19 MARZO: LA FESTA
Oggi la liturgia ci ricorda il padre terreno di Gesù che i Vangeli descrivono come uomo giusto. L’attuale Pontefice coltiva da sempre una profonda devozione per il falegname di Nazareth sposo di Maria
L’anello del Papa, dono a san Giuseppe
Giusto un anno fa Giovanni Paolo II lo inviò alla chiesa della città natale di Wadowice che frequentava sin da bambino
di Luigi Geninazzi (Avvenire, 19.03.2005)
È una devozione particolare quella che lega Giovanni Paolo II a san Giuseppe, «il secondo Patrono del mio Battesimo», come ama spesso ricordare Karol Józef Wojtyla. Fin da bambino si recava spesso coi suoi genitori nella chiesa dei Carmelitani Scalzi «na górka», sulla collina che sorge nel centro della sua città natale di Wadowice. L’immagine di «San Giuseppe con il Bambino in braccio» sta sopra l’altare maggiore. Fedeli ad una tradizione secolare gli abitanti di Wadowice si preparano alla festa del 19 marzo con una grande novena di preghiera. Per nove mercoledì consecutivi i fedeli si radunano nella chiesa dei Carmelitani scalzi chiedendo una grazia particolare a san Giuseppe.
Il rito si è ripetuto anche quest’anno e «in cima a tutte le suppliche c’era quella per la salute del Papa», tiene a sottolineare padre Silvano Zielinski, priore del convento e custode del Santuario giuseppino. Nei giorni scorsi le tv di tutto il mondo hanno diffuso l’immagine dei compaesani di Wojtyla giunti al Policlinico Gemelli di Roma per sostenere coi loro canti e le loro preghiere il Papa anziano e malato. E prima di tornarsene in Polonia gli hanno lasciato in dono il libro contenente le omelie pronunciate durante la novena del 2004.
Proprio un anno fa Giovanni Paolo II volle donare il suo anello pontificio al santuario di Wadowice. Con una solenne cerimonia, presieduta dall’arcivescovo di Cracovia. cardinale Franciszek Macharski, il 19 marzo del 2004 è avvenuta la decorazione del quadro di san Giuseppe, alla cui mano destra è stato imposto «l’anello del pescatore». Un regalo che è stato accolto con grande gioia e commozione dagli abitanti di Wadowice che hanno visto in quel gesto la testimonianza di un vincolo spirituale profondo tra Wojtyla e la sua città natale.
«Che questo anello ricordi che il Capo dell’Alma famiglia è l’uomo giusto di Nazareth che rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio» ha scritto il Papa nel messaggio inviato per l’occasione alla città di Wadowice. In questo modo ha voluto ispirarsi ad un gesto del suo predecessore Giovanni XXIII, il quale nell’anno d’inaugurazione del Concilio Vaticano II aveva offerto il suo anello papale al quadro di san Giuseppe venerato nella basilica della città polacca di Kalisz.
«Con quel dono è come se il Santo Padre allungasse il suo braccio dalla collina del Vaticano a quella di Wadowice per indicare in san Giuseppe il modello perfetto della fedeltà a Cristo», commenta padre Zielinski. È il segno di un legame profondo su cui più volte è tornato a riflettere Giovanni Paolo II.
Parlando della chiesa di San Giuseppe presso il convento dei Carmelitani scalzi ebbe a dire: «Come nella mia giovinezza mi reco in spirito in questo luogo... dove io stesso ricevetti numerose grazie di cui oggi esprimo riconoscenza al Signore». Era il giugno del 1999 e Giovanni Paolo II tornava nella sua città natale abbandonandosi ad uno struggente amarcord, una lunga serie di aneddoti sul filo dei ricordi.
Il giovane Wojtyla era tra i frequentatori più assidui del convento fondato da san Raffaele Kalinowski, un ufficiale polacco dell’esercito zarista che aiutò i suoi connazionali durante l’insurrezione del 1863, venne esiliato in Siberia ed una volta liberato entrò dell’Ordine dei Carmelitani. Fu così che fin da ragazzo Karol Jozef Wojtyla venne in contatto con la tradizione del Carmelo, «una scuola di spiritualità», la definisce nel messaggio che accompagna la consegna dell’anello pontificio.
Una scuola che sull’esempio di Madre Teresa di Gesù gli insegnò a «contemplare in san Giuseppe il modello perfetto dell’intimità con Gesù e con Maria, patrono della preghiera interiore e dell’infaticabile servizio ai fratelli».
Sull’importanza (antropologica e teologica) del "gesto", nel sito, cfr.
BASTA CON LA MALA-EDUCAZIONE!!!
DONNE, FEMMINISMO, CHIESA CATTOLICO-ROMANA
RADICI CRISTIANE?! SI’! MA "CHI" ERA GESU’?!
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE E MARIA - DIO E’ AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 GV., 4.8): LA NUOVA ALLEANZA E LA NUOVA LEGGE. COME IN CIELO COSI’ IN TERRA: RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL PESCATORE - come già Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - ... E L’ONORE E LA GLORIA DOVUTA. PACEM IN TERRIS ...
"DUE SOLI".... Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", Così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!!
FLS
NASCERE E RINASCERE: "NATO DA DONNA, SOTTO LA LEGGE", MA DI QUALE LEGGE?!
Ancora quella della tradizione tragica e del paolinismo?
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA PREISTORIA, E PSICOANALISI: USCIRE DAL LETARGO E DALL’INFERNO (Dante, Par. XXXIII, 94).
COME NASCONO I BAMBINI, COME NASCONO I GENITORI - OGGI?! Una nota a margine dell’anno dell’Incarnazione del Natale 2023 - e del Presepe di Greccio di Francesco di Assisi dell’anno 1223.
TRAGEDIA. La difficoltà di "aprire gli occhi" (Freud) sul #fatto antropologico (#Kant) e sociologico (#Marx) che ogni essere umano nasce ed è nato da un essere umano donna ("nato da donna, sotto la Legge"), dice solo della profondità "oceanica" della follia planetaria e della più che millenaria caduta "cosmologica" nell’orizzonte tragico della ragione e religione della cosmoteandria atea (platonico-aristotelica) e devota (paolina)!
COMMEDIA. Non è il caso di rimeditare il significato dell’art. 3 della sana e robusta Costituzione della Repubblica italiana e riprendere il cammino alla luce del Sole e dei "due Soli" (Dante Alighieri)?
IL REGNO DELLE DONNE
Ventitré uditrici per una Chiesa “maestra in umanità”
di Marinella Perroni (Il Regno, 09/12/2017)
Dal punto di vista della storia delle donne si può dire che il concilio Vaticano II ha avuto un “prima” e un “dopo”. Lo spartiacque lo hanno segnato, durante la congregazione generale LIII, le parole con le quali l’arcivescovo di Bruxelles, il card. Leo-Joseph Suenens, esprimeva il votum di invitare al Concilio, oltre a uditori maschi, anche l’altra parte dell’umanità.
Quando l’arcivescovo Pietro Fiordelli, prendendo la parola in assemblea disse: «Venerabiles patres, dilecti fratres et sorores», risultò chiaro che qualcosa ormai era cambiato. Era la III sessione del Concilio e, sia pure marginalmente, la breccia era stata aperta: nella tribuna Sant’Andrea, oltre ad altri uditori maschi, era presente anche un manipolo di ventitré sorores, dieci religiose e tredici laiche, rigorosamente tenute alla stretta osservanza dell’interdizione paolina alle donne di Corinto affinché tacessero durante le assemblee liturgiche.
Mute, almeno in assemblea, ma per la prima volta realmente presenti nel momento più alto dell’esercizio della comunione e, quindi, dell’autorità ecclesiale.
La sproporzione numerica, dato che all’inizio della III sessione erano ancora soltanto 15 a fronte di più di 2500 vescovi, rende bene l’idea di una Chiesa che, alle migliori intenzioni di definirsi secondo quella che è stata felicemente chiamata un’“ecclesiologia di comunione”, opponeva il dato di fatto di una plurisecolare esclusione delle donne da ogni forma di esercizio di autorità.
Era del resto molto diffusa tra i padri conciliari l’incapacità di intercettare almeno alcuni dei segnali che, da tempo ormai, attestavano che dal movimento delle donne aveva preso le mosse una rivoluzione profonda che avrebbe contribuito, lentamente ma inesorabilmente, a mettere in crisi i molti modi in cui l’ideologia patriarcale aveva stabilito assetti sociali fortemente asimmetrici e, sempre, a spese delle donne.
Alcuni dei vescovi presenti al Concilio avevano fatto direttamente esperienza della dedizione, ma anche delle competenze con cui tante credenti si mettevano a servizio delle loro Chiese. E per questo avevano appoggiato con forza la richiesta di Suenens. La maggioranza oscillava invece tra una malcelata indifferenza e un’aperta ostilità. Tutti, d’altra parte, erano figli di una teologia di genere tanto incline all’esaltazione del femminile quanto saldamente ferma nell’esclusione delle donne.
Non poteva certo essere quello sparuto gruppetto costretto al silenzio a ribaltare una situazione che gettava le sue radici in un passato molto lontano e che continuava a produrre i suoi frutti di emarginazione ancora a quasi due millenni di distanza. Come Paolo VI aveva osservato, la loro presenza aveva un carattere unicamente simbolico. Più ancora delle parole, però, i simboli depositano nella storia la forza della loro virtualità. Non nascono infatti mai dal nulla e, più di quanto si creda, alimentano germi di novità.
Quel “simbolo”, del resto, era radicato nelle diverse Chiese nazionali e continentali in cui quasi tutte quelle ventitré donne rivestivano ruoli importanti, alcune nelle loro congregazioni religiose, altre in diverse associazioni laicali. Come d’uso, non c’era di loro alcuna traccia nelle narrazioni ufficiali e, forse, neppure nella consapevolezza di molti vescovi dell’epoca, che continuavano a pensare che la Chiesa fosse nella realtà quello che era stato stabilito dovesse essere per principio, cioè animata e guidata unicamente da uomini. La realtà non era questa già allora né, tanto meno, lo è oggi. Quel “simbolo” diceva chiaramente che il mondo era cambiato e imponeva anche alla Chiesa di cambiare.
Le parole con cui Margarita Moyano, la più giovane delle uditrici al Concilio, suggellava quell’esperienza straordinaria prendono oggi, a più di cinquant’anni di distanza, il sapore di una profezia: «A Roma le donne vanno sempre alla fine. È importante, però, che alla fine vadano». Anche per restare solo al nostro paese, infatti, dal 1965 a oggi la presenza delle donne nelle Facoltà Teologiche italiane e perfino nelle Pontificie Facoltà romane è stata un fenomeno crescente e, soprattutto, significativo. Nonostante resistenze e ritardi, una corrente sotterranea contribuisce a precisare i lineamenti della Chiesa uscita dal Vaticano II.
In un tempo come il nostro, in cui si fa un gran parlare di riforme, qualcuno sostiene che la Chiesa cattolica non può riformarsi altro che grazie a eventi del tutto straordinari come quello che ha visto come protagonista Lutero e, in questa ottica, anche il Vaticano II non sarebbe che un episodio del tutto insignificante.
A cinquecento anni dall’inizio della guerra dei trent’anni, forse sarebbe il caso riflettere un po’ a fondo sull’importanza che le riforme ecclesiali non cadano preda di prìncipi e imperatori e la Chiesa semper reformanda sia l’unica protagonista del proprio cammino di riforme. Mai, però, al di fuori del mondo e della sua storia.
La Chiesa ha saputo riformare se stessa tutte le volte che è stata in grado di intercettare le grandi mutazioni storiche e di interpretarle alla luce della fede nella rivelazione di Dio. Il femminismo ha fatto da vettore a una di queste grandi mutazioni perché è una vera e propria rivoluzione, strutturale, profonda, che cambia il panorama dell’umano. Una rivoluzione che avanza ormai da più di un secolo senza portare con sé né guerre né fame né lutti.
Fa sorridere che le femministe siano state accusate di violenza solo perché, per cambiare uno status quo oppressivo, hanno levato le loro voci e non hanno mai sparato né con fucili né con cannoni! Saprà la Chiesa, che Paolo VI definì “maestra in umanità”, accettare la rivoluzione femminista che la invita a prendere piena consapevolezza della verità dell’umano?
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO» DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
"ANTIQUUM MINISTERIUM" CON LA QUALE SI ISTITUISCE IL MINISTERO DI CATECHISTA *
1. Il ministero di Catechista nella Chiesa è molto antico. È pensiero comune tra i teologi che i primi esempi si ritrovino già negli scritti del Nuovo Testamento. Il servizio dell’insegnamento trova la sua prima forma germinale nei “maestri” a cui l’Apostolo fa menzione scrivendo alla comunità di Corinto: «Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? Desiderate invece intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime» (1 Cor 12,28-31).
Lo stesso Luca apre il suo Vangelo attestando: «Ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto» (Lc 1,3-4). L’evangelista sembra essere ben consapevole che con i suoi scritti sta fornendo una forma specifica di insegnamento che permette di dare solidità e forza a quanti hanno già ricevuto il Battesimo. L’apostolo Paolo ritorna di nuovo sull’argomento quando raccomanda ai Galati: «Chi viene istruito nella Parola, condivida tutti i suoi beni con chi lo istruisce» (Gal 6,6). Come si nota, il testo aggiunge una peculiarità fondamentale: la comunione di vita come caratteristica della fecondità della vera catechesi ricevuta.
2. Fin dai suoi inizi la comunità cristiana ha sperimentato una diffusa forma di ministerialità che si è resa concreta nel servizio di uomini e donne i quali, obbedienti all’azione dello Spirito Santo, hanno dedicato la loro vita per l’edificazione della Chiesa. I carismi che lo Spirito non ha mai cessato di effondere sui battezzati, trovarono in alcuni momenti una forma visibile e tangibile di servizio diretto alla comunità cristiana nelle sue molteplici espressioni, tanto da essere riconosciuto come una diaconia indispensabile per la comunità. L’apostolo Paolo se ne fa interprete autorevole quando attesta: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole» (1 Cor 12,4-11).
All’interno della grande tradizione carismatica del Nuovo Testamento, dunque, è possibile riconoscere la fattiva presenza di battezzati che hanno esercitato il ministero di trasmettere in forma più organica, permanente e legato alle diverse circostanze della vita, l’insegnamento degli apostoli e degli evangelisti (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 8). La Chiesa ha voluto riconoscere questo servizio come espressione concreta del carisma personale che ha favorito non poco l’esercizio della sua missione evangelizzatrice. Lo sguardo alla vita delle prime comunità cristiane che si sono impegnate nella diffusione e sviluppo del Vangelo, sollecita anche oggi la Chiesa a comprendere quali possano essere le nuove espressioni con cui continuare a rimanere fedeli alla Parola del Signore per far giungere il suo Vangelo a ogni creatura.
3. L’intera storia dell’evangelizzazione di questi due millenni mostra con grande evidenza quanto sia stata efficace la missione dei catechisti. Vescovi, sacerdoti e diaconi, insieme a tanti uomini e donne di vita consacrata, hanno dedicato la loro vita all’istruzione catechistica perché la fede fosse un valido sostegno per l’esistenza personale di ogni essere umano. Alcuni inoltre hanno raccolto intorno a sé altri fratelli e sorelle che nella condivisione dello stesso carisma hanno costituito degli Ordini religiosi a totale servizio della catechesi.
Non si può dimenticare, l’innumerevole moltitudine di laici e laiche che hanno preso parte direttamente alla diffusione del Vangelo attraverso l’insegnamento catechistico. Uomini e donne animati da una grande fede e autentici testimoni di santità che, in alcuni casi, sono stati anche fondatori di Chiese, giungendo perfino a donare la loro vita. Anche ai nostri giorni, tanti catechisti capaci e tenaci sono a capo di comunità in diverse regioni e svolgono una missione insostituibile nella trasmissione e nell’approfondimento della fede. La lunga schiera di beati, santi e martiri catechisti ha segnato la missione della Chiesa che merita di essere conosciuta perché costituisce una feconda sorgente non solo per la catechesi, ma per l’intera storia della spiritualità cristiana.
4. A partire dal Concilio Ecumenico Vaticano II, la Chiesa ha sentito con rinnovata coscienza l’importanza dell’impegno del laicato nell’opera di evangelizzazione. I Padri conciliari hanno ribadito più volte quanto sia necessario per la “plantatio Ecclesiae” e lo sviluppo della comunità cristiana il coinvolgimento diretto dei fedeli laici nelle varie forme in cui può esprimersi il loro carisma. «Degna di lode è anche quella schiera, tanto benemerita dell’opera missionaria tra i pagani, che è costituita dai catechisti, sia uomini che donne. Essi, animati da spirito apostolico e facendo grandi sacrifici, danno un contributo singolare ed insostituibile alla propagazione della fede e della Chiesa...Nel nostro tempo poi, in cui il clero è insufficiente per l’evangelizzazione di tante moltitudini e per l’esercizio del ministero pastorale, il compito del Catechista è della massima importanza» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 17).
Insieme al ricco insegnamento conciliare è necessario far riferimento al costante interesse dei Sommi Pontefici, del Sinodo dei Vescovi, delle Conferenze Episcopali e dei singoli Pastori che nel corso di questi decenni hanno impresso un notevole rinnovamento alla catechesi. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, l’Esortazione apostolica Catechesi tradendae, il Direttorio catechistico generale, il Direttorio generale per la catechesi, il recente Direttorio per la catechesi, unitamente a tanti Catechismi nazionali, regionali e diocesani sono un’espressione del valore centrale dell’opera catechistica che mette in primo piano l’istruzione e la formazione permanente dei credenti.
5. Senza nulla togliere alla missione propria del Vescovo di essere il primo Catechista nella sua Diocesi insieme al presbiterio che con lui condivide la stessa cura pastorale, e alla responsabilità peculiare dei genitori riguardo la formazione cristiana dei loro figli (cfr CIC can. 774 §2; CCEO can. 618), è necessario riconoscere la presenza di laici e laiche che in forza del proprio battesimo si sentono chiamati a collaborare nel servizio della catechesi (cfr CIC can. 225; CCEO cann. 401 e 406). Questa presenza si rende ancora più urgente ai nostri giorni per la rinnovata consapevolezza dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo (cfr Esort. Ap. Evangelii gaudium, 163-168), e per l’imporsi di una cultura globalizzata (cfr Lett. enc. Fratelli tutti, 100.138), che richiede un incontro autentico con le giovani generazioni, senza dimenticare l’esigenza di metodologie e strumenti creativi che rendano l’annuncio del Vangelo coerente con la trasformazione missionaria che la Chiesa ha intrapreso. Fedeltà al passato e responsabilità per il presente sono le condizioni indispensabili perché la Chiesa possa svolgere la sua missione nel mondo.
Risvegliare l’entusiasmo personale di ogni battezzato e ravvivare la consapevolezza di essere chiamato a svolgere la propria missione nella comunità, richiede l’ascolto alla voce dello Spirito che non fa mai mancare la sua presenza feconda (cfr CIC can. 774 §1; CCEO can. 617). Lo Spirito chiama anche oggi uomini e donne perché si mettano in cammino per andare incontro ai tanti che attendono di conoscere la bellezza, la bontà e la verità della fede cristiana. È compito dei Pastori sostenere questo percorso e arricchire la vita della comunità cristiana con il riconoscimento di ministeri laicali capaci di contribuire alla trasformazione della società attraverso la «penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico ed economico» (Evangelii gaudium, 102).
6. L’apostolato laicale possiede una indiscussa valenza secolare. Essa chiede di «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e orientandole secondo Dio» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen Gentium, 31). La loro vita quotidiana è intessuta di rapporti e relazioni familiari e sociali che permette di verificare quanto «sono soprattutto chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro mezzo» (Lumen Gentium, 33). È bene ricordare, comunque, che oltre a questo apostolato «i laici possono anche essere chiamati in diversi modi a collaborare più immediatamente con l’apostolato della Gerarchia a somiglianza di quegli uomini e donne che aiutavano l’apostolo Paolo nell’evangelizzazione, faticando molto per il Signore» (Lumen Gentium, 33).
La funzione peculiare svolta dal Catechista, comunque, si specifica all’interno di altri servizi presenti nella comunità cristiana. Il Catechista, infatti, è chiamato in primo luogo a esprimere la sua competenza nel servizio pastorale della trasmissione della fede che si sviluppa nelle sue diverse tappe: dal primo annuncio che introduce al kerygma, all’istruzione che rende consapevoli della vita nuova in Cristo e prepara in particolare ai sacramenti dell’iniziazione cristiana, fino alla formazione permanente che consente ad ogni battezzato di essere sempre pronto «a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza» (1 Pt 3,15). Il Catechista è nello stesso tempo testimone della fede, maestro e mistagogo, accompagnatore e pedagogo che istruisce a nome della Chiesa. Un’identità che solo mediante la preghiera, lo studio e la partecipazione diretta alla vita della comunità può svilupparsi con coerenza e responsabilità (cfr Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, Direttorio per la Catechesi, 113).
7. Con lungimiranza, San Paolo VI emanò la Lettera apostolica Ministeria quaedam con l’intento non solo di adattare al cambiato momento storico il ministero del Lettore e dell’Accolito (cfr Lett. ap. Spiritus Domini), ma anche di sollecitare le Conferenze Episcopali perché si facessero promotrici per altri ministeri tra cui quello di Catechista: “Oltre questi uffici comuni della Chiesa Latina, nulla impedisce che le Conferenze Episcopali ne chiedano altri alla Sede Apostolica, se ne giudicheranno, per particolari motivi, la istituzione necessaria o molto utile nella propria regione. Di questo genere sono, ad esempio, gli uffici di Ostiario, di Esorcista e di Catechista”. Lo stesso invito pressante ritornò nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi quando, chiedendo di saper leggere le esigenze attuali della comunità cristiana in fedele continuità con le origini, esortava a trovare nuove forme ministeriali per una rinnovata pastorale: «Tali ministeri, nuovi in apparenza ma molto legati ad esperienze vissute dalla Chiesa nel corso della sua esistenza, - per esempio quelli di Catechista... sono preziosi per la «plantatio», la vita e la crescita della Chiesa e per una capacità di irradiazione intorno a se stessa e verso coloro che sono lontani» (San Paolo VI, Esort. Ap. Evangelii nuntiandi, 73).
Non si può negare, dunque, che «è cresciuta la coscienza dell’identità e della missione del laico nella Chiesa. Disponiamo di un numeroso laicato, benché non sufficiente, con un radicato senso comunitario e una grande fedeltà all’impegno della carità, della catechesi, della celebrazione della fede» (Evangelii gaudium, 102). Ne consegue che ricevere un ministero laicale come quello di Catechista imprime un’accentuazione maggiore all’impegno missionario tipico di ciascun battezzato che si deve svolgere comunque in forma pienamente secolare senza cadere in alcuna espressione di clericalizzazione.
8. Questo ministero possiede una forte valenza vocazionale che richiede il dovuto discernimento da parte del Vescovo e si evidenzia con il Rito di istituzione. Esso, infatti, è un servizio stabile reso alla Chiesa locale secondo le esigenze pastorali individuate dall’Ordinario del luogo, ma svolto in maniera laicale come richiesto dalla natura stessa del ministero. È bene che al ministero istituito di Catechista siano chiamati uomini e donne di profonda fede e maturità umana, che abbiano un’attiva partecipazione alla vita della comunità cristiana, che siano capaci di accoglienza, generosità e vita di comunione fraterna, che ricevano la dovuta formazione biblica, teologica, pastorale e pedagogica per essere comunicatori attenti della verità della fede, e che abbiano già maturato una previa esperienza di catechesi (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Christus Dominus, 14; CIC can. 231 §1; CCEO can. 409 §1). È richiesto che siano fedeli collaboratori dei presbiteri e dei diaconi, disponibili a esercitare il ministero dove fosse necessario, e animati da vero entusiasmo apostolico.
Pertanto, dopo aver ponderato ogni aspetto, in forza dell’autorità apostolica
il ministero laicale di Catechista
La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti provvederà entro breve tempo a pubblicare il Rito di Istituzione del ministero laicale di Catechista.
9. Invito, dunque, le Conferenze Episcopali a rendere fattivo il ministero di Catechista, stabilendo l’iter formativo necessario e i criteri normativi per potervi accedere, trovando le forme più coerenti per il servizio che costoro saranno chiamati a svolgere conformemente a quanto espresso da questa Lettera apostolica.
10. I Sinodi delle Chiese Orientali o le Assemblee dei Gerarchi potranno recepire quanto qui stabilito per le rispettive Chiese sui juris, in base al proprio diritto particolare.
11. I Pastori non cessino di fare propria l’esortazione dei Padri conciliari quando ricordavano: «Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune» (Lumen Gentium, 30). Il discernimento dei doni che lo Spirito Santo non fa mai mancare alla sua Chiesa sia per loro il sostegno dovuto per rendere fattivo il ministero di Catechista per la crescita della propria comunità.
Quanto stabilito con questa Lettera apostolica in forma di “Motu proprio”, ordino che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di speciale menzione, e che sia promulgato tramite pubblicazione su L’Osservatore Romano, entrando in vigore nello stesso giorno, e quindi pubblicato nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il giorno 10 maggio dell’anno 2021, Memoria liturgica di San Giovanni d’Avila, presbitero e dottore della Chiesa, nono del mio pontificato.
Francesco
Nuove Litanie.
San Giuseppe ora diventa anche patrono di esuli, afflitti e poveri
Le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909, sono state integrate con sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi sulla figura del patrono della Chiesa universale
di Redazione Catholica (Avvenire, lunedì 3 maggio 2021)
Nel 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale, papa Francesco ha reso nota la lettera apostolica Patris corde, con l’intento di «accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio»; e ha indetto un Anno speciale dedicato al padre putativo di Gesù, iniziato lo scorso 8 dicembre.
Alla luce di tutto ciò la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti ha inviato una lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali informandoli che «è parso opportuno aggiornare le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909 dalla Sede Apostolica» e «integrandovi sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi che hanno riflettuto su aspetti della figura del Patrono della Chiesa universale».
Sono queste: «Custode del Redentore» (san Giovanni Paolo II, Redemptoris custos); «Servo di Cristo» (san Paolo VI, omelia del 19.3.1966, citata in Redemptoris custos n. 8 e Patris corde n. 1); «Ministro della salvezza» (san Giovanni Crisostomo, citato in Redemptoris custos, n. 8); «Sostegno nelle difficoltà» (Francesco, Patris corde, prologo); «Patrono degli esuli, degli afflitti, dei poveri» (Patris corde, n. 5).
«Sarà compito delle Conferenze dei vescovi disporre la traduzione delle Litanie nelle lingue di loro competenza e pubblicarle» si legge sempre nella lettera firmata dal segretario del dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche, e dal sottosegretario, padre Corrado Maggioni. «Tali traduzioni non avranno bisogno di conferma della Sede Apostolica. Secondo il loro prudente giudizio, le Conferenze dei vescovi potranno anche introdurre, al luogo opportuno e conservando il genere letterario, altre invocazioni con le quali san Giuseppe è particolarmente onorato nei loro Paesi».
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE.
Un commento a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO... Ricordando quanto sia determinante e fondamentale, oggi, ripensare sul piano antropologico (andrologico e ginecologico) e teologico la figura della “sacra famiglia” e di san Giuseppe (si cfr. i commenti a "Ggimentu, gimmientu e ggimintare" di A. Polito, Fondazione Terra d’Otranto, 06.07.2018), e “come nascono i bambini”, non posso non PLAUDIRE alla realizzazione del “convegno e del libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”, con tutti i suoi molteplici contributi!!!
SUL TEMA DELLA «GIUSEPPOLOGIA», MI SIA LECITO, si cfr.: GESU’ “CRISTO”, GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE (“CHARITAS”) DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO / I SIMBOLI
Conservato il motto,
l’anello sarà d’argento *
La celebrazione di domani partirà dalla tomba di San Pietro, dove ci saranno preparati l’anello del pescatore e il pallio, i due segni del ministero petrino, che verranno consegnati al Papa. Il pallio è consegnato dal cardinale protodiacono Jean-Louis Tauran. Il cardinale primo dell’ordine dei presbiteri, Godfried Daneels, farà una preghiera e il cardinale decano, il primo dell’ordine dei vescovi, Angelo Sodano, gli consegnerà l’anello del pescatore. Lo ha riferito Padre Federico Lombardi.
L’anello del pescatore scelto da Papa Bergoglio che gli verrà consegnato domani è in argento dorato. Padre Lombardi ha spiegato che il modello dell’anello era stato dato dall’artista Enrico Manfrini al segretario di Paolo VI, mons. Macchi. In questi giorni è stato proposto al papa dal maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, insieme con altri due modelli. Il Papa ha scelto, fra i tre propostigli, quello dell’artista scomparso a 87 anni nel 2004 a Milano, conosciuta anche come "lo scultore dei papi". Nell’anello c’è l’immagine di San Pietro con le chiavi.
Papa Francesco ha inoltre deciso di conservare il suo stemma episcopale e il motto ’miserando atque eligendo", tratto dalla vocazione di San Matteo ("Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi".)
Il pallio che domani verrà consegnato e Papa Francesco "è lo stesso di Benedetto XVI". Lo ha detto il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, nel briefing con i giornalisti. Il pallio è la fascia di lana bianca con le croci rosse che simboleggia il Buon Pastore e, insieme all’anello del pescatore, è uno dei due simboli del ministero petrino.
* Avvenire, 18 marzo 2013
Chiesa
LA SCELTA DI BENEDETTO
Ratzinger sarà
"Papa emerito"
Benedetto XVI, dopo il termine del Pontificato, avrà il titolo di "Papa emerito" o "Romano Pontefice emerito". Continuerà a portare l’abito bianco, ma sarà una veste talare semplice, senza mantellina. Non indosserà più l’anello del pescatore. E il sigillo che utilizzava sarà distrutto. Lo ha riferito padre Federico Lombardi, nel corso di un briefing con i giornalisti, spiegando che ci si potrà ancora rivolgersi a Ratzinger chiamandolo "Sua Santità". Il direttore della sala stampa vaticana ha aggiunto che all’udienza pubblica di domani, l’ultima di Papa Benedetto XVI, sono attese "dalle cinquantamila persone in su".
Intanto la giornata di oggi, ha proseguito padre Lombardi, è per il Pontefice "senza udienze e senza discorsi. La giornata è dedicata alla preghiera, alla preparazione degli impegni di domani e dopodomani, ma anche allo spostamento perchè sono gli ultimi giorni che il Papa sta qui nell’appartamento in Vaticano". Il suo ultimo "atto pubblico" sarà il saluto ai fedeli della diocesi di Albano dalla loggia del Palazzo di Castel Gandolfo, alle 17.30 di giovedì 28 febbraio.
* Avvenire, 26 febbraio 2013
Questa catechesi del congedo
Siamo per servire
di Gennaro Matino (Avvenire, 27.02.2013)
Poche ore ancora e il Pontificato di Benedetto XVI chiuderà il suo corso. L’anello del pescatore verrà frantumato e la memoria dell’evento lascerà carico di commozione il cuore di chi ha amato Joseph Ratzinger, e non solo. Provocherà riflessioni di senso anche in chi ha imparato a conoscerlo nei suoi ultimi giorni di pastore della Chiesa universale, in chi, benché lontano dalle sue parole per diversa sensibilità, non ha potuto che apprezzare il coraggio profetico di un vecchio Papa che ha trasformato il tempo di una rinuncia, dolorosa e sofferta, in un potente grido di futuro, carico di responsabilità e impegno per tutta la Chiesa. Grido potente di speranza, impastato di verità evangelica.
Dall’11 febbraio, dopo la prima scossa emozionale, quasi una perdita di orientamento, giorno dopo giorno sembra emergere nella Chiesa sempre più chiara la consapevolezza di una precisa e strutturata volontà di Benedetto di accompagnare la sua uscita, di voler raccontare senza enfasi il suo percorso e consegnarsi al giudizio di Dio e degli uomini nella verità che rende liberi. La consegna di un Papa che, non senza motivazioni, cerca - nei segni e nelle parole - di congedarsi senza clamore, benché il suo gesto resti naturalmente senza enfasi, come lo stile di tutto il pontificato.
Le ultime omelie e le espressioni a braccio possono ben definirsi una ’catechesi del congedo’, e forse nel tempo qualcuno potrebbe ritrovare tra le righe l’ultima enciclica che per impeto e affetto potremmo intitolare: Sumus ad servandum, rievocando le parole pronunciate domenica da Benedetto nell’ultimo Angelus a piazza San Pietro. Carezze di profondo significato le sue parole vestite di sobrietà, capaci di trapassare il luogo dell’apparenza e comunicare una forza inaudita nonostante il Papa stesso confessi la sua mancanza di vigore. Una nuova luce circonda la sua persona, mai come in questi giorni luminosa, che trasmette serenità e pace. Gesti e parola di consegna passati con la certezza che faranno il loro corso nella nostra storia individuale, affidati alla riflessione della Chiesa che non potrà che farne tesoro per ripartire da dove Benedetto si congeda.
Un testamento, le sue ultime parole, che tracciano un confine tra il prima e dopo e indicano un percorso: la preghiera, la vocazione, la gratitudine, l’abbandono a Cristo che guida la sua barca. Non è possibile organizzare il tempo della comunità cristiana senza un recupero della sua ascesi credente, la preghiera come spazio di fede e come offerta di nuova sostanza di appartenenza. La vocazione è memoria di un incontro, rimando al primo ’sì’ dato al Maestro di Galilea, che ogni credente deve tenere sempre presente, che deve tener presente la Chiesa per dare risposta alla sua stessa vita. Come non vivere la fede e la storia con gratitudine, originando uno stile rivoluzionario di vita che nella Chiesa offra al mondo la sua testimonianza di impegno alla gioia. Il tempo ci dirà quanto di ciò che ci sta consegnando in questi giorni Benedetto resterà, in un’epoca capace di emozionarsi velocemente e velocemente dimenticare.
La storia futura di sicuro non dimenticherà Benedetto, non dimenticherà che un uomo, il successore di Pietro, ha avuto il coraggio della profezia, mentre parole di fumo avanzano nel consesso degli uomini. Domani sera il Santo Padre lascerà il pontificato, e si comincerà a parlare del dopo Ratzinger. Nel frattempo, c’è ancora spazio per raccogliere la sua testimonianza e fare tesoro di tanta ricchezza. Nel frattempo, il successore di Pietro, Vicario di Cristo, è Benedetto XVI, e chi ascolta lui ascolta il Maestro di Galilea: dopo ci attrezzeremo al dopo, ora è tempo di godere - e soffrire - il presente che ci è concesso.
Gennaro Matino
Il Papa, l’oro e l’imputato
di Domenico Valter Rizzo (Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2012)
Benedetto XVI va in visita pastorale ad Arezzo e nella piccola città toscana scoppia una violenta polemica sulle spese necessarie alla visita del Pontefice.
Sono stati spesi ufficialmente oltre 500 mila euro divisi tra i vari enti locali, a cominciare dalla Regione Toscana, fino al Comune che ha sborsato quasi 90 mila euro, mentre ovunque si tagliano, per via della crisi, i sussidi alle famiglie affidatarie e a quelle con bambini portatori handicap.
Sulle faccende economiche della visita del Papa è già intervenuta la senatrice radicale Donatella Porretti, che ha presentato un’interpellanza urgente al ministro dell’Economia e a quello degli Esteri, chiedendo anche dei costi aggiuntivi a carico dello Stato e dei contributi economici versati sempre dallo Stato alla Diocesi (che ha anche realizzato una costosissima, quanto discutibile ristrutturazione dell’altare della Cattedrale).
L’interpellanza radicale ha suscitato la stizzita reazione del sindaco Pd, Giuseppe Fanfani. Il nipote di Amintore non ha trovato migliore replica, se non sottolineare che la senatrice costa all’erario quasi 17 mila euro al mese, dimenticando però che sino a qualche anno fa anche lui era parlamentare ed incassava, senza preoccuparsi più di tanto, i medesimi emolumenti che oggi tanto lo scandalizzano. Sta di fatto che al di là dello spiegamento di forze e di denari la visita ad Arezzo si è rivelata un vero e proprio flop sul piano mediatico e della partecipazione popolare.
Ma non è di questo che voglio occuparmi, bensì di una vicenda che può apparire minore.
Il Pontefice, arrivando ad Arezzo, ha ricevuto in dono una spilla in oro massiccio dal peso di quattrocentocinquanta grammi con un grosso rubino incastonato al centro. Valore del cadeau, senza contare la pietra, 12 mila euro. A finanziare il dono, tramite la UnoAerre, è stato Sergio Squarcialupi, il titolare della Chimet, un’industria che si occupa di recuperare metalli preziosi dai rifiuti, usando anche procedimenti di incenerimento. Squarcialupi recentemente è stato anche protagonista del salvataggio della UnoAerre, la storica ditta orafa aretina, finita ad un passo dalla bancarotta. L’uomo però è noto non solo alle cronache economiche, ma anche a quelle giudiziarie. E’ stato rinviato a giudizio ed è sotto processo con l’accusa di disastro ambientale. Insieme a lui nel processo sono finiti a vario titolo funzionari della Provincia, dell’Arpat e anche l’ex sindaco di Civitella Val di Chiana, Massimiliano Dindalini, un uomo alquanto distratto, al punto da dimenticarsi di avvisare i cittadini e le autorità di un massiccio sversamento di diossina dalle ciminiere della Chimet. Tra i legali degli imputati anche il sindaco di Arezzo, Giuseppe Fanfani. Lo stesso sindaco che, giorni fa, ha candidato Squarcialupi al prossimo premio Civitas Arretium, indicandolo come un benemerito cittadino, che ha salvato numerosi posti di lavoro e che oggi offre un munifico dono al Papa.
E’ lecito domandarsi come mai nessuno in Vaticano abbia provato un minimo di imbarazzo davanti a quel dono, così smaccatamente mondano, che assomiglia al pagamento di una medioevale indulgenza. E ancora viene spontaneo chiedersi, se il Papa sia mai stato informato della posizione di imputato del donatore; e se ciò fosse avvenuto, come mai non abbia provato un minimo di imbarazzo nell’accettare, dalle mani di un personaggio che deve fare i conti con accuse gravi, un dono che vale quasi la cifra che un pensionato riceve in due anni?
Ed è anche giusto chiedersi se qualcuno, nelle stanze vaticane, abbia provato disagio nel sapere quanto costa ai contribuenti di un Paese stremato, questa visita “pastorale”.
E’ infine sacrosanto chiedere quale messaggio si manda ai cittadini sempre più in difficoltà: ai giovani senza lavoro, ai precari, ai pensionati che devono campare con 500 euro al mese e pagare pure l’Imu sulla casa, se hanno la fortuna di possederne una, a coloro ai quali Equitalia sta sequestrando dai conti correnti stipendi e pensioni, ai parenti dei lavoratori e degli imprenditori morti suicidi?
Quale messaggio?... Quale etica è contenuta in quell’oro, in quel rubino e nei fatti che ho riassunto velocemente? La domande vanno poste ai protagonisti locali, ma anche e soprattutto al presidente Mario Monti che ha ricevuto il Papa ad Arezzo a nome del Governo italiano e vanno poste, col dovuto rispetto per il suo Ministero, anche al successore di un povero pescatore che seguì in povertà l’insegnamento del suo Maestro, fino alla croce sul colle Vaticano.
Il patrono della Chiesa come modello per affrontare le turbolenze del mondo
Attualità di san Giuseppe
di TARCISIO STRAMARE *
"È certo che la figura di Giuseppe acquista una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo Millennio cristiano". Così afferma Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica Redemptoris custos, dove richiama la Christifideles laici nel contesto storico del decreto Quemadmodum Deus (1870) con il quale Pio IX "metteva se stesso e tutti i fedeli sotto il potentissimo patrocinio del santo Patriarca Giuseppe". Giovanni Paolo II riteneva che la situazione della Chiesa e della società non fosse meno grave al presente che "in quei tristissimi tempi": "Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione del mondo e di rievangelizzazione in quei paesi e Nazioni dove la religione e la vita cristiana (...) sono messi a dura prova" (n. 29). Il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, istituito da Benedetto XVI il 21 settembre 2010, a vent’anni dalla Redemptoris custos, con il motu proprio Ubicumque et semper, si pone nella linea della continuità.
I mezzi di comunicazione sociale ci informano quotidianamente sulle gravi turbolenze che scuotono l’umanità e sulle sofferenze della Chiesa, che ne compromettono lo sviluppo, dimostrando che ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare san Giuseppe. La rinnovata attualità del santo si estende dall’intervento di difesa verso l’esterno all’opera interna di rinvigorimento.
Tutta la Redemptoris custos è focalizzata sull’economia della salvezza, della quale san Giuseppe è stato, insieme con Maria, singolare "ministro". Così lo ha presentato la predicazione apostolica, testimoniata nei vangeli là dove essi descrivono "gli inizi della redenzione", ossia "i misteri della vita nascosta di Gesù", gli stessi misteri che la Chiesa rivive nel ciclo annuale della sua celebrazione liturgica. Di essi Giuseppe è stato ministro fedele "mediante l’esercizio della sua paternità" (n. 8).
Che di san Giuseppe si intenda evidenziare soprattutto il ministero, appare già nel titolo dell’esortazione apostolica. Custos, infatti, non vuole metterne in ombra la paternità, della quale anzi il documento difende espressamente l’autenticità, quanto piuttosto sottolinearne la funzione, che è quella del servizio, come d’altronde deve essere per ogni paternità. Già questo è un chiaro ammonimento per quei genitori che oggi si arrogano il diritto di spadroneggiare sulla vita dei figli come se fossero un loro prodotto. La vita dell’uomo è nelle mani di Dio, al quale il titolo di Padre appartiene in assoluto (cfr. Matteo, 23, 9). Di questa paternità divina san Giuseppe è stato colui che ha esperimentato in modo singolare la ministerialità: escluso dalla generazione a motivo dell’origine divina del Figlio, egli ha assunto, tuttavia, gli impegni più onerosi della paternità, ossia l’accoglienza e l’educazione della prole, elementi che rientrano, insieme alla generazione, nella natura della paternità umana, come insegna san Tommaso. Già Origene scriveva: "Benché niente nella sua generazione, Giuseppe gli ha dedicato il servizio e l’amore. È per questo suo fedele servizio, che la Scrittura gli ha concesso il nome di "padre"".
Giovanni Paolo II considera la paternità di san Giuseppe appunto come un servizio, del quale la debolezza dell’umanità di Gesù aveva bisogno soprattutto nel periodo della sua vita nascosta - "custode del Redentore" e "ministro della salvezza". Ebbene, questo profilo del santo è lo stesso che deve qualificare e definire la Chiesa. Di fronte all’odierna diffusa crisi di "identità", che non ha risparmiato neppure lei, è proprio "il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo che consentirà alla Chiesa di ritrovare continuamente la propria identità" (n. 1).
Se già la qualifica di custode è significativa per designare la funzione della paternità umana, tanto più lo è se questa ha come termine non un semplice uomo ma il redentore. La figura e il ruolo di san Giuseppe, infatti, avrebbero potuto essere esaltati con il titolo di "Padre del Verbo" o "Padre di Dio", espressioni già presenti nella liturgia, ovvero con l’espressione più familiare e largamente diffusa dell’inno latino Salve, pater Salvatoris; salve, custos Redemptoris. Perché allora non scegliere proprio nell’abbinamento di questi due titoli quello di Pater Salvatoris, che sarebbe stato più elogiativo? Evidentemente perché "custode" si adattava meglio al tenore del documento pontificio, che intende presentare san Giuseppe come "ministro della salvezza".
La domanda, allora, è un’altra: perché Giovanni Paolo II ha voluto presentare san Giuseppe come "ministro della salvezza", pur esaltandone e valorizzandone la paternità? La risposta va cercata nella scelta fondamentale del suo magistero, che è il tema della redenzione. Poiché la redenzione dell’umanità è la dimostrazione dell’amore di Dio per la "sua immagine" (Genesi, 1, 27), assunta dallo stesso suo Figlio nell’incarnazione, tutti devono parteciparvi. Il Papa rivolge la sua esortazione alla Chiesa tutta, ricordandole quale sia la sua identità e proponendole un modello concreto, san Giuseppe, appunto.
L’affermazione di Giovanni Paolo II, secondo cui deve "crescere in tutti la devozione al Patrono della Chiesa universale", è finalizzata all’accrescimento dell’"amore al Redentore, che egli esemplarmente servì". Proprio questo "servì" è il profilo della figura di san Giuseppe, sempre presentato nei vangeli come attento e fedele esecutore degli ordini di Dio trasmessigli da un angelo nel sonno. San Tommaso traccia questo profilo con due parole: "ministro e custode". Si comprende allora perché all’invocazione del patrocinio, la Chiesa debba associare coerentemente la necessità di imitare il suo patrono, "un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele".
* L’Osservatore Romano 19 marzo 2011
GIOVANNI XIII
PREGO PER GLI EBREI
di Orazio La Rocca *
CITTA DEL VATICANO - «Perdonaci, Signore, per non aver capito la bellezza del Tuo popolo eletto... perdonaci, perché nel corso dei secoli non sapevamo quello che stavamo facendo contro gli ebrei...». è un Papa anziano, molto malato, costretto a letto perché colpito da un male incurabile, che scrive queste parole pochi giorni prima di morire. è Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, il papa Buono per antonomasia, il padre del Concilio Vaticano II e del successivo rinnovamento ecclesiale, che Giovanni Paolo II beatificherà nel 2000 sotto i riflettori di tutto il mondo, facendone una delle più importanti icone del grande Giubileo del 2000.
Quasi nessuno, però, finora ha mai saputo che il futuro beato Giovanni XXIII nel chiuso della sua stanza nel Palazzo apostolico, in Vaticano, verso la fine del mese di maggio 1963 - morirà dopo una lunga agonia la sera del successivo 3 giugno all’ età di 82 anni - dedica le sue ultime energie al popolo ebraico sotto forma di preghiera composta quasi di getto su un foglio bianco, davanti al Crocifisso al cospetto del quale ogni notte si era sempre raccolto in preghiera prima di dormire. è una chiara e appassionata richiesta di perdono per le "colpe" commesse dai cristiani nel corso dei secoli con i loro atteggiamenti antisemiti, che papa Roncalli intitola, significativamente, "Preghiera per gli ebrei". Un gesto fatto quasi di istinto, sincero, scritto con grande passione e dettato da un forte desiderio di "pulizia interiore" per le colpe antiebraiche dei cristiani, che anticipa di molti anni le due storiche tappe di avvicinamento al popolo ebraico compiute da Giovanni Paolo II, la visita alla Sinagoga di Roma del 1986 e la richiesta di perdono per le colpe e le omissioni dei cristiani verso gli ebrei nell’ ambito dei mea culpa del Giubileo del 2000. E che spiega, in qualche modo, anche la nascita del testo conciliare Nostra Aetate, approvato nel 1965, con cui la Chiesa cattolica si aprì al dialogo interreligioso e cancellò l’ anacronistica accusa di deicidio con cui per circa duemila anni erano stati apostrofati tutti gli ebrei.
La Preghiera agli ebrei è un documento finora sostanzialmente inedito in Italia. Era stato pubblicato solo in parte nel 1965, due anni dopo la scomparsa di Giovanni XXIII, su un giornale olandese e brevemente accennato nello stesso anno su un periodico italiano, sembra per iniziativa di un giovane monsignore statunitense che aveva preso parte al Concilio come esperto ed era molto amico dell’ allora pontefice. Lo stesso prelato che ne aveva parlato successivamente nel corso di un incontro interconfessionale, negli Stati Uniti d’ America. Da allora, però, se ne erano perse le tracce.
Il testo giovanneo - una quindicina di righe appena - dopo circa 45 anni di sostanziale e inspiegabile oblio domani pomeriggio (alle 16,30) sarà letto integralmente in pubblico per la prima volta al monastero di Santa Cecilia, in Trastevere, a Roma, nell’ ambito del recital Roncalli legge Roncalli interpretato da un discendente di Giovanni XXIII, l’ attore Guido Roncalli che - accompagnato dal violoncellista Michele Chiapperino - presenterà una serie di documenti editi e inediti di papa Roncalli, relativi sia al suo pontificato che agli anni passati nelle nunziature apostoliche in Turchia e in Francia. Il recital è stato presentato con successo una decina di giorni fa in Vaticano alla presenza del cardinale-governatore Giovanni Lajolo. Ma senza la lettura della preghiera ebraica che domani costituirà, inevitabilmente, il momento clou dell’ incontro, che - preannuncia Guido Roncalli - «avrà un carattere e una impostazione ancora più ecumenica». Nella lettera la parola "perdono" viene evocata più volte.
Nel dirsi certo che Cristo è morto e risorto non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini, anche per gli ebrei, Giovanni XXIII chiede al Signore «di perdonarci perché per molti e molti secoli i nostri occhi erano così ciechi che non erano più capaci di vedere ancora la bellezza del Tuo popolo eletto, né di riconoscere nel volto (di tutti gli ebrei - ndr) i tratti dei nostri fratelli privilegiati...». Una espressione, quest’ ultima, che rievoca in maniera impressionante un’ altra famosa frase, quella con cui Giovanni Paolo II nel 1986 nella Sinagoga di Roma salutò gli ebrei chiamandoli «nostri fratelli maggiori».
«Perdonaci, Signore», si legge ancora nella preghiera di papa Roncalli: perdonaci per le tante "ingiustizie" subite dagli ebrei nel corso dei secoli passati e per le "colpe" commesse dai cristiani nei loro confronti. Colpe, mancanze e ingiustizie che il papa Buono accomuna, con "rammarico", al primo delitto raccontato nel primo libro della Bibbia, la Genesi, dove si parla dell’ assassinio di Abele per mano di Caino. La chiusura del testo è contrassegnata anche da un forte impatto teologico perché Giovanni XXIII si spinge a prendere quasi "in prestito" le parole con cui Gesù sul Golgota dall’ alto della croce, prima di spirare, invocò il Padre per perdonare quelli che lo stavano uccidendo. Signore, "perdonaci", conclude infatti papa Roncalli, «perché i cristiani non sapevano cosa facevano» contro gli ebrei.
«Se da un lato la recita fatta in Vaticano mi ha dato un onore immenso perché ospite del successore di Giovanni XXIII, il recital di domani - commenta Guido Roncalli - sento che sarà particolarmente calzante per la rievocazione di un pontefice sensibile al dialogo interreligioso e all’ ecumenismo, e che in punto di morte si è sentito in dovere di scrivere parole bellissime e profonde per chiedere perdono agli ebrei, come una sorta di testamento».
ORAZIO LA ROCCA
* la Repubblica - 20 dicembre 2008
Un simbolo sfruttato dalla Chiesa dopo il Concilio di Efeso e nell’offensiva anti Lutero
La Vergine col bambino un’icona contro le eresie
Ma l’immagine fu ereditata dalla dea egizia Iside
di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 20.11.2008)
Ancor prima dell’epoca cristiana, l’immagine della «Madre col Bambino» veniva già usata da molte culture con un significato religioso: nell’area mediterranea, per esempio, rappresentava la dea Iside con in grembo il figlio Horus e fu proprio questa iconografia egizia a passare in quella cristiana occidentale attraverso la mediazione dell’Oriente bizantino.
In particolare, dopo il 431, le gerarchie ecclesiastiche cristiane promossero l’immagine della Madonna col Bambino per dare forza alla condanna, votata dal Concilio di Efeso, dell’eresia nestoriana secondo la quale la Vergine non poteva essere chiamata «madre di Dio», ma solo madre di Gesù poiché non aveva generato un Dio, bensì solo il corpo in cui Dio aveva poi preso dimora.
Da quel momento fino al Medioevo nelle chiese cristiane si assiste a una proliferazione delle immagini della Madonna col Bambino (spesso accompagnate dall’iscrizione «Maria Mater Dei» e «Sancta Dei Genitrix») raggruppabili in diverse varianti: la Madonna del latte (dove la Vergine allatta il figlio) è una delle prime iconografie conosciute, fin dalla catacomba di Priscilla del III secolo; la Madonna orante col Bambino (genuflessa e con le mani giunte mentre adora il figlio poggiato su un lembo del proprio manto); la Madonna leggente col Bambino (con in mano il libro della Sapienza); la Madonna del roseto (seduta in un giardino di rose simbolo della verginità della madre di Dio) particolarmente amata nel Nord Europa; la Madonna col bambino in trono (dove Maria personifica la Chiesa), di derivazione bizantina e i cui più antichi esempi in Occidente si trovano nei mosaici di Ravenna.
L’immagine registra poi un secondo grande momento di successo che coincide ancora una volta con un’eresia: quella protestante. A cavallo fra XV e XVI secolo, l’impiego della Madonna col Bambino viene nuovamente incentivato da parte della Chiesa cattolica per fini propagandistici e, dopo la condanna di Lutero, per confutare la dottrina protestante che ridimensionava il culto della Vergine assieme a quello dei santi. In quest’epoca furono soprattutto due i pittori che portarono il soggetto alla gloria: Raffaello e Giovanni Bellini. Il primo perché, noto ammiratore e amante di donne, seppe dare alle sue Madonne grazia e bellezza idealizzate, di una perfezione che incantava e trascendeva qualsiasi modello umano; il secondo perché, sincero credente, nei volti delle sue Vergini dall’aria dolce e domestica ritraeva quello della moglie amata di un amore casto e cristiano.
Nel Rinascimento il culto mariano si era ormai molto diffuso e via via che la devozione popolare si era fatta più appassionata, anche l’iconografia della Madonna col Bambino aveva perso la primitiva ieratica monumentalità per acquisire un tono più tenero. La rigidezza, eredità orientale nella rappresentazione della Madre in posizione frontale con il bambino eretto, vestito e benedicente, aveva lasciato già nel XIV secolo il posto a due nuove varianti dove madre e figlio venivano messi in un rapporto di affettuosità attraverso un gioco di sguardi o di mani: la Madonna dell’Umiltà (in particolare nel-l’Italia settentrionale) e la Mater amabilis, il tipo di rappresentazione più amata fra tutta l’iconografia mariana. È soprattutto per quest’ultima immagine intima e domestica che si sviluppano leggere varianti attraverso l’inserimento di oggetti simbolici. Fra i più frequentati figurano la mela, frutto dell’albero del Bene e del Male: tenuta in mano dal Bambino allude alla redenzione dal peccato originale.
L’uva è simbolo del vino eucaristico e quindi del sangue del Cristo redentore (anche nella variante della brocca che contiene il vino). Analogamente, le spighe sono il pane eucaristico e dunque il corpo di Cristo. La ciliegia, frutto del Paradiso, è simbolo del Cielo; la melagrana, che già nel mondo pagano era attributo di Proserpina, dea che presiedeva alla germinazione, allude alla Resurrezione. La noce, invece, era un complesso simbolismo sviluppato da sant’Agostino, dove il mallo stava per la carne di Cristo, il guscio di legno alludeva alla croce e il gheriglio alla natura divina del Cristo.
E infine l’uccello che, nella pittura cristiana, mantiene il simbolismo che già aveva in quella pagana, ovvero rappresenta l’anima umana che vola via alla morte del corpo. Spesso è un cardellino perché il suo piumaggio colorato lo rendeva particolarmente attraente agli occhi dei bambini e anche perché, secondo una leggenda, la macchia rossa sul capo sarebbe stata un residuo del sangue di Cristo con cui il cardellino si macchiò volando sopra la testa incoronata di spine di Gesù mentre questi saliva al Calvario.
La Sacra Unione di fatto
di Enzo Mazzi *
«Sacra Unione di Fatto», questa è la giusta definizione del modello cristianamente perfetto di ogni famiglia, incarnato da quella che tradizionalmente viene chiamata "Sacra Famiglia". Potrebbe sembrare una battuta spiritosa e dissacrante. È invece una reale contraddizione teologica irrisolta che il cristianesimo si porta dietro da quando è divenuto religione dell’Impero. Costantino si convertì al cristianesimo ma al tempo stesso il cristianesimo si convertì a Costantino. La nuova religione dovette cioè farsi carico della stabilità dell’Impero accettando di sacralizzarne alcuni capisaldi e fra questi proprio la famiglia. Fu un compromesso fatale.
Il cristianesimo non era nato per difendere la famiglia. Anzi all’inizio fu un movimento di superamento del concetto patriarcale di famiglia. La cultura e la teologia predominanti nella esperienza da cui sono nati i Vangeli è di un "radicalismo etico", quasi una rivoluzione, che si propone di oltrepassare la cultura e la teologia tradizionali: «Vi è stato detto..., io invece vi dico... » afferma Gesù in contraddittorio con sacerdoti, scribi, farisei. «Si trattò all’inizio di un movimento di contestazione culturale e di abbandono delle strutture della società» (G. Theissen, La religione dei primi cristiani, Claudiana, 2004). Basta pensare alla reazione di Gesù, in un episodio del Vangelo di Matteo: «Ecco là fuori tua madre e i tuoi fratelli che vogliono parlarti. Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: "E chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?". Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: "Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre"».
Un orizzonte nuovo di valori universali si apre in realtà nel Vangelo col superamento del concetto patriarcale di famiglia: da tale oltrepassamento nasce la comunità cristiana, la nuova famiglia, "senza padre" o meglio con un solo padre «quello che è nei cieli». «Nessuno sia tra voi né padre né maestro... » dice infatti Gesù. Se è vero che «la realizzazione pratica dell’etos del diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia», come ha sostenuto di recente il teologo della Casa pontificia, Wojciech Giertych al Congresso internazionale sul diritto naturale promosso dall’Università del papa, la Lateranense, se cioè bisogna rivolgersi alle scelte della grazia di Dio per sapere che cos’è la natura, allora bisogna concludere che Dio privilegia "l’unione di fatto" e non la famiglia. Insomma per dirla con parole semplici prima viene l’amore, l’unione, la solidarietà e poi viene il patto, la legge, il codice. Questa sembra l’essenza più profonda della natura umana. Lo dice plasticamente il Vangelo: «Il sabato (cioè la norma) è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato». Il compromesso con l’Impero portò alla attenuazione se non al fatale capovolgimento di un tale etos evangelico.
È questa una intrigante contraddizione per le gerarchie ecclesiastiche del "Non possumus" e della rigida Nota anti-Dico, per i preti, i cattolici e i laici del Family-day.
Una traccia vistosa e significativa di tale contraddizione si trova ancora oggi nel celibato dei preti, religiosi e religiose. Il dogma cattolico mentre considera biblicamente il matrimonio come «segno sacro dell’Alleanza nuova compiuta dal Figlio di Dio, Gesù Cristo, con la sua sposa, la Chiesa», d’altro lato ha bisogno di un segno opposto e cioè la verginità e il celibato per significare «l’assoluto primato dell’amore di Cristo» (cf. Compendio del Catechismo 340-342). Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 338 pone la domanda: «Per quali fini Dio ha istituito il Matrimonio?». La risposta è questa: «L’unione matrimoniale dell’uomo e della donna, fondata e strutturata con leggi proprie dal Creatore, per sua natura è ordinata alla comunione e al bene dei coniugi e alla generazione ed educazione dei figli». Il fine della "generazione/procreazione" fa parte strutturale della natura del matrimonio. Se esclude il fine della procreazione il patto matrimoniale è nullo. Al n. 344 e 345 lo stesso Catechismo dice: «Che cosa è il consenso matrimoniale? Il consenso matrimoniale è la volontà, espressa da un uomo e da una donna, di donarsi mutuamente e definitivamente, allo scopo di vivere un’alleanza di amore fedele e fecondo... In ogni caso, è essenziale che i coniugi non escludano l’accettazione dei fini e delle proprietà essenziali del Matrimonio». Addirittura al n. 347, il rifiuto della fecondità viene additato come peccato gravemente contrario al Sacramento del matrimonio: «Quali sono i peccati gravemente contrari al Sacramento del Matrimonio? Essi sono: l’adulterio; la poligamia, in quanto contraddice la pari dignità tra l’uomo e la donna, l’unicità e l’esclusività dell’amore coniugale; il rifiuto della fecondità, che priva la vita coniugale del dono dei figli; e il divorzio, che contravviene all’indissolubilità».
La contraddizione si avviluppa su se stessa e si incattivisce: Maria e Giuseppe escludendo dal loro matrimonio la fecondità naturale, per amore della verginità di Maria, secondo il Catechismo cattolico compiono un grave peccato.
Il Diritto Canonico conferma il dogma in modo apodottico in vari canoni. Specialmente il canone 1101 sancisce che è nullo il matrimonio di chi nel contrarlo «esclude con un positivo atto di volontà» la procreazione. È in base a queste enunciazioni dogmatiche e normative che il Tribunale della Sacra Rota emette quasi ogni giorno dichiarazioni di nullità del matrimonio, perché anche uno solo degli sposi può provare di aver escluso per sempre la procreazione al momento del consenso matrimoniale. I cattolici che si battono per la difesa e la valorizzazione della "famiglia naturale" e si preparano addirittura a scendere in piazza per scongiurare il riconoscimento delle unioni di fatto e l’approvazione dei Dico molto probabilmente non hanno mai riflettuto su queste contraddizioni, non le conoscono o le allontanano dalla loro coscienza e dall’orizzonte della loro fede. Esse invece sono invece parte integrante della stessa fede. Vediamo meglio perché. Il Vangelo di Matteo racconta che «Giuseppe, come gli aveva ordinato l’angelo del Signore, prese in sposa Maria che era incinta ed ella, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù». Il dogma cattolico aggiunge che Maria aveva consacrato in perpetuo la sua verginità al Signore e quindi nello sposare Giuseppe aveva escluso in maniera assoluta la procreazione, essendo Giuseppe pienamente consenziente con tale esclusione. "Maria sempre vergine", nell’intenzione e nei fatti. Così dice il dogma. Chi lo nega è eretico. Ma con questa esclusione positiva ed assoluta della prole, per lo stesso dogma cattolico e per il Diritto Canonico il matrimonio di Maria con Giuseppe è invalido. Maria e Giuseppe erano una coppia di fatto che oggi il Diritto Canonico non può riconoscere come vero matrimonio. Dio nel momento in cui decide di farsi uomo sceglie di crescere e di essere educato da una coppia, Maria e Giuseppe, che per il dogma e per il Diritto cattolico era unita di fatto in un matrimonio non valido e quindi non era vera famiglia: era appunto una Sacra Unione di fatto.
Dietro una spinta così forte proveniente del Vangelo, da anni ci siamo impegnati, come tanti altri, e con forti conflitti, a immedesimarsi nelle discariche umane prodotte nella "città delle famiglie normali". E lì abbiamo trovato bambini abbandonati per l’onore del sangue, ragazze madri demonizzate e lasciate nella solitudine più nera, handicappati rifiutati, carcerati privati della parentela, gay senza speranza, coppie prive di dignità perché fuori della norma, minori violentati dai genitori, mogli stuprate dietro il paravento del "debito coniugale". La "misericordia" del Vangelo ci ha imposto di non demonizzare anzi di accogliere la ricerca di forme di convivenza meno distruttive. Per purificare lo stesso matrimonio, non certo per distruggerlo. Quei bambini abbandonati, quelle ragazze madri, quegli handicappati, quei carcerati, quei gay, quelle vittime di violenze intrafamiliari, hanno avuto bisogno di "unioni di fatto", magari cosiddette "case famiglia", che se ne facessero carico. Poi anche le famiglie si sono aperte alle adozioni e agli affidamenti. Ma la breccia è stata aperta da "unioni di fatto".
Fine della famiglia tribale e delle sue discariche? Macché. Nuove emergenze incombono. La competizione globale, questa guerra di tutti contro tutti, riporta a galla il bisogno di mura. Il mondo del privilegio non accetta la condivisione e non ne conosce le strade se non nella forma antica della elemosina che oggi è confusa impropriamente con la solidarietà; conosce molto bene però l’arte dell’arroccamento. E di questo bisogno di blindatura approfittano i crociati della famiglia. Guardando bene al fondo, in nome di che si ricacciano in mare gli extra-comunitari? Sono estranei alla nostra famiglia e alla nostra famiglia di famiglie. La difesa a oltranza della famiglia canonica oggi è fonte di esclusione verso i dannati della terra. L’opposizione al riconoscimento delle nuove forme di solidarietà è nel profondo radice di violenza verso gli esclusi. La crociata contro le famiglie di fatto oggettivamente è egoista, oltre i bei gesti e le belle parole e oltre le stesse intenzioni, al di là delle apparenze. Non basta difendere la famiglia naturale. Bisogna ancora una volta guarirla.
È necessario riscoprire il primato dell’amore e della solidarietà oltre i confini di razza, etnia, famiglia, quell’amore responsabile e quella solidarietà piena che sono sacre in radice e rendono sacro ogni rapporto in cui si incarnano. Bisogna ritrovare le strade dell’apertura planetaria della famiglia, di una famiglia purificata e guarita, già annunciate dal Vangelo, nelle attuali esperienze delle giovani generazione e dei nuovi soggetti, con prudenza creativa, senza nascondersi limiti e pericoli, ma anche senza distruttive demonizzazioni.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.07, Modificato il: 13.04.07 alle ore 14.11
Distribuita da stasera a Roma e Firenze, ha una presentazione del cardinal Ruini. Nel testo: non confondere "le altre forme di convivenza" con il matrimonio
Nelle parrocchie una lettera contro i Dico. "Famiglia privatizzata, senza rilevanza sociale"
CITTA’ DEL VATICANO - Il Vaticano continua la sua offensiva contro il ddl sui Dico. Da stasera infatti, in tutte le parrocchie di Roma e Firenze verranno distribuiti ai fedeli volantini che riproducono una letteradel cardinale di Firenze, Ennio Antonelli, a difesa dell’istituto familiare. La lettera è accompagnata da una breve presentazione del cardinale vicario Camillo Ruini.
"La famiglia - si legge nel testo Ruini - è da tempo al centro dell’attenzione pastorale della diocesi di Roma oltre che di un ampio confronto sociale e culturale. Ho ritenuto perciò di fare cosa utile offrendo alle famiglie romane, tramite i sacerdoti impegnati nelle benedizioni pasquali, un testo scritto dal cardinale Ennio Antonelli per la diocesi di Firenze".
Nella lettera, scritta da Antonelli per i suoi parrocchiani, si legge che "la famiglia sta venendo privatizzata, ridotta a un semplice rapporto affettivo, senza rilevanza sociale, come se si trattasse soltanto di una forma di amicizia".
E ancora: "La famiglia fondata sul matrimonio è non solo una comunità di affetti, ma anche un’istituzione di interesse pubblico; e come tale va riconosciuta, tutelata, sostenuta e valorizzata dalle pubbliche autorità che hanno la responsabilità specifica di promuovere il bene comune. Non vanno confuse con la famiglia altre forme di convivenza, che non comportano l’assunzione degli stessi impegni e doveri nei confronti della società e si configurano piuttosto come un rapporto privato tra individui, analogo al rapporto di amicizia, per il quale nessuno si sogna di chiedere un riconoscimento giuridico. Le esigenze private possono trovare risposta nei diritti riconosciuti alle singole persone".
Il prossimo Consiglio permanente della Cei programmato per il 26 marzo discuterà la Nota "impegnativa" per i cattolici italiani sull’atteggiamento da tenere nei confronti del ddl sui Dico.
* la Repubblica, 17 marzo 2007
Dura critica dell’Osservatore romano alla manifestazione di sabato nella capitale. "Una proposta ideata soprattutto per legalizzare le coppie omosessuali"
Il Vaticano sui Dico: una carnevalata bambini sfruttati per la causa gay *
ROMA - Una carnevalata, per di più isterica, i cui autori sono persone irrispettose. Questa l’opinione dell’Osservatore romano sulla manifestazione romana di sabato sui Dico. Una "esibizione carnascialesca della vera natura dei Dico", questo "il corteo di Roma a favore del riconoscimento legale delle coppie omosessuali. Una manifestazione nella quale - commenta il giornale vaticano - al di là dell’immagine borghese e rassicurante che si voleva dare, hanno trovato posto discutibili mascherate e carnascialate varie. Ironie e isteriche esibizioni da parte di chi invoca riconoscimenti e non esprime rispetto".
Nell’articolo, l’Osservatore rileva che "erano in molti, fra l’altro, i manifestanti omosessuali che recavano sulle spalle o per mano, dei bambini, frutto di precedenti relazioni o anche di fecondazioni praticate all’estero. Bambini - scrive il quotidiano del Papa - la cui presenza è stata sfruttata proprio allo scopo di accreditare l’immagine, che vorrebbe essere rassicurante, di una famiglia da tutelare. Almeno quando è nato, ogni bambino - ricorda la nota - gode, anche nell’ordinamento italiano, di diritti che gli vengono riconosciuti comunque, in ogni condizione si trovino i loro genitori. Anche per questo, sfruttare la loro ingenuità appare un’operazione particolarmente criticabile".
Secondo l’Osservatore, quanto è accaduto sabato a Roma è allora "ancora una volta, la prova evidente di quale sia la finalità di chi si batte per il riconoscimento legale delle coppie omosessuali, essendo la presenza di minori determinante per garantire ad un nucleo famigliare particolari diritti. Non è un caso - conclude la nota vaticana - che nelle immagini trasmesse sul corteo di sabato a parlare siano state quasi esclusivamente le coppie omosessuali, la categoria per la quale, al di là di ogni tattica politica, i recenti tentativi di regolamentazione sono concepiti".
* la Repubblica, 12 marzo 2007
Testimone imbarazzante per gli antichi, lo sposo di Maria diviene popolare solo nell’Ottocento, come operaio da contrapporre al socialismo. Ma oggi la sua figura viene rivalutata
Giuseppe, il padre che ci manca
Mai immagine di potere, bensì mediatore che risolve situazioni complicate. Un modello contro la crisi della figura maschile
di Lucetta Scaraffia (Avvenire, 28.12.2006)
Oggi, quando la figura del padre è indebolita e messa in discussione dalla procreazione artificiale, più volte si è sottolineato che il santo ricordato nel giorno della «festa del papà», Giuseppe, non è un padre naturale. L’indagine su questa figura evangelica e sulla sua storia nelle società cristiane è di grande interesse, come prova un’importante ricerca appena pubblicata in Francia (Paul Payan, Joseph. Une image de la paternité dans l’occident médiéval, Aubier), che parte dagli inizi della devozione allo sposo di Maria. Inizi non facili, se si osserva che come nome di battesimo quello di Giuseppe era pochissimo diffuso fra i cristiani sino alla fine del Quattrocento, quando appunto cominciò a decollare, grazie soprattutto alla propaganda dei francescani. Giuseppe è un personaggio difficile, se non imbarazzante: il dogma della perpetua verginità di Maria lo pone infatti, fin dai primi secoli del cristianesimo, nello spinoso ruolo dello sposo forzatamente casto, capo di una famiglia dove la moglie e il figlio sono entrambi molto superiori a lui.
Per rendere credibile questa situazione l’apocrifo Protovangelo di Giacomo lo raffigura anziano, per adombrarne l’inattività sessuale, e vedovo, per spiegare in questo modo la menzione dei «fratelli» di Gesù nei Vangeli. E l’età avanzata gli è rimasta addosso, nonostante i tentativi - il più importante fu quello di Jean Gerson - di diminuirne l’età, facendo così della castità di Giuseppe una scelta non obbligata che lo avvicina spiritualmente alla Vergine. Anzi, una delle ragioni della diffidenza dei cristiani verso lo sposo di Maria sta proprio in questa sua somiglianza con un personaggio tipico delle novelle satiriche, lo sposo anziano tradito dalla giovane moglie e costretto ad allevare un figlio non suo. Versione dileggiante del ruolo di Giuseppe riproposta anche da molte opere d’arte sacra: queste lo ritraggono come un contadino goffo, che suscita il riso per la sua inabilità di artigiano, riverber andosi sull’incapacità di mantenere dignitosamente la moglie e il figlio. E sino alla fine del medioevo egli non viene mai rappresentato da solo, e sempre un po’ separato dai personaggi più importanti, Gesù e Maria.
Soltanto dal Quattrocento, in nuove rappresentazioni della natività di Gesù, sia Maria che Giuseppe sono inginocchiati davanti al figlio, ad adorarlo nella stessa posizione. È difficile rivolgere le proprie preghiere a un uomo così umile che non sembra capace di soccorrere i fedeli come altre figure più eroiche di martiri o difensori della fede. Il culto dello sposo di Maria, padre putativo di Gesù, si sviluppa quindi solo in età moderna, quando il santo comincia a essere un modello, non solo un protettore, e non diviene davvero una devozione popolare fino all’Ottocento, quando è valorizzato anche come lavoratore in contrapposizione al socialismo dilagante. Nel 1870 Pio IX lo dichiara protettore della Chiesa universale, e nel corso del Novecento gli verranno dedicate ben due feste, il 19 marzo come patrono e modello dei padri, e il 1° maggio come artigiano, in palese contrappunto con la festa d’origine socialista. Nel cristianesimo antico Giuseppe era percepito come l’ultimo patriarca, anello di unione fra antica e nuova economia: proprio per questo è stato rappresentato spesso lontano dalla scena principale, pensoso, testimone dell’incarnazione di Cristo, ma poi anche in veste di ultimo ebreo, che come copricapo talvolta portava proprio il berretto a tre punte imposto in molte città medievali agli ebrei. Il culto di san Giuseppe, incentrato sulla sua umiltà e sul servizio a Gesù, nasce in ambiente monastico, spesso con sfumature mistiche, come in san Bernardo, che valorizza la sua intimità fisica con il figlio.
Ma sono i francescani, nell’ambito della loro complessiva valorizzazione dell’umanità di Gesù, a proporre Giuseppe come esempio da seguire. Per loro diventa positiva la povertà della sacra famiglia e del suo umile custode, e per i loro superiori non usano il termine «abate», che significa padre, ma quello di «custode», attribuito appunto a colui che doveva custodire il piccolo Gesù e sua madre. Nel promuovere la figura di Giuseppe, più successo dei francescani ebbero però i Servi di Maria, primi a festeggiarlo il 19 marzo, poco prima della festa dell’Annunciazione: il santo costituiva infatti il modello naturale del loro ordine, che ne legittimava l’identità impedendo una fusione con altri ordini mendicanti.
Ma il vero riscopritore dell’importanza teorica del padre putativo di Gesù fu Gerson, che influenzò l’ambiente universitario parigino del primo Quattrocento proponendolo come modello politico di pace e di unione. In un momento di forte crisi del papato, durante lo scisma d’Occidente, il teologo scrive che la Chiesa ha bisogno di nuovi punti di riferimento e di nuovi modelli di mediazione perché Pietro non sembra più sufficiente, e in un sermone pronunciato al concilio di Costanza propone Giuseppe come nuovo modello di guida politica, capofamiglia ma anche umile servitore di Gesù.
La proposta di Gerson non ebbe seguito immediato, ma fu ripresa nel Cinquecento dai francescani, che fecero di san Giuseppe un esempio di padre spirituale, e quindi del clero, mediatore fra Dio e gli uomini. Ma, al tempo stesso, anche modello per i padri naturali in un’epoca che, dopo la svalutazione della paternità naturale di fronte a quella spirituale, aveva il problema di ricostruire in ambito cattolico il modello paterno di fronte alla Riforma che, abolendo il clero, aveva accentuato il ruolo del padre di famiglia. In questa lunga e affascinante storia Giuseppe dunque non compare mai come figura di potere, ma piuttosto si afferma come mediatore, un pacificatore che risolve situazioni complicate. E di un padre così c’è molto bisogno anche oggi.
La «josephologie» parla francese
La «josephologie» muove grandi passi in Francia. Un nuovo vigore di studi ha indotto a fondare nel novembre 2005 presso il santuario di San Giuseppe ad Allex un «Centre Français de Recherche et de Documentation Joséphaines» (http://www.josephologie.info); lo dirige l’archeologo Christian-Michel Doublier-Villette, il quale ha appena firmato «La saga de Saint Joseph», in cui passa in rassegna le fonti (anche apocrife) relative al falegname di Nazareth e delinea il contesto culturale che ne ha influenzato l’interpretazione nei secoli. Il Centro progetta inoltre di coordinare i centri di «giuseppologia» sparsi nel mondo e la creazione sul Web di una banca dati multidisciplinare.
il caso
Il falegname piace pure a Boff e Coelho
(R.Be)
Beh, che il più prestigioso esponente della «teologia della liberazione» si occupasse del vecchio e pio san Giuseppe forse non ce l’aspettavamo... E invece Leonardo Boff, il celebre ex frate brasiliano che è stato una delle bandiere della teologia progressista, dedica il suo nuovo libro proprio a «Giuseppe di Nazaret. Uomo giusto, carpentiere» (Cittadella Editrice, pp. 240, euro 16,50), per di più con la prefazione di un «mostro sacro» - forse suo malgrado... - della New Age contemporanea: ovvero lo scrittore Paulo Coelho, il quale rivela di avere per il padre putativo di Cristo «una particolare devozione» e di immaginare volentieri che il tavolo dell’Ultima Cena sia stato costruito proprio dal falegname galileo. Da parte sua, Boff interpreta arditamente Giuseppe come una «personificazione del Padre celeste» e quale completamento - insieme a Gesù e Maria - di una «trinità terrena», attraverso la quale «la Famiglia divina si autocomunica alla famiglia umana».
DONO E IMPEGNO
l’omelia Nella festa liturgica della Madre di Dio lo sguardo del Pontefice ai Paesi feriti è partito dai luoghi in cui nacque e visse Gesù «Imploriamo con insistente preghiera che anche in quella regione giunga quanto prima il giorno della pace, il giorno in cui si risolverà il conflitto da troppo tempo in atto»
«In Terra Santa sia rispettata la dignità di tutti»
L’invito rivolto agli ambasciatori presenti e ai fedeli durante la Messa nella Basilica Vaticana: «Iniziamo un anno nuovo, che riceviamo dalle mani di Dio come un talento prezioso da far fruttare»«Se gli elementi costitutivi della persona vengono affidati alle mutevoli opinioni umane, anche i suoi diritti, pur proclamati in maniera solenne, finiscono per diventare deboli e variamente interpretabili»
Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia tenuta ieri da Benedetto XVI durante la Messa in San Pietro nella solennità della Madre di Dio che per la Chiesa è la Giornata mondiale della pace. (Avvenire, 02.01.2007)
Cari fratelli e sorelle!
L’odierna liturgia contempla, come in un mosaico, diversi fatti e realtà messianiche, ma l’attenzione si concentra particolarmente su Maria, Madre di Dio. Otto giorni dopo la nascita di Gesù, ricordiamo la Madre, la Theotókos, colei che «ha dato alla luce il Re che governa il cielo e la terra per i secoli in eterno» (Antifona d’ingresso; cfr Sedulio). La liturgia medita oggi sul Verbo fatto uomo, e ripete che è nato dalla Vergine. Riflette sulla circoncisione di Gesù come rito di aggregazione alla comunità, e contempla Dio che ha dato il suo Unigenito Figlio come capo del «nuovo popolo» per mezzo di Maria. Ricorda il nome dato al Messia, e lo ascolta pronunciato con tenera dolcezza da sua Madre. Invoca per il mondo la pace, la pace di Cristo, e lo fa attraverso Maria, mediatrice e cooperatrice di Cristo (cfr Lumen gentium, 60-61).
Iniziamo un nuovo anno solare, che è un ulteriore periodo di tempo offertoci dalla Provvidenza divina nel contesto della salvezza inaugurata da Cristo. Ma il Verbo eterno non è entrato nel tempo proprio per mezzo di Maria? Lo ricorda nella seconda Lettura, che abbiamo poco fa ascoltato, l’apostolo Paolo, affermando che Gesù è nato «da una donna» (cfr Gal 4,4). Nella liturgia di oggi grandeggia la figura di Maria, vera Madre di Gesù, Uomo-Dio. L’odierna solennità non celebra pertanto un’idea astratta, bensì un mistero ed un evento storico: Gesù Cristo, persona divina, è nato da Maria Vergine, la quale è, nel senso più vero, sua madre.
Oltre alla maternità oggi viene messa in evidenza anche la verginità di Maria. Si tratta di due prerogative che vengono sempre proclamate insieme ed in maniera indissociabile, perché si integrano e si qualificano vicendevolmente. Maria è madre, ma madre vergine; Maria è vergine, ma v ergine madre. Se si tralascia l’uno o l’altro aspetto non si comprende appieno il mistero di Maria, come i Vangeli ce lo presentano. Madre di Cristo, Maria è anche Madre della Chiesa, come il mio venerato predecessore, il servo di Dio Paolo VI volle proclamare il 21 novembre del 1964, durante il Concilio Vaticano II. Maria è, infine, Madre spirituale dell’intera umanità, perché per tutti Gesù ha dato il suo sangue sulla croce, e tutti dalla croce ha affidato alle sue materne premure.
Iniziamo dunque guardando a Maria questo nuovo anno, che riceviamo dalle mani di Dio come un «talento» prezioso da far fruttare, come un’occasione provvidenziale per contribuire a realizzare il Regno di Dio. In questo clima di preghiera e di gratitudine al Signore per il dono di un nuovo anno, sono lieto di rivolgere il mio deferente pensiero agli illustri signori ambasciatori del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, che hanno voluto prendere parte all’odierna solenne celebrazione. Saluto cordialmente il cardinale Tarcisio Bertone, mio Segretario di Stato. Saluto il cardinale Renato Raffaele Martino e i componenti del Pontificio Consiglio della Giustizia e della pace, esprimendo loro la mia viva riconoscenza per l’impegno con cui quotidianamente promuovono questi valori così fondamentali per la vita della società. In occasione della presente Giornata mondiale della pace, ho diretto ai governanti e ai responsabili delle nazioni, come anche a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, il consueto Messaggio, che quest’anno ha per tema: «La persona umana, cuore della pace».
Sono profondamente convinto che «rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale» (Messaggio, n. 1). È un impegno questo che compete in modo peculiare al cristiano, chiamato «ad essere infaticabile operatore di pace e strenuo difensore della dignità della persona umana e dei suoi inalienabili diritti» (Messaggio, n. 16). Pro prio perché creato ad immagine e somiglianza di Dio (cfr Gn 1,27), ogni individuo umano, senza distinzione di razza, cultura e religione, è rivestito della medesima dignità di persona. Per questo va rispettato, né alcuna ragione può mai giustificare che si disponga di lui a piacimento, quasi fosse un oggetto. Di fronte alle minacce alla pace, purtroppo sempre presenti, dinanzi alle situazioni di ingiustizia e di violenza, che continuano a persistere in diverse regioni della terra, davanti al permanere di conflitti armati, spesso dimenticati dalla vasta opinione pubblica, e al pericolo del terrorismo che turba la serenità dei popoli, diventa più che mai necessario operare insieme per la pace. Questa, ho ricordato nel Messaggio, è «insieme un dono e un compito» (n. 3): dono da invocare con la preghiera, compito da realizzare con coraggio senza mai stancarsi.
Il racconto evangelico che abbiamo ascoltato mostra la scena dei pastori di Betlemme che si recano alla grotta per adorare il Bambino, dopo aver ricevuto l’annuncio dell’Angelo (cfr Lc 2,16). Come non volgere lo sguardo ancora una volta alla drammatica situazione che caratterizza proprio quella Terra dove nacque Gesù? Come non implorare con insistente preghiera che anche in quella regione giunga quanto prima il giorno della pace, il giorno in cui si risolva definitivamente il conflitto in atto che dura ormai da troppo tempo? Un accordo di pace, per essere durevole, deve poggiare sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni persona. L’auspicio che formulo dinanzi ai rappresentanti delle nazioni qui presenti è che la comunità internazionale congiunga i propri sforzi, perché in nome di Dio si costruisca un mondo in cui gli essenziali diritti dell’uomo siano da tutti rispettati. Perché ciò avvenga è però necessario che il fondamento di tali diritti sia riconosciuto non in semplici pattuizioni umane, ma «nella natura stessa dell’uomo e nella sua inalienabile dignità di persona creata da Dio» (Messaggio, n. 13). Se infatti gli elementi costitutivi della dignità umana vengono affidati alle mutevoli opinioni umane, anche i suoi diritti, pur solennemente proclamati, finiscono per diventare deboli e variamente interpretabili. «È importante, pertanto, che gli Organismi internazionali non perdano di vista il fondamento naturale dei diritti dell’uomo. Ciò li sottrarrà al rischio, purtroppo sempre latente, di scivolare verso una loro interpretazione solo positivistica» (ibid.).
«Ti benedica il Signore e ti protegga... rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,24.26). È questa la formula di benedizione che abbiamo ascoltato nella prima Lettura. È tratta dal libro dei Numeri: vi si ripete tre volte il nome del Signore. Ciò sta a significare l’intensità e la forza della benedizione, la cui ultima parola è «pace». Il termine biblico shalom, che traduciamo «pace», indica quell’insieme di beni in cui consiste «la salvezza» portata da Cristo, il Messia annunciato dai profeti. Per questo noi cristiani riconosciamo in Lui il Principe della pace. Egli si è fatto uomo ed è nato in una grotta a Betlemme per portare la sua pace agli uomini di buona volontà, a coloro che lo accolgono con fede e amore. La pace è così veramente il dono e l’impegno del Natale: il dono, che va accolto con umile docilità e costantemente invocato con orante fiducia; l’impegno, che fa di ogni persona di buona volontà un «canale di pace». Chiediamo a Maria, Madre di Dio, di aiutarci ad accogliere il Figlio suo e, in Lui, la vera pace. Domandiamole di illuminare i nostri occhi, perché sappiamo riconoscere il Volto di Cristo nel volto di ogni persona umana, cuore della pace!