RELIGIONI
Giuseppe unisce Bibbia e Corano
Il personaggio biblico consigliere del Faraone ricorre anche negli scritti coranici. Due vicende diverse ma con una certa consonanza di fondo
Di Franco Cardini (Avvenire, 01.09.2007)
Tra le molte sciocchezze che si sentono dire di solito sul Corano, c’è anche quella secondo la quale esso sarebbe privo di riferimenti sia alla Bibbia, sia alla storia profana. Per convincersi del contrario basta, a non dir altro, un’occhiata al bel libro di Mikhail Piotrovsky su Leggende storiche del Corano. Parole e immagini, edito con le illustrazioni tratte dai codici del Museo dell’Hermitage di San Pietroburgo: in russo, ma disponibile anche in edizione inglese; un’autentica festa per gli occhi. E lì, un capitolo centrale è dedicato naturalmente a La bella storia del bel Yusuf, il quale altri non è se non Giuseppe figlio di Giacobbe, al quale il Corano dedica un’intera sura, la XII.
La storia di Giuseppe, come tutti sanno, dopo un prologo nel deserto nel quale vagavano quei nomadi nei quali si sarebbe più tardi riconosciuto il popolo ebraico, è ambientata in Egitto. È un vero e proprio romanzo, e non è certo un caso che sia in un certo senso una «storia egizia», dal momento che il genere letterario del romanzo, poi passato in Grecia e in Persia, sembra essere nato proprio nella terra benedetta dal Nilo.
Non è certo strano che la splendida storia di Giuseppe il Prediletto, Giuseppe il Sognatore, invidiato e tradito dai fratelli, quindi venduto schiavo ma favorito dalla sorte, poi ancora insidiato da una donna bella e sensuale, infine salvato dalla sua abilità d’interprete dei sogni e a sua volta salvatore della sua famiglia e del suo popolo, Giuseppe che sa rispondere al male con il bene ma il perdono del quale non va esente da un’esemplare giustizia, abbia tanto affascinato Thomas Mann da indurlo a comporre la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli, un capolavoro non solo narrativo ma anche teologico, nel quale il monoteismo abramitico è spiegato nelle sue supposte origini egizie come una sorta di «processo d’identificazione» (come avrebbe detto Jung) del quale Dio è protagonista e dove l’elemento centrale è costituito dalla continuità tra la cultura egizia antica e l’epoca mitica dei patriarchi ebrei.
Proprio dalla XII sura del Corano e dalla tetralogia manniana prende le mosse un piccolo, bellissimo libro edito dalla Morcelliana. Autore di Il profeta Giuseppe. Monoteismo e storia nel Corano è Massimo Campanini, uno dei migliori e più stimati tra i nostri giovani islamologi. Campanini insegna Storia dell’islam e dei paesi arabi nell’Università di Napoli l’Orientale ed è autore di due recenti libri di successo, Il pensiero arabo contemporaneo e Storia del Medio Oriente, editi entrambi dal Mulino di Bologna.
Non è affatto strano che anch’egli sia soggiaciuto al fascino di quella che il Corano stesso definisce «la più bella storia mai raccontata». Ma le sue intenzioni sono rigorosamente scientifiche. Campanini sa bene che il patriarca Giuseppe della Bibbia e il profeta Giuseppe del Corano, pur essendo assolutamente identificabili come la stessa persona storica, sono due personaggi ben diversi, caratterizzati da vicende che sono nelle grandi linee le medesime, e perfettamente confrontabili (sia pur con qualche variante), ma la cui rispettiva funzione è ben altra. Punto di partenza inaggirabile, beninteso, è il confronto tra il monoteismo dei testi biblici detti yahwisti e quello scaturito dalla riforma religiosa di Akhenaton, studiato da Campanini alla luce della coraggiosa (oltre che dotta) opinione che «una comune koiné ideologica, etica e religiosa esisteva fra l’Egitto, l’Assiria-Babilonia e le tradizioni ebraiche.
Ma Campanini, ripercorrendo il Giuseppe coranico alla luce dei commentatori musulmani antichi e moderni (ma anche dei poeti come il quattrocentesco Jami, autore del poema Yusuf e Zulaykha), ci guida anche a cogliere l’intima, profonda differenza tra il Giuseppe patriarca della Bibbia, la storia del quale è funzionalizzata all’esaltazione del ruolo d’Israele come Popolo Eletto, e il Giuseppe profeta del Corano, la vicenda del quale glorifica la misericordia di Dio e la Sua provvidenziale guida. Se ne evince la consonanza profonda, ma anche la necessaria distinzione, tra i due grandi monoteismi tra i quali il cristianesimo per un verso è obiettivamente una specie di anello di congiunzione, mentre per altri esso (con i misteri dell’Umanità del Cristo-Dio e della Trinità) si distingue nettamente e si allontana da entrambi.
Massimo Campanini
Il profeta Giuseppe
Monoteismo e storia nel Corano
Morcelliana. Pagine 128. Euro 12,00
Sul tema, in rete, e nel sito, si cfr.:
MELCHISEDECH, A SAN GIOVANNI IN FIORE.
AL DI LA’ DEL MONOTEISMO MONOPOLISTICO E IMPERIALISTICO, LA RIVELAZIONE DI AMORE.
"GIUSEPPE": "DE DOMO DAVID". Un convegno e un libro ... *
De Domo David e l’edizione di Nardò, dalla Congregazione degli Oblati di San Giuseppe
di padre Alberto Santiago (Fondazione "Terra d’Otranto", 12/11/2019)
Buona serata a voi tutti: saluto cordialmente mons. Filograna, vescovo di Nardò, il Rettore della Confraternita di San Giuseppe Patriarca monsignor Santantonio, le Autorità presenti, il Priore della Confraternita Mino De Benedittis, i sodali e tutti i convenuti.
Porto il saluto della Congregazione degli Oblati di San Giuseppe fondata da san Giuseppe Marello nel 1870, e di tutto l’ambito giuseppino, che si compone anche della Congregazione di S.Giuseppe fondata da s.Leonardo Murialdo, e vari Istituti femminili, tutti informati ed entusiasti dell’iniziativa che si celebra nella diocesi di Nardò-Gallipoli.
Vengo inoltre come portavoce del Centro Studi del “Movimento Giuseppino” di Roma, che promuove l’interazione tra i devoti di san Giuseppe, per favorire e valorizzare la conoscenza della sua missione nel piano dell’Incarnazione, e animare la vita ecclesiale con la pratica delle virtù evangeliche tipiche di san Giuseppe.
Il sito del «Movimento Giuseppino» si propone di raccogliere e presentare con organicità di contenuti costantemente aggiornati, le informazioni riguardanti san Giuseppe in ogni suo aspetto, provenienti dai vari Centri nazionali e internazionali di studi. Il sito è aperto a ogni forma di confronto e collaborazione da parte di quanti volessero segnalare integrazioni, inesattezze e lacune, ma soprattutto ampliare l’orizzonte delle conoscenze. Sarà senz’altro disponibile a segnalare questa iniziativa di oggi nelle prossime settimane.
Vi trasmetto un fervido augurio poi da parte di p. Tarcisio Stramare, teologo e biblista, la cui opera di approfondimento negli studi teologici su san Giuseppe, e sui relativi documenti pontifici, ha diffuso la conoscenza e la devozione al Custode del Redentore. E’il titolo scelto da papa Giovanni Paolo II per riassumere il ruolo di san Giuseppe nel mistero dell’incarnazione, e risale però a un’antica concezione teologica che può aver ispirato lo scultore dell’angelo sull’altare maggiore di questa chiesa di Nardò: un angelo, appunto, “custode”, come una presenza che protegge dal male e da ogni pericolo. Quale miglior correlazione con la figura di san Giuseppe che porta in salvo il Figlio dalle insidie di Erode? La statua collocata nella parte più alta di questo bellissimo altare rispecchia l’atteggiamento di Giuseppe nei confronti di Gesù, chiamato ad assicurare la sua sopravvivenza e la sua crescita.
La giornata di oggi è punto di arrivo di un progetto, ideato per celebrare i quattrocento anni di vita della Confraternita di San Giuseppe Patriarca a Nardò, di ricerca e di approfondimento sul patrimonio artistico della chiesa, e sulle forme di devozione al santo.
Promosso con il patrocinio della Diocesi di Nardò-Gallipoli, della Fondazione Terra d’Otranto e della Confraternita, il libro che accompagna questo convegno richiama l’attenzione per il suo titolo, lungo come negli incunaboli di una volta: De domo David. La Confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019).
Ma sono soprattutto le prime parole a destare la curiosità del lettore: perché De domo David?
Questa espressione ricorre nella liturgia, e si legge nel vangelo di Luca ai versetti 26-27 del primo capitolo: “... missus est angelus Gabriel ... ad virginem desponsatam viro, cui nomen erat Ioseph de domo David ...” Possiamo ricordare anche la novena di Natale: “Ecce veniet Deus, et homo de domo David sedere in throno ...”.
Certamente da questi antecedenti deriva il motto della Confraternita di San Giuseppe Patriarca: De domo David, e quindi il titolo del libro, che si legge anche sulla convessa facciata della chiesa.
L’obiettivo di un libro ampiamente illustrato, come questo, è appunto che il lettore possa in qualche misura entrare in relazione con le opere, in modo che ogni immagine sia come uno specchio capace di coinvolgere lo spettatore. E che l’arte diventi una esperienza del mondo che modifica radicalmente chi la fa, ampliando la comprensione che il soggetto ha di sé e della realtà che lo circonda.
Concepito come libro di pregio, fuori commercio e con una tiratura di poche centinaia di copie, il volume curato da Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi è risultato un lavoro di altissima qualità sia per la strutturazione dei materiali, sia per la quantità di illustrazioni (quasi 800) in eccellente risoluzione.
Grazie alla collaborazione spontanea di studiosi in varie città d’Italia e delle diocesi del Salento, si è potuto realizzare un percorso ricco e qualificato, sorprendente per varietà di contributi; vi sono articoli di taglio dottrinale, storico e artistico, e molti contributi da Confraternite, Oratori, Associazioni legate a san Giuseppe. L’elaborato che ne è conseguito si rivela dunque molto rappresentativo.
Non potevamo immaginare questo lungo cammino attraverso il tempo - poiché gli articoli spaziano tra IV e XIX secolo -, come pure le conoscenze emerse sul patrimonio artistico di questa chiesa e i suoi significati.
Ringrazio tutti i collaboratori che hanno messo a frutto le loro competenze e lo spirito di ricerca, dando un apporto importante sul piano culturale nelle sue varie forme, ma anche considerevole per la conoscenza della figura di s. Giuseppe, solo apparentemente secondaria e silenziosa.
Esprimo l’apprezzamento inoltre per la disponibilità della Biblioteca Casanatense di Roma e il Museo Pitrè di Palermo, che hanno fornito materiale di particolare interesse; la Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo per le riproduzioni degli arazzi cinquecenteschi, la Pinacoteca di Brera, la Galleria Nazionale di Parma e tutti i numerosi prestatori delle immagini pubblicate.
Principalmente ringrazio la Confraternita, all’origine di questo ambizioso progetto, e la Fondazione Terra d’Otranto che l’ha sostenuto e realizzato.
Rivolgo i saluti più cordiali agli autori qui presenti: Giovanni Boraccesi -che ha preso in esame gli argenti pugliesi raffiguranti san Giuseppe-, Marino Caringella -che illustra esempi di iconografie giuseppine-, Stefano Cortese -che documenta le antiche pitture parietali nel Salento-, Giuseppe Fai -che tratta la devozione del santo nella sua città di Parabita-, Antonio Faita -che presenta le opere statuarie dei celebri Verzella-, Antonio Solmona -che pone in evidenza alcune iconografie presenti a Galatone- e Stefano Tanisi -che esamina i dipinti nelle diocesi di Otranto e Ugento-, unitamente agli altri collaboratori.
Altri autori, come da programma, esporranno personalmente i propri contributi.
Il lavoro compiuto in questa ricorrenza, che ha fatto scoprire a tutta l’Italia la storia e l’arte di questa chiesa e di questa confraternita, di questa diocesi e della Puglia, è importante per ideare e costruire nuovi traguardi; è augurabile che parte di questo libro sia condiviso nel futuro Simposio internazionale di studi su san Giuseppe, che si terrà tra due anni in Guatemala. E’ una mèta possibile, sulla base delle svariate testimonianze acquisite, e dell’esperienza maturata in itinere.
Le stesse intenzioni mi vengono riferite per una ulteriore presentazione di questo libro a Roma, nella prestigiosa sede dell’antichissima e prestigiosa Biblioteca Casanatense, che come vedrete ha contribuito a realizzarlo mettendo a disposizione centinaia di incisioni e miniature dei secoli XV - XVIII, omaggiando questa chiesa e questa Diocesi.
E centinaia sono anche le rare riproduzioni di canivet di Lo Cicero e santini di Damato, alcuni tra i più importanti collezionisti italiani, che hanno messo a disposizione per la prima volta tante preziosità, accrescendo il prestigio del lavoro editoriale che questa sera presentiamo.
Con questo auspicio invito a far tesoro delle oltre seicento pagine del volume, tutte a colori e in pregevole edizione, e a proiettarsi nel futuro prossimo, in unità di intenti con il mondo giuseppino, che ancora una volta ringrazia per la particolare attenzione che questo lembo d’Italia ha voluto dedicare al santo di cui porta il nome.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
FESTA DI SAN GIUSEPPE E DEL PAPA’ - NON DEL PAPA!!! BASTA CON LA "MALA EDUCACION" E CON LA "MALA FEDE"!!! RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITA’, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
Quest’anno il Natale cristiano e quello musulmano cadono la stessa notte
Non accadeva da mezzo millennio. Una bella coincidenza di questi tempi
Quando gli dei si parlano
di Monika Bulaj (la Repubblica, 20.12.2015)
L’HO SENTITO NEI SOSPIRI DEI SUFI A KABUL, al Cairo e a Istanbul, durante i riti dionisiaci dei musulmani del Maghreb, tra le esplosioni di petardi e rulli di tamburi nella Tripoli agghindata con palloncini e teste di squalo. Era il canto natalizio dei musulmani. Quest’anno, per la prima volta negli ultimi quattrocentocinquantasette, quel canto si leverà nel mondo musulmano nella stessa notte in cui i cristiani celebreranno il loro Natale, quella tra il 24 e il 25 dicembre. Perché quest’anno Maometto nasce quando nasce Gesù. Sarà il secondo Mawlud del 2015, il primo è caduto tra il 3 e il 4 gennaio: l’anno liturgico dei musulmani, governato dalla Luna, corre più veloce di quello cristiano.
Coincidenze. Del resto - e oggi pare così strano ricordarlo - le due religioni si sono rispecchiate l’una nell’altra nei secoli a suon di melodie e usanze, e si sono prestate poesie e riti come i buoni vicini si prestano il sale. E fu forse proprio per resistere all’incanto della notte di Betlemme che un califfo decretò la nascita del Profeta come festa popolare. Da allora il Natale musulmano viene festeggiato dal Maghreb fino all’Indonesia con fuochi d’artificio e regali per i bambini, cortei e danze estatiche, ed è replicato a sua volta per i santi locali in una infinità di Natali minori.
Sono anni che viaggio nelle sacre periferie delle religioni del Libro, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute di un’umanità in fuga. Come i santuari dei mistici dell’Islam, che dal Pakistan al Mali stanno scomparendo a suon di bombe. Odiati dagli ultras dell’Islam e ignorati dall’Occidente, i sufi sono forse una delle poche barriere contro la barbarie. Riempiono le biblioteche, godono della lettura come i mistici ebrei, mettono l’esperienza al di sopra della teoria, chiamano la pratica "strada" e il fanatico "asino che porta sulla groppa una pila di libri".
Sono zone franche. Come le donne armene e turche che dormono assieme sulla tomba di un santo cristiano sul Bosforo; come i monasteri nel deserto egiziano, ora assediati dai fondamentalisti, dove Abuna Fanous ascolta i sogni dei pastori beduini che per parlare con lui si fanno ore di coda sotto il sole; oppure come la venerazione dei kosovari verso lo sfortunato santo dei serbi, il re Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Zone franche sono i cristiani e i musulmani che pregavano assieme nella moschea di Damasco, o quelli che hanno rimesso a posto le pietre del monastero di Deir Mar Musa, sempre nella povera Siria.
Sono queste le ultime oasi d’incontro tra le fedi, luoghi dove gli dei ancora si parlano, terre di promiscuitˆ millenaria scomoda ai predicatori dello scontro di civilt ˆ, luoghi dove la catena delle vendette si rompe, dove si mangiano le stesse pietanze, si intonano gli stessi canti, si fanno gli stessi gesti. Accadde anche nella mia Polonia prima della Seconda guerra, nel Marocco degli anni Cinquanta prima dell’esodo degli ebrei. Il buon santo è buono per tutti. A Mea Sharim, il quartiere dei Chassidim di Gerusalemme, i nomi delle sinagoghe rievocano paludi bielorusse, pianure polacche, bianche colline ucraine.
È un mondo parallelo e invisibile che va dall’Asia centrale all’America latina, dalle Russie al Medio Oriente. Il calendario dei miei spostamenti tra Gibilterra e l’Afghanistan segue anniversari di nascita e morte di uomini e profeti, pellegrinaggi e sacrifici, lune, solstizi e stagioni che annodano il tempo: persiano, aramaico, arabo o ebraico non importa, svela comunque una trama di sorprendenti parallelismi. Elia diventa tra i musulmani “Khidr il verde”; San Giorgio viene festeggiato nei Balcani da cristiani e musulmani; attorno alle Madonne si radunano donne musulmane e greco-ortodosse, di Napoli e di Istanbul.
Accade che a un certo punto sono le stesse immagini che vengono a cercarti. Svelano una continuità che abbiamo disimparato a osservare. Quello che faccio io è una cosa quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della Torre di Babele, tessere di un mosaico che non sarà mai completo. Poi metto tutto nell’ordine che mi sembra giusto, o forse solo possibile.
di Enzo Bianchi
LA SINGOLARE COINCIDENZA di calendario tra la festa della natività di Gesù e la commemorazione del profeta Muhammad dovrebbe scuoterci dal nostro analfabetismo nel dialogo islamo-cristiano, distoglierci dalle polemiche insensate sulla presenza o meno del presepe nelle scuole e nei luoghi pubblici istituzionali e spingerci alla pratica di quella “ospitalità culturale” di cui c’è grande urgenza per una convivenza buona e intelligente.
Conoscere le feste dell’altro, il significato delle celebrazioni, la reale portata delle tradizioni instauratesi nel corso dei secoli è il passo più semplice e tra i più fecondi per scoprire l’universo religioso di chi ci sta accanto e, al contempo, per riscoprire il fondamento di ciò che noi stessi ricordiamo, sovente offuscato dall’abitudine.
Dai primi secoli i cristiani fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea il 25 dicembre: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il “sole invitto”, il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, vincitore sulla tenebra che offusca la terra. Essendo Gesù Cristo vero sole, luce del mondo, era naturale fare memoria della sua nascita al solstizio d’inverno.
Per i musulmani invece la “commemorazione” (non la “festa”, perché nel calendario islamico solo due sono le “feste”: Id al-Fitr alla conclusione del mese di Ramadan, e Id al-Adha, la festa del Sacrificio) della nascita del Profeta, nel dodicesimo giorno del mese lunare di Rabi’ I che quest’anno cade appunto il 24 dicembre, risale a non prima del X secolo, con ispirazione alla festa cristiana, e oggi è particolarmente sentita a livello popolare e tra i bambini, sebbene sia contestata da alcuni che la giudicano troppo modellata sul Natale cristiano.
Due feste differenti, dunque, senza possibili sincretismi né simmetrie perché nella fede non si festeggia nulla insieme: ai cristiani è chiesto rispetto per la commemorazione dei musulmani, così come ai musulmani è chiesto rispetto per la festa cristiana della nascita di colui che per loro è comunque considerato un profeta, ma non colui che i cristiani confessano quale loro Signore e loro Dio. Insieme si può solo celebrare la gioia dell’altro e scambiarsi auguri di pace, e questo non è poco in un’umanità tentata di smentire la fraternità e di far divampare conflitti religiosi.
Gesù e Muhammad quest’anno nascono nella stessa notte
di Francesca Bellino (L’Huffington Post, 22/12/2015)
"Sti musulmani mo’ ci rubano pure il Natale..." ha esclamato un uomo in un bar a Roma, rivolgendosi al giovane barista. Non è una barzelletta, è il segno che l’islamofobia non ha limiti. Per prendersi gioco di chi crede che gli immigrati ci portino via il lavoro e che Daesh, il sedicente Stato islamico, ci abbia rubato la tranquillità, ma soprattutto di chi è convinto che sia sempre colpa dei musulmani, che ci sia l’Islam dietro ogni terrorismo e che i jihadisti uccidano per conquistare il paradiso, quest’anno ci ha pensato il calendario a creare una situazione anomala, quanto significativa e anche provocatoria.
Il Natale musulmano, ossia il Maulid, la festa per la nascita di Muhammad, capita nella stessa notte del nostro Natale: tra il 24 e il 25. Gesù e l’arrasul, ossia il profeta Muhammad, nasceranno nello stesso momento e dunque le due comunità festeggeranno nelle stesse ore. È un evento eccezionale che si verifica dopo 457 anni, quasi mezzo millennio. La notizia ha iniziato a circolare già da qualche settimana e ovviamente non è passata inosservata a chi pensa che "sti musulmani mo’ ci rubano pure il Natale..."!
Il Maulid quest’anno capita due volte. Secondo il calendario musulmano che segue il ciclo lunare, e quindi cambia ogni anno, è già caduto tra il 3 e il 4 gennaio. È uno dei giorni più sacri dell’Islam ed è una festa religiosa importante per i praticanti insieme all’Aid Ilfiter, la festa per la fine del Ramadan che cade nel nono mese del calendario musulmano, e all’Aid Ilidha, la festa del sacrificio che si tiene due mesi e dieci giorni dopo la fine del Ramadan. Questa commemora l’atto di Abramo di sacrificare, per ordine divino, il figlio Ismaele (o Isacco, per i cristiani), un atto sventato all’ultimo minuto con la sostituzione di Ismaele con un agnello.
È bizzarro che mentre la fase storica che viviamo spinge verso la separazione e la sfiducia, il calendario ci porta all’incontro e alla condivisione. Tantissime famiglie composte da persone di diversa provenienza, infatti, quest’anno si ritroveranno a celebrare le due feste insieme. Questa è la realtà dell’Italia di oggi. Un’Italia multietnica dove, in particolare cristiani e musulmani, vivono uno accanto all’altro.
Per chi come me crede che nulla succeda per caso, questa "coincidenza" ci porta un messaggio profondo che spero non passi inosservato. Non abbiamo bisogno di retorica, né di (belle) frasi fatte, come non abbiamo bisogno di paura, ma di azioni (belle), canti d’amore e nuovi pensieri. Pensieri positivi e pregni di fiducia verso gli altri. Auguri a tutti e godetevi questa notte della nascita che porta all’incontro e alla pace.
Ansa» 2008-12-28 16:45
VENEZIA, SACERDOTE DONA PRESEPE A CENTRO ISLAMICO
VENEZIA - Un piccolo presepe è stato donato, oggi a Venezia, ad un centro islamico da don Dino Pistolato direttore della locale Caritas diocesana. Il gesto, condiviso da Wael Farhat responsabile del centro, è stato fatto, come ha sottolineato lo stesso religioso, in risposta alle polemiche sorte per la presenza di moschee nei presepi.
Il presepe donato da don Pistolato è di piccole dimensioni, in vetro di Murano rosso e oro per la capanna, con la sacra famiglia in cristallo. "Vogliamo far capire - ha detto don Pistolato - che le grandi religioni monoteiste hanno alcuni elementi in comune".
"Lo sforzo che dobbiamo fare tutti - ha aggiunto - è quello di dialogare e non di contrapporsi e a Venezia ormai siamo già alla collaborazione". "L’Islam non è ’maomettismo’ - ha detto da parte sua Farhat -, l’Islam è credere in Dio. Abbiamo in comune i profeti e per noi Gesù è un profeta, e non l’incarnazione di Dio come per i cattolici, perciò per noi il presepe è un simbolo che condividiamo senza alcun problema".
l’intervento
Il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, rilancia il dialogo: «Oggi è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti»
Terra Santa, la pace è possibile
«Palestinesi e israeliani sono chiamati a questa responsabilità davanti a Dio: devono sforzarsi di trovare uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni»
DI MICHEL SABBAH (Avvenire, 13.02.2008) *
Ci domandiamo oggi se la pace è possibile in Terra Santa. In concreto ci sono segni di speranza, ma soprattutto sembrano prevalere paure, esitazioni, oppressioni e instabilità. E le sofferenze continuano. Costruire la pace in Terra Santa, come ovunque, è impresa sempre più difficile.
Numerosi sono i conflitti nel mondo in cui la violenza, il disprezzo della persona umana e dell’immagine di Dio nell’uomo sono praticati non solo da individui, ma da gruppi e a volte da governi responsabili. La pace in Medio Oriente sarà certamente frutto di accordi tra capi di governo e responsabili politici; ma prima di tutto coinvolgerà nel profondo i rapporti tra le comunità e tra i singoli. Ogni palestinese e ogni israeliano dovranno vedere nell’altro non più un nemico da odiare e da combattere, ma un fratello e un amico con cui costruire finalmente le nuove società palestinese e israeliana. La pace in Medio Oriente comincia a Gerusalemme.
Qui si manifesta il più profondo mistero di Dio per la storia dell’umanità: ha scelto questa città per raggiungere, attraverso il popolo eletto, tutti i popoli della terra. Gerusalemme: città in cui la fede in Dio unisce popoli e nazioni e città in cui i credenti, in nome di Dio, lungo i secoli e fino a oggi, si sono posti in conflitto. Città della riconciliazione, sorgente di pace per i pellegrini che la raggiungono, ma deserto di divisione per i suoi abitanti. La città dove tutti dicono «io qui sono nato» e che non è rimasta, nello scorrere dei secoli, esclusiva di una sola religione. Ebraismo, cristianesimo e islam oggi vi coesistono: sono tutti radicati in lei. La città di Dio è come Dio: per tutti. Nessuno può avere Dio in esclusiva, nessuno può avere la città di Dio in esclusiva e privarne l’altro. Gerusalemme è la dimora di Dio, aperta a tutti; è la dimora dello Spirito, sorgente di santità e di dignità per ogni persona.
Gerusalemme era ed è ancora il centro dell’ebraismo: era ed è il centro del cristianesimo. Dal sesto secolo fu per l’islam la «santa» città, il «santuario di Dio». Oggi, come nel passato, ci sono credenti, ebrei, musulmani e cristiani, amati da Dio di un amore speciale, che in questa terra, al di là delle divisioni e dei conflitti quotidiani, sono uniti nell’intimità della preghiera. Per loro intercessione Dio non permette che maggiori mali cadano su Gerusalemme. Altri credenti, e sono sfortunatamente la maggioranza, danno rilievo all’espressione esterna della loro fede, accentuando le differenze religiose che sono conseguentemente sfruttate da ambizioni e interessi umani.
Ogni giorno viviamo nei nostri cuori e nei nostri corpi la tragedia della divisione, dell’odio e della morte. La città della riconciliazione, la città di Dio, appare tragicamente lontana da Dio. Gerusalemme ha bisogno di pace e di riconciliazione, come d’altronde tutta le regione. Oggi Gerusalemme è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti. La Gerusalemme palestinese deve essere realmente palestinese, e l’israeliana israeliana. È una grande responsabilità amministrare la città di Dio rispettandone il Suo disegno, cioè con lo stesso amore e la stessa giustizia per tutti i suoi figli. Perciò palestinesi e israeliani, oggi chiamati a questa responsabilità davanti a Dio, devono sforzarsi di trovarle uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni presenti.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione e ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti, può portare solo a una tregua, ma non a una pace definitiva. Una soluzione ingiusta o imposta rimarrà una minaccia permanente alla pace.
Soltanto la via della giustizia può condurre alla pace. Con la violenza si può vincere una guerra o una battaglia. Uno Stato può essere creato con la forza, ma la pace no. La realtà che stiamo vivendo in Terra Santa lo prova: con la forza Israele ha vinto battaglie e guerre ed ha creato uno Stato. Ma la ricerca della pace con i palestinesi non è ancora finita. Il dialogo tra le parti coinvolte è l’unica via, purché gli accordi non rimangano mere firme sulla carta.
Vedremo la vera vittoria solo quando avremo giustizia per tutti. Io, vescovo in questa Terra Santa e martoriata, chiedo una pace che garantisca tutti i diritti a tutte le parti in conflitto.
Desidero una pace che sia in grado di garantire la sicurezza ai palestinesi, agli israeliani e a tutti i popoli della regione; una pace che rispetti la dignità, la libertà, la sovranità e i diritti di ogni persona e di ogni popolo.
Bisogna riconoscere che la religione, in questa parte del mondo, ha una grande responsabilità nella ricerca della giustizia e della pace: è anzitutto la fede nell’unico Dio creatore e nell’amore per tutte le sue creature. Evidentemente questo amore deve conciliarsi con il diritto di difendersi e di difendere la dignità di ogni persona, nonché con il rifiuto di ogni forma di oppressione e di ingiustizia. In Oriente la religione compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche. Tutto viene posto sotto il nome di Dio.
Tutto incomincia e finisce nel suo nome: la guerra, come la pace.
Perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso come nell’altro: possono incitare alla guerra e alla violenza o esortare alla pace. Purtroppo, in nome di Dio, gli uomini hanno causato nel corso della storia molte guerre e conflitti. Oggi, in nome di una fede meglio compresa e meglio vissuta, i leader religiosi hanno la responsabilità di cambiare il comportamento dei fedeli, di aprire una nuova via che conduca il mondo verso la pace, per testimoniare l’appello di Dio all’umanità: Dio è creatore di tutti e vuole il bene di tutti.
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L’ANTICIPAZIONE
Nato a Nazaret nel 1933, Michel Sabbah (nella foto) è il primo palestinese a essere nominato, nel 1987, patriarca latino di Gerusalemme. Ordinato sacerdote nel 1955 e conseguita la laurea in Filologia della lingua araba a Beirut, ha ottenuto il dottorato in Filosofia alla Sorbona di Parigi ed è stato preside dell’Università di Betlemme.
Presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dal 1999 al 2007 è stato anche presidente di Pax Christi International. Deciso fautore del dialogo fra le religioni, è una figura di spicco nelle relazioni interreligiose con gli ebrei e i musulmani della Terra Serra. Un impegno ribadito nel volume «Voce che grida dal deserto», del quale anticipiamo qui uno stralcio, curato da Nandino Capovilla e presentato dal cardinale Carlo Maria Martini (Paoline, pagine 138, euro 11,00).
PER L’ITALIA, PER L’EUROPA, E PER L’INTERA umanita’: RIPENSARE LA RELAZIONE TRA MARIA, GIUSEPPE, E L’AMORE (CHARITAS !!!) - LA "SACRA" FAMIGLIA - E RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE !!! (fls)
Il discorso dell’Hofburg
Avvocato della causa umana
Luigi Geninazzi
Che l’Europa non sia solo un’espressione geografica o un progetto politico ma abbia «qualcosa a che fare con l’anima», lo diceva già il filosofo Jan Patocka. C’è però il rischio di scivolare nel vago idealismo, quello che ha fatto scrivere tante pagine sulla necessità d’infondere uno slancio spirituale ad una realtà che ha ben altri corposi interessi, materiali e ideologici. La riflessione offerta da Benedetto XVI ai rappresentanti politici austriaci e ai diplomatici accreditati a Vienna rovescia i termini della questione: la fede non è un supplemento d’anima per un continente in crisi, è invece l’Europa che per essere se stessa deve fare i conti con l’umanesimo cristiano.
È un pronunciamento d’ampio respiro e di grande rigore intellettuale quello tenuto dal Pontefice nell’ex palazzo imperiale della città «crocevia» del mondo e cuore dell’Europa. Come già la lezione di un anno fa a Ratisbona il discorso di ieri alla Hofburg conferma la fiducia luminosa di Papa Ratzinger nell’argomentazione razionale innervata dalla fede. Qual è infatti la caratteristica fondamentale dell’Europa? È «la capacità autocritica che la distingue e la qualifica nel vasto panorama delle culture del mondo». Se è vero infatti, continua Benedetto XVI, che nel nostro continente è stato formulato per la prima volta il concetto di diritti umani va anche riconosciuto che il diritto fondamentale, presupposto di ogni altro, è il diritto alla vita. Lo dice senza alzare la voce, con aria mite e logica ferrea. Non lancia anatemi, non crea nuovi dogmi. Parla come avvocato della causa umana e non per difendere «un interesse specificamente ecclesiale». Sull’aborto fa una notazione interessante che desume dalla legislazione austriaca dove l’interruzione volontaria della gravidanza viene permessa, ma al tempo stesso definita illecita e ingiusta. Insomma, è un reato, sia pur depenalizzato, e non un diritto come richiedono femministe e radicali. Mantenere questo carattere di profonda ingiustizia sign ifica non lasciar cadere la contraddizione che lacera la patria del diritto.
Il messaggio è chiaro: per rendere abitabile e gradevole «la casa Europa» occorre trasformarla nella casa della vita. Il che implica tra l’altro che l’accompagnamento alla morte venga fatto «con un’attenzione amorevole e non come un attivo aiuto a morire». Contro l’aborto, l’eutanasia e il crollo demografico il Papa chiama tutti i responsabili politici, siano essi credenti o non credenti. Torna qui un leit-motiv di questo pontificato, «l’allargamento della ragione» che trova nella fede un sostegno decisivo. «Non c’è alternativa all’universalismo egualitario ereditato dal cristianesimo », afferma citando Habermas, il filosofo tedesco con cui ha dialogato l’allora cardinale Ratzinger. Solo un’Europa cosciente di questo, e quindi rispettosa delle proprie radici cristiane, può diventare un modello e reggere la grande sfida della globalizzazione.
Nel suo discorso a Vienna, il Papa ha toccato tutti i punti caldi del dibattito europeo, dal processo di unificazione che valuta positivamente (anche se non risparmia un’annotazione critica nei riguardi di «qualche istituzione comunitaria») fino alla responsabilità, definita «unica», nell’impegno per la pace e nella lotta alla povertà. È questa l’Europa di Benedetto, per dirla col titolo di un libro scritto qualche anno fa da Ratzinger. Un’Europa che sa fare autocritica.