Vivere nel vuoto
di Barbara SPINELLI (La Stampa, 17.09.2006)
SE Benedetto XVI avesse citato non solo la frase insultante pronunciata dall’imperatore bizantino su Maometto, martedì nella prolusione all’università di Regensburg, ma avesse raccontato come andò l’intero dialogo fra Manuele II Paleologo e il dotto persiano che avvenne una notte d’inverno del 1390-1 o 1391-2, tutto oggi sarebbe un po’ più chiaro, più complicato e forse anche un po’ più triste.
Sarebbe più chiaro perché conosceremmo le argomentazioni del Mudarris, il professore teologo musulmano che davanti all’imperatore di Bisanzio difende l’Islam con forza e precisa convinzione.
Sarebbe più complicato, perché il dissidio non riguarda tanto la ragione quanto l’essenza della fede, la sua vocazione a sperare, legiferare.
Saremmo più tristi, perché in quella notte del XIV secolo il dialogo è una pratica normale, mentre nel secolo nostro non esiste.
In quella notte c’è ascolto, voglia d’apprendere, immensa curiosità di conoscere le ragioni dell’altro e di fare in modo che la propria fede prevalga razionalmente anche se molti suoi tratti non sono razionali.
Oggi quel dialogo è completamente assente. Se tutti ne parlano, se tanti l’invocano come un valore fine a se stesso che implica nei cristiani dissimulazione della propria identità, è perché tra i due monoteismi il baratro è enorme. Il basileus bizantino non deve scusarsi, il Papa sì.
La lettura dell’intero dialogo fra Manuele e il Persiano ci mostra innanzitutto una cosa: che non sono affatto il logos e l’Ellade a dividere il mondo cristiano dal musulmano. Rifacendosi alla filosofia greca, Manuele denuncia la propagazione delle fede attraverso la spada, vedendo nella guerra santa o jihad non solo un abito «malvagio e disumano» ma un’«assurdità non conforme a ragione», dunque sgradita a Dio «che non si compiace nel sangue».
Il Persiano gli risponde che la vera ragionevolezza sta dalla propria parte, essendo l’Islam fondato su moderazione e praticabilità, su misura (métron) e giusto mezzo (mesòtes): categorie aristoteliche centrali. Ambedue sono immersi nella cultura greca.
Ambedue si sforzano di poggiare argomentazioni e precetti sulla ragione e su una ragionevolezza «abbordabile». Il disquisire dei conversanti è logico, e in alcuni punti talmente sillogistico da apparire sofistico.
Quel che veramente li divide è in realtà qualcos’altro. Non è la fiducia o non fiducia nella ragione (il dialogo si conclude con la comune constatazione che «la Misura è la migliore delle cose»), ma sono i diversi modi di vivere le leggi, i folli paradossi insiti nella fede e nell’attesa.
E la maggior follia non è quella dell’Islam ma del cristiano. Il basileus-imperatore bizantino lo riconosce d’altronde apertamente: in fondo è vero quel che il Persiano rimprovera al credo di Cristo - la sua follia, la non ragionevolezza, la «dismisura», il contraddirsi tormentoso tra poter essere e dover essere.
Quel che fin d’allora stupisce più i musulmani - compresi i messianici sciiti - è proprio questa follia cristiana: il credere l’incredibile, il tendere smisuratamente l’anima verso l’alto, il non compromesso con le cose del mondo. Ed è l’insegnamento centrale del Cristo: l’amare il proprio nemico, il porgere l’altra guancia, oltre al disfarsi d’ogni ricchezza e al precetto che ingiunge, se si vuol esser discepoli, di «odiare padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria psyche, la propria anima» (Luca 14, 26): «Qual è l’uomo di ferro, di diamante, più insensibile della pietra - così il Persiano - che sopporterà queste cose?».
Manuele Paleologo non dissimula, non sminuisce: è vero che il cristianesimo mostra al credente una strada infinitamente più difficile, come deplorato dal musulmano. Una strada «dura, esagerata, eccessiva», dunque «impraticabile» (la parola greca abatos impiegata dal Persiano è la via che non si può camminare, l’inattraversabile).
Impregnato anch’egli di pensiero ellenico, il dotto musulmano cita la «dottrina degli Antichi» e critica una via, quella cristiana, «contraria alla ragione», «pari a una trappola», «fardello violento» (per esempio sulla verginità). Una via «che in un certo modo forza la nostra natura terrestre a montare verso il cielo». Che raccomanda «cose impossibili, disumane».
Il basileus bizantino non nega tutto questo, abbiamo visto. Sì, la via cristiana comporta - quando è perfetta - una scelta deliberata di «soffrire cose penose, quale che sia la loro qualità e quantità»; di «sopportare con mitezza chiunque ci calpesti»; di «percorrere vie dolorose perché ogni strada in salita lo è». Il basileus non nega neppure che ci sia follia, nella religione della croce. Quest’ultima spiritualizza leggi che nell’Islam sono rigide, troppo semplificate e abbordabili, «copiate dalle sorpassate leggi di Mosè». Ma la follia cristiana ha un possente lievito curativo, come contrappeso: l’illimitata speranza, questa follia che guarisce dalla follia. Ha la speranza-certezza che l’incredibile diventi credibile, che l’insperabile sia sperabile, che i frutti della virtù si rivelino dolci pur essendo la loro radice amara. Questo il paradosso che distingue il cristiano: l’attesa di quel che verrà, la promessa del regno celeste, il presagire un futuro non visto ma sentito vicino. Per il Paleologo è vicinissimo, come lo era per Giovanni. Manuele dice: oggi l’aldilà è ineffabile ma «nel secolo a venire» sarà visibile. Gesù confida a Giovanni, in Apocalisse 22, 20: «Sì, verrò presto».
Questa speranza ineffabile e però vicinissima oggi manca, nel cristianesimo. Di speranza si parla anzi poco, come scrive Luciano Manicardi, monaco di Bose, in un bellissimo saggio che uscirà a settembre ne «La rivista del clero italiano»: questa è epoca di «passioni tristi, narcisiste», che ha perso interesse nel futuro, che non prendendo tempo per pensarlo impoverisce il rapporto stesso col tempo. Eppure proprio questo è sperare: «dar forma al tempo».
La ragione fatica a combinarsi con lo sperare, e il Persiano non ha torto quando osserva che «vivere con simili speranze non permette di mantenere la misura» ed evitare il peccato d’orgoglio. Se include le domande religiose sull’essere e sul perché esistiamo, la ragione si rimetterà a cercare: in questo il Papa nuota nel profondo e alla ragione apre più vasti spazi.
È la follia dell’attesa che nel suo discorso non c’è. Non c’è l’ossimoro che è la speranza nell’insperabile. Non c’è neanche il riconoscimento che jihad è sforzo individuale oltre che guerra: sforzo non diverso dal combattimento spirituale (agone pneumatico) che il Paleologo esalta come cristiano. Questo è segno di intristimento, ma ancor più triste è la sordità dell’Islam alle parole cristiane, e a ogni alterità.
La forza del persiano nel dialogo del ’300 è nell’ascolto, ed è una forza che oggi l’Islam non ha. Non è capace di dialogo e di esame della propria storia religiosa perché è come se avesse perso se stesso, e la scelta del Papa di parlare con massima franchezza (è un’altra virtù greca: la parresia) sarà «tragica e pericolosa» come scrive il New York Times, sarà più professorale che politica come dicono alcuni, ma ha la nobiltà politica dell’impolitica, della profezia.
La collera nell’Islam nel mondo è diffusa ma esistono anche voci dissenzienti. Il capo della comunità musulmana in Germania, Aiman Mazyek, non scorge attacchi: le parole pontificali contro la violenza sono indirizzate non alla religione, ma a chi trasforma l’Islam in ideologia estremista. «Sono piuttosto un’incitazione a esercitare con più forza l’autocritica nelle nostre comunità», e a «mettere più apertamente in discussione il nichilismo infiltratosi nell’Islam» (Süddeutsche Zeitung, 14-9). In realtà l’Islam è meno forte di quanto sembri credere il Papa stesso in alcuni momenti. In realtà il vuoto lo minaccia.
Proprio questo svuotamento può tuttavia dischiudere porte, inaspettatamente. In un nitido testo pubblicato il 15 settembre sul Corriere, la scrittrice Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) dice: «Vivere nel vuoto (accade nell’Iran del dopo-Khomeini, ndr) è molto meglio che sentirsi intrappolati da ideologie prefabbricate». Vivere nel vuoto - o come scrive Manicardi: nella disillusione, disperazione - apre a quel che Nafisi chiama «l’emergere d’un nuovo linguaggio».
Il linguaggio della società aperta, che presuppone in ciascun individuo la coesistenza di molteplici identità: civili, estetiche, etiche, religiose (fra esse l’identità creata dall’arte: «L’arte consente di vivere molte vite», spiega a Nafisi il regista Mohsen Makhmalaf, che a forza di filmare e guardare ha abbandonato il fondamentalismo). Solo la laicità dà questa possibilità, e quando non è convinzione esclusiva ma metodo inclusivo rende obsolete definizioni riduttive come civiltà islamica, o buddhista, o cristiana. È la debolezza e non la potenza dei monoteismi che schiaccia nazioni e cittadini sulla sola appartenenza religiosa, trasformandola in unico cemento politico. Fare il vuoto perché emerga un nuovo linguaggio non esclude il conflitto, non inibisce l’affermazione della propria fede, non è neppure nichilismo: è l’inizio del dialogo, quello vero.
INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA SCIENZA
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Aula Magna dell’Università di Regensburg
Martedì, 12 settembre 2006
Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.
Eminenze, Magnificenze, Eccellenze, Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell’università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso l’Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante accademico all’università di Bonn. Era - nel 1959 - ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c’era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti. Una volta in ogni semestre c’era un cosiddetto dies academicus, in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti dell’intera università, rendendo così possibile un’esperienza di universitas - una cosa a cui anche Lei, Magnifico Rettore, ha accennato poco fa - l’esperienza, cioè del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione - questo fatto diventava esperienza viva. L’università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del "tutto" dell’universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c’era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva - di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo, nell’insieme dell’università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi presumibilmente l’imperatore stesso ad annotare, durante l’assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non quelli del suo interlocutore persiano. Il dialogo si estende su tutto l’ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si sofferma soprattutto sull’immagine di Dio e dell’uomo, ma necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le - come si diceva - tre "Leggi" o tre "ordini di vita": Antico Testamento - Nuovo Testamento -Corano. Di ciò non intendo parlare ora in questa lezione; vorrei toccare solo un argomento - piuttosto marginale nella struttura dell’intero dialogo - che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις - controversia) edito dal prof. Khoury, l’imperatore tocca il tema della jihād, della guerra santa. Sicuramente l’imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede". È una delle sure del periodo iniziale, dicono gli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente, l’imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco che ci stupisce, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava". L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. "Dio non si compiace del sangue - egli dice -, non agire secondo ragione, „σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia... Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte...".
L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. L’editore, Theodore Khoury, commenta: per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto Khoury cita un’opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale rileva che Ibn Hazm si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l’uomo dovrebbe praticare anche l’idolatria.
A questo punto si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto del Libro della Genesi, il primo versetto dell’intera Sacra Scrittura, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa parola che usa l’imperatore: Dio agisce „σὺν λόγω”, con logos. Logos significa insieme ragione e parola - una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l’evangelista. L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr At 16,6-10) - questa visione può essere interpretata come una "condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall’insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo "Io sono", il suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge, all’interno dell’Antico Testamento, una nuova maturità durante l’esilio, dove il Dio d’Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle divinità che sarebbero soltanto opera delle mani dell’uomo (cfr Sal 115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani ellenistici, che volevano ottenere con la forza l’adeguamento allo stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l’epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria - la "Settanta" -, è più di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall’intima natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero greco fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla fine, nei suoi successivi sviluppi, portò all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz’altro, possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazm e potrebbero portare fino all’immagine di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in cui - come dice il Concilio Lateranense IV nel 1215 -certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l’analogia e il suo linguaggio. Dio non diventa più divino per il fatto che lo spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore, come dice Paolo, "sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il λατρεία“ - un culto che culto cristiano è, come dice ancora Paolo „λογικη concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale - un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo - una richiesta che dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l’una dall’altra.
La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una determinazione della fede dall’esterno in forza di un modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l’accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento e non intendo riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di deellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità. Gesù avrebbe dato un addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di Harnack è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l’esegesi storico-critica del Nuovo Testamento, nella sua visione, sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell’università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza anche sostenibile nell’insieme dell’università. Nel sottofondo c’è l’autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così dire, l’elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall’altra parte, si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l’esperimento fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare più dall’una o più dall’altra parte. Un pensatore così strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercavano di avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Tornerò ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla "scienza" intesa in questo modo e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Ilsoggetto decide, in base alle sue esperienze,checosa gli appare religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettivadiventaindefinitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione - patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della de-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco - un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è - Lei l’ha accennato, Magnifico Rettore - volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni - un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione, che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l’intrinseco suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare - alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l’ascoltare le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo dell’irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse in odio ogni discorso sull’essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe la verità dell’essere e subirebbe un grande danno". L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza - è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito dell’università.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
ERRATA CORRIGE PAPALE. IL VATICANO PUBBLICA LA VERSIONE "CORRETTA" DEL DISCORSO DI RATISBONA *
33585. ROMA-ADISTA. Non tenete conto dei discorsi del papa, seppur pronunciati in diretta televisiva, ma aspettate qualche settimana per conoscerne il testo riveduto e corretto. Parola di Benedetto XVI. Infatti, con una decisione della quale è difficile trovare precedenti Oltretevere, il testo della "lezione" che il pontefice tenne il 12 settembre all’università di Regensburg (Ratisbona) - dove toccò il tema dell’islam in modo ritenuto offensivo da molti musulmani - è stato modificato in un punto sostanziale nelle versione che, dai primi di ottobre, si può leggere sul sito vaticano, appunto cambiata rispetto a quella che vi si trovava da tre settimane.
È ben nota (v. Adista nn. 65 e 68/06) l’ondata di reazioni negative suscitata dal discorso di papa Ratzinger che era sembrato fare suoi - citandoli nel discorso - i giudizi molto aspri contro Maometto, dati nel 1391 dall’imperatore bizantino Manuele II detto il Paleologo in una controversia con un dotto musulmano persiano. Per tentare di sedare le proteste montanti, la sala stampa della Santa Sede aveva messo nel sito il discorso però seguito - novità, anche questa, nella prassi vaticana - da una postilla: "Nota: di questo testo il Santo Padre si riserva di offrire, in un secondo momento, una redazione fornita di note. L’attuale stesura deve quindi considerarsi provvisoria". Dunque, era annunciato che lo stesso discorso sarebbe stato provvisto di note. D’altronde, in successive precisazioni, lo stesso Benedetto XVI aveva cercato di spiegare che cosa egli intendesse davvero dire sull’islam, ma non aveva parlato di modifiche del testo. Invece proprio questo è successo, come si può constatare consultando il testo inserito nel sito vaticano il 9 ottobre.
Il testo "rivisto" riporta le note preannunziate, tredici in tutto, delle quali due dedicate ad esplicite prese di distanza dalle dure affermazioni dell’imperatore. Ma - in alcuni passaggi - cambia anche il testo pronunciato in Baviera davanti al corpo accademico dell’università, alla stampa, e ripreso in diretta tv. Due i cambiamenti sostanziali: il primo è quella che riguarda la datazione della sura 2, 256 del Corano: "Nessuna costrizione nelle cose di fede".
Il papa aveva attribuito questo passo al periodo iniziale della predicazione di Maometto alla Mecca; nella stesura definitiva mette invece in forse tale datazione, accogliendo i rilievi che una parte del mondo musulmano, tra cui - autorevolmente - anche il professor Khaled Fouad Allam, che su Repubblica del 13 settembre aveva precisato che quella Sura fa parte di quelle che Maometto avrebbe scritto nel periodo medinese, in un periodo successivo quindi a quello trascorso alla Mecca: non si tratta di una querelle filologica. Dire che Maometto aveva scritto quella Sura quando "era senza potere e minacciato" per una parte del mondo islamico era capzioso, perché poteva sottintendere che Maometto, raggiunta una posizione più forte in seno alla sua comunità, si sarebbe invece messo a predicare la guerra Santa. Il discorso del papa, integrato con le parti da noi segnalate in corsivo, nella stesura definitiva sostiene ora che la sura 2,256: "È probabilmente una delle sure del periodo iniziale, dice una parte degli esperti, in cui Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato".
Il secondo rilevante cambiamento operato sul testo pronunciato il 12 settembre riguarda il passaggio della lectio in cui il papa aveva citato l’imperatore Manuele II detto il Paleologo: «[Manuele II], in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: ‘Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava’". L’inciso segnalato in corsivo non esisteva nel testo pronunciato a Regensburg. E, come si può ben vedere, non si tratta di un dettaglio, ma di una integrazione sostanziale. Cioè di quella presa di distanza dal pensiero dell’imperatore bizantino che, se ci fosse stata il 12 settembre, avrebbe evitato il sorgere di molti malintesi.
Questo passaggio cruciale del discorso di Regensburg, nella versione definitiva del discorso è corredato anche da una nota, la numero 3, che recita: "Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell’imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d’accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica".
Nella sua "lezione", il papa, ancora, citava un’altra frase di Manuele II per sostenere che la violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima: "Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte". E Ratzinger precisava: "L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio". E qui, nel nuovo testo, vi è il rinvio ad un’altra nota, la numero 5, che dice: "Solamente per questa affermazione ho citato il dialogo tra Manuele e il suo interlocutore persiano. È in quest’affermazione che emerge il tema delle mie successive riflessioni".
Le altre note rinviano soprattutto ad opere teologiche, di vari autori, e dello stesso Ratzinger, su questioni di esegesi biblica e di indagine storica legate ai molti altri problemi, islam a parte, toccati dal pontefice nella sua "lezione" di Regensburg.
http://www.adistaonline.it/?op=articolo&id=24871
Il Dio della ragione contro la spada di Maometto: l’imperatore di Bisanzio e la Jihad
di Giovanni Visone*
Il discorso pronunciato all’università di Ratisbona è una dotta dissertazione teologica sul rapporto tra fede e ragione. E una forte rivendicazione del rapporto fra il lògos e Dio, ovvero fra «ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia». Benedetto XVI muove dal «dialogo che il dotto imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d’inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue». E di questo dialogo sceglie di citare un «argomento» che lui stesso definisce «piuttosto marginale»
Marginale nel testo, ma estremamente attuale. Sono proprio le parole del sovrano di Bisanzio ad aver suscitato le dure reazioni del mondo islamico. Il tema è la Jihad. «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava», si legge fra virgolette. Parole che il Papa cita con la sola cautela di definire il linguaggio di Manuele II «brusco e pesante», ma mostrando di condividere le sue successive deduzioni: «L’imperatore, dopo essersi pronunciato in modo così pesante, spiega poi minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima». E «l’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio».
Insomma, la violenza irragionevole dell’Islam contro la ragione della Fede cristiana. Un tema su cui Benedetto XVI insiste, citando il commento del professore Theodore Khoury, editore del testo: «Per l’imperatore, come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest’affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza».
Di qui in poi, il discorso si addentra nell’analisi del rapporto «tra spirito greco e spirito cristiano» a partire dal Medioevo, analizzando le «tendenze teologiche» contrarie a questa «sintesi». Alla fine, però, insieme all’esortazione affinché il Cristianesimo si riappropri del rapporto tra Fede e Ragione arriva un’altra citazione del dialogo incriminato. «Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza - è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente. «Non agire secondo ragione, non agire con il logos, è contrario alla natura di Dio», ha detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri interlocutori». Una frase che è facile leggere come una nuova affermazione di superiorità sull’Islam. Dialogo sì, ma solo a partire dalla ragione dell’unico Dio ragionevole. Quello cristiano.
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www.unita.it, Pubblicato il: 15.09.06 Modificato il: 15.09.06 alle ore 14.17
New York Times: «Le parole del Papa sono tragiche e pericolose».
L’editto di Ratisbona
di Furio Colombo*
Molti pensano che se si dà torto al Papa si prende una posizione antireligiosa e si manca di rispetto al suo magistero. È una posizione tanto più irriguardosa per chi non si sente subordinato a quel magistero.
Molti pensano che il Papa non abbia mai torto, non solo perché non si può e non si deve mai dire, ma anche perché è inconcepibile che abbia torto.
Molti pensano che il Papa non possa avere torto, tanto che si espone immediatamente al torto la persona, il gruppo, la parte politica che decidano di esprimere un giudizio negativo su un atto o una parola del Papa. Tale giudizio viene considerato in sé, invade il campo di un’autorità di altra natura che non si può coinvolgere in una polemica, meno che mai se quella polemica ha a che fare con la dottrina.
Infatti chi sta criticando, anche animatamente, il Papa dopo le cose dette a Ratisbona su Maometto? Solo persone-guida del mondo islamico e masse del mondo islamico di cui avevamo già detto noi, l’Occidente, tutto il male possibile. E dunque sono schedati per quello che sono: nemici. Volete associarvi ai nemici che uno di questi giorni potrebbero incoraggiare un gesto violento, dicendo male del Papa?
Per proseguire in questa analisi di una situazione mai prima accaduta (il Papa parla e una parte del mondo è in rivolta) occorrono due precisazioni.
La prima è che la grande polemica è esplosa dopo dettagliate argomentazioni di un docente di teologia - Joseph Ratzinger - nel corso di una sua lezione. Non in un discorso del Papa.
La seconda è che molti di coloro che da questa parte del mondo sono stati colti di sorpresa dalle parole del docente-Papa e intendono esprimere il proprio dissenso, non lo fanno per riguardo alla parte del mondo che si sente offesa né per unirsi al clamore delle proteste che potrebbero diventare violenza. Lo fanno perché essi pensano (e pensa anche chi scrive) che un errore è un errore. E questo errore è stato commesso dalla nostra parte, ciò che chiamiamo cultura occidentale. Dunque è dal punto di vista della cultura in cui viviamo - e non in cavalleresca difesa di altre culture - che l’errore va definito.
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Per definire un errore è necessario un contesto. Il contesto qui, è: guerra e pace, potere e non potere, religione e politica.
Nel contesto si situa il fatto. Parlando dalla sua cattedra di teologia all’Università di Ratisbona, Joseph Ratzinger ha svolto considerazioni storiche sul rapporto Cristianesimo-Islam, e ha usato come documento citazioni e testimonianze (autorevoli nella cultura cristiana) sulla cattiva qualità della visione teologica islamica.
Ha dunque aperto una disputa aspra ma che sarebbe solo di scuola se il docente non fosse anche il Papa, dunque capo della Chiesa cattolica e capo di Stato. La brusca variazione di livello porta le parole del teologo Ratzinger dalla disputa di scuola al contesto pace-guerra. E infatti una parte del mondo islamico ha già dichiarato di considerarsi in guerra con il mondo cristiano. E una parte del mondo cristiano ha già accolto e ricambiato con altrettanta determinazione quella dichiarazione di guerra.
Il teologo Ratzinger, nel pronunciare il suo duro giudizio su Maometto, sia pure come citazione storica nel corso di una lezione, ha chiamato in causa Ratzinger-Papa, dunque il potere. Non solo il potere come peso mondiale della Chiesa cattolica. Ma il potere anche più grande, anche materiale che viene evocato all’istante nel momento in cui una voce così alta, che di solito si frappone ai conflitti, in questo caso si fa componente importante di una delle parti in conflitto.
Quello che vedono molti nel mondo è un potere morale grandissimo che si schiera con un potere materiale grandissimo. Quegli occhi sono, in molti casi, occhi di chi si sente senza potere e percepisce dunque come offesa la voce religiosa della Chiesa cattolica che era abituata a conoscere e a rispettare come «non combattente».
Impossibile negare, poi, che il teologo, essendo Papa, ha condotto, persino senza volerlo, la sua escursione storica fuori dal territorio della disputa religiosa e dentro le mura della politica. Ciò avviene non solo perché per convenienza, storia o ragione, la bandiera islamica sventola ormai su quasi tutti i conflitti nel mondo, ma anche perché rafforza e conferma la definizione «cristiana» che i più estremi combattenti islamici amano dare del nemico.
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Una volta che tutto ciò è avvenuto, occorre riconoscere due conseguenze. La prima è un peggioramento delle condizioni del conflitto. Sembrano favoriti, da una parte e dall’altra, coloro che raccomandano di credere nello scontro di civiltà e dunque nella prova finale del confronto fra il bene e il male.
La seconda è la disattivazione (momentanea, dobbiamo disperatamente sperare) di quella forte voce cattolica che, a differenza del fondamentalismo protestante, non solo non si è mai prestata alla cupa profezia del confronto finale tra il bene e il male, non solo non ha mai preteso rese e abiure per accettare gli islamici (immigrati o governi) nel club dei buoni, ma ha sempre teso la mano, alla pari alle altre fedi.
Dunque è alla parte del mondo in cui il teologo Papa insegna e governa che importa decidere in che modo tener conto delle sue parole. Non tanto, non solo, non ancora per le reazioni e le proteste (molte, come sempre, strumentali, molte, a quanto pare, spontanee, in varie parti del mondo islamico) ma per l’improvviso cambiamento di immagine del mondo a cui apparteniamo, di cui siamo voce, e sul quale il Papa della Chiesa di Roma ha un’influenza grandissima. Ecco perché ci riconosciamo in ciò che ha scritto sabato il New York Times, forse il più autorevole quotidiano del mondo democratico: «Le parole del Papa sono tragiche e pericolose». È ciò che è avvenuto ed è giusto dirlo.
* www.unita.it, Pubblicato il: 17.09.06 Modificato il: 17.09.06 alle ore 14.55
Papa: "Sono rammaricato. Spero che questo serva a placare gli animi" *
Oggi all’Angelus Benedetto XVI affronta subito il tema più caldo: "Sono rammaricato per quanto è successo, quella citazione di un testo medioevale non esprime in alcun modo in mio pensiero. Sì al dialogo nel rispetto reciproco". Intanto l’ondata di sdegno non si placa, due chiese attaccate in Cisgiordania. Ma il governo turco getta acqua sul fuoco: "Aspettiamo il Pontefice, come previsto". E in Italia una circolare del Viminale innalza il livello di sicurezza
* www.repubblica.it, 17.09.2006
Emad Gad: «Il Papa sbaglia, le radici dell’Islam non sono violente»
Intervista a c. di Umberto De Giovannangeli *
«Sul piano diplomatico il discorso di Ratisbona può rappresentare un incidente con i Paesi islamici che il Vaticano intende chiudere in fretta e col minor danno possibile. Non sarà facile. Perché le affermazioni di Papa Benedetto XVI hanno aperto una ferita nella coscienza collettiva del mondo musulmano difficile da rimarginare». A sostenerlo è Emad Gad, tra i più autorevoli ricercatori del Centro di studi strategici di al Ahram del Cairo. «Ciò che colpisce maggiormente nelle considerazioni del Papa - sottolinea il professor Gad - è l’aver abbracciato la tesi, non nuova nel cristianesimo, secondo cui l’Islam si è diffuso con la forza della spada, acquisendo sin dalle origini quella dimensione di religione militante che non poteva che sfociare nel fondamentalismo prima e nella sua ulteriore deriva integralista poi. Il fatto grave è che questa tesi sia stata assunta, rilanciata, sistematizzata da colui che rappresenta la Chiesa cattolica», afferma lo studioso egiziano. È come se Benedetto XVI, riflette ancora Emad Gad, «avesse voluto dare una sistematicità teoretica alle diffidenze e alle paure che l’Occidente coltiva non solo nei confronti dell’Islam politico ma dell’Islam tout court che, in questa visione, contiene in sé, nei suoi testi sacri, nei suoi dogmi, nella sua storia, i germi della religione militante, aggressiva, ispiratrice di violenza».
E al centro di questa lettura dell’Islam c’è l’interpretazione che nel discorso di Ratisbona Joseph Ratzinger dà del concetto di Jihad.
«Quella offerta dal Papa - riflette il professor Gad - è una lettura parziale e al contempo assolutizzante del concetto di Jihad. Parziale, perché sembra prescindere dalla considerazione che nel mondo islamico vi sono più letture e interpretazioni del concetto di Jihad. Il Papa sembra fare sua la lettura più radicale e l’assolutizza. Si tratta di una forzatura non solo dannosa per le conseguenze che può innescare ma errata sul piano concettuale. A deludere, in questa occasione, non è stato solo Ratzinger Papa ma il Ratzinger teologo. Il dialogo interreligioso per essere davvero fecondo deve basarsi su due presupposti fondamentali: la conoscenza e il rispetto reciproci».
Professor Gad, il mondo islamico ha reagito con sdegno al discorso di Ratisbona pronunciato da Benedetto XVI. La Santa Sede sostiene che si sia trattato di un fraintendimento. Autorità politiche e religiose musulmane chiedono al Papa di scusarsi.
«Al capo della Chiesa cattolica più che scuse - la sincerità del suo dispiacere non è in discussione - chiederei un serio ripensamento autocritico su quanto sostenuto a Ratisbona. Il rilancio del dialogo, non solo interreligioso, tra Occidente cattolico e mondo islamico ne ha assoluto bisogno».
Nei Paesi islamici anche i commentatori più moderati sono rimasti colpiti dal fatto che, nel suo discorso di Ratisbona, Benedetto XVI abbia fatto riferimento ad un imperatore bizantino del 14mo secolo Michele II il Paleologo, secondo il quale Maometto non aveva portato nulla di nuovo «se non delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere con il mezzo della spada la fede che egli predicava».
«Sia chiaro: il Papa non ha detto nulla di nuovo, le sue opinioni rappresentano quelle consolidate nel cristianesimo, ma che lo affermi così è un problema. Un grave problema. Per il contesto, il momento storico, e per il fatto, tutt’altro che secondario, che il dotto teologo Ratzinger supporta con la sistematicità del suo ragionare, direi con la razionalità, l’allarme lanciato dal Papa Ratzinger sulle radici militanti, e dunque violente, dell’Islam. La gravità di quelle considerazioni è moltiplicata dall’autorità di chi le ha pronunciate. È come se Benedetto XVI abbia inteso offrire una corazza identitaria a un Occidente in cerca di certezze. Ma questa "certezza" non può essere quella di dover far fronte al Nemico islamico».
La Santa Sede ribatte sostenendo che il Papa si sia scagliato non contro l’Islam ma contro la Jihad.
«Qui è avvenuta una forzatura semplificatrice inaccettabile e densa di rischi. Non vi è dubbio che il Corano accetta il concetto di jihad (guerra santa, ndr.) ma come non riconoscere il fatto che nel mondo musulmano vi sono, e si scontrano, concezioni diverse relative alla jihad, sul suo significato, sul modo di condurla. Come sottacere il fatto che c’è chi sostiene che essa sia solo un mezzo di difesa in caso di attacco e che comunque mai l’Islam abbia imposto con le armi la conversione. Nel discorso del Papa a Ratisbona, nei suoi riferimenti storici, nelle sue citazioni, si fa strada l’assolutizzazione della concezione più estrema della Jihad. È come se la teologia di Ratzinger s’integrasse con l’impianto analitico che Samuel Hungtinton pone alla base della sua teoria dello "Scontro di civiltà"».
La protesta nel mondo arabo sta assumendo forme violente. Chiese assaltate, minacce a Roma e al Vaticano.
«Tutto ciò va condannato senza esitazione. Non solo perché sbagliato in sé ma anche perché la protesta violenta alimenta in Occidente l’immagine di un Islam intollerante, estremista, fanatico. I luoghi di culto, siano essi Chiese, Moschee o Sinagoghe, vanno difesi e mai oltraggiati. C’è il rischio che la reazione possa degenerare come e più di ciò che avvenne con le caricature di Maometto. I gruppi radicali soffiano sul fuoco della protesta per fini politici, di potere. Dobbiamo evitare ogni degenerazione violentato, e dobbiamo farlo proprio in nome di quell’Islam del dialogo che non intende farsi arruolare nelle fila dei jihadisti antioccidentali e che, proprio in nome di quei valori di tolleranza e di rispetto verso le altrui convinzioni religiose, può dire a Papa Benedetto XVI: hai sbagliato ma resti un interlocutore con cui dialogare. Alla pari, nel rispetto reciproco».
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www.unita.it, Pubblicato il: 17.09.06 Modificato il: 17.09.06 alle ore 14.58
Logos e trascendenza nell’Islam, dopo il Discorso di Ratisbona
di Massimo Campanini*.
Cristianesimo e Islam sono religioni che derivano dal medesimo ceppo abramitico. Condividono molti concetti teologici e religiosi, ma anche si differenziano in molti altri. Il confronto comparativo tra le due teologie è un esercizio ermeneutico mai abbastanza praticato. Il controverso discorso di papa Benedetto XVI a Regensburg nel 2006, di cui appunto nel 2016 ricorre il decennale, ha vigorosamente sostenuto la fondazione della teologia cristiana nel Logos, mentre al riguardo l’Islam professa un approccio sostanzialmente divergente, nonostante alcune convergenze. Questo articolo è dedicato a puntualizzare criticamente questa osservazione. Partiamo col considerare un paio di premesse.
La frattura del monoteismo rispetto alle religioni del mondo antico, soprattutto mediterraneo, è consistita in almeno due elementi qualificanti. In primo luogo, nella rivelazione di un Dio persona, liberamente agente e volente, che conferisce all’universo le sue leggi di funzionamento e dirige la storia verso un fine teleologico. In secondo luogo, nel proporre il messaggio religioso attraverso l’invio di profeti, apportatori di libri rivelati.
L’Islam, ultimo in ordine cronologico dei tre monoteismi, conferma e riafferma comunque questi due pilastri teologici fondativi, ma per quanto riguarda Dio, ne accentua il carattere di sovrano del mondo (Dio è sia malik cioè re, sia mālik cioè padrone dell’universo) e il carattere della trascendenza (tanzīh).
Per quanto riguarda la profezia, l’Islam, come l’Ebraismo e il Cristianesimo, riconosce sostanzialmente al profeta un ruolo di testimonianza, di annunciazione di (liete) novelle, di ammonizione. In tal senso, si tratta di una funzione eminentemente dialogica e non è un caso - relativamente all’Islam - che un filosofo come al-Farabi abbia individuato realizzata nel profeta la massima perfezione della facoltà immaginativa utile a persuadere e a guidare le masse. Naturalmente, nell’Ebraismo e nell’Islam il profeta può essere anche apportatore della Legge, qualifica che nel Cristianesimo è andata perduta.
Quanto al concetto di Logos, prima di essere assimilato dalla teologia cristiana, a partire dal famoso incipit del Vangelo di Giovanni, esso è stato formulato nell’ambito della filosofia greca. Anassagora ed Eraclito hanno teorizzato il Nous (o intelletto) e il Logos come principi di ordinamento e organizzazione della realtà cosmica. Socrate ha enfatizzato il carattere dialogico del Logos come strumento di comunicazione, ma anche di educazione degli uomini. Anche Platone ha posto il Logos al centro della sua filosofia, come dialogo umano, nella pluralità delle opinioni e delle idee che si confrontano nell’arena filosofica in uno stile di pensiero aperto e flessibile. Il concetto greco di Logos sembra perciò intersecare aspetti antropologici con aspetti cosmici relativi a una potenziale “mente” o ratio che governa il reale.
Stabilite queste premesse, un discorso comparativo sull’idea di Logos nella teologia cristiana e in quella musulmana può svolgersi su due livelli: il livello dell’esegesi testuale dei libri sacri e il livello dell’elaborazione teologica. Si tratta, dal mio punto di vista, eminentemente di chiarire la posizione musulmana che appare non solo meno nota, ma anche più controversa. [...]
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Lo speciale “Quel che resta di Ratisbona” è a cura di Gabriele Palasciano.
*Massimo Campanini (1954), orientalista e islamologo italiano, ha studiato filosofia e lingua araba. Ha insegnato nelle Università di Urbino, Milano e Napoli L’Orientale e attualmente è professore associato di studi islamici all’università di Trento. Ha pubblicato oltre 100 articoli e 33 monografie, tra cui cinque sul Corano: la traduzione commentata delle sure 12 e 18, la traduzione delle Perle del Corano di al-Ghazali e in inglese The Qur’an the Basics (Routledge) e The Qur’an: modern muslim interpretations (Routledge).
* IL CORTILE DEI GENTILI. Il dialogo tra credenti e non credenti, 23.05.2016