scritto, e non viceversa». Teme i giudizi («Se il libro su Giobbe è stato accolto con tanta incomprensione, i miei “ricordi” avranno una sorte ancor più sfortunata»), ma li sfida, come aveva fatto nei passaggi decisivi della vita; a cominciare da quando decise che non poteva più recitare la parte dell’interprete fedele del nuovo verbo della psicoanalisi e vestire i panni di figlio-erede che Freud gli aveva cucito addosso. Ruppe col più anziano collega, rinunciò al ruolo di delfino (del quale peraltro s’era tanto compiaciuto) e finì per creare terra bruciata intorno a sé.
Ci son pagine mirabili nei Ricordi in cui, dando la sua versione della separazione da Freud, Jung mette passione e dubbi circa il suo conflitto interno con l’autorità (Freud «rappresentava per me ancora una personalità superiore»). Sperimenta il costo dell’indipendenza, del «sii quello che sei», ma è conscio del valore cui la separazione porta. Sulla conquista dell’autonomia, dell’essere se stessi, baserà il successivo cammino, facendolo poi assurgere a modello di sviluppo psicologico generale sotto il nome di «processo d’individuazione».
Nel libro Jung annuncia ciò che a noi risulta chiaro dopo la pubblicazione del suo Libro rosso, nel 2010. In tale opera, un volume di grande formato, simile a un codice medioevale, sono riprodotte immagini e descritti i sogni tremendi che invasero la mente di Jung dopo la rottura con Freud tra il 1913 e il ’14 facendogli temere una psicosi. Jung ricorda che si curò affrontando le visioni, mettendole su pagina, trascrivendo e miniando con ossessione i dialoghi con Anima, Spirito del Tempo e Spirito del Profondo, incontri con figure guida (Elia e Filemone), disegnando mandala che in coloratissimi quadrati e cerchi contenevano emozioni violente. «Scoprii che cosa è veramente il mandala: “Formazione, trasformazione, della Mente eterna, eterna ricreazione”». Annotò nel ’57 a margine del Libro rosso, proprio mentre era preso dal riordino dei Ricordi: «Gli anni più importanti della mia vita furono quelli in cui inseguivo le mie immagini interiori. Ad esse va fatto risalire tutto il resto».
Passaggio decisivo fu l’incontro con la pietra, materia concreta e di alto valore simbolico. Confessò: «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo». Pagine suggestive descrivono la Torre di pietra da Jung costruita a Bollingen, sul lago di Zurigo, dove si ritirava, scriveva, scolpiva, dipingeva, giocava con sassi e sabbia sulla riva, senza vergognarsi di tornare da vecchio alle energie creative del puer.
Vedeva lontano. Negli anni dei Ricordi, sulla scia della disposizione di Jung a «curarsi col gioco», Dora Kalff, sua allieva, ideò un modo di fare analisi, la Terapia del Gioco con la Sabbia, oggi diffusa in tutto il mondo.
«Il demone della creatività è stato con me spietato», conclude Jung. A renderlo attuale è questo daimon, come lui lo chiamava. È il fascino dell’energia psichica tra fantasie e coscienza, la libertà verso se stesso e gli altri, la scommessa sull’uomo che nel realizzare sé non dimentica la visione generale del mondo e il ruolo dello Spirito. Sulla porta di casa a Küsnacht, Jung fece scolpire: Vocatus atque non vocatus deus aderit: chiamato o meno, il divino sarà presente. L’antico oracolo di Delfi ripreso attraverso Erasmo, confesserà Jung. La tradizione umanistica è il rizoma dello psichiatra di Zurigo.
Mistica, filosofa, poetessa, la badessa di Bingen visse nel XII secolo e illustrò le sue profezie che anticipano Jung
Il Libro Rosso di Ildegarda la donna che volò via dal Medioevo
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 04.06.2016)
«Simon Pietro disse loro: Maria si allontani da noi, poiché le donne non sono degne della Vita! Gesù disse: ecco, io la trarrò a me per renderla maschio, perché anche lei divenga uno spirito vivo simile a voi maschi. Perché ogni femmina che diventerà maschio entrerà nel Regno dei Cieli».
È il capitolo 121 del “Vangelo di Tommaso”, il più famoso dei testi gnostici ritrovati nel 1945 a Nag-Hammadi. L’insegnamento lasciato sepolto dal V secolo nell’apocrifo gnostico bizantino riaffiora in uno scenario medievale tedesco. Siamo all’inizio del XII secolo, in riva al Reno. La monaca benedettina siede davanti a uno scrittoio, sorretta dall’alto schienale di una sedia. È pronta a scrivere o trascrivere qualcosa: tiene in mano l’occorrente, due tavolette di cera nera a due colonne ciascuna. È nera anche la veste claustrale, su cui è drappeggiato un mantello marrone, e le maniche della cotta bianca stringono i polsi che reggono lo stilo.
È lei stessa a ritrarsi così, nella miniatura in cui la grande ruota del firmamento scintilla di carminio e lapislazzulo, schiacciando in basso, in un piccolo riquadro illuminato, il minuscolo autoritratto dell’autrice. Il viso è rivolto verso la parte principale del foglio, che la sovrasta con la visione da cui traboccano “squame di fuoco lucido”, a ferirla «sotto forma di scintille».
Ildegarda, badessa di Rupertsberg presso Bingen nell’Assia, studiosa di scienze naturali, di medicina e di musica, nonché dello pseudo Dionigi Areopagita, scrittrice, compositrice, teurga, drammaturga, era dotata di talenti multiformi e affetta da violenti disturbi. «La forza delle visioni misteriose, segrete e stupefacenti » la tormentava da quando aveva cinque anni. Tacere ciò che vedeva e sapeva le aveva fatto trascorrere una giovinezza macerata nell’ansia e diventare col tempo sempre più «misera e debole, figlia di enormi sofferenze, tormentata da molte e gravi infermità corporali», come annota negli incipit dei suoi cosiddetti libri profetici, ora tradotti nella raccolta che consegna integralmente al lettore italiano le sue visioni: lo Scivias, il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum (Ildegarda di Bingen, Visioni, a cura di Anna Maria Sciacca, prefazione di Enrico dal Covolo, Castelvecchi).
Dettate da una misteriosa voce e da lei solo compitate, per essere a loro volta trascritte con l’aiuto del vecchio monaco segretario Volmar, le visioni di Ildegarda sono affiancate in due manoscritti - quello di Wiesbaden, perito nell’incendio del 1945 e sopravvissuto solo in copia, e quello della Biblioteca Governativa di Lucca, identificato da Tritemio e ancora oggi consultabile in originale - dalle formidabili esplosioni di forma e colore delle miniature, che risalgono all’autrice e illustrano dal vero i paesaggi di una frastagliata geografia dello spirito.
Nel nastro policromo dell’illustrazione scorrono incessanti le schegge visive, “appuntite, piccole e grandi”, di una tradizione universale, si dilatano “sfere d’ombra e cerchi di luce”, roteano mandala, si serrano labirinti, si schiudono meandri, e le geometrie astratte si popolano di figure ermetiche e di presenze animali. Un bestiario che si è tentato invano di interpretare, accostandolo ora a quello dell’Apocalissi di Giovanni, ora al medioevo fantastico delle cattedrali tedesche, ora ai bestiari, agli erbari, alle tabulae della tradizione tardoantica, o perfino alle allegorie della Commedia dantesca o al Libro rosso di Jung.
«Nel millecentoquarantunesimo anno dall’Incarnazione di Gesù Cristo, quando avevo quarantadue anni e sette mesi», si legge nella prefazione allo Scivias, «un globo di fuoco abbacinante, proveniente dal cielo aperto, invase tutto il mio cervello e pervase il mio cuore e il mio petto come una fiamma che non ustiona, ma scioglie nel suo calore immenso».
Ildegarda udì una voce chiamarla homo: «L’uomo che ho voluto e ho scosso per mio arbitrio e capriccio con meraviglie più grandi dei segreti degli antichi», diceva la voce, «l’ho steso a terra, perché non si rialzasse in esaltazione di spirito. Il mondo non ha prodotto in lui né gioia né diletto, né progresso nelle cose che gli erano sue, perché l’ho privato di qualsiasi aggressività e ostinazione, facendolo rimanere timoroso e spaventato, senza alcuna sicurezza di sé, in preda al senso di colpa». Fu così che Ildegarda si consentì di consegnare alle parole e alle immagini ciò che fino ad allora non aveva «manifestato a nessuno, ma serbato per tutto il tempo in silenzio».
Impiegò dieci anni a trascrivere ciò che in quei «momenti rovinosi del suo cuore » lei, uomo, vedeva e sentiva non «secondo l’intelligenza dell’inventio umana e nemmeno secondo la volontà di comporre umanamente, ma secondo il tenore della parola così come è voluta, mostrata, descritta» da un’entità più grande e profonda «che sa, vede e dispone ogni cosa nel segreto dei suoi misteri»: secondo la visione «non del cuore o della mente, ma dell’anima», còlta «non in sonno né in estasi», ma «da sveglia, con occhi e orecchie umani», e però “interiormente”, in “luoghi scoperti” dentro di sé. È in questo modo che Ildegarda diventò maschio e realizzò il comandamento gnostico del Vangelo di Tommaso.
Nel secolo di Federico Barbarossa, che consigliò e sfidò, e di Bernardo di Chiaravalle, con cui corrispose e che la ammirò, ingaggiò le gerarchie ecclesiastiche cattoliche con tale coraggio e tanta abilità da non venirne mai considerata eretica, ma anzi eletta a autorità dottrinale e ascoltata nei sinodi. Le sue prediche risuonavano a Treviri, a Colonia, a Liegi, a Magonza, a Würzburg, a Metz; i suoi drammi e poemi sacri nelle chiese di tutta Europa.
Era detta la Sibilla del Reno anche per la chiaroveggenza che esercitava in politica, quando imperatori e papi le si rivolgevano a consulto, di persona o nelle lettere ancora oggi conservate dal suo prezioso epistolario.
La scrittura “maschile” di Ildegarda è solo uno degli esempi di quella grande e formidabile tradizione femminile, fino a poco tempo fa misconosciuta o marchiata dal sigillo della pura irrazionalità, che è la letteratura delle mistiche. Ildegarda è solo un combattente, anche se indubbiamente di alto grado, nell’esercito di donne colte e sofisticate, dal carattere libero e dalla prosa superba, che da Eloisa a Margherita Porete, da Angela da Foligno a Brigida di Svezia, da Caterina da Siena a Maria Maddalena de’ Pazzi, da Margherita Maria Alacoque a Veronica Giuliani alle due Terese, d’Avila e di Lisieux, ha sfidato le oppressioni della cultura dominante. Donne che furono giudicate anoressiche, isteriche, forse epilettiche, ma attraverso le quali l’intelligenza e l’indipendenza femminili hanno sfidato secoli di oscurità.
«È donna chi non ha l’intelletto maschio che sradica dalla sua memoria tutte le passioni, che sono femmine, chi non sa servirsi di quella sola collera, che è potenza dell’anima distruttrice dei pensieri», aveva scritto nel quarto secolo Evagrio Pontico nelle sue Centurie (47).
In questo senso, quella delle sante mistiche è il più grande esempio, forse, di letteratura autenticamente maschile.
Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli, lettere sulla fatica di essere un genio
Carteggi. Paziente del fondatore della psicologia analitica per due anni, il grande fisico avviò con lui un carteggio durato dal ’32 al ’57, che oggi vale più come indagine antropologica sulla cultura umana che come fuoco sulla realtà fisica e il funzionamento della mente
di Giovanni Iorio Giannoli (il manifesto, Alias, 27.03.2016)
L’ultima impresa teorica pubblicata in vita da Carl Gustav Jung, il secondo volume di Mysterium Coniunctionis, uscì sessant’anni fa: era «una indagine sulla separazione e la sintesi degli opposti psichici nell’alchimia». Nell’inviarne una copia a Wolfang Pauli - il geniale fisico che era stato due decenni prima suo paziente, e che divenne in seguito un suo assiduo interlocutore - Jung inserì nella dedica una formula cara a Nicolò Cusano (nec nimis nec minus), come a sottolineare il nucleo di atteggiamenti e di idee che li univa da un quarto di secolo: il rigore intellettuale, l’inclinazione platonica, l’attribuzione di un valore universale alle simmetrie, la tesi della coincidenza degli opposti, il presupposto di unità sostanziale tra il mondo fisico e quello psicologico, l’idea che sussista un legame molto stretto tra l’inconscio, l’hintergundsphysik (il fondamento su cui poggia la fisica), le immagini simboliche che costellano i sogni e gli archetipi (il contenuto innato, arcaico e collettivo della mente umana; una sorta di schema generale del sentire, dell’immaginazione e del ragionamento).
Pubblicate in tedesco nel 1992 (poi in spagnolo, in francese e in inglese) le lettere tra Jung e Pauli arrivano ora in libreria, nella loro prima traduzione italiana con il titolo Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia (a cura di Antonio Sparziani, con Anna Panepucci, traduzione di Giusi Drago, Moretti & Vitali pp. 392, euro 30,00).
Benché le edizioni già presenti in Europa non facciano di questo volume una primizia assoluta, tuttavia l’autorevolezza degli autori e la profondità con cui affrontano i temi trattati potrebbe costituire da noi un deterrente, una sorta di argine, nei confronti di quella diffusa sotto-cultura di massa che ha trasformato la fatica e la ricerca intellettuale di questi e di altri grandi scienziati del Novecento in una sorta di melassa ammiccante, nella quale convergono l’astrologia e lo spiritismo, l’esotismo e il finalismo, la telepatia e la preveggenza, la numerologia e la divinazione, il misticismo e i pregiudizi contro la scienza.
Valga - a questo proposito - il caveat espresso dallo stesso Pauli, in uno scritto del 1948: «Dal punto di vista della scienza moderna, la forma di immaginazione (archetipica) è senza dubbio da considerare una regressione a uno stadio arcaico»; per cui: «non bisogna cadere nell’errore di ritenere che i suoi prodotti siano verità scientifiche equiparabili a una solida dottrina».
C’è da chiedersi però quale possa essere oggi il contributo del carteggio alla discussione sul pensiero scientifico e sull’umanesimo, sul rapporto tra il corpo e la mente, sulla natura della psicologia e sul suo rapporto con le scienze «forti», sulla storia della cultura umana e sulle teorie della conoscenza. Sia la fisica contemporanea che la psicologia scientifica sembrano infatti aver superato da tempo i nodi che impegnavano questi due grandi scienziati nella prima metà del secolo scorso: la fisica, perché la riflessione sui fondamenti della meccanica quantistica (e sul ruolo determinante dell’osservatore, nel determinare il reale osservato) si è spostata in larga misura su interrogativi che riguardano ontologie molto più astratte (come quella, per esempio, che concerne la natura dello spazio-tempo quantistico); la psicologia, perché l’esplosione delle scienze cognitive (a partire dagli anni ottanta del secolo scorso) ha trasferito su un altro terreno l’indagine della psyché, dei suoi contenuti simbolici e/o sub simbolici, sottraendo al lavoro analitico, all’introspezione e all’archeologia culturale, una parte molto rilevante degli studi che riguardano la mente umana.
Ai giorni nostri, dunque, l’idea che mente e materia possano essere aspetti epifenomenici di un’unica realtà sottostante, in sé neutra (cioè: né fisica né mentale), può sembrarci un po’ ingenua, retaggio di una presunzione essenzialistica che non sentiamo più nostra. Così come pure l’idea, caldeggiata da Pauli, che tra la descrizione fisica e quella psicologica sussista una sorta di «complementarietà», analoga a quella che Niels Bohr introdusse nel 1927, per dar conto dell’impossibilità di osservare - nello stesso esperimento - sia gli aspetti ondulatori che quelli particellari della materia, alla scala atomica e sub-atomica.
Analogamente, può sembrare oggi priva di senso, o di cogenza, l’idea che la sincronicità (il verificarsi di coincidenze significative, di natura non causale, in punti molto lontani dello spazio-tempo) possa integrare sotto il profilo logico ed epistemologico (come un tassello mancante, come un «quarto escluso») la triade canonica della meccanica classica, costituita dallo spazio, dal tempo e dalla causalità. Ognuna di queste idee si presenta oggi come il retaggio di un sentire datato, piuttosto che come l’embrione di un fecondo programma di ricerca.
Oppure, meglio: studi di questo genere conservano il loro carattere di indagini antropologiche, monumentali, profonde e piene di fascino, che riguardano la ricchezza della cultura umana, le sue origini, i suoi riferimenti e le sue costruzioni, piuttosto che la realtà fisica o il funzionamento della mente. Di questo tipo, per esempio, è sicuramente l’analisi dell’alchimia (perseguita da Jung e condivisa da Pauli), come proiezione dell’inconscio collettivo sulla materia, nel tentativo di trasformarla. Ed emerge anche, insieme a questo, un resoconto «in presa diretta» della fatica di esser un genio, delle ossessioni, delle compulsioni, dell’insicurezza e dell’ansia che si associa spesso al lavoro intellettuale, ai suoi massimi livelli. Nell’epistolario, Pauli ha un ruolo maggiore di quello che occupa Jung, sia per il numero delle lettere, sia per la quantità delle pagine, sia per l’emozione che accompagna ogni scritto, anche il più astratto. E nel ritmo incalzante degli interrogativi e degli argomenti affiora per venticinque anni la posizione specifica del paziente, nei confronti del suo terapeuta (anche se il rapporto effettivo di analisi era durato solo due anni, dal 1932 al 1934).
Così - anche quando erano venute meno le ragioni più urgenti della terapia (l’alcolismo, le risse, la depressione, legata anche agli strascichi del suicidio della madre, o alle difficoltà del rapporto con l’altro sesso) - Pauli continuava a sottoporre a Jung i suoi sogni; e non certo, o non solo, per alimentare un terreno comune di ricerca. Combattevano, in lui, due Pauli: quello estroverso/empirico/razionale/giudicante, legato alla figura del padre (un medico, poi docente di chimica e di fisica) e all’influenza del padrino (Ernst Mach, il grandissimo filosofo e fisico austriaco, capostipite dell’empirismo del Novecento) e quello introverso/intuitivo/passionale/creativo, legato alla figura della madre, all’infanzia e all’adolescenza. Fino all’ultimo, lo scontro tra queste polarità restò attivo nel suo carattere; e volle descriverlo alla fine lui stesso, a pochi anni dalla morte, in una «fantasia attiva sull’inconscio» (dedicata a Marie-Louise von Franz, allieva e collaboratrice di Jung, legata a Pauli da un rapporto molto intimo). Alla fine di questo breve racconto, quando il personaggio denotato come Io (lo stesso Pauli) si accinge a tornare nel suo «mondo maschile, tra la gente», risuona la Voce del Maestro (Jung?), che lo incoraggia alla congiunzione tra i sessi; e - per tranquillizzarlo - ingiunge alla donna: «Sii sempre benigna».
Il carteggio. *
Il fisico Wolfgang Pauli fu in cura da Carl Gustav Jung. Con il quale scambiò lunghe lettere. Tema: trovare una base scientifica dell’attività psichica
Un premio Nobel sul lettino dell’analista
di Moreno Montanari (la Repubblica, 20.03.2016)
Il carteggio tra il premio Nobel per la fisica Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung testimonia l’originale e pregevole sforzo di ricercare «una base concettuale unitaria per la comprensione scientifica dello psichico come del fisico». L’incontro tra i due, tuttavia, non avvenne per questioni scientifiche: nel 1930 il padre di Pauli, collega universitario di Jung, gli chiese di prendere in cura il figlio che a soli trent’anni era già un’autorità nel campo della fisica quantistica ma era anche una persona depressa e con scatti d’ira che l’avevano ripetutamente portato ad offrire un pessimo spettacolo di sé nei bar di Zurigo, la città dove insegnava fisica teorica. Jung accettò e fu subito colpito dai sogni del suo paziente che mostrano un inconscio «stracolmo di materiale arcaico» che sembrava confermare la sua teoria degli archetipi collettivi alla quale stava lavorando proprio in quegli anni.
Fu un caso fortunato o una sincronicità? Jung era smanioso di sapere se quest’ultimo concetto, l’ipotesi di una relazione acausale, sul piano fisico e psichico, tra eventi apparentemente fortuiti e indipendenti che tuttavia l’individuo avverte come connessi e fortemente significativi sul piano esistenziale, avesse riscontro nella fisica quantistica e trovò in Puali la conferma.
C’era una significativa somiglianza «ai diversi tipi di forme acausali olistiche presenti in natura e alle condizioni che accompagnano il loro attuarsi», disvelate proprio da questa nuova frontiera della fisica. Per non rischiare di influenzare il giudizio e l’attività onirica del suo paziente, Jung decise di inviarlo a una collega donna alla quale chiese di trascrivere e consegnargli i sogni del paziente che utilizzerà poi per il suo libro Alchimia e psicologia.
Fu solo quando l’analista di Pauli si trasferì a Berlino che questi chiese e ottenne di proseguire, per due anni, l’analisi con Jung dalla quale nascerà un carteggio certo difficile (curato da Antonio Sparzani per Moretti & Vitali), ma fecondo per entrambi. Lo psicoanalista ne ricavò intuizioni capaci di dare al suo pensiero «un cuore nuovo » - la metafora del Sé come un «nucleo raddiattivo». L’idea dell’archetipo come «probabilità dell’accadere psichico» favorita dalla spiegazione che «nella fisica quantistica l’archetipo va ricercato nel concetto di probabilità (matematica), cioè nella concordanza di fatto tra il risultato atteso, calcolato con l’aiuto di questo concetto, e le frequenze misurate empiricamente». L’invito a estendere la psicoanalisi ben oltre la sfera clinica. Pauli, da parte sua, beneficiò enormemente di una rinnovata attività onirica costellata anche da «sogni di Fisica» - riportati nel testo - che contenevano importanti intuizioni la cui elaborazione si rivelerà decisiva per la formulazione delle sue teorie successive che gli valsero, nel 1945, il Nobel per la fisica.
* JUNG E PAULI a cura di Antonio Sparzani MORETTI&VITALI TRAD. DI G. DRAGO PAGG. 408 EURO 30
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Jung e Pauli, anime radioattive
di Biagio Cepollaro (Alfabeta2, 6 marzo 2016) *
Al binomio psiche e materia s’intitola l’epistolario fra Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli, che raccoglie circa ottanta lettere comprese fra il 1932 e il 1957. Si tratta di una fitta e intensa relazione tra due giganti, rispettivamente il creatore della psicologia analitica e il premio Nobel per la fisica che teorizzò, tra l’altro, il principio di esclusione, le proprietà dello spin e l’esistenza del neutrino. Ma è anche una sorta di romanzo epistolare, nel quale il paziente più giovane accetta con entusiasmo di dedicare la sua stessa attività di sognatore alla realizzazione di una ricerca comune. Con precisione filologica il curatore Antonio Sparzani, storico della fisica ed esperto di questioni attinenti alla teoria della relatività (Relatività, quante storie. Un percorso scientifico letterario tra relativo e assoluto, Bollati Boringhieri 2003) ha emendato anche alcune imperfezioni dell’edizione originale tedesca, curata dallo psicoanalista C.A. Meier, controllandone i molteplici rimandi e sistemando gli apparati del testo.
Pauli fu paziente di Jung per un paio di anni. In seguito il rapporto divenne, per più di un ventennio, di appassionata reciproca ricerca sulle connessioni profonde che si potevano intuire tra i concetti della fisica quantistica e gli archetipi della psicologia analitica. Il programma di Pauli appare esplicito: «creare una base concettuale unitaria per la comprensione scientifica dello psichico come del fisico». Ma per realizzare questo programma occorreva superare il determinismo classico non solo nell’ambito fisico ma anche psichico: in fondo, come per la fisica classica anche per la psicoanalisi di Freud il presupposto deterministico risultava irrinunciabile. Jung, con le sue nozioni di sincronia e connessioni non causali, si muoveva in una direzione simile. A creare un ponte tra i due versanti sembrava proporsi l’alchimia: il grande rimosso che tornava nell’oggettività dei sogni e degli archetipi che affollavano la mente del sognatore Pauli.
Sono lettere garbate e talvolta persino affettuose, ma anche spericolate: per realizzare il programma dell’unificazione dello psichico e del fisico occorreva andare al di là del concetto di causa per giungere a una nuova idea di legge di natura in grado di integrare o di unificare tutte le dimensioni apparentemente opposte. Si trattava di concepire il ruolo degli archetipi come istinti del rappresentare nella formazione scientifica dei concetti. Pauli a volte interpreta i suoi sogni insieme a Jung per gettare una luce sugli archetipi: col tempo crede sempre di più che la radice dei concetti scientifici sia in quel tipo di oggettività garantita dall’inconscio collettivo. Jung a sua volta cerca una corrispondenza sul piano della fisica. Entrambi sono persuasi che la scissione tra psichico e materiale vada superata in una visione integrata.
Nelle prime lettere Pauli avanza delle analogie che dovrebbero garantire una corrispondenza tra i due piani: per esempio quella tra il nucleo radioattivo e il Sé. Vi sarebbero in comune, sostiene, la metamorfosi e l’azione verso l’esterno. Jung incoraggia il fisico a credere nella sua intuizione: «Il nucleo radioattivo è un eccellente simbolo della fonte di energia dell’inconscio collettivo il cui strato più esterno è la coscienza individuale». Un’altra «corrispondenza» non meno coraggiosa è quella tra il concetto di complementarità (gli opposti onda/particella, eccetera) e la relazione tra conscio e inconscio. Un salto successivo, che sembra andare oltre le analogie, è operato attraverso la relazione tra il concetto junghiano di sincronia e il concetto di correlazione quantistica: qui la relazione a-causale e non locale tra eventi va intesa come pura connessione di significato. Possono accadere eventi tra loro non localmente relazionati né collegati da una relazione causale ma connessi da un rapporto di significato? Come è possibile che alcuni stati psichici abbiano effetto sulla materia?
Nel corso degli anni Jung e Pauli si confrontano senza difese, evitando di nascondersi dietro il muro dello specialismo. A tal proposito Sparzani ha di recente pubblicato alcuni scritti dell’epistemologo Paul Feyerabend dal titolo significativo Contro l’autonomia (Mimesis 2012), centrati proprio sullo smascheramento dei presunti specialisti, i quali si rivelano utili soprattutto a non mettere in questione il valore delle proprie ricerche e gli assunti di base delle proprie discipline. Pauli realizza in anticipo proprio questo programma. Per paradossale inversione dei contrari, i suoi progressi nel campo della fisica dipendono dalla sua capacità di abbandono psicologico. I sogni gli possono rivelare il senso profondo della sua ricerca scientifica cosciente.
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Jung e Pauli. Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia
A cura di Antonio Sparzani con Anna Panepucci, traduzione di Giusi Drago
Moretti&Vitali, 2016, 408 pp., € 30
Contaminazioni Il carteggio tra il fisico Wolfgang Pauli e lo psicoanalista Carl Gustav Jung mostra quanto sia mobile il confine tra branche del sapere in apparenza distanti
Entrambi gli autori sono ossessionati dall’intrusione del male nella natura e nella storia
Stanotte ho sognato due neutrini
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, La Lettura, 13.03.2016)
«Nella prima parte della mia vita io sono stato con gli altri un diavolo freddo e cinico e un fanatico ateo, nonché un intellettuale illuminista»: così scriveva in una lettera del 24 maggio 1934 il fisico Wolfgang Pauli al suo analista Carl Gustav Jung. Il paziente vedeva il rischio «da una parte di una tendenza alla criminalità, alla rissa (che avrebbe potuto degenerare in omicidio), dall’altra di un eremitaggio fuori dal mondo... con stati estatici e visioni». E aggiungeva: «Il senso della mia nevrosi consisteva quindi nel proteggermi dal pericolo del capovolgersi nel contrario». Wolfgang era un paziente di ampie vedute: quel pericolo «minaccia non soltanto me, bensì la nostra intera civiltà». Gli anni gli avrebbero dato ragione: dalla ferocia del Terzo Reich a Hiroshima. Nel gennaio del 1932 a Pauli era stato consigliato - dato il suo comportamento notturno da «canaglia» - di rivolgersi a Jung dal padre. E come ricorda (1935) Jung in persona, «io lo mandai da una dottoressa che era allora una principiante... E lei gli disse di sorvegliare i suoi sogni».
Pauli nel 1928 era diventato professore di fisica teorica al Politecnico di Zurigo. E, prima di andare in cura presso la giovane e volonterosa Erna Rosenbaum, aveva già formulato il «principio di esclusione» (per cui nel 1945 sarebbe stato insignito del Nobel per la fisica), che consentiva finalmente di interpretare in modo chiaro e distinto la tavola di Mendeleev degli elementi chimici.
Il principio si riferiva inizialmente agli elettroni di un atomo, dichiarando che essi non potevano occupare lo stesso stato quantistico. Wolfgang alla fine del 1930 indirizzava una lettera «alle care signore e signori radioattivi» (che tenevano un convegno a Tubinga) per segnalare la necessità di prendere in considerazione l’esistenza di una nuova particella («che obbediva anch’essa al principio di esclusione») e che battezzava «neutrone». Scelta terminologica poco felice: i neutroni di cui tratta abitualmente la fisica subatomica sono altra cosa; quelli postulati da Pauli sarebbero invece diventati noti come neutrini e sperimentalmente individuati solo nel 1956. Wolfgang festeggerà la notizia con una buona bevuta.
Nulla in confronto alle sbronze della sua «prima metà di vita»! Però, dobbiamo agli eccessi di questa la vigilanza dei propri sogni che doveva spingere il fisico alla scrupolosa registrazione di più di un migliaio di essi. Tornato con Jung nell’autunno del 1932, iniziò una corrispondenza che esordisce con scarni accenni agli appuntamenti per diventare uno scambio crescente di ipotesi su psiche e natura, destinato a durare più di 25 anni. Ne doveva nascere un importante volume, curato in tedesco da Carl Alfred Meier (1992) e poi tradotto in spagnolo, francese e inglese.
Finalmente appare in italiano, grazie alla cura attenta e appassionata di Antonio Sparzani (con la collaborazione di Anna Panepucci): Jung e Pauli, Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia (Moretti & Vitali). Qui sono la descrizione dei sogni di Wolfgang e il suo stesso commento a fornire l’impalcatura per un’avventura che muove dalla spiegazione fisica all’interpretazione in termini di psicologia del profondo. Per esempio, così Pauli riferisce il sogno del 12 aprile 1955: «Sono in California... si trova lì... un laboratorio... vengono eseguiti degli esperimenti, una voce dice: con due neutrini. Arrivano alcuni luminari di diverse discipline. Anzitutto C.G. Jung che, in anticipo rispetto agli altri, imbocca le scale spedito come una donnola»; seguono due fisici e un giovanissimo biologo. Pauli ha una chiara immagine del suo analista, ma meno degli esperimenti! Uno dei fisici gli dice che si tratta di una reazione nucleare; comunque, Wolfgang lascia il laboratorio per viaggiare in auto insieme con una donna, «la sconosciuta» di tanti altri suoi sogni. I due si lasciano alle spalle i colleghi e infine si fermano «in un luogo molto bello». È indubbio che il sogno sia stato «molto piacevole»; Pauli lo interpreta come la celebrazione di «una sintesi tra psicologia analitica, fisica e biologia». E aggiunge che i due neutrini potrebbero «in via sperimentale» venir tradotti come «due contenuti inconsci... in interazione solo molto debole con la coscienza».
Questa commistione di linguaggi (fisica, con qualche accenno alla biologia, e psicologia del profondo) nasce dalla convinzione che qualche anno prima Pauli aveva così espresso: «L’occuparsi dei sogni è esso stesso un esperimento: viene anzitutto registrato prima del risveglio, poi associato, riflettuto. Da ultimo, esercita una retroazione sull’inconscio, che si esprime di nuovo... nell’immagine del laboratorio». Già prima (1953) Jung aveva dichiarato a Pauli che «da nessuna parte noi possiamo raggiungere una verità più complessa di quella fornita, per l’appunto, dall’immagine come noi la concepiamo. Perciò sostengo che noi siamo praticamente rinchiusi nella psiche, per quanto possiamo estendere la nostra prigione fino alla vastità del mondo».
Non si tratta né di ridurre ciò che è psichico alla fisica né ciò che è fisico alla psicologia. Ciò che elaborano Jung e Pauli è - come scrive Sparzani - «la ricerca assidua e ostinata di un terreno comune», pur muovendo da discipline anche molto diverse: per Pauli fisica ma pure chimica e biologia, senza dimenticare una notevole competenza matematica; per Jung la nuova disciplina che lui stesso ha costruito e che con la concezione dell’inconscio «collettivo» si protende verso l’antropologia culturale e la storia delle idee (senza dimenticare il grembo buio degli archetipi). Si tratta di un’«avventura» nei territori «del razionale e dell’irrazionale», il cui confine è elusivo e mobile, non solo come quello tra le varie discipline ma anche come quello tra bene e male.
Chi leggerà il carteggio sarà forse sconcertato dalle provocazioni del fisico come da quelle di Jung, di 25 anni più vecchio di lui. Entrambi si ritrovavano ossessionati da quella che non pochi teologi chiamavano l’intrusione del Maligno nella natura e nella storia. Scriveva nel 1953 Pauli a Jung: «È l’archetipo dell’interezza dell’essere umano ciò da cui la scienza della natura... prende la sua dinamica emotiva. A ciò corrisponde il fatto che allo scienziato di oggi, diversamente che ai tempi di Platone, il razionale appare sia come bene sia anche come male». E aggiungeva che scoprendo «fonti di energia di proporzioni prima insospettate, che possono essere impiegate sia a fin di bene che a fin di male» proprio la fisica produceva «un acuirsi dei conflitti morali sia nelle nazioni che nell’individuo». Per questo non bisognerebbe smettere di «sorvegliare» anche i propri brutti sogni . Mi viene in mente il rimprovero che il procuratore distrettuale di New York rivolge al geniale investigatore Philo Vance (nei gialli firmati S.S. Van Dine, pseudonimo di W.H. Wright): «Tu stai sognando». Ma lui subito ribatte che senza sognare non si saprebbe come pensare e agire.
Jung, la libido è anche bere un bicchiere di vino prima di lasciare la vita
L’intatta attualità dello psichiatra svizzero nelle 9500 pagine (e 10 mila note) digitalizzate
di Alessandro Defilippi (La Stampa TuttoLibri, 21.11.2015)
Il 6 giugno del 1961, a Küsnacht, sul lago di Zurigo, moriva Carl Gustav Jung. Pare che le sue ultime parole siano state, la sera prima della morte: «Beviamoci un buon bicchiere di vino. Oggi ce lo siamo meritato». E, riferisce Sandra Petrignani nel suo bel blog, «Si scatenò un violento temporale e il vecchio pioppo del giardino sulle rive del lago fu colpito da un fulmine». In queste frasi, in questo evento, sono racchiusi molti dei segreti del vecchio saggio: la sua fisicità, il suo amore per la vita, il mistero e i simboli.
Sono dunque trascorsi cinquantaquattro anni, eppure la sua voce - più di altre a noi più vicine - ci tocca chiara e forte come non mai. È come se lo psichiatra svizzero avesse intuito il nostro futuro e ci avesse donato, con i suoi libri, alcuni strumenti per comprendere questa post modernità. Pensiero debole, quello di Jung? Certo così potrebbe apparirci, a confrontarlo con la rigorosità della costruzione freudiana, con il legame di Freud con determinismo e positivismo e con la sua etica stoica e pessimistica.
La grande rottura tra i due avvenne proprio sul concetto fondante della psicoanalisi, quello dell’inconscio e della sua energia, la libido. Freud confina quest’ultima nel campo della sessualità e la contrappone alle pulsioni di morte, per cui ogni costruzione umana, anche le più astratte, altro non sarebbero che una sublimazione delle pulsioni sessuali o aggressive. Jung rifiuta questo riduttivismo: per lui la libido è semplicemente energia psichica, che può investire ogni campo dell’attività e della sensibilità umane.
Ma pensiero forte in altro senso: Jung ha donato ai suoi lettori sempre un obiettivo e una speranza. L’obiettivo rappresentato da quello che egli chiama processo individuativo: il cercare di divenire ciò che si è appreso di essere, il tentativo di essere noi stessi fino in fondo, portando il peso del nostro piccolo o grande talento di vivere. La speranza che il nostro mondo e la nostra vita non siano limitati nel qui e ora ma che esista una qualche forma di ulteriore: «Per me, sin dall’inizio, il mondo è stato infinito e inafferrabile».
Dunque, benvenuta questa edizione in e-book dell’opera completa di Jung che Bollati Boringhieri licenzia in questi giorni. Si tratta della digitalizzazione dei 18 volumi delle Opere, oltre 9500 pagine di edizione cartacea, in un unico e-book consultabile con un tablet o con un e-reader. Un’operazione, ci raccontano i responsabili della casa editrice, che ha richiesto tre anni di gestazione e che è rivolta anche, se non soprattutto, a un pubblico più giovane e comunque in confidenza con i supporti informatici. Un’edizione peraltro, di grande utilità anche per lo studioso e lo psicoterapeuta, con la possibilità che offre di passare rapidamente da un’opera all’altra e di effettuare ricerche mirate in tempo reale.
Ma torniamo a Jung e alla sua attualità. Rimuoviamo intanto quelle accuse talora portategli di fumisteria misticheggiante o, ancora peggio, di essere una specie di anticipatore della cosiddetta New Age. Jung ci ricorda sempre di essere principalmente un medico, un empirista. E questo atteggiamento si ritrova nell’arco di tutta la sua vita, dai primi testi dedicati alla psichiatria a quelli che hanno invece come oggetto temi ben diversi, come il mito e l’alchimia. In questi ultimi Jung ci mostra in tutta la sua pienezza l’importanza della vita simbolica, della capacità cioè, tramite i simboli, come quelli che si ritrovano nei miti o nei testi alchemici, di accedere a un senso in un mondo che pare di senso essere privo. Scriverà in effetti: «Il bisogno di mitologia è il bisogno di senso».
Dunque i libri di Jung non ci parlano del contingente, del temporaneo. Ma proprio per questo restano di bruciante attualità. Essi in realtà si occupano delle cose davvero fondamentali: il coraggio, l’amore, il senso, la morte, Dio o cosa per esso. Ecco perché in questo tempo oscuro ci vengono ancora incontro, ci interrogano e ci stimolano a cercare nuove risposte.
"Oriente e Occidente - scrive Nietzsche in Schopenhauer come educatore - sono tratti di gesso che qualcuno disegna davanti ai nostri occhi per beffarsi della nostra pavidità".
“Non dobbiamo avere paura dei nostri sogni”
Parla Sonu Shamdasani, curatore dell’immenso “Libro rosso” di Jung
“Nell’inconscio è nascosto il sacro”
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 16.11.2015)
Sonu Shamdasani sarà, sabato, uno dei protagonisti di “L’arte della felicità”, il festival che si tiene a Napoli da oggi fino a domenica prossima. Fra gli altri partecipanti, Franco Arminio e Paolo Siani
«Le religioni non sono in sé negative. Non sono d’accordo né con Marx né con Freud. Sono più vicino a Jung». Quando Sonu Shamdasani risente le parole usate dal vecchio amico e maestro James Hillman nel rispondere alla domanda se la violenza del terrorismo islamico fosse realmente legata alla religione, ha un attimo di esitazione. Probabilmente perché la sua mente va al lavoro di una vita, la cura del “Libro rosso” del fondatore della psicologia analitica, smisurato percorso iniziatico tra gli abissi e le illuminazioni dell’animo umano.
«Secondo Jung - spiega, mentre sta arrivando in Italia per partecipare al festival L’arte della felicità a Napoli - riafferrare la possibilità dell’esperienza religiosa attraverso la psicologia era un recupero di significato che rispondeva alla perdita di senso prodotta dalla laicizzazione».
Una perdita avvenuta in quale momento della storia?
«Con l’illuminismo, che vedeva come estrema conseguenza negativa dell’apoteosi del razionalismo. Jung cercava di salvare gli sviluppi positivi della scienza e della tecnologia e insieme di mitigarne l’impatto negativo, soprattutto nel senso della perdita di significato delle vite individuali».
Ma Jung nel suo studio aveva un busto di Voltaire.
«Sì. Diciamo che cercava di esplorare i misteri senza perdere la testa. Cioè di mantenere un’attitudine scettica nel suo essere aperto al possibile».
Il pensiero di Jung era un pensiero laico o un pensiero religioso?
«Jung è in origine una persona dall’orientamento religioso che intorno al volgere del secolo sperimenta un’autentica conversione al pensiero scientifico moderno. Ma intorno al 1912-1913 ha una prima crisi. Si accorge di avere smarrito il senso della vita e cerca di recuperarlo in un lungo viaggio di esplorazione di sé. Tenta di orientarsi nella tradizione in cui è cresciuto e di tornare quindi a Cristo, ma in maniera empirica, il che a sua volta lo apre ad altre tradizioni, come il buddhismo e l’induismo. Vuole cogliere l’esperienza sotto le forme storico-culturali, capire se vi siano elementi comuni per tentare un processo di trasformazione attraverso cui il senso potente dell’esperienza individuale si incorpori in specifiche forme tradizionali».
Dopo l’egemonia del binomio Marx-Freud nel XX secolo, il XXI vede un rinnovato interesse per le religioni: non solo induismo e buddhismo ma anche sufismo, ad esempio e anche cristianesimo. Nonché per il pensiero dei mistici, i diversi rituali e forme di preghiera, meditazione, yoga, e poi lo studio dei simboli, l’alchimia, la magia, l’occultismo e in generale l’esoterismo. In questo incessante revival di ciò che Hillman considerava una deriva New Age ci sono tutti gli elementi presenti negli scritti di Jung.
«Jung afferma che il comparativismo storico-religioso non è solo di interesse erudito ma parla alle forme, alle strutture che sono onnipresenti negli individui: corrisponde all’esperienza collettiva delle persone. Ecco la connessione diretta con la prassi psicoterapeutica: Jung constata paralleli indubitabili quanto inconsapevoli tra le forme presenti nei sogni e nelle fantasie dei pazienti e le tradizioni esoteriche».
Jung oggi è di moda, mentre la giovane generazione sembra trascurare Freud. Crede che questo abbia a che fare con il diffuso ritorno dell’interesse religioso?
«Assolutamente sì. È curioso che Jung sia letto come un autore contemporaneo e Freud come un autore storico che non parla più alle inquietudini contemporanee».
Il “Libro rosso” è diventato una specie di bibbia della nuova generazione. Perché?
«Il Libro rosso racconta come Jung è diventato Jung. Ciò che più ha toccato i lettori è stato il senso di assertività che comunica, incoraggiando ciascuno ad affrontare la propria esperienza, a scorgere il valore di questa impresa, a comprendere che per quanto folli possano essere sogni e fantasie rientrano comunque nel registro umano e c’è qualcun al- tro che ne ha avute di simili e si è preso la briga e ha avuto la pazienza di cercare di capirle. Ha dato ai lettori la sensazione di non essere soli. Quindi, a mio parere, il suo successo non riguarda né la psicologia di Jung né una sua particolare cosmologia. Il senso è che vale la pena appoggiarsi alla propria esperienza per spingersi più avanti in una qualsiasi iconografia interiore adatta alla propria vita».
Oggi l’occidente sta assorbendo sempre più il buddhismo, anche nel cristianesimo. Jung mette spesso in relazione le due religioni e in particolare, nelle Memorie, c’è un confronto intrinsecamente gerarchico: “Nel cristianesimo c’è più sofferenza, nel buddhismo più visione e azione. Entrambe le vie sono giuste, ma il Buddha è l’essere umano più completo”.
«Quello che le religioni a un certo momento gli fanno capire, è che esistono aspetti vitali di cui nel cristianesimo contemporaneo si è smarrita la presenza. Aspetti che Jung cerca di reintegrare. Non è quindi semplicemente una questione di gerarchia. Bisogna chiedersi: cos’è che gli abitanti di quello che allora si chiamava occidente potevano imparare dalle altre tradizioni? Non si trattava semplicemente di adottarle, ma di scorgervi ciò che poteva essere riportato indietro e compreso, ad esempio, dal cristianesimo. La cosa più importante per Jung era questo viaggio di ritorno».
È un viaggio di ritorno non solo nello spazio ma anche nel tempo: riportare l’oriente nell’occidente e il passato nel presente.
«Sì, e ci aiuta ad affrontare un altro grande problema di oggi: come convivere con popoli che hanno diverse visioni del mondo, credenze, forme politiche. Qualunque percorso possa promuovere uno spirito di mutua comprensione e tolleranza è fondamentale, e lo è tanto più quando si arriva alle materie di fede e a ciò che Paul Tillich ha chiamato la “cura ultima”, cioè la ricerca dell’essere, la riconnessione col fondamento ».
Ma è fondamentale anche la laicità della psicologia. Non crede che l’approccio psicologico, per cui l’esperienza religiosa è espressione di un processo psichico, sia ancora più utile al nostro mondo?
«Certo, ma occorre studiare anche il laicismo e anche la psicologia come particolari ontologie o visioni del mondo». Secondo lei nel nuovo quadro contemporaneo prevale la laicizzazione dell’esperienza religiosa o il ritorno alla religiosità, anche se in qualche modo ibrida e sincretistica?
«Credo che i due aspetti siano inscindibili: la psicologia junghiana rende possibile un nuovo approccio alla questione religiosa nell’età moderna. O almeno è ciò che Jung sperava».
Un nuovo immanentismo?
«Sì. È questo che Jung cercava di promuovere ».
di Edoardo Boncinelli (Corriere della Sera, 24.10.2011)
«Dal momento che la concezione determinista è stata abbandonata in fisica, non ci sono neanche ragioni per mantenere ancora una concezione vitalista, secondo cui l’anima potrebbe e dovrebbe "violare" le leggi fisiche. Mi sembra piuttosto che una parte essenziale dell’"armonia universale" consista nel far sì che le leggi fisiche lascino proprio un margine per un altro modo di osservare e di considerare le cose (la biologia e la psicologia) in modo che l’anima possa raggiungere tutti i suoi "obiettivi" senza violare le leggi fisiche». Questa dichiarazione di Wolfgang Pauli è posta come una sorta di conclusione delle conclusioni alla fine del libro Pauli e Jung di Silvano Tagliagambe e Angelo Malinconico (Raffaello Cortina Editore, pagine 320, 27). Il fisico teorico Pauli e il fondatore della Psicologia Analitica, Carl Gustav Jung, discussero a lungo su come si potesse giungere a questo «altro modo» di pensare al mondo, nell’ipotesi, ovviamente, che un altro modo esista, che esista in definitiva un «mondo intermedio» fra materia e psiche che possa fondere le due istanze, cercando inoltre di evitare tanto le secche del determinismo e della causalità quanto quelle della casualità.
Fin dall’inizio la scienza occidentale ha proceduto espellendo il soggetto dall’universo delle cose da studiare e da comprendere. Qualcuno si accontenta, ma molti soffrono di tale esclusione e perseguono il disegno di una conciliazione fra lo studio rigoroso della realtà materiale e la comprensione del mondo della psiche individuale e di ciò che si definisce comunemente spiritualità.
Fra quelli che non si sono accontentati figurano certamente Pauli, fortemente critico nei confronti dell’orientamento che aveva preso la fisica atomica dei suoi tempi, e lo psicologo zurighese Jung, infaticabile esploratore della psiche profonda e del suo rapporto con la nostra percezione della realtà. Questi due personaggi molto diversi ne discussero a lungo, fino a produrre insieme anche un libro sull’argomento. Il confronto fra i loro percorsi intellettuali rappresenta un capitolo affascinante della tormentata problematica del Novecento e adesso i nostri autori hanno dedicato un libro non piccolo e molto informato alla disamina degli aspetti più riposti di tale confronto. Tagliagambe da parte sua va avanti con questo suo libro sul progetto di esplorare una originalissima «epistemologia del confine».
Che cosa nacque dal fortunato incontro di queste due fertili menti? Jung si confermò nella sua visione dell’inconscio come «luogo psichico che custodisce in forma primaria e autonoma i contenuti e le immagini individuali e universali, potremmo dire le verità sul singolo individuo, sui gruppi sociali di appartenenza, sull’intera umanità che contiene l’individuo stesso». Fondamentale nella sua concezione è il ruolo degli archetipi, quali «forme senza contenuto, atte a rappresentare solo la possibilità di un certo tipo di percezione e azione. Quando si presenta una situazione che corrisponde a un dato archetipo, allora l’archetipo viene attivato».
Pauli, per parte sua, andava riflettendo su una possibile conciliazione fra cause e significati. Dalla loro relazione scaturì, a quello che ne sappiamo, soprattutto l’idea di sincronicità come nuova forma di significatività e di senso degli eventi della vita. «Il principio di sincronicità afferma che un certo evento psichico trova un parallelo in qualche evento esterno, non psichico e che tra i due non esiste alcun nesso causale. È un parallelismo di significato».
Abbiamo aperto con Pauli; chiudiamo con Jung: «Passerà ancora molto tempo prima che la fisiologia e la patologia del cervello da un lato e la psicologia dell’inconscio dall’altro possano darsi la mano. Anche se alla nostra conoscenza attuale non è concesso di trovare quei ponti che uniscono le due sponde ... esiste tuttavia la sicura certezza della loro presenza. Questa certezza dovrà trattenere i ricercatori dal trascurare precipitosamente e impazientemente l’una in favore dell’altra o, peggio ancora, dal voler sostituire l’una con l’altra. La natura non esisterebbe senza sostanza, ma non esisterebbe neppure se non fosse riflessa nella psiche». La discussione continua.
Esce in Italia per Bollati Boringhieri uno degli inediti più importanti nella storia della psicologia
Qui annotò il suo percorso interiore. E nel 1959, due anni prima di morire, la pagina d’addio
Sogni, visioni, deliri e paure. Ecco il libro segreto di Jung
Ecco in traduzione italiana il «Libro» in cui il fondatore della psicologia analitica dal 1913 annotò la sua vita interiore. Con un esordio «sanguinario» che gli fece temere la schizofrenia. Invece arrivava la Grande Guerra...
Una «cattedrale». Concesse al suo mondo interno un’attenzione da certosino medievale 1913-1914: Si susseguono immagini sanguinarie. Pazzia? No È la Guerra che arriva
Il testo italiano. Dopo gli Usa, da noi. Un nuovo corso di studi
Il Libro rosso di Carl Gustav Jung, A cura di Sonu Shamdasani, pagine 371-XXII, euro 150,00, Bollati Boringhieri
di Romano Madera (l’Unità, 18.11.2010)
Jung lavorò al «Libro rosso» trascrizione in parole e immagini dei sogni e delle visioni che popolarono il suo «viaggio di esplorazione verso l’altro polo del mondo» per oltre sedici anni, dal 1913 al 1930, e ancora in tardissima età egli lo definì una sorta di presagio numinoso, l’opera di fondazione in cui aveva deposto il nucleo vitale e di pensiero della sua futura attività scientifica. Non volle mai autorizzarne la pubblicazione. Dopo la pubblicazione negli Usa lo scorso anno, ecco l’edizione italiana che inaugura una stagione nuova negli studi junghiani.
Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung è un oggetto prezioso e bizzarro insieme. Averlo tra le mani comunica la sensazione di poter sfogliare un codice medioevale, riprodotto con la perfezione della fotografia e delle tecniche tipografiche più moderne. Ma il miniaturista lo ha decorato di immagini sfrenatamente oniriche, dipinte da una mano di inizio Novecento. Una volta, parlando con una sua paziente, Jung le suggerì di trascrivere e disegnare le sue fantasie nel modo più accurato possibile in un libro ben rilegato e costoso. Era quanto aveva fatto lui stesso dal 1913 in poi, prima nei Quaderni Neri e, in seguito, nel Liber Novus, conosciuto poi come Rosso per il colore del cuoio che ne raccoglieva le grandi pagine. Adesso è disponibile la traduzione italiana, edita da Bollati Boringhieri, che riproduce perfettamente, in facsimile, il testo calligrafico e le tavole disegnate da Jung, accompagnate da una utilissima introduzione del curatore, Sonu Shamdasani, lo studioso di storia della psicologia che sta dirigendo, per la fondazione internazionale Philemon, la pubblicazione dei numerosi inediti di Jung e la riedizione critica delle opere già conosciute.
Ma da dove nasce una dedizione così meticolosa ai propri processi interiori, ai sogni, alle fantasie in stato di veglia, ai pensieri che balenano in noi senza essere invitati? Jung sentì di non avere altra scelta che quella di confrontarsi, nel modo più franco e spietato, con lo scuotimento che faceva vacillare la fiducia nella sua stessa sanità mentale. Si decise a lasciar venire alla luce ciò che lo turbava, anzi, decise di trattarlo come l’ospite di maggior riguardo, consacrandogli il tempo e l’attenzione che un certosino medievale dedicava alla trascrizione e alla miniatura dei libri sacri.
Ne parlava come di un libro-cattedrale interiore, pur sapendo che molti, anche suoi colleghi psichiatri e psicoanalisti, avrebbero considerato il suo modo di procedere una tecnica che avrebbe poi chiamato immaginazione attiva, una specie di meditazione e registrazione dei dialoghi con le immagini spontanee della psiche come «una sorta di pazzia». Così scrive nell’ultima pagina, aggiunta nel 1959 e subito interrotta, due anni prima di morire, dopo aver lasciato, per decenni, incompiuto il suo testo. Jung seppe trarre da ciò che è massimamente inquietante una via nuova, nuova come il titolo latino del suo libro, una via insieme psicologica e spirituale.
Dall’ottobre del 1913 al luglio del 1914 si susseguono una serie di visioni e di sogni con un mare di sangue che inonda l’Europa, immagini di guerra, di assassinio, di spaesamento in terra straniera. Lo psichiatra in lui teme un esordio schizofrenico. Ma scoppia la Grande Guerra. Jung comincia a capire, per esperienza diretta, che un legame tanto insondato quanto possente tiene in comunicazione la psiche del singolo con il mondo, di più, che il mondo abita l’uomo, fin nel profondo. Il conflitto distruttivo collettivo lo minaccia così da vicino perché la sua vicenda personale entra in risonanza con esso: la rottura con Freud lo aveva lasciato orfano del padre elettivo; la sua vita familiare e affettiva era stata attraversata dalla difficile relazione di certo amorosa, forse anche sessuale con una sua geniale ex paziente, Sabina Spielrein.
Il Libro Rosso è l’elaborazione immaginale, narrativa e concettuale i tre registri si intrecciano continuamente nel testo di questo sciame sismico che annuncia la fine di un mondo, storico e biografico. Mentre la Grande Guerra seppelliva in un’ecatombe tutte le fantasie onnipotenti della borghesia illuminata europea, la personalità dello psichiatra di fama internazionale, del professionista benestante, dello scienziato, perdeva ogni attrattiva interiore e doveva dichiarare fallimento quanto al senso della vita.
Il libro incomincia così, con l’abbandono dello «spirito del tempo», legato al successo e alla fama, e con l’ascolto dello «spirito del profondo» che esige di immergersi negli enigmi eterni dell’esistenza: nascita e morte, amore e distruzione, bene e male, naturalità e divinità. Proprio su queste pagine si avvia un confronto con un interlocutore che rappresenta per Jung «un caso che fa epoca», Friedrich Nietzsche, l’annunciatore della morte di Dio e dell’avvento di Dioniso contro il Crocifisso.
In un capitolo intitolato Der Weg des Kreuzes la via della croce, uno dei più drammatici del libro, lo Zarathustra di Nietzsche è continuamente evocato e riconosciuto come una inconscia identificazione, posseduta da una rabbiosa violenza, con il crocifisso. E proprio colui che si voleva profeta della terra, Nietzsche-Zarathustra, rimane senza terreno sotto i piedi. Commenta efficacemente e lapidariamente Shamdasani, a proposito delle evidenti somiglianze strutturali fra Libro Rosso e Zarathustra, che là dove Nietzsche proclama la morte di Dio, Jung raffigura la sua rinascita nell’anima.
Shamdasani riporta nella sua «Introduzione» al Libro Rosso, gli appunti di conversazioni con Jung di Cary Baines, una analizzante, amica e collaboratrice, che aveva battuto a macchina nuove parti del testo. Nel gennaio del 1923 Baines scrive che le immagini di Elia e di Filemone, come altre, sembrano essere fasi di quello che Jung avrebbe chiamato «il maestro». Secondo Baines, Jung era sicuro che era questo stesso Maestro ad aver ispirato Buddha, Cristo, Mani, Maometto... e che questi si erano identificati con la sua figura. Identificazione dalla quale Jung era deciso a rimanere ben distante, perché convinto di essere soltanto uno psicologo che aveva capito quale era il processo in atto. Baines replicò che quel che si doveva fare era far capire al mondo la natura di questo processo di rivelazione del maestro, senza che altri credessero di poterlo mettere in gabbia e di averlo a loro disposizione.
Gli appuntamenti. Saggi, presentazione e un convegno a Milano
2 dicembre Uscirà il numero del quarantennale della «Rivista di Psicologia Analitica», diretta da Paolo Aite, intitolato «Nel crogiuolo junghiano», che contiene alcuni saggi su «Il Libro Rosso».
11 dicembre Alla Cappella Farnese di Bologna, «Il Libro rosso» verrà presentato da Laura Briozzo, Federico De Luca Comandini, Alfredo Lopez, Robert Mercurio, Giulia Valerio e Claudio Widmann. Lo stesso giorno ad Asciona, ne parleranno Riccardo Bernardini, Claudio Bonvecchio, Adriano Fabris, Fabio Merlini, Gianpiero Quaglino, Giovanni Sorge e Luigi Zoja
14 dicembre L’Università di Milano-Bicocca ospiterà una giornata di studi dedicata al «Libro Rosso» (tra i partecipanti, oltre a Romano Màdera filosofo e psicoanalista, docente all’Università Bicocca di Milano Giovanni Sorge, Fabio Madeddu, Lella Ravasi, Silvia Lagorio, Claudia Baracchi, Franco Livorsi, Uber Sossi).
Appunti di viaggio verso l’abisso
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 07.11.2010)
Gli anni che precedettero la prima guerra mondiale furono per Carl Gustav Jung (1875-1961) attraversati da strane premonizioni. Poco più che trentenne, cominciò ad avere delle visioni apocalittiche. I suoi occhi erano colmi di terrificanti inondazioni, vedeva macerie ovunque e fiumi di sangue scorrere per l’Europa. Pensò di essere pazzo. Quegli stati di veglia, durante i quali gli accadeva di provare angoscia e tremore, non potevano tuttavia ridursi a semplici fantasticherie. Da bambino, gli accadde spesso di sognare una figura che la voce della madre definiva il «divoratore di uomini». Chi era quel personaggio che di notte portava lo scompiglio nella testa del giovane Carl?
Ancora molti anni dopo, riflettendo su quell’esperienza allucinatoria, Jung non sapeva se ricondurla alla favolistica dimensione di un orco o alla figura del Cristo. Forte era il disorientamento, ma forte al contempo la necessità di cercare una spiegazione che andasse oltre la pura ragione e la semplice esperienza sensoriale. Fu così che Jung cominciò ad annotare, come un allucinato sismografo, tutto quello che accadeva nel proprio mondo interiore. Non solo i sogni e le visioni, ma anche le letture fatte, gli scrittori compulsati, i saperi torturati, le civiltà confrontate, le mitologie, il folclore, l’arte, le religioni, insomma tutto, o quasi, confluì in quel grande e misterioso affresco incompiuto che è il Libro rosso, di cui esce ora l’edizione italiana.
Nelle intenzioni di Jung, quel testo - per decenni considerato una sorta di Santo Graal della psicoanalisi junghiana - avrebbe dovuto descrivere le varie componenti della sua personalità, proprio a partire dalle sue fantasie. Le quali, sebbene agissero liberamente, appartenevano al sostrato antichissimo del mito. Jung aveva compreso che per conoscere se stessi occorreva perlustrare quel cantiere di sogni e di apparenti bizzarrie, di visioni e perfino di mostruosità che talvolta ci portiamo dentro. Era consapevole che non si trattava di semplici allucinazioni, ma di un mondo simbolicamente ricchissimo che l’epoca moderna aveva tentato di cancellare.
Il Libro rosso (o Liber novus) mette il lettore di fronte a due situazioni: gli fa conoscere Jung attraverso Jung; e contemporaneamente lo introduce a un metodo di lavoro che può illuminare la sua vasta produzione. È noto che egli fu allievo di Freud, con il quale scambiò, oltre che l’amicizia, lettere, giudizi e riflessioni. Quel rapporto - proprio negli anni in cui vennero poste le premesse alla sua opera più intima - si esaurì. Nel 1914 Jung uscì dall’Associazione psicoanalitica internazionale. Alla base della rottura ci fu più di un motivo.
C’era, innanzitutto, quella che Jung definì l’ortodossia freudiana e l’eccesso di dogmatismo dottrinario; c’era il diverso modo di interpretare la libido (per Freud la libido era riconducibile esclusivamente alla pulsione sessuale; mentre per Jung essa si apriva anche ad altre pulsioni psichiche); c’era la diversa lettura che entrambi davano dell’inconscio (per Freud all’inizio una tabula rasa su cui via via vengono depositati gli atti rimossi dalla coscienza; per Jung viceversa l’inconscio è già definito fin dall’origine); infine il metodo freudiano era soprattutto un’analisi retrospettiva, tendeva cioè a ricostruire gli antecedenti del materiale psichico osservato; quello junghiano privilegiava la vita nella sua complessità simbolica e immaginativa. Di qui l’importanza che agli occhi dell’ex allievo assunsero alcuni archetipi: "Persona", "Ombra", "Anima", "Sé", che egli interpretò come manifestazioni differenti della personalità.
Il Libro rosso può dunque esser letto anche come il tormentato emanciparsi dalla figura del maestro. Il differente approccio junghiano alla vita psichica, includeva l’esistenza di un conflitto con la figura paterna, sia reale (come nel caso del distacco da Freud) sia simbolica (quando gli accadde di riflettere sulla morte di Dio). Jung meditò a lungo sullo Zarathustra di Nietzsche. Ne concluse che - grazie all’anima - il dio che muore rinasceva nelle sue multiformi espressioni.
Il Libro rosso è una delle grandi avventure clandestine del Novecento. Jung ne interruppe improvvisamente la stesura negli anni Venti, per poi riprenderla nel 1959. Ma anche in quella occasione prevalse la sospensione. Per anni il testo fu inaccessibile. Del resto, non era chiaro se Jung lo considerasse pubblicabile. Gli eredi, grazie al lavoro di persuasione di Sonu Shamdasani, lo hanno infine consentito. E questo, sebbene la parte scritta e quella disegnata (vi ricorre, ad esempio, il grande tema del Mandala) inducano a catalogarlo tra i suoi frutti più esoterici. D’altro canto, il Libro rosso rivela un mondo che ci sorprende per ricchezza concettuale, per affezione a civiltà remote e diverse dalla nostra, per quei nessi sotterranei che mostrano l’immenso talento di chi li ha saputi creare. Più che un monumento alla psicologia, o un semplice documento intimo, il Libro rosso è la prova che i grandi spiriti sanno guardare l’abisso della follia senza esserne inghiottiti.
Il libro rosso di Jung tra Dio e abisso
Dio nella mia anima draghi nel mio cuore
di Carl Gustav Jung (la Repubblica, 07.11.2010)
Nel 1913 Carl Gustav Jung ha quarant’anni ed è un uomo realizzato: ha "fama, potere, ricchezza, sapere". Ma all’improvviso incominciano incubi e visioni apocalittiche. Il padre della psicologia analitica li annoterà e li disegnerà per tutta la vita su un quaderno che diventerà il "Libro rosso" Uno stupefacente diario intimo, monumento all’inconscio, testo alchemico di straordinaria ricchezza. L’opera, rimasta a lungo segreta, ora esce in Italia
Quando, nell’ottobre 1913, ebbi la visione dell’alluvione, mi trovavo in un periodo per me importante sul piano personale. Allora, all’età di quarant’anni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato. Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e ogni felicità umana. Cessò dunque in me il desiderio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desiderio e fui colmo d’orrore. La visione dell’alluvione mi sopraffece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso però mi forzò facendomi provare un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo... Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui.
Ho scosso dai miei calzari la polvere di ogni paese e sono venuto da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla di tutto il rumore della vita e del mondo? Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta. Questa vita è la via, la via a lungo cercata verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non c’è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta, mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato. Mi conosci ancora? Quanto a lungo è durata la separazione! Tutto è così mutato. E come ti ho trovata? Com’è stato bizzarro il mio viaggio! Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuosi sentieri una buona stella mi ha guidato fino a te? Dammi la mano, anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti, o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato a te. Diciamo grazie alla vita perché ho vissuto, per tutte le ore serene e per quelle tristi, per ogni gioia e ogni dolore. Anima mia, il mio viaggio deve proseguire insieme a te. Con te voglio andare ed elevarmi alla mia solitudine».
Questo mi costrinse a dire lo spirito del profondo e al tempo stesso a viverlo contro la mia stessa volontà, perché non me l’aspettavo. In quel periodo ero ancora totalmente prigioniero dello spirito di questo tempo e nutrivo altri pensieri riguardo all’anima umana. Pensavo e parlavo molto dell’anima, conoscevo tante parole dotte in proposito, l’avevo giudicata e resa oggetto della scienza.
Credevo che la mia anima potesse essere l’oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. Perciò lo spirito del profondo mi costrinse a parlare all’anima mia, a rivolgermi a lei come a una creatura vivente, dotata di esistenza propria. Dovevo acquistare consapevolezza di aver perduto la mia anima. Da ciò impariamo in che modo lo spirito del profondo consideri l’anima: la vede come una creatura vivente, dotata di una propria esistenza, e con ciò contraddice lo spirito di questo tempo, per il quale l’anima è una cosa dipendente dall’uomo, che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare i confini.
Ho dovuto capire che ciò che prima consideravo la mia anima, non era affatto la mia anima, bensì un’inerte costruzione dottrinale. Ho dovuto quindi parlare all’anima come se fosse qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me, ma grazie alla quale io stesso esistevo.
Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio dalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall’orrore del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l’angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue di questo mondo. Diverrà folle per la sua insaziabile cupidigia e si allontanerà dalla sua anima, per non ritrovarla mai più. Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà, ma non ritroverà la sua anima, perché solo dentro di sé la potrebbe trovare. Essa si trovava certo nelle cose e negli uomini, tuttavia colui che è cieco coglie le cose e gli uomini, ma non la sua anima nelle cose e negli uomini. Nulla sa dell’anima sua. Come potrebbe distinguerla dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desiderio stesso, ma non negli oggetti del desiderio. Se lui fosse padrone del suo desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadronirsi di lui, avrebbe toccato con mano la propria anima, perché il suo desiderio ne è immagine ed espressione.
Se possediamo l’immagine di una cosa, possediamo la metà di quella cosa. L’immagine del mondo costituisce la metà del mondo. Chi possiede il mondo, ma non invece la sua immagine, possiede soltanto la metà del mondo, poiché l’anima sua è povera e indigente.
La ricchezza dell’anima è fatta di immagini. Chi possiede l’immagine del mondo, possiede la metà del mondo, anche se il suo lato umano è povero e indigente. Ma la fame trasforma l’anima in una belva che divora cose che non tollera e da cui resta avvelenata. Amici miei, saggio è nutrire l’anima, per non allevarvi draghi e diavoli in cuore. Traduzione Marianna Massimello
(© 2009 Stiftung der Werke von C. G. Jung / W. W. Norton & Company, New York, per gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency © 2010 Bollati Boringhieri Editore, Torino)
E Jung divorziò dalla scienza
Anche la teoria degli archetipi perse parte delle sue basi biologiche
Il lato oscuro del celebre maestro ha poco a che fare con le influenze lamarckiane E’ legato alle derive parapsicologiche e spiritualistiche, enfatizzate poi da molti dei suoi allievi
La crisi. La psicologia analitica junghiana si è allontanata dalla scienza e la figura del «maestro» è stata presentata dai suoi seguaci con caratteristiche filosoficoreligiose e trasformata in una specie di icona e in un punto di riferimento per i culti New Age
di Maurilio Orbecchi (La Stampa, 08.06.2011)
Il più frequente rimprovero rivolto a Carl Gustav Jung è stato di confondere e compendiare, nel suo concetto d’inconscio collettivo, due elementi del tutto differenti: l’eredità dei meccanismi che forniscono i prerequisiti di base delle idee e dei comportamenti insieme con i ricordi di quanto era accaduto nel corso dei tempi alle varie popolazioni umane.
La prima è una posizione coerente con la sintesi moderna dell’evoluzionismo, la seconda è un residuo del lamarckismo più ingenuo: la credenza nella trasmissione dei caratteri acquisiti, compresa la memoria. Non sono osservazioni dettate da pregiudizio: le posizioni evoluzionistiche di Jung soffrono davvero di alcune confusioni lamarckiane, comuni in quei tempi, tanto che alcune si trovano nello stesso Darwin.
La scarsa considerazione della sua psicologia da parte degli scienziati non va quindi attribuita a questi errori. La psicologia freudiana, le cui basi evoluzionistiche sono fondate sul ricordo delle esperienze ancestrali, è molto più ingenuamente lamarckiana di quella junghiana. Nonostante ciò, la psicoanalisi, pur scientificamente non accettata, non è considerata con la stessa supponenza che la comunità scientifica riserva allo junghismo. I motivi del rifiuto vanno invece ricercati nelle posizioni parapsicologiche e spiritualistiche di Jung, alle quali vanno aggiunte le polemiche dei suoi ultimi decenni contro la scienza, un atteggiamento che l’ha reso uno dei principali precursori del pensiero postmoderno.
Probabilmente, però, il fattore che più ha pesato per l’opposizione scientifica nei suoi confronti è stata la creazione di una scuola e di un’ associazione che hanno sviluppato le parti più retrive del suo pensiero con caratteristiche di isolamento tribale (tipiche delle scuole private di psicoterapia) che ignorano le confutazioni scientifiche delle ipotesi del loro maestro. Questo stato di cose ha portato a un atteggiamento terapeutico che caratterizza la corrente culturale e artistica chiamata «realismo magico», tanto che oggi si può affermare che il realismo magico non definisce solo un genere letterario e pittorico, ma anche un modo di esercitare la psicoterapia.
Per questo insieme di motivi la psicologia analitica junghiana si è allontanata dalla scienza e la figura di Jung è stata presentata dai suoi seguaci con caratteristiche filosofico-religiose e trasformata in una specie di icona, un punto di riferimento per i culti New Age.
Certo, Jung credeva nella parapsicologia. Ma occorre ricordare che le ricerche parapsicologiche appassionavano allora moltissimi studiosi, al punto da essere quasi endemiche nel mondo della psicologia di quel periodo. Paradossalmente, era stato proprio il clima positivistico a rilanciare gli studi parapsicologi, perché gli scienziati volevano ricondurre entro un orizzonte scientifico tutto quanto ritenevano potesse esistere, inclusi i fantasmi. In quegli anni, perfino il grande psicologo darwiniano William James arrivò a fondare una società parapsicologica; lo stesso Freud sosteneva l’esistenza della telepatia e l’eminente biologo Alfred Russel Wallace, co-scopritore con Darwin della selezione naturale, credeva negli spiriti.
Erano anni precedenti alla diffusione del «debunking», termine che si può tradurre con smascheramento scientifico di questi fenomeni, tanto che, in quegli anni, prestigiose università istituivano cattedre di parapsicologia, un termine coniato nel 1889 da Max Dessoir, professore all’Università di Berlino. Fino agli Anni 50 del secolo scorso Joseph Banks Rhine, della prestigiosa Duke University, pubblicava rigorosi lavori scientifici che si riteneva dimostrassero l’esistenza della telepatia. Jung, come tanti altri, era rimasto impressionato da questi esperimenti e scrisse il suo lavoro sulla sincronicità, le coincidenze significative che a suo avviso non sarebbero casuali (la credenza che sta a fondamento delle religioni New Age), proprio sulla base dei risultati pubblicati da Rhine. Con dispiacere osserviamo che, con l’avanzare della sua età, le citazioni di William James scompaiono mentre fioriscono quelle di Rhine.
In Jung gli spiritualismi hanno indubbiamente pesato in modo maggiore rispetto ad altri autori. Il suo progressivo allontanamento dalla scienza è evidente nel corso degli anni, al punto che perfino le stesse teorie dell’inconscio collettivo e degli archetipi, nate con solide fondamenta biologiche, furono trasformate in teorie spiritualiste. Dal punto di vista scientifico il percorso di Jung e la sua psicologia, ossia ciò che lui chiama la sua «individuazione», appaiono più come un’involuzione che un’evoluzione.
Eppure, nulla toglie che, per l’effettivo valore teorico ed euristico di tante sue descrizioni, nonché per l’attualità della sua psicologia evoluzionistica, rifiutare interamente l’opera di Jung a causa dello spiritualismo è davvero, come si usa dire in questi casi, buttare via il bambino con l’acqua del bagno.
Maurilio Orbecchi, psicoterapeuta
Cultura
Una pietra di inciampo sulla strada dell’inconscio
Saggi. «Psiche» dello psicoanalista Luigi Zoja per Bollati Boringhieri
di Claudio Vercelli (il manifesto, 12.01.2016)
Scriveva Carl Gustav Jung, in termini quasi profetici: «è conforme alla moderna ipertrofia della coscienza essere immemori della pericolosa autonomia dell’inconscio e spiegarla solo negativamente come assenza di coscienza». Colmiamo sempre più spesso l’incapacità di guardare prospetticamente l’abisso pulsionale che dimora in noi stessi con il rimando autoassolutorio ad una presunta indisponibilità all’introspezione, facoltà che nei dispositivi ideologici dominanti dovrebbe invece contribuire a «fare chiarezza», poiché nulla di oscuro ci è permesso abitare. Temiamo l’ombra non perché sia oscura ma in quanto immagine riflessa di noi stessi.
Luigi Zoja, eminente studioso di estrazione junghiana e analista, consegna al pubblico italiano un’opera preziosa, quasi un vademecum dedicato a Psiche (Bollati Boringhieri, pp. 160, euro 11). Opportuno il fatto che compaia nella agile collana intitolata ai «sampietrini» poiché il suo testo è come una pietra d’inciampo, sulla quale bisogna soffermarsi non per virtù bensì per necessità. Camminando a passo spedito, ma anche a tratti vertiginoso, nell’esistenza quotidiana si incontra la realtà immateriale di noi stessi, della nostra complessa e stratificata immagine, dell’immaginazione che di esse si alimenta, dell’immaginario che si rigenera permanentemente.
L’autore ci invita a pensare che non ci sia nulla di più consistente e persistente di ciò che, con estrema fallacia, reputiamo invece essere le aleatorie categorie dello spirito. Psiche ne è, per l’appunto, il contenitore, esso stesso mobile, permeabile, poroso e mobile.
Un intimo sdoppiamento
Il libro ne ricostruisce la storia, ovvero il modo in cui il più delle volte non abbiamo interagito con essa, le raffigurazioni che ci siamo fatti ma anche lo scacco che spesso ci ha giocato. Poiché la sensazione che si ha, leggendo le pagine di Zoja, è che il rapporto con il proprio «intimo» sia una sorta di vero e proprio corpo a corpo, dove lo sdoppiamento con l’oggetto della propria riflessione si trasforma nel rapporto dialettico con un soggetto a sé stante. La psiche assume così la fisionomia e la sostanza di una vita che si presenta dinanzi a noi.
Si tratta della nostra esistenza, della quale cogliamo gli aspetti di anarcoide irriducibilità ai dettami di un esangue razionalismo, e contro la quale ci esercitiamo, non rendendoci conto che è parte di noi stessi, qualcosa di «terribilmente reale», e non un altro “noi” al quale, alternativamente, associarci o dissociarci in base alle circostanze del momento.
Il nesso tra l’inconscio («la parte della nostra mente di cui non abbiamo percezione diretta») e la proiezione (la pratica di attribuire ad altri, o ad altro, ciò che non si vuole riconoscere come proprio) istituisce buona parte del campo psichico e, con esso, «il problema morale», ossia quello dell’assunzione di responsabilità. Poiché il soggetto unitario è quello che se ne fa carico mentre quello scisso, figura che oggi abbonda e che trova nel mainstream fondamentalista e paranoide la sua compiuta soddisfazione, rigettando una parte di sé si pronuncia per la traslazione di ciò che considera esclusivamente come delle colpe a carico degli altri. Peraltro, ben sa lo storico che è questo un criterio che implica l’azzeramento del campo della politica, dove invece il rapporto tra etica delle responsabilità ed etica dei convincimenti dovrebbe rimanere una dialettica irrisolta, in quanto motore di quel conflitto che ci muove verso il mutamento negoziale e la trasformazione identitaria.
Capacità di immaginazione
A tale riguardo, rimanendo nella sfera della soggettività, Zoja ci rammenta che nell’incapacità di negoziare con se stessi le parti che compongono ogni persona si trova il fondamento non del difetto di razionalità ma della povertà dei simbolismi e, con essa, della capacità di immaginazione.
Il simbolo non è l’inverso della ragione bensì una funzione dell’economia psichica. Ha diversi risvolti, non tutti necessariamente positivi, ma attiva la competenza della condivisione. «Nelle condizioni più oggettive e fitte di norme in cui viviamo, questa agilità delle immagini interiori ha (invece) poco spazio tra gli adulti».
Più che una lamentazione sui buoni tempi trascorsi, in realtà mai esistiti, quella dell’autore è una ricognizione sull’andamento del rapporto con la propria sfera immateriale, in una età dove al ritrarsi nell’individualità corrisponde un generalizzato disinvestimento psichico sia dalla dimensione affettiva che in quella sociale. Mentre l’esperienza emotiva si individualizza, avanza un’età dove la rinuncia alle passioni diventa il suggello di un mondo reificato, nel quale la pace interiore corrisponde ad un’emotività generalizzata e gratuita, senza reale affettività. Si tratta di quel complesso di atteggiamenti per cui all’identificazione profonda si sostituisce il clamore del momento, all’empatia il narcisismo.
Dimissioni dalla vita
Stati di coscienza deboli poiché non riescono più a confrontarsi con l’iceberg capovolto della pulsionalità profonda. Non è un caso, allora, se la nozione stessa di conflitto, e con essa di società, stiano subendo una torsione negativa, essendo l’uno e l’altra sostituiti dalla memoria come narrazione di una sorta di obbligazione collettiva al ricordo di qualcosa di perduto per sempre. Zoja parla, in alcuni passaggi, di «dimissioni dalla vita». Una nostalgia del nulla sembra così sostituirsi al desiderio del futuro. Passioni sì, quindi, ma tristi perché basate sulla destrutturazione del soggetto, non sul progetto in divenire.
Atomi e coscienza
di Paul K Feyerabend (Alfabeta, 13 aprile 2012)
Mentre la maggioranza del pubblico cosiddetto istruito ancora accoglie con gran reverenza tutto quanto arriva dalla scienza, per quanto irrilevante e sciocco possa essere, e mentre gli oppositori del razionalismo occidentale propongono programmi di istruzione che svalutano in blocco (senza entrare in particolari) la scienza, storici, sociologi, scienziati e alcuni filosofi qua e là hanno cominciato a smontare l’immagine che è stata la causa di quelle reazioni estreme. Questo processo è cominciato nel XIX secolo, con discussioni sulla distinzione mente―materia e sulla natura delle teorie. Dopodiché la più fondamentale delle scienze, la fisica, si è trasformata, e in un modo sorprendente. Le sue immutabili e inesorabili leggi furono sostituite da regolarità statistiche, mentre gli osservatori, che erano stati fino a quel momento degli alieni che avevano guardato ad un mondo da essi interamente separato, diventarono connessi con i loro oggetti d’osservazione, così che i vecchi metodi di analisi e di ricostruzione dei dati vennero meno. Per esempio, non si poteva più supporre che gli oggetti fossero composti di molecole, le molecole di atomi e gli atomi di particelle elementari.
Mutamenti altrettanto robusti si verificarono nella metodologia. Alcuni degli storici precedenti (Goethe, Burtt, Koyré) già avevano sospettato che gli scienziati possono fare una cosa e comportarsi come se ne stessero facendo un’altra. Questo conflitto tra le relazioni scientifiche ufficiali e le procedure effettivamente usate divenne evidente nel corso del XX secolo non appena si poté contare su interviste, tabulati di computer, registrazioni di conversazioni telefoniche, oltre che su lettere e appunti. Gli stessi scienziati ora cominciarono a sottolineare la natura poco sistematica e opportunistica della scoperta scientifica (Einstein), il ruolo dei paradossi e la necessità di idee “pazze” (Bohr) e la natura ingannevole delle pubblicazioni di ricerca (Medawar). Sommamente importante fu tuttavia la scoperta della misura in cui caratteristiche familiari della pratica scientifica dipendono da fattori culturali.
Così, ad esempio, è ben noto che i problemi sperimentali di una certa disciplina sono normalmente affidati a piccoli gruppi, i cosiddetti gruppi-nucleo (core sets). I gruppi-nucleo non sono permanenti, durano poco e a molti scienziati non capita mai di farne parte. Il gruppo-nucleo prepara l’esperimento e ne discute i risultati. L’annuncio finale è preceduto da prolungati e dettagliati negoziati; una fazione concede un po’ qui, un’altra qualcos’altro là, nessuno alla fine è completamente soddisfatto ma tutti sono d’accordo nel ritenere che per il momento non possa esser fatto nulla di più. Quasi come firmare un trattato politico. Ma questa caratteristica, che rispecchia la complessità della relazione tra natura e conoscenza, sparisce di mano in mano che ci allontaniamo dal centro. Gli scienziati appartenenti allo stesso campo di ricerca, ma al di fuori del gruppo-nucleo, già leggono il verdetto in un modo più uniforme e leggermente più dogmatico. Le discipline confinanti già parlano di “fatti” e di “princìpi”. I filosofi della scienza, la cui distanza dal gruppo-nucleo può essere molto grande, sostengono allora questi fatti mostrandone la razionalità, mentre i divulgatori, i libri di testo, le conferenze introduttive all’argomento considerano i fatti come una dimostrazione della Marcia in Avanti della Scienza. Ci sono naturalmente individui e gruppi che resistono, ci sono filosofi che avvertono le complessità, e ci sono divulgatori che mettono in evidenza le ampie possibilità lasciate dalle questioni irrisolte e dalle svolte sbagliate, e c’è poi la ricerca interdisciplinare. Ma non va sottovalutata la tendenza propria delle scoperte a irrigidirsi all’aumentare della distanza dal luogo di origine.
Questa tendenza è in buona misura culturalmente determinata. Un fattore è la superficialità: una volta presi in mano dalle autorità i suoi effetti diventano facilmente leggi. Un altro è la semplificazione, che in sé non è una colpa, gli esseri viventi non potrebbero esistere senza. Accade tuttavia che quello che è contingente e conveniente, quello che funziona in condizioni particolari è dato per reale, mentre viene svalutato il resto, che pure sta lì e può risollevare la testa nel modo più sconcertante.
La filosofia, fattore culturale per eccellenza, ha sempre avuto un ruolo importante nella ricerca scientifica. La protoscienza era quasi interamente filosofica. Ipotesi ardite, in conflitto con l’evidenza sperimentale (come l’ipotesi che i processi naturali obbediscano a “leggi immutabili e inesorabili” [Galileo]) vennero sostenute per ragioni filosofiche; linee guida importanti emersero da atteggiamenti filosofici non sempre chiaramente espressi. L’abitudine di promuovere le semplificazioni chiamandole realtà, l’implicita asserzione di validità oggettiva, e i principi di razionalità connessi a tutto ciò sono stati presenti in tutto il pensiero occidentale. E anche l’uso di esperimenti può essere connesso con la riluttanza da parte di alcuni tra i primi grandi scienziati a essere implicati in dispute verbali.
Come è possibile che un’impresa dipenda in così tanti modi dalla cultura e produca tuttavia risultati così solidi? La più parte delle risposte a questa domanda sono o incomplete o incoerenti. I fisici prendono la cosa per buona, mentre quei movimenti che vedono nella meccanica quantistica un punto di svolta nel pensiero ― e sono qui compresi i mistici che dicono di volare di notte, i profeti della New Age, i relativisti d’ogni risma ― sono molto sensibili alla componente culturale, dimenticando predizioni e tecnologia. Niels Bohr trattò con entrambe le parti, con precisione con la fisica ― la sua descrizione può essere verificata con esperimenti ― ma in modo più generale e approssimato con il resto. Solo pochi pensatori cercarono di colmare le lacune senza avventurarsi in discorsi vuoti. Wolfgang Pauli fu uno di questi.
Pauli fu uno dei fisici di punta della sua epoca. Ottenne il premio Nobel (per la scoperta del principio d’esclusione), scrisse due articoli di rassegna che diventarono entrambi dei classici (uno sulla relatività, l’altro sulla meccanica ondulatoria), oltre ad articoli tecnici. Nelle sue lettere, perfino nelle cartoline, si possono trovare suggerimenti e critiche di grande peso relativi a quasi tutti gli aspetti della fisica: la sua corrispondenza ebbe un’enorme influenza, alcuni colleghi lo chiamavano la coscienza della fisica, altri, che sembrano averne sofferto di più, il flagello. Pauli era deliziato dalla conoscenza pura; disprezzava le applicazioni ― il “lato oscuro della scienza”, com’egli lo chiamava ― e la Volontà di Potenza che sembravano esprimere. Aveva opinioni ben decise sugli eventi del mondo, ma si rifiutò di partecipare ad imprese collettive. «La mia testimonianza
autentica ― scriveva a Max Born ― dovrebbe essere come io vivo, quello che credo e le idee che comunico, in modo più o meno diretto, a una piccola cerchia di allievi e conoscenti e non nei discorsi di fronte a un grande pubblico». Pauli, da quel preciso individualista che era, era assai preoccupato della direzione che aveva preso la scienza a partire dal XVII secolo. Per orientarsi prendeva in esame anche tradizioni di cui i razionalisti di professione si sbarazzavano con una sprezzante scrollatina di spalle.
Due tesi sostenne: la prima è che il sorgere della scienza moderna è stato basato su un nuovo sentire cosmico e non soltanto sull’esperienza. Keplero, ad esempio, partì dalla Trinità e arrivò alle sue leggi naturali: «Egli crede con fervore religioso al sistema eliocentrico perché guarda al Sole e ai pianeti con questa immagine archetipica sullo sfondo e non viceversa, come una visione razionalistica potrebbe falsamente supporre»1.
La seconda tesi di Pauli è che lo sviluppo ebbe due rami; uno separava gli uomini dal mondo che stavano cercando di comprendere e di controllare, l’altro cercava la salvezza attraverso pratiche (alchimia, ermetismo) che mettevano materia e spirito sullo stesso piano. Questo secondo ramo presto si spezzò, in mancanza di una base abbastanza solida. «Il tempo presente ― disse Pauli nel 1955 ―
Il carteggio di Pauli con lo psichiatra svizzero C. G. Jung, iniziò con l’analisi (1931―1934) da parte di Erna Rosenbaum, un’allieva di Jung, e proseguì fino al 1957: esso rivela alcuni stadi di questo percorso. Si tratta di una documentazione ricca e complessa, piena di idee sorprendenti e illuminanti. Vi si trovano lunghe e dettagliate descrizioni di sogni, che vengono usati per esplorare aree incommensurabili con la scienza ma che un giorno potrebbero essere con questa unificate. «Sempre più mi sembra ― scriveva Pauli a Jung nel 1952 ― che il problema psicofisico sia la chiave per la situazione intellettuale globale di quest’epoca; e che il graduale ritrovamento di un nuovo (“neutrale”) linguaggio psicofisico unitario, adatto a descrivere in modo simbolico (corsivo mio) una realtà invisibile potenziale, che soltanto ci si può dischiudere tramite i suoi effetti, sia anche un’ipotesi indispensabile del nuovo da Lei previsto hieròs gamós.»3
La parola chiave è “simbolico”; nell’uso di Pauli, essa deriva il suo significato in parte dalla meccanica quantistica, in parte dalla psicologia. La meccanica quantistica contiene termini che sembrano riferirsi a processi naturali, ma servono a dare un assetto sistematico alle nostre esperienze (questi termini Bohr li chiamava “simbolici”). Gli oggetti fisici sono simbolici in un senso anche più forte: essi si presentano come ingredienti di un mondo oggettivo e coerente. Per il senso comune e per la fisica classica, questa era altresì la loro vera natura. Ora, tuttavia, essi indicano soltanto quello che può essere detto in circostanze particolari e rigorosamente ristrette. Tenendo conto di entrambi questi fattori, Pauli considerò una realtà che non può essere descritta direttamente, ma cui si può solo alludere in modo obliquo e pittoresco.
È esattamente a questo punto che avviene la connessione con la psicologia. Pauli fa menzione di un’immagine: “lo straniero”, che appariva talvolta nei suoi sogni. Era un saggio, un mago, conscio della propria superiorità (soprattutto su Pauli), con un certo disprezzo per quanto lo circondava, in contrasto con le università che, per lui, erano castelli di oppressori e che cercava di bruciare. Parlava in tono deciso e conclusivo. Malgrado fosse un antiscienziato, usava termini fisici, ma travisandoli, poiché il suo messaggio era ti tipo non-fisico. Siccome Pauli trovava forme simili di travisamento negli scritti sia di ingegneri che non conoscevano la fisica di base, sia di persone in generale digiune di scienza, o di pensatori più antichi, ne deduceva una realtà non fisica che, mancando di un suo proprio linguaggio, richiedeva ancora un approccio di tipo indiretto e “simbolico”. Non sarebbe possibile combinare la fisica (materia) e la psicologia (mente, spirito) servendosi di personaggi, ovvero simboli, che rivestono un ruolo rilevante nel mito, nella religione, nella poesia, e guarire così la nostra frammentata cultura? Un tale risultato, dice Pauli, sarebbe assai importane per la “Mente Occidentale”.
Oggigiorno molte “Menti Occidentali” sono prigioniere di corpi che soffrono di guerre, pregiudizi, malattie, fame e povertà. Ovunque nel mondo esseri umani sono di fronte a problemi che non sanno risolvere, e non perché manchino della corretta sintesi intellettuale, ma perché non dispongono del denaro, del potere, o persino della volontà, necessari a conquistare una condizione differente. Si spremono il cervello, cercano di trovare rimedi, ma non ci riescono. In risposta a una tale mole di sofferenza molte persone, un tempo intellettuali, considerano che preoccuparsi per “ la situazione intellettuale complessiva della nostra epoca” sia un accidioso lusso, anzi un criminale spreco di risorse ― cioè a dire cervelli ― che dovrebbero essere impiegati per problemi più urgenti. Ma non si può separare il pensiero dall’azione in modo così semplice. La teologia della liberazione non trae la sua forza solo dall’empatia, o dalla cultura di coloro che si propone di servire, ne trae molta anche dai libri dell’Occidente, di carattere piuttosto astratto. Gli ecologi e i medici che lavorano in paesi stranieri non si fanno guidare soltanto da quello che vedono e sentono direttamente, ma anche dalla conoscenza acquisita nelle università, locali o di altri paesi. Inoltre i punti di vista degli intellettuali dell’Occidente, nel bene e nel male, sono almeno parzialmente in movimento ― sono messi in discussione, attaccati, modificati. Il tentativo di sostituirli con un menù interculturale ci può soltanto dare
Una cultura ― qualsiasi cultura ― non è definita dalle tracce congelate che ha lasciato ma dai modi in cui accoglie nuove ― attraenti o repellenti ― sfide. E qui l’esempio di quegli individui che cercano di aprirsi un cammino in un mondo fitto di problemi è assai superiore a qualsiasi imposizione di principi dall’alto. Pauli non scriveva per l’“umanità” ― scriveva per le persone che conosceva, i suoi colleghi intellettuali, i quali, riteneva, potevano sperimentare problemi simili ai suoi. In qualche senso egli scrisse anche per Frantz Fanon, intellettuale e psichiatra che si sforzò di mantener vivo il pensiero fra tanti tentativi di eliminarlo o di sostituirlo con caricature di esso. Solo un atteggiamento di ristretto moralismo ci potrebbe convincere dell’irrilevanza dei suoi sforzi.
Traduzione di Antonio Sparzani
Note:
1 ho completato la citazione da L’influsso delle immagini archetipiche sulla formazione delle teorie scientifiche di Keplero, in W. Pauli, Psiche e natura, a c. di G. Trautteur, Adelphi, Milano 2006, pp. 77-78, nella traduzione di M. Bruno e L. Benzi.
2 citato da La scienza e il pensiero occidentale,Congresso internazionale di scienziati, Mainz 1955, F. Steiner Verlag, Wiesbaden 1956.) contenuto in W. Pauli, Fisica e conoscenza, a c. di A. Sparzani, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 123-24, nella traduzione di Ingeborg Dennerlein e Giuseppe Perna.
3 citazione leggermente completata rispetto a quella riportata da F., si tratta di un passo della lettera del 17/5/1952 di Pauli a Jung, in C. A. Meier (a c. di) Wolfgang Pauli und C. G. Jung ein Briefwechsel 1932-1958, Springer, Berlin 1992. “Hieròs gamós” (= nozze sacre) è uno dei simboli di trasformazione introdotti da Jung.