di Federico La Sala
[...] Per l’Occidente tutto e non solo, il tempo - concepito come una linea che proiettata all’infinito s’incurva e diventa cerchio - avvolge, tenendolo fermo, lo spazio-sfera. È, simbolicamente, ii serpente che mangia se stesso - avvolto attorno alla sfera. Da Parmenide a Nietzsche (con la dovuta differenza), è sempre un identico mondo. Compreso Einstein.
Questo eccezionale "fanciullo" ci ha portato molto, molto innanzi, ma poi distrattosi si è fermato affascinato a giocare in tondo con la luce e si è dimenticato dell’altro ancora che c’era tutto intorno e fuori. Interrogato da Sir Karl Raimund Popper che lo ha fermato un momento e gli ha chiesto: ma, scusa, che stai facendo, mi sembri Einstein-Parmenide; egli, sempre un po’ con la testa tra le nuvole, sorrise, e, rimase alquanto sopra pensiero - la testa gli girava ancora per la corsa sul suo curvo rotondo-infinito-finito...
Einstein, però, sapeva ben altro. Bastava un pizzico di pazienza in più da parte di Popper... ma questi aveva fretta, doveva andare via a continuare il suo lavoro di falsificazione delle parmenidee dei “saggissimi” e non ascoltò la risposta di Einstein. Ancora confusa, ma la più grande: Dio non gioca a dadi...
Invero, egli non ha mai giocato con Parmenide ed Eraclito, al tavolo buio del “caso” e della “Necessità” 8.
Anzi, si può dire, a cavallo del raggio di luce (non a cavallo del manico di scopa!) ha capito, amato e aspettato i suoi compagni che si attardavano. Forse proprio per questo Einstein aveva uno Spinoza nel cuore. Popper l’ha visto e ha pensato che vi fosse un solo spino: è stato frettoloso, ha visto solo quello della necessità e non - il più importante - quello della libertà 9 [...].
[Note]:
8. J. Monod, Il caso e la necessità, Milano, Mondadori, 1970.
9. K. Popper, Poscritto aIIa logica della scoperta scientifica, II, Milano,
Il Saggiatore, 1984, pp. 97 e ss. In questa direzione interpretativa, cfr. Y. Elkana, Antropologia della conoscenza, Bari, Laterza,
1989, pp. 104 e ss., in particolare. In tale opera, egli prospetta - ”per
imprimere alla scienza una direzione nuova” - una concezione epistemologica
non più ispirata al modello tragico del dramma greco, ove le
cose avvengono secondo necessità, ma al modello del teatro epico, in
cui - come da una riflessione di Walter Benjamin, a riguardo - tutto
“può andare a finire così, ma può anche andare a finire in tutt’altro modo” (pp. 172-173).
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
DA "LA MENTE ACCOGLIENTE": CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
CONTRARIAMENTE A QUANTO ’PONTIFICAVA’ DEWEY NEL 1929 E HEIDEGGER NEL 1933, COSI’ SCRIVEVA, NEL 1939, ARTHUR S. EDDINGTON, L’ASTRONOMO E IL FISICO RELATIVISTA, CHE "NEL 1919 ORGANIZZO’ LE DUE FAMOSE SPEDIZIONI DI RILEVAMENTO DELL’ECLISSE SOLARE CHE FORNIRONO LA PRIMA CONFERMA SPERIMENTALE DELLA FORMULA DELLA RELATIVITA’ DI EINSTEIN PER LA DEVIAZIONE DELLA LUCE IN CAMPO GRAVITAZIONALE":
"Non è consigliabile, penso, tentare di descrivere una filosofia fondata sulla scienza con le etichette dei sistemi filosofici più vecchi. Accettare una tale etichetta, farebbe sì che lo scienziato prendesse parte a controversie per cui non ha alcun interesse, anche se non le condanna come completamente senza significato. Ma se fosse necessario scegliere una guida tra i filosofi del passato, non ci sarebbe nessun dubbio che la nostra scelta cadrebbe su Kant. Non accettiamo l’etichetta kantiana, ma, come riconoscimento, è giusto dire che Kant anticipò in notevole misura le idee a cui siamo ora spinti dagli sviluppi moderni della fisica"
Cfr. Arthur S. Eddington, Filosofia della fisica, Prefazione di Maurizio Mamiani, Bari, Laterza, 1984, p. VII, e pp. X-XI.
EINSTEIN E 60 NANOSECONDI. "Alla velocità del neutrino". Una nota di Piergiorgio Odifreddi, sui clamorosi risultati di uno studio del Cern e dell’Infn guidato dal fisico italiano Antonio Ereditato
Sgombriamo subito il campo da un’interpretazione sensazionalistica, che è circolata ad arte insieme alla notizia dell’esperimento. La relatività di Einstein non prevede affatto che la velocità della luce non possa essere superata! Lo si dice continuamente, ma questo non significa che sia vero (...)
FLS
Einstein e Lemaître: due amici, due cosmologie...
di Dominique Lambert *
Académie Royale de Belgique (Classe des Sciences) Université de Namur, 2016
Georges Lemaître (1894-1966) incontrò per la prima volta Albert Einstein nell’ottobre del 1927, durante il Quinto Congresso Solvay di Fisica a Bruxelles. Questi congressi, come sappiamo, ebbero un ruolo importante nella storia della fisica. A questo congresso del 1927 furono presenti, tra gli altri, Marie Curie, Bohr, Born, Dirac, de Broglie, Schrödinger, Heisenberg... L’invito di Lemaître a questo congresso fu probabilmente suggerito agli organizzatori da Théophile de Donder della Université Libre de Bruxelles che aveva scritto uno dei primi libri in francese sulla teoria della relatività generale. De Donder conobbe il giovane sacerdote perché fu nella giuria che gli assegnò una borsa per andare a Cambridge (UK) dopo che Lemaître aveva vinto una competizione presentando un manoscritto intitolato The Physics of Einstein. Del resto, per raccomandarlo ad Eddington, De Donder disse che “riteneva il signor Lemaître uno studente molto brillante, straordinariamente veloce e acuto, e di grande abilità matematica”.
Nel 1926, Lemaître aveva appena ottenuto il suo dottorato al MIT e, nel 1927, aveva pubblicato il suo famoso articolo intitolato “Un universo omogeneo di massa costante e raggio crescente che giustifica la velocità radiale delle nebulose extragalattiche” (A homogeneous universe of constant mass and increasing radius accounting for the radial velocity of extra-galactic nebulae) spiegando ciò che oggi chiamiamo “legge di Hubble”. Partendo da una soluzione delle equazioni di Einstein corrispondente a un universo in espansione Lemaître dedusse, rigorosamente e per la prima volta, il fatto che la velocità delle galassie lontane (chiamate allora nebulose) è proporzionale alla loro distanza (la costante di proporzionalità è oggi detta “costante di Hubble”). Questo articolo fondamentale, in cui si può trovare il computo della costante di Hubble (due anni prima della pubblicazione della legge di Hubble!) fu pubblicato da un giornale belga: Les Annales de la Société Scientifique de Bruxelles. Questo giornale era la rivista della Société Scientifique de Bruxelles, un’associazione che riuniva gli scienziati cattolici e che rivestì un ruolo centrale nell’organizzazione dei Congressi Scientifici Internazionali dei Cattolici alla fine del diciannovesimo secolo. Grazie a uno dei suoi amici, Einstein aveva letto l’articolo di Lemaître. Camminando lungo i vialetti del “Parc Léopold” a Bruxelles, vicino all’edificio in cui si teneva il congresso, Einstein e Lemaître discussero dell’articolo del 1927. Einstein non aveva nulla da dire al giovane sacerdote circa la parte matematica dell’articolo, che era tecnicamente perfetta, ma discordava completamente con lui sulla sua interpretazione fisica. Einstein disse molto aspramente: “dal punto di vista della fisica ciò mi sembra abominevole”. Qual è la ragione di una reazione così brutale? Infatti all’epoca Einstein non ammetteva un universo in espansione. Probabilmente influenzato dalla sua filosofia implicitamente spinoziana, non accettava il fatto che l’universo avesse una storia reale. Si ricordi che Einstein aveva mostrato la sua forte opposizione agli articoli di Alexander Friedmann, il matematico e meteorologo russo che tra il 1922 e il 1924 aveva scoperto soluzioni delle equazioni di Einstein corrispondenti a universi in espansione e in contrazione. Secondo Einstein, l’universo come tutto deve restare sempre immutabile. Il primo modello cosmologico di Einstein, pubblicato nel 1917, era infatti un universo sferico e perfettamente statico. È degno di nota il fatto che Georges Lemaître, quando scrisse il suo articolo sulla recessione delle nebulose, non conosceva le scoperte di Friedmann. Nel 1929 Lemaître disse che fu Einstein stesso a informarlo dell’esistenza degli “universi (in espansione e in contrazione) di Friedmann”. [...]
Nel gennaio del 1933 Lemaître era ancora al Caltech quando vi arrivò Einstein, proveniente da Los Angeles. Questi era molto interessato alle recenti idee cosmologiche di Lemaître nel contesto della sua “Ipotesi dell’atomo primordiale” risalente al 1931. L’11 gennaio Einstein assistette a un seminario tenuto dal sacerdote sui raggi cosmici all’Osservatorio di Mount Wilson, vicino Pasadena, il celebre luogo dove lavorava Edwin Hubble. Sappiamo che Lemaître considerava queste radiazioni come una sorta di “radiazione fossile” che ci poteva dire qualcosa sui primi istanti dell’universo. Dopo questo seminario Einstein sarebbe dovuto andare ad un altro seminario di fisica teorica, ma dimenticandosi di quest’ultimo appuntamento preferì continuare a parlare con Lemaître di cosmologia! Durante questa discussione, Einstein gli fece sapere che non gradiva “l’ipotesi dell’atomo primordiale” perché, egli disse, “suggerisce troppo l’idea (teologica) di creazione”. Curiosamente e forse un po’ ironicamente, dopo una conferenza di Lemaître a Pasadena in cui questi aveva spiegato la sua cosmologia dell’atomo primordiale, Einstein disse: “Questa è la più bella e soddisfacente spiegazione della creazione che io abbia mai sentito”! Lemaître non iniziò mai una vera discussione filosofica con Einstein. Ma, chiaramente, grazie alla sua formazione tomista a Lovanio, Lemaître identificò perfettamente la confusione fatta dal suo amico, e da molti altri cosmologi dopo di lui, tra “creazione” e “inizio”. Secondo Lemaître, la singolarità iniziale non era “la creazione” (nel senso teologico) ma solo “l’inizio naturale”, come disse molte volte. [...]
Nel 1949 P.A. Schilpp propose al canonico Lemaître si scrivere un capitolo nel libro Albert Einstein Philosopher and Scientist (Albert Einstein filosofo e scienziato) pubblicato per celebrare il 70o compleanno di Einstein. A Pasadena e a Princeton una gran parte delle discussioni tra Einstein e Lemaître erano state dedicate al problema della costante cosmologica. Einstein la voleva eliminare e Lemaître la considerava un elemento molto importante, sebbene forse non ancora ben formulato, del formalismo della cosmologia relativistica. In una lettera del 30 luglio 1947 indirizzata a Einstein, il canonico gli scrisse che riteneva che l’introduzione della costante cosmologica fosse uno dei suoi contributi più grandi alla scienza! Pertanto Lemaître decise di inviare un testo su questa costante, per continuare le discussioni di Pasadena. Oggi, è interessante notare che Lemaître ebbe in effetti un’intuizione molto profonda e corretta. Infatti i dati astronomici recenti mostrano che la costante cosmologica non può essere eliminata poiché è legata all’accelerazione dell’universo osservata e alla famosa “energia oscura”. Per capire chiaramente il significato di questa costante, serve probabilmente qualche teoria di campo quantistico e Lemaître pensava la stessa cosa. Lemaître non riuscì mai a convincere Einstein della sua interpretazione della costante cosmologica. E il canonico ammise perfino di non aver mai capito gli argomenti usati dal padre della teoria della relatività per liberarsi della celebre costante. Fino alla fine della sua vita, Einstein pensò che fosse “abominevole” (come scrisse nella sua risposta alla lettera del 1947 sopra citata) supporre che la gravitazione sia fatta di due termini logicamente indipendenti: uno che è attrattivo (come nel caso classico) e un altro che è repulsivo ed è descritto dalla costante cosmologica. Possiamo enfatizzare qui una differenza tra i due fisici. In fisica teorica, Lemaître non era guidato prima da considerazioni estetiche o logiche. Spesso rifiutò di inoltrarsi troppo in speculazioni matematiche e cercò di restare vicino alle osservazioni, accettando un formalismo incompleto o approssimativo. La posizione di Einstein sulla costante cosmologica è molto importante. Nel 1945, dopo aver assistito a una conferenza di Lemaître a Friburgo (Svizzera), Michele Besso, intimo amico di Einstein, discusse con lui del rifiuto del canonico di porre la costante uguale a zero. [...]" (cfr. DISF.org, ripresa parziale).
"AMLETO" (SHAKESPEARE) E LA LOTTA "VITTORIOSA" PER UNA RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA (IERI E OGGI).
TEATRO (FILOSOFIA) E METATEATRO (METAFILOSOFIA).
"IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA". SE SI CONSIDERA CHE NELLA "#FOLLIA" DEL PRINCIPE #AMLETO C’E’ IL #METODO (COME HA BEN INTUITO #POLONIO) CHE GLI FA CONSEGUIRE VALOROSA-MENTE LA VITTORIA SUL FALSO RE CHE HA UCCISO IL VERO RE E SPOSATO LA REGINA-MADRE E RISPETTARE IL #PATTO DEL RE-PADRE AMLETO CON IL RE-PADRE #FORTEBRACCIO, PENSARE che "Ophelia in Shakespeare’s 𝘏𝘢𝘮𝘭𝘦𝘵 represents a paradox about both the injustice and virtue of nothing, emptiness, poverty" (Paul Adrian Fried, cit.), NON PORTA DA NESSUNA PARTE, SOLO IN UN "O", IN UN #VICOLOCIECO, IN UNA NOTTE IN CUI TUTTE LE #VACCHE SONO NERE.
«CRITICA DELLA "RAGION PURA"» (#KANT2024) E #ANTROPOLOGIA (#KANT, 1800). Per dire in breve il senso del discorso, con le parole di #Einstein, e contro la logica della scommessa di #Pascal (e la sua "Pascalina"), Shakespeare non è né sulle posizioni epistemologiche di Thomas S. #Kuhn né su quelle di Paul K. #Feyerabend: #Hamlet sa "giocare" bene, ma il suo "Dio non gioca a #dadi".
MEMORIA STORIA E LETTERATURA: #DIVINACOMMEDIA. Forse è proprio giunto il tempo di togliere le catene linguistiche della #tragedia gettate intorno a "l’aiuola che ci fà tanto feroci" (Par. XXII, 151) e portare alla luce "della Terra, il brillante colore" (come già sollecitava #DanteAlighieri, ma anche J.-J. #Rousseau). In principio erano le parole del dia-#logos (della legge costituzionale uguale per ogni esssere umano), non del dia-#logo (di un’azienda o di un partito o di un pastore di "pecore").
Nota:
SE L’UNIVERSO VA INCONTRO ALL’IMBUTO COSMICO
Buchi bianchi, là dove il tempo cambia di segno
di Patrizia Caraveo (MEDIA-INAF, 01/06/2023)
I buchi neri sono con noi da sempre, praticamente dall’inizio dell’evoluzione dell’universo, eppure abbiamo avuto prove certe della loro presenza solo mezzo secolo fa. In effetti, la loro possibile esistenza era stata sospettata da Karl Schwarzschild quando, nel dicembre 1915, in trincea, lesse il lavoro di Einstein e risolse le equazioni della relatività generale. Dal suo lavoro discende il concetto del raggio di Schwarzschild, altrimenti noto come orizzonte degli eventi. Si tratta della superficie immaginaria che divide lo spazio intorno al buco nero tra il “fuori” ed il “dentro” dal quale nulla, nemmeno la luce, sfugge alla gravità. Einstein ne fu ammirato, ma il concetto di singolarità dovette aspettare mezzo secolo per acquisire credibilità, almeno dal punto di vista matematico, grazie al lavoro di Roger Penrose, negli anni ’60. All’epoca, le singolarità si chiamavano stelle oscure oppure stelle congelate, il termine buchi neri è nato nel 1967 ad opera di John Archibald Wheeler.
Allora erano solo entità matematiche, ma la neonata astronomia X si apprestava a dare loro consistenza osservativa. Avvenne per caso, nel 1964, con il primo volo suborbitale di un contatore X che avrebbe dovuto misurare l’emissione X della Luna. Inaspettatamente, si scoprì un’intensissima sorgente la cui posizione corrispondeva a quella di una stella brillante, ma troppo normale per poter essere responsabile dell’emissione. Osservazioni accurate, però, rivelarono che la stella si muoveva ritmicamente, danzando intorno ad una compagna invisibile. Usando le leggi di Keplero, le stesse che governano il moto dei pianeti nel Sistema solare, si misurò la massa della compagna invisibile che risultò essere 15 volte quella del Sole. Avrebbe dovuto essere una stella molto brillante, invece non emetteva niente. Senza cercarlo, si era scoperto il primo buco nero stellare in un sistema binario. Da allora se ne sono scoperti decine che brillano nei raggi X ma più di recente ne abbiamo visti centinaia attraverso le onde gravitazionali prodotte nel corso di catastrofiche collisioni. Sempre nel genere interazioni catastrofiche, abbiamo più volte assistito alla disintegrazione di stelle che si erano avvicinate troppo alla pericolosa singolarità. La fine della stella produce incredibili fuochi d’artificio.
Ma il buco nero più mediatico è certamente un mostro di 6 miliardi di masse solari che domina la galassia M87. Qualche anno fa, l’immagine dell’ombra del buco nero nel mezzo di una ciambella brillante è andata sulle prime pagine di tutti i giornali. Ora, nuovi dati hanno evidenziato come dalla ciambella abbia origine il getto di particelle di alta energia che è una delle caratteristiche più spettacolari della galassia.
Mentre gli astrofisici, che raccolgono dati sui buchi neri, si devono fermare al muro invalicabile dell’orizzonte degli eventi, i fisici teorici si possono permettere di andare al di là per scoprire cosa c’è (o ci potrebbe essere) dentro un buco nero. È questo il compito che si è prefissato Carlo Rovelli , che nel suo Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte propone esperimenti mentali (non potrebbe essere diversamente) per farci entrare nell’orizzonte degli eventi. Schwarzschild ci insegna che si tratta di una linea invalicabile attraverso la quale non c’è scambio di informazioni, ma Rovelli propone un viaggio concettuale ispirandosi ad altri viaggiatori che hanno sfidato l’impossibile, a cominciare da Dante, che viene citato spesso. È un viaggio attraverso un territorio inesplorato, che inizia da una conversazione con un giovane collega. Così nasce un’idea, una scintilla che accende l’entusiasmo del fisico teorico impegnato da anni a cercare di unire relatività generale e fisica quantistica. Visto che si ispira a Dante, anche per Rovelli è essenziale avere una guida: il suo Virgilio saranno le equazioni di Einstein, sulle quali lavora da sempre. Per aiutare a visualizzare concetti non banali, che espone in tono colloquiale con un linguaggio semplice, Rovelli utilizza un imbuto lunghissimo e sempre più stretto. È questa per lui la migliore descrizione dell’interno del buco nero e compare decine di volte nel libro perché è percorrendo l’imbuto che il viaggiatore si avvicina, o pensa di avvicinarsi, alla singolarità, per scoprire che quello che cerca accade dopo e, per andare oltre, il tempo deve essere ribaltato. Non è un processo banale, richiede una capriola gravitazional-quantistica, ma è l’essenza alla base del buco bianco. Le equazioni di Einstein sono sempre le stesse, ma la variabile tempo cambia di segno. Questo significa che, mentre dal buco nero nulla può uscire, nel buco bianco nulla può entrare perché c’è solo l’uscita ed è a senso unico. Il problema è che tutte le scivolate nell’imbuto e le capriole nella gravità quantistica avvengono all’interno dell’orizzonte degli eventi e noi, che per nostra fortuna siamo fuori, non ce ne possiamo rendere conto. In verità, questo semplifica la gestione dello scorrere del tempo che sarebbe molto diverso tra dentro e fuori.
Con grande lucidità, Rovelli fa notare che tutto questo potrebbe essere sbagliato, anche perché non ha neanche lontanamente idea di come potrebbe essere possibile andare a cercare la prova dell’esistenza dei buchi bianchi. Tuttavia, non dobbiamo perdere le speranze. I buchi neri ci hanno messo mezzo secolo per passare dall’essere una realtà matematica a diventare oggetti celesti studiati e osservati. L’universo non ha fretta, ha tutto il tempo che vuole.
ANTROPOLOGIA, ANDROCENTRISMO, COSMOLOGIA, FILOSOFIA E FILOLOGIA *
Universo: ecco perché non ha un “centro”
Quello che sappiamo è che l’universo si espande. Ma dentro cosa si espande? Ed esiste un centro di questa espansione? Ce lo spiega il professor Amedeo Balbi dell’Università di Tor Vergata di Roma.
di Valerio Novara ("Passione Astronomia", Aprile 23, 2022
Una delle cose che sappiamo con certezza è che l’universo si espande. Lo abbiamo capito quasi un secolo fa grazie alle osservazioni dell’astronomo americano Edwin Hubble. Egli scoprì che le galassie si allontanavano dalla nostra con velocità proporzionale alla loro distanza dalla Via Lattea. Questo non significa che ci sia qualcosa di speciale nella nostra posizione nell’universo: la distanza fra due galassie qualunque cresce con il passare del tempo. Il perché ce lo dice la relatività di Einstein, che presuppone che lo spazio non sia statico, ma che possa deformarsi, dilatarsi e curvarsi. Una delle domande che ci fate più spesso nei commenti è: dentro cosa si espande l’universo? Ed esiste un centro di questa espansione? Cerchiamo di capirlo insieme al professor Amedeo Balbi dell’Università di Tor Vergata di Roma.
Partiamo dal presupposto che l’universo non si espande dentro qualcosa, perché l’universo stesso è tutto quello che c’è. Non esiste uno spazio esterno in cui avviene l’espansione. La ragione per cui molti si pongono questa domanda è che visualizzano l’espansione in maniera sbagliata, come se le galassie fossero state scagliate via dall’esplosione del Big Bang. In realtà le cose non stanno così, perché è lo spazio che si dilata, le galassie sono ferme nello spazio ma vengono trascinate via dall’espansione. Questo avviene nello stesso modo in tutto lo spazio. Immaginate la pasta di un panettone che lievita e gli acini di uva passa che stanno all’interno della pasta che si allontanano l’uno dall’altro con il passare del tempo. Stanno fermi, è la pasta che lievita e che li fa allontanare.
Bene, se visualizzate le cose in questo modo non solo capite che non dobbiamo immaginare qualcosa all’interno di cui avviene l’espansione, ma che non c’è neanche un centro dell’espansione. Ogni punto dell’universo è equivalente a tutti gli altri. Se osservassimo le cose da un’altra galassia, vedremo le altre galassie allontanarsi da noi esattamente come avviene dal nostro punto di vista. Quindi non ci sono posizioni privilegiate nell’universo e non c’è un centro dell’espansione. L’espansione avviene esattamente nello stesso modo in tutto lo spazio.
*
"DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO, TOLEMAICO E COPERNICANO" (GALILEO GALILEI, 1632): iN PRINCIPIO ERA IL LOGOS...
L’Universo non solo non ha un "centro", ma non ha nemmeno una "periferia"! La questione è mal posta (e trascina nella dinamica della "dialettica trascendentale" e nella logica antinomica del Mentitore: se non si sa col-legare "la filosofia seconda" (fisica matematica) con la "filosofia prima" (teologia-antropologia), non si riesce a capire nulla né di Dio ("Ecce Homo": "Homo Homini Deus est"), né del Cosmo, né dell’Uomo ("Anthropos", dell’uomo e della donna) e si resta nella "cosmoteandria" tragica della tradizione platonica e della "caduta" biblica.
Federico La Sala
ANCORA
IL #REGIME DELL’#UNO
E
LA #DOTTA IGNORANZA
!"#Dio non gioca a #dadi"
ma, dopo la #lezione di
#Georges de La Tour,
l’#Uno
è ancora
il più sfuggente
e misterioso
tra i #numeri?
#A che gioco giochiamo?!
Scheda editoriale *
GIULIO BUSI
Uno
Il battito invisibile
L’Uno ci avvolge, pulsa in noi. Troviamolo. L’Uno è stupore, incompletezza, mistero. A tratti, in una grande sventura o in una gioia profonda, per caso o dopo avere cercato a lungo, ci rendiamo conto d’essere parte di un tutto che ci sovrasta, ci avvolge e allo stesso tempo si sottrae alla nostra comprensione. Lo sentiamo, il tutto, senza poterlo distinguere con esattezza. Sebbene non ci sia consentito misurarlo con la ragione, ci pare quasi di toccarlo, tanto è vicino, intimo. Vecchie storie bibliche, sogni di mistici, saggezza indiana, inquietudini dei filosofi greci, poesia del Novecento. Sono i bracci di un fiume immenso e segreto, che questo libro risale passo dopo passo in cerca dell’Uno, del suo fulgore, del suo battito lieve, profondo, invisibile. L’Uno, il più sfuggente e misterioso tra i numeri.
Giulio Busi è esperto di mistica ebraica e di storia rinascimentale, insegna Giudaistica alla Freie Universität di Berlino. Collabora da molti anni alle pagine culturali del «Sole 24 Ore». Per il Mulino ha pubblicato «Indovinare il mondo. Le cento porte del destino» (2021).
* Fonte: Il Mulino
UNO STUDIO DEL 2019 IPOTIZZAVA UNA CURVATURA POSITIVA
Eppur è piatto? Così l’universo torna euclideo
Per misurare la curvatura dell’universo, bisogna trovare il righello giusto. È quanto sono riusciti a fare tre cosmologi usando i “cronometri cosmici”: un insieme di galassie massicce e passive lontane fino a dieci miliardi di anni luce. Grazie al ticchettio dell’espansione dell’universo scandito da questi cronometri, è possibile misurare la curvatura: nonostante i precedenti risultati del satellite Planck, risulterebbe piatto. -Media Inaf ha intervistato il primo autore, Sunny Vagnozzi
di Valentina Guglielmo*
Se cerchiamo il termine “crisi” nel dizionario, troviamo che - in un contesto economico, politico o sociale - essa denota un’uscita improvvisa e traumatica da uno stato di equilibrio seguita da uno stato più o meno permanente di disorganicità, mancanza di uniformità e coerenza. Anche nel mondo scientifico si può entrare in crisi: succede quando viene messa in discussione una teoria, una credenza, un modello invalso. È quanto successo, ad esempio, nel 2019, dopo che alcuni cosmologi, analizzando nelle mappe Planck - il satellite incaricato di misurare le fluttuazioni della radiazione cosmica di fondo con una precisione senza precedenti - il lensing gravitazionale e altri parametri, erano giunti a proporre l’ipotesi che l’universo avesse curvatura positiva. O meglio: che non fosse possibile considerarlo piatto senza introdurre una “tensione” - una crisi, appunto - nella cosmologia. Fra chi ha deciso di affrontare il problema e cercare una soluzione c’è Sunny Vagnozzi, un giovane ricercatore italiano originario di Terracina, in provincia di Latina, che deve il proprio nome al sole che splendeva il giorno della sua nascita, dopo settimane di incessante pioggia. Amante delle stelle sin da piccolo grazie alla madre (di origine taiwanese) e al padre, a 17 anni si è trasferito a Trento per studiare fisica, per poi trascorrere un periodo a Londra, e ancora in Australia, Danimarca, Svezia, e infine a Cambridge. Viaggiatore nel mondo così come nella fisica, ha cominciato la sua carriera studiando le particelle elementari e si trova ora a voler capire che forma ha l’universo nel suo insieme, che cosa contiene e come è evoluto nel passato, nel presente e nel futuro. Media Inaf l’ha intervistato per farsi raccontare la storia di questa crisi cosmologica e di come sia stata risolta.
Come è nata l’idea di questo studio?
«Dopo il paper di Di Valentino, Melchiorri e Silk pubblicato su Nature Astronomy nel 2019 - che portava alla luce i risultati e i problemi sollevati da Planck - c’è stata molta discussione nel campo su quali fossero le implicazioni dei loro risultati, e il mondo della cosmologia, semplificando un po’, è come se si fosse spaccato in due: da un lato, chi diceva che i risultati non potevano essere corretti e l’universo non poteva essere sferico - certamente non così tanto sferico come suggerivano i dati; altri che dicevano che bisognava dar loro più credito, che non fosse il caso di nascondere queste anomalie sotto al tappeto. Io, anche per motivi personali, mi trovo un po’ a metà strada».
In che senso?
«Da un lato collaboro con gli altri autori di quell’articolo di Nature Astronomy - e ho ascoltato e studiato attentamente il loro lavoro - dall’altro lato lavoro qui a Cambridge, circondato da persone che lavorano su Planck e che dicono che non vi sono dubbi, che l’universo è piatto e Planck non riporta anomalie. Entrando nel dettaglio, il problema è il seguente: se prendiamo i dati di Planck da soli, questi direbbero effettivamente che l’universo è chiuso (o sferico) - e tra l’altro direbbero che è molto sferico, perché la curvatura viene rivelata con un livello di confidenza superiore al 99 per cento. Un risultato, per certi versi, davvero sorprendente».
Quindi, l’universo può essere più o meno sferico? Che significa?
«Sì, c’è un parametro - il parametro di curvatura Omega-k - che quantifica quanto l’universo si discosta dall’essere piatto. Omega-k uguale a zero significa universo perfettamente piatto, valori negativi significano universo curvo, sempre più curvo quanto più negativo il valore del parametro. Possiamo pensare che l’inverso di Omega-k sia il raggio di curvatura e, quindi, più Omega-k cresce verso valori negativi più l’universo è curvo su una scala piccola. Funziona bene se lo paragoniamo alla Terra: noi non percepiamo la curvatura terrestre perché la scala su cui essa si piega è troppo grande per i nostri occhi. La scala che suggerisce Planck è invece molto piccola in senso relativo - parliamo pur sempre dell’intero universo».
Piccola tanto da potersene accorgere direttamente?
«Sì, così piccola che Planck lo ha visto. O almeno questo secondo alcuni».
Dove sta il problema, dunque?
«Il problema è che, se prendi le misure effettuate da Planck sulla radiazione cosmica di fondo, è difficile riuscire a credere al valore di curvatura che si estrae. C’è un motivo subdolo che si chiama “degenerazione geometrica”, e provo a spiegartelo con un esempio che uso spesso ed è molto attinente all’esperienza quotidiana. Immagina di vedere l’immagine di una persona su uno sfondo completamente bianco, ecco lei è la nostra radiazione cosmica di fondo: in particolare, la sua distanza da noi rappresenta la distanza fra noi e il fondo cosmico, mentre la sua altezza è il cosiddetto orizzonte sonoro - cioè la massima lunghezza percorribile dalle onde sonore nell’universo primordiale. Le onde sonore, infatti, iniziano a propagarsi pochi istanti dopo la nascita dell’universo e si interrompono quando si forma il fondo cosmico a microonde. Tornando alla nostra persona decontestualizzata, se la guardiamo così com’è non riusciamo a dire contemporaneamente quanto è alta e quanto è lontana: ci sono infinite combinazioni di distanza e altezza che sottendono, ai nostri occhi, lo stesso angolo. Abbiamo, per dirla in matematichese, una sola equazione con due variabili».
Non si può risolvere. «Esatto. Se vogliamo capire, poi, quanto è curva la Terra fra noi e questa persona dobbiamo riuscire a distinguere e misurare queste due variabili - altezza e distanza - separatamente. L’angolo da solo non basta, bisogna aggiungere dei riferimenti fra noi e la persona. Potremmo posizionare questa persona nel contesto di un viale alberato, ad esempio, e sfruttare i riferimenti forniti dagli alberi».
Come si collega questo alla radiazione cosmica di fondo misurata da Planck?
«Nel caso della radiazione cosmica di fondo - chiamiamola Cmb - gran parte dell’informazione che abbiamo viene dallo spettro di potenza. È questo l’osservabile che misura Planck, e ci dice quanto le fluttazioni della Cmb sono correlate guardando due punti separati da scale angolari più o meno grandi (più vado verso destra, nel grafico qui sotto, più l’angolo sotteso è piccolo). L’elemento più importante di questo spettro è il primo picco, quello più alto, perché è una delle impronte lasciate dalle onde sonore nell’universo primordiale: trattandosi di oscillazioni armoniche, corrisponde all’armonica fondamentale. Ci sta dicendo, per tornare all’esempio di prima, che i nostri occhi vedono la persona sotto un angolo di un grado. Quindi, per capire quanto è curvo l’universo - a questo punto - ci servono degli alberi fra noi e la persona.
E cosa sono gli “alberi”, nell’universo?
«Gli alberi sono degli osservabili, nell’universo, che fungono da righelli cosmici. Tradizionalmente, le oscillazioni barioniche acustiche - Bao. Si confronta la lunghezza nota di questi righelli con quella apparente in cielo, e dal confronto si calcola la distanza dei righelli. Se ne misuro un numero sufficiente, riesco a definire quanto lontana è la Cmb».
Quindi ci sta dicendo che la distanza fra noi e la radiazione cosmica di fondo non è conosciuta, se capisco bene. Credevo che il suo redshift fosse ben noto...
«Esatto, occorre conoscere la sua distanza - comunque quantità direttamente collegate alla distanza, come il tasso di espansione dell’universo nelle varie epoche cosmiche. Quello che conosciamo precisamente è, appunto, il redshift della Cmb. Se prendiamo l’informazione che proviene dalla Cmb, la luce, questa parte con una certa energia - o lunghezza d’onda - e per effetto dell’espansione dell’universo, durante il suo viaggio nelle epoche cosmiche perde energia - o viene stiracchiata, se pensiamo alla forma di un’onda. Quanta energia perde - o di quanto si dilata la sua lunghezza d’onda - dipende, appunto, dal redshift. La distanza, invece, non è necessariamente una quantità nota: per conoscerla, dovremmo sapere quanta materia c’è fra noi e la Cmb, quanta energia oscura, quanta curvatura e qual è il tasso di espansione attuale (H0, la costante di Hubble). Diventa un problema un po’ circolare: se vogliamo dire quanto lontana è, dobbiamo assumere un certo modello cosmologico e determinati valori per i parametri detti sopra. Quel che noi vogliamo fare, invece, è l’opposto: usare la Cmb per definire come è fatto l’universo».
Torniamo alla curvatura, allora.
«Certo. Dicevamo che sì, è possibile ottenere una misura di curvatura usando solamente la Cmb, ma - primo problema - questa misura non sarà precisa per via della degenerazione geometrica e - secondo problema - probabilmente non sarà nemmeno affidabile, cioè accurata. Bisogna rompere la degenerazione geometrica: questo ci porta al problema sollevato dal paper di Di Valentino et al.».
Quale?
«Si può provare a rompere questa degenerazione usando le Bao, ad esempio, e facendolo si ottiene come risultato che l’universo è piatto. Il problema è che, nel contesto di un universo non piatto, i risultati provenienti dalle Bao e da Planck - dalla Cmb, quindi - sono molto in tensione, e diventano non confrontabili. E se due dati vogliono due cose molto diverse, la verità - in cosmologia - non sta nel mezzo. In parole semplici, Cmb e Bao non possono essere combinati».
Facciamo un passo indietro. Nel paper di Di Valentino e colleghi, però, vengono usate proprio le Bao. Non è corretto il loro procedimento, dunque?
«Loro hanno usato le Bao, esattamente, ma proprio per portare alla luce questa tensione. Il ragionamento seguito nel loro lavoro è il seguente: i risultati di Planck vorrebbero un universo molto sferico, le Bao insieme a Planck vogliono un universo piatto. Problema risolto? No, perché in realtà non possiamo metterle insieme».
È per questo che loro asseriscono che l’universo sia sferico?
«Non proprio: loro non dicono che l’universo è sferico. Dicono piuttosto che questi risultati di Planck portano alla luce delle tensioni e aprono una crisi nella cosmologia. Questo è il messaggio che ha generato disaccordo e discussioni nella comunità».
Planck, comunque, è il satellite che finora ha misurato la Cmb nel modo più preciso finora...
«Se intendiamo “preciso” nel senso che ha riportato barre d’errore sulle misure molto piccole, allora sì, sono d’accordo. Se invece vogliamo dire accurato, cioè centrato sul valore giusto, allora molti sono d’accordo sul fatto che, per quanto riguarda la curvatura, Planck non sia stato accurato».
Spieghiamo meglio questa incompatibilità, però. Se prima dicevamo che Planck da solo non può misurare la distanza della Cmb, e che occorrono dei righelli - come le Bao - che aggiungano dei riferimenti adeguati, com’è che ora le Bao non vanno più bene?
«Perché bisogna trovare dei righelli adeguati. Le Bao sono un esempio, ma in questo caso non sono il righello giusto. Si possono combinare due metodi solo se le informazioni che danno da principio non sono troppo discordanti».
Cosa manca alle Bao per essere il righello giusto?
«Non direi che manca loro qualcosa. Direi piuttosto che, nel caso di Planck, e soprattutto nel contesto di un universo non piatto, non vanno bene. Quando noi facciamo cosmologia, dobbiamo sempre e comunque assumere un certo modello di universo a priori. Quindi, quando parlo di accordo fra due misure, ne parlo in relazione al modello adottato. In questo caso, se consideriamo un modello di universo piatto, allora le Bao sono il righello giusto e posso combinarle con la Cmb. Questo è quello che hanno fatto alcuni satelliti prima di Planck (come Wmap, ad esempio). Se invece cambio contesto, e non mi fisso su una curvatura piatta ma le consento di variare, allora non possiamo più confrontare questi due metodi. Ecco il messaggio del paper di Di Valentino et al.: quando voglio combinare due misure, devo essere sicuro che abbia senso farlo nel contesto in cui mi trovo».
Veniamo al vostro lavoro. Se ho capito bene, voi avete usato un altro metodo per stimare la curvatura, e questo metodo vi porta al risultato di un universo piatto, senza scontrarsi con nessuna delle due fazioni di cui parlavamo prima. Avete dunque risolto questa crisi cosmologica?
«Noi siamo riusciti a trovare quello che in inglese chiameremmo golden dataset, che ci ha permesso di mettere dei righelli fra noi e la Cmb senza entrare in forte tensione con Planck, nel contesto di un universo non piatto. L’obiettivo era quindi vedere se i nostri “cronometri cosmici” - così abbiamo chiamato i nostri righelli - ci potevano aiutare a stimare la curvatura e risolvere le tensioni».
Cosa sono questi cronometri cosmici?
«Possiamo pensarli come il ticchettio dell’universo: sono degli oggetti che ci sanno dire quanto invecchia l’universo al variare del redshift. Sappiamo che più il redshift è alto, più guardiamo indietro nel tempo: ma quanto lontano? Lo scopo dei cronometri cosmici è, in seconda istanza, misurare il tasso di espansione dell’universo nel presente e nel passato - fino a un redshift circa pari a due, direi un terzo della distanza fra noi e la Cmb, la stessa distanza che si raggiunge anche con le Bao. È molto difficile, però, trovare dei cronometri cosmici adeguati».
E, precisamente, di che oggetti parliamo?
«Si tratta di galassie passive e molto massicce, che si sono formate molto anticamente e hanno avuto una storia di formazione stellare molto breve. Da allora, hanno continuato a evolvere passivamente. Quel che facciamo noi è misurarne l’età in funzione del redshift - osservando molte di queste galassie in diverse epoche cosmiche - e dalla loro differenza di età risaliamo al tempo intercorso e al tasso di invecchiamento dell’universo».
State quindi assumendo che queste galassie, osservate a diverse distanze da noi, siano tutte parte della stessa primordiale famiglia?
«Sì, esattamente, anche se in realtà imparentiamo galassie fra loro molto vicine in redshift. Esiste una relazione che lega età dell’universo, redshift e tasso di espansione, e il nostro scopo è quello di invertirla per ricavare il tasso di espansione dell’universo nel tempo. Per fare questo, però, siccome la relazione si può invertire solo considerando piccole differenze in età e redshift (è una relazione differenziale), ci occorrono galassie molto vicine le une alle altre. Questo lavoro di collezione del campione, selezione delle galassie giuste e analisi delle loro proprietà per calcolare l’età è stato fatto da un nostro coautore esperto, Michele Moresco. Lui ha passato gran parte della sua carriera cercare questi cronometri cosmici, e a dimostrare che possiamo usarli in maniera robusta».
Quando è nato questo concetto di cronometro cosmico?
«È un’idea nata alcuni anni fa - la prima pubblicazione risale al 2002, sono passati ormai vent’anni - ed è stata proposta da due scienziati fra cui proprio il secondo autore del nostro studio, Avi Loeb. Lui è davvero un genio, un pozzo di idee. Ha proposto moltissimi studi e fatto predizioni cosmologiche che poi si sono rivelate corrette, oltre agli altri studi meno tradizionali per i quali è noto - come ad esempio quello sui dinosauri o sui possibili segni di vita aliena».
Come avete capito che queste galassie sono il righello giusto?
«Semplicemente, abbiamo provato. Abbiamo provato a confrontare le due misure e abbiamo visto che non erano in disaccordo nel contesto di un universo non piatto - o meglio, non fissando a priori alcun parametro di curvatura. Nonostante ciò, quando poi siamo andati a misurare il parametro di curvatura risultante dalla combinazione delle due misure, abbiamo trovato che è consistente con un universo piatto entro le barre d’errore. Questo ci porta finalmente alla nostra conclusione: è vero che Planck vuole un universo sferico, ma è anche importante aiutare la misura proveniente dal solo Planck in un modo adeguato e che non entri in tensione con esso: i nostri cronometri cosmici. Facendolo, troviamo un universo piatto».
Si tratta di un risultato definitivo o va perfezionato?
«Noi speriamo che già da ora questo risultato ponga fine alla diatriba cosmologica generata dai dati di Planck. C’è comunque margine di miglioramento nelle misure e nei risultati, questo è innegabile. Ci saranno altri esperimenti di Cmb dopo Planck - parliamo dell’Atacama cosmology telescope ad esempio, del Simons observatory e di Cmb-S4 - e poi esiste un altro metodo, completamente indipendente da qualunque modello cosmologico, che consente di ricavare la curvatura. Ci stiamo lavorando e i risultati sono buoni, magari ve li racconto appena pubblichiamo l’articolo».
Per saperne di più:
*Fonte: MEDIAINAF, 01/03/2021 (ripresa parziale).
GRAZIE A 8 ANNI DI OSSERVAZIONI DEL NANÇAY RADIO OBSERVATORY
Conferma stellare per la caduta libera di Einstein
Combinando i segnali radio provenienti da una pulsar appartenente a un sistema stellare triplo con le più recenti osservazioni dei rivelatori di onde gravitazionali, un team di ricerca internazionale ha testato una delle previsioni fondamentali della relatività generale di Einstein: il principio di equivalenza o universalità della caduta libera, confermando la teoria anche per questi oggetti cosmici così grandi
di Giuseppe Fiasconaro *
Un team di ricerca internazionale ha verificato una delle previsioni fondamentali della relatività generale di Einstein, il principio di equivalenza, o universalità della caduta libera: quello secondo il quale la gravità attira tutti gli oggetti con la stessa accelerazione, a prescindere dalla loro composizione, densità o forza del campo gravitazionale. Lo hanno fatto monitorando con precisione il movimento di una pulsar, Psr J0337 + 1715, all’interno di un insolito sistema stellare triplo, combinando i dati con le più recenti osservazioni dei rivelatori di onde gravitazionali.
L’universalità della caduta libera è una caratteristica unica della gravità, che si manifesta - a differenza di tutte le altre interazioni in natura - attirando tutti gli oggetti con la stessa accelerazione. Un principio che implica l’uguaglianza tra massa gravitazionale e massa inerziale (principio di equivalenza). Due corpi con masse diverse, e campi gravitazionali diversi, accelerano dunque allo stesso modo verso un terzo corpo che li attrae.
Da Galileo Galilei, nel suo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a Isaac Newton, nei Principi matematici della filosofia naturale, molti si sono occupati di questo principio fondamentale. Ma a cosa attribuire il fenomeno? Ci pensò Albert Einstein nel 1907, ipotizzando che la gravità fosse una manifestazione non di uno spazio euclideo, ma di uno spazio-tempo curvo, quello di Friedrich Gauss, Bernhard Riemann, etc, che agisce su tutte le masse allo stesso modo.
Un concetto che è al centro della sua teoria generale della relatività. Una intuizione che lo stesso Einstein definì: “the happiest thought of my life“, il pensiero più felice della mia vita. In pratica Einstein attribuì gli effetti della gravitazione alle proprietà dello spazio-tempo e non ai corpi stessi, e questo assicurava che la caduta libera fosse identica per tutti i corpi.
A questo punto era necessario valutare la fondatezza della teoria. Nei secoli sono stati condotti diversi test per verificare questo principio. Quello più preciso è stato finora ottenuto da un mini-satellite appositamente progettato chiamato Microscope, sviluppato dal centro nazionale di studi spaziali francese (Cnes). Nell’esperimento, le piccole masse di prova all’interno del mini-satellite, soggette al campo gravitazionale della Terra, hanno mostrano accelerazioni uguali con una precisione di una parte su 1014.
Un altro test per verificare questo principio è stato il Lunar Laser Ranging, che si basava sulla misura della distanza tra la Terra e la Luna, entrambe in caduta libera verso il Sole. Una loro differenza nella velocità di caduta sarebbe apparsa come una variazione di distanza. Grazie a questo esperimento, “sparando” raggi laser su tre riflettori lasciati sulla Luna durante le missioni dell’Apollo 11, 14 e 15, è stato possibile misurare la distanza tra gli osservatori e i riflettori sulla Luna con una precisione di pochi centimetri. I risultati, con una precisione di una parte su 1013, concordarono con le previsioni della relatività generale: la Terra e la Luna cadono con la stessa accelerazione nel campo gravitazionale del Sole.
Il nuovo test che il team di ricerca guidato da Guillaume Voisin del Jodrell Bank Centre for Astrophysics di Manchester ha condotto, i cui risultati sono riportati su Astronomy & Astrophysics, è per alcuni aspetti analogo all’esperimento Lunar Laser Ranging, ma a differenza di quest’ultimo ha utilizzato un sistema stellare triplo, costituito da una pulsar e da due nane bianche, come banco di prova ideale per testare l’universalità della caduta libera.
La pulsar è Psr J0337 + 1715, una stella di neutroni distante 4200 anni luce nella costellazione del Toro che mostra regolari impulsi radio mentre ruota 366 volte al secondo attorno al proprio asse. Un corpo in reciproca interazione con altre due stelle, entrambe nane bianche, rispetto alle quali è molto più massiccia: ha più massa del Sole (1.44 masse solari) schiacciata in un diametro di poco più di 20 chilometri, raggiungendo densità di oltre un miliardo di tonnellate nel volume di una zolletta di zucchero.
Nell’esperimento, Psr J0337 + 1715 e la nana bianca interna (0.2 masse solari), sono equivalenti alla Terra in orbita con la Luna dell’esperimento con la misura laser lunare. La nana bianca esterna (0.4 masse solari) è l’equivalente del Sole, fornendo il campo gravitazionale in cui cade il sistema interno (pulsar/nana bianca interna). In questo caso però, invece di usare un raggio laser per misurare la distanza tra gli osservatori e i riflettori, viene utilizzato il tracciamento preciso dei segnali radio provenienti dalla pulsar.
Nello studio, utilizzando il radiotelescopio francese Nançay per misurare con precisione i tempi di arrivo degli impulsi radio provenienti da Psr J0337 + 1715 in un arco temporale di otto anni, i ricercatori mostrato che la pulsar e la vicina nana bianca cadono nel campo gravitazionale della nana bianca esterna con la stessa accelerazione al meglio di due parti per milione (2 parti su 106), confermando ulteriormente il pensiero più fortunato della vita di Einstein.
Teorie alternative della gravità prevedono deviazioni da un’accelerazione universale, che aumenterebbero di grandezza con la quantità di curvatura spazio-temporale causata dall’oggetto. Per oggetti come la Terra, il Sole e per stelle come le nane bianche, la curvatura spazio-temporale è molto piccola. Per le stelle di neutroni, invece, la curvatura è da un milione a miliardi di volte più grande. Questo risultato, sebbene meno preciso del Lunar Laser Ranging, conferma la costante accelerazione nonostante l’enorme curvatura spazio-temporale causata dalla pulsar, provando la legge della gravitazione di Einstein anche per questi oggetti cosmici così massicci.
«Aver confermato il principio della caduta libera con questa precisione costituisce uno dei test più rigorosi mai fatti prima della teoria di Einstein, e la teoria ha superato il test a pieni voti», sottolinea Voisin. «Inoltre, i risultati forniscono vincoli molto stringenti alle teorie alternative della gravità, che competono con la relatività generale di Einstein per spiegare la gravità e, ad esempio, l’energia oscura».
Psr J0337 + 1715 mostra infatti come l’intuizione geniale di Einstein si applichi anche a oggetti cosmici estremi come le stelle di neutroni, che furono scoperte per la prima volta solo 50 anni dopo la pubblicazione della teoria della relatività generale. «Forse più di qualsiasi test precedente» conclude Paulo Freire, astronomo del Max Planck Institute for Radio Astronomy e co-autore dello studio «questo risultato indica che il pensiero più fortunato di Einstein cattura davvero qualcosa di fondamentale sulla gravità e sui segreti della Natura».
*FONTE: MEDIA-INAF, 14/06/2020 (ripresa parziale).
PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Ridiscendere nella "nave" di Galileo Galilei, ripartire da un nuovo "principio di carità" e riprendere la navigazione ... *
Se la fisica è tentata dalla metafisica
La teoria quantistica ha messo in crisi la fiducia della scienza di poter davvero “vedere” il reale.
di Roberto Timossi (Avvenire, martedì 19 gennaio 2021)
Che cos’è la realtà? Siamo in grado di conoscere la natura del reale così come effettivamente è e non semplicemente come appare? Si tratta di due domande classiche del pensiero filosofico, che hanno assunto particolare rilievo con la filosofia moderna.
È noto per esempio che per l’empirismo scettico di David Hume la conoscenza è condizionata dalle impressioni e quindi si riduce a ciò che appare alla nostra mente, per cui anche la scienza in definitiva non ha valore oggettivo, ma è il prodotto dalla nostra abitudine a generalizzare dei fenomeni solo apparentemente ricorrenti e concatenati.
Questa sfiducia nella possibilità di stabilire se quello che crediamo di conoscere corrisponde o meno alla realtà effettiva oppure risulta solamente una nostra raffigurazione mentale ha condotto Immanuel Kant a rinunciare alla ricerca del reale o cosa in sé (il “noumeno” ovvero il pensabile, ma non conoscibile) per limitarsi al “fenomeno”, ossia esclusivamente a quanto si manifesta nelle nostre percezioni sensoriali.
Con l’idealismo e con il positivismo il problema se la realtà sia davvero quella che ci appare è stato svuotato a priori, perché nel caso degli idealisti «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) e nel caso dei positivisti il positum, ossia ciò che è osservato empiricamente dalla scienza, è indiscutibilmente reale (A. Comte, Discorso sullo spirito positivo). Come però purtroppo spesso è accaduto dal Novecento ai giorni nostri, laddove i filosofi hanno “gettato la spugna” ritendendo di dover abbandonare argomenti reputati metafisici, si sono invece fatti avanti gli scienziati.
La questione di che cosa sia la realtà e se davvero la conosciamo è stata infatti rilanciata prima con la teoria einsteiniana della relatività e poi soprattutto con la meccanica quantistica. Quest’ultima, sorta come una teoria che doveva spiegare il funzionamento del microcosmo delle particelle, ha finito inevitabilmente per coinvolgere tutto l’esistente, non fosse altro perché ogni cosa osservabile è fatta di materia, quindi possiede una struttura atomica.
Fin dalle sue origini, la teoria prevalente nella meccanica quantistica (la cosiddetta “interpretazione di Copenaghen”) iniziò a generare problemi al realismo, quantomeno a livello atomico e subatomico, conducendo a un contrasto rimasto famoso tra due grandi fisici premi Nobel: Albert Einstein e Niels Bohr.
Mentre infatti il primo da tenace realista non riusciva ad accettare l’indeterminismo implicito nella descrizione quantistica dei fenomeni (“Dio non gioca a dadi”), il secondo prendeva atto della situazione ritenendo che fosse sbagliato pensare che il compito della fisica sia dire come la natura è realmente. Presente nella filosofia della scienza nella forma di una disputa tra realismo e antirealismo scientifico, il tema ritorna oggi sempre più spesso in libri dall’intento divulgativo, che in fondo riproducono le stesse posizioni contrapposte di Einstein e Bohr.
Avviene così per esempio che il fisico statunitense Lee Smolin, che cerca un’alternativa realistica per la teoria dei quanti ( La rivoluzione incompiuta di Einstein, Einaudi), finisca per entrare in inevitabile conflitto con la teoria quantistica relazionale del fisico italiano Carlo Rovelli ( Helgoland, Adelphi), con la quale il reale sembra dissolversi in assenza di una relazione osservativa o di osservatori, per cui non esistono più una verità e una realtà oggettive, bensì tanti punti di vista. Ma dal momento che lo stesso Rovelli riconosce che «solo Dio può vedere in due luoghi nello stesso momento» e quindi solo Lui possiede il punto di vista assoluto sulla verità e la realtà delle cose, verrebbe paradossalmente da concludere che l’unica strada per salvare il realismo sembra essere quella dei filosofi occasionalisti: il mondo funziona, sta insieme e assume reale consistenza unicamente grazie all’intervento diretto e continuo di Dio.
In definitiva, sarebbe opportuno che gli scienziati non spacciassero speculazioni metafisiche per teorie scientifiche, seguendo in ciò l’atteggiamento del premio Nobel per la fisica Kip Thorne, il quale affrontando il problema di come sia realmente lo spazio-tempo descritto dalla teoria della relatività ha concluso: «Quale punto di vista dica la “verità autentica” è irrilevante ai fini degli esperimenti, è una questione dei filosofi, non dei fisici» ( Buchi neri e salti temporali. L’eredità di Einstein, Castelvecchi).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
FLS
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@UNESCO #LogicDay Uscire dall’#infernoepistemologico: ripartire con #Quine e #Nozick da un nuovo #principiodicarità, ridiscendere nella #nave di #galileogalilei, e riprendere la #navigazione con #Einstein
ROVELLI - i quanti, l’epistemologia e l’interdisciplinarietà
di Giorgio Mattana *
“E pensare che oggi qualcuno vede scienze naturali, scienze umane e letteratura come ambiti impermeabili l’uno all’altro ...” (p. 127). Helgoland è un appassionante libretto in cui il fisico Carlo Rovelli espone con leggerezza, adottando la forma del racconto scientifico-filosofico, la sua interpretazione “relazionale” della meccanica quantistica, nonché la visione del mondo a suo avviso più coerente con essa. Nel 1925 il giovane Werner Heisenberg, sulla sperduta isoletta del Mare del Nord Helgoland, detta anche Isola Sacra, in una sorta di ritiro spirituale, concepisce la teoria dei quanti. A definirne il formalismo matematico contribuiranno altri giovani scienziati: Pascual Jordan, Paul Dirac e Wolfgang Pauli. Max Born, quarantenne, è il più anziano del gruppo. Alcuni la chiamano “la fisica dei ragazzi”, ma è una svolta epocale. Si uniranno poi all’impresa Ervin Schrödinger, Louis de Broglie e altri. Padri spirituali ne sono a vario titolo Max Planck, con la sua fondamentale costante, Niels Bohr con il suo modello dell’atomo, e Albert Einstein, che peraltro non ne accetta le implicazioni indeterministiche, con l’idea dei “quanti” di energia.
La teoria dà conto in modo mirabile di una serie di sconcertanti risultati sperimentali che tormentavano i fisici del primo Novecento, ma scuote al tempo stesso dalle fondamenta l’immagine scientifica del mondo. Ancora più della relatività generale di Einstein, che modificava radicalmente la concezione dello spazio e del tempo della meccanica newtoniana e del senso comune, rendendoli dipendenti da masse e movimenti e fra loro inscindibilmente interconnessi.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, che stabilisce l’impossibilità di accertare contemporaneamente la posizione e la velocità di un elettrone, variabili che nel mondo macroscopico permettono di calcolare la traiettoria di ogni corpo in movimento, sfidava le basi della fisica classica, nella quale Rovelli sembra a tratti includere la stessa relatività, al fine di sottolineare la sconvolgente novità dell’immagine della natura riflessa dalla meccanica quantistica.
La peculiarità del testo non risiede tuttavia nella brillante esposizione dei caposaldi della teoria, già oggetto di numerose trattazioni divulgative incluse quelle dello stesso Rovelli, ma nell’illustrazione della sua interpretazione “relazionale” e delle sue più significative ricadute filosofiche e interdisciplinari. Il principio di indeterminazione, la misteriosa costante di Planck, l’effetto fotoelettrico, la sovrapposizione quantistica illustrata dall’apologo di Schrödinger del gatto sveglio/addormentato, che Rovelli sostituisce a quello vivo/morto, lo sconcertante fenomeno dell’entanglement, per cui due particelle venute a contatto nel passato mantengono una sorta di legame reciproco anche a migliaia di chilometri di distanza, ci fanno gettare lo sguardo su un abisso dove la realtà ordinariamente intesa scompare. Il mondo della fisica classica, erede del meccanicismo settecentesco, fatto di materia e movimento, viene soppiantato da un mondo di relazioni e di eventi che prende forma dalle fondamentali intuizioni di Heinsenberg sulla fisica degli “osservabili”.
Perché cercare di capire cosa fa l’elettrone, e con esso tutte le altre particelle della fisica subatomica, quando non lo osserviamo? E se l’elettrone non seguisse alcuna orbita? E se prendesse forma, assumesse questa o quella caratteristica, per esempio emettere luce, solo nell’interazione con noi? Quello che si profila è un radicale mutamento di paradigma scientifico-filosofico, una nuova visione della natura basata sulla considerazione che l’interazione fra osservatore e osservato codificata da Heisenberg è la regola, non l’eccezione.
Nulla esiste in assoluto, tutto è in relazione a qualcosa, proprio come l’elettrone esiste nella relazione con noi e assume interagendo con i nostri strumenti di misura posizione, velocità o energia. Non esiste un elettrone “in sé”, con una sua orbita definita che non riusciamo a cogliere per l’imperfezione del nostro sistema osservativo. Non esiste una natura popolata di oggetti con proprietà assolute, nulla esiste in “sdegnoso” isolamento: tutto è in relazione ad altro, tutto interagisce con altro, tutto è in relazione con tutto. Il sasso è in relazione con il suolo a cui si “manifesta” con il suo peso, la velocità è sempre in relazione al sistema di riferimento, l’alto e il basso esistono solo in relazione alla superficie terrestre. È un’ontologia di relazioni, di cui gli oggetti rappresentano i “nodi”, di sistemi fisici che si rispecchiano gli uni negli altri. E tali relazioni non poggiano su nulla di solido, come stabiliva la fisica della materia e del movimento, delle qualità primarie oggettive in sé esistenti e di quelle secondarie. La grammatica del mondo scoperta dalla fisica quantistica non è costituita da semplice materia e movimento. “La relazionalità che permea il mondo scende fino a questa grammatica elementare. Non possiamo descrivere nessuna entità elementare se non nel contesto di ciò con cui è in interazione” (148).
Dietro la fisica degli “osservabili” di Heisenberg c’è Ernst Mach, profondamente influenzato dalla lezione humeana, che ha proposto l’empiriocriticismo come la cornice concettuale più adatta a inquadrare l’impresa conoscitiva umana, successivamente adottata dai neopositivisti del Circolo di Vienna. Dell’epistemologia machiana, anche detta fenomenismo, Rovelli sottolinea lo spirito antimetafisico, la scrupolosa aderenza ai dati dell’esperienza e lo smascheramento degli errori e dei paradossi connessi al bisogno di oltrepassarli postulando un mondo di oggetti, cose o enti sussistenti in modo assoluto e dotati di proprietà definite una volta per tutte. Contro Mach si era scagliato Lenin in nome del materialismo attaccandone il portavoce russo Bogdanov, ma dalla disamina di Rovelli è il materialismo che esce sconfitto, in quanto rappresentante della vecchia metafisica, non diversamente dalle idee platoniche e dallo spirito assoluto di Hegel.
L’empiriocriticismo machiano si presta invece ottimamente a fare da sfondo a quel mutamento di paradigma (Kuhn) o a quella rottura epistemologica (Bachelard) che ci propone la meccanica quantistica. La teoria più strana, controintuitiva e sconvolgente che sia mai stata concepita, ma anche la più riccamente confermata: “non ha mai sbagliato”. Non si dimentichi che a non essere prevedibile è il comportamento della singola particella, che le sue leggi sono probabilistiche e che in quanto tali sono state sempre confermate, per non dire delle loro innumerevoli applicazioni tecnologiche. Da essa Rovelli deriva una visione più “leggera” della natura, come trama di relazioni e gioco di specchi, priva di un fondamento assoluto e di un punto di vista privilegiato, così nuova da chiamare in causa un pensiero ancora più radicale e “altro” di quello machiano. La dottrina di Nāgārjuna, pensatore indiano del secondo secolo, asserisce esplicitamente “che non ci sono cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da altro” (p. 150). L’assenza di esistenza indipendente è “vacuità”: “le cose sono vuote nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro” (p. 151). “La lunga ricerca della ‘sostanza ultima’ della fisica, passata attraverso materia, molecole, atomi, campi, particelle elementari ... è naufragata nella complessità relazionale della teoria quantistica dei campi e della relatività generale” (p. 153).
Le ricadute interdisciplinari dell’interpretazione della realtà proposta da Rovelli sono facilmente intuibili, sia a livello generale sia per quanto riguarda la psicoanalisi, dove non può non trarne alimento la concezione relazionale della mente affermatasi negli ultimi decenni. L’evoluzione della teoria da un modello strettamente unipersonale verso modelli sempre più caratterizzati in senso relazionale, dalla concezione kleiniana delle relazioni oggettuali, alla visione winnicottiana della relazione madre-bambino, al modello bioniano della rêverie e della relazione contenitore-contenuto, fino alla teoria del campo e ai modelli intersoggettivisti e relazionali, sembra ormai un fatto acquisito. Come in fisica il mondo degli oggetti si stempera in un più fluido e cangiante mondo dove la lama di un coltello assomiglia alla spumeggiante cresta di un’onda dell’oceano, dove le cose si palesano le une alle altre nell’interazione, proprio come all’osservatore umano, così in psicoanalisi l’osservazione della mente in interazione con un’altra mente ne ha evidenziato le caratteristiche relazionali. E come non ha senso parlare in assoluto delle proprietà di un oggetto, così non ha senso parlare di un soggetto che non sia in relazione con altri soggetti che ne riflettono l’immagine e ne vengono riflessi, in una complessa trama di relazioni di cui rappresentano i nodi.
Si potrebbe addirittura ipotizzare che l’evoluzione relazionale della psicoanalisi sia consistita nell’abbandonare l’implicito isomorfismo con il mondo della fisica classica, popolato di oggetti, cose o enti concepiti come in sé conclusi e privi di relazione ad altro, per approdare a una visione più fluida, molteplice e interattiva della soggettività, sempre legata a una complessa e mutevole rete di relazioni esterne e interne. Ma l’utilità del punto di vista relazionale riguarda anche il rapporto della psicoanalisi con le altre discipline, riecheggiando le più condivisibili acquisizioni postmoderne sul carattere prospettico e contestuale di ogni attività conoscitiva, senza assecondarne le più radicali e discutibili derive scettiche e nichiliste. Si tratta di una visione relativa e complessa della conoscenza, basata sul lutto della verità unica e della spiegazione definitiva, ma compatibile con l’esistenza di specifici criteri di referenzialità e validazione all’interno di ogni disciplina. La congruenza fra metodo e oggetto permette di vedere la psicoanalisi come una disciplina caratterizzata da uno specifico metodo di indagine e da un altrettanto specifico sistema concettuale e linguistico, adeguati alla conoscenza di un determinato oggetto e irriducibili ad altri metodi e sistemi. Su questa base essa può dialogare con le altre discipline nella consapevolezza della relatività delle proprie conoscenze, ma anche della loro irriducibilità a quelle delle altre scienze, alla ricerca di una descrizione sempre più articolata, complessa e verosimilmente mai definitiva del soggetto umano.
*Fonte: Spi-Web, 12 Novembre 2020
LE PAROLE E LE COSE:
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" O IL "LOGO"?! Una questione antropo-logica! *
Riprendendo il filo del discorso dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo” e dalla "Critica della ragion pura" di Kant, forse, è possibile comprendere che la proposta di interpretazione della meccanica quantistica di Carlo Rovelli è "un’idea della fisica assai lontana da quella boriosa “teoria del tutto” con cui alcuni fisici contemporanei intendono mettere un punto alla storia millenaria della riflessione umana" (Emilia Margoni - cit.).
Anzi, ripensando a Kant e, al contempo, accolta "l’ipotesi che Gesù conoscesse benissimo la meccanica quantistica" (Giovanni Megna - cit.) e ricordate le parole di Ponzio Pilato proprio su Gesù ( «Ecco l’uomo» gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»), si potrebbe riguardare (ripensando meglio anche la "critica dell’economia politica") tutta la questione proprio dalla "quarta" domanda della "Logica" di Kant - quella antropologica!
"Chi abbia avuto la pazienza di giungere sin qui si starà forse chiedendo cosa l’interpretazione relazionale abbia da dire sul destino del gatto nella scatola" (Emilia Margoni - cit.): detto altrimenti, la questione antropologica ("in principio è la relazione" della meccanica ... "andrologica" e "ginecologica") è la questione più importante, rispetto a quella etica, metafisica, e religiosa.
"Come nascono i bambini?" (ricordare non solo Alfred N. Whitehead ma anche Enzo Paci e il suo "relazionismo"). Dopo Copernico, Keplero, Galileo, Newton, Kant, Freud, Einstein, è ancora tanto difficile allontanarsi da "mammona" e uscire dallo "stato di minorità" ?! Boh e bah?!
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Federico La Sala
Tunnel quantistici per superare la velocità della luce
di Natalie Wolchover/ Quanta Magazine *
Recenti esperimenti suggeriscono che quando atomi o particelle elementari superano una barriera di potenziale a causa dell’effetto tunnel - uno dei fenomeni più bizzarri, e utili, della meccanica quantistica - potrebbero essere in grado di muoversi a velocità superiori a quella della luce. Tuttavia, le condizioni in cui questo avviene farebbero evitare i paradossi previsti dalla relatività di Einstein [...]
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Fonte: Le Scienze, 02.11.2020
Capire il mondo con la fisica quantistica
di Pietro Greco *
Helgoland, il nuovo libro che Carlo Rovelli ha pubblicato con Adelphi (pag. 230, euro 15,00), è forse anche il più ambizioso scritto dal fisico teorico esperto di loop quantum gravity che si divide tra la Francia e il Canada. Pensate: il suo obiettivo è far sì che tutti - ma proprio tutti, fisici e poeti, filosofi e cittadini comuni - discutano dei fondamenti della meccanica quantistica, la teoria fisica più fondamentale, più precisa e, insieme, più bizzarra che loro, i fisici, abbiano mai elaborato.
Il libro parte da un’isola tedesca, Helgoland, appollaiata nella parte meridionale del Mare del Nord: una dimensione geografica che sembra contenere in sé un’ambiguità. In quest’isola nel 1925 un ragazzo tedesco di 23 anni, Werner Heisenberg, inventa la meccanica quantistica. Il che significa che dà, finalmente, una veste formale, matematizzata, alla fisica dei quanti. Che già vanta tre padri fondatori - Max Planck, Albert Einstein e Niels Bohr - e alcuni tratti che sconcertano i fisici.
Era stato Max Planck il primo, nell’anno 1900, a scoprire i quanti. O meglio, il quanto elementare d’azione, che scardinava il concetto di continuo in fisica: l’energia non si trasmette con continuità, ma mediante pacchetti discreti. Per quanti, appunto. La cosa era talmente sconcertante che lui stesso, Max Planck, non ci voleva credere. Pensava di aver scoperto un mero artificio matematico capace di venire a capo di un problema di poco conto e, invece, aveva realizzato una delle scoperte più importante nella storia della fisica e, quindi, del pensiero umano.
Erano poi passati cinque anni quando un altro tedesco, un semplice e giovane impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna, aveva realizzato un’altra scoperta fondamentale: “i quanti di luce”. Oggi li chiamiamo fotoni. Non solo la luce (anche la luce) procede per pacchetti discreti, ma questi pacchetti hanno una duplice natura: di onda e di corpuscolo. E ora manifestano l’una ora manifestano l’altra natura: Il trionfo dell’ambiguità.
Passa ancora qualche anno e il terzo, il danese Niels Bohr, propone che gli elettroni si muovano intorno al nucleo degli atomi seguendo orbite discrete, non una qualsiasi traiettoria. Un ulteriore trionfo della discontinuità in natura accompagnata da un altro fatto sconcertante: gli elettroni possono saltare da un’orbita all’altra istantaneamente, senza che sia possibile seguirne la traiettoria. Semplicemente perché non c’è traiettoria. È come se la Terra potesse muoversi intorno al Sole solo descrivendo la sua attuale traiettoria o quella di Marte o quella di Giove, ma nessun’orbita intermedia. Non solo: è come se la Terra potesse saltare istantaneamente dalla sua orbita a quella di Marte e poi di Giove senza seguire alcun percorso.
Già questi tra mattoni fondamentali della fisica dei quanti creano non pochi problemi a chi crede nella continuità e nella causalità dei fenomeni fisici: ovvero in tutti i fisici del tempo.
Le novità, negli anni della “fisica quantistica antica” non mancano e vanno oltre quelle proposte da Planck, Einstein e Bohr. Emerge, forte, la necessità di mettere ordine, ovvero di formalizzare in termini matematici tutte queste stranezze. È quello che fa Werner Heisenberg nel suo solitario soggiorno a Helgoland nel 1925.
La formalizzazione è ben strana: intanto perché fa uso di una matematica, quella delle matrici, piuttosto particolare. Ma anche perché spazza via il concetto di visualizzabilità in fisica: è inutile che io cerchi di avere un’immagine tangibile dei microscopici oggetti quantistici, io posso parlare solo degli osservabili, delle cose che posso misurare. Quindi è inutile chiedersi dove sia la Terra quantistica mentre “salta” nell’orbita di Marte, che percorso segua e persino quanto tempo impieghi. Quello che posso dire è solo che ho verificato che la Terra prima era nella sua orbita e poi la trovo nell’orbita di Marte.
Inaccettabile, per molti fisici.
Ecco, però, intervenire un altro fisico, l’austriaco Erwin Schrödinger, ed elaborare un’equazione - ancora oggi nota come equazione d’onda di Schrödinger - che descrive un oggetto quantistico come un’onda, appunto. Almeno la visualizzabilità ma in qualche modo anche la continuità sembrano recuperate. Non dura molto, il maestro di Heisenberg, il tedesco Max Born, insieme al suo al suo allievo Pascual Jordan, dimostrano che quella di Schrödinger non è la funzione di un’onda, ma è una funzione di probabilità. Non ci dice dove sta, in ogni istante, la Terra quantistica, ma qual è la probabilità che io la trovi in un certo punto. È come dire che un elettrone posso trovarlo in un certo istante in orbita intorno a un nucleo, in orbita intorno a un altro nucleo, al bar di Alfredo o su un’altra galassia. Tutto quello che posso dire apriori è la probabilità, senza dubbio diversa, che lo trovi in un dato istante intorno al suo nucleo, al nucleo di un atomo vicino, al bar di Alfredo o di un’altra galassia.
Aggiungete a questo che nel 1927 lo stesso Werner Heisenberg elabora il “principio di indeterminazione”: non solo non posso conoscere con precisione la posizione e la velocità con cui si muove quell’elettrone, ma se aumento la precisione con cui misuro la posizione perdo informazione sulla velocità e viceversa. Il che significa, scrive lo stesso Heisenberg, che il determinismo in fisica è finito, non perché io non posso conoscere con precisione assoluta il futuro - come poteva fare l’intelligenza evocata a inizio Ottocento da Pierre Simon de Laplace nel suo “manifesto del determinismo” - ma perché non possono conoscere con precisione assoluta il presente.
Fermiamoci qui. In quei turbinosi anni ’20 del XX secolo. la fisica mette in discussione tra concetti che non sono solo suoi, ma anche della filosofia e persino del senso comune: la continuità dell’azione, la causalità rigorosa, la stessa realtà. Di più: propone l’azione a distanza tra oggetti quantistici correlati. Cosa significa? Mettiamo che io e il mio gemello abbiamo l’obbligo di indossare calzini di colori diversi. Se io indosso calzini bianchi, lui deve indossare calzini rossi. Se io sto sulla Terra e indosso i calzini rossi mentre lui si è spostato dall’altra parte della nostra galassia, il mio gemello potrà ottemperare al suo obbligo solo dopo aver avuto notizia della mia decisione: almeno centomila anni dopo (le notizie possono viaggiare alla velocità della luce). Ma se io sono un oggetto quantistico e “decido” di indossare calzini bianchi, istantaneamente, fosse pure dall’altra parte della galassia, il mio gemello indosserà calzini rossi.
Se vi si confonde la testa non preoccupatevi, succede anche ai fisici. Che si dividono subito in due scuole: quella di Bohr e di moltissimi altri (Heisenberg compreso) che dicono: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole così è e più non dimandare; e quella che fa capo ad Albert Einstein (e a Schrödinger) che dicono, ok la meccanica quantistica funziona, ma ci devono essere delle variabili nascoste che possono rendere più “realista”, mano bizzarra la teoria.
La fortuna della prima interpretazione - detta “di Copenaghen” - è che è fatta propria dalla gran parte di chi occupa una cattedra di ordinario nei dipartimenti di fisica. Ma negli anni ’50 del secolo scorso ecco che prima Louis de Broglie poi, soprattutto, David Bohm mettono a punto una “teoria dalle variabili nascoste” che funzione bene proprio come l’interpretazione cara a “quelli di Copenaghen”.
Chi ha ragione?
Passano non molti anni e l’irlandese John Bell dimostra che la teoria “realista” della meccanica quantistica può funzionare e restituirci almeno l’idea di una realtà oggettiva del mondo che non dipende dalla misura di un fisico, a patto che si accetti l’azione istantanea a distanza, perché le connessioni tra particelle quantistiche esistono, sono stati empiricamente dimostrate, e vengono chiamate entanglement.
Resta il problema micro-macro: perché e quand’è che degli oggetti cessano di comportarsi nel modo quantistico assurdo e si comportano come vediamo comportarsi gli oggetti nella nostra quotidianità?
La fenomenologia macroscopica - rispondono tre italiani, Giancarlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio Weber - è una proprietà emergente: quando abbiamo un numero congruo di oggetti quantistici, questi interagiscono e statisticamente si comportano come vuole la fisica classica.
Se continuate ad avere il mal di testa non vi preoccupate. La stessa sensazione ce l’hanno anche i più esperti tra i fisici. Anche perché il problema dell’interpretazione dei fenomeni quantistici è molto più complesso di quanto non vi abbiamo detto finora.
È un problema che ha, allo stato, molte proposte di soluzione. Nessuna definitiva.
Tra queste c’è la meccanica quantistica relazionale, “inventata” proprio da Carlo Rovelli nel 1995 e poi ripresa da altri. L’idea di fondo è che non esiste nulla di assoluto in sé, né i corpuscoli né l’energia. Il mondo non è fatto di cose, ma piuttosto di relazioni. Esistono solo le relazioni tra le cose. Come sostiene Rovelli dobbiamo guardare alla realtà come a un’immagine riflessa in specchi che a loro volta si riflettono in altri specchi.
Rovelli fonda la sua interpretazione della meccanica quantistica in questa prospettiva relazionale, che, ripetiamo, è una di quelle attualmente in campo per risolvere quello che Karl Popper chiamava “il gran pasticcio dei quanti”. Non sappiamo se avrà successo, certo è un’utilissima ipotesi di lavoro. Ma, in realtà, non sappiamo neppure se mai verremo a capo di tutti i problemi aperti dalla meccanica quantistica.
Ma quello che Carlo Rovelli ci propone nella seconda parte di Helgoland è qualcosa di più. Propone che tutti noi - fisici, filosofi, artisti, persone non esperte- assumiamo la prospettiva relazionale anche per interpretare il mondo, macroscopico, in cui viviamo. Anche in questo caso, anzi ancor più in questo caso, non sappiamo se quella proposta da Rovelli è la chiave giusta per capire il mondo. Non sappiamo se davvero tutto è solo relazione. E tuttavia il suo ambizioso progetto ci sembra convincente: tutti - fisici, filosofi, artisti, cittadini non esperti - possiamo e dobbiamo discutere dei fondamenti della fisica. Perché per capire il mondo non possiamo prescindere da essa, la meccanica dei quanti.
La danza della stella attorno al buco nero, nuova conferma del genio di Einstein
L’orbita di un astro attorno al buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea corrisponde ai calcoli fatti grazie alla teoria del fisico tedesco, che resiste a più di un secolo dalla sua formulazione
di MATTEO MARINI (la Repubblica, 16 aprile 2020)
Lì dove le masse si fanno davvero giganti e il tachimetro si avvicina pericolosamente alla velocità della luce, c’è il laboratorio di fisica più estremo che l’uomo ha a disposizione. Siamo al centro della nostra galassia, a circa 26.000 anni luce da noi, e da lì arriva una nuova conferma della teoria della Relatività generale di Einstein. Qui le stelle orbitano attorno al buco nero supermassiccio Sagittarius A*. Gli astrofisici per 30 anni hanno seguito il percorso di una di queste, una giostra vorticosa che la porta a raggiungere il tre per cento della velocità della luce. La sua orbita, distorta dagli effetti relativistici, è stata prevista grazie alla teoria di Einstein, che resta la più elegante e precisa descrizione di come si muovono le cose nell’Universo.
S2, la stella in questione, non descrive infatti una semplice ellisse chiusa durante la sua rivoluzione attorno a Sagittarius A*, ma il suo moto disegna un rosone. Il motivo di questa distorsione riguarda proprio la presenza del buco nero al quale la stella passa piuttosto vicino. Parliamo di circa 20 miliardi di chilometri, 120 volte la distanza che separa la Terra dal Sole. Può sembrare un’enormità, ma l’attrazione del gigantesco buco nero si fa sentire con anche qui con tutta la sua forza.
Quando Newton non basta
Isaac Newton aveva descritto il mondo nella maniera più accurata possibile al suo tempo, la legge di gravitazione universale, assieme ai principi della dinamica, sono pilastri della fisica moderna grazie ai quali, per esempio, possiamo calcolare con ottima approssimazione la caduta di un oggetto o le orbite della Terra e di tutti gli altri pianeti. Tranne Mercurio. Dove il campo gravitazionale si fa davvero molto intenso, le formule di Newton infatti non bastano più. Bisognò aspettare un paio di secoli, fino a quando Einstein, con la Relatività generale, non ideò la teoria più precisa mai ottenuta per calcolare anche quello che succede vicino a grandi masse, come quella del Sole o, appunto, di un buco nero.
Mercurio, insomma, non si comporta come Newton aveva previsto, la sua orbita subisce una precessione molto più marcata rispetto a Venere o la Terra. Questo perché è molto più vicino al Sole che curva lo spaziotempo. Allo stesso modo si comporta una stella come S2, che danza attorno a un buco nero che ha una massa stimata di circa quattro milioni di volte quella dello stesso Sole.
La sua orbita, come quella di Mercurio, subisce quella precessione che, ogni volta che si avvicina, la modifica leggermente. La stella S2, è una osservata speciale da almeno 30 anni. Ce ne impiega infatti 16 per compiere un’orbita completa attorno a Sagittarius A*. Ora, un team internazionale di astrofisici, usando gli strumenti del Very large telescope dell’Eso, in Cile, ne ha ricostruito il percorso in questi tre decenni. E il risultato, pubblicato oggi su Astronomy & Astrophysics, è stato quello atteso, perché corrisponde all’orbita calcolata grazie alla Relatività generale di Einstein.
La conferma della teoria di Einstein
In più di un secolo (lo studio della Relatività generale è del 1916) è stata testata e messa alla prova moltissime volte. La prima evidenza empirica di questi effetti relativistici fu quella dell’eclissi del 1919, quando la posizione delle stelle osservate vicino al bordo del Sole oscurato dalla Luna, fu misurata con uno spostamento atteso. Perché anche la luce viene piegata da un oggetto molto massiccio, come aveva descritto Einstein. Lo scienziato divenne una rockstar e la Fisica non fu più la stessa. Questa bizzarria della luce che devia e prende diversi percorsi crea molte stranezze nel cielo. Per esempio le ’’croci di Einstein’’, immagini diverse dello stesso oggetto (molto luminoso, una supernova o una galassia) che dalla Terra vediamo riprodotte più volte grazie alla interazione di un altro oggetto molto massiccio che sta in mezzo. L’effetto è noto come lente gravitazionale.
Nel 2016, addirittura, fu osservato il ’’replay’’ dell’esplosione di una stella, la cui luce aveva viaggiato per diverse vie, arrivando fino a noi in tempi diversi. Anche questa predizione fu fatta grazie ai calcoli della Relatività.
S2 e le altre stelle che orbitano attorno a Sagittarius A* sono state a lungo oggetto di analisi, sempre per trovare misure sempre più precise per testare la Relatività generale. Nel 2017 ancora la sua orbita fu misurata per testare i calcoli e la Relatività passò l’esame. Attorno a Sagittarius A*, che si conferma straordinario laboratorio di Fisica con masse estreme, adatte a mettere alla prova le formule che descrivono il movimento degli oggetti, nel 2018 il test riguardò l’effetto sulla luce di una stella sempre da quella regione, con uno spostamento verso il rosso, un redshift, che si manifesta in presenza di masse enormi.
Fino ad arrivare alla prima immagine di un buco nero, realizzata grazie ai radiotelescopi sparsi in tutto il mondo. Anche in quel caso, tutto era spiegabile (per esempio la sua forma) con i calcoli elaborati dalla Relatività. Come sempre, si continuerà a provare e riprovare, per cogliere in fallo, per trovare quello che la Relatività non riesce a spiegare. A quel punto saremo di fronte, forse, alle porte di una nuova Fisica, che potrebbe, chissà, aprirsi sulla strada della “Teoria del tutto” che unifichi la spiegazione della gravità descritta dalla Relatività, con la descrizione delle altre forze fondamentali (elettromagnetismo, interazione nucleare debole e forte della fisica quantistica).
ASTROFISICA
Marica Branchesi, la signora delle onde. Con lei il Big Bang è più vicino
La scienziata è stata la prima a rilevare le onde gravitazionali, confermando quanto predetto da Einstein. E Time l’ha inserita tra le 100 persone più influenti del mondo
di Alessia Cruciani (Corriere della Sera, 10 gennaio 2020)
«La più amabile, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia», scriveva Giacomo Leopardi nel suo volume Storia della Astronomia dalla sua origine sino all’anno 1811. Aveva solo 15 anni. Era addirittura più giovane Marica Branchesi quando con gli amici, nel suo piccolo paese di campagna alle porte di Urbino, guardava il cielo di sera nella speranza di veder una stella cadente. «Eppure non sono mai stata un’astrofila. Non conosco le costellazioni, mi limito a Grande e Piccolo Carro, stella Polare e poco altro», ammette ridendo l’astrofisica, 42 anni, che nel 2017 è stata inserita da Nature nella top ten dei ricercatori più importanti e nel 2018 da Time tra le 100 persone più influenti al mondo.
Infatti, la ricercatrice del Gran Sasso Science Institute, a L’Aquila, ha partecipato alla rilevazione delle onde gravitazionali tra il 2015 e il 2017, esattamente cento anni dopo che Albert Einstein ne aveva predetto l’esistenza. Una scoperta che ha consegnato il Premio Nobel per la fisica agli scienziati Rainer Weiss, Barry C. Barish e Kip S. Thorne, creatori dell’interferometro Ligo per registrarle.
Ma la burocrazia italiana ha i suoi tempi anche davanti a scoperte che ci porteranno oltre il Big Bang, e la scienziata che il mondo ci invidia è ancora ricercatrice di tipo B, che anticipa lo scatto a professore associato.
E non si lamenta?
«No, al Gssi è possibile fare ricerca a livello internazionale con una burocrazia meno pressante. È un ambiente stimolante, l’istituto è nato dopo il terremoto da un progetto che intende ricostruire la città attraverso la cultura, così ho studenti d’eccellenza da tutto il mondo. Oggi siamo sedici ma nel 2017 eravamo in tre a studiare le onde gravitazionali: il rettore, io e il mio compagno (il fisico Jan Harms, papà dei suoi due bimbi, ndr)».
Da anni ripete cosa sono le onde gravitazionali. Stavolta proviamo a farlo noi: si tratta di perturbazioni dello spazio-tempo che si propagano alla velocità della luce, come quando si lancia un sasso in un lago e si creano onde che si espandono. Nello spazio a creare le onde sono oggetti molto massivi, come buchi neri o stelle di neutroni, che si scontrano provocando increspature, che si propagano nell’universo. Le onde gravitazionali ci permettono di vedere quello che è invisibile.
Nel 2015 un sms la informa che c’è appena stata una fusione tra due buchi neri che ne ha formato uno più massivo capace di produrre un segnale che ci ha raggiunto dopo 1,2 miliardi di anni. L’universo ha usato lo smartphone per far rilevare le prime onde gravitazionali?
«Oggi mi ha mandato un messaggio mentre facevo la doccia! Abbiamo interferometri che osservano sempre il cielo e i dati vengono analizzati con tecniche complicate quasi in real time. Se ci sono segnali di onde gravitazionali, un alert sul telefono è il modo più veloce per correre al computer e parlare con gli altri ricercatori in tutto il mondo».
Ha detto che le onde gravitazionali erano più belle di quanto si aspettasse. Perché?
«Sapevamo di essere di fronte a eventi rari, ci aspettavamo un segnale debole e stavamo facendo gli ultimi controlli degli interferometri. Ci ha sorpresi un segnale così presto e così bello: si vedeva già nei dati sporchi. Una scoperta epocale che ha cambiato l’astronomia. Come quando Galileo puntò per la prima volta il telescopio».
Il 17 agosto 2017 arriva il segnale più importante: a una distanza di 130 milioni di anni luce (sulla Terra c’erano i dinosauri), due stelle di neutroni si sono fuse propagando onde gravitazionali . Ma questa volta non sono sole.
«Virgo, l’interferometro che abbiamo a Cascina, nel pisano, è riuscito a registrarle insieme alle antenne negli Usa. Avevamo una posizione più precisa in cielo e satelliti e telescopi hanno visto anche la luce. Un segnale fantastico che ha dato vita alla nuova astronomia multimessaggera: abbina la luce alle onde gravitazionali. Ora rileviamo fusioni di buchi neri con stelle di neutroni. E serviranno strumenti più avanzati, come l’Einstein Telescope: un rivelatore che potrà vedere tutto l’universo osservabile, si andrà vicino al Big Bang. Si sta decidendo il sito che lo ospiterà, Olanda o Sardegna: dovrebbe osservare il cielo dal 2035 ».
Si troveranno altre forme di vita?
«Sarà una delle grandi scoperte che probabilmente l’astronomia ci darà nei prossimi anni. Ci sono missioni, satelliti per studiare pianeti, trovarne simili alla Terra».
Non avrebbe voglia di andarci fisicamente nello spazio?
«L’esplorazione dell’astronauta è limitata a un universo vicino, le distanze degli oggetti astrofisici sono troppo lontane a parte quelli del nostro sistema solare. E la mia esplorazione è attraverso i segnali che osserviamo dall’universo».
Grazie alle onde gravitazionali abbiamo capito che l’oro nasce dalla fusione di stelle di neutroni. Quanta poesia se l’avesse saputo Leopardi.
«Sembra un modo di dire, ma è vero: siamo tutti polvere di stelle!».
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200101_omelia-madredidio-pace.html)
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
Scienza e fede.
Teologia e cosmologia in dialogo seguendo Teilhard de Chardin
L’astrofisico Piero Benvenuti rilancia l’eredità del gesuita: «Suo il merito di avere intuito il valore rivoluzionario dell’evoluzione del cosmo. Ora serve una nuova teologia della natura»
di Piero Benvenuti (Avvenire, giovedì 19 settembre 2019)
Nel novembre 2017, durante la prima sessione dell’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, il cui tema era “Il futuro dell’umanità”, il nome di Teilhard de Chardin venne evocato più volte, tanto che lo spirito del gesuita sembrava aleggiasse nell’aula. Forse fu proprio lui a darmi l’ispirazione di proporre ai partecipanti, dopo la pausa caffè del pomeriggio, di scrivere a papa Francesco perché considerasse la possibilità di revocare il Monitum del 1962 che ancora grava sulle sue opere.
In fondo, non solo gli autorevoli membri del Consiglio ritenevano l’intuizione profetica di Teilhard quanto mai attuale e rilevante nel discutere il futuro dell’Uomo e del Cosmo, ma anche gli ultimi pontefici avevano più volte citato il suo pensiero nelle loro Encicliche. La proposta fu accolta con entusiasmo, manifestato da un estemporaneo caloroso applauso, e il giorno seguente la lettera, approvata dall’Assemblea, venne firmata da più di quaranta partecipanti e inviata al Santo Padre attraverso i canali ufficiali.
La risposta, arrivata qualche tempo fa a firma del segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, riporta il parere della Congregazione per la Dottrina della Fede che non ritiene opportuna la rimozione del Monitum in quanto «...non ha perso il suo significato come ammonimento per una valutazione serena di alcune discutibili proposte filosofico-teologiche negli scritti di padre Pierre Teilhard de Chardin».
Nonostante il parere negativo, la risposta precisa il significato del Monitum, aggiornandolo: innanzitutto commenta positivamente gli sforzi del gesuita nel riavvicinare costruttivamente i progressi della scienza con la fede cristiana e conclude esortando gli studiosi «...ad approfondire lo studio delle ambiguità presenti negli scritti dell’autore, con l’auspicio di poter giungere ad ulteriori chiarificazioni».
Quest’ultima importante esortazione - si legge nella risposta - è condivisa da papa Francesco ed è significativo che coincida temporalmente con la pubblicazione della costituzione apostolica Veritatis gaudium, il cui proemio rappresenta un possente invito al rinnovamento degli studi teologici.
Questa coincidenza stimola alcune riflessioni sulla relazione tra la moderna cosmologia (ovvero la filosofia della natura) e la teologia. Non c’è dubbio infatti che, al di là di alcuni aspetti controversi del pensiero di Teilhard, il suo merito principale consista nell’avere intuito il valore rivoluzionario dell’inattesa caratteristica fondamentale del cosmo, ovvero la sua evoluzione unitaria e globale.
Intuizione doppiamente meritoria tenendo conto che all’epoca eravamo appena agli albori della nuova cosmologia, nata nel 1927 per opera di un altro sacerdote cattolico, il belga George Lemaître. Infatti, risolvendo le equazioni della relatività generale di Einstein applicate a tutto l’universo, Lemaître dimostrava teoricamente e verificava sperimentalmente che il cosmo si espandeva ed era quindi «in divenire».
A riprova che il fatto fosse totalmente inatteso, basti ricordare l’istintiva reazione di Einstein che, pur riconoscendo la correttezza della soluzione matematica di Lemaître, gli disse senza mezzi termini: «La sua ipotesi fisica è abominevole»... per poi ricredersi quando gli ulteriori dati osservativi sgombrarono ogni dubbio sulla natura evolutiva dell’universo.
Non c’è da meravigliarsi quindi che anche in campo teologico le conseguenze di questa rivoluzione cosmica fossero a prima vista difficili da accettare, ma oggi non è più così: la storia dell’universo che si dipana per quasi 14 miliardi di anni attraversando fasi diversissime, con accelerazioni e rallentamenti temporali, diversificandosi in una trama di strutture e organismi imprevedibili, fino a raggiungere la coscienza, tutto questo richiede con forza una revisione radicale della filosofia della natura, sinora erede della tradizione greca.
Per usare un termine caro a Thomas Kuhn, siamo di fronte a un cambio di paradigma, simile a quello che precede le grandi rivoluzioni scientifiche, e come in quei casi, l’abbandono di schemi mentali consolidati, come la suddivisione netta tra materia inanimata, vita vegetale, vita animale e infine - essenzialmente diverso - l’essere cosciente, può essere traumatico e richiede coraggio e onestà intellettuale.
Di fronte a questa nuova situazione la teologia non può più rimanere inerte: è già positivo aver recuperato, grazie agli stimoli della nuova cosmologia, il concetto di Creazione che Tommaso d’Aquino aveva lucidamente individuato già nel XIII secolo: «Risulta con chiarezza l’incongruenza di chi ricerca la creazione con argomenti desunti dalla natura dell’universo o dalla sua evoluzione... La creazione infatti non è una mutazione, ma è la dipendenza stessa dell’essere creato in rapporto al principio che lo fa esistere. Essa appartiene quindi alla categoria di relazione» (Summa contra Gentiles, II, 18).
Se per Tommaso la Creatio continua è quindi un atto a-temporale che sostiene in esistenza tutta la realtà, oggi sappiamo che essa possiede anche la caratteristica di essere in divenire, di non essere ancora giunta a compimento: come una sorgente vivace il cosmo evolvente ci ha stupito nel corso di 13,8 miliardi di anni facendo emergere strutture sempre più diversificate e complesse, inattese e imprevedibili, ma tutte parte della stessa unica narrazione.
Cosa ci riserva l’evoluzione/ creazione nel futuro? Ecco la domanda che affascinava Teilhard e alla quale ha cercato con passione di dare una sua personale risposta che non poteva allora, come non può oggi, essere disgiunta dalla rivelazione cristiana che apre la speranza all’avvento della basileia ton ouranon, del Regno dei Cieli.
Domanda ancor più attuale per l’uomo d’oggi che non solo ha conosciuto il carattere evolutivo dell’universo di cui è parte, ma sta apprendendo anche i meccanismi della sua evoluzione e li può controllare e indirizzare. La nostra chiamata in causa come co-creatori è sempre più impellente e richiede a sostegno una adeguata Teologia della Natura.
Quest’ultima potrebbe essere uno dei primi risultati dell’accorato appello della Veritatis gaudio per un rinnovamento degli studi teologici. Purtroppo la seconda parte della Costituzione apostolica, pur scontando lo stile necessariamente più formale di una normativa universitaria, non sembra recepire in pieno lo slancio innovativo del proemio. Si parla indubbiamente della necessità di una maggiore interdisciplinarietà negli studi, ma il riferimento è generico ad «...altre scienze, in primo luogo le scienze umane» e comunque non si riferisce alle Facoltà propriamente teologiche per le quali la massima attenzione, per quanto riguarda l’interdisciplinarietà, rimane ancora concentrata sullo studio della filosofia.
È sintomatico che la Cosmologia e la Filosofia (o Teologia) della Natura non siano mai nominate, come se la prima fosse equiparabile a una qualunque altra disciplina scientifica e la seconda non più materia di studio della Filosofia, ma unicamente della Scienza.
Il cambio di paradigma intuito da Teilhard è oggi così evidente che andrebbe approfondito con determinazione in almeno alcune Facoltà teologiche, che potrebbero specializzare i propri studi verso una nuova Teologia della Natura, anche seguendo i molti spunti contenuti nell’enciclica Laudato si’.
In questa prospettiva sarebbe auspicabile e sicuramente accolta con entusiasmo una stretta collaborazione con le Facoltà scientifiche laiche che si occupano di Cosmologia e di materie correlate, sgombrando così il campo da ogni artificiale separazione tra Scienza e Fede. Se tale ipotesi non si realizzasse, l’ormai ineludibile sviluppo di una nuova Teologia della Natura avverrà comunque, ma si concretizzerà al di fuori delle Università Cattoliche con immaginabili spiacevoli conseguenze che sarebbe opportuno evitare a ogni costo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!)
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
Una laurea postuma per la moglie di Einstein, la scienziata dimenticata
Il Politecnico di Zurigo sta valutando la proposta. Mileva Maric abbandonò gli studi dopo il matrimonio. Ma fu una collaboratrice fondamentale del marito
di GABRIELLA GREISON (la Repubblica, 13 luglio 2019)
QUESTA è una storia bellissima. Una storia che non ha ancora una fine. E proprio come in tutte le storie senza ancora una fine, siamo noi i protagonisti della vicenda, che con le parole, il linguaggio, la diffusione, possiamo cambiare le cose per come sono sempre andate. Perché il linguaggio è potere, e le idee non si possono cancellare.
Per raccontarvi questa storia devo partire da lontano. 1896, Politecnico di Zurigo, Svizzera. Mileva Maric aveva un sogno nella vita: diventare fisica. A quei tempi per le donne non era facile realizzarsi nella scienza, venivano ostacolate in tutte le maniere. Marie Curie doveva autofinanziarsi il lavoro, quando con Pierre faceva gli esperimenti sul radio; Lise Meitner poteva solo siglare i suoi articoli, per non mostrare al mondo che era una donna; Rosalind Franklin doveva entrare dal portone posto sul retro, e non da quello principale, per raggiungere il laboratorio. Mileva però si iscrive al Politecnico, riesce nell’impresa, e inizia il suo percorso come fisica. Inizia anche la storia d’amore con Albert Einstein, che conosce tra i banchi. Studiano insieme, e passano i primi esami.
Mileva ne sa molto più di Einstein, ma non è questo il punto. Mileva resta incinta. Mileva e Albert hanno il primo figlio (illegittimo, una femmina, Lieserl, muore pochi mesi dopo di malattia). Mileva riprende i corsi, si sposa con Einstein, resta incinta di nuovo, e poi di nuovo. Viene bocciata. Si iscrive di nuovo, per riuscire a finire l’ultimo anno, ma alcuni professori e la società sessista del tempo le impediscono di andare avanti. Figuriamoci: una donna, una donna perdippiù con due figli, una donna perdippiù sposata con Einstein (a quei tempi non veniva visto di buon occhio dai professori vecchio stampo, quelli che lui chiamava ’paludati cattedratici’), ma dove voleva andare... Una laurea e, oltraggio maximo, un dottorato non potevano che essere un miraggio. La storia tra Mileva e la scienza finisce così.
Ora arrivo alla notizia di questi giorni. Io sono divulgatrice, con un passato da fisica sperimentale. Mi sono laureata a Milano e ho lavorato due anni all’Ecole Polytechnique, tra le varie cose. Ma non siamo qui per parlare di me. Ma del fatto che la fisica, da sempre, è considerata una disciplina per uomini. La fisica nel secolo XIX era lo svago degli uomini della ricca borghesia. Gli svaghi per le donne erano altri: curare i malati, accudire i figli, tenere in ordine la casa. In particolare, ho scritto due libri su Mileva, e in generale le donne nella scienza: “Einstein e io” (Salani editore) e “Sei donne che hanno cambiato il mondo” (Bollati Boringhieri), da cui ho tratto uno spettacolo teatrale “Einstein & me” (produzione Teatro Brancaccio di Roma) in cui faccio rivivere le vicende di Mileva in prima persona. Quest’anno ho fatto quasi un centinaio di repliche, e l’autunno scorso l’ho portato anche a Zurigo, ospite dell’Istituto Italiano di Cultura. Quando sono tornata a Zurigo (le mie ricerche per scrivere il romanzo e il monologo sono partite proprio da lì) ho fatto una proposta al Politecnico: attribuire una laurea postuma a Mileva. Come segnale che le cose adesso stanno cambiando. Un simbolo, per dare conforto alle nuove generazioni.
La notizia è che proprio qualche giorno fa mi hanno risposto ufficialmente dal Politecnico di Zurigo: mi hanno detto che la proposta è sul tavolo delle discussioni, e entro fine luglio mi arriverà la risposta (parole sottoscritte dal Presidente della facoltà). Oggi il quotidiano Tages-Anzeiger in tedesco ha diffuso e appoggiato l’iniziativa, con una lunga intervista.
La battaglia delle donne a perseguire il coinvolgimento nelle arene della scienza continua, è una battaglia molto dura. Nella storia della scienza (e non solo) alcune donne vengono cancellate. Alcune un po’ alla volta, altre di colpo. Alcune ricompaiono. Alcune ricompaiono grazie ad altre donne che le tirano fuori e le raccontano. Ogni donna che appare, lotta contro le forze che vorrebbero farla sparire. Lotta anche contro le forze che vorrebbero raccontare una storia al posto suo. O depennarla dalla storia. Ma oggi ho una consapevolezza in più, malgrado la fatica, tutto questo non sta andando indietro. E tutto questo sarà di buon auspicio per le nuove generazioni.
Ps: Devo aggiungere una postilla, a questo racconto. L’idea di questa domanda di una laurea postuma a Mileva al Politecnico di Zurigo è nata a una ragazza che frequenta la quarta liceo a Schio. Autunno scorso avevo fatto il monologo nel loro teatro, e alla fine mi ha fermato nel foyer una ragazza che si chiama Arianna, per chiedermi di portare avanti questa proposta. Io l’ho presa sul serio, come sempre vanno presi sul serio i ragazzi. Ed ecco che siamo arrivati a oggi. Con la proposta che deve essere discussa, e che mi daranno la loro risposta appena ne avranno formulata una. Aspettiamo la fine di luglio allora. Con una convinzione in più: non sto camminando da sola. Perché il linguaggio è potere, e le idee non si possono cancellare.
PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA... *
Recensendo un volume dell’epistemologo statunitense Alex Rosenberg, in un articolo dal titolo Questa storia è davvero molto falsa apparso sul supplemento domenicale del “Sole - 24 ore” il 12 maggio scorso, il professor Gilberto Corbellini ne ha preso spunto per asserire, in polemica con un recente appello in difesa dell’insegnamento della storia, l’assenza di scientificità e di utilità sociale della disciplina stessa.
Per sostenere tale tesi ha offerto una descrizione caricaturale del lavoro degli storici, cui attribuisce il tentativo di «entrare» nella «testa» dei personaggi e la pretesa di «sapere perché Giulio Cesare piuttosto che Carlo Magno presero una determinata decisione». Fa quindi dipendere in generale gli studi storici (e con essi anche il diritto, e implicitamente la filosofia e le scienze umane in genere) dalle «narrazioni» e dalla «ricerca delle motivazioni di un comportamento», e li destituisce così di credibilità fino a definirli «falsi».
Questa presa di posizione ignora totalmente la rilevanza che la questione della prova, la critica delle narrazioni e delle testimonianze, la distinzione fra storia e memoria hanno avuto e hanno nella riflessione storiografica. Fin dai tempi di Lorenzo Valla gli storici sono impegnati a mettere a punto quegli «approcci controllabili» che Corbellini li accusa di ignorare, e gli ultimi decenni li hanno visti partecipi di una significativa riflessione epistemologica, in sintonia con le altre scienze sociali, tesa a superare rigide dicotomie metodologiche quali, ad esempio, quantitativo/qualitativo o struttura/soggettività. E d’altro canto ipotizzare, come si propone nell’articolo, l’opportunità di dimenticare eventi estremi quali i genocidi sminuisce il significato dell’elaborazione e dell’interpretazione, spesso conflittuale, della memoria per la costruzione dei valori della nostra cultura.
Come studiosi e studiose di discipline storiche e umanistiche del Dipartimento di scienze umane e sociali, patrimonio culturale del CNR intendiamo esprimere la nostra preoccupazione per queste affermazioni. Si tratta dichiaratamente di una «provocazione» e come tale, se provenisse semplicemente da un autorevole studioso, ci si potrebbe limitare a trarne spunti di riflessione o a lasciarla cadere. Il professor Corbellini, tuttavia, non è un qualsiasi storico della medicina che si rivolge alla propria comunità scientifica e all’opinione pubblica, ma ha la responsabilità di dirigere il nostro Dipartimento, al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali. Le sue parole, che implicano una delegittimazione pubblica del lavoro degli storici e non solo, investono quindi in pieno il senso della presenza stessa delle nostre discipline all’interno del maggiore ente di ricerca italiano.
Se oggi in Italia i saperi storici e umanistici appaiono quanto mai marginalizzati, un intervento come questo, tanto più per il ruolo istituzionale di elevata responsabilità del suo autore, sembra essere più il sintomo di un profondo problema culturale e scientifico che non un contributo al suo superamento. Esso offre quindi l’occasione per sollecitare ai vertici del CNR un pronunciamento in merito al ruolo e alle prospettive delle discipline umanistiche all’interno dell’ente e per aprire in proposito un dibattito all’interno della comunità scientifica e della società.
Grazia Biorci (IRCRES-CNR)
Olga Capirci (ISTC-CNR)
Geri Cerchiai (ISPF-CNR)
Gemma Colesanti (ISEM-CNR)
Gabriella Corona (ISSM-CNR)
Roberto Evangelista (ISPF-CNR)
Amedeo Feniello (ISEM-CNR)
Ida Maria Fusco (ISSM-CNR)
Stefano Gallo (ISSM-CNR)
Patrizia Grifoni (IRPPS-CNR)
Paolo Landri (IRPPS-CNR)
Maurizio Lupo (ISSM-CNR)
Daniela Luzi (IRPPS-CNR)
Fabio Marcelli (ISGI-CNR)
Armando Mascolo (ISPF-CNR)
Marina Montacutelli (ISSM-CNR)
Michele Nani (ISSM-CNR)
Anna Maria Oliva (ISEM-CNR)
Walter Palmieri (ISSM-CNR)
Claudia Pennacchiotti (IRPPS-CNR)
Leonardo Pica Ciamarra (ISPF-CNR)
Mariarosaria Rescigno (ISSM-CNR)
Giovanni Rota (ISPF-CNR)
Alessia Scognamiglio (ISPF-CNR)
Luisa Simonutti (ISPF-CNR)
Luisa Spagnoli (ISEM-CNR)
Alessandro Stile (ISPF-CNR)
Antonio Tintori (IRPPS-CNR)
Pina Totaro (ILIESI-CNR)
Mattia Vitiello (IRPPS-CNR)
* ALFABETA-2: Per chi desiderasse mettersi in contatto con gli autori della lettera, l’email di riferimento è storiascienza.cnr@libero.it.
*
STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein ...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein”, Avvenire, 29.05.2019). Buon lavoro!
Federico La Sala
Astrofisica.
Fotografato un buco nero: «Abbiamo visto l’invisibile»
A rivelare il buco nero è stata la sua ombra, che appare come una sorta di anello rossastro. Quello fotografato è al centro della galassia Virgo A (M87), distante dalla Terra 55 milioni di anni luce
di Piero Benvenuti (Avvenire, mercoledì 10 aprile 2019)
«Abbiamo visto l’invisibile!»: questo il paradossale annuncio fatto ieri alla National Science Foundation dai portavoce di un gruppo internazionale di astronomi che, dopo anni di pazienti e caparbi sforzi, sono riusciti a fotografare un buco nero (con una massa equivalente a 6,5 miliardi di masse solari, che si trova a 55 milioni di anni luce dalla Terra, al centro della galassia Messier 87) o, più correttamente, la sua ombra cosmica. Infatti un buco nero, per sua propria natura, non può essere visto. L’esistenza di questi incredibili oggetti celesti era stata prevista dalla teoria della relatività generale proposta da Albert Einstein proprio cento anni fa, nel 1919, secondo la quale lo spazio non poteva più essere considerato indifferente alla presenza di materia, ma da questa poteva essere curvato. Le conseguenze sembrarono allora assurde e molti scienziati si dimostrarono inizialmente scettici, ma le osservazioni compiute durante l’eclissi totale di sole del 1919 dimostrarono che Einstein aveva ragione: lo spazio vicino al disco del sole oscurato era curvo e la luce delle stelle, passando nei pressi, non seguiva più una linea retta, ma una traiettoria curva.
Il fenomeno è oggi visibile e a alla portata di tutti: molte immagini ottenute con il telescopio spaziale Hubble mostrano come la forma di lontane galassie venga distorta quando la loro luce attraversa una cosiddetta lente gravitazionale, ovvero un ammasso di galassie più vicine che con la loro massa deformano lo spazio circostante.
La conseguenza più estrema della teoria è senza dubbio il buco nero: quando la massa di un oggetto è talmente concentrata da superare un limite chiamato raggio di Schwarschild, lo spazio si curva talmente da non permettere alla materia e persino alla luce di uscire. Non solo, ma tutto ciò che si avvicina temerariamente entro tre volte il raggio citato, spiraleggia cadendo nel buco nero per sempre.
Anche in questo caso il fenomeno sembrava inizialmente solo una ipotesi teorica, non corrispondente ad oggetti reali, ma con il passare degli anni e la disponibilità di strumenti di osservazione sempre più potenti e sofisticati, l’esistenza dei buchi neri venne confermata anche se non direttamente, ma dagli effetti visibili della loro presenza. Ci si accorse allora che esistevano almeno due categorie di buchi neri: quelli con una massa una decina di volte superiore a quella del nostro sole e quelli "super", con una massa equivalente a centinaia di migliaia e forse milioni di soli. Questi ultimi albergano al centro di tutte le galassie, anche della nostra, e la loro presenza è rivelata dal moto vorticoso delle stelle vicine (è il caso della nostra Via Lattea) o da getti di gas ad altissima temperatura che fanno parte del fenomeno di accrescimento del buco nero a spese del gas circostante.
Quindi, se da un lato gli astronomi hanno verificato ormai da molti anni la presenza nel cosmo di questi strani oggetti, nessuno era stato ancora in grado di fotografare da vicino il bordo di un buco nero, cioè il cosiddetto orizzonte oltre il quale il gas e la luce, una volta entrati, non possono più uscire. La difficoltà consisteva nel fatto che il diametro di un buco nero massiccio, di quelli che si trovano al centro delle galassie, è molto piccolo, dell’ordine dell’orbita di Saturno, che visto alla distanza di milioni di anni luce della galassia ospite diventa impercettibile anche al più grande telescopio terrestre.
Come sono quindi riusciti nell’impresa gli astronomi che ieri ne hanno mostrato la fotografia? Con un lavoro durato una decina d’anni hanno consorziato una decina di radiotelescopi terrestri sparsi in tutti i continenti, compresa l’Antartide. Impresa non facile, perché ogni telescopio ha caratteristiche proprie e per collaborare all’impresa doveva essere equipaggiato con strumentazione identica e soprattutto corredato di orologi atomici in grado di sincronizzare con altissima precisione le osservazioni contemporanee di tutti i telescopi. La tecnica, chiamata Large Baseline Interferometry, è ben nota ai radioastronomi, ma mai era stata utilizzata con un numero così grande di telescopi e a distanze così grandi: il risultato è equivalente ad osservare il cielo con un radiotelescopio delle dimensioni della Terra! Proprio a causa dell’estensione geografica dell’esperimento, uno dei problemi da superare, solo apparentemente banale, è stato quello di riuscire ad avere contemporaneamente condizioni metereologiche favorevoli in tutte le zone ospitanti i telescopi.
Un secondo formidabile problema è stato quello di gestire una quantità di dati veramente "astronomica": migliaia di milioni di milioni di byte! Per trasportarli dai singoli osservatori ai centri di calcolo che dovevano analizzarli si è ricorsi ad un metodo che sembrerà un ritorno al passato: una valigia caricata su un aereo... alla fine molto più veloce che trasmetterli attraverso la Rete!
Per comprendere quando sia stato difficile arrivare al risultato mostrato ieri, basti dire che le osservazioni sono state fatte due anni fa: questo il tempo necessario per analizzare i dati e confrontarli con le previsioni teoriche. Alla fine però il risultato è entusiasmante: abbiamo visto il bordo del buco nero, l’ombra scura generata dalla luce che lo sfiora e che ne delinea il contorno. Un’immagine al negativo che conferma in modo inequivocabile le previsioni di Einstein: il miglior modo per celebrare il grande genio e i primi cento anni della sua relatività generale.
Ordinario di Astrofisica all’Università di Padova e Commissario straordinario dell’Agenzia Spaziale Italiana
L’inedito
Da dove veniamo e perché qui? Presto la scienza risponderà
di Stephen Hawking (la Repubblicam 15.3.18)
In quest’ultimo secolo la cosmologia ha fatto dei progressi enormi. La Teoria della Relatività Generale e la scoperta dell’espansione dell’universo hanno mandato in frantumi la vecchia immagine di un universo eterno che esiste da sempre. La Relatività Generale sostiene invece che l’universo e il tempo abbiano avuto inizio con il Big Bang e che il tempo terminerà con dei buchi neri.
La scoperta della Radiazione Cosmica di Fondo e le osservazioni dei buchi neri confermano queste conclusioni. Il nostro quadro dell’universo e della realtà è quindi profondamente cambiato.
Grazie alla Teoria della Relatività Generale sapevamo che l’universo doveva aver attraversato un periodo di alta curvatura nel passato, ma non potevamo dire come fosse emerso dal Big Bang.
La Relatività Generale da sola non può quindi rispondere alla domanda centrale della cosmologia: perché l’universo è così come lo vediamo? Tuttavia, combinando la Relatività Generale con la Teoria Quantistica si potrebbe giungere a una spiegazione delle origini dell’universo.
Inizialmente l’universo si sarebbe espanso a una velocità sempre crescente. In questo periodo, detto inflazionario, l’unione delle due teorie ci dice che dovrebbero svilupparsi piccole fluttuazioni in grado di dar luogo a galassie, stelle e altre strutture presenti nell’universo. Questa ipotesi è confermata dalle osservazioni di piccole non-uniformità nella Radiazione Cosmica di Fondo che hanno esattamente le proprietà previste.
Sembrerebbe quindi che siamo sulla strada giusta per comprendere l’origine dell’universo, anche se bisognerà ancora lavorare molto.
Nonostante i grandi successi, non tutto è stato ancora risolto.
Non siamo ancora giunti a una buona comprensione teorica del perché l’espansione dell’universo abbia ripreso ad accelerare, dopo un lungo periodo di rallentamento.
Finché non capiremo questo fenomeno, non potremo sapere con certezza quale sarà il futuro dell’universo.
Continuerà a espandersi per sempre?
L’inflazione è una legge di natura? Oppure l’universo finirà per collassare? Nuovi dati basati sull’osservazione e progressi teorici si susseguono rapidamente. La cosmologia è una disciplina molto attiva ed entusiasmante.
Perché siamo qui? Da dove veniamo? La risposta a queste domande è ormai vicina e io sono convinto che arriverà dalla scienza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. ---- KANT, KANT-LAPLACE, E STEPHEN HAWKING. "DIO E LO SCIENZIATO": CHE STRANO!!! Marco Cattaneo "in "La formula della creazione" (ricorda Laplace ma...) ’dimentica’ Kant!
L’origine della vita
di Stephen Hawking (La Stampa, 15.03.2018)
Secondo il popolo Boshongo dell’Africa Centrale, all’inizio c’era solo oscurità, acqua e il grande dio Bumba. Un giorno Bumba, afflitto da un mal di pancia, ha vomitato il sole. Il sole ha prosciugato l’acqua producendo la terra. Ancora dolente, Bumba ha vomitato la luna, le stelle e poi alcuni animali. Il leopardo, il coccodrillo, la tartaruga, e finalmente l’uomo. Questo mito della creazione, come molti altri, tenta di rispondere alla domanda che ci poniamo tutti: perché siamo qui? Da dove veniamo?...
Supponiamo che l’inizio dell’Universo sia come il Polo Sud sulla Terra, con i gradi di latitudine che giocano il ruolo del tempo. L’Universo inizierebbe in un punto al Polo Sud. Mentre ci si muove verso Nord, i cerchi di latitudine costante che rappresentano la dimensione dell’Universo si espandono. Chiedersi cosa accade prima dell’inizio dell’Universo diventa una questione senza senso, poiché non c’è niente a Sud del Polo Sud.
Il tempo, misurato in gradi di latitudine, dovrebbe iniziare al Polo Sud, ma il Polo Sud è simile ad ogni altro punto. Almeno così mi è stato detto. Sono stato in Antartide ma non al Polo Sud. Le stesse leggi della natura avvengono al Polo Sud come in altri posti. Questo rimuoverebbe la vecchia obiezione che l’Universo abbia un inizio che sarebbe il posto in cui le leggi normali si interrompono. L’inizio dell’universo sarebbe invece governato dalle leggi della scienza.
Lo schema che Jim Hurtle e io abbiamo sviluppato, della creazione spontanea quantistica dell’Universo, è simile alla formazione di bolle di vapore nell’acqua bollente. Le storie più probabili dell’Universo sono come le superfici delle bolle. Parecchie bollicine apparirebbero e scomparirebbero, come mini-Universi che si espandono e collassano immediatamente, mentre sono ancora microscopici...
Alcune bollicine crescerebbero fino ad una grandezza tale da non collassare. Esse continuerebbero ad espandersi ad una velocità sempre maggiore e formerebbero le bolle che vediamo, che corrispondono agli Universi in espansione perenne. Questa è chiamata inflazione, come il meccanismo dei prezzi, che vanno sempre su. ...
Noi siamo il prodotto di fluttuazioni casuali quantistiche dell’Universo primordiale. Davvero Dio gioca a dadi. Abbiamo fatto un tremendo progresso in cosmologia. Quando ho iniziato le mie ricerche, la cosmologia era vista come una pseudoscienza in cui speculazioni libere non erano verificate da nessun osservazione. La situazione ha iniziato a cambiare in fretta, sia perché la nuova tecnologia ha permesso le osservazioni sia per l’avanzamento delle teorie... Ma non tutto è stato risolto. Non abbiamo ancora una buona comprensione teorica del fatto che l’espansione dell’Universo stia accelerando di nuovo, dopo un lungo periodo di rallentamento. Continuerà ad espandersi per sempre? Oppure collasserà di nuovo?
La cosmologia è un argomento molto eccitante. Siamo vicini a rispondere alle antiche domande: perché siamo qui e da dove proveniamo?
Stephen Hawking
Il signore delle stelle sulle orme visionarie di Einstein
Scompare all’età di 76, l’astrofisico che ha dedicato le sue ricerche ai buchi neri e agli effetti della gravità sullo spazio e sul tempo. Autoironico, colpito dalla sla all’età di 21 anni, visionario. Nato lo stesso giorno di Galileo e morto in quello del padre della relatività, le sue teorie sono state spinte al limite
di Andrea Capocci (il manifesto, 15.03.2018)
La morte del fisico Stephen W. Hawking ha avuto una risonanza mediatica straordinaria. La sua eccezionale vicenda umana ha raggiunto un pubblico molto più ampio della comunità accademica. Pochi, tuttavia, conoscono il contributo scientifico dello scienziato inglese.
Hawking, nato il giorno del compleanno di Galileo e morto in coincidenza di quello di Einstein, ha compiuto ricerche di eccezionale valore nel loro stesso settore: lo studio degli effetti della gravità sullo spazio e sul tempo. Mentre per Galileo il tempo era assoluto e indipendente dalle forze, secondo la teoria di Einstein la gravità deforma sia lo spazio che il tempo.
LE IMPLICAZIONI, osservabili solo su scala astronomica o negli acceleratori di particelle, sono notevoli: per esempio, la gravità delle stelle devia la luce dalla traiettoria rettilinea. Hawking si è dedicato allo studio di condizioni ancora più estreme, in cui le teorie di Einstein sono spinte al limite. Cosa succede, infatti, quando una stella collassa su se stessa e, secondo le equazioni di Einstein, curva lo spazio-tempo al punto da risucchiare anche la luce? In queste condizioni, dette «singolarità», la teoria della relatività potrebbe non bastare. Fino agli anni ‘60 sembrava solo una possibilità teorica. Per fortuna di Hawking, tutto è cambiato con la scoperta delle stelle di neutroni ad altissima densità e, più recentemente, degli stessi buchi neri, rivelati indirettamente dall’attrazione esercitata sulle stelle circostanti. Confrontando le osservazioni astrofisiche con le previsioni teoriche, si poteva verificare la teoria della relatività di Einstein e, eventualmente, superarla.
Hawking, poco più che ventenne, è stato uno dei pionieri di questo campo di ricerca e oggi dobbiamo a lui molte previsioni sui buchi neri. Per esempio, nel 1974 Hawking teorizzò che sul limite esterno di un buco nero dovesse emettere una radiazione di origine quantistica che oggi prende il suo nome. Infatti, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg nemmeno nel vuoto l’energia vale esattamente zero, e piccole quantità di energia nascono e muoiono continuamente. Perciò, il vuoto cosmico in realtà è pieno di coppie di particelle dalla vita brevissima. Secondo Hawking, il buco nero dovrebbe risucchiare una particella di ogni coppia e l’altra potrebbe essere rilevata dagli astronomi, rendendo il buco nero un po’ meno «nero». Secondo i calcoli, la radiazione di Hawking è troppo debole per essere misurata. Se però nel Big Bang furono creati molti buchi neri di piccole dimensioni, come ipotizzava lui, la somma delle radiazioni potrebbe aver generato un segnale osservabile. Purtroppo, i dati non hanno confermato questa ipotesi.
NEGLI ANNI ‘70, Hawking riuscì a stimare altre caratteristiche fisiche dei buchi neri, come la temperatura e l’entropia. Sulle sue teorie ha spesso cambiato idea, stimolato dai colleghi con cui scommetteva volentieri. La scoperta del bosone di Higgs gli costò cento dollari, ma lì giocava in trasferta perché non era il suo settore. Anche sui buchi neri si ricredette. Inizialmente, la sua teoria generava paradossi inconciliabili con la meccanica quantistica. Un buco nero avrebbe cancellato ogni informazione su un oggetto risucchiato mentre, secondo la teoria quantistica, l’informazione non si crea né si distrugge - come l’energia. Nel 2004, lo stesso Hawking ammise di aver torto: quella volta aveva scommesso un’enciclopedia, «da cui ogni informazione si può sempre recuperare». Hawking sapeva fare lo spiritoso e amava i paradossi. Per dimostrare che i viaggi nel tempo non sono possibili, nel 2009 organizzò una grande festa a Cambridge, a cui erano tutti invitati. Ma spedì gli inviti solo all’indomani della festa, in modo che i partecipanti dovessero viaggiare all’indietro nel tempo. «Ho aspettato a lungo, ma non è venuto nessuno». Aveva ragione lui.
Grazie a lui, oggi i buchi neri e il Big Bang sono oggetti meno misteriosi e rappresentano dei laboratori naturali per mettere alla prova le nuove teorie. Da queste ricerche potrebbe nascere una teoria quantistica della gravità a cui lo stesso Hawking si è dedicato negli ultimi anni della carriera. Le sue ultime pubblicazioni scientifiche in materia sono datate 2017. È un’età in cui molti scienziati in ottima salute si godono i nipotini. Hawking invece non ha mai smesso di assistere allievi, tenere conferenze e girare il mondo, malgrado le limitazioni fisiche. Per la sua fama, è diventato un commentatore molto (troppo?) ascoltato sulle tematiche più diverse.
L’ULTIMA SUA PASSIONE riguardava il futuro dell’umanità, assediata da mutamento climatico, robotizzazione e sovrappopolazione. La sua fiducia nella tecnologia talvolta sfociava nel tecno-utopismo, come quando promuoveva la colonizzazione di nuovi pianeti per salvare il genere Homo o decretava la fine della filosofia superata dalle scoperte della fisica. Però invitava alla cautela nei confronti dell’intelligenza artificiale e richiamava alla necessità politica di coniugare innovazione e progresso sociale, difendendo i diritti sociali a sanità e istruzione.
Nonostante gli onori, o forse proprio a causa loro, la figura di Hawking ha generato anche una schiera di detrattori. Qualcuno, nei corridoi dei laboratori, ritiene la sua fama sproporzionata rispetto al contributo scientifico. Il suo nome non compare quasi mai nelle liste dei «grandi» della fisica, soprattutto se a stilarle sono gli scienziati. D’altronde, le sue ricerche hanno generato congetture brillantissime e matematicamente complesse, ma ancora prive di conferme sperimentali. Per questo motivo Hawking non è mai andato vicino a vincere un premio Nobel. -Nemmeno Einstein fu premiato per la teoria della relatività generale, che aveva il difetto di essere «solo una teoria». Ma la scoperta delle onde gravitazionali, che ha vinto il Nobel cento anni dopo, gli ha reso infine giustizia. Per giudicare Hawking, dunque, risentiamoci un po’ più in là.
É morto Stephen Hawking, esattamente 130 anni dopo la nascita di Einstein
L’astrofisico di fama mondiale si è spento all’età di 76 anni nella sua abitazione.
di Redazione ANSA *
Il mondo della scienza è a lutto. É morto Stephen Hawking, uno dei cosmologi più celebri degli ultimi decenni per le sue teorie sui buchi neri e l’origine dell’universo, e uno dei ricercatori che più hanno fatto discutere per le affermazioni al confine tra cosmologia e religione, come quella secondo cui si può spiegare la nascita dell’universo senza l’intervento di Dio. E proprio sulla sua lapide - ha detto all’ANSA Remo Ruffini, direttore del Centro Internazionale per la Rete di Astrofisica Relativistica (IcraNet) e presidente del Centro Internazionale di Astrofisica Relativistica (Icra) - avrebbe voluto la formula di massa, ossia la formula matematica che misura l’energia emessa dai buchi neri al momento della loro nascita, una sorta di vagito di quei giganti cosmici. Era accaduto, ha proseguito Riffini che che ha collaborato a lungo con Hawking e che ha elaborato con lui e con il matematico Roy Kerr quella formula, anche "dopo un seminario che avevo tenuto a Cambridge ed ero stato invitato a cena a casa di Hawking insieme a Kerr".
A quel desiderio di Hawking, Ruffini e Kerr avevano risposto, scherzando, che quella formula apparteneva a tutti e tre. Ruffini ricorda inoltre i complimenti che lui e Kerr fecero a Hawking per la sua casa, ai quali Hawking rispose che l’aveva costruita lui, una battuta che dimostra la grande ironia e leggerezza con cui ha sempre affrontato la vita. "Con la sua ironia e la sua serenità - ha detto ancora l’astrofisico italiano - Hawking per me è stato un esempio di vita unico e sorprendente". Uno dei ricordi più vivi è "il sorriso che aveva negli occhi e il grande affetto tra noi, che ha permeato la mia vita in tutti questi anni".
Hawking morto a 130 anni dalla nascita di Einstein
Un’altra curiosità che riguarda il più celebre degli astrofisici contemporanei è che è morto esattamente a 130 anni dalla nascita di Albert Einstein. Il padre della teoria della relatività era infatti nato il 14 marzo 1879. Non è la prima coincidenza del genere nella vita di Hawking, che era nato a Oxford l’8 gennaio 1942: una data che, come egli stesso teneva moltissimo a precisare, segnava 300 anni esatti dalla morte di un altro gigante dell’astronomia, Galileo Galilei, che si era spento ad Arcetri l’8 gennaio 1642.
Se ne è andato all’età di 76 anni, dopo avere sfidato fin dall’adolescenza la forma di atrofia muscolare progressiva che progressivamente lo aveva costretto alla paralisi. Una sedia a rotelle progettata su misura e un computer con sintetizzatore vocale sono i mezzi che gli hanno permesso di comunicare con il mondo. Lo scienziato vrebbe voluto sulla sua lapide la formula di massa, ossia la formula matematica che misura l’energia emessa dai buchi neri al momento della loro nascita, una sorta di vagito di quei giganti cosmici, secondo quanto riferisce all’ANSA Remo Ruffini, direttore del Centro Internazionale per la Rete di Astrofisica Relativistica (IcraNet) e presidente del Centro Internazionale di Astrofisica Relativistica (Icra), che ha collaborato a lungo con Hawking e che ha elaborato con lui e con il matematico Roy Kerr quella formula.
Con la stessa determinazione ha sfidato la fisica del suo tempo e ha dato alla cosmologia un’impronta decisiva: grazie a lui i buchi neri hanno smesso di essere un’ipotesi fantasiosa e una delle sue convinzioni più ferme vedeva nella colonizzazione dello spazio la speranza di sopravvivenza dell’umanità.
Nato a Oxford l’8 gennaio 1942 (esattamente 300 anni dopo la morte di Galileo Galilei, come ha sempre tenuto a precisare) Hawking ha sempre descritto se stesso come un bambino disordinato e svogliato, tanto che ha imparato a leggere solo all’età di 8 anni. Le cose hanno preso una piega diversa quando gli à stata diagnosticata la malattia. In quel momento "ogni cosa è cambiata: quando hai di fronte l’eventualità di una morte precoce, realizzi tutte le cose che vorresti fare e che la vita deve essere vissuta a pieno’’, diceva.
L’universo aveva da sempre esercitato su di lui un enorme fascino e nel 1963 questa passione lo aveva portato all’università di Cambridge. Gli anni tra il 1965 e il 1975 sono stati scientificamente tra i più produttivi della sua vita: è allora che ha scritto il suo libro più famoso: "Dal Big Bang ai buchi neri, breve storia del tempo". Sempre a Cambridge, dal 1976 al 30 settembre 2009 ha occupato la cattedra che era stata di Isaac Newton.
Le sue ricerche sui buchi neri hanno permesso di confermare la teoria del Big Bang, l’esplosione dalla quale è nato l’universo. Dagli anni ’70 ha cominciato a lavorare sulla possibilità di integrare le due grandi teorie della fisica contemporanea: la teoria della relatività di Einstein e la meccanica quantistica. Le sognava riunite nella "teoria del tutto", che nel 2014 ha ispirato il film di James Marsh dedicato a Hawking.
Una delle teorie più recenti che il fisico e cosmologo britannico aveva formulato con il fisico Thomas Hertog, del Cern di Ginevra, prevede che l’universo non abbia avuto un inizio e una storia unici, ma una moltitudine di inizi e di storie diversi. La maggior parte di questi mondi alternativi sarebbe però scomparsa molto precocemente dopo il Big Bang, lasciando spazio all’universo che conosciamo.
D’Amico (Inaf), le ricerche hanno gettato una nuova luce sull’universo - "Quello che mi ha sempre colpito di più è la caratteristica formidabile di lui come uomo, la dimostrazione vivente che il pensiero trascende la materia". Così commenta per l’Ansa Nichi D’Amico, il presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), nel giorno della scomparsa di Stephen Hawking. "È diventato uno dei principali studiosi di cosmologia del mondo, nonostante le sue difficili condizioni fisiche", aggiunge D’Amico. Uno dei suoi contributi scientifici più importanti è stato senza dubbio il grande lavoro sui buchi neri e sulla radiazione che prende il suo nome, la radiazione di Hawking, che lo ha reso celebre. "Le sue indagini e le sue eccezionali doti intellettuali ci hanno permesso di gettare una nuova luce sull’universo", dichiara il presidente dell’Inaf. "È anche grazie a lui e alla sua incessante attività di divulgazione al pubblico se oggi concetti come ’buco nero’ o ’spaziotempo’ ci sono più familiari". D’Amico aggiunge che un altro aspetto interessante è che spesso nei lavori di Stephen Hawking si affronta il tema di un creatore o di un atto creativo per l’origine dell’universo. Hawking si è sempre dichiarato agnostico e ha sempre sostenuto che non è necessario un creatore per spiegare la nascita del cosmo, "ma si poneva ugualmente il problema, e questo - conclude - è interessante".
Theresa May rende omaggio a una mente straordinaria "Il professor Stephen Hawking è stata una mente brillante e straordinaria, uno dei grandi scienziati della sua generazione". Theresa May, primo ministro britannico, ricorda con questa parole via Twitter il celebre astrofisico di Cambridge, gloria dell’accademia del Regno Unito, scomparso a 76 anni. "Il suo coraggio, il suo senso dell’umorismo e la determinazione di ottenere il massimo dalla vita sono stati - prosegue May - un’ispirazione. La sua eredità non sarà dimenticata".
* ANSA, 14 marzo 2018 (ripresa parziale)
Jung contro Einstein
Meglio il Dio che gioca a dadi
Affascinato dalle coincidenze, lo psicanalista contestava il principio di causalità e alla Teoria della relatività preferiva la Meccanica quantistica di Pauli. Una lettera del 1954
di Fabio Sindici (La Stampa, 18.02.2018)
«Non so se è vero che il signor Einstein abbia detto che non può credere che Dio giocasse ai dadi quando ha creato il mondo, ma se è così, non ha realizzato che l’alternativa è che Dio ha creato una macchina». Regala una battuta carica di provocazioni elettriche Carl Gustav Jung in una lettera inedita del marzo 1954 (in vendita ora presso la libreria antiquaria L’Autographe di Ginevra), indirizzata al giornalista scientifico Henri Corbière. Il patriarca della psicologia del profondo si schermisce nella riga successiva, assicurando che questa sua considerazione non è poi particolarmente importante. Ma certo non lo pensava.
La ricerca di un passaggio segreto tra le rivoluzionarie prospettive nel campo della fisica teorica e l’indagine nei labirinti della psiche era una sua speciale ossessione da più di quarant’anni. Jung scrive in risposta ad alcune domande di Corbière riguardo alla sua opinione sulla Teoria della relatività di Einstein. Il suo corrispondente era autore di un omaggio al grande fisico e aveva lavorato a un saggio sull’avvenire della scienza con un approccio trans-disciplinare, cercando punti di contatto tra le diverse regioni del sapere e con questionari inviati a celebrità «sapienti» e premi Nobel.
L’idea dello spazio curvo
Jung era sempre stato attratto dalle porte che si schiudono tra filosofia e psicologia, arte e scienza. Aveva amato Nietzsche e Schopenhauer. Aveva conosciuto Albert Einstein in una serie di cene a Zurigo, tra il 1909 e il 1912, in cui lo scienziato aveva illustrato i fondamenti della relatività corredati da formule matematiche e una nuova idea sul rapporto tra spazio e tempo. È proprio questo a ispirare Jung: «Ho avuto la grande opportunità di discutere con lui [Einstein, ndr] le origini della sua Teoria della relatività. Dal momento che non sono né un fisico né un matematico, non ho potuto seguire l’evoluzione della parte matematica che mi sembra troppo difficile da capire» scrive nella missiva a Corbière.
Lo intriga però l’idea dello spazio curvo, del tempo come dimensione, di un nesso di non causalità tra due avvenimenti apparentemente slegati. «Il sincronismo è il pregiudizio dell’Oriente. La causalità è il moderno pregiudizio dell’Occidente» dichiarò a un seminario sull’interpretazione dei sogni nel 1928. Due anni dopo torna sul punto in un discorso di commemorazione in onore di Richard Wilhelm, lo studioso di filosofia cinese e traduttore dello I Ching, il Libro dei Mutamenti, usato fin dall’antichità come sistema di divinazione: «La scienza dello I Ching è basata non sul principio di causalità ma su uno che - ancora senza nome in quanto non ci è familiare - ho provato a chiamare principio sincronistico».
Jung ammetterà in seguito i suoi debiti con Einstein che lo avevano spinto verso un altro fisico brillante: Wolfgang Pauli, uno dei principali teorici della Teoria dei quanti, premio Nobel per la scoperta del principio di esclusione, che spiega la stabilità degli atomi e della materia. Con Pauli il rapporto è però molto più profondo, terapeutico all’inizio e poi di collaborazione, un ping pong tra inconscio umano e microcosmo subatomico. Sono proprio i sogni raccontati da Pauli ad affinare il concetto di sincronicità. Ora i seminari tenuti da Jung negli Anni 30 del secolo scorso sull’individuazione di quei sogni saranno riuniti in un libro dalla Philemon Foundation, che cura la pubblicazione della sterminata riserva di inediti junghiani.
Apparentemente lontane, le due grandi rivoluzioni del ’900, l’analisi psicologica e la fisica teorica, incrociano più volte i loro sentieri. Einstein e Sigmund Freud nel 1933 scambiano pensieri sulle ragioni profonde della guerra (Perché la guerra?, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri), corrispondenza aperta sotto l’egida della Società delle Nazioni. Più fertile e scivoloso il rapporto tra Jung e Pauli, che lo stesso Einstein aveva nominato per il Nobel. La Meccanica quantistica, basata sulla probabilità, si adatta meglio delle teorie di Einstein al principio di sincronicità acausale che Jung stava elaborando. E la battuta nella lettera a Corbière lo dimostra: la metafora di Dio che non gioca ai dadi con l’universo era stata usata da Einstein per sfiduciare la fisica dei quanti.
Jung invece preferisce i dadi alla macchina. Per illustrare il concetto di sincronicità racconta l’episodio di una paziente che, durante una seduta, gli descrive un monile a forma di scarabeo egizio che le era stato donato in sogno; nello stesso momento Jung sente picchiettare gentilmente alla finestra, quando la apre entra ronzando nella stanza un insetto dalle ali verde smeraldo. Un’immagine che ricorda il corvo dell’omonimo poemetto di Edgar Poe. Lo psicologo degli archetipi avverte il pericolo di sconfinamenti in zone esoteriche e poco scientifiche, ma la ricerca di un graal che leghi il mondo fisico a quello psichico lo attrae irresistibilmente.
«La lezione di piano»
Mentre invia a Jung sogni pieni di mandala e diagrammi - e si correggono a vicenda le bozze dei loro scritti - Pauli esprime i suoi dubbi ai colleghi: «Il pericolo di questa situazione è che Jung pubblichi dei nonsense nel campo della fisica citandomi a suo sostegno» scrive all’assistente Marcus Fierz. Però continua a studiare fenomeni paranormali e discute le sue visioni oniriche con la discepola di Jung Marie Louise von Franz, con la quale è romanticamente coinvolto e che più tardi proverà a unire psiche e materia nella teoria dell’Unus Mundus.
In uno di questi sogni, noto come La lezione di piano, Pauli si trova insieme a uno scienziato, a un uomo identificato come il maestro e a una donna cinese che lo invita ad abbandonarsi alla musica e danzare. Pauli non ci riesce. Il sogno fa pensare a una prosa poetica delle Illuminazioni di Rimbaud che forse Jung conosceva: il titolo è Favola e culmina nell’incontro di un principe crudele e di un genio che insieme si fondono e muoiono. Di sicuro avrebbe amato la frase finale: «Al nostro desiderio manca la musica sapiente».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Mappare l’universo per resistere al nulla
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 27.11.2017)
Come nasce una nuova teoria scientifica? In che modo si sviluppa e si diffonde fino a essere accolta dalla comunità scientifica anche quando scardina certezze e visioni consolidate del mondo? Sono questi gli interrogativi a cui vuole rispondere l’astrofisica e cosmologa Priyamvada Natarajan, nel saggio L’esplorazione dell’universo (Bollati Boringhieri). Lo fa, avverte, partendo da due osservazioni: la prima è che la più antica tra le discipline scientifiche, la cosmologia, dà forma alla nostra idea del mondo e del posto che occupiamo nell’Universo; la seconda è che, come ogni attività umana, la scienza «non è priva di soggettività», pertanto è soggetta a errori, pregiudizi, ambizioni personali, amicizie e inimicizie.
Richard Feynman, Nobel per la fisica nel 1965, affermava che ogni grande scoperta scientifica «comporta sempre una sorpresa filosofica» e per Priyamvada Natarajan questo è vero soprattutto per la cosmologia e le sue scoperte. In poche migliaia di anni, siamo passati dal credere che il mondo poggi su una tartaruga che a sua volta poggia su un’altra tartaruga, e così via all’infinito, a un progetto di mappatura dell’Universo, cui partecipa Priyamvada Natarajan insieme a scienziati di tutto il mondo, allo scopo di «mappare la materia oscura con un livello di accuratezza mai raggiunto prima». Come ci siamo arrivati?
Il prezzo da pagare ogni qualvolta la scienza cambia la mappa del cosmo e, di conseguenza, la collocazione e il senso della presenza dell’essere umano nel mondo, è molto alto in termini filosofici e psicologici.
Riferendosi al carattere dell’Età Moderna, ad esempio, Sigmund Freud riteneva che fosse il risultato di tre ferite narcisistiche. La prima, è stata la perdita della centralità e immobilità della Terra, intuita da Copernico e confermata da Galileo, dopo quattordici secoli in cui aveva dominato la visione tolemaica con la Terra immobile al centro dell’Universo; fu un tale rivolgimento che da allora l’espressione rivoluzione copernicana definisce, anche nel linguaggio comune, un cambiamento irreversibile e radicale di un sistema consolidato e immutabile. Della seconda ferita, dice Freud, è responsabile Charles Darwin, il quale ci ha spodestati dal vertice della creazione scoprendo che siamo solo una specie tra molte altre (benché, va detto, veramente molto in gamba). Della terza ferita Freud, con autostima invidiabile e non infondata, si riteneva personalmente responsabile poiché la sua scoperta delle pulsioni e del loro ruolo sulla mente ce ne aveva sottratto il pieno controllo.
Seguendo il lungo cammino di alcune idee rivoluzionarie dal primo emergere per la straordinaria immaginazione di un singolo scienziato, al riconoscimento generale, Priyamvada Natarajan racconta una storia in cui tra intuizioni geniali, lavoro collettivo, persecuzioni, entusiasmi, gelosie e trionfi, oltre alle tappe del progresso scientifico emergono gli effetti della dimensione emotiva, psicologica, personale e sociale sulla «pura ricerca intellettuale della conoscenza».
I grandi cambiamenti di paradigma e i conseguenti quesiti esistenziali, sono riferiti dall’autrice naturalmente con grande competenza scientifica - Natarajan, tra l’altro, insegna astronomia e fisica alla Yale University ed è esperta sul tema della formazione dei buchi neri supermassicci - ma anche con un’evidente sensibilità per gli aspetti umani delle diverse vicende. Sappiamo, così, quanto sia stato, e sia sempre difficile per chi ha un’idea nuova o compie una nuova scoperta ammetterla, quando comporta un cambiamento radicale di una visione consolidata. E come il peso delle passioni umane, talvolta nobili talaltra meschine, sia stato, e sia fondamentale nel facilitare o ostacolare il riconoscimento di nuove teorie o osservazioni.
Ad esempio, Edwin Hubble fu il primo a scoprire che le galassie si allontanano a velocità crescente più sono lontane ma faticò molto ad accettare l’idea, conseguente dalla sua stessa scoperta, di un Universo in espansione. L’idea, in verità, riferisce Natarajan, fu esposta molto tempo prima e da un personaggio insospettabile, lo scrittore Edgar Allan Poe, in una conferenza nel 1848, che non riscosse alcun successo, intitolata Sulla cosmogonia dell’universo, in cui descriveva la sua personale convinzione che l’Universo sia in costante movimento ed evoluzione. Anche Albert Einstein, d’altra parte, lottò parecchio con se stesso prima di rassegnarsi all’idea che il cosmo non fosse immutabile ed eterno.
A volte, invece, un’idea fatica a trovare consenso semplicemente per l’invidia o la disonestà intellettuale di qualche figura eminente e autorevole del momento. Come fu il caso della teoria sui buchi neri del fisico indiano Chandra, osteggiata in modo scorretto dal famoso Arthur Eddington, lo stesso che aveva dato prova di grande rettitudine e intelligenza comprovando sperimentalmente per la prima volta la teoria della relatività di Einstein. Eddington sostenne Einstein mentre era in corso la prima guerra mondiale, cosa che gli attirò critiche e attacchi molto duri in Inghilterra, il che dimostra la sua integrità scientifica e il suo coraggio (questa storia è raccontata in un bel film, Il mio amico Einstein, in cui emergono molto bene gli aspetti scientifici, politici e psicologici dell’intera vicenda). Ciò nonostante, lo stesso Eddington si comportò in modo meschino nei confronti di un altro scienziato, appunto l’astrofisico indiano Chandra, il quale nel 1930 aveva risvegliato con il suo lavoro l’interesse per i buchi neri.
Detto per inciso - e il saggio di Natarajan è molto ricco di informazioni di questo genere che contribuiscono a renderne piacevole la lettura - l’espressione buco nero deriva dal nome di una cella minuscola famosa a Calcutta chiamata appunto black hole, in cui in una notte del 1756 morirono per asfissia 123 prigionieri occidentali. Tornando a Chandra, la sua ipotesi «creava un terribile conflitto d’interessi per Eddington, che aveva sviluppato una propria teoria», per questo lo boicottò pur essendo stato suo esaminatore durante il dottorato a Cambridge e pur avendolo incoraggiato a proseguire il suo lavoro.
Eddington contestò duramente e inaspettatamente il collega più giovane in pubblico, durante il convegno annuale della Royal Astronomical Society nel 1935, senza avere mai prima espresso personalmente a Chandra le sue obiezioni e soprattutto senza dargli possibilità di replica. Per Chandra fu un vero colpo, ma nel 1942 la sua tesi fu sostenuta pubblicamente da alcuni tra i più importanti scienziati del tempo, tra i quali Paul Dirac, considerato il più grande genio del Novecento dopo Einstein (si deve a lui l’equazione che ha formalizzato la struttura della meccanica quantistica e previsto l’esistenza dell’antimateria). Nel 1983 Chandra ha vinto il premio Nobel per la fisica. E giustizia è stata fatta.
Mappare l’Universo, adesso che ne conosciamo l’immensità e l’espansione continua, può sembrarci come il tentativo di vuotare l’oceano con un bicchiere. Eppure non possiamo farne a meno, lo abbiamo sempre fatto. Infatti, anche se noi associamo l’idea di mappa ai viaggi per mare e per terra, in realtà, ricorda Natarajan, le prime mappe mai disegnate dall’uomo sono mappe del cielo. E pure oggi scrutiamo il cosmo, percorrendolo con gli occhi di immensi telescopi, come gli esploratori antichi scrutavano l’orizzonte e lo spazio attorno per decifrarlo, per non perdersi.
La nostra condizione è la stessa, il nostro oceano è il cosmo, la nostra nave la terra. «Per loro natura i progressi della cosmologia ci lasciano senza ormeggi», afferma Priyamvada Natarajan. Ed è così che siamo, oggi ancor più che nel passato: disancorati, senza un centro fuori di noi e forse neppure più dentro di noi - ma questo non è colpa dell’Universo. Ad ogni modo, conclude, «Negli ultimi cento anni la nostra visione del mondo è cambiata drasticamente, riscrivendo il senso stesso di chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo».
Oggi sappiamo di vivere in un Universo meraviglioso, ma non eterno. È nato in un certo momento e in un altro che non sappiamo, e in un modo che non sappiamo ma siamo in grado di ipotizzare, finirà o diventerà qualcosa di totalmente diverso. Un Universo, ha affermato Carlo Tonelli, fisico del Cern e grande divulgatore scientifico, fragile e precario, come ha rivelato la scoperta del bosone di Higgs - la particella che tiene insieme la materia ma di cui nulla ci può garantire che continuerà a farlo -, che condivide in qualche modo la nostra stessa situazione di fragilità. Col che, negli ultimi tempi, è stato scardinato ogni appiglio, fino all’ultimo, fino all’idea che almeno l’Universo potesse costituire una certezza, qualcosa che si poteva immaginare sarebbe durato per sempre. Insomma, un posto in cui la vita avrebbe sempre avuto una possibilità.
La situazione in cui ci ha messi la conoscenza è duplice e ambigua, eccitante, ma disorienta e confonde, perché ci insegna che siamo allo stesso tempo unici, grandiosi e insignificanti. Siamo riusciti a scoprire le dinamiche che governano il mondo, persino le più contro-intuitive, dall’infinitamente piccolo all’incommensurabilmente grande, e abbiamo capito di essere un nulla rispetto all’immensità che ci circonda. Siamo costretti a rimettere in discussione concetti sui quali per migliaia di anni abbiamo costruito civiltà ed elaborato filosofie e religioni: il tempo, l’eternità, la distinzione tra spirito e materia...
Dobbiamo ripensare molte cose per trovare nuove risposte a domande antiche e ineludibili: chi siamo, dove andiamo e, soprattutto, perché. Per la prima volta nella storia umana sappiamo con certezza che, a prescindere da noi, l’esistenza della Terra, dell’intero sistema solare e dell’Universo, forse l’esistenza in se stessa finirà, e tutto questo, anche se non ce ne accorgiamo, segna lo spirito del nostro tempo e noi stessi.
La morte di Dio aveva aperto la strada alle utopie escatologiche laiche, come il marxismo, lasciando intatta la speranza che l’umanità potesse realizzare con le sue forze e i suoi progressi una società e una vita migliori per tutti.
Ma il limite che le scienze ci fanno intravedere, per quanto lontano, rende il sogno una sorta di palliativo per combattere un’insensatezza che si è insinuata come una nebbia a offuscare il sole di qualunque avvenire.
E così la metafisica e le sue domande sull’essere, il nulla e il senso del mondo che le scoperte scientifiche avrebbero dovuto - pensavano alcuni - mettere a tacere per sempre, proprio grazie alla scienza si stanno pian piano riaffacciando sulla scena del pensiero.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA. AL DI LA’ DI NEWTON, CON KANT - E ARTHUR S. EDDINGTON ... ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!).
Nobel per la Fisica a Kip Thorne, Barry Barish e Rainer Weiss
Menzionate le collaborazioni internazionali Ligo e Virgo. Gli Applausi e i brindisi dei fisici italiani
di Redazione ANSA *
l Nobel per la Fisica 2017 è stato assegnato alla scoperta delle onde gravitazionali. Il Nobel è stato assegnato a Kip Thorne, Barry Barish e Rainer Weiss. Sono state menzionate le collaborazioni internazionali Ligo e Virgo.
Una metà del premio va a Rainer Weiss, mentre l’altra metà è stata assegnata congiuntamente a Barry C. Barish e Kip S. Thorne "per il contributo decisivo al rivelatore Ligo e all’osservazione delle onde gravitazionali". Per tutti e tre i premiati la Fondazione Nobel ha indicato come affiliazione le collaborazioni Ligo-Virgo.
Weiss (85 anni), è nato nel 1932 a Berlino. Ha preso il dottorato nel 1962 negli Stati Uniti, nel Massachusetts Institute of Technology (Mit), dove ha continuato a insegnare.
Barish (81 anni) è nato nel 1936 negli Stati Uniti, a Omaha. Dopo il dottorato nell’Università della California a Berkeley, ha insegnato nel California Institute of Technology (Caltech).
Thorne (77 anni) è nato negli Stati Uniti, a Logan. Ha studiato nell’università di Princeton e ha avuto la cattedra di fisica teorica nel California Institute of Technology (Caltech). E’ diventato celebre per il grande pubblico dopo la sua consulenza scientifica per il film Interstellar.
Emozione e commozione, un grande abbraccio all’Infn
Un grandissimo applauso e un brindisi ha accolto, nella sede dell’Infn a Roma, la notizia del Nobel per la Fisica 2017 alla scoperta delle onde gravitazionali, "Questa volta è stata premiata la globalità della scienza", ha detto il direttore dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo (Ego), Federico Ferrini, dedicando il brindisi al papà del rivelatore Virgo, Adalberto Giazotto.
D’Amico, apre nuovi orizzonti studio cosmo
Un riconoscimento che apre nuovi orizzonti di indagine dell’Universo e i telescopi italiani sono già all’opera per catturare le prime fotografie delle sorgenti di onde gravitazionali. Così il presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), Nichi D’Amico, commenta l’assegnazione del Premio Nobel 2017 per la Fisica alla scoperta delle onde gravitazionali. ’’Un grande e meritato riconoscimento per la fisica moderna, che apre nuovi orizzonti di indagine dell’Universo’’ ha detto D’Amico. I telescopi dell’Inaf ha aggiunto ’’sono già all’opera per produrre le prime ’fotografie’ delle sorgenti di onde gravitazionali, a tutte le lunghezze d’onda, da terra e dallo spazio’’.
Ferrini, grande successo per Europa ed Italia
"E’ una giornata storica, è meraviglioso": il direttore dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo (Ego), Federico Ferrini, è entusiasta del Nobel alla scoperta delle onde gravitazionali. "E’ stata un’attesa trepidante e piena di speranze, che alla fine non sono andate deluse", ha detto subito dopo il brindisi e gli abbracci con gli altri protagonisti italiani della collaborazione Virgo, riuniti a Roma, nell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Il Nobel assegnato oggi "è un grandissimo successo per l’Europa: Virgo - ha aggiunto - è il risultato della collaborazione fra sei Paesi europei, che ha sviluppato una tecnologia in modo indipendente dal punto di vista tecnologico rispetto a quella del rivelatore americano Ligo, anche se in modo parallelo. Tanto - ha rilevato - da arrivare a suggerire a Ligo delle scelte tecnologiche e a prendere dati insieme".
Le collaborazioni Ligo e Virgo
Le due collaborazioni Ligo e Virgo menzionate nel premio Nobel per la Fisica 2017 sono il risultato corale di una ricerca che nasce dalla partecipazione di 1.500 fisici di tutto il mondo, almeno 200 dei quali sono italiani. Da un’idea italiana, del fisico Adalberto Giazotto, è nato il rivelatore Virgo, costruito nella campagna alle porte di Pisa, a Cascina. Nato dall’idea lanciata a meta’ degli anni ’80 da Giazotto e Alain Brillet, Virgo fa parte dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo (Ego), fondato nel 2000 dall’Italia, con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e dalla Francia, con il Consiglio nazionale della ricerca scientifica Cnrs.
La sensibilità del rivelatore è stata aumentata grazie alla nuova versione di Virgo (Advanced Virgo), che ha appena concluso la prima fase congiunta di osservazione con Ligo: i due rivelatori hanno lavorato insieme come un unico, potentissimo strumento. Le due antenne di Virgo si trovano negli Stati Uniti sono entrati in funzione nel 2004 negli Stati Uniti (ad Handford, nello Stato di Washington, e a Livingston, nella Louisiana). Recentemente sono stati potenziati ed e’ stata questa nuova versione, chiamata Advanced Ligo, ad ascoltare per la prima volta le vibrazioni dello spazio-tempo. Diretta da Gabriela Gonzales, la collaborazione Ligo (Laser InterferometerGravitational-WaveObservatory) e’ condotta congiuntamente dal Massachusetts Institute of Technology (Mit) e dal California Institute of Technology (Caltech), insieme ad altri centri di ricerca e universita’ degli Stati Uniti, e comprende oltre 900 ricercatori di tutto il mondo.
Che cosa sono le onde gravitazionali
Previste un secolo fa dalla teoria della relatività di Albert Einstein, le onde gravitazionali sono state scoperte da due grandi collaborazioni internazionali, l’americana Ligo e l’europea Virgo, alla quale l’Italia collabora con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Le onde gravitazionali sono le ’vibrazioni’ dello spazio-tempo provocate dai fenomeni più violenti dell’universo, come collisioni di buchi neri, esplosioni di supernovae o il Big Bang che ha dato origine all’universo.
Viste per la prima volta nel settembre 2015, la loro scoperta è stata annunciata l’11 febbraio 2016 e adesso è stata finalmente premiata da un Nobel molto atteso. Come le onde generate da un sasso che cade in uno stagno, le onde gravitazionali percorrono l’universo alla velocità della luce creando increspature dello spazio-tempo finora invisibili. Poiché interagiscono molto poco con la materia, le onde gravitazionali conservano la ’memoria’ degli eventi che le hanno generate.
La scoperta delle onde gravitazionali è stata anche la conferma definitiva della teoria della relatività generale. Erano infatti l’unico fenomeno previsto da questa teoria a non essere stato ancora osservato.
* ANSA 03 ottobre 2017 (ripresa parziale).
UNIVERSO, SPAZIO, ONDE GRAVITAZIONALI ...
Questo scontro tra due buchi neri cambia la storia dell’astronomia gravitazionale
La collisione è stata registrata contemporaneamente da due interferometri diversi, uno italofrancese e uno statunitense. Un evento fondamentale
di SERGIO GAUDIO *
La notizia è davvero rilevante. Per la prima volta due strumenti molto particolari, gli interferometri LIGO E Virgo, sono riusciti a vedere nello stesso momento, le perturbarzioni del campo gravitazionale prodotte da un evento cosmico. È una novità assoluta che ci aiuterà non solo a comprendere meglio l’origine del fenomeno, ma anche a spiegare e a interpretare meglio le leggi che regolano l’Universo. Le onde che sono state osservate sono il prodotto della collisione di due buchi neri di massa circa 31 volte l’uno e 25 volte quello della massa del sole, dando vita a un unico buco nero di circa 53 volte la massa del nostro sole, con una perdita di circa tre masse solari che sono state convertite in onde gravitazionali.
Avevo quindici anni quando per la prima volta lessi qualcosa di relatività: era l’esposizione divulgativa della relatività di Einstein, un libro breve in cui per la gran parte si esponevano i concetti, non certo la matematica. Ci capii poco allora, forse poco anche adesso, ma per un ragazzino di quell’eta’ fantasticare era tutto. Ecco, penso che a tutti sia capitato di alzare lo sguardo al cielo, di domandarsi cosa ci sia oltre cio’ che riusciamo a vedere.
Fino alla prima rilevazione di LIGO, eravamo limitati a quello. Oggi, lo spazio, l’Universo intorno ci parla, lo possiamo ascoltare. Il “chirp” ascoltato la prima volta nel 2015 è stato entusiasmante: abbiamo ascoltato l’eco del rumore prodotto da una vibrazione dello spazio-tempo.
Ecco, lo spazio-tempo: quando insegno ai ragazzi del primo anno all’università la prima cosa che faccio è stravolgere la nozione di uno spazio immutabile, di un tempo assoluto.
Sapevamo già che lo spazio si potesse curvare, lo sapevamo seguendo la deflessione del cammino della luce, lo sapevamo dalla correzione del periodo dell’orbita di Mercurio intorno al Sole, non avevamo mai verificato sperimentalmente, che quello spazio potesse subire delle fluttuazioni, in modo molto approssimato, ma per capirci, alle onde che l’acqua forma quando cade un sasso in uno stagno.
Finalmente, noi possiamo sentire quel rumore, possiamo ascoltarlo, grazie alla rilevazione delle onde gravitazionali. Fino al 14 di agosto di quest’anno, però riuscivamo ad avere solo una vaga idea da dove quel suono provenisse.
L’entrata in funzione di Virgo dà nuove prospettive. Non solo Virgo ha visto esattamente lo stesso evento di LIGO, la fusione di due buchi neri, confermando, se mai ce ne fosse stato bisogno, le sue osservazioni, ma ha ristretto per triangolazione, il campo di origine delle onde e dunque la posizione dell’evento: da circa 1000 gradi quadrati, che era l’area individuata dal solo LIGO, a circa 60 gradi quadrati con la contemporanea rilevazione di Virgo. Le cose miglioreranno sicuramente quando anche gli altri rilevatori in India, in Giappone e anche LISA (in orbita nello spazio intorno alla Terra), saranno in funzione perché sarà possibile una triangolazione più precisa.
Questo è dunque il primo evento osservato con tre interferometri diversi.
Apriamo dunque una nuova frontiera nell’astronomia. Fino ad oggi le osservazioni astronomiche si erano sostanzialmente basate sulla radiazione elettromagnetica. Questa può essere assorbita o irradiata. Le onde gravitazionali, al contrario, interagiscono pochissimo con la materia e dunque non vengono diffuse o assorbite. Questo consente di ottenere informazioni non accessibili altrimenti della sorgente.
La rilevazione in contemporanea di Virgo ha prodotto un altro risultato importante: grazie ai tre interferometri, alla particolare geometria, al disallineamento dei bracci del suo interferometro rispetto a quelli di LIGO, è possibile la ricostruzione delle polarizzazioni delle onde gravitazionali, presenti così come prescritto dalla relatività generale. Fino ad oggi, con il solo LIGO questo non era possibile.
La ricostruzione delle caratteristiche della polarizzazione è uno degli aspetti più importanti perché ci consente di testare la relatività generale come mai prima. Per esempio, teorie alternative della relatività generale assumono delle asimmetrie nello spazio che farebbero propagare in modo diverso le onde gravitazionali con polarizzazione diversa; uno sfasamento tra le polarizzazioni inconsistente con il moto “inspiral” di un sistema binario indicherebbe una nuova frontiera da esplorare anche nelle equazioni fondamentali dello spazio tempo.
Insomma, questo è un momento storico per il campo dell’astronomia gravitazionale e questo rilevamento non può che far gioire francesi e italiani che su Virgo hanno investito grandi risorse per rendere operativo l’interferometro di Cascina (Pisa) ed è non solo il coronamento di un lungo viaggio nato dalla visione di pionieri come Adalberto Giazotto ma soprattutto apre la via per le esplorazioni future.
QUANDO A SBAGLIARE È UN GENIO
Errori veri e presunti di Einstein
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, 29 luglio 2017)
Per garantire un introito al suo collaboratore Leopold Infeld, che non aveva ancora un posto in università, nel 1938 Einstein decise di scrivere assieme a lui un saggio destinato a diventare famoso, L’evoluzione della fisica. Durante la stesura Infeld gli confessò di sentirsi particolarmente in ansia, visto che il libro avrebbe recato in copertina il nome del più celebre scienziato del mondo. «Non è il caso di preoccuparsi - lo tranquillizzò Einstein -, ci sono anche lavori sbagliati con la mia firma».
Einstein sapeva benissimo che gli errori fanno parte del gioco della scienza e riteneva che non dovessero creare particolari imbarazzi. Ne aveva commesso qualcuno e non si vergognava di ammetterlo. Nel linguaggio comune la parola «errore» ha varie sfumature, e quando la si applica alla scienza conviene essere accorti. Prescindendo completamente dall’uso del termine come sinonimo di «incertezza di misura» (frequente in fisica), possiamo distinguere due tipi di errori nella normale attività scientifica: 1) i veri e propri sbagli, nei calcoli, nelle deduzioni o nella conduzione di un esperimento; 2) le ipotesi, le teorie e i programmi di ricerca che si rivelano a posteriori fallaci. Entrambe queste situazioni sono perfettamente fisiologiche (la prima è addirittura universale - errare humanum), e solo una visione superficiale dell’impresa scientifica può dipingerle come macchie nella reputazione degli scienziati (anche dei più grandi) o come passi falsi sulla via della verità.
Nel caso di Einstein, gli errori del primo tipo sono spesso legati alla peculiare struttura logica della relatività generale, che rende di difficile lettura alcune sue predizioni. Fu così, per esempio, che egli pensò per un breve periodo, nel 1936, di aver dimostrato - vent’anni dopo averle previste - l’irrealtà delle onde gravitazionali. Di questo sbaglio si accorse quasi subito, mentre non corresse mai i risultati di quello che alcuni storici della scienza considerano il suo peggior lavoro scientifico, un articolo del 1939 in cui sosteneva l’impossibilità del collasso gravitazionale di una stella fino allo stato di buco nero (negli stessi giorni J. Robert Oppenheimer e Hartland Snyder erano giunti - correttamente - alla conclusione opposta).
Non un vero sbaglio, ma una svista, compare in un’altra famosissima nota einsteiniana, quella (molto breve) in cui il padre della relatività prevedeva il fenomeno delle lenti gravitazionali - la distorsione dell’immagine di sorgenti lontane a causa della presenza di grossi corpi che deflettono con la loro gravità i raggi luminosi. Ipotizzando che i corpi in questione fossero stelle, Einstein concluse che l’effetto era piccolissimo e impossibile da rilevare (per inciso, si noti come gli “sbagli” di Einstein andassero curiosamente sempre nella direzione di sottostimare la ricchezza fenomenologica della sua teoria). Pochi mesi dopo, l’astronomo Fritz Zwicky gli fece notare che, se ad agire da lente gravitazionale fosse stata una galassia, l’effetto sarebbe stato osservabile (come sappiamo, Zwicky aveva ragione, e dal 1979 - anno della loro scoperta - le lenti gravitazionali sono diventate un fenomeno comune).
Rientra invece nella seconda tipologia quello che Einstein stesso definì l’errore più grande della sua vita: l’introduzione della costante cosmologica. Nel 1917 Einstein aveva inaugurato la moderna cosmologia teorica applicando l’equazione fondamentale della relatività generale all’intero universo, immaginato come una massa fluida omogenea. Si era accorto però che ne risultava un universo in contrazione o in espansione, non statico, come tutti credevano che fosse (mancando indizi contrari). Per ottenere una soluzione statica, aveva allora introdotto nella sua equazione un termine correttivo che conteneva un parametro arbitrario, la costante cosmologica. L’equazione aveva perso in eleganza e in semplicità, ma guadagnato apparentemente sul piano empirico. Nel 1929, tuttavia, l’astronomo statunitense Edwin Hubble scoprì che il cosmo era tutt’altro che statico. Le galassie si allontanano da noi - e da qualunque punto di osservazione - con una velocità proporzionale alla loro distanza, segno inequivocabile di un’espansione dell’universo. La costante cosmologica, dopo questa scoperta, non serviva più e l’equazione di Einstein, liberatasi da un orpello non necessario, poteva tornare a rifulgere in tutta la sua bellezza.
Ma, secondo il matematico e divulgatore David Bodanis, «il più grande errore di Einstein» (sempre del secondo tipo, nella nostra classificazione) non fu - diversamente da quanto pensava il diretto interessato - la costante cosmologica, bensì la pervicace ostilità nei confronti della meccanica quantistica. Con il senno di poi, Bodanis ha ragione: se solo il grande fisico avesse accettato la teoria quantistica nella forma che essa aveva preso a partire dalla metà degli anni Venti (per opera di Heisenberg, Schrödinger, Born, Dirac, e sotto la supervisione concettuale di Niels Bohr), probabilmente i trent’anni della sua vita spesi nella ricerca di una teoria unificata classica (che pure - va detto - hanno avuto effetti collaterali di una certa importanza) sarebbero stati ben più fruttuosi. C’è però da chiedersi: poteva Einstein - il genio formatosi ancora nell’Ottocento, che diceva di aver assunto la teoria classica dei campi con il latte materno, il creatore solitario delle due relatività, l’alfiere di una concezione granitica della scienza come processo di comprensione del reale regolato da criteri di semplicità logica - poteva questo Einstein accettare la visione del mondo di Copenaghen?
Bodanis sostiene - ed è questa la tesi centrale, ma anche la parte più debole, del suo libro - che l’atteggiamento di Einstein nei confronti della meccanica quantistica fosse figlio dello smacco ricevuto con la scoperta dell’inutilità della costante cosmologica, che sarebbe stata introdotta per dar conto dei dati osservativi. Dopo quell’esperienza Einstein si sarebbe isolato sempre di più dalla comunità scientifica, «decidendo di poter ignorare gli esperimenti che sembravano confutare ciò che lui era convinto che fosse giusto». È una ricostruzione difficilmente sostenibile. Innanzitutto, Einstein aveva operato in isolamento già negli anni di gestazione della relatività generale (con Tullio Levi-Civita, nell’aprile del 1915, si lamentava di quanto poco i suoi colleghi fossero «sensibili all’esigenza di una vera teoria della relatività»). In secondo luogo, il suo lavoro cosmologico, più che dai dati astronomici (che conosceva poco), era guidato, come al solito, da considerazioni e princìpi fondamentali - in particolare, dall’idea, dovuta a Ernst Mach, di un legame tra inerzia e distribuzione della materia. Infine, l’ostilità nei confronti della meccanica quantistica risaliva a ben prima del 1929 e prescindeva dai fatti empirici, muovendo più che altro da una critica ai fondamenti generali e non ai risultati applicativi della teoria (nella quale, peraltro, non faceva fatica ad ammettere che ci fosse qualcosa di “vero”).
Il rapporto di Einstein con l’esperimento fu sempre piuttosto articolato (a dispetto di certe sue battute). Salvo che negli anni giovanili, i programmi di ricerca einsteiniani non scaturirono mai da necessità empiriche. Ciò non significa però che egli considerasse il confronto con i dati irrilevante: nel 1915, a convincerlo della correttezza delle equazioni del campo gravitazionale appena ottenute fu tanto la loro eleganza formale quanto il fatto che esse spiegavano un piccolissimo fenomeno noto da tempo, l’anomalia dell’orbita di Mercurio. Il successo della relatività generale, basata su un postulato di simmetria e su un’equazione che è la più semplice equazione possibile coerente con tale postulato, lo convinse a procedere, nella costruzione teorica, sempre in quel modo. Ma non fu in grado di ripetere il successo. Era un uomo di princìpi (filosofici ed epistemologici), come le teorie che prediligeva e inventava, ma i princìpi, a volte, possono privare di quella flessibilità necessaria a riconoscere un vicolo cieco e a cambiare strada.
Ironia della sorte, la recente scoperta che l’espansione dell’universo sta accelerando ha riportato in auge la costante cosmologica di Einstein, che descrive proprio tale accelerazione. Difficile, a questo punto, considerarla un errore! È il destino della fisica teorica. Molti dei lavori che quotidianamente compaiono sulle riviste specialistiche finiranno nel dimenticatoio o nella carta straccia. In compenso, tra la carta straccia di qualche mente ingegnosa potrebbe nascondersi l’idea che gli altri stanno faticosamente cercando.
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
“Così capiamo la forza che lega insieme l’Universo”
di Nicla Pancera (La Stampa, 07.07.2017)
«Non era mai stata osservata sperimentalmente, ma sapevamo che prima o poi l’avremmo trovata, perché la sua esistenza era prevista dalle teorie attuali». È orgoglioso Alessandro Cardini,responsabile dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dell’esperimento LHCb, uno dei quattro montati sul l Large Hadron Collider del CERN (gli altri sono ATLAS, ALICE e CMS) che ha osservato la nuova particella, chiamata X_cc^(++) (Xicc++) la cui peculiarità è quella di essere composta da due quark charm, pesanti, e da un quark leggero, e di essere quindi molto pesante, quattro volte più del protone. «Protoni e neutroni sono composti da tre quark, di cui solo uno pesante, ma le teorie fisiche prevedevano da tempo la possibilità di ottenere particelle formate da più quark pesanti».
Come è nata la vostra scoperta?
«Dal 2015 a oggi, nel corso del secondo periodo di funzionamento di LHC, il Run2, abbiamo osservato 300 particelle Xicc++ e un altro centinaio sono state riconosciute a posteriori negli esperimenti del Run1».
Finora ci avevano già provato, senza successo, altri esperimenti, come «BaBar» in California e «Belle» in Giappone.
«Anche al CERN, quindici anni fa, sembrò di avere visto qualcosa, ma le conferme non erano mai arrivate».
Come mai era così difficile?
«Capita spesso che fluttuazioni statistiche vengano interpretate come prova dell’esistenza di quanto si sta cercando. Solo dettagliate misurazioni spettroscopiche possono dire con certezza cosa abbiamo davanti».
Quindi, pur non essendo una vera e propria new entry nello zoo delle particelle, Xicc++ è motivo di grande orgoglio per i ricercatori. Vederla è stato possibile solo adesso. Perché?
«Grazie a una grande capacità degli strumenti di identificazione delle particelle e alla potenza dell’acceleratore, di 13 TeV, che ci ha consentito di acquisire dati di una purezza particolare».
«Trovare un barione con due quark pesanti è di grande interesse - aggiunge Giovanni Passaleva, il nuovo coordinatore della collaborazione LHCb - Perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali», cioè quella, ancora misteriosa, che tiene unite le particelle al nucleo atomico.
I ricercatori sono già al lavoro per misurare i meccanismi di produzione e di decadimento e la durata di vita della nuova particella. La speranza è che poterla vedere «nascere» e «morire» porti verso una maggior comprensione delle regole che creano la materia dell’Universo.
La “Particella Xi”
Ecco che cosa unisce la materia
Inseguita da anni, l’ha trovata il Cern grazie al Large Hadron Collider Servirà per capire una delle forze fondamentali della natura
di Piero Bianucci (La Stampa, 07.07.2017)
L’anagrafe del mondo subnucleare registra una nuova particella, annunciata ieri a Venezia in apertura del convegno della Società Europea di Fisica. Si chiama Xi ed è esotica rispetto alla materia di cui siamo fatti. Mentre tutto il mondo che conosciamo è costruito con due tipi di quark leggeri, Up e Down, la particella Xi è costituita da due quark più pesanti, chiamati Charm, e da uno «normale», un quark Up. La cosa eccitante per i fisici è che mai finora due quark Charm erano stati osservati insieme. Singolare è anche l’assetto delle tre particelle che formano la Xi: i due quark Charm stanno al centro come un minuscolo sole e il quark Up gira loro intorno come un pianeta.
Nell’insieme, Xi è una particella alquanto massiccia. Pesa 3,6 GeV, cioè quasi 4 volte un protone. Ora i fisici cercheranno di produrre un grande numero di Xi per osservarne il comportamento e comprendere meglio i meccanismi dell’interazione forte, cioè la forza che regola i rapporti tra adroni, nome collettivo che si dà alle particelle pesanti. E poiché l’estremamente piccolo e l’estremamente grande dipendono strettamente l’uno dall’altro, alla fine potrà uscirne una migliore conoscenza dell’evoluzione stessa dell’universo.
La scoperta di Xi è interessante ma non rivoluzionaria. Anzi, l’esistenza di questa particella era prevista dalla teoria del Modello Standard e c’erano già indizi della sua esistenza. Non siamo dunque di fronte a una nuova fisica ma piuttosto a una conferma. L’importanza di Xi sta nelle possibilità di indagine che apre ad una sempre più robusta definizione del Modello.
L’osservazione di Xi è frutto di uno dei grandi esperimenti distribuiti lungo il gigantesco collider LHC del Cern di Ginevra, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri nel quale vengono fatti scontrare protoni che corrono in direzioni opposte a una velocità vicina a quella della luce. L’energia delle collisioni è la massima mai raggiunta in un laboratorio: LHC lavora a 14 TeV, cioè 14mila miliardi di elettronvolt. Per farsi un’idea di che cosa significa, l’energia in gioco nella vita quotidiana, per esempio quella dei fotoni della luce solare, è dell’ordine di un elettronvolt. A 14 TeV si ricreano le condizioni di energia che esistevano nell’universo miliardesimi di secondo dopo il big bang, un miscuglio di quark, elettroni, neutrini.
I quark previsti dal Modello Standard sono sei: l’ultimo, il quark Top, è stato trovato al Fermilab di Chicago nel 1995. I sei quark possono combinarsi in vari modi, alcuni consentiti e altri proibiti dalle leggi della fisica. Nel mondo ordinario, i nuclei atomici sono costituiti da protoni e neutroni, i quali a loro volta sono combinazioni di quark Up e Down. Solo in un mondo super-energetico compaiono gli altri quattro tipi di quark, le cui combinazioni sono in parte da esplorare. Xi è un passo in questa direzione. Non cambia niente nella nostra vita, non ci sono applicazioni immaginabili. Quello che è si è ottenuto è tassello di conoscenza pura. Il piacere della scoperta per la scoperta.
L’esperimento che ha rivelato Xi è noto tra i fisici come LHCb ed è pensato per indagare su violazioni della simmetria nelle particelle elementari, in particolare la simmetria di carica elettrica e destra/sinistra. Una terza simmetria è quella rispetto al tempo. Nella maggioranza dei casi le simmetrie sono rispettate. Ma sono le rare violazioni ad essere interessanti: si ritiene che una di queste violazioni abbia prodotto la scomparsa dell’antimateria e quindi l’universo che ora ci ospita.
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
Le sei ragazze italiane delle stelle: "Così abbiamo conquistato la Nasa"
Per la prima volta l’Agenzia spaziale pubblica uno studio firmato da sole donne. Tra i 27 e i 46 anni, hanno svelato i segreti dei buchi neri nati dopo il Big bang. Ma solo una di loro ha un contratto stabile
di MATTEO MARINI *
Sei astrofisiche, tutte italiane, formano un team di "archeologhe delle stelle" che ha attirato l’attenzione della Nasa. Cinque di loro hanno un contratto da "precaria della ricerca" e tre di loro non hanno ancora compiuto 30 anni. Il loro studio sui buchi neri dell’Universo primordiale è stato pubblicato a gennaio sul Monthly notices of royal astronomical society. Edwige Pezzulli, Rosa Valiante, Maria Orofino, Raffaella Schneider, Simona Gallerani e Tullia Sbarrato, così tante scienziate, tutte insieme, che firmano una ricerca così importante: anche per la Nasa è una cosa nuova. L’Agenzia spaziale americana ha deciso di pubblicare una "press release" e invitare una delle studiose a collaborare al blog, per raccontare cosa è successo nei primi milioni di anni dopo il Big bang.
Edwige, Raffaella e Rosa fanno parte del team di First, finanziato dallo European Research Council, che studia la formazione di stelle e galassie quando l’Universo era appena nato. L’indagine che, assieme alla storia di una squadra tutta al femminile, ha "conquistato" la Nasa è uno dei frutti di questo progetto. La loro non è stata forse una rivoluzione, come quella raccontata nel film Il diritto di contare, la storia di tre donne afroamericane che hanno conquistato un ruolo di grande responsabilità nella Nasa negli anni 60. Ma è comunque un grande riconoscimento per la ricerca italiana al femminile.
Delle sei, solo Raffaella non è "in scadenza", perché è professoressa associata alla Sapienza. A inizio carriera, più di 20 anni fa, è stata in qualche modo una pioniera: "Ho avuto il primo figlio durante il dottorato, era il 1996. Fui la prima in Italia a poter congelare la borsa per un anno per la maternità. Si poteva fare per il servizio militare ma non era previsto per una ricercatrice mamma".
Edwige Pezzulli, 29 anni, è dottoranda presso la Sapienza, Istituto nazionale di astrofisica e Tor Vergata. Ma nella sua storia controcorrente c’è un anche passato da thai boxer e rugbista a Roma nelle All Reds e nelle Red and Blue di Valmontone.
Rosa, 38 anni, ha lavorato tenendo in braccio la sua bambina. Aurora è nata un anno e mezzo fa: "Nelle notti e nei weekend di lavoro, quelli decisive prima dell’uscita dello studio, mi si addormentava in braccio, così scrivevo e rispondevo a mail e chat con le colleghe usando una mano sola - racconta - ma questo impegno è ripagato: proprio grazie al progetto First ho avuto il rinnovo del contratto per un altro anno".
Alle teoriche di First, che studiano modelli, si sono aggiunte le conoscenze sperimentali delle colleghe Maria Orofino e Simona Gallerani della Scuola Normale superiore di Pisa e Tullia Sbarrato del dipartimento di Fisica all’Università di Milano Bicocca, per interpretare i dati delle osservazioni. "Solo al momento di inviare il lavoro ci siamo accorte che le firme erano tutte quante di donne. Non ci avevamo fatto nemmeno caso" commenta sorridendo Raffaella Schneider, che è principal investigator del progetto First. "Vent’anni fa mi capitava di andare a convegni nei quali le donne si potevano contare sulle dita di una mano. Ora è molto diverso".
E sulla "eccezionalità" del loro team di archeologhe delle stelle anche Edwige ha un’idea chiara: "Sono convinta che la chiave del progresso risieda nella diversità e nel confronto tra più punti di vista. Non solo differenza di genere, dunque, ma anche occhi e culture diversi. In questo senso abbiamo portato la sguardo femminile su un problema sempre affrontato da uomini".
Per il loro studio sono partite da un quasar (una sorgente molto lontana e luminosa associata ai buchi neri), a 13 miliardi di anni luce da noi, per risalire ai suoi "progenitori", come per tracciarne l’albero genealogico. I "black holes" primordiali, appunto, che però sembrano non essere dove dovrebbero. "Abbiamo usato le osservazioni dello Sloan digital sky survey e del telescopio spaziale Chandra per osservare le attività di buchi neri quando l’Universo aveva meno di 800 milioni di anni - spiega Edwige Pezzulli - guardando lontano infatti è come se guardassimo indietro nel tempo".
Le sei ricercatrici hanno così spiegato una dinamica fondamentale su cosa succedeva poco tempo dopo il Big bang e perché è tanto difficile scoprire quei buchi nello spazio-tempo formatisi quando l’Universo era ancora giovanissimo: "Non riusciamo a vederli perché il loro accrescimento, il periodo in cui aumentano di dimensioni divorando materia ed emettendo radiazioni, è molto rapido e si spegne in fretta".
* la Repubblica,31 maggio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE....
L’uomo della Luna Buzz Aldrin al Wired Next FesT: “Dobbiamo continuare a esplorare o moriremo”
Ospite del terzo giorno di Wired Next Fest, il secondo uomo ad aver calpestato il suolo lunare ha espresso idee piuttosto precise sul nostro futuro spaziale
Il video del lancio dell’Apollo 11 dalla piattaforma 39 del Kennedy Space Center emoziona a 48 anni di distanza: la partenza, l’allunaggio, il ritorno. Al Wired Next Fest 2017, Buzz Aldrin lo guarda con la stessa emozione di una sala gremita di persone lì per incontrarlo. “L’ho visto miliardi di volte - commenta l’ex astronauta - ma è meraviglioso ricordare quello che è successo. Mi riporta a rievocare quei giorni, pensando a chi ci ha spianato la via perché potessimo arrivare lì. Sia chiaro, sono anche andato al Polo Nord. Ho visto il Titanic sott’acqua. Ho visitato il Polo Sud. Sono disposto ad andare ovunque per essere utile agli altri. Al mio Paese, certo, ma in fondo all’Umanità. Dobbiamo esplorare o morire”.
Risponde così Aldrin a chi gli chieda perché uno dei prime due uomini ad aver messo piede sulla Luna, il 20 luglio 1969, non sembri fermarsi mai. Battezzato Edwin Eugene Aldrin Jr., il futuro Buzz - nome acquisito legalmente nel 1988 - è nato a Montclair, nel New Jersey, il 20 gennaio del 1930.
Figlio di un pioniere dell’aeronautica, Edwin Eugene Sr., si è presto rivelato degno erede dei genitori e per più di un motivo: il cognome della madre, Marion, era Moon.
“Un segno del destino”, ama scherzare lui - come nella recente biografia No Dream Is Too High - per quanto sul futuro delle missioni spaziali abbia idee precise e piuttosto serie: “Non credo oggi gli americani sarebbero grandi sostenitori dell’idea di tornare sulla Luna e men che meno ne sarebbero finanziatori entusiasti.
Credo tuttavia sarebbero felici di appoggiare una coalizione di stati che perseguisse questo obbiettivo. E magari volesse andare oltre, da Marte a Saturno “.
Sentirlo dire da uno dei protagonisti della cosiddetta Space Race, una competizione dal senso ben più che tecnologico, ha ancora più senso: “Quando nel 1961 John Fitzgerald Kennedy promise che entro la fine del decennio un uomo sarebbe andato e tornato dalla Luna non esistevano piani definiti per farlo, non c’era una strategia. Si andava di pari passo con la tecnologia in una corsa contro l’Unione sovietica la cui vittoria finì per richiedere troppe energie”.
Che la Storia abbia insegnato davvero? “Esatto. Anche per non sprecare risorse economiche preziose, oggi dovremmo agire da consulenti. Nessuno che si occupi di sviluppare lander spaziali o lanciatori dovrebbe essere troppo in concorrenza con gli altri. Qualcuno dovrà raccontare ai nostri leader quali strategie perseguire e gli obbiettivi dovranno essere raggiunti tutti insieme: ovviamente, negli Stati Uniti, quel consigliere si chiamerà Buzz“.
Non c’è ombra di indecisione quando l’uomo che con Neil Armstrong condivise anche l’addestramento a West Point parla. “Mi piacerebbe riferirmi non solo al mio presidente, ma anche ad altri 40 o 50 astronauti che immagino già nati: la collaborazione sarà fondamentale per allestire una squadra internazionale di esploratori del cosmo. Sia chiaro, occorreranno persone di un’età giusta, sufficientemente mature per prendere la più importante decisione della loro vita: diventare pellegrini che entrino nella storia. I primi uomini a raggiungere un altro pianeta. E non per una visita: immaginate una squadra internazionale che fra partenza, viaggio e permanenza in attesa dell’equipaggio successivo, rimanga via dalla Terra una decina d’anni. E che solo al ritorno sarà in grado di capire l’importanza di quanto fatto. Perché è al ritorno che si capiscono certe cose”.
Evidente si riferisca a se stesso: “Voglio essere utile. In passato ho dovuto affrontare momenti di depressione. Mio nonno si è suicidato, mia madre ha fatto lo stesso prima che partissi verso la Luna e io ho avuto problemi con l’alcol. Così non si può essere utili agli altri. Ed è fondamentale che lo siamo. Credo che in fondo un astronauta faccia questo”.
Un volo logico azzardato per quanto legittimo visto il personaggio: “Occorre che un astronauta combatta le cosiddette paludi della vita. E non solo in senso metaforico: dall’allunaggio in poi, questioni economiche e conflitti hanno parzialmente rallentato il nostro obiettivo: lavorare per il nostro futuro. Occorre si ricominci, dobbiamo abituarci a lavorare insieme per oltrepassare i nostri confini“.
LA MENTE ACCOGLIENTE. TRACCE PER UNA SVOLTA ANTROPOLOGICA...
PERFETTE SCONOSCIUTE
Mileva Mariç, genio della matematica
E il patto osceno con l’ex marito Albert Einstein
di Maria Tilde Bettetini *
Non ci sono certezze, è inutile accanirsi. Però è davvero improbabile che sarebbe andato avanti negli studi, riuscendo con tanto successo senza di lei, Mileva Mariç. Stiamo parlando di Albert Einstein, un nome che nel parlare comune ha preso il significato di “genio”, “sono l’Einstein delle parole crociate”. Il premio Nobel per la fisica del 1921, si sa, aveva problemi con la matematica, non è una novità che le due materie presuppongano lo sviluppo di modalità differenti dell’intelligenza, ora più immediate e intuitive, ora più immaginifiche. E si sa che questi problemi non si sono risolti semplicemente col passare del tempo, come è sottinteso quando si incoraggia un bambino a scuola, anche Einstein da piccolo non era bravo in matematica!
Che ruolo abbia avuto dunque la sua amica, poi amante, poi prima moglie, genio precoce della matematica, non è difficile immaginare, anche se nessuno ne fa parola. Lo fa il romanzo in questi giorni in libreria di Marie Benedict, La donna di Einstein (Piemme), che racconta le due vite prima legate e poi parallele di Albert e Mitza, o Mileva, o Milena.
Si erano conosciuti a Zurigo, entrambi studenti al Politecnico, se pur con bagaglio assai diverso: Albert è tedesco, la famiglia in Italia, ha ripetuto due volte l’esame di ammissione; Mileva è serba, ha girato col padre militare il suo paese e l’Austria-Ungheria, parla tre lingue, ha fatto la maturità a Berna. Li accomunano caratteri ombrosi, solitari; la passione per le scienze; una notevole bruttezza fisica, in lei accentuata da zoppia congenita. Mileva è la quinta donna in assoluto a riuscire a entrare al Politecnico di Zurigo, l’unica del suo anno a matematica e fisica. Agli esami finali Albert passa per un pelo (e infatti non riceve alcuna proposta di lavoro, a differenza dei colleghi), Mileva è bocciata due volte.
La seconda, forse non l’agevola essere evidentemente incinta. La famiglia Einstein non approva: “Quella zoppa ti rovinerà la vita, non vedi che è già vecchia?”, scrive la mamma tedesca, riferendosi ai quattro anni di differenza. Mileva partorisce Lieserl a fine gennaio 1902, a casa. Né il padre né altri vedranno la bambina, forse morta di scarlattina, forse data in adozione, ma nel frattempo Albert proprio a Berna trova lavoro, lì il 6 gennaio 1903 si sposano. Tra le mille incertezze, questo è certo, perché Mileva ha sempre conservato con cura i documenti del matrimonio.
Dalle loro lettere, pubblicate in italiano nel 1993 (Bollati Boringhieri), apprendiamo che lui si sente capito da lei come da nessun altro, che sarà felice e orgoglioso di portare a una conclusione certa “il nostro lavoro sul movimento relativo”. Ancora non ha affermato, come farà poi, che “non avrebbe mai consentito a una sua figlia di studiare fisica”.
Mileva a tale lavoro dedica la sera e spesso la notte, dopo aver sbrigato le faccende domestiche e aver messo a dormire i due bambini nati nel frattempo. Siamo una sola pietra, afferma Mileva, giocando sul cognome ora anche suo: Wir sind ein-Stein!, per questo non mi importa che ci sia solo il suo nome nelle pubblicazioni (che cominciano a attirare l’attenzione del mondo scientifico), siamo noi, siamo “gli Einstein”.
Ma nel volgere di pochi anni, il tempo le avrebbe dato torto. Fino al 1910 Einstein è un impiegato dello Stato, che dedica alla scienza tutto il tempo libero. Dal 1910 ha una cattedra di Fisica a Praga, tutta la famiglia lascia Berna per Praga, poi Berlino e poi - Albert solo - per tutta l’Europa, dove contesti scientifici e mondani richiedono a gran voce la presenza del piccolo geniale scienziato.
La relazione con la cugina di primo grado, poi seconda moglie, Elsa Einstein in Löwenthal, incrinò definitivamente i rapporti tra marito e moglie. In questo periodo Albert iniziò a provare fastidio per lei, a “trattarla come un’impiegata che non posso licenziare”, evidentemente preso dal fascino di Elsa (comunque più grande di lui, due anni invece di quattro).
Arrivò a scrivere alla moglie le sue condizioni, un documento raccapricciante (riportato per noi, tra altre cose, in Donne pazze, sognatrici, rivoluzionarie, di Milton Fernandez, Rayuela Edizioni). In cambio del suo impegno a trattarla con cortesia (“come faccio di solito con tutti gli estranei”), lei avrebbe dovuto: preoccuparsi dei suoi vestiti, di tre pasti regolari, dell’ordine nelle sue cose senza però toccare la scrivania.
Tranne quando richiesto dalle apparenze sociali, avrebbe evitato di sedersi accanto a lui anche a casa, non avrebbe atteso alcuna manifestazione d’affetto né avrebbe rinfacciato questo comportamento, sarebbe dovuta correre a ogni richiamo e andarsene appena così comandata, non avrebbe mai denigrato il padre davanti ai bambini.
Un patto osceno? Non più di tanti che si consumano in case normali, oggi come allora (meno, forse). Mileva, con la stessa forza che la aveva portata a studiare come gli uomini, prende i bimbi e se ne va, torna a Zurigo. I documenti del divorzio, firmati nel 1919, riportano che Albert Einstein si impegnava a darle l’ammontare di eventuali premi futuri. Pensava al Nobel, che infatti arrivò nel 1921.
A Mileva e ai figli andarono i denari, ma lei poteva spostarne solo una percentuale, sufficiente comunque a vivere e a curare il figlio Eduard, malato di schizofrenia; il grande invece, Hans Albert, divenne ingegnare e poi raggiunse il padre negli Stati Uniti, dove si era stabilito nel 1933 in fuga dalle persecuzioni naziste. -Vicissitudini economiche e malattie accompagnano gli ultimi anni di Mileva Mariç, non del tutto abbandonata economicamente da quello scienziato famoso ormai nel mondo, simbolo di ogni genialità, non tanto bravo, però, in matematica. Era lui che aveva detto che “è più facile disintegrare un atomo che un pregiudizio”.
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!).
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Una luce più veloce nell’universo primordiale? *
Le costanti della natura sono veramente costanti? È un dubbio che ha tolto il sonno a più di un fisico teorico, perché se certi parametri variassero nello spazio e nel tempo, anche a grande distanza da noi, la descrizione che le leggi fisiche fanno dell’universo sarebbe decisamente differente.
È il caso per esempio della velocità della luce che, secondo la teoria della relatività speciale di Einstein, non cambia con il sistema di riferimento utilizzato per misurarla, come dovrebbe essere se continuassero a valere le leggi della relatività galileiana. In altre parole, la velocità della luce è una costante assoluta, oltre a essere una velocità limite, non superabile né da particelle dotate di massa né dall’informazione.
Si tratta di un postulato che è servito per costruire altre importanti teorie, come la relatività generale dello stesso Einstein, una teoria della gravitazione che spiega la struttura a larga scala del cosmo, l’evoluzione dell’universo a partire da una catastrofica esplosione iniziale, il big bang, e l’esistenza di oggetti estremi come i buchi neri.
Le previsioni della teoria della relatività generale sono state confermate innumerevoli volte; eppure ci sono ricercatori che ora sollevano qualche dubbio sui suoi fondamenti: e se nell’universo primordiale, pochi secondi dopo il big bang, le cose fossero state diverse?
Alla fine degli anni novanta, João Magueijo, dell’Imperial College di Londra, e Niayesh Afshordi del Perimeter Institute, in Canada, ipotizzarono che per esempio la velocità della luce potrebbe essere stata decisamente maggiore appena dopo il big bang. Ora gli stessi ricercatori hanno formulato una previsione verificabile sperimentalmente che dovrebbe consentire di capire se si tratta di un’ipotesi plausibile.
Le strutture presenti nell’universo, come le galassie, si sono tutte formate da fluttuazioni nell’universo primordiale, cioè da differenze di densità da una regione all’altra. Una registrazione di queste fluttuazioni primordiali è impressa nel fondo cosmico a microonde, la radiazione “fossile” che è ciò che resta della prima luce propagatasi nell’universo.
Secondo la teoria elaborata da Magueijo e Afshordi, ora pubblicata sulla rivista “Physical Review D”, se la velocità della luce fosse variata nell’universo primordiale, le fluttuazioni di densità ne avrebbero risentito. E una traccia ne sarebbe rimasta in un parametro fisico associato alla radiazione cosmica di fondo: l’indice spettrale, che in tal caso dovrebbe essere pari a 0,96478, contro un valore attualmente noto di 0,968, con un certo margine di errore.
“La teoria che abbiamo proposto per la prima volta negli anni novanta ha ora raggiunto la piena maturazione, perché ha prodotto una previsione verificabile sperimentalmente: se le osservazioni nel prossimo futuro dovessero confermare questo valore, si potrebbe arrivare a una modifica della teoria della gravitazione einsteiniana, e significherebbe che le leggi dalla natura in passato potevano non essere le stesse di oggi”.
Se l’idea degli autori fosse verificata, a farne le spese potrebbe essere anche un’altra teoria molto accreditata: quella dell’universo inflazionario. Quest’ultima prevede che l’universo, in una fase primordiale della sua esistenza, conobbe una fase di espansione estremamente rapida, chiamata inflazione, che consente ai cosmologi di risolvere il “problema dell’orizzonte”.
In sostanza, l’universo come lo osserviamo nella nostra epoca ha una densità relativamente uniforme, e questo è possibile solo se in una fase primordiale tutte le regioni dell’universo abbiano potuto influenzarsi reciprocamente. Per fare questo, o l’universo in una certa fase era molto piccolo, come previsto dalla teoria inflazionaria, e iniziò l’espansione solo dopo che l’uniformità della massa era stabilita, oppure la velocità della luce era elevatissima, tanto da permettere la comunicazione tra le diverse parti dell’universo anche quando era in una fase di espansione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
AL DI LA’ DELLA TEORIA DELLA RELATIVITA’. I neutrini battono la luce di 60 nanosecondi sulla distanza di 730 km, tra Ginevra, sede del Cern, e il Gran Sasso, sede del laboratorio dell’Istituto di Fisica Nazionale (Infn).
Velocità della luce, com’è stata calcolata?
Dobbiamo all’astronomo danese Ole Rømer la determinazione della velocità della luce. Che non è infinita (nel vuoto è pari a 299 792 458 metri al secondo), ma è sempre relativa.
di FOCUS *
Si è ritenuto a lungo che la luce avesse una velocità infinita. L’esperienza quotidiana sembrerebbe confermarlo: appena si accende una lampada, la luce inonda all’istante lo spazio. Tuttavia, già nel XVII secolo l’astronomo danese Ole Rømer ipotizzava che la luce avesse una velocità enorme, ma non infinita.
Fu proprio Rømer a determinare la velocità della luce nel 1676 mentre lavorava all’osservatorio reale di Parigi diretto al tempo da Giovanni Domenico Cassini.
I tentativi di Galileo Galilei. Prima di lui si era cimentato anche Galileo Galilei, ma senza successo. L’esperimento di Galileo prevedeva di porre due lanterne a una distanza di un miglio e di calcolare il tempo che la luce impiegava ad arrivare da un punto all’altro: insieme a un assistente prese una lanterna schermata e andò sulla cima di due colline che distavano un miglio. Galileo scoprì la sua lanterna, e l’assistente sull’altra collina, non appena vide la luce, scoprì a sua volta la lanterna.
Lo scienziato pisano avrebbe quindi dovuto misurare il tempo necessario per vedere la luce dall’altra collina e a quel punto sarebbe stato sufficiente dividere la distanza per il tempo per ottenere la velocità della luce.
L’esperimento non portò a nessun risultato: per percorrere un miglio, la luce impiega circa 0,000005 secondi, un valore immisurabile con gli strumenti a disposizione di Galileo.
La misurazione di Ole Rømer. Se però le distanze da far percorrere alla luce diventano più ampie, una misurazione è possibile anche con strumenti meno sofisticati. È proprio quanto fece Rømer nel 1676 osservando il moto di Io, una delle lune di Giove.
Io compie un’orbita completa intorno a Giove in 1,76 giorni. Rømer, però, si accorse che il tempo impiegato dalla luna non era sempre lo stesso. In certi periodi dell’anno, quando la Terra era più lontana da Giove, ci metteva più tempo; al contrario, quando Terra e Giove erano più vicini, la luna Io sembrava anticipare la sua rivoluzione.
La tesi di Rømer era semplice ma geniale: la differenza era dovuta alla velocità della luce: se questa non è infinita, allora deve impiegare un certo tempo per giungere da Giove alla Terra; quando la Terra è più lontana, ci mette più tempo.
Io, Giove e la terra. L’ipotesi di Rømer non era ben vista dal direttore dell’osservatorio, Gian Domenico Cassini. Allora Rømer, per convincere il proprio capo, annunciò che l’eclissi di Io, prevista per il 9 novembre 1676, sarebbe avvenuta 10 minuti prima dell’orario che tutti gli altri astronomi avevano dedotto dai precedenti transiti della luna.
La previsione si verificò puntualmente e Cassini dovette convincersi. Rømer spiegò che la velocità della luce era tale che aveva impiegato 22 minuti per percorrere il diametro dell’orbita terrestre. Rømer, che aveva un valore impreciso del diametro dell’orbita terrestre, calcolò la velocità della luce in 220.000 km al secondo, una misura non corretta (la velocità precisa è 299.792,458 km/s), ma certamente la più prima mai misurata fino ad allora.
L’anniversario del 7 dicembre. Rømer comunicò la sua scoperta alla Accademia delle Scienze e la notizia venne poi pubblicata il 7 dicembre 1676, data che viene oggi comunemente ricordata come quella della prima determinazione della velocità della luce.
Nel 1790 il matematico olandese Christiaan Huygens utilizzo l’idea di Rømer per calcolare il maniera più precisa la velocità della luce e riuscì a ricavare un valore numerico molto vicino a quello accettato oggi.
In seguito la velocità della luce è stata misurata dai fisici con precisione assoluta: un raggio luminoso viaggia nel vuoto a 299.792.458 metri al secondo. In un secondo potrebbe compiere sette giri e mezzo della Terra seguendo la linea dell’equatore.
Che fine ha fatto Rømer. Dopo il soggiorno parigino, nel 1681 fece ritorno in Danimarca, dove si mise a insegnare astronomia all’Università di Copenhagen. Degli scritti scientifici prodotti in quell’epoca non è rimasto quasi nulla: furono distrutti nel grande incendio divampato in città nel 1728. La sua passione per le unità di misura riguardò anche il quotidiano: in qualità di matematico reale fu il principale responsabile dell’introduzione di un sistema nazionale per i pesi e le misure in Danimarca nel 1683 (inizialmente basato sul "piede del Reno": ma nelle intenzioni di Rømer, si sarebbe dovuto riferire a costanti astronomiche, un risultato che si raggiunse solo dopo la sua morte).
Ideò inoltre una scala delle temperature che porta il suo nome: oggi non è più in uso, ma il fisico tedesco Daniel Gabriel Fahrenheit l’avrebbe usata come base per elaborare l’omonima scala. Negli ultimi anni della sua vita fu nominato capo della polizia di Copenhagen, e mentre riformava quell’organo dall’interno (perché ritenuto corrotto) non perse l’occasione di inventare qualcos’altro: i primi lampioni stradali - a olio - della città.
Più veloce della luce? In realtà non c’è cosa più veloce nell’universo della luce. Anzi, non può esserci nulla di più veloce, anche in linea teorica, come ha postulato Albert Einstein nella sua celebre teoria della relatività speciale. Dalle sue formule si deduce che in natura esiste un limite massimo di velocità. Ciò ha a che fare con la massa delle cose: ogni oggetto, secondo Einstein, aumenta la sua massa quanto più velocemente si muove (ovvero, oltre un certo limite, l’energia che spinge un oggetto si trasforma quasi tutta in massa e soltanto per una frazione sempre più piccola in velocità).
Questo diventa evidente solo a velocità elevate: se si potesse sparare nello spazio una palla da tennis della massa di 55 grammi a una velocità di 500 milioni di chilometri all’ora, la massa dell’oggetto aumenterebbe a 62 grammi. Se la velocità raggiungesse 1.079 milioni di km/h - corrispondente a circa il 99,98 per cento della velocità della luce - la massa della palla sarebbe di ben 2,5 chilogrammi.
Ogni ulteriore approssimazione alla velocità della luce farebbe aumentare la massa della palla, e al 99,9999 per cento sarebbe di 1,2 tonnellate. A quel punto, però, per imprimere un incremento di velocità sarebbe necessaria una forza immane. Per accelerare una grande massa, infatti, ci vuole più spinta di quanta ne occorra per una massa piccola.
In pratica: quanto più veloce è la palla, tanto maggiore diventa la massa, e di conseguenza più dispendiosa in termini di energia una sua ulteriore accelerazione. Fino alla situazione limite, in cui qualsiasi aumento di velocità richiederebbe un’energia maggiore di quella disponibile nell’universo: il non plus ultra della velocità che un corpo può raggiungere.
* FOCUS, 07 Dicembre 2016 (ripresa parziale).
La fine dell’universo interroga la filosofia
Da tempo sappiamo che il sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi di anni di vita residua della nostra stella. Ora abbiamo imparato che l’intero insieme delle galassie si regge su un equilibrio precario che si potrebbe rompere in qualunque momento. Per fare i conti con questa gigantesca vulnerabilità dobbiamo riprendere in mano la lezione dei presocratici, di Galileo e Newton. E di Einstein
di Guido Tonelli (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
In un recente articolo su questo giornale («Aristotele contro Hawking», 21 agosto), Carlo Rovelli ha sviluppato con argomenti convincenti il rapporto fra filosofia e scienza. Sono d’accordo su tutto quanto ha scritto. Vorrei solo aggiungere alcune considerazioni, a partire dalla frase di chiusura: «Una scienza che chiude le orecchie alla filosofia appassisce per superficialità; una filosofia che non presta attenzione al sapere scientifico del suo tempo è ottusa e sterile».
La filosofia nasce come cosmologia: da dove nasce il mondo, quale ordine segue e quale ruolo ha l’umanità in tutto questo. Ai nostri giorni invece, sembra che prevalga la spinta a concentrare le riflessioni filosofiche sull’analisi del linguaggio, o limitarle allo studio dei meccanismi epistemologici. Tutte cose importantissime beninteso ma, a mio modo di vedere, un poco riduttive e che eludono comunque la questione di fondo. Perché la filosofia moderna non può riprendere la grande eredità dei presocratici o quella di scienziati-filosofi come Galileo Galilei o Newton per non parlare di Einstein? Valutare cioè, e sottoporre a critica, l’immagine del mondo che scaturisce dalle ricerche scientifiche più avanzate e discuterne le conseguenze sul piano filosofico, etico, culturale.
Sappiamo che, con tutti i suoi limiti, che sono enormi, la scienza costituisce la visione del mondo più dettagliata e completa di cui disponiamo. Quando nel nostro campo avvengono grandi cambiamenti e nasce un nuovo modo di guardare alle cose, prima o poi cambia tutto, per tutti.
Abbiamo visto all’opera questo meccanismo più volte. L’esempio più eclatante si è avuto ai primi del Novecento, quando un gruppo di menti eccezionali ha prodotto, in pochi anni, rivoluzioni concettuali talmente profonde da modificare radicalmente il modo di pensare dell’umanità. Relatività e meccanica quantistica hanno fornito le basi per un modo nuovo di concepire la materia e l’Universo; un cambiamento di paradigma così radicale che ancora oggi, a distanza di un secolo, facciamo fatica a comprenderlo pienamente. Nel frattempo è cambiato tutto: la vita materiale delle persone, le relazioni sociali e quelle fra individui, la cultura in ogni suo aspetto, compresi coscienza di sé e percezione del mondo. Ed eccoci a Sigmund Freud e Paul Klee, Arnold Schoenberg e Luigi Pirandello e così via.
Ma il meccanismo è tuttora in azione, perché la scienza progredisce a ritmo incalzante e vorrei citare un paio di esempi. Cominciamo col fare un salto all’indietro di 13,8 miliardi di anni, un volo dell’immaginazione che ci riporta ai primissimi istanti di vita dell’Universo bambino. Le osservazioni più accurate finora effettuate ci indicano che tutto è nato da una microscopica, infinitesima fluttuazione quantistica del vuoto. Lo stato di vuoto non è il nulla. Anzi, può forse essere visto come un qualcosa che contiene già il tutto, un po’ come il silenzio non è, banalmente, assenza di suono, ma muto contenitore di tutti i suoni possibili, vibrazioni su tutte le frequenze, perfettamente accoppiate in opposizione di fase.
Come tutti gli stati anche il vuoto segue le leggi della meccanica quantistica. Non è immobile, statico, morto; al contrario, si agita, fluttua, seguendo una dinamica rigorosamente governata dal principio di indeterminazione. Le congetture più convincenti che siamo riusciti a produrre ci dicono che dovremmo immaginare il formarsi, al suo interno, di un brulichio di infinitesime fluttuazioni: microscopiche bollicine di dimensioni inferiori a quelle delle più minuscole particelle elementari. Quasi tutte si comportano in maniera educata e discreta. Ce n’è almeno una tuttavia, che ha fin da subito un comportamento assai bizzarro.
Anziché richiudersi e ritornare allo stato fondamentale si produce in una crescita parossistica. Sotto la spinta di una particella materiale che ha preso corpo al suo interno, tutto si gonfia a una velocità spaventosa. In un tempo ridicolmente piccolo la minuscola porzione di spazio-tempo diventa un qualcosa di dimensioni macroscopiche. Ci sono ancora molti lati oscuri sul meccanismo che chiamiamo inflazione cosmica , ma alcuni punti fermi sembrano raggiunti.
Trovo meraviglioso constatare che l’energia totale dell’Universo, abbia tuttora, dopo miliardi di anni, lo stesso valore zero che aveva all’inizio. Come se questo gigantesco, incredibile dettaglio ci dicesse, parafrasando la frase del poeta: «Ma non vedete che tutto è fatto della stessa sostanza dei sogni?» (William Shakespeare, The Tempest).
Abbiamo capito bene il meccanismo che ha portato la materia a formare corpi persistenti. Ancora una volta tutto è stato definito nei primissimi istanti di vita. È passato solo un attimo e la materia che compone il nostro Universo è già tutta lì, ma la forma in cui si presenta è completamente diversa da quella cui siamo abituati. Una specie di gas impazzito di particelle elementari, prive di massa e che si muovono alla velocità della luce riempie ogni angolo dello spazio-tempo appena nato. Ed ecco che succede qualcosa di molto strano. Non appena l’espansione furibonda degli istanti iniziali si placa e l’oggetto gigantesco che ne è nato si raffredda a sufficienza, una miriade di bosoni di Higgs condensa per sempre in un campo onnipresente. Il nuovo venuto cambia tutto. Le particelle elementari, che rimangono come invischiate nel campo dell’Higgs, si differenziano fra loro a seconda dell’intensità dell’interazione, e così facendo finiscono con l’acquistare masse irrimediabilmente diverse.
Alcuni quark, rimasti leggeri, si aggregheranno con gluoni a formare protoni stabili; intorno ad essi orbiteranno i leggerissimi elettroni e si potranno formare atomi e molecole. Così si sono prodotte le enormi nebulose gassose da cui sono nate le prime stelle e poi le galassie, e i pianeti e i sistemi solari fino ai primi organismi viventi, via via sempre più complessi, per arrivare, in ultima istanza, fino a noi.
Ed ecco che appare subito un’ipotesi che fa girare la testa. È bastato chiedersi che tipo di equilibrio reggesse questo vuoto elettrodebole che ha un ruolo così importante e si è fatta una scoperta strabiliante e inattesa. L’intero Universo sembra vivere in una condizione di equilibrio metastabile: tutto danza fragile e precario, vicino all’orlo del baratro.
Bastava poco a rendere tutto totalmente instabile: un bosone di Higgs appena più leggero e la microscopica lacerazione, che si era aperta pochi istanti prima, si sarebbe immediatamente richiusa e tutto sarebbe finito prima ancora di cominciare. Ma la sottile impalcatura potrebbe cedere di schianto anche ora, in un qualunque momento. Una delle spaventose catastrofi che interessano le galassie più lontane, potrebbe mettere in gioco energie talmente elevate da produrre un collasso locale del vuoto elettrodebole, e l’intero Universo svanirebbe in un’immane bolla di pura energia.
La ricerca scientifica più avanzata sembra stabilire una relazione fra la precarietà della condizione umana e quella dell’Universo nel suo complesso. Come se la nostra fragilità di essere umani fosse il riflesso, su scala microscopica, di una precarietà cosmica che interessa tutto: perfino le gigantesche strutture materiali che ci circondano e che, a prima vista, sembrerebbero immortali. «Non illuderti d’essere immortale - canta Orazio - t’ammoniscono gli anni e i giorni che passano in un attimo».
Dalla notte dei tempi l’umanità ha cercato di superare questa condizione. Da questo scacco sono nate le religioni, le filosofie e le grandi opere d’arte; produrre qualcosa che duri millenni, che sopravviva al breve ciclo della vita di ciascuno di noi: un cerchio di pietre megalitiche, una gigantesca piramide, un poema epico o una statua meravigliosa. Qualcosa che sfidi il tempo e avvicini le opere dell’uomo all’ immortalità della Terra, e degli astri celesti.
Da tempo sappiamo che il nostro sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi di vita residua della nostra cara stella. Ora abbiamo imparato che l’intero Universo si regge su un equilibrio precario che si potrebbe rompere in un qualunque momento. Ne vogliamo discutere le implicazioni? E chi meglio dei filosofi, degli umanisti, degli artisti lo potrebbe fare? Non è certamente lavoro per gli scienziati. Mancano loro le competenze adeguate e quello sguardo lungo che è necessario avere quando cambiano paradigmi che ci hanno accompagnato dagli albori della preistoria.
E quale nuova prospettiva potrebbe nascere da questa più profonda consapevolezza della intrinseca fragilità dell’intera struttura materiale che ci circonda? Cosa vorrebbe dire, sul piano etico, fare i conti con questa condizione di radicale, irriducibile vulnerabilità? Forse, anzitutto, prendere coscienza dei propri limiti e salvare la scienza stessa da quella specie di delirio di onnipotenza che ogni tanto sento serpeggiare qua e là. O magari ricavarne nuove e più profonde motivazioni a prendersi cura dei propri simili, avere rispetto dei viventi, riparare le ferite del pianeta e guardare con occhio diverso a quell’istinto predatorio che si nasconde ancora nel profondo dell’animo umano.
Il cervello di Einstein «fuori scatola»
di Giorgio Dell’Arti (Il Sole-24 Ore, 19.09.16
Cranio. Albert Einstein desiderava essere cremato. Quando morì, invece, il patologo Thomas Harvey, in gran segreto, operò un taglio sopra la fronte, asportò il cuoio capelluto, prese un seghetto e gli aprì il cranio. Il cervello fu poi riprodotto in 240 pezzi di un centimetro cubo.
Cervello. Il cervello di Einstein, 145 grammi in meno rispetto a quello di un uomo di pari corporatura.
Gravità. Einstein iniziò a pensare a una teoria della gravità il giorno in cui si mise a riflettere sul fatto che una persona, in caduta libera, non avverte il proprio peso.
Espressioni. L’uomo può dare forma a diecimila espressioni facciali.
Felicità. «A volte la tua felicità è l’origine del tuo riso, altre volte il contrario» (Thích Nh?t H?nh, maestro di buddismo).
Rallegriamoci. In Israele si pratica uno speciale tipo di danza in cerchio detta Hava Nagila, che tradotto significa “rallegriamoci”. A migliorare l’umore dei partecipanti sono i movimenti in verticale e i salti verso l’alto. Questa tecnica è stata anche sperimentata dalla psicologa Sabine Koch per curare i pazienti malati di depressione.
Battito. Il battito cardiaco dei coristi tende a sincronizzarsi con la musica e a raggiungere la stessa frequenza.
Temperatura. La temperatura del volto di due persone che casualmente si toccano aumenta da 0,1 a 0,3 gradi.
Freddo. Due psicologi dell’Università di Toronto avvalendosi di 65 studenti hanno dimostrato che la solitudine fa sentire “freddo”: «Chi aveva ripensato a un’esperienza di esclusione sociale sentiva la stanza notevolmente più fredda di chi aveva evocato delle esperienze positive. Il solo pensiero di essere tagliati fuori aveva raffreddato la percezione soggettiva degli interessati».
Memoria. Nella sua autobiografia lo scrittore austriaco di origini ebree Stefan Zweig descrive così la memoria: «Quello che un uomo ha assorbito durante l’infanzia dell’aria del suo tempo rimane in lui [...]. Anche dagli abissi dell’orrore nel quale noi oggi ci muoviamo, semiciechi, a tastoni, con l’animo sconvolto e dilaniato, io torno pur sempre ad alzare lo sguardo verso le antiche costellazioni che scintillavano nel cielo della mia infanzia e mi conforto con la fede innata che un giorno questa nostra ricaduta debba apparire soltanto un intervallo nel ritmo eterno del continuo progredire».
Sport. Alle ragazze sono sufficienti 12 minuti al giorno di sport per trarre benefici nel rendimento scolastico, soprattutto nelle materie scientifiche. Ai ragazzi ne servono 17, cinque in più. Idea. Secondi necessari alla mente umana per formarsi un’idea su una situazione: duecento millisecondi (Maja Storch)
Scatola. Per verificare la fondatezza dell’espressione outside the box, cioè pensare fuori dal comune, fu chiesto a un gruppo di persone di sedersi dentro uno scatolone di un metro e mezzo per un metro e mezzo e ad altri di restarne fuori. «Il risultato confermò la fondatezza dell’espressione inglese: [...] chi pensava “fuori dalla scatola” proponeva delle soluzioni molto più creative di chi stava dentro».
Cammino. «Se osserviamo bene una persona che cammina», scrive lo scrittore austriaco Thomas Bernhard, «sapremo anche come pensa. Se osserviamo bene una persona che pensa, sapremo anche come cammina. Se osserviamo a lungo e attentamente una persona che cammina, ci avvicineremo sempre di più al suo pensiero, alla struttura della sua mente».
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Notizie tratte da: Christian Ankowitsch, Perché Einstein non portava i calzini. Come dettagli (apparentemente) insignificanti influenzano il nostro pensiero, Vallardi, Milano, pp. 238, 14,90 euro.
Estratto dal libro “Perchè Einstein non Portava...
Foglietto illustrativo: che cosa potete aspettarvi da questo libro e che cosa potete (o non potete) fare con il suo aiuto
DI CHRISTIAN ANKOWITSCH *
Quando andate in farmacia e comprate una scatola di compresse, al suo interno troverete il bugiardino, dove c’è scritto a che cosa servono le pillole e quali effetti collaterali possono avere.
Perché non lo mettono anche nei libri? È un’ottima domanda. Così ho deciso di rompere il ghiaccio, anche se il mio foglietto illustrativo non si basa su approfonditi studi clinici, ma è il semplice tentativo dello scrittore di informare il lettore sulle proprie intenzioni.
Dunque, che cosa potete aspettarvi da questo libro? Esso vi offrirà una sorprendente spiegazione su come noi esseri umani sentiamo, pensiamo, decidiamo e agiamo.
La teoria centrale è la seguente: il nostro cervello non lavora in modo indipendente e autoreferenziale, come si è sempre affermato. Viceversa, è influenzato in modo determinante dal nostro corpo, dall’ambiente esterno e da situazioni concrete (e a sua volta il cervello influenza questi elementi in uno scambio continuo).
Concretamente significa, per esempio, che troviamo soluzioni migliori se gesticoliamo o che abbiamo idee vincenti quando ci troviamo in una stanza con il soffitto alto.
Questo libro vi offre inoltre numerosi spunti per migliorare la vostra vita grazie a strategie semplici, di facile attuazione, efficaci, rapide ed eleganti. Si potrebbero anche chiamare «astuzie», anche se questo termine non suona bene.
Molti di questi suggerimenti riguardano il corpo; per esempio, se ridete senza motivo vi sentirete più felici e se avete una postura eretta vi sentirete più sicuri di voi stessi. Possono sembrare suggerimenti banali e persino scontati, e un po’ lo sono. Eppure funzionano e sono scientificamente provati.
Sicuramente non sono frutto della mia fantasia, ma sono documentati da fonti sicure e attendibili. Da parte mia, ho cercato di presentare l’argomento nel modo più divertente possibile. Nelle note sono specificate le fonti delle teorie e dei consigli dati. Ma non preoccupatevi: non sarete costretti a leggere pagine e pagine stampate in caratteri microscopici per poter seguire il filo del discorso. Le note sono solo una garanzia di autenticità, se avete qualche dubbio in merito. Vale comunque la pena dar loro un’occhiata perché possono contenere informazioni interessanti.
Voglio dire ancora una parola ai lettori, che tante volte ho immaginato di trovarmi di fronte durante la stesura di questo libro: me li figuravo mentre si divertivano a capovolgere le loro convinzioni intuitive, provando e riprovando, e mentre abbandonavano l’idea che l’intelligenza dipendesse da un cervello ben allenato. Questa convinzione, pur essendo molto diffusa, è assolutamente falsa, per il semplice fatto che il nostro cervello non è un muscolo che possiamo allenare in palestra.
Il nostro cervello è un organo altamente complesso, un maestro delle connessioni, il cui lavoro è enormemente influenzato dal nostro corpo. Per compiere un simile miracolo valgono leggi diverse da quelle che funzionano per un semplice bicipite.
I suggerimenti forniti in questo libro sono concepiti per lettori in buona salute. Non bastano invece per risolvere problemi più seri! Per esempio, anche se ho dimostrato che saltando dal trampolino si possono ridurre gli stati depressivi, sarebbe assurdo sperare di curare definitivamente la malattia in questo modo. Per riuscirci, è necessario l’intervento di un professionista: i libri non bastano, è meglio rivolgersi a uno psicoterapeuta con esperienza o a un medico.
A questo punto, non mi resta che augurarvi una spassosa e proficua lettura.
Il vostro dottor Ankowitsch
P.S.: Qualcuno potrebbe chiedersi come mi è venuta l’idea di scrivere questo libro. Ebbene, molti anni fa lessi un breve articolo sulla «Neue Zurcher Zeitung»,- in cui si diceva che la nostra intelligenza non dipende soltanto da quanto siamo bravi a far di conto, ma anche dalla posizione delle nostre braccia, e che il nostro corpo la dice lunga su come ci sentiamo, pensiamo e agiamo.
Da allora quell’idea non mi ha più abbandonato. Senza rendermene conto, ho iniziato a fare delle ricerche raccogliendo articoli di giornale, studi e libri che affrontavano la questione del rapporto fra il corpo e la mente. Ancora oggi conservo articoli sull’argomento e salvo pagine Internet che promettono risposte stupefacenti. Lo faccio anche se il libro è finito, chissà, non si può mai sapere. Perchè Einstein non Portava i Calzini
Perchè Einstein non portava i Calzini
Lo sapevate che può bastare una breve passeggiata per favorire l’attenzione e sviluppare idee originali? Che chi ride, anche senza motivo, diventa di fatto più allegro? Che le idee vincenti ci vengono più facilmente in una stanza con il soffitto alto e che, se abbiamo in mano una tazza calda, siamo più bendisposti verso le persone intorno a noi?
Questo succede perché il nostro cervello non lavora in modo indipendente e autoreferenziale, come si è sempre affermato, ma è influenzato in modo determinante dal nostro corpo, dall’ambiente esterno e dalle situazioni concrete.
* CHRISTIAN ANKOWITSCH nato in Austria, dopo gli studi universitari e il PhD, è stato redattore del settimanale tedesco «Die Zeit». Attualmente vive a Berlino, dove è giornalista e scrittore di successo. Dal 2011 conduce la trasmissione letteraria «les.art» alla televisione austriaca e dal 2013 presenta il prestigioso Premio Ingeborg Bachmann.
* FONTE: MACROLIBRARSI
L’universo “ricostruito” con le equazioni di Einstein
di PIERO BIANUCCI (La Stampa, 28/06/2016)
Fino a ieri i cosmologi hanno scrutato l’universo con telescopi al suolo e nello spazio. Da qualche tempo un altro strumento è diventato indispensabile: uno stanzone pieno di computer opportunamente attrezzati con specifici programmi di simulazione. Senza simulazioni numeriche non sarebbe stato possibile riconoscere il “cinguettio” di onde gravitazionali emesso da due buchi neri che si fondono tra loro. Adesso per la prima volta due gruppi indipendenti di cosmologi sono riusciti a disegnare un modello dell’universo applicando in modo completo le equazioni di campo della relatività generale di Einstein. “Physics Review Letters”, la rivista della Società di Fisica americana, ha appena pubblicato i loro lavori.
Qual è la vera novità? Proviamo a spiegarlo così. Dal punto di vista della teoria gravitazionale di Newton si può risolvere con precisione assoluta il problema di come interagiscono due corpi. Con tre corpi già bisogna accontentarsi di soluzioni approssimate tranne in pochi casi individuati da Lagrange. Con n corpi, cioè con un numero di oggetti grande a piacere, si arriva tutt’al più a soluzioni grossolane a prezzo di pesanti semplificazioni. L’equazione della gravità di Newton è molto semplice: due corpi si attraggono con una forza direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Se dalla teoria di Newton si passa a quella di Einstein, cioè alla relatività generale, le equazioni da applicare sono molto più complicate perché tutto lo spazio - ma bisognerebbe parlare dello spazio-tempo - diventa “elastico” e viene variamente deformato in funzione di tutte le masse in gioco. Nel caso dell’universo intero, n masse, dove n è un numero enormemente grande. Anche in relatività generale i cosmologi sono andati avanti a colpi di semplificazioni, a mano a mano che le osservazioni rivelavano una struttura dell’universo a spugna: immense caverne apparentemente “vuote” delimitate da ammassi e super-ammassi di galassie collegati tra loro come le perline di una collana aggrovigliata.
Ma gli autori dei due articoli su “Physical Review Letters” non si sono concessi sconti: hanno sviluppato due nuovi codici per generare modelli numerici dell’universo il più possibile accurati tenendo conto degli effetti relativistici a grande distanza esercitati anche dalla distribuzione di masse a scala minore prima trascurate. In altre parole, applicando le equazioni di campo di Einstein, i due gruppi hanno creato software che descrivono la complessa struttura dello spazio-tempo “distorta” dalla materia in miliardi di punti dell’universo e nelle varie epoche della storia cosmica.
Lavori come questi potranno portare a una nuova visione del ruolo cosmico della gravità proprio mentre l’osservazione delle onde gravitazionali (anch’essa resa possibile, come accennato, da modelli di relatività generale numerica) sta verificando una delle previsioni della teoria che Einstein pubblicò cento anni fa.
I due team appartengono alla Case Western Reserve University e al Keynon College, Ohio. Di uno di essi fa parte Marco Bruni (Institute of Cosmolgy and Gravitation di Portsmouth (UK), che a sua volta collabora con Eloisa Bentivegna dell’Università di Catania, uno dei “cervelli in fuga” rientrati in Italia con le Borse Levi-Montalcini.
“Questo primo risultato - dice Bruni - è molto eccitante perché nei prossimi dieci anni avremo una valanga di nuovi dati grazie al censimento delle galassie reso possibile dalla futura generazione di super-telescopi e grazie ad altri satelliti che forniranno parametri cosmologici di alta precisione. Per trarne profitto però è necessario disporre di modelli dell’universo altrettanto precisi, come quelli a cui si sta lavorando.”
Si è sempre detto che il Big Bang e quel che ne è seguito - la formazione delle stelle e delle galassie - è un esperimento fatto dalla natura una volta sola, non ripetibile dagli scienziati. Adesso è un po’ meno vero. L’esperimento, virtualmente, si può rifare in un computer sotto la guida di Einstein. Se poi non andasse d’accordo con le nuove osservazioni che arriveranno nei prossimi decenni la faccenda diventa ancora più interessante: forse c’è una teoria migliore nascosta dietro l’angolo della relatività generale.
Einstein e Schrödinger
Amici in «entanglement»
Il sodalizio a Berlino, poi la separazione con la guerra. Ma il legame è sempre rimasto vivo all’insegna della comune critica all’interpretazione standard della meccanica quantistica
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 26.06.2016)
Nonostante la sua diffidenza nei confronti della meccanica quantistica (di cui era stato uno dei pionieri), nel 1931 Einstein candidò al Nobel Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger, i due creatori della nuova teoria. Nella lettera inviata all’Accademia svedese delle Scienze mise in particolare rilievo il contributo di Schrödinger, che per generazione e mentalità scientifica era più vicino a lui e, soprattutto, aveva formulato la meccanica quantistica in una versione che risultava più accettabile (e comprensibile) per chi, come il padre della relatività, possedeva una formazione fisica di tipo classico. Puntualmente, nel 1933, Heisenberg e Schrödinger, assieme a Paul Dirac, si ritrovarono a Stoccolma per ricevere il prestigioso riconoscimento: al primo andò retroattivamente il premio del 1932; gli altri due condivisero quello del 1933.
Schrödinger era allora collega di Einstein all’Università di Berlino, avendo occupato la cattedra lasciata libera per raggiunti limiti di età da Max Planck. Come racconta Paul Halpern in un bel libro dedicato al rapporto tra questi due giganti della fisica, Einstein e Schrödinger strinsero proprio nel periodo berlinese un forte legame di amicizia, cementato, oltre che da lunghe gite nei boschi e in barca a vela, dal comune interesse per i fondamenti e le implicazioni filosofiche della fisica. «L’uno e l’altro - scrive Halpern - si trovavano più a loro agio parlando di come le concezioni di Spinoza e di Schopenhauer si applicassero alla scienza odierna che discutendo degli ultimi risultati sperimentali». Inoltre, Schrödinger era uno dei pochi a simpatizzare con i dubbi di Einstein sull’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica, la «tranquillizzante religione di Heisenberg e Bohr».
L’avvento di Hitler separò i due amici: Einstein si trasferì negli Stati Uniti, a Princeton; Schrödinger, pur non essendo ebreo, lasciò la Germania nazista e accettò un posto a Oxford. Là, nel 1935, venne a conoscenza del lavoro che Einstein aveva scritto in collaborazione con Podolsky e Rosen per dimostrare che la meccanica quantistica era incompleta (cioè incapace di descrivere alcuni «elementi di realtà»). Fu, anche per lui, l’occasione per tornare sull’argomento, con un lungo articolo in cui formalizzò per la prima volta il concetto di entanglement (l’«intreccio» di certi sistemi quantistici, tali che una misura effettuata su una loro componente influenza istantaneamente le proprietà di un’altra componente) e introdusse il celeberrimo esperimento - fortunatamente solo ideale - del gatto.
All’interno di una scatola, il decadimento di un nucleo radioattivo provoca la fuoriuscita di veleno, fatale per un povero felino; quantisticamente il sistema è descritto da una sovrapposizione di due stati, nucleo non decaduto/gatto vivo e nucleo decaduto/gatto morto, e non si può dire con certezza se il gatto sia vivo o morto finché non si osserva l’interno della scatola: è questo atto che riduce il sistema a uno dei due stati, determinando il destino dell’animale.
Schrödinger riteneva di aver mostrato, con il suo esempio, a quali paradossi poteva condurre la meccanica quantistica se applicata a oggetti macroscopici, come un apparato di misura, o magari un essere vivente. Einstein fu entusiasta: «Il tuo esempio del gatto - scrisse all’amico e collega - mostra che siamo completamente d’accordo. Una funzione d’onda in cui sono compresi sia il gatto vivo sia il gatto morto non può essere considerata la descrizione di uno stato reale».
La fisica di Schrödinger e quella di Einstein continuarono a «intrecciarsi»” (è il caso di dirlo) ancora per lungo tempo. A partire dal 1939 Schrödinger si stabilì a Dublino su invito di Éamon de Valera, leggendario leader indipendentista e Primo ministro irlandese. Di professione insegnante di matematica, de Valera voleva che l’Irlanda riacquistasse prestigio mondiale in campo scientifico, rinverdendo la fama conquistata nell’Ottocento con il grande matematico William Rowan Hamilton. Per realizzare questo “Rinascimento gaelico” istituì a Dublino l’Institute for Advanced Studies, sulla falsariga dell’analogo centro di ricerca sorto a Princeton (che aveva Einstein come membro più illustre), e chiamò a farne parte Schrödinger, il quale, oltre a essere uno dei fisici più famosi del mondo, aveva ai suoi occhi il merito di aver basato il formalismo della meccanica quantistica proprio sulla funzione chiamata «Hamiltoniana».
Negli anni dublinesi, sotto l’ala protettrice e lo sguardo attento di de Valera, che non perdeva occasione per amplificare qualunque risultato scientifico conseguito in terra irlandese, Schrödinger coltivò principalmente due interessi: da un lato, lo studio dell’ereditarietà, con la straordinaria intuizione- divulgata nel famoso ciclo di lezioni Che cos’è la vita? - che l’informazione genetica fosse codificata in un «cristallo aperiodico» (il DNA, come si sarebbe poi scoperto, era qualcosa del genere), dall’altro la ricerca di una teoria unitaria delle forze.
Fu in quest’ultimo ambito che si consumò tra lui e Einstein (alle prese da tempo con lo stesso problema) una temporanea incomprensione: una sua intervista un po’ avventata al giornale di de Valera, in cui sosteneva di aver battuto il vecchio amico nella corsa alla teoria del tutto, provocò un’ondata di clamore mediatico e la risposta risentita di Einstein. Ci volle qualche anno per superare lo screzio, ma alla fine i due tornarono a fare quello che avevano sempre fatto: discutere di quanti e di filosofia.
«Le vite di Einstein e Schrödinger - conclude Halpern - mostrano la profonda umanità di due fra le menti più brillanti della fisica. Insieme con eccezionali lampi di genio vivono lunghi periodi in cui i loro ingranaggi girano a vuoto. [...] Forse, come Don Chisciotte e Sancho Panza, hanno finito per rincorrere mulini a vento. [...] Eppure, i compañeros rimasero attaccati l’un l’altro; se non sempre sotto i riflettori della stampa, certo nella profondità dei loro sentimenti». La grandezza di Einstein e Schrödinger si misura anche in questo: nella fecondità dei loro “insuccessi”. La loro critica serrata alla visione ortodossa della meccanica quantistica non ha prodotto alternative convincenti, ma ha sicuramente portato a una comprensione più completa e più profonda del reale.
L’Einstein di Barone
Unificare le forze, l’ultimo sogno
Una efficace biografia dello scienziato la cui rivoluzione produce ancora oggi effetti straordinari
di Luciano Maiani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.03.2016)
Gli ultimi anni hanno visto un ritorno eclatante di Albert Einstein nei media e nell’opinione pubblica. Il 2015 è stato proclamato dalle Nazioni Unite «Anno Internazionale della Luce», un’iniziativa globale per «richiamare l’attenzione sulle tecnologie ottiche che hanno promosso lo sviluppo sostenibile e forniscono soluzioni alle sfide mondiali nei campi dell’energia, dell’educazione, dell’agricoltura, della comunicazione e della salute». Celebrato con innumerevoli manifestazioni scientifiche e culturali, l’Anno della Luce rimandava idealmente al 1905, anno mirabile in cui Einstein aveva ipotizzato che la luce fosse trasmessa da corpuscoli elementari, i fotoni.
Nel 2016 stiamo invece celebrando il centenario della Teoria della Relatività Generale di Einstein, la teoria che ha rivoluzionato il nostro modo di rappresentare lo spazio-tempo, il cosmo e la gravità. Infine, poche settimane fa è stato dato l’annuncio della prima osservazione diretta delle onde gravitazionali previste da Einstein, originate dal moto accelerato di due buchi neri, da parte dell’osservatorio Ligo negli Stati Uniti, in collaborazione con Virgo, l’osservatorio realizzato dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dal CNRS francese, presso Cascina, in provincia di Pisa.
In questo quadro favorevole e con un notevole tempismo, si inserisce il bel libro di Vincenzo Barone Albert Einstein, il costruttore di universi. La letteratura su Einstein è veramente sterminata. Ma è composta, come recita la quarta di copertina, da «testimonianze classiche, corpose biografie e studi sull’opera scientifica», la maggior parte dei quali, aggiungo, sono difficilmente reperibili oggi. Ben venga dunque questo breve libro di Barone, che ci riporta, in un linguaggio piano e comprensibile, la figura, l’opera e la vita di uno degli eroi del nostro tempo, lo scienziato che ha innovato quanto nessun altro la visione del mondo trasmessa da Galileo e da Newton, e le cui idee sono di una attualità che cresce nel tempo, man mano che ci addentriamo nei misteri del Cosmo.
Einstein non fu solo uno scienziato, ma anche una figura pubblica che ha espresso la sua visione politica e morale sui grandi temi del suo tempo, il pacifismo, la guerra, la disubbidienza civile alle leggi ingiuste, la corsa al riarmo, le armi nucleari e i pericoli per l’umanità e per il pianeta. Le idee di Einstein hanno percorso il Novecento, ispirando generazioni di cittadini e di scienziati. Le generazioni che non lo hanno conosciuto, come la mia, hanno visto le sue idee riapparire, come un fiume carsico, riflesse nelle azioni delle persone più anziane e nelle istituzioni create intorno agli anni Cinquanta, come l’organizzazione Pugwash, nata dal manifesto Einstein-Russell sui pericoli delle armi nucleari, il Cern e altre istituzioni scientifiche internazionali.
Il libro ci riporta anche questo Einstein, politico e uomo pubblico, con citazioni e aneddotiche. Anche nella brevità del libro, emerge con freschezza una figura a tutto tondo, lontana dagli stereotipi e dai santini, un uomo del suo tempo, in sintonia con il vastissimo pubblico che ne seguiva gli scritti e i discorsi con attenzione e partecipazione.
L’influenza più duratura del pensiero di Einstein risiede senza dubbio nel campo delle scienze. Il libro ci fa capire chiaramente quanto profonda e diversificata sia stata la sua impronta. Il fotone ipotizzato nel 1905, scoperta premiata nel 1923 con il Premio Nobel, doveva avere le proprietà ondulatorie osservate dai fisici dell’Ottocento e confermate da innumerevoli esperimenti. Dalla necessità di conciliare le proprietà ondulatorie con la natura corpuscolare del fotone sarebbe nata, nei decenni successivi, la Meccanica Quantistica, il complesso di leggi che regolano il mondo microscopico sostituendo le leggi della meccanica classica di Newton e Maxwell.
Una riconciliazione problematica per molti, Einstein incluso, e che ancora oggi non cessa di stupirci («nessuno capisce la Meccanica Quantistica», è l’affermazione lapidaria di Richard Feynman in una famosa serie di lezioni degli anni Sessanta). Diversi anni dopo, nel 1916-17, Einstein sarebbe ritornato sulla questione dei fotoni, scoprendo che un fotone che incide su un atomo è capace, con una certa probabilità, di stimolare l’emissione di un secondo fotone, coerente con il primo. È quella che chiamiamo «emissione stimolata», il fenomeno alla base del laser, realizzato da Charles Townes nel 1954, lo strumento che, quanto e forse più del transistor, ha invaso la nostra vita quotidiana, affermandosi sempre più come uno strumento indispensabile di progresso.
La Teoria della Relatività Speciale, altro frutto degli anni in cui lavorava all’Ufficio Brevetti di Berna, è stata accolta all’inizio con diffidenza. Il Premio Nobel H. A. Lorentz, il primo ad applicare le leggi dell’elettromagnetismo alla fisica atomica, riporta le idee di Einstein solo nel capitolo finale del suo famoso libro sulla teoria dell’elettrone, come un tentativo ( di «un’audacia affascinante») di risolvere le difficoltà dell’elettrodinamica attraverso una revisione delle proprietà dello spazio e del tempo. Salvo aggiungere, nel 1915, una nota in cui candidamente dichiara che se dovesse riscrivere il capitolo avrebbe certamente dato più spazio alla teoria della relatività di Einstein.
Una delle conseguenze dedotte da Einstein dalla sua teoria è che se cediamo energia a un sistema di corpi, la massa inerziale complessiva del sistema aumenta di una quantità m, pari all’energia divisa per il quadrato della velocità della luce. Fu immediato dedurre la conseguenza che, nel verso contrario, se si poteva ridurre la massa di un sistema, un atomo o un nucleo, di una quantità m, si sarebbe ottenuta un’energia data dalla formula ormai nota a tutti: E=mc². Nelle unità che usiamo per la massa e per l’energia, il fattore di conversione è talmente grande che trasformando anche piccole quantità di massa si potrebbe ottenere energia in quantità straripanti.
A questa conclusione i fisici arrivarono rapidamente, tra questi Corbino e Fermi, collegandola alle differenze osservate tra le masse dei nuclei iniziali e finali nelle reazioni nucleari che proprio in quegli anni Rutherford e altri stavano scoprendo in laboratorio. Tuttavia, la possibilità di estrarre in modo efficiente energia dai nuclei appariva, ancora all’inizio degli anni Trenta, estremamente remota (Rutherford definì questa possibilità una sciocchezza). Si comprese però abbastanza presto che proprio la trasformazione di massa in energia, attraverso reazioni di fusione nucleare dei nuclei leggeri, poteva essere all’origine dell’energia emessa dal Sole.
Il resto della storia è raccontato con ampi dettagli nel libro di Barone. Alla fine del 1938 la scoperta della fissione nucleare. Immediatamente dopo, Enrico Fermi, ormai negli Stati Uniti, inizia le ricerche per realizzare la fissione nucleare controllata. Dopo l’invasione nazista della Polonia, nell’estate del 1939, i fisici Szilard, Wigner e Teller, convincono Einstein a scrivere al presidente Roosevelt una lettera per informarlo sulla possibilità che si possa realizzare una bomba estremamente potente basata su reazioni di fissione a catena e chiedergli di creare un organismo di collegamento tra l’amministrazione e gli scienziati che lavorano sulla fissione nucleare in America. La lettera si chiudeva con la preoccupazione che la Germania nazista stesse già preparando un tale ordigno, come si poteva supporre dalla proibizione di esportare uranio dalla Cecoslovacchia occupata e dalle strette relazioni di un eminente fisico nucleare, Von Weiszacker, con il governo tedesco. Dopo quattro anni, nasceva il progetto Manhattan e nel 1945 le esplosioni nucleari su Hiroshima e Nagasaki ponevano fine alla guerra tra Stati Uniti e Giappone.
Einstein, che non partecipò al progetto Manhattan, fu profondamente scosso e addolorato dall’evento e, per il resto della sua vita, lottò per un governo mondiale sovranazionale che ponesse fine alla corsa agli armamenti tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
La Teoria della Relatività Generale resta l’opera in cui il genio di Einstein si è manifestato in tutta la sua grandezza. Una teoria che non abbiamo ancora esplorato appieno, cento anni dopo, e che presenta aspetti che solo adesso riusciamo a raggiungere con i nostri mezzi sperimentali. Tra questi, le onde gravitazionali, la cui osservazione promette di aprire una nuova astronomia per studiare l’Universo dei primi istanti dopo il Big Bang.
E poi c’è la misteriosa accelerazione cosmica, rivelata solo di recente con lo studio della velocità delle galassie lontane. Einstein l’aveva chiamata costante «cosmologica», un’aggiunta alle sue equazioni della relatività generale che avrebbe permesso di equilibrare, su grandi distanze, l’attrazione gravitazionale dei corpi celesti e ottenere così un Universo stazionario, quale sembrava essere l’Universo nei primi decenni del Novecento. La scoperta di Hubble (1924) che le galassie si allontanano da noi a velocità crescenti con la distanza che ci separa aveva rivalutato le originali equazioni di Einstein e tolto la base fisica alla costante cosmologica (il più grave sbaglio della mia carriera, la definì egli stesso). Riprendevano fiato le investigazioni di Friedmann (1922) e quelle successive dell’abate Lemaitre (1927), che avevano esplorato gli universi in espansione previsti dalle equazioni di Einstein con o senza costante cosmologica.
Al momento, il significato della costante cosmologica misurata, che molti chiamano «energia oscura», e il suo ruolo nell’architettura dell’Universo, ci sfuggono e promettono di essere una delle sfide per la scienza del futuro, insieme alla completa unificazione delle forze presenti in Natura, l’ultimo sogno inseguito da Einstein senza successo.
Forse ci vorrà un nuovo «Costruttore di Universi» per fare luce su questi misteri. Per ora, per descrivere la straordinarietà della vita e dell’opera di Albert Einstein, possiamo citare le parole che egli stesso ha scritto a proposito di Gandhi: le generazioni future stenteranno a credere che un tale uomo abbia camminato in carne ed ossa su questa terra.
L’ultima verifica sperimentale
Sull’onda di Einstein
Nel centenario della relatività generale, due giganteschi rivelatori hanno captato per la prima volta le onde gravitazionali, i sussulti dello spazio-tempo
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 ore, Domenica, 14.02.2016)
Le indiscrezioni si susseguivano da settimane, e finalmente giovedì scorso è arrivata la comunicazione ufficiale. A un secolo esatto dalla predizione teorica, dovuta ad Albert Einstein, due giganteschi rivelatori hanno captato per la prima volta i sussulti dello spazio-tempo, le onde gravitazionali. Il risultato, di importanza epocale, è il frutto di un’analisi effettuata congiuntamente dalla collaborazione americana Ligo, responsabile degli strumenti che hanno rivelato le onde, e dalla collaborazione europea Virgo (cui partecipa, in posizione di primo piano, il nostro Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), che ha il proprio rivelatore a Cascina, vicino a Pisa. Vengono le vertigini (e i brividi) a pensare che ciò che è stato osservato non è, come è sempre successo finora, qualcosa che si propaga nello spazio-tempo, ma lo spazio-tempo stesso, che si increspa come la superficie di uno stagno quando vi gettiamo un sasso.
Nel caso delle onde gravitazionali, i sassi sono rappresentati da eventi cosmici estremi, che coinvolgono oggetti incredibilmente massicci. L’onda scoperta da Ligo è stata prodotta dalla fusione di due buchi neri a più di un miliardo di anni luce dalla Terra. In questo evento, una massa pari a quella di tre Soli si è convertita (sempre Einstein!) in una quantità inimmaginabile di energia di radiazione gravitazionale, diluitasi poi in tutto l’universo e giunta fino a noi come un impercettibile refolo.
A immaginare per primo le «onde gravifiche» (così le chiamava) fu, nel 1905, il fisico matematico francese Henri Poincarè, che però le inserì in un contesto sbagliato, quello della teoria oggi nota come relatività ristretta. Le vere onde gravitazionali furono previste da Einstein come conseguenza della «seconda» relatività, la relatività generale, nel giugno del 1916. Per molto tempo, tuttavia, il loro status teorico rimase dubbio (l’illustre astrofisico britannico Arthur Eddington diceva che viaggiavano «alla velocità del pensiero»).
Lo stesso Einstein, tornando nel 1936 sulla questione, ebbe un ripensamento e si convinse che le onde gravitazionali non esistessero. Spedì il lavoro che conteneva questa conclusione a una rivista americana, la Physical Review, la quale lo sottopose, come di consueto, al giudizio di un revisore anonimo, che diede parere negativo alla pubblicazione, segnalando un errore nel ragionamento. Einstein, non abituato alla peer review, si indispettì per la procedura . Scrisse al direttore della rivista dicendo di non averlo autorizzato a mostrare il lavoro ad altri. «Non vedo alcuna ragione - aggiunse - per replicare ai commenti, comunque erronei, del vostro esperto. A causa di questo incidente preferisco pubblicare l’articolo altrove».
Ma il revisore - che era probabilmente Howard Percy Robertson, uno dei massimi specialisti di relatività aveva ragione, e quando Einstein corresse l’errore, le onde gravitazionali tornarono a esistere (su un’altra rivista). Fu evidente fin dall’inizio, tuttavia, che dovevano essere debolissime e molto difficili da osservare, e per alcuni decenni nessuno se ne occupò più.
Ci vollero, negli anni Sessanta, l’ingegno e l’ostinazione di un fisico americano, Joe Weber, per aprire la via alla ricerca sperimentale delle onde gravitazionali. Weber ideò delle «antenne» costituite da grandi cilindri di metallo che avrebbero dovuto vibrare all’arrivo di un’onda. Fu un’invenzione importante, ma nel 1969 Weber incappò in un infortunio opposto a quello di Einstein: sostenne di aver visto in abbondanza, per di più delle onde che non c’erano (si trattava di falsi segnali). Le antenne di Weber hanno comunque svolto un ruolo notevole, lasciando poi il posto a una nuova generazione di rivelatori molto più sensibili, gli interferometri laser, sviluppati a partire dagli anni Ottanta negli Stati Uniti da Rainer Weiss e Ronald Drever, fondatori di Ligo, e in Italia da Adalberto Giazotto, il “padre” di Virgo.
Deformando lo spazio-tempo, un’onda gravitazionale modifica le distanze e le dimensioni degli oggetti. L’effetto è minuscolo, dell’ordine di un miliardesimo del diametro atomico. Per osservare distorsioni spaziali così piccole, gli interferometri usano due fasci laser perpendicolari, che vengono inviati su e giù, in tubi a ultra-vuoto lunghi alcuni chilometri; se un’onda gravitazionale modifica le distanze percorse nelle due direzioni, i fasci vanno fuori fase e producono una figura di interferenza. È come misurare la distanza della Terra da Sirio con una precisione pari allo spessore di un capello: per quanto sembri incredibile, gli interferometri Ligo e Virgo sono in grado di farlo.
Una conferma indiretta dell’esistenza delle onde gravitazionali era già venuta nei decenni scorsi dallo studio della pulsar binaria PSR 1913+16, un sistema costituito da due stelle di neutroni che ruotano l’una attorno all’altra, il cui periodo orbitale varia a causa dell’emissione di energia sotto forma di radiazione gravitazionale. Ma la rivelazione diretta delle onde gravitazionali, inaugurata dal lavoro delle collaborazioni Ligo e Virgo, oltre a rappresentare il coronamento sperimentale della relatività generale, apre prospettive astrofisiche e cosmologiche esaltanti. Finora l’universo è stato esplorato soprattutto per mezzo delle onde elettromagnetiche (luce, radiazione infrarossa, raggi X, ecc.). Le onde gravitazionali spalancano una nuova importantissima finestra sugli aspetti più misteriosi del cosmo e sui suoi primi vagiti.
Nel 1931 Einstein visitò l’osservatorio di Mount Wilson in California, dove ebbe modo di ammirare il telescopio da due metri e mezzo (all’epoca il più grande al mondo) con cui Edwin Hubble aveva scoperto l’espansione dell’universo. Alla moglie Elsa che lo accompagnava, qualcuno disse che gli astronomi usavano quello strumento per svelare i segreti del cosmo. «Mio marito lo fa su un pezzo di carta», rispose candidamente lei. Era vero, ma le teorie devono essere convalidate dagli esperimenti.
Ci sono voluti cento anni, due rivelatori lunghi chilometri e un immenso sforzo scientifico e tecnologico per verificare la predizione delle onde gravitazionali fatta nel 1916 su un pezzo di carta. Ma ne è valsa la pena, e nessuno avrebbe potuto immaginare una festa di compleanno più bella per la teoria einsteiniana.
Un Nobel alla memoria per Einstein
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 14.02.2016)
Ha fatto scalpore nei media la notizia, arrivata giovedì scorso, della rilevazione di onde gravitazionali. Uno scalpore forse eccessivo, per due motivi. Anzitutto, perché si è trattato di un’osservazione sperimentale, e non di una previsione teorica. E poi, perché si è trattato di una conferma, e non di una smentita. In altre parole, tutto è in ordine nella Relatività generale che Albert Einstein formulò un secolo fa, nel novembre del 1915.
La stessa cosa era successa nel 2012 con l’osservazione del bosone di Higgs, anch’esso previsto mezzo secolo prima. Quella volta la conseguenza era che tutto è in ordine con la meccanica quantistica, che lo stesso Einstein aveva contribuito a formulare. Ma non da solo, come per la Relatività, bensì in un processo collettivo che coinvolse alcune delle più belle menti della fisica del Novecento.
Non è facile prevedere se gli osservatori delle onde gravitazionali prenderanno ora il premio Nobel. Quelli del bosone di Higgs non l’hanno preso, perché nel 2013 è stato premiato Higgs stesso: colui che l’aveva previsto, cioè, non coloro che l’hanno confermato.
Semmai un premio Nobel dovrebbe andare alla memoria a Einstein, che vinse il suo nel 1921, ma non per la relatività. Anzi, finora nessuno l’ha mai preso in quel campo, e forse sarebbe ora di rimediare: le onde gravitazionali potrebbero infine offrire un’occasione.
Onde gravitazionali, concepibili i viaggi nel tempo
Attraverso i buchi neri, come quello al centro della Via Lattea *
Viaggiare nello spazio e nel tempo, tuffandosi nei buchi neri e sfrecciando all’interno di un cunicolo spaziotemporale, un wormhole come quelli immaginati nel film Interstellar: sembra fantascienza, ma molto probabilmente tutto questo "diventa concepibile" dopo la scoperta delle onde gravitazionali. "Si apre un mondo per la ricerca. Anzi, si potrebbero aprire più mondi", ha detto Salvatore Capozziello, dell’università Federico II di Napoli, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e presidente delle Società Italiana di Relatività Generale e Fisica della Gravitazione (Sigrav).
"Le onde gravitazionali che adesso siamo in grado di intercettare sono direttamente connesse con la struttura degli oggetti che le emettono, vale a dire - ha spiegato l’esperto - posso desumere da un’onda gravitazionale le caratteristiche dell’oggetto che la emette". Diventa possibile costruire una nuova mappa del cielo: finora avevamo solo quella basata sulla luce visibile, o sui raggi X, o sull’infrarosso, e adesso si può costruire la mappa basata sulle onde gravitazionali.
"E’ appena l’inizio di una lunga storia", ha rilevato Capozziello, perchè una mappa del genere potrebbe essere fatta di una miriade di oggetti che finora sono stati invisibili. Non solo: finora i buchi neri erano solo oggetti teorici previsti dalla teoria della relatività generale; adesso sono oggetti reali. Ne sono state appena visti due, distanti 1,3 miliardi di chilometri, fondersi in un nuovo buco nero. E’ stato ascoltato il loro suono, ne sono state calcolate dimensioni e distanza. Che cosa significa tutto questo, a che cosa potrebbe servire? Sicuramente sono conoscenze senza precedenti e rivoluzionare, ma potrebbe esserci altro".
"Sappiamo - ha detto l’esperto - che i buchi neri sono così densi che non emettono luce e che qualsiasi cosa cada al loro interno non può più uscire". A questo punto bisogna fare i conti con il principio di conservazione dell’energia, per il quale "tutte le grandezze nel buco nero vengono preservate. Vale a dire che tutto ciò che viene ingoiato dal buco nero finisce da un’altra parte a formare un buco bianco".
All’interno del buco nero si forma un cunicolo spaziotemporale, un wormhole. Anche questi oggetti fantascientifici sono previsti dalle equazioni di Einstein, proprio come le onde gravitazionali. Queste ultime aiuteranno a trovarli, per esempio confermando o meno se il buco nero Sagittarius A che si trova al centro della Via Lattea è in realtà un wormhole, come alcuni calcoli indicano.
Viaggiare al loro interno, ha spiegato, potrebbe deformare l’ordine in cui siamo abituati a vivere passato, presente e futuro. "Tutto questo - ha aggiunto - è pura fisica teorica, ma se un domani si riuscisse a vedere un wormhole, significherebbe aver trovato il modo di viaggiare non solo nello spazio, ma nel tempo".
Einstein vince 100 anni dopo
di Giovanni Bignami (la Repubblica, 12.02.2016)
L’AFFASCINANTE paradosso dell’Universo è che è tenuto insieme, anzi dominato, dalla forza più debole che ci sia: la gravità. È QUELLA che fa cadere i sassi, tiene legata la Luna alla Terra, fa girare le stelle nella Galassia e le galassie nell’Universo. È anche quella che ci fa soffiare quando portiamo il sacco in salita (e allora non ci sembra così debole...). Insomma, dai tempi di Newton pensavamo di conoscerla bene. Poi venne Einstein un secolo fa e cambiò tutto. Capì che il mondo in cui viviamo è un continuo spazio-temporale, dove il tempo è una dimensione come lo spazio. E la gravità influenza in modo palpabile il nostro mondo: stando in riva al mare vediamo salire la marea, cioè la prova che gli oggetti celesti si influenzano a vicenda attraverso la gravità.
Adesso abbiamo finalmente l’evidenza dello tsunami gravitazionale: quando in cielo avviene una perturbazione abbastanza forte dello spazio tempo, Einstein disse, partono delle onde, appunto di gravità, che si propagano alla velocità della luce e causano deformazioni misurabili (appena appena). Abbiamo aspettato un bel po’, ma il gruppo Usa (in realtà di 25 nazioni) di Ligo ieri ha annunciato di averle misurate. Complimenti, a loro e ad Einstein...
Il punto centrale, adesso, è capire da dove provengono. Perché sono un fenomeno astronomico, prima di tutto. Secondo gli autori, gli oggetti responsabili erano due, diventati uno: due buchi neri pesanti circa 30 volte il Sole che si sono fusi in uno solo, stiracchiando in modo evidente lo spazio intorno a loro e poi via via fino a noi, alla velocità della luce.
A prima vista, ci vuole fortuna. Perché buchi neri di quella massa, nella storia della astronomia, non erano mai stati osservati. Né tantomeno un sistema binario di due buchi neri così, ancora più raro. Osservarlo poi proprio nel momento finale della sua vita, è ancora più raro. E che questo succeda appena hai acceso il tuo rivelatore nuovo di zecca... Ma la fortuna aiuta gli audaci, si sa, e quelli di Ligo sono proprio bravi e hanno lavorato bene. Hanno visto le onde gravitazionali, ma anche dimostrato l’esistenza di oggetti celesti sconosciuti.
La rivelazione apre una nuova astronomia, su un nuovo Universo, perché non è basata su onde elettromagnetiche (vedi la luce), come l’astronomia tradizionale. Proprio qui nascono le difficoltà. Le onde gravitazionali passano e non tornano più, sono come il gatto che sorride in Alice nel Paese delle Meraviglie. Per una conferma, che nella scienza non guasta mai, bisognerebbe trovare il gatto, o quel che ne resta, che pure deve essere nascosto da qualche parte. Ma il pezzo di cielo dal quale le onde sembrano provenire è enorme, e andrebbe scandagliato a fondo: un po’ come cercare un ago in un grosso pagliaio, guardandolo attraverso una cannuccia da bibite. Gli astronomi hanno una lunga esperienza di ricerche un po’ folli, e sono già al lavoro.
Eppure le onde gravitazionali avevano ereditato una enorme energia dall’abbraccio mortale dei due buchi neri: 50 volte quella di tutte le stelle dell’Universo, anche se solo per un cinquantesimo di secondo. Al loro arrivo sulla Terra, dopo un viaggio di più di un miliardo di anni, è bastata per deformare, anche se di pochissimo, i due rivelatori di Ligo, uno in Louisiana e una nello Stato di Washington. Tra l’altro, il tempo intercorso tra le due rivelazioni è giusto il tempo che ci vuole a traversare gli Usa alla velocità della luce.
Una nuova astronomia, dunque, nata anche grazie alla fortuna. Speriamo ci siano presto altre rivelazioni, che aiuterebbero molto a credere a fondo nella prima. A parte Ligo, altri rivelatori, in Italia (Virgo, in collaborazione con la Francia) come in Giappone e in Australia, saranno presto in azione, e poi l’Esa andrà a cercarle nello spazio, con la missione Lisa. Ieri abbiamo forse visto la decisione su un premio Nobel in diretta (sono stati attenti a dire che i padri della scoperta erano giusto tre...) e comunque abbiamo vissuto un momento storico per l’astronomia e per la scienza.
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Presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica fino al 2015, è membro dell’Accademia dei Lincei. Il suo ultimo libro è “ Oro dagli asteroidi e asparagi da Marte”, edito da Mondadori
di Giovanni Amelino-Camelia (la Repubblica, 12.02.2016)
Dopo il bosone, ecco le onde gravitazionali: due scoperte che ci aiutano a capire le nostre leggi della natura. Questi ultimi anni sono stati molto fortunati per la fisica: se la particella di Higgs era uno dei tasselli mancanti del formidabile “modello standard” (che descrive le interazioni non gravitazionali tra particelle), queste onde erano, fino a ieri, il tassello mancante nella nostra descrizione dei fenomeni gravitazionali, che con Einstein abbiamo imparato a basare sulla relatività generale.
Le aspettavamo da un secolo esatto: la loro esistenza era stata infatti una delle prime predizioni ottenute lavorando con la relatività generale. Einstein aveva completato la formulazione matematica della sua celebre teoria alla fine del 1915 e tra le ipotesi che ricavò pochi mesi dopo c’era già quella delle onde gravitazionali.
Per illustrare intuitivamente quanto è centrale il ruolo che hanno nella struttura logica della relatività generale uso un’analogia già proposta su queste pagine. Fino a quel 1915 lo spazio e il tempo erano visti come un’entità statica: con la relatività generale si capisce, invece, che lo spaziotempo ha una sua dinamica ed in particolare che la materia curva lo spaziotempo.
Questo aspetto dei fenomeni gravitazionali è analogo al caso in cui si tiene ben teso un telo piuttosto grande e si gioca a piazzare delle sferette sul telo. Se si posizionano due sferette sul telo, una magari molto leggera, l’altra più pesante, si nota con facilità che quella più pesante curva il telo (in realtà anche quella meno pensante curva un pò il telo ma in maniera non apprezzabile). La sferetta meno pesante “cade” su quella più pesante proprio a causa di come quella pesante ha deformato il telo.
Le onde gravitazionali hanno un ruolo centrale nel confermare la struttura matematica della relatività generale: se davvero lo spaziotempo è come un telo deformabile, allora, in determinate condizioni, si dovranno produrre delle onde di spaziotempo, proprio come giocando con un telo non è difficile produrre delle onde che lo attraversano.
La sfida di verificare questa fondamentale predizione è stata la sfida più grande che la scienza abbia affrontato con successo, anche se ci ha impiegato un secolo. Ed è stata così ardua perché la “tensione del telo spaziotemporale” è elevatissima, molto più grande di quanto la nostra immaginazione possa contemplare.
La matematica della relatività generale predice queste onde ma predice pure che la loro intensità sia bassissima, anche quando la materia che le produce è molto pesante ed in brusca evoluzione, come nel caso della furiosa danza finale che si verifica quando due buchi neri collassano l’uno sull’altro.
Ce l’abbiamo fatta grazie alle migliori tecnologie finora disponibili, grazie a un apparato di misura che essenzialmente si sviluppa su due tubi, ciascuno lungo 4 chilometri, e grazie alla dedizione di un migliaio di fisici di tanti paesi, con un ruolo molto importante per quelli italiani.
La particella di Higgs e le onde gravitazionali sono due importantissime “scoperte attese”: non ci hanno sorpreso ma averle finalmente raggiunte ci rassicura che le teorie che stiamo utilizzando siano davvero un punto di partenza affidabile per le sfide future della fisica.
Per rendere straordinario questo periodo ci vorrebbe adesso una “scoperta inattesa”, un nuovo fatto sperimentale che allo stesso tempo ci sorprenda e ci indichi la strada da seguire per andare oltre i modelli teorici che stiamo utilizzando. Qualcosa che ci avvicini alla risposta delle grandi questioni irrisolte, come la materia oscura e la gravità quantistica.
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L’autore è un fisico. Insegna all’Università La Sapienza di Roma
Scoperte onde gravitazionali, aperta nuova pagina della fisica
Grazie alla collisione tra due buchi neri di 1 miliardo anni fa
di Redazione *
Sono state scoperte le onde gravitazionali previste da Einstein. Le ha rilevate lo strumento Ligo (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory), in Usa, e i dati sono stati analizzati dalle collaborazioni internazionali Ligo e Virgo. Quest’ultima fa capo allo European Gravitational Observatory (Ego) fondato e finanziato da Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e Consiglio nazionale delle ricerche francese (Cnrs). L’annuncio è stato dato oggi a Cascina (Pisa), dove si trova lo strumento Virgo. La scoperta, pubblicata online sulla rivista Physical Review Letters, in un articolo liberamente accessibile, e in altri 12 articoli sul sito ArXiv, è stata annunciata oggi contemporaneamente negli Stati Uniti e in Italia, a Cascina. "E’ la prima rilevazione diretta delle onde gravitazionali" ed "apre un nuovo capitolo dell’astronomia", ha detto all’ANSA il coordinatore della collaborazione scientifica Virgo, Fulvio Ricci, presentando i dati.
Previste un secolo fa da Albert Einstein, le onde gravitazionali sono le increspature dello spazio-tempo generate da eventi cosmici violenti, proprio come le onde prodotte quando si lancia un sasso in uno stagno.
E’ stata la collisione tra due buchi neri avvenuta un miliardo di anni fa a provocare il primo segnale delle onde gravitazionali mai scoperto, rilevato dalle antenne dello strumento Ligo ed analizzato fra Europa e Stati Uniti dalle collaborazioni Ligo e Virgo, alla quale l’Italia partecipa con l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). Per la fisica è un risultato senza precedenti. Il risultato è doppiamente sorprendente perché, oltre a confermare l’esistenza delle onde gravitazionali, fornisce anche la prima prova diretta dell’esistenza dei buchi neri. "Abbiamo osservato il primo evento in assoluto nel quale una collisione non produce dati osservabili, se non attraverso le onde gravitazionali", ha detto all’ANSA il coordinatore della collaborazione Virgo, Fulvio Ricci. Tutto, ha aggiunto, "è durato una frazione di secondo, ma l’energia emessa è stata enorme, pari a 3 masse solari".
I due buchi neri formavano una ’coppia’, ossia un sistema binario nel quale l’uno ruotava intorno all’altro. "Avevano una massa rispettivamente di 36 e 29 volte superiore a quella del Sole. Si sono avvicinati ad una velocità impressionante, vicina a quella della luce. Più si avvicinavano, più il segnale diventava ampio e frequente, come un sibilo acuto; quindi è avvenuta la collisione, un gigantesco scontro dal quale si è formato un unico buco nero. La sua massa è la somma di quelle dei due buchi neri, ad eccezione della quantità liberata sotto forma di onde gravitazionali.
Il primo segnale che conferma l’esistenza delle onde gravitazionali è stato rilevato dallo strumento americano Ligo il 14 settembre 2015 alle 10, 50 minuti 45 secondi (ora italiana), all’interno di una finestra di appena 10 millisecondi. "Avevamo in mano l’indicazione di aver registrato qualcosa di molto significativo", ha detto il coordinatore della collaborazione scientifica Virgo, Fulvio Ricci. Il segnale rilevato da Ligo è stato intercettato in Europa, dall’italiano Marco Drago, mentre era in Germania, ad Hannover, di turno nel centro di calcolo nel quale arrivano i dati delle due collaborazioni. Ha immediatamente mandato una mail dicendo: "c’è grosso evento, per caso è successo qualcosa di strano nell’interferometro?" E’ stato subito chiaro che si trattava di qualcosa di nuovo. "E’ stato un evento piuttosto intenso e particolarmente interessante - ha rilevato Ricci - perché nella prima parte era una sorta di funzione oscillante, che aumentava progressivamente di frequenza e ampiezza, fino a raggiungere un picco per poi decrescere progressivamente fino a spegnersi". Rilevare un segnale così debole in modo così preciso è stato possibile grazie all’aggiornamento tecnologico che aumentato la sensibilità degli strumenti di prima generazione dei rivelatori Ligo.
* ANSA Scienza&Tecnica 11 febbraio 2016 (ripresa parziale).
Einstein aveva ragione (ancora una volta)
Ecco le onde gravitazionali
Rilevata una “vibrazione dello spazio-tempo” dai ricercatori americani insieme a italiani e francesi
L’annuncio è previsto per giovedì
di Elena Dusi (la Repubblica, 09.02.2016)
ROMA «A cento anni dalla previsione dell’esistenza delle onde gravitazionali formulata da Einstein, la comunità scientifica e la stampa sono invitate per fare il punto sulla ricerca». L’appuntamento è per giovedì 11 febbraio alle 10,30 di Washington, le 16,30 italiane. E sulla natura dell’annuncio le aspettative sono davvero alte. L’osservatorio americano Ligo avrebbe infatti per la prima volta osservato un’onda gravitazionale: un’increspatura della trama dello spazio- tempo causata da uno degli eventi cataclismici dell’universo: fenomeni talmente violenti da «scuotere i pilastri del cosmo», farli vibrare e far schizzare via queste vibrazioni alla velocità della luce.
Se le anticipazioni fossero confermate, mai come in questo caso si potrebbe parlare di “scoperta del secolo”. Albert Einstein infatti formulò la sua teoria generale della relatività - in cui è inclusa la previsione delle onde gravitazionali - nel 1916. Esattamente cento anni prima rispetto alla data della presunta osservazione (avvenuta nell’autunno dell’anno scorso).
All’annuncio di giovedì, oltre agli scienziati americani di Ligo che hanno fatto l’osservazione diretta, parteciperanno anche i fisici italiani di Virgo, che nella campagna di Pisa, a Càscina, gestiscono un osservatorio del tutto simile sotto l’egida dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e del Centre National de la Recherche Scientifique francese. Virgo, al momento dell’osservazione, era chiuso per il potenziamento dei suoi apparati. Ma gli scienziati italiani hanno condiviso con i colleghi Usa l’analisi dei dati, e i due gruppi sono coordinati per fare una sorta di “staffetta” delle osservazioni.
L’onda gravitazionale captata da Ligo, secondo fisici che hanno avuto visione diretta della ricerca, sarebbe partita da due buchi neri che si sono avvicinati fino a fondersi l’uno con l’altro. La forza di gravità in questo processo raggiunge valori talmente intensi da piegare la trama dello spazio-tempo e fa partire un’onda gravitazionale abbastanza grande da poter essere captata dagli strumenti terrestri.
I due buchi neri, secondo le indiscrezioni, non erano particolarmente grandi: 36 volte la massa del Sole uno e 29 l’altro. Man mano che si sono avvicinati, la frequenza delle onde gravitazionali sarebbe aumentata, per poi cessare di colpo al momento della fusione. Alla fine del processo sarebbe rimasto un unico buco nero da 62 masse solari. Le altre tre corrisponderebbero all’energia dissipata per formare le onde gravitazionali.
Catturare una “vibrazione dello spazio-tempo” non è affatto impresa facile. «La nostra è una sorta di astronomia dei cataclismi» spiega Adalberto Giazotto, il fisico dell’Infn che ha visto nascere l’osservatorio di Càscina. Gli scienziati ci provano dagli anni ‘60, mentre Ligo e Virgo sono attivi rispettivamente dal 2004 e dal 2003.
I due strumenti si chiamano in gergo «interferometri a raggi laser». Sono formati da due tunnel disposti a “elle” e lunghi vari chilometri: 3 nel caso di Virgo, 4 nel caso dei due osservatori di Ligo, costruiti uno in Louisiana e uno nello stato di Washington. All’interno di questi tunnel viene sparato un raggio laser, che rimbalza attraverso una serie di specchi e raggiunge l’intensità di migliaia di lampadine. La calibrazione di questi specchi avviene in maniera precisissima, così come totale è l’isolamento sismico: il segnale, in condizioni normali, deve tornare esattamente dove è partito.
Fulvio Ricci, fisico dell’università La Sapienza a Roma, dell’Infn e “spokesperson” (cioè coordinatore) di Virgo spiega che «il tunnel è mantenuto completamente sotto vuoto. Anche un granello di polvere potrebbe disturbarci». Al passaggio di un’onda gravitazionale, la deformazione della “elle” farebbe deviare il raggio laser di un miliardesimo del diametro di un atomo. Sembra poco, ma è quanto basta per fare la scoperta del secolo.
Le frontiere aperte dell’Universo
Il 2 dicembre del 1915 veniva pubblicata la versione definitiva della teoria della relatività.
Intervista con Giovanni Amelino-Camelia, fisico dell’università La Sapienza. «Di Einstein ce ne sono almeno tre: c’è il divo che fa le smorfie sulle magliette, il giovane che compie scoperte straordinarie e quello della maturità, che dà contributi trascurabili e perde la bussola»
intervista di Andrea Capocci (il manifesto, 27.11.2015)
Cento anni fa, Albert Einstein spediva all’Accademia Prussiana delle Scienze l’articolo Feldgleichungen der Gravitation («Le equazioni di campo della gravità»), in cui veniva presentata la versione «definitiva» della teoria della relatività generale, pubblicata poi il 2 dicembre del 1915. Era la conclusione di un percorso iniziato nel 1905, e che proseguirà ancora nei primi mesi del 1916. Dieci anni prima, Einstein aveva contribuito anche alla fondazione della meccanica quantistica e delle particelle. Grazie alla teoria della relatività generale, il fisico tedesco si conquistò un ruolo indiscutibile nella cultura non solo scientifica del ventesimo secolo.
Secondo molti, la vicenda di Einstein è irripetibile: la dimensione industriale della scienza attuale impedisce che un singolo scienziato dia un contributo così rilevante al progresso delle conoscenze. D’altra parte, Einstein continua a rappresentare un riferimento per generazioni di studenti e per l’immagine della scienza veicolata dai media.
Solo qualche anno fa, la rivista americana Discover individuava sei possibili nuovi «Einstein» in grado di rivoluzionare la fisica andando anche oltre Einstein stesso: unificando, cioè, la teoria della relatività e la meccanica quantistica. T ra loro anche un italiano: Giovanni Amelino-Camelia, cinquantenne fisico dell’università La Sapienza di Roma. Un ottimo interlocutore, dunque, per comprendere l’eredità scientifica di Einstein e i futuri sviluppi delle sue teorie.
«Prima però dobbiamo metterci d’accordo. Di Einstein non ce n’è uno solo: ce ne sono almeno tre». In che senso, professore?
C’è il divo, quello che fa le smorfie e va sulle magliette, che nasce ufficialmente nel 1919. È l’anno in cui Eddington conferma la validità della teoria della relatività generale. Einstein finisce sulle prime pagine e la stampa lo trasforma in un personaggio di fama mondiale. Quello è lo scienziato-icona che piace molto ai media, svampito e stravagante come ormai immaginiamo che debba essere uno scienziato. Ma è un Einstein che fa comodo a tutti. È simpatico, fa vendere, quando compare sulla copertina di una rivista funziona sempre. È un’icona dotata di un valore economico.
E gli altri?
C’è l’Einstein giovane, quello che tra il 1905 e il 1916 compie alcune delle scoperte più straordinarie della storia della scienza. Sarebbero tante anche per un’intera generazione di scienziati, figuriamoci per un uomo solo. Infine, c’è l’Einste della maturità che, dopo il 1919, dà un contributo scientifico trascurabile. Non si tratta di vecchiaia, perché nel 1919 ha solo quarant’anni. Eppure contraddice completamente il suo modo di lavorare. Perde la bussola, attacca la meccanica quantistica come un crociato. Secondo Wolfgang Pauli, un altro grande fisico poco più giovane di lui, le ricerche di Einstein di quel periodo sono «terribile immondizia». Solo il peso scientifico del personaggio costringe gli altri a prenderlo sul serio. Però così riesce anche ad avere un ruolo politico importante, a cavallo della seconda guerra mondiale.
A lei quale Einstein interessa di più?
Quando me lo chiedono, a me piace parlare del giovane scienziato, anche se è quello più difficile da raccontare. Ma se ci ricordiamo lo scienziato spettinato o quello pacifista, è grazie al giovane Einstein.
È lo scienziato delle grandi intuizioni...
Anche il suo intuito certe volte ci azzeccava e altre no, come tutti. La grande forza di Einstein fu piuttosto la adesione totale al metodo scientifico, che ci aiuta a liberarci dai pregiudizi. Einstein studiò i risultati di esperimenti che nessuno riusciva a interpretare. Ipotizzò per primo che la luce potesse comportarsi come una particella, il fotone, il primo mattone della meccanica quantistica. E fu ancora Einstein a sviluppare la teoria atomica della materia, studiando il moto casuale di un granello di polline in un liquido. Quegli undici anni sono un perfetto manuale del fare scienza confrontandosi con i dati e solo con loro, senza pensare alla teoria più «elegante» o più «bella». Studiandoli da vicino si impara molto più che la relatività o la meccanica quantistica.
A lei cos’altro hanno insegnato?
Ad esempio, che anche senza microscopio si può indagare i componenti più piccoli della realtà. Quando Einstein teorizzò atomi e molecole non c’erano gli strumenti di oggi, che riescono persino a fotografarli. Ma gli atomi, se esistevano, collettivamente dovevano produrre effetti visibili. Fu proprio studiando gli effetti macroscopici che Einstein scoprì i costituenti più piccoli della materia.
Oggi però i microscopi in cui misurare gli effetti quantistici esistono, sono gli acceleratori di particelle...
Ma persino al Cern non arrivano ad osservare le distanze più piccole, laddove la teoria della gravità e meccanica quantistica devono ancora essere comprese. Allora anche io, come Einstein, cerco di studiare sistemi più grandi. Fortunatamente, ce n’è uno grande abbastanza: è l’Universo. Gli effetti quantistici della gravità sono invisibili su scala planetaria. Ma su una particella che viaggia abbastanza a lungo nell’Universo gli effetti accumulati possono lasciare tracce osservabili. Se il nostro modello di gravità quantistica funziona, deve essere in grado di prevedere gli effetti che essa ha su queste particelle.
E dove troviamo queste particelle?
Per esempio, c’è un esperimento in Antartide chiamato IceCube, «cubetto di ghiaccio». In realtà, è un cubo di ghiaccio di un chilometro e mezzo di lato pieno di sensori. IceCube riesce a rilevare i neutrini, particelle di massa piccolissima provenienti dall’universo lontano, ben al di fuori dalla nostra Galassia. Per ora ne ha intercettati qualche decina. Se riuscissimo a capire da dove arrivano e quanta strada hanno fatto, potremmo confrontare i dati e i modelli. Ma c’è ancora molto da fare prima di mettere d’accordo gravità e meccanica quantistica.
Questa è la strada verso la «teoria del tutto»?
Non parlerei di «teoria del tutto». Il primo nemico di questa idea fu proprio Einstein. Già a fine Ottocento, quando Einstein era uno studente, le leggi di Newton sulla gravità e alle equazioni di Maxwell sull’elettromagnetismo sembravano aver spiegato l’intero universo. Anche a Max Planck, vent’anni prima, era stato sconsigliato di intraprendere studi di fisica, perché non c’era più niente da scoprire. Un paio di decenni dopo, quando Einstein aveva quarant’anni, quella fisica era stata rasa al suolo e sostituita da meccanica quantistica e relatività. La «teoria del tutto» mi ricorda le tavole della legge della religione, più che la scienza. Io mi accontenterei: la materia che abbiamo conosciuto finora rappresenta solo il 4% della densità di energia dell’universo. Il resto è ancora da capire. Siamo lontani anche da una «teoria del molto». Il «tutto» lasciamolo perdere.
Lo strano caso di Einstein e il suo doppio
Cent’anni fa la teoria della relatività generale rivoluzionò la nostra visione del mondo. Ma oggi il suo autore è visto come icona pop: ecco il confine tra scienza e storytelling
di Giovanni Amelino-Camelia (la Repubblica, 25.11.2015)
Esattamente cento anni fa, il 25 novembre 1915, in una presentazione per la Prussian Academy of Sciences, Einstein annunciò pubblicamente le equazioni fondamentali della sua teoria della Relatività. In realtà i festeggiamenti di questo anniversario hanno costellato tutto il 2015 e continueranno anche nel 2016, visto che il 20 marzo del 1916 Einstein scrisse l’articolo di una cinquantina di pagine che riportava la derivazione delle sue equazioni e alcune delle loro conseguenze più importanti. Un happening di quasi due anni per celebrare un risultato che ha rivoluzionato la nostra comprensione dello spazio, del tempo e dei fenomeni gravitazionali.
Questa ansia celebrativa non nasce solo dalla forza della teoria ma anche dal fascino del suo creatore. Nasce da Einstein e dal suo doppio.Lo scienziato e l’icona pop, il fisico che studiava le orbite di Mercurio e la beautiful mind a cui, secondo la favola bella, bastò vedere cadere un imbianchino per avere l’intuizione illuminante. Proprio grazie al suo doppio Einstein è l’eccezione, il fisico amato da tutti. Un’icona fatta anche di linguacce e capelli arruffati che confortano i nostri stereotipi sul grande scienziato brillante e creativo, svampito e stravagante. Tanto che la curiosità per lui raggiunge spesso livelli morbosi.
Mi è capitato persino di inciampare in dettagliate ricostruzioni dei suoi innamoramenti, il divorzio, la cugina che fu sua seconda moglie ed anche l’affascinante spia russa per cui poi perse la testa. Una biografia avventurosa degna di un divo. Eppure, oggi, è giusto raccontare anche l’altro Einstein, quello che con uno sforzo intellettuale durato circa dieci anni arrivò finalmente a formulare il suo capolavoro, appunto la Relatività Generale, applicando rigorosamente il metodo scientifico, il metodo galileiano di investigazione della Natura. Quell’Einstein è meno divertente, non offre molti pretesti per cartoline a effetto o citazioni da riportare su una maglietta, ma è quello che ha dato un contributo straordinario alla nostra comprensione della Natura.
Rendere conto di tutti i modi in cui la Relatività Generale ha rivoluzionato la nostra descrizione dello spazio, del tempo e dei fenomeni gravitazionali richiederebbe pagine e pagine. Scelgo quindi di concentrarmi sull’aspetto a me più caro, quello della azione della materia sulla geometria dello spaziotempo. Fino a quel 1915 lo spazio e il tempo erano visti come un’arena immutabile, un’entità statica. Lo spaziotempo aveva un ruolo nella descrizione della materia (appunto il ruolo di arena per il moto dei corpi) ma non era stato ancora teorizzato nessun modo in cui la materia potesse agire sulla struttura dello spaziotempo.
Ora sappiamo per certo, confortati dal secolo di successi sperimentali ottenuti dalla Relatività Generale, che invece lo spaziotempo ha una sua dinamica. In particolare, la materia curva lo spaziotempo. Ad esempio l’attrazione gravitazionale tra Sole e Terra non può essere descritta davvero come l’esito di una “forza”, ma piuttosto va descritta in termini di come il sole curva lo spaziotempo e come poi in presenza di quella curvatura il moto naturale della Terra prende l’aspetto di una attrazione verso il Sole.
Una popolare illustrazione di questa proprietà dei fenomeni gravitazionali è replicabile con facilità. Basta tenere ben teso un telo piuttosto grande e piazzare sul telo una sferetta, poco pesante, in posizione periferica rispetto al centro del telo. In prossimità del punto in cui viene messa la sferetta il telo si curva un po’ ma la sferetta resta ferma, se è l’unico corpo poggiato sul telo. Se poi si piazza al centro del telo una sfera più grande e più pesante si osserva prima di tutto che quella massa più grande produce maggiore curvatura del telo ed inoltre, a causa di quella grande curvatura, la piccola sferetta si mette naturalmente in moto, cadendo sulla sfera più pesante.
Nel celebrare questa teoria rivoluzionaria mi piace ricordare come, nel complesso percorso logico che portò Einstein alla sua scoperta, fu importante un’osservazione condotta secondo il metodo scientifico galileiano. Prima della Relatività Generale la descrizione dei fenomeni gravitazionali era affidata alla teoria di Newton. Ma già dalla metà dell’Ottocento per la gravità newtoniana era cominciata una fase di crisi. Essendo stati raggiunti buoni livelli di precisione per le misurazioni dell’orbita di Mercurio si era infatti constatato che gli esiti di quelle osservazioni non si conciliavano con la gravità newtoniana.
Il disaccordo era piuttosto piccolo, ma la qualità dei dati sperimentali era tale da renderlo significativo. Durante il decennio di studi preparatori alla Relatività Generale quei numeri furono preziosi. Einstein aveva capito che la nuova teoria dei fenomeni gravitazionali doveva essere in accordo con le osservazioni sull’orbita di Mercurio, così quando finalmente trovò una teoria che dava la corretta descrizione dell’orbita di Mercurio - la sua Relatività Generale - si convinse di essere sulla strada giusta.
Eppure sono sorprendentemente frequenti le rivisitazioni della Relatività Generale in cui tutto ciò viene ignorato ricamando invece su quell’episodio in cui Einstein vide un imbianchino cadere da un palazzo. Una visione molto romantica, in cui Einstein diventa “vittima” del suo doppio, perché questa versione alimenta il mito dell’icona pop. Ma in realtà, anche se è poco poetico ripeterlo, più dell’imbianchino contò l’orbita di Mercurio. Celebriamo i cento anni della più grande scoperta fatta da Einstein, ma è importante vederla, soprattutto, come una delle più grandi conquiste ottenute grazie al metodo scientifico.
(L’autore, docente alla Sapienza, è uno dei più noti studiosi di Gravità Quantistica)
Einstein, la relatività e gli errori che vincono
di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 23.11.2015)
Cento anni fa, il 25 novembre 1915, Albert Einstein presentava all’Accademia delle scienze prussiana la teoria generale della Relatività cambiando la visione dell’Universo e andando oltre le intuizioni di Isaac Newton. La straordinaria rivoluzione della scienza nascondeva però un clamoroso errore, ammesso e corretto dallo stesso genio tedesco.
Egli riteneva che l’universo fosse statico mentre i suoi calcoli gli suggerivano un’espansione. Così per fermarlo si inventava la «costante cosmologica» con la quale faceva quadrare i conti secondo la sua idea (sbagliata). Ma poi arrivava l’astrofisico Edwin Hubble con il suo telescopio dalla vetta del monte Wilson in California scoprendo che le galassie fuggivano, non erano immobili. Einstein era scosso davanti alla prova che lo smentiva ma accettava, ed era il primo a giudicare la sua costante un errore.
Anche i grandi possono, ovviamente, sbagliare dimostrando come la scienza talvolta proceda attraverso gli errori per compiere dei passi avanti. L’importante è rendersene conto e accettare una visione diversa. È il metodo vincente della scienza che se fosse applicato più di consueto anche nella nostre azioni e pensieri quotidiani ci aiuterebbe a vivere meglio e ad avere più corretti rapporti sociali.
L’errore di Einstein è famoso perché il suo genio e il suo mito restano intatti dopo un secolo, tuttavia la storia della scienza è ricca di esempi analoghi. Lord Kelvin che conosciamo per aver stabilito e dato il nome alla temperatura più bassa raggiungibile calcolava (sbagliando) che la Terra aveva tra i 20 e 30 milioni di anni (ne ha invece 4,5 miliardi). E più di recente ci si è dovuti ricredere anche sulle caratteristiche della più entusiasmante particella subatomica, il neutrino. Si sosteneva non avesse una massa e così era descritto nell’architettura della natura. Invece si è scoperto che ne è dotato e gli ultimi Nobel per la fisica sono assegnati ai due scienziati che l’hanno misurata.
Ma è appunto dimostrando gli errori che gli scienziati aprono nuove finestre sulla conoscenza.
Vuoi capire la Relatività?
Un buon inizio è spiare Mercurio
di Vincenzo Barone (La Stampa - TuttoScienze, 18.11.2015)
«Il fine della scienza - diceva Einstein - è, da una parte, la comprensione più completa possibile della connessione fra le esperienze sensoriali, dall’altra il raggiungimento di questo fine mediante l’uso di un numero minimo di concetti e di relazioni primarie». La Relatività generale rappresenta la realizzazione concreta di questo programma, scientifico e filosofico al tempo stesso.
La teoria è infatti strutturata analiticamente attorno a un principio universale, il principio di relatività generale, il quale stabilisce che le leggi fisiche debbano essere le stesse per tutti gli osservatori, qualunque sia il loro moto (cioè, matematicamente, che debbano avere la stessa forma in tutti i sistemi di coordinate spazio-temporali). L’equazione fondamentale - l’equazione del campo gravitazionale -, che descrive la gravità come curvatura dello spazio-tempo in presenza di masse e di sorgenti di energia, è la più semplice equazione compatibile con il principio di relatività. Si è quindi di fronte a un vero capolavoro di unità concettuale e di economia logica. Ma questa meravigliosa, e insuperata, eleganza formale non deve far dimenticare che la Relatività generale è sostenuta da un’enorme mole di evidenze sperimentali - ed è per questo, in definitiva, che la riteniamo valida.
La prima conferma empirica della teoria fu trovata dallo stesso Einstein, e presentata all’Accademia prussiana delle Scienze il 18 novembre 1915. Einstein decise di leggere personalmente quella comunicazione, perché conteneva un risultato di grande importanza, che lo aveva convinto della correttezza dell’edificio teorico che stava costruendo. Il risultato riguardava la rotazione dell’asse orbitale di Mercurio, con il conseguente spostamento del suo perielio. Questo fenomeno era noto fin dall’Ottocento ed era in larga misura spiegabile con l’attrazione degli altri pianeti. Ma rimaneva un piccolissimo scarto, di poco più di un centesimo di grado al secolo, che la teoria newtoniana non era in grado di spiegare: la Relatività generale riproduceva esattamente tale valore. Einstein raccontò di aver avuto le palpitazioni al cuore ottenendo quel risultato: «Ero fuori di me per la gioia e l’eccitazione», scrisse in seguito all’amico Paul Ehrenfest.
Un altro test cruciale della teoria, proposto da Einstein nella stessa conferenza del 18 novembre, è la deflessione gravitazionale della luce. Il Sole incurva lo spazio circostante e fa sì che i raggi luminosi provenienti da stelle lontane e passanti in prossimità della sua superficie siano deviati di un angolo piccolissimo. Lo si può verificare osservando la posizione apparente delle stelle attorno al Sole durante un’eclissi totale, quando l’intensa luce solare, che impedirebbe la loro visione, è schermata dalla Luna. Einstein predisse l’angolo di deflessione, ma per osservare l’effetto si dovette aspettare l’eclissi totale del 1919. La misura, sebbene non precisissima, risultò in accordo con la predizione relativistica, decretando così l’affermazione della teoria (e la fama mondiale di Einstein). Oggigiorno, la deflessione gravitazionale delle onde radio, che sono onde elettromagnetiche come la luce, è confermata con una precisione di gran lunga superiore.
Il terzo test della Relatività generale che Einstein immaginò è lo spostamento gravitazionale verso il rosso, cioè la diminuzione della frequenza della luce (il rosso, nello spettro visibile, corrisponde alla frequenza più bassa) che risale un campo gravitazionale - qualcosa di analogo a ciò che accade a un corpo che, muovendosi verso l’alto nel campo gravitazionale terrestre, perde velocità. Einstein non ebbe la soddisfazione di assistere alla conferma di questo effetto, che fu osservato solo nel 1960, cinque anni dopo la sua morte.
Allo spostamento verso il rosso è connesso un altro sorprendente fenomeno: un orologio soggetto a un campo gravitazionale rallenta. Sulla Terra, per esempio, un orologio posto in basso (a livello del mare, diciamo), dove la gravità è più intensa, va più lento di un orologio posto in alto (in montagna). L’effetto è molto piccolo e per verificarlo si è dovuto aspettare l’avvento degli orologi atomici.
Nel 1976, in uno degli esperimenti più importanti nella storia della relatività generale, i torinesi Luigi Briatore e Sigfrido Leschiutta confrontarono i tempi misurati da due orologi al cesio, uno a Torino (250 metri di altitudine), l’altro sul Plateau Rosa (3500 metri), trovando una differenza di circa 30 nanosecondi al giorno, in ottimo accordo con la teoria einsteiniana.
Gli ultimi prototipi di orologi atomici sono talmente accurati (sbagliano di non più di un secondo ogni 10 miliardi di anni - pressappoco l’età dell’Universo) da permettere di osservare il rallentamento gravitazionale del tempo su dislivelli di appena qualche decina di centimetri: in pratica, si è arrivati al punto di evidenziare la minuscola differenza tra il tempo misurato da un orologio sul pavimento e quello misurato da un orologio su un tavolo.
Fin dall’inizio, 100 anni fa, la Relatività generale apparve come un capolavoro di bellezza teorica. Ma nessuno, neanche Einstein, poteva immaginare che le sue verifiche osservative e sperimentali avrebbero raggiunto un tale grado di precisione. Quello che la teoria einsteiniana celebra sotto i nostri occhi è dunque uno straordinario connubio tra vero e bello, che non smetterà mai di incantarci.
Se il Gps è “relativo”, led e laser sono figli di una nuova idea della luce
Einstein è anche uno dei padri (quasi sconosciuto) del nostro mondo high tech
di Guglielmo Lanzani (La Stampa - TuttoScienze, 11.10.2015)
Se orientarsi in terra e in mare non rappresenta più un problema, lo dobbiamo anche alla Relatività. Il sistema Gps, infatti, non può prescindere da questa teoria per il suo funzionamento.
La velocità relativa di spostamento rispetto alla Terra rallenta il tempo sul satellite di circa 7 microsecondi al giorno, mentre il potenziale gravitazionale, minore sull’orbita del satellite rispetto alla Terra, lo accelera di 45 microsecondi. Pertanto, il bilancio è che il tempo sul satellite accelera di circa 38 microsecondi al giorno. Senza queste correzioni (oltre a quelle dovute alla propagazione di segnale in atmosfera o ai ritardi dell’elettronica di bordo), il Gps genererebbe errori nell’ordine di km oppure di miglia marine, con le prevedibili conseguenze per il traffico terrestre e marittimo.
Moltissime ricadute tecnologiche che dobbiamo ad Einstein non derivano però dalla Relatività. Dalla sua mente, infatti, scaturirono molte altre idee nel campo della fisica della materia che hanno avuto un impatto ancora maggiore sulla nostra vita quotidiana. Proprio nell’anno in cui scrisse la Relatività ristretta, il 1905, Einstein diede alla luce anche un altro lavoro - che gli fruttò il Nobel nel 1921 - sulla spiegazione dell’effetto fotoelettrico, cioè come la luce induce corrente elettrica in alcuni materiali. Scoperto decenni prima, l’effetto fotoelettrico era un rompicapo per i fisici.
Nella sua spiegazione Einstein aveva pensato alla luce come costituita da pacchetti di energia, «i quanti di luce», anziché come un flusso continuo di radiazione elettromagnetica, come si era abituati a intenderla. L’interazione tra luce e materia avveniva quindi come un gioco di biglie: l’energia dei quanti di luce veniva trasferita agli elettroni del materiale. Se sufficiente, questi potevano essere emessi dalla superficie, altrimenti restavano all’interno del materiale ma liberi di muoversi.
Si tratta di una delle pietre miliari nel cammino che ha portato al superamento della fisica classica in favore della meccanica quantistica. Lo sviluppo di una teoria in grado di descrivere l’interazione della radiazione con la materia portò a nuove soluzioni tecnologiche quali laser, telecamere, tubi catodici, fotocellule e celle fotovoltaiche. Esistevano, allora, già diversi tipi di celle fotovoltaiche, le più note a silicio. Il fotovoltaico ha infatti una lunga storia.
Nel 1876 R. E. Day e William G. Adams scoprono che, illuminando una giunzione di selenio e platino, si genera una differenza di potenziale e la prima cella fotovoltaica al selenio viene realizzata un anno dopo. Inizialmente il dispositivo non riceve però molta attenzione, è considerato solo una curiosità. Le cose cambiano con l’avvento del silicio, utilizzato già nel 1940. Ai Bell Labs, all’epoca un punto di riferimento della scienza e della tecnologia, Gerald Pearson, fisico, costruisce per caso, una cella fotovoltaica al silicio che ha un efficienza di conversione molto maggiore di quella ottenuta con il selenio. La cella fotovoltaica al silicio dei Bell Labs raggiunge il record del tempo, 6% in una giornata di sole.
La teoria di Einstein spiega la relazione tra il tipo di materiale (il semiconduttore) e i colori della luce solare che possono essere assorbiti, rendendo conto dell’energia che può essere estratta. Con questi strumenti teorici, assieme allo sviluppo della fisica dello stato solido, è quindi possibile l’ingegnerizzazione del dispositivo e il miglioramento delle prestazioni. Intanto il dispositivo attira l’interesse di molti, tra cui gli ingegneri di Usa e Urss. Entrambi hanno un’idea in mente: l’alimentazione dei satelliti, cruciali per la conquista dello spazio in tempi di Guerra Fredda.
Sulla Terra, però, il primo cliente di questa tecnologia emergente è l’industria del petrolio. Le celle fotovoltaiche sono utilizzate nei pozzi di estrazione del Golfo del Messico per alimentare le lampade accese la notte. Le applicazioni si moltiplicano rapidamente, attirando anche organizzazioni no-profit per creare sorgenti di energia nelle aree più povere del Pianeta e non raggiunte dalle reti elettriche. Durante la siccità nel Sahel, in Africa negli Anni 70, padre Bernard Verspieren, un missionario, inizia un programma di estrazione dell’acqua dalla falda acquifera mediante pompe alimentate proprio da celle fotovoltaiche. Nel 1977 verrà installato il primo impianto. Ora ce ne sono decine di migliaia nel mondo.
Il processo inverso - la trasformazione di una corrente elettrica in luce - è invece l’elettroluminescenza. E anche in questo caso Einstein ha dato alcuni contributi fondamentali, combinando la nascente meccanica quantistica e l’idea di interazione quantizzata con la luce insieme con la termodinamica.
Sembra che di quest’ultima disciplina Einstein dicesse: «È la sola teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che, nell’ambito di applicabilità dei suoi concetti di base, non verrà mai superata». Anche questa ha oggi molte applicazioni, ma una ci accompagna quotidianamente. Sono gli schermi a Led o Oled che guardiamo continuamente e che da qualche tempo portiamo in tasca.
Dagli emettitori di luce, poi, il passo è breve per arrivare al laser, un’altra applicazione dei pensieri originali di Einstein, con applicazioni estese, dalla medicina alla ricerca, dall’industria alla metrologia, fino allo spettacolo. Sono altre prove di come le sue teorie si siano concretizzate su tempi lunghi, in sinergia con altre teorie e con lo sviluppo della tecnologia. È un esempio perfetto di come la conoscenza abbia un valore assoluto. Anche quando non ne vediamo un ritorno immediato.
Seth Lloyd
I miei viaggi nel tempo tra i paradossi della Relatività di Einstein
di Seth Lloyd (La Stampa - TuttoScienze, 11.11.2015)
Il logico Kurt Gödel era noto per le ricerche su paradossi e problemi astrusi. Nel 1930 dimostrò che una qualunque teoria matematica che includesse l’aritmetica sarebbe stata incompleta, nel senso che sarebbe stato possibile formulare proposizioni corrette all’interno della teoria stessa, ma impossibili da dimostrare con la sola teoria in questione.
È questo il teorema di incompletezza, che mandò a gambe all’aria 2 mila anni di matematica e fornì le basi per i lavori di Alan Turing che hanno fondato l’era digitale. Negli Anni 40 Gödel lavorava all’«Institut of Advanced Studies» a Princeton. Il suò svago principale era fare lunghe passeggiate con il suo amico e collega Albert Einstein. Su consiglio del suo psichiatra Gödel aveva sospeso le ricerche sulle contraddizioni della matematica e aveva deciso di studiare la Relatività generale di Einstein, la teoria che descrive la gravitazione e il comportamento dell’Universo in termini di curvatura dello spazio e del tempo. Incapace di resistere alla sua attrazione per i paradossi, Gödel si concentrò sulla questione del viaggio nel tempo e dimostrò che la teoria di Einstein ammetteva soluzioni in cui una «nuvola di polvere cosmica» in rapida rotazione avrebbe curvato lo spazio e il tempo indietro su se stessi.
La curvatura dell’Universo di Gödel risulta talmente estrema che il tempo sarebbe trascorso su una curva chiusa, permettendo al viaggiatore del tempo di reincotrarsi. Gödel considerava la sua teoria come un omaggio all’amico Einstein, ma, quando quest’ultimo venne a sapere che la sua meravigliosa teoria avrebbe consentito i viaggi nel tempo, ne rimase orripilato.
Come suggeriscono la letteratura e il cinema, infatti, questi viaggi generano ogni tipo di paradossi. Per esempio un viaggiatore potrebbe tornare nel passato, incontrare per caso suo nonno ancora giovane, uccidendolo accidentalmente. Di conseguenza, il nonno non avrebbe potuto avere figli, il viaggiatore non sarebbe mai nato e non avrebbe potuto andare indietro nel tempo a uccidere il nonno.
Come si viene a capo di un tale paradosso? Un secondo esempio: una viaggiatrice del tempo legge la dimostrazione di un teorema in un libro, torna indietro, mostra la dimostrazione a un matematico che la include in un libro che sta scrivendo, lo stesso che lei leggerà nel futuro. Chi ha dimostrato il teorema? Nessuno, in apparenza.
C’è una massima in fisica, secondo cui, «se qualcosa è consentito da una legge fisica, allora esiste da qualche parte nell’Universo». Dato che la teoria di Einstein consente i viaggi nel tempo, allora, ha senso indagare che cosa possa accadere a un viaggiatore quando entra in una curva temporale chiusa e potenzialmente generatrice di paradossi. Il comportamento della materia - viaggiatori inclusi - è governato dalla meccanica quantistica, che è essa stessa fonte di ulteriori paradossi. Di conseguenza per tentare di dare un senso ai paradossi indotti dalle curve temporali chiuse di Gödel, è necessario costruire una teoria quantistica dei viaggi nel tempo. Molti fisici celebri, tra cui Kip Thorne e David Politzer, hanno investigato proprio la meccanica quantistica delle curve temporali chiuse. Le teorie sono essenzialmente di due tipi.
Nel primo tipo il viaggiatore del tempo può cambiare il passato, per esempio uccidendo il nonno. Quando cambia il passato, entra in un nuovo Universo con un futuro diverso da quello che si ricordava. Esempi di film basati sulle teorie di questo tipo sono «Ritorno al futuro» e «Un tuffo nel passato». Nelle teorie del secondo tipo il viaggiatore può tentare di cambiare il passato, ma, indipendentemente da quanto si sforzi, non ci riuscirà. Anzi. Produrrà inavvertitamente le condizioni che porteranno agli eventi futuri che cevuole impedire. Esempi di «tipo II» sono «Harry Potter: prigioniero di Azkaban», «L’esercito delle 12 scimmie» e la serie dei «Terminator».
I miei colleghi hanno studiato e ristudiato il problema del viaggio nel tempo nel contesto del teletrasporto quantistico: quest’ultimo utilizza il bizzarro e contro-intuitivo effetto chiamato «entanglement» (letteralmente «aggrovigliamento») con cui consentire a un sistema quantistico di essere distrutto in un punto per poi essere ricostruito a distanza in un altro. Nel teletrasporto quantistico ordinario la ricostruzione avviene successivamente alla distruzione. Però, io e i miei colleghi, siamo stati in grado di mostrare che, in presenza di una curva temporale chiusa, il teletrasporto quantistico può essere utilizzato per distruggere un sistema nel futuro per poi ricostruirlo nel passato, consentendo così al sistema di viaggiare nel tempo.
La nostra teoria consente quindi un’esplorazione dei paradossi dei viaggi nel tempo. Siamo anche stati in grado di effettuare un esperimento in cui abbiamo inviato un fotone - la particella scoperta da Einstein - diversi milionesimi di secondo indietro nel tempo, facendolo interagire con se stesso. Non esistendo una «Società per la prevenzione della crudeltà sui fotoni», abbiamo provato a far «uccidere» al fotone il se stesso del passato, impedendogli così di ritornare. In pratica abbiamo creato l’analogo fotonico del paradosso del nonno. Cosa è successo?
Non è andata come nei film che finiscono con la scritta «Nessun animale è stato maltrattato»: migliaia di miliardi di fotoni sono andati distrutti. Ma quel fotone che cercava di uccidere se stesso ha sempre fallito, consentendo a se stesso di tornare dalla sua futile missione. Gödel ne sarebbe stato orgoglioso.
Se il Gps è “relativo”, led e laser sono figli di una nuova idea della luce
Einstein è anche uno dei padri (quasi sconosciuto) del nostro mondo high tech
di Guglielmo Lanzani (La Stampa - TuttoScienze, 11.10.2015)
Se orientarsi in terra e in mare non rappresenta più un problema, lo dobbiamo anche alla Relatività. Il sistema Gps, infatti, non può prescindere da questa teoria per il suo funzionamento.
La velocità relativa di spostamento rispetto alla Terra rallenta il tempo sul satellite di circa 7 microsecondi al giorno, mentre il potenziale gravitazionale, minore sull’orbita del satellite rispetto alla Terra, lo accelera di 45 microsecondi. Pertanto, il bilancio è che il tempo sul satellite accelera di circa 38 microsecondi al giorno. Senza queste correzioni (oltre a quelle dovute alla propagazione di segnale in atmosfera o ai ritardi dell’elettronica di bordo), il Gps genererebbe errori nell’ordine di km oppure di miglia marine, con le prevedibili conseguenze per il traffico terrestre e marittimo.
Moltissime ricadute tecnologiche che dobbiamo ad Einstein non derivano però dalla Relatività. Dalla sua mente, infatti, scaturirono molte altre idee nel campo della fisica della materia che hanno avuto un impatto ancora maggiore sulla nostra vita quotidiana. Proprio nell’anno in cui scrisse la Relatività ristretta, il 1905, Einstein diede alla luce anche un altro lavoro - che gli fruttò il Nobel nel 1921 - sulla spiegazione dell’effetto fotoelettrico, cioè come la luce induce corrente elettrica in alcuni materiali. Scoperto decenni prima, l’effetto fotoelettrico era un rompicapo per i fisici.
Nella sua spiegazione Einstein aveva pensato alla luce come costituita da pacchetti di energia, «i quanti di luce», anziché come un flusso continuo di radiazione elettromagnetica, come si era abituati a intenderla. L’interazione tra luce e materia avveniva quindi come un gioco di biglie: l’energia dei quanti di luce veniva trasferita agli elettroni del materiale. Se sufficiente, questi potevano essere emessi dalla superficie, altrimenti restavano all’interno del materiale ma liberi di muoversi.
Si tratta di una delle pietre miliari nel cammino che ha portato al superamento della fisica classica in favore della meccanica quantistica. Lo sviluppo di una teoria in grado di descrivere l’interazione della radiazione con la materia portò a nuove soluzioni tecnologiche quali laser, telecamere, tubi catodici, fotocellule e celle fotovoltaiche. Esistevano, allora, già diversi tipi di celle fotovoltaiche, le più note a silicio. Il fotovoltaico ha infatti una lunga storia.
Nel 1876 R. E. Day e William G. Adams scoprono che, illuminando una giunzione di selenio e platino, si genera una differenza di potenziale e la prima cella fotovoltaica al selenio viene realizzata un anno dopo. Inizialmente il dispositivo non riceve però molta attenzione, è considerato solo una curiosità. Le cose cambiano con l’avvento del silicio, utilizzato già nel 1940. Ai Bell Labs, all’epoca un punto di riferimento della scienza e della tecnologia, Gerald Pearson, fisico, costruisce per caso, una cella fotovoltaica al silicio che ha un efficienza di conversione molto maggiore di quella ottenuta con il selenio. La cella fotovoltaica al silicio dei Bell Labs raggiunge il record del tempo, 6% in una giornata di sole.
La teoria di Einstein spiega la relazione tra il tipo di materiale (il semiconduttore) e i colori della luce solare che possono essere assorbiti, rendendo conto dell’energia che può essere estratta. Con questi strumenti teorici, assieme allo sviluppo della fisica dello stato solido, è quindi possibile l’ingegnerizzazione del dispositivo e il miglioramento delle prestazioni. Intanto il dispositivo attira l’interesse di molti, tra cui gli ingegneri di Usa e Urss. Entrambi hanno un’idea in mente: l’alimentazione dei satelliti, cruciali per la conquista dello spazio in tempi di Guerra Fredda.
Sulla Terra, però, il primo cliente di questa tecnologia emergente è l’industria del petrolio. Le celle fotovoltaiche sono utilizzate nei pozzi di estrazione del Golfo del Messico per alimentare le lampade accese la notte. Le applicazioni si moltiplicano rapidamente, attirando anche organizzazioni no-profit per creare sorgenti di energia nelle aree più povere del Pianeta e non raggiunte dalle reti elettriche. Durante la siccità nel Sahel, in Africa negli Anni 70, padre Bernard Verspieren, un missionario, inizia un programma di estrazione dell’acqua dalla falda acquifera mediante pompe alimentate proprio da celle fotovoltaiche. Nel 1977 verrà installato il primo impianto. Ora ce ne sono decine di migliaia nel mondo.
Il processo inverso - la trasformazione di una corrente elettrica in luce - è invece l’elettroluminescenza. E anche in questo caso Einstein ha dato alcuni contributi fondamentali, combinando la nascente meccanica quantistica e l’idea di interazione quantizzata con la luce insieme con la termodinamica.
Sembra che di quest’ultima disciplina Einstein dicesse: «È la sola teoria fisica di contenuto universale di cui sono convinto che, nell’ambito di applicabilità dei suoi concetti di base, non verrà mai superata». Anche questa ha oggi molte applicazioni, ma una ci accompagna quotidianamente. Sono gli schermi a Led o Oled che guardiamo continuamente e che da qualche tempo portiamo in tasca.
Dagli emettitori di luce, poi, il passo è breve per arrivare al laser, un’altra applicazione dei pensieri originali di Einstein, con applicazioni estese, dalla medicina alla ricerca, dall’industria alla metrologia, fino allo spettacolo. Sono altre prove di come le sue teorie si siano concretizzate su tempi lunghi, in sinergia con altre teorie e con lo sviluppo della tecnologia. È un esempio perfetto di come la conoscenza abbia un valore assoluto. Anche quando non ne vediamo un ritorno immediato.
I 100 anni della relatività generale
Un capolavoro in tre atti
Nel novembre 1915 Albert Einstein presentò all’Accademia Prussiana delle Scienze la teoria rivoluzionaria alla quale stava lavorando dal 1905
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 1.11.2015)
In una lettera del 10 dicembre 1915 indirizzata all’amico Michele Besso, Einstein disse di sentirsi «elice, ma un po’ distrutto». Ne aveva tutte le ragioni: con un incredibile tour de force era riuscito in poche settimane a completare il suo capolavoro, la relatività generale, universalmente considerata la più bella teoria della fisica. «Chiunque la comprenda non può sfuggire al suo fascino», si spinse a dire lui stesso, abbandonando la consueta riservatezza, il 4 novembre di quell’anno, nella prima delle comunicazioni inviate all’Accademia Prussiana delle Scienze (ne seguirono altre tre), in cui espose la teoria nella sua forma finale.
La creazione della relatività generale fu una gigantesca impresa intellettuale, che combinò, in un modo e in una misura che non si sarebbero mai più ripetuti, intuizione fisica, potenza matematica e solidità epistemologica. Essa rappresentò il culmine di un lungo lavoro, cominciato con la formulazione della relatività ristretta nel 1905, l’annus mirabilis in cui Einstein, «esperto tecnico di terza classe» all’Ufficio Brevetti di Berna, aveva sconvolto la fisica, concependo anche la teoria dei quanti di luce (tappa decisiva per lo sviluppo della meccanica quantistica) e la teoria dei moti molecolari (che contribuì alla definitiva affermazione dell’tomismo).
La teoria del 1905 era basata su un principio di simmetria, il principio di relatività, secondo il quale le leggi di natura hanno la stessa forma per tutti gli osservatori in moto uniforme. Venivano, in tal modo, spazzati via l’etere e i concetti di movimento e di quiete assoluti. Ma la restrizione agli osservatori in moto uniforme disturbava Einstein. «Ogni mente portata alla generalizzazione - scrisse sentirà la tentazione di azzardare il passo verso il principio generale di relatività», cioè verso un principio di invarianza delle leggi fisiche per tutti gli osservatori, indipendentemente dal loro moto, uniforme o accelerato. Ci volle quasi un decennio - costellato di idee geniali, ma anche di tentativi a vuoto e di delusioni - per raggiungere questo obiettivo.
Come ha fatto notare lo storico della scienza John Stachel, la costruzione della relatività generale è un’opera in tre atti. Il primo atto ha inizio nel 1907, quando Einstein concepisce quello che definirà poi il pensiero più felice della sua vita: l’idea che un osservatore in caduta libera non avverte alcun campo gravitazionale (perché la forza inerziale dovuta all’accelerazione del sistema annulla la gravità). In altri termini, accelerazione e gravità sono intercambiabili, nel senso che l’una simula o compensa l’altra. Questo “principio di equivalenza” mostra come l’estensione della relatività ai sistemi accelerati prenda la forma di una nuova teoria della gravitazione, e ha un notevole potere predittivo.
Grazie a esso, Einstein scopre che la gravità deflette la luce. Nel 1911 quantifica l’effetto, calcolando la deviazione dei raggi luminosi provenienti da stelle lontane e “piegati” dalla gravità solare, ma, a causa dell’incompletezza della teoria, ottiene un valore sbagliato - come scoprirà in seguito (fortunatamente per lui, una spedizione organizzata per osservare il fenomeno in occasione dell’eclissi totale di Sole in Crimea nell’estate del 1914 viene bloccata dallo scoppio della Prima guerra mondiale).
Il secondo atto dell’impresa einsteiniana si svolge negli anni 1912-1913. Einstein intuisce allora il profondo legame tra gravità e geometria, e comprende che bisogna superare lo spazio-tempo piatto e statico della relatività ristretta per passare a uno spazio-tempo curvo e dinamico, un vero e proprio campo fisico il campo gravitazionale. È un cambiamento cruciale, ontologico: da semplice palcoscenico degli eventi, lo spazio-tempo diventa attore protagonista, in dialogo con gli altri attori, la materia e la luce. Ma per dar corpo a questa idea serve una matematica più sofisticata di quella del 1905: una matematica che, in quel momento, Einstein non possiede.
Di ritorno a Zurigo, dopo una parentesi a Praga, si rivolge a un suo vecchio compagno di studi, il matematico Marcel Grossmann. Questi gli consiglia di studiare la geometria di Riemann, che permette di descrivere spazi curvi con un numero qualsiasi di dimensioni, e gli segnala i lavori di due studiosi italiani, Gregorio Ricci Curbastro e Tullio Levi-Civita, che hanno sviluppato una tecnica - l’analisi tensoriale - per effettuare calcoli su uno spazio curvo. Armato di questi nuovi strumenti matematici, Einstein si mette alla ricerca dell’equazione che governa la dinamica del campo gravitazionale (cioè dello spazio-tempo) e le sue interazioni. Adotta inizialmente un approccio basato su considerazioni di carattere fisico, ma la teoria che ne viene fuori ha seri difetti ed è presto abbandonata.
Si arriva così al fatidico novembre del 1915 - il terzo e conclusivo atto. Dopo due anni di stallo, Einstein opta per una strategia di ricerca diversa, più matematica. È la scelta giusta. Nell’arco di poche settimane, con un sforzo straordinario - stimolato dalla competizione con uno dei più grandi matematici dell’epoca, David Hilbert, che ha cominciato a lavorare sullo stesso problema -, arriva alla teoria definitiva.
Ne dà notizia all’Accademia berlinese in una serie di quattro comunicazioni settimanali, nell’ultima delle quali, il 25 novembre 1915, presenta l’equazione fondamentale della nuova teoria: un capolavoro di essenzialità e di eleganza, scritto nel linguaggio di Ricci e Levi-Civita. L’equazione mette in relazione la curvatura dello spazio-tempo con la densità di materia e di energia: in presenza di masse e di sorgenti di energia, lo spazio-tempo si deforma, ed è questa deformazione che chiamiamo gravità. Geometria e fisica sono dunque legate inestricabilmente e si influenzano a vicenda.
Rifacendo i calcoli della deflessione della luce sulla base della nuova teoria, Einstein ottenne un angolo doppio rispetto a quello previsto qualche anno prima. Per osservare il fenomeno si dovette però aspettare l’eclissi totale di Sole del 1919, visibile nella fascia equatoriale. Due spedizioni britanniche, organizzate dall’astrofisico Arthur Eddington, diedero il risultato tanto atteso: la piccolissima deviazione misurata era in accordo con la predizione relativistica. “Rivoluzione nella scienza”, “Newton spodestato”, “Svolta epocale”, titolarono i giornali di mezzo mondo, segnando l’inizio della fama planetaria di Einstein. Il quale fu ovviamente molto soddisfatto del risultato. Ma, com’era nel suo stile, a una studentessa che gli chiedeva come avrebbe reagito se le osservazioni avessero contraddetto la teoria, rispose semplicemente: «Mi sarebbe dispiaciuto per il buon Dio, perché la teoria è corretta».
La svolta dal calcolo tensoriale
Einstein salvato dalle formule di un prof italiano
di Giovanni Bignami (La Stampa - TuttoScienze, 18.11.15)
La Relatività generale è difficile da capire perché va al di là della nostra intuizione. Ma, prima di affrontarla, nel centenario della scoperta, proviamo a capire che uomo fosse Albert Einstein nell’Europa del secolo scorso, così vicina (mio nonno era del 1879, come Einstein) e pur così lontana (due guerre mondiali e un Muro fa).
Einstein aveva 36 anni nel 1915, e già una vita ricca ma complicata alle spalle. Dieci anni prima, nel tempo libero dal suo lavoro di impiegato all’Ufficio Brevetti di Berna, aveva scritto in un sol colpo tre lavori rivoluzionari, con uno dei quali prese poi il Nobel nel ’21, e avrebbe potuto prenderne altri due. Prima ancora, a 17 anni, aveva rigettato la cittadinanza tedesca per diventare svizzero, aveva convissuto nel peccato con una ragazza serba, genio della matematica, l’unico studente donna del Politecnico di Zurigo, dalla quale aveva avuto una bambina, poi scomparsa.
Gregorio Ricci Curbastro
Nel 1902, finalmente, la sposò (ma lei era stata già espulsa dal severo Politecnico) e ci fece due figli maschi, prima di separarsi da lei e tornare in Germania, come prof all’Università di Berlino, riprendere la cittadinanza tedesca e diventare membro della Accademia e direttore dell’Istituto di fisica. Sorprendente la Germania del 1915, da più di un anno in una guerra terribile. Grandi onori ad un ebreo, che aveva ripudiato la patria, era violentemente antimilitarista (gli altri maschi della sua classe erano già al fronte...) e di dubbia moralità: aveva anche, da anni, una relazione con la cugina Elsa (che poi sposerà), pur vivendo da solo in modo trasandato, mangiando poco e male e suonando molto il violino.
Ma quest’uomo difficile stava lavorando alla sua più grande teoria fisica, una teoria che lo consumava, anche perché era convinto di sapere poco la matematica. Alla fine chiese aiuto ad amici, in Svizzera ed in Italia, e capì che lo strumento matematico del quale aveva bisogno era il calcolo tensoriale appena inventato da un matematico italiano, Gregorio Ricci Curbastro.
Grazie a questa nuova matematica, Albert (che allora aveva i capelli neri) dà una costruzione formale alla «idea più brillante della sua vita», come chiamava la teoria della Relatività generale. I tensori di Ricci descrivono la geometria dello spazio-tempo, che si deforma, o meglio si incurva con eleganza, in presenza di un massa. Si va al di là (non contro) Newton: la mela non cade perché attirata dalla massa della Terra, ma perché scivola sulla curvatura spazio-temporale che la Terra, con la sua massa, genera intorno a sé. E questo è vero per tutto ciò che ha massa, compresa l’energia, secondo la rivoluzionaria e famosissima equazione (di Einstein) E=mc2.
La massa, con la gravità ad essa associata, è quindi al centro della teoria della Relatività generale perché influenza la metrica dello spazio-tempo. Alla base Einstein pose il principio di equivalenza: la massa inerziale e la massa gravitazionale sono equivalenti. Quando dò un calcio a un sasso, il male che mi faccio al piede dipende dalla massa del sasso, che è definibile, quindi, come l’inerzia che il corpo oppone all’essere messo in moto. Questa massa «inerziale», però, potrebbe essere diversa dalla massa che viene attratta dalla Terra, o meglio che fa scivolare il sasso nella curvatura dello spazio generata dalla Terra, insomma, la massa «gravitazionale» del sasso stesso. Einstein postulò che le due masse fossero equivalenti e tutti noi ancora oggi ci crediamo, anzi cerchiamo di provare questo principio di equivalenza con esperimenti sempre più sofisticati, nello spazio come a Terra.
Ai primi di novembre di 100 anni fa la teoria era pronta e Einstein la presentò in alcune lezioni nella maestosa biblioteca dell’Accademia di Berlino. Il 18 novembre venne data la prima conferma osservativa. La nuova teoria spiegava perfettamente alcune «anomalie» dell’orbita di Mercurio. Einstein annota quanto sia grato alla precisione di quegli astronomi che avevano osservato il moto del piccolo pianeta, annotandone le posizioni anche senza riuscire a spiegarle.
La prova regina
E ancora dalla astronomia venne, anni dopo, la prova regina della curvatura della luce nel campo gravitazionale. Durante un’eclisse, nel 1919, la posizione di una stella, davanti alla quale transitava il Sole, risultò «spostata», rispetto alla sua solita posizione, giusto della quantità prevista dalla attrazione della massa del Sole sui fotoni in arrivo dalla stella. Sempre dalla astronomia verranno le più importanti conferme, come il fenomeno della «lente gravitazionale», che rende visibile galassie lontanissime, e molte altre. Tra pochi giorni, invece, con i nostri migliori auguri, partirà una missione spaziale europea, con cuore italiano, destinata proprio a controllare se, anche nello spazio, massa inerziale e massa gravitazionale sono equivalenti.
Albert Einstein (1879-1955)
Infinitamente grande
Si celebra il centenario della sua più bella scoperta: la relatività generale
Ma è solo una delle sue cinque idee che hanno rivoluzionato la fisica
di Carlo Rovelli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.4.2015)
Il 2015 è il centenario della più importante e più bella fra le scoperte di Albert Einstein (di cui ricorre, il 18 aprile, anche il sessantennale della morte): la teoria della relatività generale. E il mondo celebra, già da alcuni mesi, il maggiore scienziato degli ultimi tre secoli.
Non è facile riassumere quanto Einstein ha compreso sulla Natura, perché non si tratta di un solo risultato, ma di un insieme vasto e articolato di scoperte. Voglio tuttavia cercare di farlo, per provare a orientare il lettore in apertura di questo anno in cui di Einstein si parlerà molto. Io direi che le principali scoperte di Albert Einstein sono cinque. Queste non esauriscano tutto quello che lo scienziato ha fatto, tutt’altro, ma ciascuna di esse ha cambiato la nostra visione del mondo in profondità e ciascuna rappresenta una colonna portante della nostra attuale comprensione della Natura.
Provo a illustrarle una alla volta, per poi discuterne la coerenza. Il primo risultato di Einstein è la dimostrazione finale che la materia ha una struttura granulare: il mondo è fatto di atomi. L’idea è ovviamente antica, risale a Leucippo e Democrito, ed è stata ampiamente utilizzata dalla chimica prima di Einstein. Ma fino ad Einstein l’esistenza reale degli atomi restava un’ipotesi messa in dubbio da molti. In un articolo di straordinaria bellezza tecnica, scritto a venticinque anni, Einstein parte da un fenomeno fisico, il movimento tremolante dei granelli di polvere immersi nell’acqua, e calcola le dimensioni degli atomi a partire dall’entità del tremolio, mostrando in maniera definitiva che questo tremolio è l’effetto degli urti sul granello delle singole molecole d’acqua.
Ventiquattro secoli dopo Democrito, ogni dubbio sulla reale esistenza degli atomi viene a cadere. L’idea su cui il lavoro è basata, legare la velocità a cui vediamo il granello muoversi nell’acqua all’entità del tremolio, è tutt’ora alla base di gran parte della moderna fisica statistica.
Il secondo grande risultato di Einstein (quello per il quale ha ricevuto il Nobel), contemporaneo al primo e chiaramente legato ad esso, è la scoperta dei fotoni, cioè del fatto che anche la luce è fatta di granelli, di “atomi di luce”. Anche in questo caso Einstein parte da un effetto fisico, l’effetto fotoelettrico: quando la luce cade su certi metalli produce una piccola corrente. Analizzando il dettaglio in cui questo avviene, Einstein deduce che la luce è fatta di “palline di luce”. L’importanza di questa scoperta è stata capitale per la fisica moderna, perché si tratta del passo chiave verso la meccanica quantistica, la teoria che oggi descrive la relazione fra gli aspetti corpuscolari e ondulatori della realtà, e che è la base della fisica atomica, nucleare, della materia condensata, e di gran parte della tecnologia recente, come i computer.
Il terzo grande passo di Einstein è stato l’inizio dello studio della struttura a larga scala dell’universo visibile. L’articolo scritto nel 1917 in cui apre questo campo di ricerca (all’inizio dell’articolo c’è una frase da capogiro: «Studiamo la natura a una scala grande rispetto alla distanza media fra le galassie») è il lavoro che fonda la cosmologia moderna, oggi uno dei settori della scienza più vivaci e in rapida crescita.
Il quarto risultato è il più grande, quello che stiamo celebrando quest’anno: la teoria della relatività generale. La teoria spiega l’origine della forza di gravità di Newton, e al tempo stesso ne corregge le previsioni. La forza fra masse distanti immaginata da Newton è spiegata come un effetto dell’incurvarsi dello spazio e del tempo. Spazio e tempo sono come un foglio di gomma che si può piegare e tirare, e questo piegarsi è il motivo per cui cadono gli oggetti sulla terra, per cui la luna orbita intorno alla terra e i pianeti attorno al sole.
Le conseguenze della teoria sono molte, sbalorditive, e sono poi state tutte verificate negli anni seguenti: l’esistenza dei buchi neri, il rallentamento del tempo vicino ad una massa (se vivete in montagna invecchiate un pelino più in fretta che se vivete al mare), l’esistenza di onde di spazio, il fatto che l’universo che vediamo sia emerso da una grande esplosione iniziale, solo per fare qualche esempio.
Ho lasciato per ultima, al quinto posto, la teoria della relatività speciale, che è la teoria di Einstein più conosciuta dal pubblico. Per risolvere un apparente conflitto fra meccanica e teoria elettromagnetica, Einstein comprende che il tempo passa più lento quando si viaggia veloci e che è meglio pensare il mondo come uno “spaziotempo” unitario di quattro dimensioni, anziché considerare separati lo spazio (tridimensionale) e il tempo. Ho lasciato per ultima questa scoperta non perché non sia importante - la teoria della relatività ristretta è oggi il linguaggio di base della relatività generale e di tutta la fisica delle particelle: è l’abbiccì di ogni fisico teorico -, ma solo per sottolineare il fatto che Einstein ha fatto ben più che questo.
Questo insieme di risultati lascia senza parole per vastità e profondità. All’inizio del ventesimo secolo, Albert Einstein ha intuito che il mondo è assai più complesso di come aveva mostrato la fisica classica, e ha aperto la porta su una realtà più ricca, sconcertante ma bella, e, una volta compresa, sostanzialmente più semplice di quanto credessimo. In un certo senso, ha rimesso la scienza in cammino, dopo che il grande successo di Newton e poi Maxwell ci aveva fatto sedere sugli allori e credere, erroneamente, di essere arrivati vicino alla fine.
Ma il fascino di Albert Einstein va anche al di là della sua grandezza scientifica. Le sue idee politiche, cosmopolite e intensamente pacifiste, il suo disprezzo per il valore della “patria”, i suoi conflitti interiori quando, per fermare Hitler, ha deciso di scrivere a Roosevelt di fare la bomba aprendo il secolo delle guerre nucleari, il suo amore per la musica e per la filosofia, il suo fanciullesco ma radicale ribellismo, che da ragazzo lo ha portato a detestare e abbandonare la scuola, e da adolescente a perdere tempo bighellonando per le strade di Pavia, e poi per tutta la vita vestire e pettinarsi fuori da ogni consuetudine, il suo ateismo sornione e divertito, pieno di scanzonate citazioni su Dio che più tardi molti si affanneranno ingenuamente a voler prendere sul serio, la sua amicizia con Charlie Chaplin, la serenità con la quale ha affrontato la morte, rifiutando di essere curato quando ha saputo di essere malato seriamente («Voglio andare quando decido io. È di cattivo gusto prolungare artificialmente la vita. Ho fatto la mia parte, è tempo di andare».)... tutto questo fa di Albert Einstein, per molti di noi, un riferimento, un mito, un compagno di pensieri, un maestro vero, un dolce amico.
Albert Einstein
Il genio che ci ha insegnato il coraggio di cambiare idea
A sessant’anni dalla morte, la grande eredità dello scienziato è nel metodo. E negli errori
di Carlo Rovelli (la Repubblica, 11.04.2015)
NON c’è dubbio che Albert Einstein - di cui ricordiamo i sessant’anni dalla morte, e i cent’anni dalla sua teoria della relatività generale - sia stato il più grande scienziato del XX secolo, l’uomo che ha visto più a fondo nella natura, ha intuito più cose che si sono rivelate vere. Questo significa che quello che lui pensava va preso per buono? Che non sbagliava? Tutt’altro. Anzi: pochi scienziati hanno accumulato errori quanto Einstein.
Pochi scienziati hanno cambiato idea tante volte quanto lui. Non parlo degli errori della vita quotidiana, opinabili, e comunque affari suoi. Parlo di veri errori scientifici. Idee sbagliate, predizioni sbagliate, equazioni sbagliate, affermazioni su cui lui stesso è tornato indietro, oppure più tardi smentite dai fatti. Qualche esempio. Oggi sappiamo che l’Universo è in espansione. Il fisico belga Lemaître lo aveva capito proprio usando la teoria della relatività e lo aveva comunicato ad Einstein. Einstein aveva risposto che l’idea era una sciocchezza. Per poi doversi rimangiare l’affermazione quando negli anni Trenta l’espansione dell’universo è stata osservata.
Oggi sappiamo che esistono i buchi neri. Ce ne sono a milioni solo nella nostra galassia e la loro esistenza è una delle clamorose conseguenze della teoria di Einstein. Ma Einstein non l’aveva capito, e sull’argomento ha scritto lavori sbagliati, sostenendo che cose simili non possono esistere. Anche sull’altra grande conseguenza della sua teoria, l’esistenza delle onde gravitazionali, Einstein si è sbagliato. Ha sostenuto che queste onde non esistono, sbagliando l’interpretazione della sua stessa teoria.
Prima di scrivere l’equazione giusta della teoria della relatività generale, il suo grande trionfo, Einstein ha pubblicato una fitta serie di articoli, tutti sbagliati, ciascuno con un’equazione diversa. È arrivato addirittura a pubblicare un lavoro dettagliato e complesso per dimostrare che la teoria non deve avere la simmetria... mentre sarà proprio la simmetria a caratterizzare la teoria buona. Per tutti gli anni finali della sua vita, poi, Einstein si ostina a voler scrivere una teoria unificata di gravità ed elettromagnetismo, senza capire che, come si vedrà poco dopo, l’elettromagnetismo è solo una componente di qualcosa di più ampio (la teoria elettro-debole) e quindi il progetto di unificarlo con la gravità senza considerare il resto è viziato alla base.
Poi ci sono le perentorie affermazioni che ha disseminato, cambiando idea poco dopo. Nella sua prima versione della teoria della relatività ristretta, la nozione di spaziotempo, cioè l’idea che esista un continuo di quattro dimensioni che comprende sia lo spazio che il tempo, non c’è ancora. L’idea dello “spaziotempo” non è di Einstein, è dovuta a Minkowski, che ha riscritto la teoria di Einstein usando questa idea. Quando Einstein ne viene a conoscenza, dichiara che si tratta di una inutile e sciocca complicazione “da matematici”. Per poi cambiare opinione poco dopo e usare proprio la nozione di spaziotempo come base della sua teoria successiva: la relatività generale. Sul ruolo della matematica in fisica, Einstein cambia ripetutamente idea, sostenendo varie cose in contraddizione l’una con l’altra nel corso della sua vita.
Anche nelle grandi discussioni sulla meccanica quantistica Einstein ha cambiato idea ripetutamente. All’inizio sostiene che la meccanica quantistica è contraddittoria. Poi accetta l’idea che non lo sia, e si limita a insistere che deve essere incompleta, non descrivere tutta la natura. Sulla sua teoria, la relatività generale, a lungo è stato convinto che le equazioni non potessero avere soluzioni in assenza di materia, e quindi il campo gravitazionale dipendesse dalla materia, per poi cambiare idea e descrivere il campo gravitazionale come un’entità reale automa, che esiste di per sé.
Forse il caso più straordinario è uno strabiliante lavoro scritto nel 1917, in cui Einstein fonda la cosmologia moderna, comprende che l’universo può essere una tre-sfera, e introduce la costante cosmologica, la cui esistenza è stata verificata oggi, a un secolo di distanza. In questo lavoro Einstein riesce a sommare un clamoroso errore di fisica - l’idea, sbagliata, che l’universo non possa cambiare nel tempo - e un clamoroso errore di matematica: non si accorge che la soluzione matematica delle equazioni che studia è instabile, e quindi non può descrivere l’universo reale. L’articolo è al tempo stesso un insieme strepitoso di idee nuove, rivoluzionarie e corrette, e un insieme clamoroso di errori.
Questa lunga serie di cambiamenti di opinione e di errori toglie qualcosa alla nostra ammirazione per Albert Einstein? No. Al contrario. Ci insegna, credo, qualcosa sull’intelligenza: l’intelligenza non è intestardirsi sulle proprie opinioni. È essere pronti a cambiarle. Essere pronti a esplorare le idee, accettando il rischio di sbagliare. Per capire il mondo bisogna avere il coraggio di provare le idee, e riadattarle continuamente, per farle funzionare al meglio. La forza della scienza è proprio qui: la capacità di produrre idee nuove e di riuscire a chiarire quando un’idea è sbagliata. “Quelli che non sbagliano mai” (ne conosciamo tanti) sono quelli che restano intrappolati in vecchi errori.
Einstein che sbaglia più di tutti e Einstein che capisce a fondo la natura più di chiunque altro non sono in contraddizione, sono due aspetti complementari e necessari della stessa profonda intelligenza: l’audacia del pensiero, il coraggio di rischiare, il non fidarsi delle idee ricevute, neanche delle proprie. Avere il coraggio di sbagliare, e soprattutto aver il coraggio di cambiare idea, non una volta ma ripetutamente, per poter trovare. Per poter, «provando e riprovando», come diceva Galileo, arrivare a capire.
Penso che il grande Einstein, se avesse saputo che per ricordarlo elenchiamo i suoi errori, avrebbe fatto uno di quegli straordinari sorrisi sornioni di cui era capace, e ne sarebbe stato contento. L’importante non è aver ragione. È camminare lungo la strada per arrivare a capire.
L’universo smise di essere un noioso parallelepipedo
1915-2015. Il 25 novembre di un secolo fa Albert Einstein presentò la teoria della relatività generale
Il cielo non fu più quello che fino ad allora era stato pensato, ma si trasformò in una struttura viva, mobile ed elastica, piena di fosse, cunicoli e pendii
E l’uomo a livello cosmico divenne del tutto irrilevante
di Paolo Giordano (Corriere della Sera - La Lettura, 22.02.2015)
Credo di avere incubato la fascinazione per la fisica molto tempo fa, da bambino, grazie soprattutto alla relatività generale. Ne conoscevo giusto il nome, com’è ovvio, ma quello era sufficiente a darmi l’idea elettrizzante di un sapere assoluto, «generale» appunto, e avevo visto alcune animazioni rozze nelle quali le masse dei pianeti deformavano la geometria dello spazio: mi avevano sconvolto. I residui di poche parole - «spaziotempo», «relatività», «gravitazione» -, uniti alle istantanee colorate e inquietanti delle nebulose immobili ai confini nell’universo, prevalsero al momento giusto su altre curiosità sviluppate nel frattempo, e io mi ritrovai a studiare fisica all’università.
Dovetti attendere il penultimo anno di corso per addentrarmi nella teoria che mi aveva motivato fin dall’inizio. La relatività generale, sebbene si tratti di un campo non più nuovo, fa ancora parte delle frontiere più avanzate della scienza e richiede un allenamento agonistico per essere affrontata nello specifico. Il professore che teneva i due moduli del corso aveva il vizio di non scrivere alla lavagna. Pretendeva di farci comprendere i calcoli astrusi della relatività da seduto, sviluppando tensori e integrali nell’aria trasparente di fronte a sé. Spesso interrompeva le lezioni con lunghe telefonate in russo, alle quali assistevamo perplessi e rispettosi. Riteneva, come molti iniziati alle scienze più radicali, che avremmo dovuto essere in grado di occuparci da soli delle minuzie dei conti, impresa che io tentai e ritentai in quegli anni, sempre senza una piena soddisfazione.
«È un vero miracolo che i metodi moderni di istruzione non abbiano ancora completamente soffocato la sacra curiosità della ricerca», scriveva Einstein a proposito del proprio accidentato percorso di studi. Ed è altrettanto miracoloso, per me, che l’ammirazione per la sua teoria più grandiosa sia uscita indenne, rinvigorita semmai, dai miei anni universitari e dai tentativi falliti di dominarla, al punto che, a cento anni esatti dal suo concepimento, sento il bisogno di festeggiarla come merita. Einstein presentò il suo lavoro sulla relatività generale il 25 novembre 1915 davanti all’Accademia prussiana delle scienze.
All’epoca era già una celebrità per via dei tre articoli pubblicati nel 1905, tra cui quello sulla relatività ristretta e quello sull’effetto fotoelettrico che gli avrebbe valso il Nobel, ma sarebbe stata la relatività generale a renderlo l’icona indiscussa della fisica moderna, della scienza in genere, del pensiero umano stesso.
Come accade non di rado, Einstein approdò a un risultato capitale partend o da un problema concettuale piuttosto semplice e da una convinzione personale, si potrebbe quasi dire da un principio «di buon senso». Era persuaso che le leggi naturali, le leggi fondamentali della fisica, dovessero essere le stesse da qualunque parte le si osservasse o, per dirla più precisamente, in qualunque sistema di riferimento si effettuassero le misure. Non si trattava di una convinzione nuova per lui.
Nell’articolo sulla relatività ristretta aveva mostrato con eleganza come ciò fosse vero per due osservatori che si muovono a velocità costante l’uno rispetto all’altro: il «buon senso» di Einstein valeva, a patto di accettare che la luce viaggiasse a una velocità fissa per chiunque dei due la misurasse. Il problema, tuttavia, sussisteva ancora nel caso di due osservatori che avessero un’accelerazione l’uno rispetto all’altro. Nel 1907, mentre lavorava ancora presso l’Ufficio brevetti di Berna, Einstein iniziò a preoccuparsi di questa possibile estensione.
In uno dei suoi «esperimenti mentali» - che l’iconografia ci ha abituato, forse un po’ ingiustamente, a pensare come divagazioni libere durante il tedio dell’ufficio - Einstein immaginò un uomo in caduta libera insieme ad altri oggetti. Un pensiero poetico, insomma. Immedesimandosi in quell’uomo e levandogli le complicazioni del dove e perché stesse precipitando, dell’aria in faccia, del terrore di morire schiantato, intuì che non ci fosse modo per lui, durante la caduta, di accorgersi dell’esistenza della gravità, nessuna misurazione glielo consentiva. Che l’esperimento mentale tradisse una sinistra carenza di empatia, Einstein si accorse forse in seguito, al punto di scrivere nella sua Autobiografia scientifica : «Se un individuo ha il dono di pensare con chiarezza, può darsi benissimo che questo lato della sua natura si sviluppi maggiormente a spese di altri lati, e determini quindi più la sua mentalità». Comunque sia, grazie alla sua «mentalità» e alla noncuranza per le sorti dell’uomo in caduta libera, Einstein creò la prima sinapsi tra il concetto di accelerazione e quello di attrazione gravitazionale, la base della relatività generale.
Per formalizzare compiutamente la teoria gli ci vollero altri otto anni, i trasferimenti da Berna a Praga, poi a Zurigo e infine a Berlino, la separazione dalla prima moglie Mileva, dai figli, e - qui sta l’eccezionalità dell’impresa - un’immersione in rami sofisticatissimi della matematica, che pochi all’epoca immaginavano potessero rivelarsi utili per descrivere la realtà. Bernhard Riemann, un allievo geniale di Carl Friedrich Gauss, aveva studiato la curvatura delle superfici immerse in spazi a molte dimensioni, e da più parti nel mondo venivano esplorate da anni le proprietà fantasiose delle geometrie cosiddette «non euclidee»: geometrie nelle quali decadono certe ipotesi sullo spazio così come lo sperimentiamo, nelle quali le rette parallele prima o poi s’incontrano, la somma degli angoli interni dei triangoli è diversa da centottanta gradi e percorrendo a piedi un quadrato non ci si ritrova infine al punto di partenza. Sembravano arzigogolii tipici della matematica pura, modelli strampalati, e invece attendevano pazienti di debuttare da protagonisti nel mondo fenomenico.
Einstein pensò allo spaziotempo come a una struttura geometrica che viene deformata, curvata dalla presenza della materia - dall’energia e dalla massa, dalle stelle, dai pianeti, dai gas - e seppe trovare la relazione esatta fra l’ammontare della curvatura e la quantità di materia necessaria a produrla. «Einstein dice che lo spazio è curvo e che causa della curvatura è la materia», sintetizzò Richard Feynman anni dopo. Se fino a un attimo prima l’universo era un noioso parallelepipedo punteggiato di corpi celesti, il 25 novembre 1915 esso si trasformò all’improvviso in una struttura viva, mobile ed elastica, piena di fosse e rigonfiamenti e cunicoli e pendii scoscesi.
Da visualizzare non è semplice, anzi è impossibile. Per quanto dotato intellettivamente, nessun essere umano è in grado di raffigurarsi lo spaziotempo in quattro dimensioni, e ancor meno una sua deformazione. Possiamo sì intuire l’esistenza di una quarta dimensione, quella temporale, attraverso analogie brillanti, ma non certo coglierla appieno. A dispetto delle intuizioni di Einstein e delle elaborate concezioni attuali, il tempo resta per noi una variabile disaccoppiata dallo spazio, newtoniana, qualcosa che scorre in avanti e basta, con esasperante regolarità.
Non solo. Non siamo nemmeno in grado di rappresentare mentalmente un volume di spazio che viene curvato. Sappiamo farlo bene con una superficie - basta pensare all’effetto di una sfera di metallo poggiata su un lenzuolo ben teso -, ma con una dimensione spaziale aggiuntiva siamo già persi. All’immagine «istintiva» della relatività generale mancano, quindi, sempre due dimensioni e ciò è valido per tutti, per Einstein come per ciascuno di noi.
La teoria, al di là dell’ostico formalismo matematico, presenta un bizzarro aspetto democratico: non può essere davvero visualizzata da nessuno. La sua comprensione è sempre assimilabile, con più o meno sofisticazioni, a quella della sfera di metallo che crea una conca nel lenzuolo. Per i fisici moderni, abbandonare in tal senso il conforto della percezione, di quella visiva in particolare, è ormai diventato una prassi. Non solo la relatività generale, ma anche la meccanica quantistica (perfino in misura maggiore) richiedono all’uomo di allentare i lacci dell’intuitività, di chiudere gli occhi e fidarsi da un certo punto in poi della matematica e della sua interpretazione attenta. Certa fisica, in effetti, non la si comprende davvero, piuttosto ci si abitua. Se fossimo minuscoli, molte di quelle che appaiono come elucubrazioni sarebbero per noi ovvie, esperibili, ma così non è. Il Novecento ha segnato in molti ambiti questo passaggio a una «scienza dell’invisibile», di ciò che è troppo elusivo, troppo piccolo, troppo distante per essere acciuffato, se non con il pensiero o l’evidenza indiretta.
Ciò che della relatività generale conquistò tutti, prima ancora del suo significato, fu che era espressa da un’equazione, una sola, elegantissima e apparentemente innocua (per inciso, non si tratta di quella associata a Einstein nei poster, E=mc2, che ha a che vedere con la relatività ristretta, bensì di un’altra dall’aspetto più esotico). I fisici sono facilmente sedotti dalla sinteticità delle formule. Malgrado la compattezza, però, nel momento in cui il fisico malcapitato decideva di «aprire» l’equazione di Einstein, essa si rivelava di una complessità quasi mostruosa, come un nodo di serpenti velenosi, ognuno dotato di parecchie teste. La ricerca di soluzioni, sempre particolari, ha occupato non soltanto i fisici, ma eserciti di computer strapotenti, fino a oggi. E ogni soluzione trovata ha inaugurato una nuova branca della ricerca e una rivoluzione nel nostro modo di intendere il cosmo.
Non esiste altra teoria scientifica che in un unico balzo abbia portato l’uomo così in alto nella comprensione della realtà e al tempo stesso lo abbia annichilito tanto gravemente. Se scoprire che la Terra non era al centro di tutto e il Sole non le ruotava attorno fu un duro colpo alle nostre certezze istintive, è stata la relatività generale a sancire la totale irrilevanza dell’uomo, almeno a livello cosmico. Einstein stesso crebbe con l’idea di un universo costante, immutabile. In pochi decenni la relatività generale ci ha invece informati che l’universo ha avuto un’origine microscopica e drammatica, il Big Bang, e che avrà anche una fine, sebbene sia ancora dibattuto quale ; ci ha informati che esso si sta espandendo intorno a noi - sta «lievitando» rende forse meglio l’idea - e lo fa sempre più in fretta; che non solo occupiamo un posto periferico nella nostra galassia, ma la nostra galassia è solo una fra le innumerevoli; che le stelle hanno destini diversi e commoventi e il nostro Sole sarà infine ridotto a una miserevole nana bianca; che balliamo tutti quanti intorno a un buco nero che inghiotte e inghiotte materia, insaziabile, azzerando ogni memoria di ciò che era prima; che ciò che vediamo e sentiamo e tocchiamo non è che il quattro per cento di quello che realmente esiste là fuori, perciò il resto lo chiamiamo Materia oscura o Energia oscura e non abbiamo idea di che accidenti sia.
Proprio in ragione della loro drammaticità, Einstein fu il primo a opporre resistenza a certe conseguenze della sua teoria. Che l’universo avesse avuto un inizio gli sembrava un’assurdità e per tutta la vita trattò i buchi neri come dei meri intoppi matematici di cui sbarazzarsi. Nessuna mente, per quanto geniale, sarebbe disposta ad accettare una tale mole di cambiamenti tutta insieme. Al contrario, per noi è quasi impossibile pensare all’universo senza contemplarne l’inizio esplosivo, guardare il cielo notturno senza essere da qualche parte consapevoli dei buchi neri incastonati nelle sue profondità. Se anche non abbiamo studiato quelle cose, esse si sono imposte in qualche strato della nostra coscienza.
La relatività generale, come ogni grande rivoluzione della scienza, è stata anche un gigantesco trauma collettivo e varrebbe forse la pena, oggi, di indagare come abbia influenzato il nostro modo di essere, la fiducia che riponiamo in noi stessi. Si tratta, con ogni probabilità, anche della teoria che ha generato più equivoci di sempre. Il suo nome, «relatività generale», ha portato molti alla conclusione sbrigativa e superficiale che, secondo Einstein, tutto quanto fosse «relativo». Hans Reichenbach diede al fisico parte della responsabilità di ciò, sottolineando come in ragione della sua scoperta egli fosse diventato «un filosofo implicito», pur rifiutando per tutta la vita un simile ruolo. «Questa è la sua forza e la sua debolezza a un tempo: la sua forza, perché ha reso tanto più concreta la sua fisica; la sua debolezza, perché ha lasciato la sua teoria esposta ai travisamenti e alle interpretazioni sbagliate».
In realtà, se si riflette sul presupposto di Einstein, ovvero che le leggi della natura debbano essere equivalenti da qualunque parte le si osservi, si capisce facilmente come la relatività generale affermi semmai il contrario della sua vulgata più deteriore. Allo stesso modo, è sbagliato considerare l’impresa di Einstein come la supremazia del pensiero puro, teorico, sulla scienza sperimentale. Lo conferma il fatto stesso che tutte le sue intuizioni muovessero da veri e propri esperimenti, seppure immaginati. Paradossalmente Einstein, l’emblema della ragione che domina la concretezza, era un fisico legato in tutto e per tutto all’empirismo. Si premurò, fin da subito, di trovare delle prove che convalidassero la sua teoria. La prima era già disponibile: si sapeva da tempo che l’orbita di Mercurio intorno al Sole si comportava in maniera anomala, almeno stando alla legge di gravitazione di Newton. Per giustificare le irregolarità nella sua rivoluzione si era perfino ipotizzata l’esistenza di un pianeta aggiuntivo nel nostro sistema solare, Vulcano, peccato che nessuno riuscisse a vederlo. L’anomalia, si scoprì, era un effetto puro della relatività.
L’evidenza schiacciante arrivò nel 1919, quando Arthur Eddington organizzò una spedizione all’Isola di Principe, nel Golfo di Guinea, e lì, durante un’eclissi totale di Sole, fu in grado di fotografare la deflessione dei raggi luminosi, il modo in cui il segnale proveniente dalle stelle giungeva a noi curvato dal campo gravitazionale intorno al Sole.
Ma ci sono aspetti della teoria che attendono ancora un verdetto a cento anni dalla scoperta. Se la relatività generale è vera così come Einstein l’ha formulata, allora devono esistere nel cosmo delle «onde gravitazionali». Di nuovo il cervello s’imbatte in un limite intrinseco nel tentativo di visualizzare queste onde che si muovono nello spaziotempo a quattro dimensioni mettendolo in agitazione, e di nuovo si rifugia nella sfera poggiata sul lenzuolo: lasciate cadere la sfera da una leggera altezza ed essa provocherà delle increspature nel tessuto. Si suppone che onde gravitazionali generate da eventi catastrofici, come la fusione di due buchi neri, ci attraversino in continuazione, deformandoci, ma i loro effetti sono così leggeri da esserci sempre sfuggiti. «Più che a uno specchio d’acqua, lo spaziotempo somiglia a una lastra d’acciaio straordinariamente compatta, che vibra a malapena anche se percossa nel modo più violento possibile» (Pedro G. Ferreira).
Alcune generazioni di fisici sperimentali hanno ormai sacrificato la propria vita alla frustrazione di non riuscire a rilevare le onde gravitazionali. Dai grossi cilindri di metallo sospesi in aria da Joseph Weber si è passati a misurazioni sempre più sofisticate, a scrutare i sistemi binari di stelle relegati ai margini remoti dell’universo, fino a concepire l’esperimento più ardito che l’umanità abbia mai sognato, per certi versi più ardito dell’attuale collisore del Cern.
Gli ideatori del Laser Interferometer Space Antenna Project, Lisa in breve, proposero di mandare in orbita intorno al Sole tre satelliti, che avrebbero disegnato un triangolo virtuale con un lato di cinque milioni di chilometri e comunicato fra loro attraverso fasci laser e specchi. Le onde gravitazionali, con il loro passaggio, avrebbero incurvato le traiettorie dei laser, modificandone in maniera lieve gli spettri di interferenza. Gli Stati Uniti si sono però tirati indietro spaventati dal costo dell’impresa, stellare anche quello, e Lisa è stato ridotto alla sua versione europea, eLisa, con bracci di «solo» un milione di chilometri, e il cui lancio è previsto per il 2034.
Pedro G. Ferreira, nel suo libro La teoria perfetta, giura che il nostro sarà il secolo della relatività generale, dopo che il Novecento ha celebrato tutto lo splendore e l’orrore della fisica atomica. Se è vero, ci siamo entrati pieni di domande, la principale delle quali è come sia possibile unificare la gravità con le altre interazioni fondamentali della natura in un’unica visione sintetica, una questione alla quale già Einstein dedicò decenni infruttuosi della sua vita e che tiene la fisica teorica in una delle più lunghe impasse di sempre, una impasse che tuttavia, come accade tanto nella scienza quanto nell’arte, ha prodotto nel frattempo teorie collaterali intrepide e inattese: la teoria delle stringhe, la gravità quantistica e le ipotesi secondo le quali il nostro universo non sarebbe che un piccolo rigonfiamento di un cosmo immensamente più esteso e composito.
È probabile che Einstein, da innovatore profondamente reazionario che era, avrebbe scartato con sprezzo la gran parte di queste congetture. La storia insegna che spesso sbagliò nel farlo. Per noi, che non dobbiamo preoccuparci del rigore delle equazioni, non ha troppa importanza. Possiamo goderci la relatività generale e i suoi costrutti più estremi come un immaginario estatico e potente, bearci di come la ragione umana, attraverso lo sforzo di un uomo e di tutti coloro che lo hanno seguito, abbia saputo cogliere un mistero tanto intrinseco della natura. E forse, per una volta, rallegrarci di vivere in un’epoca che ha almeno questo di speciale: il cosmo che ci circonda non è mai stato così tumultuoso e così grande.
2015 l’anno della luce, per decisione dell’Onu
È questo l’anno che svelerà tutti i poteri della luce
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 07.01.2015)
Confessatelo: il 2014 era stato dichiarato l’«Anno della cristallografia» e non ve ne eravate nemmeno accorti. Pazienza. Ci saranno altre occasioni per scoprire come si organizza la materia. In Natura e in laboratorio.
Ora, però, è arrivato il 2015 e l’Onu ha pensato di trasformarlo nell’«Anno della luce». Il tema è decisamente più accattivante e potrebbe attirare l’attenzione di tanti. Sono previsti 12 mesi di mostre, convegni e iniziative. In 85 nazioni.
Qual è il motivo della mobilitazione? Non è solo un fatto di autopromozione degli scienziati. La luce e le tecnologie che la sfruttano e la manipolano - ha spiegato il presidente del comitato organizzatore John Dudley - rappresentano un’occasione unica per risolvere un’infinità di problemi: energetici e climatici, medici e agricoli. Senza dimenticare il carburante del mondo globalizzato: le comunicazioni.
L’esempio di vita quotidiana che cita Dudley è questo: con l’high-tech della fotonica si minimizzeranno i consumi in bolletta e allo stesso tempo si ridurrà l’inquinamento luminoso che ha quasi cancellato la bellezza dei cieli notturni (e la possibilità di esplorarli con i telescopi).
La promessa di Dudley è che chiunque - studente di liceo, dilettante con manie da piccolo ingegnere, pensionato curioso - troverà un motivo per appassionarsi. Oltre la classica luce dei poeti, infatti, ad abbagliarci c’è l’altra luce, quella vista, studiata e trasformata dalla scienza. Luce significa fotosintesi (e quindi un meccanismo-base della vita) e anche Big Bang (e quindi debutto dell’Universo come lo conosciamo).
La luce, d’altra parte, è stata essenziale per formulare la Teoria della Relatività, mentre quella prodotta dai laser è alla base di applicazioni a cascata, dalle misurazioni di precisione alle diagnosi mediche fino alle onnipresenti telecomunicazioni. Più luce, quindi, significherà anche più ricerca avanzata e più sviluppo sostenibile.
L’obiettivo è rendere consapevoli non solo le opinioni pubbliche, ma i «policymaker», vale a dire le stesse élite politiche che dall’Italia all’Europa (e non solo) tagliano le spese per la scienza e dimostrano una straordinaria indifferenza per il ruolo che ha e avrà nell’affrontare le questioni collettive.
Intanto la macchina degli eventi si sta mettendo in moto. In Italia si comincia il 26, a Torino, con il convegno organizzato dall’istituto di metrologia Inrim diretto da Massimo Inguscio, dalla Società di Fisica e dal Comune. E, mentre si parlerà di futuro, saranno tanti gli anniversari da celebrare. Una vera rincorsa nella storia. Meglio i lavori sull’ottica di Ibn Al-Haytham del 1015 o la nozione di luce proposta da Fresnel nel 1815? La teoria elettromagnetica della propagazione della luce di Maxwell del 1865 o l’interpretazione dell’effetto fotoelettrico di Einstein del 1905? O la scoperta della radiazione cosmica di fondo da parte di Penzias e Wilson del 1965? Stavolta sarà molto più difficile restare indifferenti.
Il 2015 è l’Anno Internazionale della Luce
L’inaugurazione il 19-20 gennaio a Parigi
di Redazione ANSA *
Da Internet all’arte, passando per l’astronomia e la medicina, la luce è il motore delle tecnologie del futuro, così come è sempre stata un motivo conduttore della conoscenza scientifica: per questo che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il 2015 Anno internazionale della Luce. L’inaugurazione ufficiale dell’iniziativa è in programma il 19 gennaio a Parigi presso la sede dell’Unesco.
Il futuro nella fotonica
Se l’elettronica è stata la protagonista di uno dei principali sviluppi tecnologici del XX secolo, la scienza che studia il comportamento delle particelle di luce (fotoni) si prepara a prendere il testimone. La fotonica diventa così la scienza del futuro, destinata ad avere ricadute sempre più importanti sulle tecnologie alla base di smartphone, tablet e computer, così come dello sviluppo di tecnologie più efficienti al servizio dell’energia solare, per l’illuminazione sostenibile degli edifici. E ancora apparecchiature per le diagnosi mediche in grado di rilevare immagini sempre più precise e dettagliate.
La luce da sempre al centro della scienza
’’La luce è legata all’intero sviluppo della scienza’’, osserva il presidente dell’Istituto Nazionale di Ricerca in Metrologia (Inrim), Massimo Inguscio. ’’Basti pensare - aggiunge - alla luce delle galassie, che permette di risalire indietro nel tempo nella storia dell’universo, o al fatto che comprendere la natura della luce sia sempre andato di pari passo con la scienza, dalla teoria della relatività alla fisica quantistica’’. Ancora la luce, prosegue Inguscio, ’’ha portato all’invenzione del laser e dei led, premiati nel 2014 con il Nobel come esempio di tecnologia al servizio dell’umanità’’.
Decine di eventi in Italia
Almeno mille i partecipanti che daranno il via alle celebrazioni, nella cerimonia inaugurale di Parigi. A rappresentare l’Italia, mettendo in relazione luce e arte, sarà Alessandro Farini, dell’Istituto di Ottica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e dell’università di Firenze. ’’L’illuminazione - ha detto - può modificare la percezione delle opere d’arte’’. Numerosissimi gli eventi previsti in Italia, dove l’inaugurazione ufficiale dell’Anno della Luce è in programma il 26 gennaio a Torino, nella cerimonia organizzata da Inrim, Società Italiana di Fisica e Comune di Torino. Decine gli eventi in programma in tutta Italia fino al dicembre 2015.
Scienza. Aver stabilito la sua velocità ha mutato l’idea di misura
Onda e corpuscolo: una natura duale termometro delle stelle
di Massimo Inguscio *
P er la scienza la luce è conoscenza: viviamo in un mondo di luce, «vediamo» ciò che ci circonda e grazie alla luce proveniente da galassie lontane conosciamo l’universo. La stessa «comprensione» della natu ra della luce è andata di pari passo con lo sviluppo della scienza.
Cominciamo con la sua velocità: intuita come finita da Galileo nei Discorsi del 1638, misurata con tecniche sempre più raffinate nel corso dei secoli, è la massima possibile secondo la relatività ristretta di Einstein, tra l’altro un limite invalicabile alla velocità di trasmissione dell’informazione.
Quasi quarant’anni fa la determinazione «esatta» della velocità della luce ha reso obsoleto il metro come «campione indipendente» di lunghezza riportan dolo alla misura del tempo, circa tre miliar desimi di secondo, impiegato dalla luce per percorrerlo.
La velocità finita ci ha permesso di misu rare la distanza Terra-Luna con precisione quasi millimetrica e ci fa «vedere» in ritardo costituenti lontani nell’universo. Questo permette una sorta di viaggio a ritroso nel tempo che ci aiuta a comprendere se i no stri atomi e molecole sono esattamente gli stessi da miliardi di anni.
Ma cosa è la luce? Newton la descriveva fatta di corpuscoli di colori diversi, ma ci sono fenomeni come i colori cangianti delle bolle di sapone che si spiegano solo con una teoria ondulatoria. Si tratta di oscilla zioni di campi elettrici e magnetici che si ottengono a partire dalle equazioni di Ma xwell, elegantissime come tutte quelle che descrivono le leggi fondamentali della Fisi ca.
Onda o corpuscolo?
Si usa sentir parlare di dualismo, in effet ti si tratta di due aspetti diversi che si mani festano a seconda dei fenomeni che si os servano: la realtà fisica è quella che ci risulta dagli esperimenti. La soluzione è nel fotone, il «pacchetto d’onda» introdotto con lo sviluppo della meccanica quantistica. Un fascio di luce più o meno intenso è costitui to da tante o poche «ondine» elettromagne tiche oscillanti (i vostri occhi ne stanno intercettando milioni di miliardi ogni se condo) e il colore dipende da quanto rapide sono appunto le oscillazioni.
In un fotone «blu» la frequenza è più alta che in un foto ne «rosso», un po’ come succede per un suono acuto rispetto a uno basso. Attenzione però, la luce si propaga anche nel vuoto e attraversando spazi siderali la luce è uno speciale termometro per le stelle: il «bianco» è dato da una distribuzione continua che dipende solo dalla temperatu ra.
È la stessa legge universale ricavata da misure precise in laboratorio la cui interpretazione portò Planck a formulare la teo ria dei quanti. La luce è visibile ai nostri occhi se le oscillazioni elettromagnetiche avvengono con una frequenza un po’ meno di un milione di miliardi al secondo, ma abbiamo sviluppato rivelatori per onde «invisibili» come quella «fossile» che oscil la un milione di volte più lentamente e inve stendoci da ogni parte dell’universo ci parla di un residuo, a più di 270 gradi sotto zero, risalente al mondo poco dopo il Big Bang.
Dall’universo all’infinitamente piccolo...
La luce ci ha insegnato come sono fatti gli atomi portando alla scoperta di teorie sem pre più raffinate, a partire dalla meccanica quantistica. La necessità di spiegare come certa emissione di luce da semplici atomi di idrogeno fosse composta da due «colori» vicinissimi portò Dirac a combinare relativi tà e meccanica quantistica e a prevedere l’esistenza dell’antimateria.
Oggi siamo in grado di vedere i fotoni emessi dagli atomi uno a uno e di usarli come messaggeri di informazione quantistica a prova di hacker.
Il conteggio dei fotoni permette di misurare molto precisamente l’intensità luminosa dei led con i quali possiamo sintetizzare nuova luce bianca con un’efficienza energetica decine di volte maggiore della lampadina a incandescenza: una rivoluzione tecnologica a servizio dell’umanità - un quarto del consumo mondiale di elettricità va in illu minazione - premiata con il Nobel per la Fisica 2014.
Alla curiosità di capire come la luce inte ragisce con gli atomi è legata la scoperta del laser, l’invenzione un po’ a sorpresa che più di ogni altra ha creato innovazione tecnolo- gica nel secolo scorso. Il laser è una forma di luce purissima, con una frequenza e un colore perfettamente definiti.
Oggi la possi bilità di contare il milione di miliardi di volte che la luce gialla di un fascio laser oscilla in un secondo consente di utilizzare gli atomi per realizzare orologi di una preci sione mai raggiunta, orologi che su tutta l’età dell’universo sbaglierebbero di un solo secondo.
Qui la luce è protagonista assoluta: con trolla il moto degli atomi fin quasi a fermar li, li intrappola, li interroga. Questi orologi, fatti con atomi e luce, sono molto sensibili alla gravità che imbriglia lo scorrere del tempo, come previsto dalla relatività, questa volta quella generale, di Einstein: un orolo gio in montagna va «avanti» rispetto a uno in pianura.
È sempre la luce, infrarossa questa volta, che viaggia in fibra ottica dall’Istituto nazio nale di ricerca metrologica di Torino al Frejus per confrontare due orologi ottici: la sfida è quella di misurare col «tempo» le impercettibili variazioni di gravità dovute alle deformazioni e ai movimenti della cro sta terrestre. Di più, una rete di luce ultra precisa in fibra viene ora tessuta tra gli oro logi atomici degli istituti di metrologia eu ropei. Sarà un osservatorio sensibilissimo, esteso nello spazio e con precisione tale nella misura del tempo che potrebbe aiutar ci persino a svelare l’enigma della materia oscura, riservandoci chissà quali sorprese
* LA LETTURA - CORRIERE DELLA SERA DOMENICA - 4 GENNAIO 2015
Teologia
La luce. È la prima creatura anzi s’identifica con Dio
Dalla «Genesi» alla tradizione francescana
di Piero Stefani (Corriere della Sera, La Lettura, 04.01.2015)
San Francesco compose il Cantico di frate Sole quando aveva gli occhi cauterizzati e fasciati. Fu dunque nel buio più impenetrabile che il santo pronunciò le parole volte a lodare il Signore per il Sole, l’astro grazie al quale Egli ci illumina. Francesco lo loda per quanto benefica altri. Basterebbe ciò a indicare l’altezza di un’anima. Il Cantico si riferisce a fonti di luci visibili, senza fare alcun cenno a realtà invisibili. In un tempo in cui la corrente ereticale dei catari scorgeva nella materia il sigillo del demiurgo cattivo, Francesco celebra la bontà del Dio invisibile partendo dal mondo materiale.
Nel Cantico la spiritualità della luce è tutta legata al mondo osservato con gli occhi. In quel testo le realtà materiali non sono colte come il primo gradino di una scala che ci porta alla sfera dei beni spirituali. La lode celebra piuttosto la volontà dell’Altissimo di preoccuparsi delle sue creature. Il Sole è simbolo del Signore perché è attraverso di esso che Dio si prende cura di noi: «Et allumini noi per lui». Gesù l’aveva detto nel «Discorso della montagna»: il Padre fa sorgere il suo Sole sui cattivi e sui buoni (Matteo 5,45). La luce solare illumina e riscalda tutti senza eccezione.
Nelle sue prime righe il libro della Genesi parla di tenebre estese sull’abisso. L’oscurità è però sconfitta dalla prima parola uscita dalla bocca di Dio. Essa ci è tuttora familiare nella sua formulazione latina: «Fiat lux» (Genesi 1, 3). La parola invisibile crea la luce. La precedenza della parola ci comunica che la luce è creatura di Dio. Nessun linguaggio verbale umano riesce a trasmettere appieno quest’ idea. La musica, forse, è in grado di fare un po’ di più: l’accordo in maggiore che squarcia il «preludio del caos» nella Creazione di Franz Joseph Haydn è luminoso. Tuttavia neppure da quel suono sorge la luce.
Si tratta di pura luce, priva di fonti luminose. Il Sole, la Luna e le stelle, definite semplicemente lumi (me’orot), saranno create solo il quarto giorno (Genesi 1, 14-19): la luce, da primaria, diviene secondaria. Tra i biblisti, nell’epoca della secolarizzazione, si amava dire che il Sole, da divinità (si pensi all’Egitto), è stato trasformato in lampada. Non si tratta soltanto di desacralizzare. Il Sole è presentato come creatura di Dio perché dona luce e calore agli altri. Al quarto giorno siamo così arrivati al punto in cui il Cantico di Francesco inizia: «Et allumini noi per lui».
«Yehi ’or», «fiat lux»; era inevitabile che questa luce primordiale che precede ogni sorgente luminosa suscitasse tra gli ebrei e i cristiani una serie quasi infinita di speculazioni mistiche. Ritenere la luce la prima fra le creature comporta che tutte le altre dipendano da essa. Nella prima metà del XIII secolo il francescano Roberto Grossatesta non si limitò alla lode scritta dal fondatore del suo ordine. Per il filosofo inglese la luce è la forma prima di ogni materia creata. La speculazione metafisica, quando affronta il tema della luce, fa risuonare in lui anche corde poetiche: «La prima parola del Signore creò la natura della luce e disperse le tenebre, e dissolse la tristezza e rese immediatamente ogni specie lieta e gioiosa. La luce è bella di per sé». Per Grossatesta la luce causa nelle creature un senso di felicità.
Si può fare un passo ulteriore. Nella «civiltà del commento» la domanda del perché Dio abbia iniziato la sua opera creativa con la luce trova una risposta: «Perciò Dio, che è luce, giustamente ha cominciato l’opera dei sei giorni dalla luce stessa, di cui tanto grande è la dignità » (Grossatesta). Dalla creatura si passa così al Creatore. Dio è luce incorporea. Il termine, associato più di ogni altro al vedere, viene ora riconsegnato al mondo invisibile. Ci si inabissa addirittura, con Dante Alighieri, oltre al «ciel ch’è pura luce /luce intellettual piena d’amore» (Paradiso XXX, 39-40). Si giunge infatti nel seno stesso di Dio uno e trino.
Nella prima lettera di Giovanni si legge che «Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna» (1,5). Questa pura luce senza contrasti attesta la radicale diversità divina rispetto alle realtà create, nell’ambito delle quali la luce deve risplendere sempre tra le tenebre (Giovanni 1,5). Quando nel Credo si parla del Figlio lo si definisce «Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». La luce, come l’amore, per sua intima natura, si espande. Ciò vale anche all’interno della vita di Dio. Un inno vespertino della liturgia cattolica esclama: «O lux, beata Trinitas et principalis Unitas» - O luce, Trinità beata e Originaria Unità. Se alla parola lux sostituissimo il termine amore, il significato non muterebbe. La prima lettera di Giovanni afferma non solo che Dio è luce, ma che Egli è anche amore (1 Gv 4,8).
La luce non la si vede, essa fa vedere. È soprattutto per il suo essere rivolta verso l’altro da sé che la luce, nella vita spirituale, è associata all’amore. Ciò vale anche per il Sole che il Padre fa sorgere sui cattivi e sui buoni. È pressoché certo che oggi quella radiosa materialità voluta dal Signore sia spiritualmente più eloquente delle speculazioni dirette all’inaccessibile vita intradivina. Il Sole non sa che ci sta illuminando, tuttavia chi lo guarda con gli occhi spirituali di frate Francesco loda Dio per il suo illuminarci attraverso l’astro che dell’Altissimo «porta significatione».
Piero Stefani
Tutto Albert nella rete
di Jürgen Renn e Roberto Lalli (Il Sole-24 oRE, Domenica, 04.01.2015)
«Sono curioso di sapere cosa durerà più a lungo, se la guerra o la nostra procedura di divorzio. ... Delle due, la nostra faccenda privata rimane ancora di gran lunga la più piacevole». Scritte alla prima moglie, Milena Maric’, nell’aprile del 1918, queste parole mostrano l’ironia con cui Albert Einstein cercava di far fronte ai momenti difficili della sua vita.
Certo Einstein è ricordato soprattutto per le sue teorie, ma come uomo pubblico prese posizioni forti anche rispetto ad avvenimenti che segnarono il Novecento: dalla precoce opposizione al nazionalismo allo sforzo di creare un movimento internazionale per limitare la corsa al nucleare nel secondo dopoguerra.
La sua ricca corrispondenza è la preziosa testimonianza del viaggio intellettuale di un uomo diviso tra la passione per la fisica e le profonde preoccupazioni per un mondo turbolento. La serie Collected Papers of Albert Einstein, della Princeton University Press, raccoglie buona parte di questa corrispondenza personale e tutti i suoi scritti scientifici. Si tratta di uno dei più ambiziosi progetti editoriali negli studi di storia della scienza, che consisterà di trenta volumi con oltre 14mila documenti.
I primi 13 volumi della serie sono da pochi giorni online con un’edizione digitale tecnologicamente molto accurata: i primi 44 anni della vita e dell’opera di Einstein sono disponibili a tutti. La decisione di rendere liberamente accessibile un lavoro scientifico ed editoriale durato oltre trent’anni è una conquista per il movimento culturale che promuove il libero accesso alla conoscenza scientifica, un movimento che vede nella «dichiarazione di Berlino all’accesso aperto alla letteratura scientifica» del 2003 uno dei suoi momenti fondanti.
Grazie alla lungimiranza e intraprendenza degli editori dei Collected Papers, dei gestori dell’archivio di Einstein presso l’Hebrew University a Gerusalemme, dei direttori della casa editrice, si è reso un servizio importante alla cultura scientifica e storica internazionale e alla conoscenza dello scienziato più rappresentativo di tutta un’epoca.
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Jürgen Renn è direttore del "Max Planck Institute per la Storia della scienza" di Berlino (Max Planck Institute for the History of Science)
Roberto Lalli è ricercatore (Research Scholar) presso la stessa istituzione
Edizione online degli scritti di Einstein, http://einsteinpapers.press.princeton.edu
Teoria della curiosità generale
«Cercate di meravigliarvi» è la ricetta che Einstein ripeteva alle ammiratrici
A cent’anni dalla relatività generale, l’eredità (anche morale) del grande fisico
di Carlo Rovelli (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.01.2015)
«Non ho speciali talenti. Sono soltanto appassionatamente curioso». Così descriveva se stesso Albert Einstein nel 1952, pochi anni prima di morire. Di lui, entrato nel mito, girano moltissime citazioni, per lo più false, usate a proposito e sproposito per sostenere le idee più strampalate.
La pubblicazione della prima tranche delle sue opere complete è buona occasione per ricordare qualcuno dei suoi pensieri genuini, che ci mostrano l’intelligenza, ma sopratutto la profondità del grandissimo scienziato, e ci aiutano a comprendere le ragione per cui ha tanto affascinato il mondo.
Il punto di partenza di Albert Einstein, senza dubbio, è stato un rifiuto istintivo e assoluto dell’autorità. Ben prima di scrivere i suoi grandi lavori, ancora ragazzo, nel 1900, scrive con la spavalderia degli adolescenti: «Il rispetto dell’autorità non pensa ed è il più grande nemico della verità». La sottile ironia di essere arrivato, anni dopo, a rappresentare lui stesso l’autorità nella scienza non gli sfugge: nel 1930, divenuto famoso, scrive: «Per punirmi per il mio disprezzo per l’autorità il destino ha fatto un’autorità di me stesso». Ma dell’adorazione del pubblico Einstein diffida. Nel 1922 scrive all’amico Zangger: «Adorato oggi, attaccato o perfino crocifisso domani, questo è il fato di coloro dei quali - Dio sa perché - si impossessa l’annoiato pubblico».
La gioia Einstein la trova nello studio e nei risultati concreti. Traspare nei momenti del successo, come quella di un bambino che è riuscito a fare bene qualcosa. Nel 1919, la spedizione inglese guidata da Eddington fotografa un’eclisse totale e trova la prima spettacolare conferma delle predizioni della relatività generale. Einstein manda una cartolina alla mamma: «Cara mamma! Oggi una notizia gioiosa: Lorentz mi ha telegrafato per dirmi che la spedizione inglese ha veramente provato la deflessione della luce vicino al sole!».
Ma la soddisfazione più intensa non è nel successo, è nella strada: in una calda lettera al figlio, che andava a lezione di pianoforte, Einstein offre il miglior consiglio possibile a un giovane che studia: «Cerca sopratutto di suonare quello che piace a te, anche se l’insegnante ti dice di fare altro. È così che si impara meglio: quando stai facendo qualcosa con un tale piacere che non ti accorgi che il tempo vola».
È il 1915, l’anno in cui arriva a trovare le equazioni della relatività generale.. Non che Einstein non facesse anche lui fatica a imparare. A una bambina che gli scrive lamentandosi della difficoltà con i numeri, risponde: «Non ti angosciare per le difficoltà che hai con la matematica. Quelle che ho io sono ancora più grandi». E ancora a una bambina, che gli chiede se gli scienziati pregano, risponde con disarmante candore: «Gli scienziati pensano che tutte le cose che succedono, comprese le faccende umane, siano regolate dalle leggi della natura. Quindi uno scienziato non può essere incline a pensare che il corso degli eventi possa essere influenzato dalla preghiera».
Un’altra ragazzina gli scrive una prima lettera senza dire che è una ragazza e poi una seconda lettera scusandosi di esserlo, e dicendogli che essere femmina le pesa, avrebbe voluto fare la scienziata, ma come ragazza è difficile. La risposta di Einstein (siamo nel 1946, di donne nella fisica ce ne sono ancora davvero poche) è senza esitazione: «Che importanza ha per me che tu sia una ragazza? La cosa più importante è che non deve avere alcuna importanza per te. Non c’è alcuna ragione perché tu te ne preoccupi».
Nello stesso anno, nell’America di ben prima delle lotte per i diritti civili degli anni Sessanta, quando ancora in tanta parte del paese i neri non potevano sedere negli autobus dei bianchi, Einstein, parlando alla Lincoln University non ha dubbi in proposto: «Esiste una separazione in America fra la gente di colore e i bianchi. Questa separazione non è una malattia della gente di colore. È una malattia della gente bianca». Se vi sembra un pensiero scontato, ripetetelo cambiando «America» con «Italia», «di colore» con «immigrati», e «bianchi» con «italiani».
Ancora più limpido è il suo rifiuto dell’idea di fedeltà a una patria, a una religione, a un gruppo: «Sono per eredità un ebreo, per cittadinanza uno svizzero, ma per natura un essere umano, soltanto un essere umano, senza speciale attaccamento ad alcuno stato, nazione, o entità qualunque». Splendido. Siamo nel 1918. L’Europa ha appena finito il suo primo conflitto sozzamente generale in nome delle patrie, e già si appresta al secondo, un paio di decenni dopo.
Molti anni dopo, nel 1950, in tarda età, questo suo genuino sentire è diventato più posato, più vasto, più profondo: «Un essere umano è parte del tutto, che noi chiamiamo Universo, parte limitata nello spazio e nel tempo. Egli ha esperienza di se stesso, dei propri pensieri, dei propri sentimenti, come di qualcosa di separato dal resto - una specie di illusione ottica della sua coscienza. Questa illusione è come una prigione per noi, ci restringe ai nostri desideri personali e ad avere attaccamento solo per le poche persone più vicine a noi. Il nostro compito deve essere liberarci di questa illusione allargando il raggio della nostra compassione fino ad abbracciare tutte le creature e tutta la natura nella sua bellezza. Nessuno riesce a fare questo interamente, ma lo sforzo per farlo è già di per sé parte della liberazione e della fondazione della propria sicurezza interiore».
Questo è il punto dove era arrivato alla fine della sua vita l’uomo che era «solo appassionatamente curioso». L’anno prima di morire, nel 1955, chiude il cerchio dei suoi pensieri ritornando alla forza prima che lo ha portato attraverso la vita: «La cosa importante è non fermarsi mai di porre domande. La curiosità ha in sé la propria ragione di esistere. Non si può che non essere travolti dalla meraviglia contemplando i misteri del tempo, della vita, della meravigliosa struttura della realtà. È sufficiente se uno cerca semplicemente di comprendere un poco di questo mistero ogni giorno. Non perdete mai la curiosità. Non smettete mai di meravigliarvi».
Un «terzetto stellare» d’eccezione, composto da due nane bianche e da una stella di neutroni molto densa, potrà costituire un laboratorio unico per la fisica e un banco di prova per testare la teoria della relatività generale di Albert Einstein (foto ).
Descritto sulla rivista Nature, il trio di stelle è stato scoperto dal gruppo coordinato da Scott Ransom dell’Osservatorio nazionale di radioastronomia degli Stati Uniti, a Charlottesville. Le tre stelle, situate a circa 4.200 anni luce dalla Terra, si trovano in uno spazio più piccolo dell’orbita terrestre intorno al Sole.
La stella di neutroni è una pulsar che ruota velocemente su se stessa ed emette fasci di onde radio a intervalli regolari. Tali astri sono usati come strumenti di precisione per lo studio di molti fenomeni, comprese le sfuggenti onde gravitazionali, distorsioni nello spazio-tempo causate da eventi violenti come esplosioni di gigantesche stelle.
La pulsar gira su se stessa 366 volte al secondo e ruota molto vicina a una nana bianca e a una seconda un po’ più distante. «Le perturbazioni gravitazionali inflitte a ogni membro di questo sistema da parte degli altri sono incredibilmente forti» ha detto Ransom. «La pulsar è uno strumento per misurare tali perturbazioni».
Studiando il sistema con telescopi spaziali e radiotelescopi basati a Terra, è stato possibile registrare l’orario di arrivo degli impulsi radio della pulsar. Queste misure hanno permesso di calcolare la geometria del sistema e le masse delle stelle con una precisione senza precedenti. È stato scoperto che le orbite degli oggetti sono complanari, ossia quasi sullo stesso piano, e quasi circolari. Indicando così un passato evolutivo complesso.
* Corriere della Sera, 06.01.2014
Il cervello di Einstein era superconnesso:
"Il segreto del genio nel legame degli emisferi"
di SIMONE COSIMI *
PLOTONI di luminari si affannano da decenni per scoprire il segreto di Albert Einstein. Per scovare cioè la chiave della sua brillante intelligenza, che lo ha condotto a svelare i meccanismi reconditi dello spazio e del tempo. Lo fanno sulla base di una serie di immagini del cervello, alcune delle quali realizzate in fretta e furia il 18 aprile 1955 dal patologo Thomas Harvey, e oltre duemila "frammenti" distribuiti in giro per il mondo. Ricavati a partire dalle 170 sezioni che dal 2010 riposano al National Museum of Health and Medicine di Chicago e in cui l’encefalo dello scienziato fu diviso proprio da Harvey, il patologo che eseguì l’autopsia al Princeton Hospital, dopo la morte.
Un ultimo studio, diffuso lo scorso anno su Brain, aveva legato a un cervello piccolo, ma pieno di curve in particolare in certe aree come la corteccia prefrontale, quella visiva e i lobi parietali, la ragione della genialità. Più o meno nello stesso periodo un’app per iPad ne ha addirittura reso disponibili a tutti 350 scansioni. Ma in realtà l’indagine è entrata nel vivo fin dagli anni ’80, con le ipotesi di Marian Diamond. Ora un’altra ricerca, molto più affascinante, torna a indagare gli enigmi del padre della relatività.
Pubblicata sulla stessa rivista, la nuova indagine punta stavolta sugli emisferi: secondo un team internazionale capitanato da Weiwei Men della East China Normal University di Shanghai, il cervello dello scienziato tedesco naturalizzato statunitense sarebbe stato clamorosamente iperconnesso. O meglio, le due parti in cui si divide il cervello - che presentano notevoli differenze funzionali - sarebbero state collegate in modo non usuale.
"Nonostante molti studi abbiano focalizzato sulle caratteristiche istologiche e morfologiche del cervello di Einstein, i segreti della sua genialità restano un mistero" si legge nel documento, che segna così una netta differenza rispetto alle ipotesi sviluppate in passato. "Lo studio, più di ogni altro, getta davvero uno sguardo profondo all’interno del cervello di Einstein - ha aggiunto la coautrice, l’antropologa dell’evoluzione Dean Falk - ci fornisce nuove informazioni che aiutano a dare senso a quel che è invece sappiamo della sua superficie".
Per condurre la ricerca Weiwei e colleghi - fra cui Tao Sun della Washington University School of Medicine - hanno sfruttato 14 scatti fotografici inediti in alta risoluzione presi da diverse angolazioni e resi disponibili proprio lo scorso anno dalla stessa Falk. Due, in particolare, sono alla base delle scoperte. Sotto la lente è dunque finito lo spessore del cosiddetto corpo calloso. Di cosa si tratta? Dell’importante lamina interposta appunto tra i due emisferi cerebrali, costituita da fasci di fibre mieliniche e amieliniche che collegano tra loro aree corrispondenti nelle due metà. Serve a dare uniformità all’informazione elaborata in maniera diversa da ciascun emisfero.
È esclusivamente grazie a quel ponte fibroso che i due aspetti del cervello, quello creativo e razionale, il cervello poeta e quello ingegnere, riescono a comunicare. Partorendo un unico risultato.
A quanto pare gli scienziati hanno scoperto che il corpo calloso di Einstein - che in fondo sembra proprio figlio di questo prodigioso mix mentale - era più spesso in diverse zone. Soprattutto se comparato con la stessa struttura in due gruppi di controllo composti da 15 maschi più anziani e 52 più giovani nel 1905.
Quello, come noto, fu il cosiddetto annus mirabilis: il 26enne Einstein pubblicò sei lavori che avrebbero gettato le basi per la rivoluzione della fisica moderna. Dalla teoria dei quanti di Planck a quella della relatività ristretta, che anticipò di un decennio quella generale. L’accentuato spessore indica una maggiore interconnessione fra i due emisferi che, secondo i ricercatori, sarebbe all’origine della sua brillante attività accademica e scientifica.
La tecnica sviluppata dal team sino-statunitense "misura e codifica il cambiamento di spessore del corpo calloso per tutta la sua lunghezza, dove i nervi passano da una parte del cervello all’altra - hanno spiegato dalla Florida State University, dove lavora Falk - questi livelli di spessore indicano il numero di connessioni che attraversano le due parti e quindi quanto sono collegati i due emisferi in queste regioni, aree che facilitano funzioni diverse a seconda di dov’è situata l’abbondanza di fibre".
Insomma, questa sintonia fra il lato destro - fantasioso, immaginifico ed emotivo - e quello sinistro - analitico, calcolatore e razionale - del cervello sarebbe alla base della fervida intelligenza di Albert Einstein. Non meno dei solchi e delle circonvoluzioni nella corteccia cerebrale o dell’abbondanza di cellule gliali, le nutrici dei neuroni, ipotizzate dalla Diamond alla metà degli anni ‘80. Un cervello speciale, questo è certo. Peccato che lo studio non chiarisca la ricorrente e annosa domanda sul tema: geni si nasce o si diventa? Rimane insomma da appurare se questa spiccata comunicazione fosse un dono di natura o si sia è sviluppata col lavoro intellettuale.
Cervelli diversi tra uomo e donna: la foto conferma
di Caterina Soffici (il Fatto, 04.12.2013)
L’annosa questione è stata infine risolta. Un gruppo di ricercatori ha svelato il mistero dei misteri: la differenza tra uomini e donne. Ci hanno versato sopra fiumi di inchiostro, sul perché le donne non sanno leggere le cartine geografiche e gli uomini non chiedono mai le indicazioni stradale. Lo psicologo John Gray ha fatto fortuna scrivendo Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, best-seller da 6 milioni di copie.
Ora l’arcano è svelato da un gruppo di ricercatori dell’Università della Pennsylvania che ha trovato la spiegazione scientifica del perché uomini e donne pensano e agiscono diversamente.
L’The Independent ci apre addirittura l’edizione di ieri. Ora sappiamo con certezza che a influenzare il comportamento e le scelte diverse di uomini e donne sono le connessioni dei neuroni nel cervello. Nell’uomo sotto attive quelle della parte frontale e posteriore nello stesso emisfero che regolano le percezioni e le azioni coordinate. Nella donna invece, sono più attivi i legami tra i due emisferi, perciò hanno più sviluppato il pensiero logico (emisfero destro) e l’intuizione (sinistro).
La ricerca ha coinvolto 949 volontari tra gli 8 e i 22 anni, 521 donne e 428 uomini e ha confermato che le differenze iniziano a emergere con l’adolescenza, tra i 14 e i 17 anni e aumentano sempre più dopo i 18. Storia di ormoni. Quando entrano in circolo anche il cervello inizia a lavorare in modo diverso.
I volontari si sono sottoposti a un esame con uno scanner che ha messo in evidenza il percorso delle connessioni: le immagini non lasciano dubbi. Secoli di luoghi comuni confermati da una semplice foto del cervello in azione. Se le donne si ricordano maggiormente un volto, hanno più facilità relazionale, chiacchierano di più e hanno il 6° senso, il motivo è scientifico. Con buona pace di una parte del pensiero femminista che ha sempre sostenuto l’uguaglianza biologica, non è solo un fatto di condizionamenti sociali. È il cervello che funziona diversamente.
Cervello. Quel ping pong tra i neuroni che rende diversi uomini e donne
Dotati di una maggiore percezione degli spazi e capacità sportive i primi, intuitive e multitasking le seconde
Usa fotografa per la prima volta le strade seguite dagli impulsi cerebrali di maschi e femmine
di Elena Dusi (la Repubblica, 04.12.2013)
Nel ping pong dei pensieri che ci corrono in testa, uomini e donne giocano su due tavoli diversi. I maschi ragionano in lungo, le donne in largo. Nei primi le idee rimbalzano avanti e indietro, nelle seconde a destra e sinistra. Per gli esperti di architettura cerebrale, questa asimmetria si traduce in una differenza fra i due sessi, ma anche in una complementarietà, con i pregi dell’uno che compensano i difetti dell’altro. Alla maggiore capacità maschile di percepire lo spazio e coordinare al suo interno i movimenti del corpo fa da contraltare l’innata dote femminile di intuire, collegare e svolgere più compiti insieme. Lo stereotipo dell’uomo specializzato nel parcheggiare l’auto o leggere una cartina e della donna abile nel multitasking viene oggi confermato da uno studio che osserva come sono strutturati i fasci di fibre nervose nell’intero cervello di maschi e femmine.
Gli impulsi cerebrali - spiega la ricerca su Pnas- seguono due autostrade diverse nei due sessi. Fra i maschi sono molto potenti i collegamenti fra parte anteriore e posteriore del cervello. Fra le donne invece è la comunicazione fra i due emisferi a essere privilegiata. Tradotto in termini di attitudini, i maschi hanno un collegamento diretto fra le percezioni (collocate nella zona frontale) e i movimenti che coinvolgono i muscoli (gestiti dalla parte anteriore della corteccia cerebrale) e sfruttano una rapidità maggiore nel processare le informazioni. Gli impulsi elettrici nel cervello maschile viaggiano soprattutto da una parte all’altra dello stesso emisfero, esattamente il contrario delle donne, specializzate nel “saltare i ponti” fra parte destra e sinistra del cervello. Questo vuol dire, aggiunge la ricerca di un team dell’università della Pennsylvania, capacità di unire le doti di analisi (emisfero sinistro) al ben noto, secondo alcuni addirittura diabolico, intuito femminile. O di ricordare volti e nomi di persone incontrate in situazioni inusuali: compito per cui serve integrare dati immagazzinati in zone diverse del cervello.
Le differenze fra ragazzi e ragazze, come gli altri tratti sessuali, emergono intorno ai 14 anni e si approfondiscono durante l’adolescenza. Queste informazioni già note all’aneddotica sono state per la prima volta tradotte in spettacolari immagini grazie al metodo della “connettomica”. Una tecnica speciale di risonanza magnetica permette di visualizzare l’intero cervello e il percorso seguito dagli impulsi elettrici. Queste traiettorie dei pensieri sono tutt’altro che casuali: seguono autostrade ben precise, legate alle attitudini di ciascuno di noi e nitidamente visibili nelle immagini ottenute con la risonanza magnetica. «Oltre alle differenze, ciò che colpisce è la complementarietà fra doti femminili e maschili» commenta la coordinatrice dello studio Ragini Verma, che insegna radiologia all’università della Pennsylvania e ha guidato la navigazione all’interno del cervello di 949 giovani fra gli 8 e i 22 anni. «Possiamo finalmente dire di aver osservato le basi neurologiche delle diverse attitudini di uomini e donne». Per Ruben Gur, psichiatra dello stesso ateneo, «le differenze contribuiscono alla sopravvivenza della specie. La specializzazione contribuisce infatti all’adattabilità e aumenta il ventaglio dei comportamenti».
Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging research unit del San Raffaele
“Ma per avere alcune qualità ci si può sempre allenare”
intervista di E. D. (la Repubblica, 04.12.2013)
Diversi fin nell’architettura. «Le differenze che notiamo nei comportamenti e nelle attitudini nascono proprio da una diversa organizzazione dei fasci nervosi all’interno del cervello» spiega Federica Agosta, ricercatrice della Neuroimaging researchunit del San Raffaele a Milano.
Anche il vostro gruppo ha studiato le differenze fra uomini e donne. Vi sorprendono i risultati di oggi?
«No, lo avevano già dimostrato vari test comportamentali: i maschi sono più bravi nei compiti procedurali e motori, nei processi visivi e spaziali, mentre il punto forte delle donne sono multitasking, attenzione e memoria».
Questa architettura del cervello è fissa o può essere alterata dedicandosi a determinate attività?
«Il cervello resta un organo plastico, specialmente in età giovane. Dedicarsi con assiduità a determinate attività, sia motorie che intellettive, può far aumentare il volume dell’area cerebrale dedicata e far crescere il numero dei neuroni».
Lo studio del connettoma che vediamo nella ricerca di oggi ci dà più informazioni rispetto ai metodi usati nel passato?
«Gli studi tradizionali osservavano singole aree del cervello. Lo studio del connettoma ci permette di guardare l’organo nel suo complesso, e di mettere in evidenza il percorso degli impulsi nervosi».
In società complesse come quelle attuali le qualità femminili appaiono forse leggermente più utili?
«In effetti. Gli uomini ci battono in procedura, ma nelle attività della vita quotidiana le donne hanno spesso maggiore controllo». (e.d.)
Parla il fisico britannico che va oltre Einstein: il mondo è eterno, parlare di prima e dopo non ha senso
L’uomo che ha ammazzato il tempo
«C’è solo l’adesso. Tutto è potenzialmente qui, ora. L’eterno e l’istante sono i due estremi e la stessa cosa»"
«Ernst Mach mi ha influenzato con la sua idea che la grandezza dell’universo è un concetto senza significato»"
di Claudio Gallo (La Stampa, 11.03.2013I
E’ una scala di grigi la campagna inglese, le case galleggiano incerte nella foschia, piove. L’orologio sembra essersi dimenticato di South Newington, villaggio dell’Oxfordshire settentrionale: accanto alla chiesa normannogotica di Saint Peter ad Vincula c’è la grande casa contadina a tre piani del 1689 dove abita Julian Barbour, il fisico teorico che non crede all’esistenza del tempo.
Settantasei anni, alto e dritto apre la porta: gravità e ironia bisticciano sul suo sorriso. Ha studiato matematica a Cambridge, fisica a Monaco ma non ha fatto il professore, ha preferito restare indipendente. Il suo libro più noto, La fine del tempo , è pubblicato in Italia da Einaudi.
Nel tepore della cucina la moglie tedesca Verena, gravemente malata di Alzheimer, è seduta in poltrona. Nella sala, davanti a un grande camino dove il fuoco scoppietta, cerca di tradurre in parole semplici la sua teoria. È successo, spiega, che la nostra immaginazione non è più capace di stare al passo con la fisica moderna: del mondo probabilistico della meccanica quantistica sembra impossibile farsi un’immagine intuitiva. Così, dire che il tempo non esiste è evidentemente contro ogni buon senso.
«Al livello più elementare, sostengo che il tempo non esiste perché non si può osservare. Tutto ciò che è possibile vedere sono le cose che cambiano. L’aveva già detto Lucrezio: “Nemmeno il tempo sussiste come entità, sono le cose stesse a creare il senso di ciò che è trascorso”. Noi vediamo che le cose cambiano in modo coordinato e l’orologio ce lo conferma. Ma costruire orologi precisi non fu affatto facile in passato. A riuscirci fu Christian Huygens, scienziato olandese nel XVII secolo. Anticamente il tempo era calcolato sull’orbita delle stelle perché il sole non era considerato attendibile, a causa, si scoprirà poi, dell’ellitticità dell’orbita terrestre, e dell’inclinazione del suo asse di rotazione. La vita degli uomini andava con il sole, quella degli studiosi con le stelle. Il pendolo di Huygens, di Galileo e di Newton era sincronizzato col tempo siderale».
Fu Newton, attivo quando fu costruita la casa dove oggi stiamo parlando, a dare una fondamentale descrizione del tempo come qualcosa che fluisce indipendentemente dalle cose. «Shakespeare - ricorda ironicamente Barbour - fu più accorto, non cercò di definire il tempo ma ne descrisse gli effetti nel secondo sonetto: “Quaranta inverni al tuo bel incarnato / in guerra di trincea daranno assedio / sarà il tuo manto, fiero e invidiato / lacera veste senza più rimedio...”».
Per farsi meglio capire, Barbour prende la coppia di triangoli di legno che adopera nelle sue conferenze. «Per spiegare il cambiamento basta una varietà di forme. Supponiamo di avere soltanto tre corpi nell’universo, tre particelle. Muovendosi, in ogni configurazione formano un triangolo diverso: è tutto ciò che possiamo dire, non ci sono altre informazioni, non c’è modo di dire quanto tempo passa tra due configurazioni. Questi istanti sono ciò che chiamo “adesso”. Si può vederla come una successione ma non necessariamente tra un prima e un poi, tutto è potenzialmente qui, ora, non c’è una direzione necessaria come nel nostro tempo intuitivo. L’eternità e l’istante sono i due estremi e anche la stessa cosa».
Non a caso Barbour ha chiamato il suo mondo delle forme Platonia. Anche lui come Platone è convinto che l’essenza della realtà è geometrica. «Possiamo dire con il filosofo ateniese che il mondo dal quale nasce la percezione del tempo è eterno. Chiamo la parte più recente delle mie ricerche ”dinamica delle forme”».
Lo studioso ama trarre i suoi esempi dalla dinamica di Newton, che si basa su un piccolo numero di «condizioni iniziali» e da questi dati può ricavare tutta la storia del sistema. «Da questo punto di vista non si può dire che il passato determini il futuro tanto quanto che il futuro determini il passato. È un grande mistero il fatto che la legge funzioni in entrambi i sensi. Anche se per noi sembra esserci una chiara direzione verso il futuro che lega le cose con un senso comune incontrovertibile». Semplificando, possiamo dire che l’origine dell’universo, spiegato dalla fisica tradizione con il Big Bang, coincide nella Dinamica delle Forme col triangolo equilatero, la massima uniformità possibile.
Anche se Barbour non si spinge a fare paragoni, la sua fisica ricorda il buddismo, dove la percezione del mondo è condizionata dall’accumulazione dei ricordi che si cristallizzano in un io fittizio, tutto è un gioco combinatorio di rapporti tra forme, nulla esiste per sé.
Il mondo descritto da Barbour ricorda poi quello di Spinoza dove ogni cosa partecipa del tutto. «Schroedinger, uno dei padri della teoria dei quanti, credeva che l’universo fosse cosciente. Questo ovviamente è molto poco scientifico ma lo credo anch’io. Il fisico che mi ha influenzato di più resta comunque Ernst Mach, con la sua idea che la grandezza dell’universo è un concetto senza significato. Lui, Dirac, York e Wheeler mi hanno fatto capire che il tempo relativo di Einstein non è il modo migliore di descrivere le cose». Eppure un giorno morirò, pensa la gente davanti alla negazione del tempo. Che cos’è la morte? «È solo un altro adesso, la sequenza continuerà con la decomposizione del corpo». E poi? «Non c’è un poi, è tutto qui adesso in Platonia. Prenda la sequenza dei numeri: è ridicolo che il 17 dica che l’8 è morto solo perché è venuto prima».
Così sorge il Sole dei quanti
di Carlo Rovelli (Il Sole 24 ore, 10.02.2013)
Cento anni fa, nel 1913, Niels Bohr, ventisettenne fisico danese, nonché portiere della squadra di calcio Akademisk Boldklub di Copenhagen, mandava alla rivista «Philosophical Magazine» un articolo destinato a diventare uno dei pilastri della fisica del Novecento. L’articolo aveva il titolo Sulla costituzione degli atomi e delle molecole, e descriveva in dettaglio quell’immagine dell’atomo che oggi è familiare a tutti noi: un nucleo centrale pesante e molto piccolo, attorno al quale orbitano a diverse distanze gli elettroni, come pianeti di un minuscolo sistema solare.
L’articolo proponeva la strana idea che gli elettroni non potessero ruotare intorno al nucleo a distanze arbitrarie, ma dovessero solo muoversi su certe orbite particolari, caratterizzate da particolari energie. Questa restrizione non ha alcun senso nella meccanica Newtoniana, e Bohr era consapevole di stare di fatto proponendo un’ipotesi che contraddiceva la fisica di allora. Da più di due secoli la fisica Newtoniana non faceva che trionfare, e suggerire che per capire gli atomi si dovesse cambiarla era una mossa ardita.
C’erano stati due precedenti. Il primo, sostanzialmente inconsapevole, nei 1900, quando il fisico austriaco Max Planck era riuscito a scrivere una formula che descriveva molto bene la radiazione emessa da un corpo caldo introducendo una nuova costante, oggi chiamata la costante di Planck, il cui significato appariva piuttosto misterioso. Il secondo, visionario, dovuto al genio del giovanissimo Einstein, che nel 1905, per spiegare certi comportamenti della luce, ipotizza che la luce non sia un’onda ma sia uno sciame di corpuscoli, oggi li chiamiamo i fotoni, la cui energia può prendere solo certi valori, determinati appunto dalla costante di Planck.
Oggi diciamo che l’energia è fatta da «quanti di energia», pacchetti di energia. L’idea di Einstein non fu presa sul serio da nessuno, tutti erano convinti che la luce fosse solo e nient’altro che un’onda elettromagnetica, fino all’articolo di Bohr. Bohr riprende l’idea di Einstein che l’energia possa avere solo certi valori, determinati dalla costante di Planck, e la trasferisce dalla luce agli atomi: gli elettroni che orbitano in un atomo possono avere solo certe energie, determinate dalla costante di Planck.
Facendo questa “strana assunzione”, Bohr riesce a calcolare il comportamento degli elettroni, e ritrovare in modo esatto tutti i risultati di una grande quantità di osservazioni sugli atomi che si erano accumulati negli anni precedenti. In altre parole, tutte le osservazioni fatte diventano comprensibili se solo si assume che l’energia esista in «quanti di energia», in pacchetti di energia. Ma l’esistenza di «quanti di energia» non ha alcun senso nella fisica di Newton.
Comprendere la natura di questi «quanti di energia», che appaiono regolare la natura alla scala atomica diventa allora, dal 1913, il problema fondamentale della micro fisica. Attorno a Bohr, a Copenhagen, si raccoglie pian piano uno straordinario insieme di giovani brillanti, che saranno quelli che faranno la fisica del secolo.
Da Copenhagen passano tutti: dai grandi fisici russi come Landau e Bronstein, ai giovani americani che dopo la guerra saranno padri della fisica americana, come John Wheeler. Nel 1926, il giovanissimo Werner Heisenberg, da poco arrivato a Copenhagen dalla Germania, riuscirà con uno straordinario colpo d’ala a scrivere nuove equazioni che sostituiscono completamente la fisica di Newton: è la nascita della meccanica quantistica, oggi ancora la nostra teoria fondamentale sul mondo fisico.
Nei decenni successivi la meccanica quantistica diventa la base teorica non solo per la fisica atomica, ma anche per la fisica nucleare, la fisica delle particelle, la fisica della struttura della materia, l’astrofisica, e trova applicazioni innumerevoli che vanno dai laser ai semiconduttori che sono al cuore dei computer che hanno cambiato la nostra vita.
Lungo tutto il percorso della nascita della teoria dei quanti, dalle prime intuizioni sulle orbite degli elettroni fino alle applicazioni nucleari, Niels Bohr resterà il padre e il grande pensatore di riferimento: è lui che passa le notti a parlare con il giovane Heisenberg nel parco di Copenhagen dietro all’istituto che oggi si chiama Istituto Bohr, per spiegargli cosa si capisce e cosa non si capisce ancora, e convincerlo a cercare le equazioni giuste.
È lui che comprende la stranezza concettuale della nuova teoria dove le onde sono anche corpuscoli e i corpuscoli sono anche onde. È a lui che si rivolge Einstein, che dopo essere stato il primo a comprendere che la fisica newtoniana andava superata e il primo a proporre i «quanti di luce», resta tuttavia incredulo e perplesso per la sconvolgente novità concettuale della teoria quantistica.
Il lungo dialogo sulla meccanica quantistica fra Einstein e Bohr, i due giganti della fisica del Novecento, continua fino alla fine della loro vita ed è un capitolo emozionante della storia della scienza, raccontato splendidamente in Quantum. Da Einstein a Bohr, la teoria dei quanti, una nuova idea della realtà di Manjit Kumar (Mondadori).
Durante la guerra la Danimarca è occupata dai Tedeschi. Bohr, danese, riceve l’inaspettata visita del suo migliore studente, Werner Heisenberg, il giovane che per primo ha risolto il problema dei quanti. Heisenberg, tedesco, raggiunge in treno e clandestinamente la Danimarca occupata, per avere una conversazione con il suo vecchio maestro. Il dialogo fra i due potrebbe avere avuto un effetto sulla storia stessa del mondo.
Entrambi sono consapevoli che la nuova fisica quantistica può essere usata per costruire una nuova bomba di sconvolgente potenza. Anche Hitler se ne è reso conto, e vuole mettere Heisenberg alla testa di un centro di ricerca con il compito di sviluppare l’arma. Heisenberg e Bohr si parleranno a lungo quella notte, camminando in quello stesso parco dove parlavano di fisica quindici anni prima.
Su quel dialogo sono stati scritti libri ed è stato composto da Michael Frayn un emozionante dramma teatrale, Copenhagen. Il vecchio mentore e il giovane tedesco si lasceranno senza essersi capiti e conserveranno ricordi diversi di quella notte. Heisenberg andrà a dirigere il centro di ricerche di Hitler, ma non farà mai la bomba atomica. Dopo la guerra sosterrà di non averla fatta nella speranza che anche i fisici dall’altra parte del fronte facessero lo stesso, e all’umanità fosse risparmiata la devastazione atomica e il rischio continuo della catastrofe. Molti non gli crederanno.
Bohr, poco tempo dopo, sarà avvicinato, sempre in quel parco, da un signore che gli darà una spinta e poi si scuserà raccattando da terra una penna e dicendo «la sua penna, professore». Tornato a casa perplesso, Bohr smonterà la penna per trovarvi dentro un biglietto firmato da Winston Churchill, che gli chiede di accettare di essere rapito dai servizi segreti inglesi e fatto uscire clandestinamente dalla Danimarca occupata. Dopo avere attraversato avventurosamente la Manica su una barca, Bohr arriva in America, per partecipare al progetto Manhattan dove viene costruita la prima bomba atomica: non si poteva fare, senza il padre della meccanica quantistica.
Ma al progetto parteciperà poco e dopo la guerra prenderà posizione per il controllo degli armamenti. Come Einstein, che pure era stato strumentale per la partenza del progetto, il vecchio fisico europeo fa ormai parte di un’altra generazione.
L’atomo sistema planetario del 1913, con gli elettroni sulle orbite quantizzate, aveva aperto un’era nuova, l’era in cui oggi viviamo. Il sapere è potere, ma coloro che sviluppano il sapere, non sono coloro che gestiscono il potere.
Chi dice che il tempo scorre?
di Carlo Rovelli (Il Sole-24 ore, 30 dicembre 2012)
Ma il tempo scorre davvero? La domanda sembra paradossale, ma la settimana scorsa si è tenuta a Città del Capo una vivace conferenza interdisciplinare centrata su questa domanda, mettendo a confronto riflessioni sulla natura del tempo in un arco di discipline che va dalla fisica alla filosofia, dalla psicologia all’antropologia. Il titolo dell’incontro, organizzato da Huw Price, filosofo dell’Università di Cambridge e grande esperto di filosofia del tempo, e dai membri del «Centro di ricerca sul Tempo» dell’Università di Sydney, era la domanda: «Abbiamo bisogno di una fisica dello "scorrere del tempo"?». Il dialogo fra le discipline si è rivelato fluido e costruttivo, confermando come l’auspicato avvicinamento fra scienze della natura e scienze dell’uomo sia bene in corso nel mondo. Non sono mancate divergenze, ma la conferenza ha mostrato ancora una volta che discipline molto diverse possono parlare un linguaggio mutualmente comprensibile e offrire elementi di risposta l’una ai problemi dell’altra, e ha addirittura portato a una insospettata convergenza: dopo una settimana di animate discussioni è emerso un certo consenso su una risposta negativa alla domanda del titolo: «No, non ci serve una fisica fondamentale del "passaggio del tempo"». Un po’ come dire: «il tempo, in fondo, non passa davvero»...
Il problema di cosa sia il fluire del tempo nasce nella fisica classica ed è stato sottolineato dai filosofi fra il XIX e il XX secolo, ma diventa assai più acuto con la fisica moderna. La fisica descrive il mondo per mezzo di formule che dicono come variano le cose in funzione della «variabile tempo». Ma si possono anche scrivere formule che descrivono come variano le cose in funzione della «variabile posizione», oppure come varia il gusto di un risotto in funzione della «variabile quantità di burro». Ora la quantità di burro o la posizione nello spazio non "scorrono", mentre il tempo sembra "scorrere". Da dove viene la differenza? Un altro modo di porre il problema è chiedersi cosa sia il "presente".
Diciamo che le cose che esistono sono quelle nel presente: il passato non esiste (più) e il futuro non esiste (ancora). Ma nella fisica non c’è niente che corrisponde alla nozione di "adesso". Confrontate "adesso" con "qui". "Qui" designa il luogo dove sta chi parla: per due persone diverse, "qui" indica due luoghi diversi. Anche "adesso" designa l’istante in cui la parola viene detta. Ora nessuno si sognerebbe di dire che le cose "qui" esistono, mentre le cose che non sono "qui" non esistono: perché allora diciamo che le cose che sono "adesso" esistono e le altre no? Il presente è qualcosa di oggettivo nel mondo, che "scorre" e fa "esistere" le cose l’una dopo l’altra, oppure è solo soggettivo come "qui"?
La questione può sembrare cervellotica. Ma la fisica moderna l’ha resa scottante, perché la relatività di Einstein ha mostrato che la nozione di "presente" è addirittura mal definita. Chiedersi se una cosa avviene "proprio ora" ha significato solo per cose vicine nello spazio; chiedersi cosa stia succedendo "ora" su una galassia lontana è senza significato, come chiedersi cosa succede "qui" a Pechino. Gli eventi su una galassia lontana si dividono in tre gruppi: quelli per noi "passati", di cui vediamo gli effetti, quelli "futuri", sui quali possiamo influire, e un gruppo intermedio di eventi né passati né futuri, che include però milioni di anni sulla galassia. Per le cose vicine, questo lasso di tempo «né passato né futuro», è molto breve (un nano-secondo a qualche metro da noi e un milli-secondo a New York), quindi non ci rendiamo conto dello «spessore del presente» che alle nostre distanze è più piccolo della nostra soglia di percezione. Ma lo «spessore del presente» esiste, e mostra che l’idea intuitiva di "presente", come insieme degli eventi che accadono «ora nell’universo», è solo una limitatezza delle nostre percezioni.
Il presente come lo concepiamo di solito, non esiste. Cosa dedurne? Fisici e filosofi sono arrivati alla conclusione che l’idea di un presente dell’universo è un’illusione, e lo "scorrere" universale del tempo ha carattere illusorio. In una lettera commovente scritta alla vedova quando muore il suo grande amico italiano Michele Besso, Albert Einstein scrive: «Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione». L’alternativa è l’immagine dell’«universo blocco»: passato, presente e futuro dell’universo rappresentati in un unico «blocco». Nel blocco, il significato della parola "adesso" è come il significato di "qui": solo il particolare punto in cui la parola viene pronunciata. Piuttosto che un tempo che "scorre", siamo noi stessi, o meglio la nostra coscienza, ad "arrampicarsi" pian piano su per una linea dentro l’universo blocco, come un tarlo che scava il tronco di un albero.
Ma è davvero così? Non manca qualcosa che spieghi il fatto che il tempo "scorre", "passa", "fluisce"? Lo scorrere del tempo è palese per ciascuno di noi: i nostri pensieri e il nostro parlare esistono nel tempo, la struttura stessa del nostro linguaggio richiede il tempo (una cosa "è", oppure "era", oppure "sarà"). Possiamo immaginare un mondo senza colori, senza materia, anche senza spazio, ma non senza tempo. È Heidegger che ha espresso con forza questo nostro «abitare il tempo». Possibile che il fluire del tempo che Heidegger pone come primitivo, sia assente dalla descrizione fondamentale del mondo? Alcuni filosofi, tra i quali i più devoti heideggeriani, ne concludono che la fisica non è capace di descrivere gli aspetti più fondamentali del reale, e la squalificano come un modo di conoscenza fuorviante. Ma troppe volte in passato ci siamo resi conto che sono le nostre intuizioni immediate a essere sbagliate: se ci fossimo attenuti a esse, penseremmo ancora che la Terra sia piatta e il Sole le giri intorno. Le intuizioni si sono evolute sulla nostra esperienza limitata. Quando guardiamo un po’ più lontano, scopriamo che il mondo non è come ci appare: la Terra è rotonda e a Città del Capo hanno i piedi in su e la testa in giù.
Fidarsi delle intuizioni immediate, più che dei risultati di una disamina collettiva razionale, attenta e intelligente, non è saggezza: è la presunzione del vecchietto che si rifiuta di credere che il grande mondo fuori dal paesino dove vive possa essere diverso da quello che lui ha sempre visto.
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http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-12-30/dice-tempo-scorre-081551.shtml?uuid=AbaPx7FH
Biografia di un pacifista
Einstein pensatore e militante politico raccontato da Greco
Una scelta radicale
Già sensibile in giovane età, sognò l’unione europea nel ’14 e cercò di fermare la bomba atomica
di Gaspare Polizzi (l’Unità, 29.09.2012)
C’È UN ALTRO EINSTEIN OLTRE ALLO SCIENZIATO UNIVERSALMENTE NOTO: il pensatore e il militante politico che intervenne da protagonista per quarant’anni, dalla prima guerra mondiale allo scontro bipolare tra Usa e Urss, nelle drammatiche vicende del Novecento. Pietro Greco offre per la prima volta, in Einstein aveva ragione. Mezzo secolo di impegno per la pace, un quadro completo dell’Einstein politico, per «dimostrare che l’uomo è stato un pacifista militante», ricostruendo il suo impegno in stretta connessione con la sua attività di scienziato e rintracciandone con efficacia le prime motivazioni nella formazione giovanile.
L’orizzonte ideale in cui si muove l’Einstein politico è segnato, in progressione di importanza, dal socialismo, dalla democrazia e dal pacifismo. Fu un pacifismo «militante e intellettuale, intuitivo e analitico», che viene seguito da Greco nell’intreccio tra la biografia di Einstein e la storia del Novecento, con aggettivi diversi che scandiscono storicamente i capitoli del libro: pacifismo «istintivo» quello del giovane Albert, «radicale» nella tragedia annunciata dall’avvento del nazismo in Germania, «autosospeso» dinanzi allo spettro della guerra mondiale e alla scelta del governo Usa di costruire la bomba atomica, infine nuovamente impegnato, dopo la guerra, per il disarmo nucleare. I fantasmi contro i quali Einstein combatté nei suoi ultimi anni sono ancora dinanzi a noi: «quello della guerra atomica, che non accetta di scomparire. E quello della guerra classica, che è diventato ancora più aggressivo». A ragione Greco conclude: «Non solo la fisica, ma anche la pace aspetta un nuovo Albert Einstein».
L’ultima battaglia dello scienziato produsse il Manifesto Einstein-Russell, firmato poco prima di morire per contrastare l’escalation nucleare, nel quale si legge: «esortiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a riconoscere pubblicamente, che i loro scopi non possono essere favoriti da una guerra mondiale, e, di conseguenza, li esortiamo a trovare mezzi pacifici per la sistemazione di tutti gli argomenti di contesa tra loro». Sulle basi di questo manifesto è sorta la «Conferenza di Pugwash per la scienza e gli interessi del mondo», che otterrà nel 1995 il Nobel per la Pace.
LA SUA LUNGIMIRANZA
Il primo documento politico firmato da Einstein fu il Manifesto agli Europei, scritto allo scoppio della prima guerra mondiale. Nel 1914 Einstein mostrò ancor più coraggio che nel 1955. Era già uno tra i più noti fisici europei e il grande Max Planck, «il fisico più influente di Germania, il più noto fisico teorico del mondo», lo aveva appena accolto a Berlino e con l’entrata in guerra della Germania aveva firmato un patriottico e militarista Appello alla cultura mondiale. Einstein, coraggiosamente, gli contrappone il suo manifesto dove si legge «Noi dichiariamo qui pubblicamente la nostra fede nell’unità europea... Il primo passo in questa direzione è l’unione delle forse di tutti coloro che hanno sinceramente a cuore la cultura dell’Europa». Un sogno che prenderà forma 27 anni dopo con il Manifesto di Ventotene del 1941.
Nel 1914 il trentacinquenne Einstein esprime per la prima volta pubblicamente il suo spirito pacifista, anti-militarista e anti-autoritario. E il suo «sentire» ha radici profonde: nelle felici esperienze formative vissute soprattutto a Zurigo, terra di grande vivacità intellettuale, dalla quale transitarono tra ‘800 e primo ‘900 pensatori socialisti e anarchici come Marx, Bakunin, Proudhon, Lenin, Luxemburg, Trockij, esponenti della cultura e della politica ebraica come Weizmann, il futuro primo Presidente dello Stato di Israele, psicoanalisti del rango di Jung.
Il carattere antiautoritario di Einstein si esprime già a cinque anni, quando scaglia una sedia contro la sua insegnante «privata» che dovrebbe trasmettergli un’istruzione più formale. Esso si unisce presto a una vocazione alla conoscenza che lo conduce a leggere già a tredici anni non per interesse «puramente personale», ma per comprendere il mondo, libri come la Critica della ragion pura di Kant o un manuale di geometria euclidea grazie il quale coltiva da sé il calcolo differenziale e integrale, e poi opere di Hume, Darwin, Mach.
Si costruisce così in modo del tutto personale una vasta cultura scientifica, accompagnata sempre da un atteggiamento ironico e anti-autoritario. Sarà questa sua solitaria rivolta contro ogni condizionamento culturale e religioso a portarlo a decidere a sedici anni di concorrere per l’iscrizione al Politecnico di Zurigo, rinunciando alla cittadinanza tedesca ed evitando il servizio militare. A Zurigo si consolidano e arricchiscono quegli orizzonti intellettuali che faranno di Einstein uno tra i maggiori scienziati di ogni tempo, ma anche un virtuoso musicista (violino e pianoforte) e un libero pensatore intrigato dalla filosofia della natura e dalla cultura politica socialista.
C’è una nota obiezione dinanzi a questa immagine «pacifista» di Einstein: quella legata al «mito» che lo fece «padre della bomba atomica». Si tratta di un mito che Greco smonta con grande efficacia. Einstein inviò tre lettere a Franklin Delano Roosevelt. La prima, notissima, del 2 agosto 1939, invita pressantemente il presidente Usa a sviluppare un progetto per la costruzione e l’impiego della bomba atomica per sconfiggere il nazismo.
Sappiamo quale potenza ed efficacia ebbe il Progetto Manhattan, al quale tuttavia Einstein mai parteciperà per il «veto dei servizi di sicurezza e dei militari», che sanno del suo impegno pacifista e delle sue simpatie socialiste e democratiche, e lo controllano in ogni movimento. Lo scienziato non è a conoscenza dello sviluppo del progetto atomico e delle decisioni politiche e militari, ma, sollecitato dal fisico Szilard, che era stato «il più lucido e il più determinato nel volere la bomba», ma che nel 1944 diventa «il più lucido e il più determinato nel volerla bloccare», scrive ancora a Roosevelt nel marzo 1945 per impedire che la bomba venga lanciata: la morte di Roosevelt e il passaggio all’amministrazione Truman bloccheranno il tentativo.
Pietro Greco ci dimostra con questo libro bello e utile (anche perché chi lo acquista devolve un euro a Emergency) che le utopie e i sogni, anche se non si avverano del tutto, possono dirigere la nostra azione per «salvare» il mondo.
l’Unità 31.3.12 La scienza deve essere libera di Umberto Guidoni
Voglio prendere spunto dal caso dei «neutrini più veloci della luce» per riflettere sul ruolo della scienza nella società moderna. La notizia delle dimissioni di Antonio Ereditato responsabile dell’esperimento «Opera» che ha dato notizia di un risultato dimostratosi falso riporta alla ribalta il tema dei condizionamenti della ricerca. Negli ultimi decenni, la scienza è apparsa sempre più condizionata dalla dimensione economica: una tendenza che porta a favorire la ricerca applicata rispetto a quella di base, lo sviluppo di nuove tecnologie piuttosto che la scoperta di nuove teorie scientifiche. Secondo uno studio dell’Onu: «la ricerca scientifica e tecnologica è sempre più mirata alla ricerca del profitto, piuttosto che alla soluzione dei problemi fondamentali per l’umanità... Soltanto il 10% della spesa per la ricerca è dedicata ad affrontare il 90% dei problemi più urgenti nel mondo». La comunità scientifica ha tentato di resistere ai tentativi di ingabbiarla.
Gli scienziati hanno creato una comunità globalizzata, che ha reso possibile quella grande circolazione di idee che ha portato allo straordinario sviluppo di conoscenze del secolo scorso. Ma proprio grazie a questi successi, la tecnologia è entrata sempre più nei processi produttivi e la ricerca ha finito per essere percepita come un elemento di natura economica, a cui applicare le leggi del mercato.
Dietro l’affanno a pubblicare i risultati ancor prima di una verifica tra la comunità scientifica c’è, forse, la pressione del «mercato», la necessità di ottenere risultati «visibile» per giustificare i costi della ricerca o per ottenere nuovi finanziamenti dagli sponsor. In questo modo si cercano i sentieri più facili, quelli che portano direttamente sulle pagine dei quotidiani e sui set televisivi, tralasciando cammini più impervi che richiedono anni di «oscuro» lavoro di elaborazione e di studio. Così si rischia di stravolgere la vera missione della ricerca scientifica: la creazione di nuovo sapere.
Il rapporto fra ricerca, innovazione e sviluppo economico è certamente reale, ma va articolata su livelli di maggiore complessità. La scienza, infatti, è un lavoro collettivo di individui e gruppi, in un delicato equilibrio fra competizione e collaborazione.
Alterare questa complessa alchimia, favorendo la competizione a danno della diffusione della conoscenza, fa inaridire la creatività e rischia di rallentare il progresso scientifico. Viceversa, quando il frutto della ricerca produce nuove idee diventa un palestra per preparare le persone a risolvere «problemi complessi» e contribuisce all’evoluzione complessiva della società. Ma per farlo, deve mantenere la sua libertà di azione, senza vincoli politici od economici, condizione che può essere garantita solo dall’intervento pubblico.
E qui veniamo al caso specifico del nostro Paese: il taglio drastico ai fondi pubblici per la ricerca sta costringendo le Università e gli Epr a cercare risorse private con il rischio di mettere in discussione l’autonomia stessa della scienza.
L’esperimento sul «viaggio» delle particelle tra Ginevra e Gran Sasso
I risultati falsati da una cattiva connessione tra il Gps e un computer
«C’è stato un errore» I neutrini non vanno più veloci della luce
La «misura che ha fatto scalpore», perché sanciva che i neutrini viaggiavano a una velocità superiore a quella della luce smentendo Einstein, nasceva dal cattivo funzionamento di una scheda informatica.
di Pietro Greco (l’Unità, 23.02.2012)
Si tratterebbe di un errore. Una cattiva connessione tra l’unità Gps (il sistema satellitare che consente di misurare con estrema precisione la distanza tra due unti) e un computer potrebbe essere la causa della «misura che ha fatto scalpore». I neutrini non vanno più veloci della luce. E non falsificano la teoria della relatività di Albert Einstein.
Oggi sarà la “collaborazione Opera”, diretta dall’italiano Antonio Ereditato, a riconoscerlo in un comunicato ufficiale. Ma le voci ieri sera sono corse con insistenza e hanno trovato riscontro anche sul sito della rivista americana Science. La collaborazione Opera studia il comportamento di fasci di neutrini che, generati al Cern di Ginevra, raggiungono i Laboratori Nazionali che l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare ha sotto il Gran Sasso. I neutrini sono le particelle più elusive che si conoscano. Ma Opera ha a disposizione strumenti di rilevamento eccezionali.
Nell’effettuare queste misure la collaborazione Opera ha raggiunto risultati di valore assoluto: ha, tra l’altro, verificato che i neutrini oscillano (sono di tre tipi e si trasformano l’uno nell’altro) e dunque hanno una massa. Per due anni il gruppo internazionale di scienziati ha ottenuto alcune misure che sembravano incredibili. Facendo i conti si otteneva che le minuscole particelle viaggiavano a una velocità superiore a quelle della luce. Coprivano la distanza tra Ginevra e il Gran Sasso, circa 730 chilometri, in 60 nanosecondi (miliardesimi di secondo) meno di quanto avrebbe fatto la luce. Queste misura metteva in seria difficoltà la teoria della relatività ristretta uno dei cardini della fisica moderna secondo la quale la velocità della luce non può essere mai superata. Se fosse stata vera, sarebbe passata ai posteri come una delle più importanti scoperte in fisica degli ultimi due o tre secoli.
CONTROLLI SU CONTROLLI
I conti a Opera sono stati fatti e rifatti. Ma nessuno, per mesi, ha trovato un errore. Quindi la decisione, lo scorso autunno, di rendere nota la notizia, con un articolo scientifico e con un seminario tenuto a Ginevra ma seguito in tutto il mondo. Ereditato e il suo gruppo sono stati molto onesti. Non hanno voluto interpretare i dati. Non hanno detto che i neutrini viaggiano certamente a una velocità superiore a quella della luce. Hanno detto: questi sono i dati. Noi non troviamo errori. Se qualcuno è in grado bene. Noi continuiamo a effettuare misure e attendiamo con serenità altre verifiche indipendenti. Alcuni ancora più prudenti, anche all’interno di Opera, sostenevano che quei dati non andavano resi pubblici.
Col senno di poi gli scettici a oltranza sembrano aver avuto ragione. L’errore c’era ed era banale: il malfunzionamento di una scheda informatica. Solo che era ben nascosto. E, infine, è stato individuato. Dal medesimo gruppo che, ove la scoperta fosse stata confermata, sarebbe passata alla storia.
L’errore lascia l’amaro in bocca. Ma a ben vedere è un ottimo esempio di come funziona la scienza. Non sempre ci fornisce verità. Ma ha al suo interno la capacità e l’onestà intellettuale di correggere se stessa. E, in fondo, è questo il segreto del suo successo.
La vendetta di Einstein
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 23.02.2012)
Il buon vecchio Einstein si è salvato. La sua teoria della relatività, messa in forse dagli esperimenti del Cern sui neutrini veloci, si è salvata anch’essa. È stato infatti annunciato che le macchine usate per l’esperimento erano difettose. L’episodio ci permette di fare alcune considerazioni. La prima, anticipata di molti decenni dallo stesso Einstein, è che «la scienza non è una repubblica delle banane, in cui succedono rivoluzioni ogni sei mesi».
Il pubblico si appassiona sempre ai cambiamenti epocali, ma forse nella scienza è più utile concentrarsi sugli aspetti ormai assodati, sui risultati acquisiti, che non sulle nuove idee che ancora attendono conferme e verifiche.
La seconda considerazione è, però, che all’annuncio dell’esperimento il mondo intero si è coalizzato nel tentativo di comprendere quali sarebbero state le conseguenze teoriche e pratiche di una velocità superluminale dei neutrini. Articoli di giornale, discussioni sui blog, seminari di ricerca hanno rivisto i fondamenti della relatività di Einstein, mettendo a volte in luce aspetti nascosti o impostazioni innovative che un secolo di abitudine alla teoria avevano lasciato in ombra. In un’intervista al nostro giornale, pochi giorni dopo l’annuncio dei risultati dell’esperimento, il premio Nobel Shelly Glashow ha sottolineato quali sarebbero state le conseguenze d’una conferma dell’esperimento: conseguenze così in contrasto con il resto della fisica conosciuta, che costituivano quasi una confutazione per assurdo dell’esperimento stesso. Ma questi suoi contributi, insieme a quelli di molti altri, ci hanno comunque chiarificato che possiamo considerare la velocità della luce come un limite insuperabile, e possiamo continuare a usare la relatività come una teoria insostituibile.
Gli occhi del mondo intero si concentrano ora, dopo l’ubriacatura dei neutrini, su altri esperimenti del Cern e di altri laboratori. In particolare, l’annunciata e probabile scoperta della cosiddetta «particella di Dio», così come dell’attesa, ma per ora ancora non verificata, esistenza di «particelle simmetriche». L’episodio dimostra comunque come la scienza contenga dentro di sé gli anticorpi per i propri possibili errori, e come in un breve volgere di tempo la comunità scientifica possa mettere proposte anche rivoluzionarie sotto il microscopio per verificarle o confutarle. E’ in questo processo dialettico di dimostrazioni e refutazioni che si cela il segreto del successo della scienza.
Il Festival delle Scienze
Il cosmologo J. Richard Gott spiega uno dei grandi misteri della fisica
Se Einstein ci insegna a viaggiare nel tempo
Proprio grazie alla teoria della relatività speciale le avventure immaginate da H.G. Wells nei suoi romanzi non sono solo delle fantasie
di J. Richard Gott (la Repubblica, 18..01.2012)
Quando nel 1895 H.G.Wells scrisse La macchina del tempo, le leggi della fisica sostenevano che viaggiare nel tempo fosse impossibile. Il romanzo di Wells fu visionario nel trattare il tempo come una dimensione dieci anni prima che Minkowski usasse questo concetto nell’interpretazione della teoria della relatività speciale di Einstein. A volte la fantascienza anticipa la scienza vera e propria.
Nel 1905 Einstein mostrò come nella sua teoria della relatività speciale il viaggio nel futuro fosse invece possibile. Lo scienziato basò la propria teoria su due postulati: 1. il moto è relativo e 2. la velocità della luce (300000 km al secondo) è costante.
Dopodiché, Einstein dimostrò i teoremi basati su questi due postulati. Un teorema sostiene che non possiamo costruire un razzo che vada più veloce della luce: se il razzo su cui ci troviamo stesse viaggiando a una velocità maggiore di quella della luce, potremmo sparare un laser verso la punta del razzo e il fascio non la colpirebbe mai. La punta del razzo infatti si muove più veloce ed è partita prima: una volta che ci accorgessimo del fatto che il fascio laser non la raggiunge scopriremmo di starci muovendo, e questo non è permesso dal primo postulato.
Einstein immaginò il seguente esperimento mentale: costruiamo un orologio in cui un raggio di luce rimbalza su e giù tra due specchi orizzontali. Immaginiamo che un astronauta passi in volo accanto alla Terra a una velocità prossima a quella della luce, muovendosi da sinistra verso destra e con in mano un orologio del genere. Mentre si muove, noi sulla Terra vedremmo che i raggi luminosi dell’orologio dell’astronauta si muovono lungo percorsi diagonali tra i due specchi. Vedremmo che l’orologio ticchetta più lentamente rispetto al nostro - sulla Terra - perché questi percorsi diagonali sarebbero più lunghi rispetto a quelli che la luce compie nel nostro orologio. Allo stesso tempo, noteremmo che l’astronauta invecchia più lentamente rispetto a noi; in caso contrario, il suo invecchiamento non concorderebbe con il proprio orologio e l’astronauta potrebbe accorgersi di essere in uno stato di moto, cosa non permessa dal primo postulato.
Ecco come Einstein mostrò che gli orologi in moto ticchettano lentamente. Noi crediamo alla teoria di Einstein perché molti dei teoremi che ha dimostrato a partire dai suoi postulati sono stati messi alla prova e hanno dimostrato di essere veri. Uno di questi è la famosa equazione (Energia uguale alla massa per il quadrato della velocità della luce), che è stata dimostrata dalla bomba atomica. Einstein ci ha dipinto un mondo strano in cui orologi in moto uno rispetto all’altro non concordano, ma sembra proprio che sia il mondo in cui viviamo, perché tutti i test sperimentali della teoria di Einstein hanno dato i risultati previsti. Orologi atomici in viaggio su aeroplani che volano da est verso ovest intorno alla Terra (così che la velocità dell’aereo si sommi a quella di rotazione terrestre) sono in ritardo di 59 miliardesimi di secondo, proprio come ci si aspettava dalle previsioni di Einstein.
Il più grande viaggiatore nel tempo, a oggi, è Sergei Krikalev che, grazie alle sue sei missioni orbitali ad alta velocità, è invecchiato di un quarantottesimo di secondo in meno di quanto avrebbe fatto se fosse rimasto a casa. Di conseguenza, quando ritornò sulla Terra, scoprì che la Terra si trovava di un quarantottesimo di secondo nel futuro rispetto a quanto lui avrebbe potuto aspettarsi: aveva viaggiato nel futuro di un quarantottesimo di secondo. Più velocemente andiamo, più avanti viaggiamo nel tempo. Se partiamo oggi, andiamo fino alla stella Betelgeuse, che si trova a una distanza di 500 anni luce, e torniamo indietro a una velocità pari al 99,995% di quella della luce, arriveremo sulla Terra nel 3012 e saremo invecchiati soltanto di 10 anni. Sappiamo che un simile viaggio nel futuro è possibile: i muoni dei raggi cosmici che si muovono a velocità prossime a quella della luce decadono più lentamente di quelli in laboratorio.
E che dire del viaggio nel passato? Teoricamente, se potessimo muoverci più velocemente della luce, potremmo viaggiare nel passato; Einstein, tuttavia, ha dimostrato che non possiamo costruire un razzo che viaggi più velocemente della luce. Nonostante ciò, nella sua teoria della relatività generale del 1915 Einstein dimostrò anche che la gravità può essere spiegata dagli effetti dello spaziotempo curvo. Ed ecco il trucco: possiamo superare un raggio di luce viaggiando lungo una scorciatoia nello spaziotempo curvo. Soluzioni delle equazioni di Einstein della relatività generale per stringhe cosmiche e wormholes presentano simili scorciatoie e sono abbastanza convolute da permettere di viaggiare indietro nel tempo e visitare il passato.
Il viaggiatore temporale viaggia sempre, localmente, in direzione del futuro, eppure torna indietro a un evento del proprio passato; proprio nello stesso modo in cui l’equipaggio di Magellano circumnavigò il globo, viaggiando sempre verso ovest ma ritornando, alla fine, al punto di partenza in Europa. Una cosa del genere non potrebbe mai succedere su una superficie piatta. Costruendo un loop temporale nello spaziotempo curvo possiamo costruire una macchina del tempo per visitare il passato; non potremmo mai però usare questa macchina del tempo per visitare un passato precedente alla creazione della macchina stessa. Se creiamo un loop temporale nell’anno 3000, possiamo usarlo nel 3002 per tornare indietro al 3001, ma non possiamo tornare al 2012 perché questo anno è precedente all’esistenza del loop.
Un simile loop temporale esistito all’inizio del nostro universo potrebbe far sì che l’universo fosse la madre di se stesso. Per comprendere se sia possibile costruire simili macchine del tempo per visitare il passato potremmo aver bisogno di conoscere le leggi della gravità quantistica, ossia come la gravità si comporta su scale molto piccole: ecco una delle ragioni per cui questo argomento è così interessante per i fisici.
Traduzione di Eva Filoramo
Battaglia relatività-neutrini
per ora Einstein resiste
Nelle due settimane trascorse dall’annuncio dell’esperimento di Opera sono stati pubblicati più di 70 studi. Per il momento prevale il grande scienziato. Ma la contesa è ben lontana dalla conclusione
di ELENA DUSI *
Einstein resta saldo sul piedistallo nonostante la pioggia di neutrini. Due settimane dopo l’annuncio dell’esperimento 1 che ha osservato i neutrini più veloci della luce, oltre 70 studi scientifici sono stati pubblicati per tentare di demolire la misurazione, oppure di rivedere la teoria della relatività. E anche questo è un record di velocità.
Ma tra il grande scienziato e le piccole particelle, è il primo per il momento a resistere alle critiche. Uno studio in particolare utilizza proprio le idee di Einstein per cercare di smontare le osservazioni di Opera, il grande rilevatore di neutrini che si trova nei Laboratori del Gran Sasso dell’Istituto nazionale di fisica nucleare. L’autore, Carlo Contaldi, è un fisico italiano che lavora all’Imperial College London. E invita a tenere conto degli effetti della relatività sugli orologi che "prendono" il tempo dei neutrini alla partenza, al Cern di Ginevra, e sotto al Gran Sasso, 730 chilometri più a sud.
"La Terra non è una sfera perfetta, e i due laboratori si trovano a distanze diverse rispetto al centro del pianeta. Quello del Cern, che è più vicino, dovrebbe contare il tempo più lentamente rispetto a quello del Gran Sasso". E’ proprio la teoria della relatività infatti a sostenere che il tempo scorre in maniera diversa in due punti sottoposti ad accelerazioni diverse. E più un oggetto è vicino al centro di gravità del pianeta, più l’accelerazione cui è sottoposto è grande. "Non abbiamo quantificato con esattezza quanto un effetto simile potrebbe influire sulle misurazioni di Opera, ma se si dimostrasse che la sincronizzazione fra l’orologio del Cern e quello del Gran Sasso non sono perfette, bisognerebbe rivedere le misure".
Oltre agli articoli scientifici che fanno le pulci agli strumenti di misurazione, non mancano gli sforzi dei fisici teorici per spiegare in qualche modo l’esistenza di un neutrino più veloce della luce. "Le idee proposte finora puntano molto sull’esistenza dei cosiddetti neutrini sterili" spiega Giovanni Amelino-Camelia, fisico teorico dell’università La Sapienza di Roma. "Se già i neutrini normali interagiscono poco con la materia, quelli sterili riducono questa interazione a zero, e ci aprono le porte a un mondo di nuove possibilità. Una di esse è che queste particelle siano le uniche, o quasi, a poter accedere ad altre dimensioni spaziali che per noi restano invisibili". Di certo, prosegue Amelino-Camelia "i fisici teorici hanno molta creatività, e parte del nostro lavoro consiste proprio nel prevedere fenomeni sconosciuti o misure sorprendenti. Ma un dato come quello di Opera non rientrava neanche nelle nostre speculazioni. Sono solo 60 nanosecondi di anticipo rispetto al tempo che avrebbe impiegato la luce, ma si tratta di una differenza enorme. Siamo al lavoro da due settimane ma non riusciamo a farla rientrare in nessuno dei nostri modelli matematici".
Fabrizio Tamburini e Marco Laveder dell’università di Padova ricorrono alle idee di Majorana per giustificare la violazione del tetto della velocità della luce. "Rileggendo i suoi appunti di circa 80 anni fa - spiega Tamburini in una nota diffusa dall’Istituto nazionale di astrofisica - mi sono convinto che la sua teoria non è in disaccordo con i dati di Opera. L’idea di Majorana prevede infatti che i neutrini possano avere massa "immaginaria". Sarebbero dunque "svincolati dai limiti imposti dalle equazioni della relatività e potrebbero viaggiare più veloci della luce".
Che alla fine la sorpresa si riduca a un errore di misura è convinzione anche di Gian Giudice, fisico teorico del Cern. "Non riusciamo a dare un senso a questo dato. Anche ammettendo che la misura di Opera sia giusta, un neutrino più veloce della luce dovrebbe decadere, e decadendo perdere energia. Ma il rilevatore del Gran Sasso non osserva questa perdita. Si tratta di un dato incompatibile con se stesso. Per spiegarlo dovremmo smantellare troppe leggi della fisica a noi note, ed entrare nelle sabbie mobili".
L’errore di misura salverebbe Einstein e i cento anni di sperimenti che hanno confermato le sue teorie. Ma proprio martedì il Nobel per la fisica è stato assegnato a tre scienziati 2 che avevano misurato l’espansione dell’universo in accelerazione: osservazione che nel ’98 raccolse solo scetticismo. E il giorno dopo per il Nobel per la chimica è stato scelto lo scienziato israeliano Dan Shechtman 3, che aveva osservato una struttura della materia da tutti ritenuta "impossibile" e come sberleffo si era visto regalare un manuale di chimica base. "Qualunque cosa succeda - conclude Amelino-Camelia - stiamo osservando il metodo scientifico in azione. Aspettiamoci per molto tempo ancora una decina di articoli scientifici al giorno. E tanta confusione. Ma nel lungo periodo non ci sono dubbi, saranno i risultati degli esperimenti a darci la risposta giusta".
* la Repubblica, 08 ottobre 2011
Lo scettico del super neutrino
"Ecco perché dubito dei calcoli del Cern"
Il Nobel Glashow ha appena pubblicato un lavoro che critica l’esperimento e i suoi risultati
Credo che siano stati fatti errori nella statistica, nella sincronizzazione degli orologi o forse nella misura della distanza"
"Se le particelle fossero più veloci della luce si entrerebbe in conflitto con principi molto generali della fisica"
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 08.10.2011)
L’annuncio che l’esperimento opera effettuato tra il Cern di Ginevra e il laboratorio del Gran Sasso aveva misurato una velocità dei neutrini superiore a quella della luce, ha messo in subbuglio il mondo intero, scientifico e non. Si è parlato in particolare di violazione della teoria della relatività di Einstein, e di anomalia che mette in crisi il paradigma corrente della fisica. Per cercare di capirne qualcosa di più abbiamo intervistato Sheldon Glashow, premio Nobel per la fisica nel 1979 ed eminenza grigia della fisica delle particelle. Il quale, benché quasi ottantenne, in meno di una settimana dall’annuncio aveva già pubblicato un lavoro che gettava forti dubbi sulla sua correttezza, e ne inquadrava teoricamente le paradossali conseguenze.
Anzitutto, vogliamo brevemente ricordare cosa affermano gli sperimentatori dell’opera?
«Che il viaggio dei neutrini tra il Cern e il laboratorio del Gran Sasso, distante circa 730 chilometri, dura 60 nanosecondi, meno di quanto ci metterebbe la luce a percorrere la stessa distanza. Dunque, i neutrini sembrano essere particelle superluminari, e viaggiare a una velocità superiore a quella della luce nel vuoto di circa 7 chilometri e mezzo al secondo».
Interessanti, dunque, questi neutrini!
«Lo erano anche prima di questo esperimento, come dimostra la loro storia. Agli inizi furono "inventati" da Wolfgang Pauli, per salvare il principio di conservazione dell’energia. Vennero osservati per la prima volta negli anni ’50, e negli anni ’60 si scoprì che ce n’erano due tipi, che salirono a tre in seguito. Negli anni ’70 si presentò un problema legato ai neutrini solari, che fu risolto definitivamente solo nel 2001, con osservazioni effettuate in Giappone e in Canada. Nel frattempo, sia negli Stati Uniti che in Giappone erano stati rilevati neutrini emessi dalla supernova del 1987. E nel 1998 i giapponesi avevano osservato le oscillazioni dei neutrini atmosferici, dimostrando che almeno alcuni tipi hanno una massa».
Ci sono ragioni per dubitare dei risultati annunciati?
«Io credo che ci debbano essere stati errori sperimentali. Forse nella sincronizzazione degli orologi. Forse nella misura della distanza, che non può essere stata effettuata solo con il gps, perché non si possono trasmettere segnali ai satelliti in orbita dal laboratorio del Gran Sasso, che si trova a circa un chilometro e mezzo di profondità sotto la montagna. Forse nella statistica, o ancora in qualcos’altro, chissà».
Assumendo che non ci siano invece errori, è stato suggerito che i neutrini superveloci potrebbero essere dei tachioni.
«I tachioni sono particelle ipotetiche, che in teoria non violano la teoria della relatività speciale, ma in pratica portano a contraddizioni: ad esempio, la loro massa dovrebbe essere immaginaria, cioè avere un quadrato negativo (mentre tutti i numeri reali, anche quelli negativi, elevati al quadrato diventano positivi)! Nessuna persona di buon senso può pensare che i neutrini siano dei tachioni».
Cosa si può pensare, allora?
«Qualcuno sospetta che ci possano essere delle violazioni delle previsioni della relatività speciale: in particolare, che la massima velocità raggiungibile dai neutrini possa essere superiore alla velocità della luce».
Ma la relatività non afferma solo che ci debba essere una velocità insuperabile, senza stabilire a priori che debba essere proprio quella della luce?
«E’ possibile formularla così. Ma si può fare anche di più, come abbiamo mostrato Sidney Coleman ed io nel 1999: si può supporre che le velocità massime raggiungibili differiscano per le varie particelle, e calcolare limiti alle possibili differenze di queste velocità».
E cosa succede?
«Strane cose. Ad esempio, se gli elettroni possono viaggiare più velocemente della luce, allora quando lo fanno perdono rapidamente energia (a causa della cosiddetta radiazione di Cherenkov nel vuoto). Viceversa, se la velocità della luce è superiore a quella massima raggiungibile dagli elettroni, allora i raggi gamma ad alta energia devono decadere in coppie di elettroni e positroni. Così, il fatto che si osservino sia elettroni che fotoni ad alta energia ci permette di dedurre delle restrizioni molto forti sulla possibile differenza tra le loro velocità massime raggiungibili, e le cose vanno come previsto».
Se effettivamente la velocità massima raggiungibile dai neutrini fosse superiore a quella della luce, questo vorrebbe dire che i fotoni dovrebbero avere una massa maggiore di quella dei neutrini?
«No, non necessariamente. Il che non significa che i fotoni non abbiano una massa! Potrebbero averla, ma le restrizioni più forti che abbiamo assicurano che in tal caso la cosiddetta lunghezza d’onda di Compton del fotone (che misura il rapporto fra la costante di Planck e il prodotto fra la velocità del fotone e la sua supposta massa) sia superiore a qualcosa come una settimana luce: cioè, alla distanza percorsa dalla luce in una settimana, che è di circa 180 miliardi di chilometri!».
E i neutrini dell’esperimento opera, dai quali siamo partiti, possono avere velocità superiore a quella della luce?
«Solo se non valgono i princìpi di conservazione dell’energia e del momento (cioè, del prodotto fra massa e velocità)! L’ho dimostrato l’altro giorno, subito dopo l’esperimento, insieme a Andrew Cohen, in un articolo sulle Nuove costrizioni sulle velocità dei neutrini. Se valgono quei due princìpi, allora i neutrini superluminali dovrebbero emettere coppie di elettroni e protoni e perdere energia. In particolare, i calcoli mostrano che solo pochissimi di quelli emessi al Cern potrebbero raggiungere il Gran Sasso con energie superiori a 12,5 gigaelectronvolt (l’elettronvolt misura il momento delle particelle, e "giga" sta per "miliardo"), mentre l’esperimento ne ha osservati molti a energie comprese fra 20 e 50. E anche altri autori, ad esempio un gruppo di teorici cinesi guidati da Xiao-Jun Bi, hanno ottenuto risultati, che giungono alla stessa conclusione: supporre che i neutrini vadano più veloci della luce è in conflitto con princìpi molto generali della fisica, senza dover scomodare la relatività».
Dunque, cosa dimostrerebbe l’esperimento?
«Sono state proposte due "soluzioni". La prima, assurda, è che nella prima ventina di metri del loro viaggio i neutrini viaggino a velocità dieci volte superiori a quella della luce, e poi scendano sotto di essa. La seconda, spiacevole ma non così assurda, è che non comprendiamo perfettamente la legge della conservazione del momento: modificandola, si potrebbe trovare che i neutrini possono viaggiare a velocità superiore a quella della luce, senza perdere energia».
Sembra comunque che ci sia un conflitto con la velocità dei neutrini calcolata sulla base delle osservazioni della supernova apparsa nel 1987.
«Solo apparentemente, perché i neutrini emessi dalla supernova avevano energie migliaia di volte inferiori a quelli emessi dal Cern. Dunque, gli effetti superluminali potrebbero dipendere fortemente dall’energia, e questo non sembra presentare un problema».
In conclusione, prima di divulgare la notizia al mondo intero, non sarebbe stato meglio aspettare di capirci qualcosa di più?
«No! I ricercatori ci hanno provato in tutti i modi, a trovare spiegazioni sensate di quella che essi stessi hanno definito un’"anomalia", ma non ci sono riusciti. E non essendo impiegati di un’azienda farmaceutica, non potevano mettere tutto a tacere: sarebbe anche stato scorretto nei confronti delle molte nazioni che hanno finanziato l’esperimento. Hanno annunciato i risultati, e sperano che altri possano in qualche modo spiegarli».
Lei come pensa che finirà?
«Personalmente, alla luce dei calcoli di cui ho parlato, io credo che ci siano stati errori: in tal caso, li troveremo. Comunque, inizierà presto l’analogo esperimento minos negli Stati Uniti, e vedremo se confermerà o refuterà quello di opera».
Filosofia minima
Zichicche più veloci della luce
di Armando Massarenti (il Sole 24 Ore, 25.09.2011)
Dunque se i conti si riveleranno corretti, e il margine di errore ragionevole, i neutrini sono più veloci della luce. Con l’esperimento Opera del Cern, partendo da Ginevra, i neutrini arrivano al laboratorio sotterraneo del Gran Sasso con un piccolissimo anticipo (sessanta miliardesimi di secondo) rispetto al previsto. La notizia era sui giornali di giovedì. Ma Antonino Zichichi ha cercato di essere più veloce dei neutrini. Prima ancora del comunicato ufficiale del Cern, ha telefonato a «Il Giornale» per anticipare la notizia: «Qui gira voce di una scoperta straordinaria».
Con il senso della misura che lo contraddistingue, ci ha regalato una delle sue deliziose Zichicche (così le aveva battezzate Piergiorgio Odifreddi in un libro esilarante di alcuni anni fa). Zichichi ha pensato bene di seminare il panico epistemologico, sostenendo che la scoperta «farebbe saltare uno dei pilastri fondamentali della nostra fisica, il principio di causalità». In altri termini, gli effetti potrebbero in qualche circostanza precedere le cause - un’eventualità piuttosto sgradevole, e non solo per la fisica -.
Per esempio, mentre mi accingo a scrivere queste righe, l’effetto (cioè questo stesso scritto) potrebbe aver preceduto la causa (l’atto di battere i tasti della tastiera), e io arriverei dopo, magari ritrovandomi stampate frasi che non condivido o errori madornali. Qualcosa del genere potrebbe essere successo al ministro Gelmini che ha diramato un comunicato, divenuto subito di culto nel popolo del web, in cui si legge che «alla costruzione del tunnel tra il Cern e i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l’esperimento, l’Italia ha contribuito con uno stanziamento oggi stimabile intorno ai 45 milioni di euro». Che siano inesistenti, oltre che il tunnel, anche i finanziamenti? Per fortuna, le cose non stanno così.
Come spiega ogni buon libro di relatività, il principio di causalità richiede unicamente l’esistenza di una velocità limite universale, cioè di una velocità che nessun corpo e nessun segnale possono superare. Basta questo a garantire che la successione temporale tra due eventi connessi causalmente non si inverta se cambia il sistema di riferimento. L’esperimento del Cern non mostra che una velocità limite non esiste, ma solo che potrebbe non essere uguale a quella della luce, come previsto dalla relatività einsteiniana. Se i risultati di Opera saranno confermati, alcune idee sullo spazio-tempo dovranno essere riviste, ma, con buona pace di Zichichi, continuerete sempre a leggere queste righe (oltre che gli strafalcioni del ministro) solo dopo che le avrò scritte.
Un neutrino tira l’altro. Ora misure con metodi diversi
L’esperimento del Cern ha prodotto un risultato memorabile, un brivido da Superenalotto
Ma gli scienziati non possono sedersi a festeggiare. Perché se scoprire è bene, verificare è meglio
di Carlo Bernardini (l’Unità, 27.09.2011)
L’’esperimento Opera di cui tanto si parla in questi giorni nei media italiani, è senza dubbio il risultato di uno sforzo eccezionale di ricerca di base di un gruppo numeroso anche di nostri fisici al Cern di Ginevra; meriterebbe perciò un risultato memorabile come quello di cui si parla. Ma proprio per questo motivo la prudenza è d’obbligo. Un sorgente di neutrini del tipo «mu», cioè prodotti dai mesoni detti mu nel loro decadimento in volo, è generata a seguito delle collisioni dei protoni energici del Super Proton Sincrotrone contro un bersaglio materiale all’imbocco del canale detto Cngs (Cern Neutrino verso il Gran Sasso) che punta verso il Laboratorio dell’Infn sotto la montagna abruzzese (Lngs).
I neutrini di decadimento, dopo avere attraversato circa 730 km di sottosuolo terrestre, possono arrivare sull’apparato che sta nel Lngs e hanno una piccola probabilità di essere identificati. Ma, dai e dai, in 3 anni di raccolta gli «arrivi» registrati sono circa 15.000. Quanto basta per fare una buona «distribuzione» dei tempi di arrivo. Questa distribuzione è confrontata con quella dei mesoni mu possibili genitori di quei neutrini, senza però che si possa sapere chi è il padre di chi: si può solo dire che la distribuzione dei padri si allarga rispetto a un istante centrale che, confrontato con la distribuzione in tempo degli eventi generati dai figli, corrisponde a una velocità di circa 6 km/s superiore a quella della luce.
Apriti cielo! E come la mettiamo con la relatività speciale di Einstein che, come verificato in un numero incredibile di esperimenti con particelle subnucleari di ogni tipo eccetto i neutrini, sembrava fondarsi sul fatto che la velocità della luce fosse un limite invalicabile dai corpi con una massa, cioè dello spostamento di materia nello spazio? Quei neutrini già sono stravaganti per i fatti loro: perché ne esistono di tre tipi, il tipo «e» associato ai decadimenti con elettroni (per esempio dei neutroni nella radioattività beta), il tipo «mu» come abbiamo già detto e il tipo «tau» associato a certi «superelettroni» detti tau, di recente scoperta; ma il bello è che un neutrino che viaggia ha la straordinaria proprietà di oscillare tra le tre possibilità e, nato mu, può morire tau, come nel caso del Gran Sasso. Questo permette la teoria quantistica e questo succede.
Già visto, anche da altri (giapponesi, americani). Ma che, oscillando, superino la velocità della luce, è nuova. Vi ho detto come: lo si vede confrontando le distribuzioni di partenza e di arrivo, 730 km dopo. Sarà vero? Sperarlo è bene, verificarlo è meglio. L’errore statistico (dalle distribuzioni) è confrontabile con l’errore sistematico (la distanza dal Cern è proprio 730 km con 10 cm di errore? La misura dei tempi quanto è precisa? Ecc.).
Finora, sembra che l’errore statistico e quello sistematico siano confrontabili e che la velocità della luce non sia in contraddizione con le distribuzioni ma solo piuttosto improbabile. Un brivido da Superenalotto. Che fa un vero fisico, in questa situazione? Aspetta una nuova misura, possibilmente con un metodo diverso. La pazienza non manca, intanto possiamo ridere degli sfondoni ministeriali e non, per far passare il tempo con mesta allegria.
Tutti in fibrillazione dopo il clamoroso e discusso esperimento al Gran Sasso sulle particelle più veloci della luce “Un indizio per 43 dimensioni” “Se ci sono i super-neutrini, l’idea di Universo potrebbe cambiare” di Barbara Gallavottii (La Stampa/TuttoScienze, 28.09.2011)
La notizia che i neutrini potrebbero essere più veloci della luce è arrivata come un filo d’acqua che si insinua nella crepa di una diga: un sussurro, seguito da un fragore assordante. Il sussurro ha causato non poche polemiche ed è venuto dalla voce di Antonino Zichichi, il padre dei Laboratori del Gran Sasso dove si è svolto l’esperimento Opera.
Professore, come mai ha deciso di parlare con i giornali prima che gli autori rendessero noto il loro risultato?
«Vorrei chiarire che non ho affatto rotto la riservatezza che circondava lo studio, perché non ho accennato né agli aspetti tecnici né ai famosi 60 nanosecondi. Ho detto che al Cern girava voce di una scoperta straordinaria, e questo lo sapevano tutti: quella mattina di mercoledì 21 ho ricevuto telefonate di 3 giornalisti italiani e 2 stranieri che mi ponevano domande sui risultati. Domande alle quali non ho risposto. Dopo 5 telefonate ho chiamato un giornalista che stimo, dicendogli che il venerdì 23 ci sarebbe stato al Cern un seminario sulle proprietà dei neutrini».
Alcuni colleghi però non l’hanno presa benissimo.
«La polemica è pretestuosa: il risultato di una ricerca deve essere tenuto riservato fino all’ annuncio ufficiale degli autori. Cosa che ho fatto. L’annuncio di un seminario e il tema che sarà discusso nel seminario sono "rivelazioni"?».
Il primo intervento al termine del seminario in cui si annunciava la misura della velocità dei neutrini è stato del Nobel Samuel Ting, il quale l’ha ringraziata per aver concepito i Laboratori del Gran Sasso e aver avuto l’idea di studiare neutrini prodotti al Cern e osservati al Gran Sasso: pensa che oggi sarebbe possibile costruire qualcosa come il Gran Sasso?
«Per costruire un’infrastruttura ai vertici della ricerca ci vuole una grande idea. Nel caso del Gran Sasso era quella di studiare i fenomeni rari e i neutrini generati al Cern. Per questo le sale sperimentali sono state orientate in modo opportuno. Le caratteristiche dei laboratori sono state studiate con estrema attenzione. Una montagna "a piramide" come il Cervino non avrebbe offerto la giusta protezione dai raggi cosmici. E se le rocce non fossero state fra le meno radioattive al mondo, addio "silenzio cosmico". Infine, se non fossero stati in corso i lavori del traforo, il progetto avrebbe avuto costi proibitivi».
Si parla della SuperB, un’infrastruttura proposta dall’ Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e divenuta un progetto bandiera del Miur. Che ne pensa?
«L’Italia ha i numeri per impegnarsi in grandi progetti, ma la SuperB è una cosa che non farei mai. Credo che occorra impegnare energie e risorse per ottenere risultati che portino a scoprire qualcosa di davvero nuovo. La SuperB, al contrario, è pensata per fare misure di alta precisione che poco aggiungerebbero a ciò che sappiamo. Ritengo che ci siano strade più innovative da percorrere».
I costi sono un problema?
«I costi della ricerca sono poca cosa nel bilancio di uno Stato, irrisori ad esempio rispetto a quelli della missione in Libia. E divengono ancora più piccoli se si pensa che le infrastrutture di ricerca sono finanziate da collaborazioni internazionali».
Ma, insomma, lei ai neutrini superveloci ci crede o no?
«È essenziale che la misura venga ripetuta e verificata. Il mio gruppo è impegnato a ottenere una precisione di misura del tempo di volo delle particelle subnucleari di 15 millesimi di miliardesimo di secondo. Ma come fisico mi piacerebbe che si trattasse del primo indizio di un Universo a 43 dimensioni, come vuole l’idea del supermondo. Se la struttura dello spazio-tempo fosse con 43 dimensioni, i neutrini potrebbero andare più veloci di quanto faccia la luce nell’Universo con 4 dimensioni senza violare il principio di causalità, secondo cui le cause devono precedere le conseguenze, e a cui non vorrei assolutamente rinunciare».
Ma ora c’è chi cerca un “baco” nel test
La misurazione dei 60 miliardesimi di secondo potrebbe essere non corretta
di B. Gal. (La Stampa/TuttoScienze, 28.09.2011(
Più veloce della luce, anzi dei neutrini, tra i fisici è iniziata la caccia all’errore che potrebbe far franare il risultato del test Opera. Dopo il seminario al Cern e quello che si è svolto lunedì al Gran Sasso, un punto su cui accostare la lente di ingrandimento si è trovato, e riguarda il momento della partenza dei neutrini.
Come ha spiegato a «La Stampa» Antonio Ereditato, ciò che i ricercatori misurano non è direttamente la partenza dei neutrini, ma il momento della produzione di protoni che poi, urtando contro un bersaglio, daranno origine ai neutrini. Da questa informazione si dovrebbe poter ricavare esattamente l’istante di inizio del viaggio dei neutrini. Tuttavia i protoni urtano il bersaglio in lasso di tempo pari a 10 milionesimi di secondo, mentre il presunto vantaggio dei neutrini è inferiore, circa 60 miliardesimi di secondo: proprio qui potrebbe nascondersi il «baco». Immaginiamo i protoni come una fila di auto, i neutrini come passeggeri e il bersaglio come un traguardo: man mano che le auto arrivano al traguardo, i passeggeri scendono e iniziano a correre verso il Gran Sasso. Ovviamente i corridori arriveranno a destinazione prima o dopo a seconda della vettura da cui provengono. Se tutte le auto hanno lo stesso numero di passeggeri, questo non è un problema, perché ciò che conta è la media. Ma supponiamo che, all’insaputa di tutti, i passeggeri siano concentrati nelle auto di testa, allora la misura risulterà falsata: gli ultimi arrivati giungeranno con anticipo semplicemente perché saranno partiti prima del previsto. Ora, dunque, si dovrà verificare se la produzione di neutrini è omogenea come ipotizzato. Non c’è in realtà un motivo noto per cui non dovrebbe esserlo, ma è più facile pensare a un convoglio un po’ anarchico che a un universo sottosopra.
Dobbiamo riscrivere la fisica?
La Relatività sa aspettare
Solo i futuri test sveleranno se i neutrini “veloci” esistono
Il dubbio.
L’ipotesi di Einstein è alla base della fisica moderna, che ha dato innumerevoli predizioni verificate
Se i neutrini fossero più veloci della luce dovremmo capire come tutto possa aver funzionato così bene partendo da un’ipotesi errata e riscrivere i libri di fisica
di Carlo Rovelli, Università di Marsiglia (La Stampa/TuttoScienze, 28.09.2011)
Ha fatto clamore la notizia di una misura che indicherebbe che i neutrini vanno più veloci della luce. Cosa c’è di vero? I fatti sono questi. Nei laboratori del CERN di Ginevra viene prodotto un fascio di neutrini, particelle subatomiche come elettroni e protoni, ma più leggere e senza carica elettrica (da cui il nome). Il fascio è indirizzato verso l’Italia e osservato da grandi rilevatori nei laboratori del Gran Sasso, vicino all’Aquila. Un neutrino interagisce pochissimo con la materia e attraversa in linea retta il sottosuolo, «tagliando» la curvatura della Terra. Oggi è possibile misurare la distanza Ginevra-L’Aquila con precisione di pochi centimetri, e il tempo di volo del fascio con precisione di qualche miliardesimo di secondo. Dividendo distanza per tempo, si ha la velocità dei neutrini. A conti fatti, l’équipe che conduce l’esperimento si è trovata tra le mani un risultato sconcertante: i neutrini sarebbero poco più veloci della luce: 60 miliardesimi di secondo in meno della luce per compiere il tragitto.
Perché sconcertante? Non perché la misura contraddice quello che ha detto Einstein, come hanno riportato molti giornali. Einstein è all’origine dell’ipotesi ben nota che niente vada più veloce della luce. Ma Einstein è stato contraddetto molte volte, e diverse sue idee si sono rivelate sbagliate.
Il risultato è sconcertante perché è un secolo che misuriamo velocità alte, per esempio negli acceleratori di particelle, nei raggi cosmici o in fenomeni astrofisici, ma sempre, anche per i neutrini, inferiori (magari di pochissimo) a quella della luce. La nuova misura contraddice quanto osservato finora. Ma c’è di più: l’ipotesi di Einstein è alla base di tutta la teoria fisica moderna, che ha dato innumerevoli predizioni verificate. Se i neutrini fossero più veloci della luce, dovremmo capire come tutto possa aver funzionato così bene partendo da un’ipotesi errata, e riscrivere i libri di fisica.
La reazione comune degli scienziati è sospettare che ci sia un errore annidato nei delicati dettagli tecnici dell’esperimento. Questa è stata anche la reazione dell’équipe che ha compiuto la misura, che è di altissima qualità scientifica. Per mesi, l’équipe ha cercato l’errore. Non trovandolo, non ha potuto che rendere pubblica l’anomalia, e chiedere che la misura sia ripetuta da altri. Lo stesso comunicato ufficiale del CERN chiarisce che una violazione dell’ipotesi di Einstein appare per ora «poco plausibile».
Nella maggior parte delle attività umane un risultato in contraddizione flagrante con tutto quanto si sa viene generalmente ignorato. Non così nella scienza migliore. La consapevolezza che, nonostante il successo, ci possano essere errori anche nel cuore del nostro sapere è proprio ciò che distingue la scienza da altre ambizioni di sapere. Per questo il mondo scientifico ha prestato immediata attenzione. Potrebbe anche essere vero. Questa apertura, io credo, è ciò che fa bella la scienza. Se il risultato fosse confermato, si aprirebbe una di quelle fasi di «rivoluzione» a cui tutti gli scienziati sognano di poter partecipare. Quindi grande cautela, ma anche emozionata speranza. L’esito considerato più probabile è che si scovi un dettaglio trascurato: falsi allarmi sono comuni. Ma l’esito che tutti sperano è che il risultato sia confermato. Laboratori capaci di ripetere la misura, come il Fermilab di Chicago, si stanno già muovendo e potrebbero esserci risultati già fra alcuni mesi. Restiamo in attesa.
In Italia la reazione alla notizia è stata un po’ scomposta. Diversi titoli hanno annunciato la rivoluzione come cosa già certa. Il prof. Zichichi ha trasmesso la notizia al «Giornale» prima dell’annuncio ufficiale, contro le buone regole della comunità. Il ministro Gelmini ha emesso un comunicato in tono trionfale, poco opportuno per un ministro della ricerca, che dovrebbe comprendere come funziona la scienza. Per peggiorare le cose, il comunicato parla di un «tunnel da Ginevra al Gran Sasso», svista forse scusabile per la fretta; ma quando l’assurdità di un tale tunnel è stata fatta notare, invece di un semplice «ci spiace, è un errore», che avrebbe meritato rispetto, il ministro ha emesso una nota infastidita, rifiutandosi di ammettere il refuso.
Al vertice dell’équipe che ha compiuto la misura ci sono scienziati italiani. La loro competenza e serietà è stata sottolineata da tutta la comunità internazionale. E’ stato Dario Autiero, livornese che lavora in Francia, a presentare sabato la misura davanti a una sala del CERN piena, dove scetticismo e fascinazione erano entrambi palpabili. Il misurato, ma lungo applauso finale conferma il grande rispetto nel mondo per gli scienziati del nostro Paese. Come tutti i colleghi, spero in una conferma, che li indirizzi verso il Nobel. Ma se non arrivasse, saranno i primi, loro, a dire semplicemente «ci spiace, c’era un errore». Non per questo li ammireremmo meno.