RELIGIONI
Giuseppe unisce Bibbia e Corano
Il personaggio biblico consigliere del Faraone ricorre anche negli scritti coranici. Due vicende diverse ma con una certa consonanza di fondo
Di Franco Cardini (Avvenire, 01.09.2007)
Tra le molte sciocchezze che si sentono dire di solito sul Corano, c’è anche quella secondo la quale esso sarebbe privo di riferimenti sia alla Bibbia, sia alla storia profana. Per convincersi del contrario basta, a non dir altro, un’occhiata al bel libro di Mikhail Piotrovsky su Leggende storiche del Corano. Parole e immagini, edito con le illustrazioni tratte dai codici del Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo: in russo, ma disponibile anche in edizione inglese; un’autentica festa per gli occhi. E lì, un capitolo centrale è dedicato naturalmente a La bella storia del bel Yusuf, il quale altri non è se non Giuseppe figlio di Giacobbe, al quale il Corano dedica un’intera sura, la XII.
La storia di Giuseppe, come tutti sanno, dopo un prologo nel deserto nel quale vagavano quei nomadi nei quali si sarebbe più tardi riconosciuto il popolo ebraico, è ambientata in Egitto. È un vero e proprio romanzo, e non è certo un caso che sia in un certo senso una «storia egizia», dal momento che il genere letterario del romanzo, poi passato in Grecia e in Persia, sembra essere nato proprio nella terra benedetta dal Nilo.
Non è certo strano che la splendida storia di Giuseppe il Prediletto, Giuseppe il Sognatore, invidiato e tradito dai fratelli, quindi venduto schiavo ma favorito dalla sorte, poi ancora insidiato da una donna bella e sensuale, infine salvato dalla sua abilità d’interprete dei sogni e a sua volta salvatore della sua famiglia e del suo popolo, Giuseppe che sa rispondere al male con il bene ma il perdono del quale non va esente da un’esemplare giustizia, abbia tanto affascinato Thomas Mann da indurlo a comporre la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli, un capolavoro non solo narrativo ma anche teologico, nel quale il monoteismo abramitico è spiegato nelle sue supposte origini egizie come una sorta di «processo d’identificazione» (come avrebbe detto Jung) del quale Dio è protagonista e dove l’elemento centrale è costituito dalla continuità tra la cultura egizia antica e l’epoca mitica dei patriarchi ebrei.
Proprio dalla XII sura del Corano e dalla tetralogia manniana prende le mosse un piccolo, bellissimo libro edito dalla Morcelliana. Autore di Il profeta Giuseppe. Monoteismo e storia nel Corano è Massimo Campanini, uno dei migliori e più stimati tra i nostri giovani islamologi. Campanini insegna Storia dell’islam e dei paesi arabi nell’Università di Napoli l’Orientale ed è autore di due recenti libri di successo, Il pensiero arabo contemporaneo e Storia del Medio Oriente, editi entrambi dal Mulino di Bologna.
Non è affatto strano che anch’egli sia soggiaciuto al fascino di quella che il Corano stesso definisce «la più bella storia mai raccontata». Ma le sue intenzioni sono rigorosamente scientifiche. Campanini sa bene che il patriarca Giuseppe della Bibbia e il profeta Giuseppe del Corano, pur essendo assolutamente identificabili come la stessa persona storica, sono due personaggi ben diversi, caratterizzati da vicende che sono nelle grandi linee le medesime, e perfettamente confrontabili (sia pur con qualche variante), ma la cui rispettiva funzione è ben altra. Punto di partenza inaggirabile, beninteso, è il confronto tra il monoteismo dei testi biblici detti yahwisti e quello scaturito dalla riforma religiosa di Akhenaton, studiato da Campanini alla luce della coraggiosa (oltre che dotta) opinione che «una comune koiné ideologica, etica e religiosa esisteva fra l’Egitto, l’Assiria-Babilonia e le tradizioni ebraiche.
Ma Campanini, ripercorrendo il Giuseppe coranico alla luce dei commentatori musulmani antichi e moderni (ma anche dei poeti come il quattrocentesco Jami, autore del poema Yusuf e Zulaykha), ci guida anche a cogliere l’intima, profonda differenza tra il Giuseppe patriarca della Bibbia, la storia del quale è funzionalizzata all’esaltazione del ruolo d’Israele come Popolo Eletto, e il Giuseppe profeta del Corano, la vicenda del quale glorifica la misericordia di Dio e la Sua provvidenziale guida. Se ne evince la consonanza profonda, ma anche la necessaria distinzione, tra i due grandi monoteismi tra i quali il cristianesimo per un verso è obiettivamente una specie di anello di congiunzione, mentre per altri esso (con i misteri dell’Umanità del Cristo-Dio e della Trinità) si distingue nettamente e si allontana da entrambi.
Massimo Campanini
Il profeta Giuseppe
Monoteismo e storia nel Corano
Morcelliana. Pagine 128. Euro 12,00
Sul tema, in rete, e nel sito, si cfr.:
MELCHISEDECH, A SAN GIOVANNI IN FIORE.
AL DI LA’ DEL MONOTEISMO MONOPOLISTICO E IMPERIALISTICO, LA RIVELAZIONE DI AMORE.
FLS
PER UNA PENTECOSTE IN UN PIANETA TERRA IN FIORE: COME NASCONO I BAMBINI (20MAGGIO2024).
ARTE IMMAGINAZIONE ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA...
"DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021). Flavio Piero Cuniberto, in una nota di commento all’opera di "Andrea Orcagna (e Jacopo di Cione), Pentecoste, 1362-1365; Firenze, Gallerie dell’Accademia" intitolata "La pentecoste fiorentina", scrive e sollecita a pensare:
Ma, una domanda (una "question" hamletica) sorge "spontanea", come mai nella tradizione iconografica dell’altro "Vas d’elezione" (dell’altro «strumento della scelta»), lo sposo di Maria ( la stessa Madre di Gesù e della Chiesa della intera "umanità", la nuova #Eva) quello con l’altro ramo del #giglio, quello "offerto dall’Arcangelo" proprio di colui che è il "Vero_giglio", il "Vir_gilio", l’Uomo ("Vir") con il ramo altrettanto fiorito, il #padre di #Gesù, quel "#Giuseppe", della "casa di Davide" ("de domo David"), e si parla solo del "Vas" paolino (Atti ap., IX, 15)?!
A che edipico gioco giochiamo? Non ha forse ragione #DanteAlighieri ("io non Enea, io non Paulo sono ") con la sua "Monarchia" dei #DueSoli, Shakespeare con il suo "Amleto, #Nietzsche con il suo "Zarathustra"?! E #Freud con la sua "Interpretazione dei sogni?! Jakob #Böhme, cosa pensava del tempo in cui allo #sposo sarà possibile finalmente incoronare la #sposa, non pensava a un nuovo "mondo #possibile", a un #sorgeredellaTerra (#Earthrise), e a #Gioacchino da Fiore - per "caso", per "#charitas"?
NOTE:
FILOSOFIA, PSICOANALISI E SONNODOGMATICO: TEATRO, TRAGEDIA, E ANTROPOLOGIACULTURALE...
SOFISTICA E STORIA. ALL’ORLO DELLA "FINE DEL MONDO" (Ernesto De Martino, 1977) emerge con chiarezza che non solo ieri ma anche oggi (e sempre più pericolosamente) che "in una discussione pubblica non contano gli argomenti, ma certe doti teatrali" è un problema epocale di lunga durata.
EDIPO E "SAPERE AUDE!" (KANT). Platone andò a scuola dai sacerdoti egiziani (Nietzsche). A BEN VEDERE è una mossa di grande astuzia, di intelligenza metica (metis, non medica!) propria di Platone che, conosciuto Socrate, distrusse tutte le sue composizioni poetiche/tragiche per dedicarsi completamente alla filosofia, a farsi credere Figlio di Dio (Apollo), a colonizzare le menti dell’intero Occidente, fino a ispirare Freud e Ferenczi che si rifecero esplicitamente alla sua opera "repubblicana" per fondare l’istituzione psicoanalitica!
LO SPIRITO CRITICO E LA SCIENZA IN UNA SOCIETÀ LIBERA. Senza l’interpretazione dei sogni del Faraone da parte di Giuseppe (il penultimo dei dodici figli di Giacobbe), non ci sarebbe stato né Mosè, né Gesù né Maometto, e, neppure Freud sarebbe mai arrivato a Londra e l’opera "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" avrebbe mai vista la luce (Amsterdam, 1938)! E... non avremmo mai visto il Sorgere della Terra (Earthrise,1968).
FILOSOFIA, PSICOANALISI E SONNO DOGMATICO: TEATRO, TRAGEDIA, E ANTROPOLOGIA CULTURALE...
SOFISTICA E STORIA. ALL’ORLO DELLA "FINE DEL MONDO" (Ernesto De Martino, 1977) emerge con chiarezza che non solo ieri ma anche oggi (e sempre più pericolosamente) che "in una discussione pubblica non contano gli argomenti, ma certe doti teatrali" è un problema epocale di lunga durata.
EDIPO E "SAPERE AUDE!" (KANT). Platone andò a scuola dai sacerdoti egiziani (Nietzsche). A BEN VEDERE è una mossa di grande astuzia, di intelligenza metica (metis, non medica!) propria di Platone che, conosciuto Socrate, distrusse tutte le sue composizioni poetiche/tragiche per dedicarsi completamente alla filosofia, a farsi credere Figlio di Dio (Apollo), a colonizzare le menti dell’intero Occidente, fino a ispirare Freud e Ferenczi che si rifecero esplicitamente alla sua opera "repubblicana" per fondare l’istituzione psicoanalitica!
LO SPIRITO CRITICO E LA SCIENZA IN UNA SOCIETÀ LIBERA. Senza l’interpretazione dei sogni del Faraone da parte di Giuseppe (il penultimo dei dodici figli di Giacobbe), non ci sarebbe stato né Mosè, né Gesù né Maometto, e, neppure Freud sarebbe mai arrivato a Londra e l’opera "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" avrebbe mai vista la luce (Amsterdam, 1938)! E... non avremmo mai visto il Sorgere della Terra (Earthrise,1968).
Albero di Jesse *
L’albero di Jesse (o Iesse) è un motivo frequente nell’arte cristiana tra l’XI e il XV secolo: rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Origine
Il tema iconografico trae spunto da un famoso annuncio messianico contenuto nel capitolo 11 del libro del profeta Isaia (11,1.10) [1] da cui ha origine il suo nome greco [2]. Gli artisti combinarono la frase con la genealogia di Gesù come appare nel vangelo secondo Matteo [3] o secondo il Vangelo di Luca (3, 23-38)[4], genealogie che tuttavia presentano vistose differenze.
La più antica rappresentazione conosciuta dell’albero di Jesse è datata 1086, e compare nel Codice Vissegradesi, vangelo dell’incoronazione di Vratislao II di Boemia[5].
Iconografia
Jesse viene solitamente rappresentato coricato, semi-coricato o nell’iconografia meno antica seduto[6][7]. Nell’arte romanica, solitamente, egli è rappresentato coricato all’aperto mentre in quella gotica appare più spesso dentro ad un letto riccamente adornato, come nelle vetrate della chiesa di Saint-Étienne a Beauvais che datano al 1520.
Spesso Jesse appare addormentato, la testa appoggiata su una mano. Questa posizione è, a volte, associata ad un sogno profetico concernente la discendenza del dormiente. Dal suo fianco o dal suo ventre o anche dal dorso[7] o più raramente dalla sua bocca, s’innalza un albero i cui rami sorreggono gli antenati di Gesù, in particolare Davide riconoscibile per la sua arpa, fino a Maria. Le vetrate della cattedrale di Chartres rappresentano, dal basso in alto Davide, Salomone, Roboamo, Abias ed infine Maria. Ogni artista, a seconda del testo che ha utilizzato, del proprio gusto e dello spazio che ha a disposizione, aggiunge altri personaggi dell’Antico Testamento, spesso i profeti che gli esegeti del Medioevo pensavano avessero annunciato la venuta di Cristo (sono quattordici sulle vetrate di Chartres). Alla sommità si trova Gesù, a volte in croce, a volte bambino, sulle ginocchia della madre.
Nel XIII secolo, l’albero si sviluppa verticalmente, ed è solo nel XV che comincia a ramificarsi lateralmente[6]. Ancora presente nell’iconografia cristiana del XV sec., il motivo declina nel XVI per scomparire con la Controriforma[6].
Esistono naturalmente anche altre forme di rappresentazione della genealogia di Gesù, che non utilizzano l’albero di Jesse, il più famoso è quello dipinto nelle lunette della Cappella Sistina da Michelangelo tratto dal Vangelo secondo Matteo[8].
I supporti
L’albero di Jesse è stato un motivo popolare in tutte le arti: si trovano esempi nei manoscritti miniati, le stampe, le vetrate, la scultura monumentale, gli affreschi, le tappezzerie o nei ricami[6].
Manoscritti
Il motivo appare in parecchie bibbie romane, ad esempio nella Bibbia di Lambeth, sotto forma di una B maiuscola decorata all’inizio del Libro di Isaia o del vangelo di Matteo. La bibbia di San Benigno, del XII secolo, una delle più antiche che ci sono pervenute, mostra Jesse e le sette colombe rappresentanti i sette doni dello Spirito Santo[9]. La bibbia dei Cappuccini (ultimo quarto del XII sec.) conservata nella Bibliothèque nationale de France ne è un altro esempio, l’albero di Jessi decora la L maiuscula del Liber generationis nel vangelo di Matteo[10].
Poiché il re Davide era considerato l’autore dei Salmi, i salteri erano sovente illustrati con un albero di Jesse, soprattutto i manoscritti inglesi, dove l’albero di Jesse s’arrotola attorno alla B maiuscola del testo latino Beatus Vir all’inizio del primo salmo. Uno dei primi esempi è il salterio di Huntingfield, della fine del XII secolo. La British Library possiede un bellissimo salterio del XIV sec., detto di Gorleston. In questi due esemplari Jesse è allungato ai piedi della lettera B. Si potrebbero citare ancora il salterio di Macclesfield (Fitzmuseum, Cambridge) ed il Salterio e le Ore del duca di Bedford [11].
Alcuni manoscritti consacrano una pagina intera al motivo, aggiungendovi personaggi, per esempio la sacerdotessa di Apollo Sibilla Cumana del salterio d’Ingeburg (inizio del XII sec.). Presso Colonia, in un lezionario di prima del 1164 si descrive un Jesse insolito, morto in una tomba o bara, da cui l’albero cresce[12].
Una prestigiosa rappresentazione dell’Albero di Jesse si trova nella cappella Roano (voluta dall’Arcivescovo Giovanni Roano), detta cappella del Crocifisso, sita all’interno del Duomo di Monreale in Sicilia.
Evoluzione
L’albero di Jesse, contaminato dalla popolarità del tema della parentela santa si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il modello da cui deriveranno le successive rappresentazioni degli alberi genealogici[13] e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali[14].
Per Tilde Giani Gallino l’albero di Jesse dell’abbazia di Saint-Denis rappresenta, dissimulato, un fallo di dimensioni sproporzionate. Questa rappresentazione è risultato dell’inconscia compensazione del suo ideatore, l’abate Sugerio, che - sfavorito dalla natura, causa imbecille corpusculum - proiettò, tramite quello che per lui era simbolo di forza e autorità, la sua «volontà di potenza».[15][16]
L’immagine dell’albero che nasce direttamente dal fianco di Jesse, affermatasi nei secoli XI-XII, ha una sconcertante analogia con la scena in cui si vede Brahmā seduto su un loto che esce dal ventre di Viṣṇu, secondo i testi sacri Veda. Nell’arte romanica i personaggi sono collocati direttamente sui rami e non nei calici dei fiori come avverrà dopo un paio di secoli, analogamente a quanto rappresentato nelle sculture buddhiste in Birmania, Cambogia, Cina ed altre parti dell’Estremo Oriente. Queste immagini si ritrovano a Worms, Issoudun (cappella dell’Ospedale), Rouen (cattedrale), Sens (cattedrale).[17]
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale, senza immagini e senza note).
LETTERA APOSTOLICA
CANDOR LUCIS AETERNAE
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
NEL VII CENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI *
Splendore della Luce eterna, il Verbo di Dio prese carne dalla Vergine Maria quando Ella rispose “eccomi” all’annuncio dell’Angelo (cfr Lc 1,38). Il giorno in cui la Liturgia celebra questo ineffabile Mistero è anche particolarmente significativo per la vicenda storica e letteraria del sommo poeta Dante Alighieri, profeta di speranza e testimone della sete di infinito insita nel cuore dell’uomo. In questa ricorrenza, pertanto, desidero unirmi anch’io al numeroso coro di quanti vogliono onorare la sua memoria nel VII Centenario della morte.
Il 25 marzo, infatti, a Firenze iniziava l’anno secondo il computo ab Incarnatione. Tale data, vicina all’equinozio di primavera e nella prospettiva pasquale, era associata sia alla creazione del mondo sia alla redenzione operata da Cristo sulla croce, inizio della nuova creazione. Essa, pertanto, nella luce del Verbo incarnato, invita a contemplare il disegno d’amore che è il cuore stesso e la fonte ispiratrice dell’opera più celebre del Poeta, la Divina Commedia, nella cui ultima cantica l’evento dell’Incarnazione viene ricordato da San Bernardo con questi celebri versi: «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore» (Par. XXXIII, 7-9).*
Già nel Purgatorio Dante rappresentava, scolpita su una balza rocciosa, la scena dell’Annunciazione (X, 34-37.40-45).
Non può dunque mancare, in questa circostanza, la voce della Chiesa che si associa all’unanime commemorazione dell’uomo e del poeta Dante Alighieri. Molto meglio di tanti altri, egli ha saputo esprimere, con la bellezza della poesia, la profondità del mistero di Dio e dell’amore. Il suo poema, altissima espressione del genio umano, è frutto di un’ispirazione nuova e profonda, di cui il Poeta è consapevole quando ne parla come del «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2).
Con questa Lettera Apostolica desidero unire la mia voce a quelle dei miei Predecessori che hanno onorato e celebrato il Poeta, particolarmente in occasione degli anniversari della nascita o della morte, così da proporlo nuovamente all’attenzione della Chiesa, all’universalità dei fedeli, agli studiosi di letteratura, ai teologi, agli artisti. Ricorderò brevemente questi interventi, focalizzando l’attenzione sui Pontefici dell’ultimo secolo e sui loro documenti di maggior rilievo. [...]
In questo particolare momento storico, segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l’umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro, la figura di Dante, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere, finché il nostro cuore non avrà trovato la vera pace e la vera gioia, finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII, 145).
Dal Vaticano, 25 marzo, Solennità dell’Annunciazione del Signore, dell’anno 2021, nono del mio pontificato.
Francesco
* PER IL TESTO INTEGRALE, CFR. -> VATICAN.VA.
La statuina.
La devozione e l’affidamento di papa Francesco a san Giuseppe «dormiente»
Una devozione che risale alla giovinezza di Bergoglio e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale
di Mimmo Muolo *
Papa Francesco e san Giuseppe. Una devozione che risale alla giovinezza del Pontefice e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale. Come pure all’inizio del suo ministero petrino.
È infatti nella chiesa di San José di Buenos Aires che nel 1953 il diciassettenne Jorge Mario Bergoglio scopre la vocazione al sacerdozio. Ed è il 19 marzo 2013 - sei giorni dopo l’elezione a Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale - che egli inaugura il proprio Pontificato con un’omelia incentrata sul ruolo di custode del padre putativo di Gesù. Non stupisce dunque la decisione di dedicare al santo la Lettera apostolica di ieri e di proclamare l’anno "giuseppino" (con relative indulgenze plenarie). Si può anzi dire che questi due gesti del Pontefice costituiscano gli ultimi anelli (per il momento) di una catena di affetto e devozione che lega Jorge Mario Bergoglio al casto sposo della Vergine.
Francesco ha del resto raccontato più volte come a san Giuseppe sia solito affidare intenzioni di preghiera e speciali intercessioni per il suo ministero. Nel suo studio personale a Casa Santa Marta, ci sono infatti due statue che raffigurano il santo. Una in particolare gli è molto cara e lo accompagna da sempre, da quando viveva nel Collegio Maximo di San Miguel di cui era rettore. Si tratta di un’immagine insolita, per noi italiani ed europei, ma molto diffusa tra i fedeli sudamericani: una statua che raffigura san Giuseppe dormiente.
Ora, sappiamo dalla Scrittura quanto il sonno sia stato determinante nella vicenda terrena del falegname custode della Sacra Famiglia. E anche nella Lettera apostolica di ieri papa Francesco si sofferma sui sogni in cui Giuseppe dà ascolto all’Angelo per prendere in sposa Maria, per fuggire in Egitto onde sottrarre Gesù Bambino alla persecuzione di Erode e infine per fare ritorno a Nazaret, una volta morto il malvagio re.
Per questo il Papa ha l’abitudine di infilare sotto la statua del santo addormentato biglietti che contengono problemi, richieste di grazia, preghiere dei fedeli. È come se invitasse san Giuseppe a "dormirci su", e magari a mettere una buona parola davanti a Dio, per risolvere situazioni difficili e aiutare i bisognosi, rinnovando così il suo ruolo di padre misericordioso e tutto proteso verso coloro che ama.
Lo confidò egli stesso il 16 gennaio 2015 a Manila nell’incontro con le famiglie: «Io amo molto san Giuseppe perché è un uomo forte e silenzioso. Sulla mia scrivania ho un’immagine di San Giuseppe mentre dorme e quando ho un problema o una difficoltà io scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la statua di San Giuseppe affinché lui possa sognarlo. (...) Ma come san Giuseppe, una volta ascoltata la voce di Dio, dobbiamo riscuoterci dal nostro sonno; dobbiamo alzarci e agire».
In definitiva, per papa Francesco lo sposo della Madonna è un santo davvero speciale, che protegge e aiuta perfino quando dorme.
Più volte nei suoi discorsi il Pontefice ha fatto riferimento alla figura del santo. In una delle omelie di Santa Marta, il 18 dicembre 2018, Francesco disse: «Giuseppe è l’uomo che sa accompagnare in silenzio» ed è «l’uomo dei sogni». Il 1° maggio scorso ha accolto a Santa Marta la statua di san Giuseppe lavoratore solitamente posizionata all’ingresso della sede nazionale delle Acli a Roma. Ma sicuramente, prima di ieri, l’espressione più compiuta della devozione giuseppina del Papa si trova nell’omelia di inizio pontificato.
«Giuseppe è "custode" - disse -, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge». L’eco di queste parole risuona ora nella Lettera apostolica "Patris corde".
Leggi anche
* Fonte: Avvenire, mercoledì 9 dicembre 2020
Sul terma, nel sito, si cfr.:
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
FLS
Il gesto.
Il Papa indice l’Anno di San Giuseppe: "Il mondo ha bisogno di padri"
Nella ricorrenza dei 150 anni della proclamazione a patrono della Chiesa. Fino all’8 dicembre 2021 sarà concessa l’indulgenza plenaria ai fedeli che pregano il Santo, sposo di Maria
di Redazione Internet *
Il Papa ha indetto un Anno speciale di San Giuseppe, nel giorno in cui ricorrono i 150 anni del Decreto Quemadmodum Deus, con il quale il Beato Pio IX dichiarò San Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica. "Al fine di perpetuare l’affidamento di tutta la Chiesa al potentissimo patrocinio del Custode di Gesù, Papa Francesco - si legge nel decreto del Vaticano pubblicato oggi - ha stabilito che, dalla data odierna, anniversario del Decreto di proclamazione nonché giorno sacro alla Beata Vergine Immacolata e Sposa del castissimo Giuseppe, fino all’8 dicembre 2021, sia celebrato uno speciale Anno di San Giuseppe".
Per questa occasione è concessa l’Indulgenza plenaria ai fedeli che reciteranno "qualsivoglia orazione legittimamente approvata o atto di pietà in onore di San Giuseppe, specialmente nelle ricorrenze del 19 marzo e del 1° maggio, nella Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, nella Domenica di San Giuseppe (secondo la tradizione bizantina), il 19 di ogni mese e ogni mercoledì, giorno dedicato alla memoria del Santo secondo la tradizione latina".(QUI IL TESTO)
Accanto al decreto di indizione dell’Anno speciale dedicato a San Giuseppe, il Papa ha pubblicato la Lettera apostolica "Patris corde - Con cuore di Padre", in cui come sfondo c’è la pandemia da Covid19 che - scrive Francesco - ci ha fatto comprendere l’importanza delle persone comuni, quelle che, lontane dalla ribalta, esercitano ogni giorno pazienza e infondono speranza, seminando corresponsabilità. Proprio come San Giuseppe, "l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta". Eppure, il suo è "un protagonismo senza pari nella storia della salvezza".
San Giuseppe ha espresso concretamente la sua paternità "nell’aver fatto della sua vita un’oblazione di sé nell’amore posto a servizio del Messia". E per questo suo ruolo di "cerniera che unisce l’Antico e Nuovo Testamento", egli "è sempre stato molto amato dal popolo cristiano" . In lui, "Gesù ha visto la tenerezza di Dio", quella che "ci fa accogliere la nostra debolezza", perché "è attraverso e nonostante la nostra debolezza" che si realizza la maggior parte dei disegni divini.
"Solo la tenerezza ci salverà dall’opera" del Maligno, sottolinea il Pontefice, ed è incontrando la misericordia di Dio soprattutto nel Sacramento della Riconciliazione che possiamo fare "un’esperienza di verità e tenerezza", perché "Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene e ci perdona". Giuseppe è padre anche nell’obbedienza a Dio: con il suo ’fiat’ salva Maria e Gesù ed insegna a suo Figlio a "fare la volontà del Padre". Chiamato da Dio a servire la missione di Gesù, egli "coopera al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro di salvezza".
La lettera del Papa evidenzia, poi, "il coraggio creativo" di San Giuseppe, quello che emerge soprattutto nelle difficoltà e che fa nascere nell’uomo risorse inaspettate. "Il carpentiere di Nazaret - spiega il Pontefice - sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza".
Egli affronta "i problemi concreti" della sua Famiglia, esattamente come fanno tutte le altre famiglie del mondo, in particolare quelle dei migranti. In questo senso, San Giuseppe è "davvero uno speciale patrono" di coloro che, "costretti dalle sventure e dalla fame", devono lasciare la patria a causa di "guerre, odio, persecuzione, miseria". Custode di Gesù e di Maria, Giuseppe "non può non essere custode della Chiesa", della sua maternità e del Corpo di Cristo: ogni bisognoso, povero, sofferente, moribondo, forestiero, carcerato, malato, è "il Bambino" che Giuseppe custodisce e da lui bisogna imparare ad "amare la Chiesa e i poveri".
"Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione". Nella Lettera Apostolica papa Francesco sottolinea che "ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità".
"La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli - sottolinea ancora il Pontefice - spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso ’inutile’, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita".
Papa Francesco mette in evidenza la natura di santo della porta accanto, o meglio del quotidiano, di San Giuseppe. Una notazione che egli lega anche all’emergenza Covid, ricordando che si stratta di una "straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni - solitamente dimenticate - che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».
Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine".
Francesco definisce San Giuseppe "padre amato" (a motivo della grande voCAzione popolare nei suoi confronti), padre nella tenerezza" (capace di far posto a Dio anche attraverso le proprie paure e debolezze) e "padre nell’obbedienza" (perché ascolta la voce di Dio che gli si manifesta in sogno attraverso l’angelo).
SAN GIUSEPPE E IL LAVORO
Al tema il Papa dedica un intero paragrafo. "Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento? La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!".
LE CONDIZIONI PER CONSEGUIRE L’INDULGENZA PLENARIA
L’Indulgenza plenaria viene concessa "alle consuete condizioni (confessione sacramentale, comunione eucaristica e preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre) ai fedeli che, con l’animo distaccato da qualsiasi peccato, parteciperanno all’Anno di San Giuseppe".
"Si concede l’Indulgenza plenaria - si legge nel decreto - a quanti mediteranno per almeno 30 minuti la preghiera del Padre Nostro, oppure prenderanno parte a un ritiro spirituale di almeno una giornata che preveda una meditazione su San Giuseppe";
a "coloro i quali, sull’esempio di San Giuseppe, compiranno un’opera di misericordia corporale o spirituale, potranno ugualmente conseguire il dono dell’Indulgenza plenaria";
"si concede l’Indulgenza plenaria per la recita del Santo Rosario nelle famiglie e tra fidanzati".
Potrà conseguire l’Indulgenza plenaria
"chiunque affiderà quotidianamente la propria attività alla protezione di San Giuseppe e ogni fedele che invocherà con preghiere l’intercessione dell’artigiano di Nazareth, affinché chi è in cerca di lavoro possa trovare un’occupazione e il lavoro di tutti sia più dignitoso";
"ai fedeli che reciteranno le Litanie a San Giuseppe (per la tradizione latina), oppure l’Akathistos a San Giuseppe, per intero o almeno qualche sua parte (per la tradizione bizantina), oppure qualche altra preghiera a San Giuseppe, propria alle altre tradizioni liturgiche, a favore della Chiesa perseguitata ad intra e ad extra e per il sollievo di tutti i cristiani che patiscono ogni forma di persecuzione"
"ai fedeli che reciteranno qualsivoglia orazione legittimamente approvata o atto di pietà in onore di San Giuseppe, per esempio ’A te, o Beato Giuseppe’, specialmente nelle ricorrenze del 19 marzo e del 1° maggio, nella Festa della Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, nella domenica di San Giuseppe (secondo la tradizione bizantina), il 19 di ogni mese e ogni mercoledì, giorno dedicato alla memoria del Santo secondo la tradizione latina".
Nell’attuale contesto di emergenza sanitaria, il dono dell’Indulgenza plenaria "è particolarmente esteso agli anziani, ai malati, agli agonizzanti e a tutti quelli che per legittimi motivi siano impossibilitati ad uscire di casa, i quali con l’animo distaccato da qualsiasi peccato e con l’intenzione di adempiere, non appena possibile, le tre solite condizioni, nella propria casa o là dove l’impedimento li trattiene, reciteranno un atto di pietà in onore di San Giuseppe, conforto dei malati e Patrono della buona morte, offrendo con fiducia a Dio i dolori e i disagi della propria vita".
LA DEVOZIONE DEL PAPA A SAN GIUSEPPE
E’ nota la predilezione di papa Francesco per la figura dello sposo di Maria. Durante il viaggio a Manila raccontò della sua abitudine di riporre sotto la statuetta del “Giuseppe dormiente”, tenuta nel suo studio a Santa Marta, un foglietto con su scritte le proprie preoccupazioni.
Non solo: in una breve nota a metà della Lettera Patris corde, il Papa ricorda la sua “sfida”, rilanciata ogni giorno da 40 anni: dopo la recita delle Lodi segue quella di una vecchia preghiera trovata in un libro di devozioni francese dell’Ottocento. Il destinatario di quella “certa sfida” quotidiana è San Giuseppe perché, dopo avergli affidato tutto, “situazioni gravi e difficoltà”, quella vecchia orazione termina così: “Che non si dica che ti abbia invocato invano”.
* Fonte: Avvenire, martedì 8 dicembre 2020 (ripresa parziale, e senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!! Benedetto XVI ha ricordato la conversione di Francesco : « l’ex play boy convertito dalla voce di Dio »... ma ha "dimenticato" la denuncia sul "ritardo dei lavori", fatta da Pirandello già a Benedetto XV. Che disastro !!!
FLS
Arte e fede.
Gerusalemme: sui muri del Colosseo la mappa della “sposa contesa”
Il dialogo interreligioso tra i monoteismi e quello ecumenico, tra cristiani d’Occidente e cristiani d’Oriente, è nell’imprinting stesso di Gerusalemme e dovrebbe essere impegno costante di tutti
di Gianfranco Ravasi *
Ai mille legami storici, religiosi e culturali che collegano Roma e Gerusalemme si aggiunge la sorprendente mappa simbolica della città santa all’interno di uno dei segni maggiori della romanità classica, il Colosseo. In occasione del suo restauro sono stato invitato a proporre un profilo biblicoculturale di Gerusalemme proprio all’interno di quello spazio così emblematico com’è l’Anfiteatro Flavio.
Tutte e tre le religioni monoteistiche sono protese verso Sion che è simile a una sposa contesa, spiritualmente e materialmente. Basta solo gettare uno sguardo su una mappa dell’area antica della città. Si leggono le indicazioni topografiche di un quartiere ebraico, di uno cristiano, di un altro musulmano e di quello armeno. Se si avanza per quelle viuzze e si entra nei luoghi sacri delle varie religioni, si sente parlare in arabo ed ebraico, in greco e armeno, in siriano ed etiopico, in russo e inglese o in yiddish: si prega e si discute in almeno quindici lingue con sette alfabeti differenti! Ma tutti sono certi di avere un legame unico, insostituibile, inscindibile con quella città.
Infatti, le tre grandi fedi monoteistiche hanno in questa città ciascuna una sua pietra reale e simbolica su cui fondarsi. Così, gli Ebrei non possono non risalire a Davide e fondarsi sulla pietra sacra del tempio eretto da suo figlio Salomone (anche se le pietre del cosiddetto Muro del pianto sono di un millennio dopo, appartenendo al tempio eretto da Erode). È, infatti, questo il cuore della fede e della storia di Israele.
Un famoso detto rabbinico afferma che «il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». Il poeta ebreo spagnolo Giuda Levita, che la leggenda farà morire nel 1140 calpestato dai cavalli appena giunto pellegrino a Sion, cantava: «Io amo le tue pietre che voglio baciare e saporite mi saranno le tue zolle più del miele!». Ma già il Salmista aveva esclamato: «Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion!» (Salmo 102,15). Gesù stesso era convinto che queste pietre possono gridare una storia di fede e di sangue (Luca 19,40). Elena, la madre di Costantino, era giunta qui nel 326 alla ricerca delle memorie di Gesù e in particolare della sua tomba.
La pietra ribaltata del sepolcro di Cristo, ora custodita nella possente basilica crociata omonima, è il cuore della cristianità, che da allora non si è staccata più da Gerusalemme, pur sfrangiandosi in decine di comunità diverse (per i cattolici pensiamo alla presenza francescana) e non esitando a ricorrere alle crociate. Quella pietra, custodita nella basilica del Santo Sepolcro, è il segno della risurrezione, il mistero centrale della fede cristiana.
Anche i musulmani hanno a Gerusalemme una loro pietra fondante, quella che è protetta dalla sfolgorante cupola dorata della moschea di Omar, memoria del sacrificio di Abramo (Genesi 22) ma soprattutto dell’ascensione al cielo del Profeta, Maometto, che è ricordato anche dall’altra moschea della Spianata, al’Aqsa, come si legge nel Corano: «Lode a Dio che trasportò di notte il suo Servo [Maometto] dalla moschea sacra [Mecca] alla moschea al-’Aqsa [l’altra, più lontana]» (17,1). È per questo che in arabo Gerusalemme è al-Quds, cioè “la (città) santa” per eccellenza.
Tre pietre, quindi, sono per le tre religioni - che pure in Abramo hanno una radice comune - segno di una presenza propria, non solo spirituale ma anche “fisica”. È per questo che Gerusalemme è oggetto di un amore non solo ideale e quelle pietre sono state striate nella loro storia secolare anche dal sangue. È per questo che è arduo trovare accordi politici o religiosi attorno a questo simbolo così "personale".
Eppure il testo sacro ebraico-cristiano, la Bibbia che cita 656 volte Gerusalemme, è un ininterrotto appello a ritrovare unità nella molteplicità in Sion. Come sogna il profeta Sofonia verso la fine del VII secolo a.C., «allora io darò ai popoli un labbro puro perché tutti invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla» (3,9).
Certo, prima di ogni altro popolo è Israele che convergeva verso la città santa non solo nelle cosiddette “feste di pellegrinaggio”, cioè Pasqua, Settimane (o “Pentecoste”) e Capanne, che postulavano un itinerario orante al tempio di Sion, ma anche nella testimonianza orante e poetica - adottata pure dalla liturgia e dalla fede cristiana - dei “cantici delle ascensioni”, cioè in quel fascicolo di 15 Salmi (dal 120 al 134) che nel Salterio recano questo titolo. Essi sembrano appartenere quasi a un libretto del pellegrino che “ascende” materialmente (Gerusalemme è a 800 metri di altezza) e spiritualmente verso la città di Dio. Basterebbe solo ascoltare alcune battute del Salmo 122: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore! E ora i nostri piedi sono fermi alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore!».
Anzi, quell’itinerario verso le proprie sorgenti di fede e di vita si trasforma in un’esperienza non solo mistica ma anche esistenziale. Certo, prima di tutto c’è la gioia di un incontro col mistero di Dio perché lassù si sale «per lodare il nome del Signore», ossia per il culto: «L’anima mia languisce e brama gli atri del Signore, il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio!» (Salmo 84,3-4).
Ma a Gerusalemme avviene anche un’altra esperienza di indole più sociale. «Là, infatti, sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide», canta l’orante del Salmo (v. 5). Si aveva nella capitale l’istanza suprema del potere politico e giudiziario e idealmente il popolo trovava quella giustizia a cui tanto anelava e che altrove gli era negata. In questa linea è capitale la voce dei profeti che ininterrottamente combattono ogni sacralismo fine a se stesso. Il tempio stesso, se privo di fede e di giustizia, è «una spelonca di ladri» (Geremia 7,11; cfr. Matteo 21,13), il culto senza l’impegno dell’esistenza è magia, i riti senza vita sono una farsa. Implacabili sono le parole di Isaia: «Quando vi presentate a me - dice il Signore - chi vi chiede di venire a calpestare i pavimenti del tempio? Finitela di presentare offerte inutili! L’incenso mi fa nausea, come noviluni, sabati, assemblee sacre. Non riesco a sopportare delitto e solennità. Odio i vostri noviluni e le vostre feste: sono un peso per me e sono stanco di sopportarli. Quando alzate le mani, io allontano da voi gli occhi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non le ascolto. Le vostre mani, infatti, grondano sangue. Allora, lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista! Smettetela di fare il male, imparate e fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova!» (1,12-17).
Questa prospettiva è esaltata anche da Cristo che, pur amando e frequentando Sion, non esita a “smitizzarne” la funzione materiale sacrale per celebrarne il valore di santità, di simbolo di gloria, di pace e di vita. Infatti, di fronte al tempio di Gerusalemme Gesù non esita a dire: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere!». E Giovanni annota: «Egli parlava del tempio del suo corpo e, quando fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo» (2,19-22). Anzi, Gesù - stando al Vangelo di Marco - avrà come capo di imputazione iniziale durante il processo presso il tribunale giudaico del Sinedrio proprio questa testimonianza: «Noi lo abbiamo udito dire: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo» (14,58). È in questa luce che l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, non solo sostituisce alla Gerusalemme terrena, materiale e spaziale, «la città santa, la nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio» (21,2) ma la descrive come ormai priva del tempio: «Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22).
È proprio su questa traiettoria ideale che possiamo pensare alle divisioni di Gerusalemme sotto una nuova luce. Quei segni di sacralità, di separatezza e di separazione potrebbero diventare simboli di santità, di comunione, di incontro. È ciò che aveva configurato il profeta Isaia in una sua pagina indimenticabile (2,1-5). Gerusalemme si erge come un monte immerso nella luce su un pianeta avvolto nel sudario delle tenebre. In essa sfolgora la Parola divina. Ed ecco che da ogni angolo di quel mondo oscuro si muovono processioni di popoli che convergono verso quella città di luce. Giunti lassù, essi trasformano le armi che impugnano: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (2,4).
Finalmente Gerusalemme attuerà il suo nome di città di shalôm, della pace. Perché là tutti hanno un ideale diritto nativo di cittadinanza che li dovrebbe rendere fratelli e non avversari. È ciò che canta il Salmo 87 che descrive le nazioni mentre danzano e cantano rivolti a Sion: «Sono in te tutte le nostre sorgenti«. In questo canto “natale” di Gerusalemme come genitrice di tutte le nazioni per tre volte nell’originale ebraico risuona la locuzione jullad sham/bah, “è nato là / in essa”. Tutti i punti cardinali della terra, pur nella loro diversità, sentono di appartenere a un’unica matrice: c’è Rahab, cioè l’Egitto, la grande potenza occidentale, e c’è Babele, la grande potenza orientale babilonese; c’è Tiro, la potenza commerciale del nord, c’è la Filistea (o Palestina) che è l’area centrale, e l’Etiopia che rappresenta il profondo sud. Nell’anagrafe di Sion tutti sono registrati come figli: la citata locuzione jullad sham/bahera appunto la formula ufficiale giuridica con cui si dichiarava un individuo nativo di una determinata città e, come tale, dotato della pienezza dei diritti municipali.
*Avvenire, venerdì 16 ottobre 2020 (ripresa parziale, senza immagine).
"GIUSEPPE": "DE DOMO DAVID". Un convegno e un libro ... *
De Domo David e l’edizione di Nardò, dalla Congregazione degli Oblati di San Giuseppe
di padre Alberto Santiago (Fondazione "Terra d’Otranto", 12/11/2019)
Buona serata a voi tutti: saluto cordialmente mons. Filograna, vescovo di Nardò, il Rettore della Confraternita di San Giuseppe Patriarca monsignor Santantonio, le Autorità presenti, il Priore della Confraternita Mino De Benedittis, i sodali e tutti i convenuti.
Porto il saluto della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe fondata da san Giuseppe Marello nel 1870, e di tutto l’ambito giuseppino, che si compone anche della Congregazione di S.Giuseppe fondata da s.Leonardo Murialdo, e vari Istituti femminili, tutti informati ed entusiasti dell’iniziativa che si celebra nella diocesi di Nardò-Gallipoli.
Vengo inoltre come portavoce del Centro Studi del “Movimento Giuseppino” di Roma, che promuove l’interazione tra i devoti di san Giuseppe, per favorire e valorizzare la conoscenza della sua missione nel piano dell’Incarnazione, e animare la vita ecclesiale con la pratica delle virtù evangeliche tipiche di san Giuseppe.
Il sito del «Movimento Giuseppino» si propone di raccogliere e presentare con organicità di contenuti costantemente aggiornati, le informazioni riguardanti san Giuseppe in ogni suo aspetto, provenienti dai vari Centri nazionali e internazionali di studi. Il sito è aperto a ogni forma di confronto e collaborazione da parte di quanti volessero segnalare integrazioni, inesattezze e lacune, ma soprattutto ampliare l’orizzonte delle conoscenze. Sarà senz’altro disponibile a segnalare questa iniziativa di oggi nelle prossime settimane.
Vi trasmetto un fervido augurio poi da parte di p. Tarcisio Stramare, teologo e biblista, la cui opera di approfondimento negli studi teologici su san Giuseppe, e sui relativi documenti pontifici, ha diffuso la conoscenza e la devozione al Custode del Redentore. E’il titolo scelto da papa Giovanni Paolo II per riassumere il ruolo di san Giuseppe nel mistero dell’incarnazione, e risale però a un’antica concezione teologica che può aver ispirato lo scultore dell’angelo sull’altare maggiore di questa chiesa di Nardò: un angelo, appunto, “custode”, come una presenza che protegge dal male e da ogni pericolo. Quale miglior correlazione con la figura di san Giuseppe che porta in salvo il Figlio dalle insidie di Erode? La statua collocata nella parte più alta di questo bellissimo altare rispecchia l’atteggiamento di Giuseppe nei confronti di Gesù, chiamato ad assicurare la sua sopravvivenza e la sua crescita.
La giornata di oggi è punto di arrivo di un progetto, ideato per celebrare i quattrocento anni di vita della Confraternita di San Giuseppe Patriarca a Nardò, di ricerca e di approfondimento sul patrimonio artistico della chiesa, e sulle forme di devozione al santo.
Promosso con il patrocinio della Diocesi di Nardò-Gallipoli, della Fondazione Terra d’Otranto e della Confraternita, il libro che accompagna questo convegno richiama l’attenzione per il suo titolo, lungo come negli incunaboli di una volta: De domo David. La Confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019).
Ma sono soprattutto le prime parole a destare la curiosità del lettore: perché De domo David?
Questa espressione ricorre nella liturgia, e si legge nel vangelo di Luca ai versetti 26-27 del primo capitolo: “... missus est angelus Gabriel ... ad virginem desponsatam viro, cui nomen erat Ioseph de domo David ...” Possiamo ricordare anche la novena di Natale: “Ecce veniet Deus, et homo de domo David sedere in throno ...”.
Certamente da questi antecedenti deriva il motto della Confraternita di San Giuseppe Patriarca: De domo David, e quindi il titolo del libro, che si legge anche sulla convessa facciata della chiesa.
L’obiettivo di un libro ampiamente illustrato, come questo, è appunto che il lettore possa in qualche misura entrare in relazione con le opere, in modo che ogni immagine sia come uno specchio capace di coinvolgere lo spettatore. E che l’arte diventi una esperienza del mondo che modifica radicalmente chi la fa, ampliando la comprensione che il soggetto ha di sé e della realtà che lo circonda.
Concepito come libro di pregio, fuori commercio e con una tiratura di poche centinaia di copie, il volume curato da Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi è risultato un lavoro di altissima qualità sia per la strutturazione dei materiali, sia per la quantità di illustrazioni (quasi 800) in eccellente risoluzione.
Grazie alla collaborazione spontanea di studiosi in varie città d’Italia e delle diocesi del Salento, si è potuto realizzare un percorso ricco e qualificato, sorprendente per varietà di contributi; vi sono articoli di taglio dottrinale, storico e artistico, e molti contributi da Confraternite, Oratori, Associazioni legate a san Giuseppe. L’elaborato che ne è conseguito si rivela dunque molto rappresentativo.
Non potevamo immaginare questo lungo cammino attraverso il tempo - poiché gli articoli spaziano tra IV e XIX secolo -, come pure le conoscenze emerse sul patrimonio artistico di questa chiesa e i suoi significati.
Ringrazio tutti i collaboratori che hanno messo a frutto le loro competenze e lo spirito di ricerca, dando un apporto importante sul piano culturale nelle sue varie forme, ma anche considerevole per la conoscenza della figura di s. Giuseppe, solo apparentemente secondaria e silenziosa.
Esprimo l’apprezzamento inoltre per la disponibilità della Biblioteca Casanatense di Roma e il Museo Pitrè di Palermo, che hanno fornito materiale di particolare interesse; la Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo per le riproduzioni degli arazzi cinquecenteschi, la Pinacoteca di Brera, la Galleria Nazionale di Parma e tutti i numerosi prestatori delle immagini pubblicate.
Principalmente ringrazio la Confraternita, all’origine di questo ambizioso progetto, e la Fondazione Terra d’Otranto che l’ha sostenuto e realizzato.
Rivolgo i saluti più cordiali agli autori qui presenti: Giovanni Boraccesi -che ha preso in esame gli argenti pugliesi raffiguranti san Giuseppe-, Marino Caringella -che illustra esempi di iconografie giuseppine-, Stefano Cortese -che documenta le antiche pitture parietali nel Salento-, Giuseppe Fai -che tratta la devozione del santo nella sua città di Parabita-, Antonio Faita -che presenta le opere statuarie dei celebri Verzella-, Antonio Solmona -che pone in evidenza alcune iconografie presenti a Galatone- e Stefano Tanisi -che esamina i dipinti nelle diocesi di Otranto e Ugento-, unitamente agli altri collaboratori.
Altri autori, come da programma, esporranno personalmente i propri contributi.
Il lavoro compiuto in questa ricorrenza, che ha fatto scoprire a tutta l’Italia la storia e l’arte di questa chiesa e di questa confraternita, di questa diocesi e della Puglia, è importante per ideare e costruire nuovi traguardi; è augurabile che parte di questo libro sia condiviso nel futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala. E’ una mèta possibile, sulla base delle svariate testimonianze acquisite, e dell’esperienza maturata in itinere.
Le stesse intenzioni mi vengono riferite per una ulteriore presentazione di questo libro a Roma, nella prestigiosa sede dell’antichissima e prestigiosa Biblioteca Casanatense, che come vedrete ha contribuito a realizzarlo mettendo a disposizione centinaia di incisioni e miniature dei secoli XV - XVIII, omaggiando questa chiesa e questa Diocesi.
E centinaia sono anche le rare riproduzioni di canivet di Lo Cicero e santini di Damato, alcuni tra i più importanti collezionisti italiani, che hanno messo a disposizione per la prima volta tante preziosità, accrescendo il prestigio del lavoro editoriale che questa sera presentiamo.
Con questo auspicio invito a far tesoro delle oltre seicento pagine del volume, tutte a colori e in pregevole edizione, e a proiettarsi nel futuro prossimo, in unità di intenti con il mondo giuseppino, che ancora una volta ringrazia per la particolare attenzione che questo lembo d’Italia ha voluto dedicare al santo di cui porta il nome.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
FESTA DI SAN GIUSEPPE E DEL PAPA’ - NON DEL PAPA!!! BASTA CON LA "MALA EDUCACION" E CON LA "MALA FEDE"!!! RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITA’, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
Quest’anno il Natale cristiano e quello musulmano cadono la stessa notte
Non accadeva da mezzo millennio. Una bella coincidenza di questi tempi
Quando gli dei si parlano
di Monika Bulaj (la Repubblica, 20.12.2015)
L’HO SENTITO NEI SOSPIRI DEI SUFI A KABUL, al Cairo e a Istanbul, durante i riti dionisiaci dei musulmani del Maghreb, tra le esplosioni di petardi e rulli di tamburi nella Tripoli agghindata con palloncini e teste di squalo. Era il canto natalizio dei musulmani. Quest’anno, per la prima volta negli ultimi quattrocentocinquantasette, quel canto si leverà nel mondo musulmano nella stessa notte in cui i cristiani celebreranno il loro Natale, quella tra il 24 e il 25 dicembre. Perché quest’anno Maometto nasce quando nasce Gesù. Sarà il secondo Mawlud del 2015, il primo è caduto tra il 3 e il 4 gennaio: l’anno liturgico dei musulmani, governato dalla Luna, corre più veloce di quello cristiano.
Coincidenze. Del resto - e oggi pare così strano ricordarlo - le due religioni si sono rispecchiate l’una nell’altra nei secoli a suon di melodie e usanze, e si sono prestate poesie e riti come i buoni vicini si prestano il sale. E fu forse proprio per resistere all’incanto della notte di Betlemme che un califfo decretò la nascita del Profeta come festa popolare. Da allora il Natale musulmano viene festeggiato dal Maghreb fino all’Indonesia con fuochi d’artificio e regali per i bambini, cortei e danze estatiche, ed è replicato a sua volta per i santi locali in una infinità di Natali minori.
Sono anni che viaggio nelle sacre periferie delle religioni del Libro, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute di un’umanità in fuga. Come i santuari dei mistici dell’Islam, che dal Pakistan al Mali stanno scomparendo a suon di bombe. Odiati dagli ultras dell’Islam e ignorati dall’Occidente, i sufi sono forse una delle poche barriere contro la barbarie. Riempiono le biblioteche, godono della lettura come i mistici ebrei, mettono l’esperienza al di sopra della teoria, chiamano la pratica "strada" e il fanatico "asino che porta sulla groppa una pila di libri".
Sono zone franche. Come le donne armene e turche che dormono assieme sulla tomba di un santo cristiano sul Bosforo; come i monasteri nel deserto egiziano, ora assediati dai fondamentalisti, dove Abuna Fanous ascolta i sogni dei pastori beduini che per parlare con lui si fanno ore di coda sotto il sole; oppure come la venerazione dei kosovari verso lo sfortunato santo dei serbi, il re Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Zone franche sono i cristiani e i musulmani che pregavano assieme nella moschea di Damasco, o quelli che hanno rimesso a posto le pietre del monastero di Deir Mar Musa, sempre nella povera Siria.
Sono queste le ultime oasi d’incontro tra le fedi, luoghi dove gli dei ancora si parlano, terre di promiscuitˆ millenaria scomoda ai predicatori dello scontro di civilt ˆ, luoghi dove la catena delle vendette si rompe, dove si mangiano le stesse pietanze, si intonano gli stessi canti, si fanno gli stessi gesti. Accadde anche nella mia Polonia prima della Seconda guerra, nel Marocco degli anni Cinquanta prima dell’esodo degli ebrei. Il buon santo è buono per tutti. A Mea Sharim, il quartiere dei Chassidim di Gerusalemme, i nomi delle sinagoghe rievocano paludi bielorusse, pianure polacche, bianche colline ucraine.
È un mondo parallelo e invisibile che va dall’Asia centrale all’America latina, dalle Russie al Medio Oriente. Il calendario dei miei spostamenti tra Gibilterra e l’Afghanistan segue anniversari di nascita e morte di uomini e profeti, pellegrinaggi e sacrifici, lune, solstizi e stagioni che annodano il tempo: persiano, aramaico, arabo o ebraico non importa, svela comunque una trama di sorprendenti parallelismi. Elia diventa tra i musulmani “Khidr il verde”; San Giorgio viene festeggiato nei Balcani da cristiani e musulmani; attorno alle Madonne si radunano donne musulmane e greco-ortodosse, di Napoli e di Istanbul.
Accade che a un certo punto sono le stesse immagini che vengono a cercarti. Svelano una continuità che abbiamo disimparato a osservare. Quello che faccio io è una cosa quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della Torre di Babele, tessere di un mosaico che non sarà mai completo. Poi metto tutto nell’ordine che mi sembra giusto, o forse solo possibile.
di Enzo Bianchi
LA SINGOLARE COINCIDENZA di calendario tra la festa della natività di Gesù e la commemorazione del profeta Muhammad dovrebbe scuoterci dal nostro analfabetismo nel dialogo islamo-cristiano, distoglierci dalle polemiche insensate sulla presenza o meno del presepe nelle scuole e nei luoghi pubblici istituzionali e spingerci alla pratica di quella “ospitalità culturale” di cui c’è grande urgenza per una convivenza buona e intelligente.
Conoscere le feste dell’altro, il significato delle celebrazioni, la reale portata delle tradizioni instauratesi nel corso dei secoli è il passo più semplice e tra i più fecondi per scoprire l’universo religioso di chi ci sta accanto e, al contempo, per riscoprire il fondamento di ciò che noi stessi ricordiamo, sovente offuscato dall’abitudine.
Dai primi secoli i cristiani fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea il 25 dicembre: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il “sole invitto”, il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, vincitore sulla tenebra che offusca la terra. Essendo Gesù Cristo vero sole, luce del mondo, era naturale fare memoria della sua nascita al solstizio d’inverno.
Per i musulmani invece la “commemorazione” (non la “festa”, perché nel calendario islamico solo due sono le “feste”: Id al-Fitr alla conclusione del mese di Ramadan, e Id al-Adha, la festa del Sacrificio) della nascita del Profeta, nel dodicesimo giorno del mese lunare di Rabi’ I che quest’anno cade appunto il 24 dicembre, risale a non prima del X secolo, con ispirazione alla festa cristiana, e oggi è particolarmente sentita a livello popolare e tra i bambini, sebbene sia contestata da alcuni che la giudicano troppo modellata sul Natale cristiano.
Due feste differenti, dunque, senza possibili sincretismi né simmetrie perché nella fede non si festeggia nulla insieme: ai cristiani è chiesto rispetto per la commemorazione dei musulmani, così come ai musulmani è chiesto rispetto per la festa cristiana della nascita di colui che per loro è comunque considerato un profeta, ma non colui che i cristiani confessano quale loro Signore e loro Dio. Insieme si può solo celebrare la gioia dell’altro e scambiarsi auguri di pace, e questo non è poco in un’umanità tentata di smentire la fraternità e di far divampare conflitti religiosi.
Gesù e Muhammad quest’anno nascono nella stessa notte
di Francesca Bellino (L’Huffington Post, 22/12/2015)
"Sti musulmani mo’ ci rubano pure il Natale..." ha esclamato un uomo in un bar a Roma, rivolgendosi al giovane barista. Non è una barzelletta, è il segno che l’islamofobia non ha limiti. Per prendersi gioco di chi crede che gli immigrati ci portino via il lavoro e che Daesh, il sedicente Stato islamico, ci abbia rubato la tranquillità, ma soprattutto di chi è convinto che sia sempre colpa dei musulmani, che ci sia l’Islam dietro ogni terrorismo e che i jihadisti uccidano per conquistare il paradiso, quest’anno ci ha pensato il calendario a creare una situazione anomala, quanto significativa e anche provocatoria.
Il Natale musulmano, ossia il Maulid, la festa per la nascita di Muhammad, capita nella stessa notte del nostro Natale: tra il 24 e il 25. Gesù e l’arrasul, ossia il profeta Muhammad, nasceranno nello stesso momento e dunque le due comunità festeggeranno nelle stesse ore. È un evento eccezionale che si verifica dopo 457 anni, quasi mezzo millennio. La notizia ha iniziato a circolare già da qualche settimana e ovviamente non è passata inosservata a chi pensa che "sti musulmani mo’ ci rubano pure il Natale..."!
Il Maulid quest’anno capita due volte. Secondo il calendario musulmano che segue il ciclo lunare, e quindi cambia ogni anno, è già caduto tra il 3 e il 4 gennaio. È uno dei giorni più sacri dell’Islam ed è una festa religiosa importante per i praticanti insieme all’Aid Ilfiter, la festa per la fine del Ramadan che cade nel nono mese del calendario musulmano, e all’Aid Ilidha, la festa del sacrificio che si tiene due mesi e dieci giorni dopo la fine del Ramadan. Questa commemora l’atto di Abramo di sacrificare, per ordine divino, il figlio Ismaele (o Isacco, per i cristiani), un atto sventato all’ultimo minuto con la sostituzione di Ismaele con un agnello.
È bizzarro che mentre la fase storica che viviamo spinge verso la separazione e la sfiducia, il calendario ci porta all’incontro e alla condivisione. Tantissime famiglie composte da persone di diversa provenienza, infatti, quest’anno si ritroveranno a celebrare le due feste insieme. Questa è la realtà dell’Italia di oggi. Un’Italia multietnica dove, in particolare cristiani e musulmani, vivono uno accanto all’altro.
Per chi come me crede che nulla succeda per caso, questa "coincidenza" ci porta un messaggio profondo che spero non passi inosservato. Non abbiamo bisogno di retorica, né di (belle) frasi fatte, come non abbiamo bisogno di paura, ma di azioni (belle), canti d’amore e nuovi pensieri. Pensieri positivi e pregni di fiducia verso gli altri. Auguri a tutti e godetevi questa notte della nascita che porta all’incontro e alla pace.
Ansa» 2008-12-28 16:45
VENEZIA, SACERDOTE DONA PRESEPE A CENTRO ISLAMICO
VENEZIA - Un piccolo presepe è stato donato, oggi a Venezia, ad un centro islamico da don Dino Pistolato direttore della locale Caritas diocesana. Il gesto, condiviso da Wael Farhat responsabile del centro, è stato fatto, come ha sottolineato lo stesso religioso, in risposta alle polemiche sorte per la presenza di moschee nei presepi.
Il presepe donato da don Pistolato è di piccole dimensioni, in vetro di Murano rosso e oro per la capanna, con la sacra famiglia in cristallo. "Vogliamo far capire - ha detto don Pistolato - che le grandi religioni monoteiste hanno alcuni elementi in comune".
"Lo sforzo che dobbiamo fare tutti - ha aggiunto - è quello di dialogare e non di contrapporsi e a Venezia ormai siamo già alla collaborazione". "L’Islam non è ’maomettismo’ - ha detto da parte sua Farhat -, l’Islam è credere in Dio. Abbiamo in comune i profeti e per noi Gesù è un profeta, e non l’incarnazione di Dio come per i cattolici, perciò per noi il presepe è un simbolo che condividiamo senza alcun problema".
l’intervento
Il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, rilancia il dialogo: «Oggi è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti»
Terra Santa, la pace è possibile
«Palestinesi e israeliani sono chiamati a questa responsabilità davanti a Dio: devono sforzarsi di trovare uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni»
DI MICHEL SABBAH (Avvenire, 13.02.2008) *
Ci domandiamo oggi se la pace è possibile in Terra Santa. In concreto ci sono segni di speranza, ma soprattutto sembrano prevalere paure, esitazioni, oppressioni e instabilità. E le sofferenze continuano. Costruire la pace in Terra Santa, come ovunque, è impresa sempre più difficile.
Numerosi sono i conflitti nel mondo in cui la violenza, il disprezzo della persona umana e dell’immagine di Dio nell’uomo sono praticati non solo da individui, ma da gruppi e a volte da governi responsabili. La pace in Medio Oriente sarà certamente frutto di accordi tra capi di governo e responsabili politici; ma prima di tutto coinvolgerà nel profondo i rapporti tra le comunità e tra i singoli. Ogni palestinese e ogni israeliano dovranno vedere nell’altro non più un nemico da odiare e da combattere, ma un fratello e un amico con cui costruire finalmente le nuove società palestinese e israeliana. La pace in Medio Oriente comincia a Gerusalemme.
Qui si manifesta il più profondo mistero di Dio per la storia dell’umanità: ha scelto questa città per raggiungere, attraverso il popolo eletto, tutti i popoli della terra. Gerusalemme: città in cui la fede in Dio unisce popoli e nazioni e città in cui i credenti, in nome di Dio, lungo i secoli e fino a oggi, si sono posti in conflitto. Città della riconciliazione, sorgente di pace per i pellegrini che la raggiungono, ma deserto di divisione per i suoi abitanti. La città dove tutti dicono «io qui sono nato» e che non è rimasta, nello scorrere dei secoli, esclusiva di una sola religione. Ebraismo, cristianesimo e islam oggi vi coesistono: sono tutti radicati in lei. La città di Dio è come Dio: per tutti. Nessuno può avere Dio in esclusiva, nessuno può avere la città di Dio in esclusiva e privarne l’altro. Gerusalemme è la dimora di Dio, aperta a tutti; è la dimora dello Spirito, sorgente di santità e di dignità per ogni persona.
Gerusalemme era ed è ancora il centro dell’ebraismo: era ed è il centro del cristianesimo. Dal sesto secolo fu per l’islam la «santa» città, il «santuario di Dio». Oggi, come nel passato, ci sono credenti, ebrei, musulmani e cristiani, amati da Dio di un amore speciale, che in questa terra, al di là delle divisioni e dei conflitti quotidiani, sono uniti nell’intimità della preghiera. Per loro intercessione Dio non permette che maggiori mali cadano su Gerusalemme. Altri credenti, e sono sfortunatamente la maggioranza, danno rilievo all’espressione esterna della loro fede, accentuando le differenze religiose che sono conseguentemente sfruttate da ambizioni e interessi umani.
Ogni giorno viviamo nei nostri cuori e nei nostri corpi la tragedia della divisione, dell’odio e della morte. La città della riconciliazione, la città di Dio, appare tragicamente lontana da Dio. Gerusalemme ha bisogno di pace e di riconciliazione, come d’altronde tutta le regione. Oggi Gerusalemme è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti. La Gerusalemme palestinese deve essere realmente palestinese, e l’israeliana israeliana. È una grande responsabilità amministrare la città di Dio rispettandone il Suo disegno, cioè con lo stesso amore e la stessa giustizia per tutti i suoi figli. Perciò palestinesi e israeliani, oggi chiamati a questa responsabilità davanti a Dio, devono sforzarsi di trovarle uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni presenti.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione e ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti, può portare solo a una tregua, ma non a una pace definitiva. Una soluzione ingiusta o imposta rimarrà una minaccia permanente alla pace.
Soltanto la via della giustizia può condurre alla pace. Con la violenza si può vincere una guerra o una battaglia. Uno Stato può essere creato con la forza, ma la pace no. La realtà che stiamo vivendo in Terra Santa lo prova: con la forza Israele ha vinto battaglie e guerre ed ha creato uno Stato. Ma la ricerca della pace con i palestinesi non è ancora finita. Il dialogo tra le parti coinvolte è l’unica via, purché gli accordi non rimangano mere firme sulla carta.
Vedremo la vera vittoria solo quando avremo giustizia per tutti. Io, vescovo in questa Terra Santa e martoriata, chiedo una pace che garantisca tutti i diritti a tutte le parti in conflitto.
Desidero una pace che sia in grado di garantire la sicurezza ai palestinesi, agli israeliani e a tutti i popoli della regione; una pace che rispetti la dignità, la libertà, la sovranità e i diritti di ogni persona e di ogni popolo.
Bisogna riconoscere che la religione, in questa parte del mondo, ha una grande responsabilità nella ricerca della giustizia e della pace: è anzitutto la fede nell’unico Dio creatore e nell’amore per tutte le sue creature. Evidentemente questo amore deve conciliarsi con il diritto di difendersi e di difendere la dignità di ogni persona, nonché con il rifiuto di ogni forma di oppressione e di ingiustizia. In Oriente la religione compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche. Tutto viene posto sotto il nome di Dio.
Tutto incomincia e finisce nel suo nome: la guerra, come la pace.
Perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso come nell’altro: possono incitare alla guerra e alla violenza o esortare alla pace. Purtroppo, in nome di Dio, gli uomini hanno causato nel corso della storia molte guerre e conflitti. Oggi, in nome di una fede meglio compresa e meglio vissuta, i leader religiosi hanno la responsabilità di cambiare il comportamento dei fedeli, di aprire una nuova via che conduca il mondo verso la pace, per testimoniare l’appello di Dio all’umanità: Dio è creatore di tutti e vuole il bene di tutti.
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L’ANTICIPAZIONE
Nato a Nazaret nel 1933, Michel Sabbah (nella foto) è il primo palestinese a essere nominato, nel 1987, patriarca latino di Gerusalemme. Ordinato sacerdote nel 1955 e conseguita la laurea in Filologia della lingua araba a Beirut, ha ottenuto il dottorato in Filosofia alla Sorbona di Parigi ed è stato preside dell’Università di Betlemme.
Presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dal 1999 al 2007 è stato anche presidente di Pax Christi International. Deciso fautore del dialogo fra le religioni, è una figura di spicco nelle relazioni interreligiose con gli ebrei e i musulmani della Terra Serra. Un impegno ribadito nel volume «Voce che grida dal deserto», del quale anticipiamo qui uno stralcio, curato da Nandino Capovilla e presentato dal cardinale Carlo Maria Martini (Paoline, pagine 138, euro 11,00).
PER L’ITALIA, PER L’EUROPA, E PER L’INTERA umanita’: RIPENSARE LA RELAZIONE TRA MARIA, GIUSEPPE, E L’AMORE (CHARITAS !!!) - LA "SACRA" FAMIGLIA - E RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE !!! (fls)
Il discorso dell’Hofburg
Avvocato della causa umana
Luigi Geninazzi
Che l’Europa non sia solo un’espressione geografica o un progetto politico ma abbia «qualcosa a che fare con l’anima», lo diceva già il filosofo Jan Patocka. C’è però il rischio di scivolare nel vago idealismo, quello che ha fatto scrivere tante pagine sulla necessità d’infondere uno slancio spirituale ad una realtà che ha ben altri corposi interessi, materiali e ideologici. La riflessione offerta da Benedetto XVI ai rappresentanti politici austriaci e ai diplomatici accreditati a Vienna rovescia i termini della questione: la fede non è un supplemento d’anima per un continente in crisi, è invece l’Europa che per essere se stessa deve fare i conti con l’umanesimo cristiano.
È un pronunciamento d’ampio respiro e di grande rigore intellettuale quello tenuto dal Pontefice nell’ex palazzo imperiale della città «crocevia» del mondo e cuore dell’Europa. Come già la lezione di un anno fa a Ratisbona il discorso di ieri alla Hofburg conferma la fiducia luminosa di Papa Ratzinger nell’argomentazione razionale innervata dalla fede. Qual è infatti la caratteristica fondamentale dell’Europa? È «la capacità autocritica che la distingue e la qualifica nel vasto panorama delle culture del mondo». Se è vero infatti, continua Benedetto XVI, che nel nostro continente è stato formulato per la prima volta il concetto di diritti umani va anche riconosciuto che il diritto fondamentale, presupposto di ogni altro, è il diritto alla vita. Lo dice senza alzare la voce, con aria mite e logica ferrea. Non lancia anatemi, non crea nuovi dogmi. Parla come avvocato della causa umana e non per difendere «un interesse specificamente ecclesiale». Sull’aborto fa una notazione interessante che desume dalla legislazione austriaca dove l’interruzione volontaria della gravidanza viene permessa, ma al tempo stesso definita illecita e ingiusta. Insomma, è un reato, sia pur depenalizzato, e non un diritto come richiedono femministe e radicali. Mantenere questo carattere di profonda ingiustizia sign ifica non lasciar cadere la contraddizione che lacera la patria del diritto.
Il messaggio è chiaro: per rendere abitabile e gradevole «la casa Europa» occorre trasformarla nella casa della vita. Il che implica tra l’altro che l’accompagnamento alla morte venga fatto «con un’attenzione amorevole e non come un attivo aiuto a morire». Contro l’aborto, l’eutanasia e il crollo demografico il Papa chiama tutti i responsabili politici, siano essi credenti o non credenti. Torna qui un leit-motiv di questo pontificato, «l’allargamento della ragione» che trova nella fede un sostegno decisivo. «Non c’è alternativa all’universalismo egualitario ereditato dal cristianesimo », afferma citando Habermas, il filosofo tedesco con cui ha dialogato l’allora cardinale Ratzinger. Solo un’Europa cosciente di questo, e quindi rispettosa delle proprie radici cristiane, può diventare un modello e reggere la grande sfida della globalizzazione.
Nel suo discorso a Vienna, il Papa ha toccato tutti i punti caldi del dibattito europeo, dal processo di unificazione che valuta positivamente (anche se non risparmia un’annotazione critica nei riguardi di «qualche istituzione comunitaria») fino alla responsabilità, definita «unica», nell’impegno per la pace e nella lotta alla povertà. È questa l’Europa di Benedetto, per dirla col titolo di un libro scritto qualche anno fa da Ratzinger. Un’Europa che sa fare autocritica.