ITALIA: POLITICA E AMBIENTE
LO SCEMPIO DEL “TERRITORIO” ... E LE “CAMERE” SGARRUPATE!!!
La ‘lezione’ di “due” grandi accademici dei Lincei, Giovanni Garbini e L. Camurzio Punico
di Federico La Sala *
Negli ultimi “Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei” - nella “Classe di Scienze morali, storiche e filologiche” - tra le “Note dei Soci”, è apparsa la nota del Socio Nazionale Giovanni Garbini, presentata nell’adunanza dell’11 marzo 2005. Si tratta - questo il titolo - di “Divagazioni storiche e linguistiche su L. Camurzio Punico”. Fortuna ha voluto, che abbia avuto l’opportunità di poterlo leggere: è un piccolo delizioso ‘gioiello’, per scrittura e ricchezza di vibrazioni umane, culturali, scientifiche e ... politico-civili! Sorprendente, e bello!
Così comincia: “Da quando frequento questa nostra Accademia, e sono non pochi anni, ogni volta che scendendo le scale mi sono trovato di fronte alla nicchia che conserva l’ara funeraria di Lucio Camurzio Punico mi sono chiesto chi fosse precisamente costui: quel cognomen di Punicus sollecitava inevitabilmente la curiosità di uno che si è interessato di cose fenicio-puniche fin dal 1960. Ho così incominciato a curiosare, da profano di cose romane, intorno a questo personaggio, che possiamo quasi considerare quasi come un nostro antico consocio, anche se è finora rimasto estraneo alle nostre sedute. In questa Nota esporrò i risultati delle mie indagini, che mi hanno coinvolto a livello personale più di quanto potessi sospettare all’inizio”. (pp. 383-384). E dedica “questa breve nota con affettuoso ricordo a Massimo Pallottino”- l’illustre docente di etruscologia e di archeologia italica - “nel decennale della scomparsa”(p. 384)
Ma come un’eco, nel ‘racconto’ della ricerca fatta da Garbini, affiora anche la ‘voce’ di un altro grande protagonista della cultura italiana del Novecento: “Tutte le volte, e non furono tante, che io son tornato nella casa dove nacqui (è in un paese montano, sul margine di faggete eterne che nessuno ha traversato, nel cuore più nascosto della Basilicata [...]); tutte le volte che sono tornato a casa, dicevo, giungendovi da Salerno per il Vallo di Diano [...]”. E’ quella di don Giuseppe De Luca, e quello citato è l’avvio dell’articolo, intitolato “Ballata alla Madonna di Czestochova” (“Osservatore Romano” del 25 febbraio 1962), scritto su invito di papa Giovanni XXIII, in occasione della visita a Roma del primate polacco, il cardinale Wyschinski (legato a sua volta a un altro prete che - figlio di una donna di religione ebraica, di nome “Emilia”, e di un padre cristiano-cattolico - porta già nel cognome il ‘grido’ W o Italy: Karol J. Wojtyla).
Incredibilmente, il primo riferimento bibliografico di Garbini - dopo aver detto che “Il fatto che il monumento funerario di Camurzio Punico sia stato ritrovato a Roma fa supporre che il personaggio appartenesse a una famiglia romana; ciò viene confermato da una fonte letteraria, l’unica che ricordi un Camurzio” - nella nota 2, relativa alla questione, è proprio ad un’opera di una studiosa con lo stesso cognome, di nome Gioia: “Il monumento - scrive Garbini - è pubblicato in G. De Luca, I monumenti antichi di Palazzo Corsini in Roma, Roma 1976, pp. 117-118, n. 62 [...]”.
Ma, stranamente, la ‘coincidenza’ non è limitata a questo: in ordine capovolto di ‘narrazione’, nella “Ballata” c’è lo ‘stesso’ movimento. De Luca prende il ‘via’ dalla sua casa, per ‘arrivare’ al santuario della Madonna di Czestochova e... accompagnare e accogliere a Roma il cardinale Wyschinski, Garbini ‘parte’ da Roma e, seguendo le tracce di L. Camurzio Punico - sempre guidato dal suo “spirito” e dalla sua “parola” - ritorna là da dove è partita la sua famiglia e .... accompagna e accoglie a Roma, all’Accademia dei Lincei, la “parola” e lo “spirito” di questo suo “antico consocio”!
Riannodiamo i fili del ‘racconto’ della ricerca: Garbini, accertato che “il nostro Camurzio era vissuto per diverso tempo a Cartagine e forse era stato testimone delle vicende che nel 70 d. C. portarono all’uccisione del proconsole Pisone”(p.385), e resosi conto che “sulla famiglia romana dei Camurzi” non ha potuto “trovare di più” e, tuttavia (dopo aver ricordato, in particolare, tre iscrizioni provenienti rispettivamente da Compsa - l’attuale Conza della Campania, in provincia di Avellino - da Paestum, e da Brindisi), che “il nome Camurtius esisteva già nella seconda metà del IV sec. a. C.”, concentra la sua “attenzione sull’aspetto linguistico del nome Camurtius” e “dalla forma ampliata di Camurius, dal quale deriva anche Camurenus” e riprende il cammino...
“Il nome viene ritenuto, a ragione, di origine etrusca, come rivelano le forme camurinal e camuris documentate rispettivamente a Chiusi e a Perugia” e, ancora, il fatto che “tutta l’area coperta da questi nomi è etrusca” e, infine, che “Camerino, in provincia di Macerata, trova la sua ovvia spiegazione nel fatto che questo centro portava il nome etrusco di Camars, lo stesso portato dalla città etrusca di Chiusi prima di diventare Clusium”(p. 386).
Così, considerate tutte le forme onomastiche documentate e visto che “la forma originaria della radice, testimoniata dal greco, dall’etrusco e dal latino, è camar-; mentre esclusivamente latina è camer-“, ci avviciniamo alla soluzione, al nome comune “che sta alla base dei toponimi e degli etnici”: il latino camàra con il più comune càmera, “volta con il soffitto a volta” o, per estensione, “un centro abitato situato su un terreno arcuato, cioè su una collina [...]”(p.387) E, alla fine, confortato dall’esistenza “di un raro aggettivo latino, camùrus, [...] usato solo da Virgilio (Georgica, III, 55) e che designa un bue le cui corna sono conversa introrsus, cioè curvate all’interno”, non gli resta che trovare “il missing link che leghi direttamente camur- a camar-“(p. 388).
E lo trova! “L’anello mancante - scrive Garbini - esiste: nella zona a sud di Camerino, dalla quale proviene la mia famiglia, non è raro trovare zone collinose, coltivate o meno, chiamate “Camere”; una di queste, che conosco molto bene e che si trova su un terreno piuttosto scosceso, è nota anche con un secondo appellativo, “Sgamuratu”, che mi ha sempre lasciato perplesso e che finalmente ho capito grazie a Camurzio Punico. “Sgamuratu” rappresenta la forma collettiva di “Camere”, ottenuta con un prefisso s- di valore intensivo e la radice gamur- derivata da camer-“. E, poco oltre, così mette fine al suo ‘racconto’: “Possiamo quindi concludere che il gentilizio romano Camurtius è di origine etrusca e nasce, con ogni probabilità, come etnico dal toponimo Camars; l’esistenza di due città etrusche con questo nome non permette di essere più precisi, anche se l’ampia distribuzione geografica e cronologica del nome rende più verosimile un’origine da Chiusi anziché da Camerino”.
Ma, a questo punto, non tutto è chiaro e, tuttavia, nemmeno possiamo lasciarli dove sono arrivati - né Giovanni Garbini né L. Camurzio Punico.... dobbiamo invitarli a ritornare dove attualmente sono - a Roma, e accompagnarli dal nostro Presidente della Repubblica Ciampi, affinché siano accolti con tutti gli onori - come meritano questi “due” grandi cittadini ‘romani’!!! Prima di farlo, però, dobbiamo ringraziarli del lavoro fatto e portare loro in dono dalla Campania e da Napoli ... l’ultima “parola”, per chiarire tutto e per rendere omaggio finalmente alla loro lodevolissima opera di virtuosi cittadini sia di Roma sia dell’Italia!!!
Che cosa ci ha ‘raccontato’ tanto di importante da meritare tutto questo il socio dell’Accademia, il prof. Giovanni Garbini, ordinario di filologia semitica all’Università di Roma “La Sapienza” e autore - tra tante altre opere - di una eccezionale traduzione del Cantico dei cantici (Paideia Editrice, Brescia 1992), che rende e restituisce - contro tutte le menzogne e le disperazioni - il v. 8.6 (“Amore è più forte di Morte”) al suo valore e splendore assoluto? Seguendo L. Camurzio Punico, egli ha ritrovato il filo per ritornare alla sua terra e alla sua casa e, finalmente, capire cosa significa “Sgamuratu” - una ‘lezione’(dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista socio-politico) dal e sul suo e nostro instabile e vulcanico territorio - tutto, quello d’Italia.
L’anello mancante l’ha trovato ... ma ad esso, per capire bene il senso della sua preziosa personale e scientifica ricerca, bisogna ri-unire l’altro lato - quello negativo (in dialetto campano): “Sgarrupatu”! Chiariamo: come si chiamano - nell’area studiata - le “zone collinose, coltivate o meno”, quando si trovano “in un terreno piuttosto scosceso”? Sono chiamate “Sgamuratu”, perché - e qui per motivi geologici e strutturali! - si trovano ad essere in tale stato da epoche preistoriche; ma nella stessa zona e altrove, dove tali “Camere” sono diventate “Sgamuratu” - non per ragioni naturali, ma per l’abuso e la speculazione di avidi imprenditori, urbanisti, e politici, che vi hanno messo “le mani sopra” - come devono essere chiamate e si chiamano? Non si devono chiamare più giustamente e più propriamente “Camere sgammurate, sgarrupate”?!
In Campania, al mio paese - poco distante dal paesino di don Giuseppe De Luca - con la parola “sgarrupaturo”, indichiamo proprio ciò che Garbini dice essere il significato di “sgamuratu”, e tale senso lo diamo anche ad edifici che - abbandonati e non più abitati - diventano, per progressivo degrado, “sgarrupati”!!! E allora, chiarito questo, si comprende bene ... perché L. Camurzio Punico ha svegliato dal “sonno dogmatico” il prof. Garbini e l’ha sollecitato a lanciare l’allarme ‘ambientale’.
Ciò che è in gioco - qui ed ora, nel nostro presente ‘territorio’ storico e politico (ricordiamo che la Nota il prof. Garbini l’ha presentata all’Accademia l’11 marzo del 2005) - sono le “Camere” di Roma e di tutta l’Italia - e non solo quelle “fisiche”!!! E, se teniamo presente che la nostra Capitale è ben piantata su sette colline, sui “sette colli”, cosa hanno cercato di comunicarci L. Camurzio Punico e Giovanni Garbini? Semplicemente che è l’ora di svegliarsi. Il loro ‘grido’ è: Attenti alle “Camere”! Attenti a Roma!
Che l’Italia ...Viva! E che il nostro Paese non venga ridotto a un paese “sgamuratu”, “sgarrupatu” ... dove nessuno, senza eccezione e senza alcuna speranza, se la potrà più cavare! Nient’altro - ma non è affatto poco, sia da parte di L. Camurzio Punico sia da parte di Giovanni Garbini, sia da parte dell’Accademia dei Lincei! Pensiamoci! (25.03.2006).
Federico La Sala
* Il Dialogo, Sabato, 25 marzo 2006
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CAMORRA (Wikipedia)
AMARE L’ITALIA: SALVARE LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA.
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
La strategia del bene comune
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 19 novembre 2013)
La legge di stabilità non è solo la “polveriera” economica di cui ha parlato Tito Boeri. Ha fatto affiorare vizi culturali profondi, che toccano il ruolo sociale dei beni, i limiti della discrezionalità politica, e il modo stesso d’intendere la vita delle persone. Provo a sintetizzare alcune indicazioni su questi tre punti.
1) In molti paesi è da tempo in corso una discussione sul grande e ineludibile tema dei beni comuni, che in Italia viene troppo spesso falsato da una diffusa e spesso compiaciuta ignoranza, e talora distorto da qualche intemperanza ideologica. Nell’ultimo periodo non sono mancate ironie sui “benecomunisti”, e qualche aggressione pochissimo informata su alcune esperienze in corso. Si ignora che questo tema ha dietro di sé una lunga serie di studi e che, nel 2009, il Premio Nobel per l’economia venne assegnato a Elinor Ostrom proprio per i suoi contributi alla teoria dei beni comuni (i più importanti sono disponibili in italiano).
In Italia è stato pubblicato un fiume di libri. Segnalo soltanto la ricca raccolta di saggi nata da un seminario della Fondazione Basso (Tempo di beni comuni, Studi multisciplinari... Ediesse, Roma, 2013); il nitido itinerario di Guido Viale (Virtù che cambiano il mondo. Partecipazione e conflitto per i beni comuni, Feltrinelli, Milano, 2013); e il lavoro di uno storico, Andrea Di Porto, che tra l’altro ricorda il lontano punto di partenza della sentenza della Corte di Cassazione del 1887, che diede ragione al Comune di Roma contro il principe Borghese che voleva chiudere i cancelli della Villa, riconoscendo ai cittadini il diritto di passeggiare liberamente in quel luogo (Res in usu publico e “beni comuni”, Giappichelli, Torino, 2013).
Un bagno culturale eccessivo? Ma i parlamentari non hanno bisogno di andare così lontano. Basta che aprano la porta accanto. Troveranno i testi mandati a tutti loro all’inizio della legislatura, già strutturati in forma di disegno di legge, sulla disciplina dell’acqua e sulla riforma del sistema dei beni pubblici, che riproduce i risultati di una Commissione ministeriale e che qualcuno ha già trasformato in proposta di legge. Perché, allora, ripetere le trite e pericolose banalità della vendita dei beni pubblici per far cassa, fino alla grottesca vicenda delle spiagge?
In realtà, la questione dei beni comuni non fa storia a sé. Impone un ripensamento dell’intero ordinamento dei beni pubblici (ai quali ha dedicato un importante volume l’Accademia dei Lincei nel 2010). Non tutti possono essere attratti nell’area del “comune”, ma non per questo la gran massa dei beni pubblici diventa disponibile per qualsiasi disinvolta operazione. Dovrebbe essere chiaro che questi beni hanno funzioni diverse, e si presentano come beni “ad appartenenza pubblica necessaria” (opere per la difesa, le reti viarie e ferroviarie, i porti), “sociali” (che devono soddisfare bisogni essenziali delle persone), “fruttiferi” (da gestire con adeguate modalità economiche). Per quanto riguarda le spiagge, per esempio, le operazioni da fare dovrebbero essere due. Eliminare la loro sostanziale privatizzazione, che per lunghissimi tratti esclude l’accesso ai cittadini, in forme sconosciute ad altri paesi. E rendere economiche le concessioni ai privati, che oggi danno allo Stato un reddito inadeguato (discorso che può essere esteso ad altri casi, come quello delle frequenze).
Tornando ai beni comuni, la loro definizione rinvia al fatto che essi sono indispensabili per la
soddisfazione di bisogni fondamentali delle persone. Si istituisce così un nuovo rapporto tra mondo
delle persone e mondo dei beni. E infatti molti documenti nazionali e internazionali parlano, in
primo luogo, di accesso all’acqua, al cibo, alla conoscenza in rete, ai farmaci essenziali, alla tutela
del territorio come di diritti fondamentali, la cui realizzazione esige appunto regole particolari per
quei beni. Tra queste emergono quelle sulla partecipazione dei cittadini alla gestione, prevista
dall’articolo 43 della Costituzione, che parla di “servizi pubblici essenziali” da affidare a “comunità
di lavoratori o di utenti”.
Qui nascono tre problemi. Rispetto dei risultati di referendum come quello
sull’acqua, a proposito del quale si ha una timida e parziale apertura del ministro per l’Ambiente.
Non per tutti i beni comuni può essere individuata una comunità che li gestisce: come si può
inventare questa comunità tra i tre miliardi di persone che accedono alla conoscenza in Rete?
Questo bene, allora, deve essere qualificato in via generale come comune. E le istituzioni devono
confrontarsi con le esperienze che formulano progetti, realizzano innovazioni dell’ordine esistente,
distinguendo certo, ma senza trincerarsi dietro rifiuti pregiudiziali.
2) Punto sul vivo, il Presidente Letta ha reagito ai rilievi dell’Unione europea sulla legge di stabilità,
cominciando a riecheggiare critiche sempre più diffuse sugli effetti negativi delle politiche di
austerità. La reazione d’un momento, tutto sommato strumentale, o l’avvio di un’altra strategia? Si
avvicinano le elezioni europee, e non ci si può limitare a esprimere preoccupazione per i populismi
antieuropeisti, che rischia di trasformarsi in un inutile lamento. La strategia europea deve
cominciare a prendere coraggiosamente atto che la politica dell’Unione è stata chiusa nella
dimensione economico-finanziaria, amputando del tutto quella dei diritti, affidata alla sua Carta dei
diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
Questo “valore aggiunto” è stato in
questi anni negato ai cittadini europei e ha determinato la progressiva delegittimazione delle
istituzioni. Da qui bisogna ripartire, se il Governo vuole davvero dare un qualche senso al suo
parlare di Europa. Altrimenti si allontanerà ancora di più da una società nella quale sta maturando
un serio movimento che vuole parlare di politica “costituzionale” per l’Europa, così come sta
facendo per l’Italia.
La voce dei cittadini senza demagogia antieuropea deve esser ascoltata perché,
si condivida in tutto o in parte la tesi di Luciano Gallino, è indubbio che sia avvenuto qualcosa che
assomiglia a un colpo di Stato (Il colpo di stato di banche e governi, Einaudi, Torino, 2013). E i
cittadini stanno studiando i modi per rimettere in discussione quel mutamento dell’articolo 81 che si
è voluto sottrarre ad un loro possibile voto. E per sfuggire alla subalternità all’economia, bisogna
riconoscere che la discrezionalità politica deve obbedire ai criteri che, per la ripartizione delle
risorse scarse, sono indicati proprio dalla trama dei diritti fondamentali.
3) La verità è che si è messo in discussione quello che definisco “il diritto all’esistenza”. Divenuti residuali i diritti sociali, rafforzate le diseguaglianze, si è minata la stessa condizione dell’efficienza economica (continua a ricordarcelo Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione, Einaudi, Torino, 2013). Per questo non può essere allontanata, con una mossa infastidita, la questione del reddito minimo (esiste una proposta d’iniziativa popolare anteriore a quella del Movimento 5Stelle). È tema difficile, per il rapporto con le politiche del lavoro e per il reperimento delle risorse necessarie, ma ineludibile. E mi pare utile che, dopo una intemperanza iniziale, Stefano Fassina abbia parlato di un confronto politico su questo tema.
4) Ho citato molti libri. Ma, se dobbiamo uscire dalla profonda regressione culturale che ha reso misera la politica, possiamo farlo senza buone letture?
Cari lettori, vi spiego la camorra
Alexandre Dumas a Gomorra
di ALEXANDRE DUMAS *
Cari lettori, Chi sono i camorristi? mi domanderete. I membri della camorra. Cos’è la camorra? Se foste a Napoli, vi risponderei semplicemente: la camorra è la camorra. Ma siete in Francia, e devo cercare di dirvi cosa essa sia.... La camorra è una specie di società segreta che, come tutte le società segrete, ha finito per diventare una società pubblica... La camorra è l’impunità del furto e dell’omicidio, l’organizzazione dell’ozio, la remunerazione del male, la glorificazione del crimine. La camorra è il solo potere reale al quale Napoli obbedisca. Ferdinando II, Francesco II, Garibaldi, Farini, Nigra, Cialdini, San Martino, La Marmora, tutti costoro non sono che il potere visibile: il vero potere è quello nascosto, la camorra.
Ogni prefetto di polizia che cerchi di agire a Napoli senza la camorra è condannato in anticipo a cadere nell’arco di quindici giorni: negli ultimi quindici mesi, Napoli ha avuto dieci prefetti di polizia e sette luogotenenti generali. Ma quanti camorristi ci sono a Napoli? mi domanderete. È come chiedere quanti ciottoli ci sono sulla spiaggia di Dieppe. Dire da quindici a trentamila non è dir troppo. Da quali segni visibili li si riconosce? Dai loro abiti di velluto a colori sgargianti, dalla loro cravatta chiara, dalle catene degli orologi incrociate in tutti i sensi sul panciotto cangiante, dalle loro dita cariche di anelli fino all’ultima falange, e dai lunghi bastoni di rattan. Il camorrista un po’ agiato presta su pegno alla giornata. Tutte quelle catene, quegli anelli, quei gioielli che gli brillano addosso, sono pegni che restituisce lealmente se il prestito gli viene puntualmente restituito nel giorno stabilito, ma che trattiene se il debitore ritarda. Il camorrista è un monte di pietà vivente. [...]
La camorra, come la Santa Vehme tedesca, ha un proprio tribunale invisibile che giudica e condanna, sia gli stranieri che potrebbero nuocerle, sia i propri membri che non mantengono gli impegni presi al momento della loro iniziazione. Ha tre gradi di punizione: la bastonata, lo sfregio o colpo di rasoio, la coltellata. Con la bastonata si è costretti a letto per quindici giorni, con lo sfregio si resta segnati a vita; la coltellata uccide. Nelle nostre antiche commedie si dice per ridere: "Ti darò una scarica di bastonate", e non le si danno mai. Nelle province meridionali, lo scherzo è più lugubre; dicono: "Ti darò una coltellata", e la danno. A Napoli, l’omicidio è un semplice gesto. E non è stato mai punito con la morte: il boia rovinerebbe la municipalità.
Napoli, 14 marzo 1862
Diamo ora un’idea dell’estensione che ha preso la camorra. Salite su una vettura a noleggio; un uomo che non conoscete e che sembra un amico del cocchiere sale a cassetta con lui. È un camorrista. Il cocchiere gli deve e gli darà il decimo di quanto riceverà da voi, senza essersi dato altra pena che quella di farsi portare in giro sedendo a cassetta, mentre voi vi fate portare in giro in carrozza. Un venditore di frutta entra a Napoli; un camorrista lo aspetta alla barriera, compra la frutta e la valuta: il venditore di meloni, di fichi, di pesche, di pere, di mele o d’uva gli deve il decimo del valore stimato. Napoli, che fece una rivoluzione con Masaniello per non pagare la tassa imposta dal duca d’Arcos sulla frutta, non ha mai pensato di rivoltarsi contro i camorristi [...].
La camorra preleva un diritto su ogni cosa: sulle barche, sulle merci alla dogana, sulle fabbriche, sui caffè, sulle case di tolleranza, sui giochi di carte. Oggi che ci sono i giornali, i suoi diritti si estendono anche a quelli. A Napoli cento chioschi sono rimasti sfitti perché il proprietario non ha potuto mettersi d’accordo con i camorristi: nessuno osa affittare. Alla camorra non sfugge niente, e tuttavia, qual è il re che le ha concesso questa facoltà? Nessuno. [...]
Napoli, 18 marzo 1862
Il denaro della camorra serve anzitutto: a pagare la polizia che la protegge; poi gli ufficiali superiori della camorra che stanno in galera; i capi, secondo il grado che occupano; e prima di tutti, immediatamente dopo la polizia, il generale che riceve quattro parti; i capi camorristi di tutti i quartieri ricevono due parti; i camorristi comuni una parte. L’apprendista camorrista riceve, invece che un grano per carlino, un grano per ducato, finché non viene nominato camorrista proprietario. Ma per arrivare a questo brevetto d’onore deve sottoporsi a una prova. Deve battersi al coltello con il capo. Se questi rimane contento di lui nel duello, scrive al generale che il tal camorrista è degno della sua benevolenza e che crede di poterglielo presentare come meritevole del titolo di camorrista proprietario. Il generale, a seguito di questa presentazione, scrive ai capi del quartiere al quale appartiene l’apprendista camorrista: "Potete accettare come camorrista il tale...".
Il giorno in cui l’apprendista è accolto come camorrista proprietario è obbligato a prestare giuramento in presenza di tutta la società. Dopo tutti i camorristi mettono mano ai coltelli, li pongono in croce sopra un crocifisso e dichiarano che chiunque tradirà la camorra sarà messo a morte, senza che la polizia abbia nulla da ridire. Fatto il giuramento, fatta quella minaccia, tutti si abbracciano e vanno a pranzo insieme: ma, dal momento che queste assemblee riuniscono solitamente almeno tremila persone, il nuovo camorrista è ammesso al tavolo dei capi immediatamente dopo il generale, gli altri si sparpagliano nella campagna.
L’indomani dell’ammissione il camorrista va presso il commissario del quartiere e, presentatosi a lui, pronuncia le seguenti parole di rito: "Ecco un nuovo operaio che ha ricevuto la proprietà". Quindi il nuovo camorrista dà dieci piastre al commissario del quartiere. Da parte sua il commissario del quartiere avvisa il prefetto di polizia che nel quartiere è stata fatta una nuova nomina. La camorra, per assicurare al nuovo camorrista la protezione del prefetto di polizia, gli dona entro un mese una polizza di cento ducati.
Napoli, 21 marzo 1862
Traduzione David Scaffei. © 2012 Donzelli editore, Roma
* la Repubblicca, 09 dicembre 2012
’’Successe già così negli anni ’90 a Villa Literno’’
Strage Castel Volturno, Saviano: ’’La camorra ha voluto riprendersi il territorio’’
Lo scrittore: ’’E’ come se avesse detto loro ’non è più un territorio dove vi autorizziamo a vivere" . Camorra, Maroni: "In atto guerra civile". La Russa: ’’E’ una lotta tra bande’’
Roma, 25 set. - (Adnkronos) - "Con la strage di Castel Volturno la camorra ha voluto dare un messaggio alle organizzazioni criminali africane, è come se avesse detto loro ’non è più un territorio dove vi autorizziamo a vivere". Cosi’ lo scrittore Roberto Saviano, autore di ’Gomorra’, ha commentato la strage di nigeriani compiuta dalla camorra a Castel Volturno nei giorni scorsi intervenendo al dibattito con Suketu Meta, autore di ’Maximum city’ nell’ambito del World Social Summit, in corso a Roma.
"I padri comboniani - ha proseguito - hanno detto una cosa incredibile che non ha suscitato pero’ nessuna reazione e nessun commento, e cioe’ che se la camorra vuole in una settimana vanno via tutti i nigeriani da Castel Volturno, nonostante polizia e carabinieri".
Lo scrittore ha ricordato che "successe già così negli anni ’90 a Villa Literno. La questione degli spazi e’ fondamentale per la gestione criminale del territorio, ma mi ha fatto riflettere che dopo la morte di questi ragazzi innocenti gli africani sono insorti - ha sottolineato Saviano in merito alla strage di Castel Volturno - e invece quando c’è stato il massacro di ragazzi a Scampia soltanto 3 anni prima nessuno ha fatto quello che hanno avuto il coraggio di fare questi ragazzi africani. La giustificazione che trova la gente della comunità locale sta in una risposta falsa: la paura. La giustificazione della paura per non fare nulla diventa passepartout generale per fermarsi e giustificare il proprio immobilismo".
Maroni: "Guerra civile della camorra
lo Stato deve rispondere con ogni mezzo"
ROMA - Siamo di fronte a una "guerra civile che la camorra ha dichiarato allo Stato e questo deve rispondere con tutti i mezzi". Lo ha detto il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, nel corso della sua audizione a Palazzo Madama.
L’eccidio di Castelvolturno, ha aggiunto il titolare del Viminale, "è stato un atto di autentico terrorismo con cui la camorra ha voluto ribadire il controllo del territorio, lanciando un segnale allo Stato" e "per diffondere terrore" tra la popolazione con la morte in due agguati camorristici di sette persone lo scorso 18 settembre.
Per questo motivo, ha continuato Maroni, "il Consiglio dei ministri di ieri ha approvato un decreto legge con nuove misure urgenti per il contrasto alla criminalità organizzata e all’immigrazione clandestina con il quale si dispone tra l’altro l’invio di 500 militari nelle aree dove di ritiene necessario assicurare un più efficace controllo dei territori particolarmente colpiti da fenomeni di emergenza criminale".
Maroni ha anche lanciato un appello al parlamento per "studiare, assieme al governo, le iniziative necessarie per la riduzione dei benefici carcerari a tutti coloro che sono accusati di reati di mafia". Nel solo comune di Castelvolturno, ha sottolineato Maroni, sono ben 118 le persone agli arresti domiciliari e ciò rende difficili i controlli.
"Sulla vicenda di Alfonso Cesarano, l’uomo agli arresti domiciliari ritenuto uno degli autori della strage dello scorso 18 settembre - ha spiegato Maroni - ci sono state accuse ingenerose alle forze di polizia adombrando una mancanza di controllo nei confronti di questo spietato killer. Io dò il pieno apprezzamento alle forze del’ordine. E’ - ha aggiunto - difficile operare in quell’area. A Castelvolturno ci sono due stazioni di carabinieri che vigilano anche su coloro che sono ai domiciliari, con 17 ispezioni al giorno. Ma nel solo Castelvolturno sono 118 le persone ai domiciliari; è quindi evidente che la concessione di questi benefici ad un numero spropositato di persone rende difficile il controllo".
* la Repubblica, 24 settembre 2008.
Si aggrava il bilancio dell’agguato a Castelvolturno: muore uno dei ricoverati
Perquisizioni e interrogatori. Per gli inquirenti è stata un’azione punitiva
Strage nel Casertano, un altro morto
"Non volevano pagare tangenti ai Casalesi"
CASERTA - Volevano spacciare nella terra dei Casalesi senza pagare la tangente al clan. Per gli investigatori non ci sono altre spiegazioni alla strage di extracomunitari ieri sera nel Casertano. Una feroce "punizione" contro chi non voleva rispettare le regole imposte dalle cosche.
Il bilancio di morte si è aggravato: sette le vittime in due agguati. Sei le vittime della mattanza di Castelvolturno: tre ghanesi, un liberiano e un immigrato del Togo morti sul posto; un altro liberiano morto stamane in ospedale. Resta in gravi condizioni un altro straniero. E poi c’è il titolare della sala giochi di Baia Verde, massacrato con venti colpi di mitraglietta 20 minuti prima dell’esecuzione degli immigrati. "Due episodi collegati", ripetono le forze dell’ordine.
All’alba, agenti del commissariato di Castelvolturno e della Squadra Mobile di Caserta hanno perquisito le case di parecchi spacciatori d’origine africana e interrogato alcuni pregiudicati affiliati al clan dei Casalesi, "padroni" nella zona dove spacciavano gli extracomunitari uccisi la scorsa notte. Nessun fermo finora, ma le indagini puntano dritto verso il clan egemone nel Casertano.
I killer hanno sparato cento colpi: una pioggia di piombo contro il nuovo clan degli immigrati. I sicari indossavano i giubbetti dei carabinieri. Sono piombati dentro la sartoria retta dagli extracomunitari intorno alle nove e mezza di sera e hanno sparato con kalashnikov e pistole calibro 9. Non hanno lasciato scampo neppure a un giovane di colore che era a bordo di un’auto ferma lì vicino: i carabinieri lo hanno trovato ancora seduto al volante, la cintura di sicurezza ancora allacciata.
"Noi con la camorra non c’entriamo niente, lavoriamo dalla mattina alla sera", si disperano gli amici delle vittime. Davanti al negozio Ob Ob exotic Fashions, teatro dell’agguato, c’è anche lo zio di una delle vittime. Steven, ghanese, fa il giardiniere: "Mio nipote Giulios non ha mai fatto nulla di male", dice mostrando le mani indurite dalla fatica per dimostrare che "noi non siamo camorristi". Gli fa eco Cristopher, 28 anni. Lui conosceva Alaji, 28 anni, anche lui ucciso. "Era alla macchina da cucire quando è stato ammazzato", racconta Cristopher. "La camorra? Forse cercavano qualcun altro ma non i nostri amici".
Poco prima, i sicari erano passati dalla sala giochi in via Giorgio Vasari a Baia Verde. Avevano il volto coperto, erano armati di pistole. Hanno esploso 20 colpi contro il titolare del locale, Antonio Celiento, 53 anni, ritenuto affiliato al clan degli Schiavone. Era solo; l’hanno centrato all’addome e alla testa. E’ morto poco dopo in ospedale senza più riprendere coscienza.
* la Repubblica, 19 settembre 2008
Immigrazione, l’Italia finirà davanti alla Corte di giustizia
La Ue: sicurezza, ricongiungimenti, rifugiati, tutto da riscrivere
Clandestinità, ieri la prima impugnazione per incostituzionalità
di Paolo Soldini (l’Unità, 19.09.2008)
TUTTO SBAGLIATO, tutto da rifare, come diceva Gino Bartali. Ma non c’è purtroppo da scherzare: l’intera legislazione italiana sugli stranieri dell’era Maroni è contraria alla normativa europea. L’Italia, per l’Europa, è fuori legge. È illegale non solo il decreto del cosiddetto «pacchetto sicurezza» con la norma che prevede come aggravante di reato la condizione di clandestinità (norma palesemente contraria anche alla Costituzione italiana e da parte di un giudice, ieri, c’è stata la prima impugnazione), ma lo sono anche i tre decreti legislativi di attuazione delle direttive comunitarie fatti ingoiare dal governo al parlamento. Se non verranno cambiati l’Italia finirà dritta dritta sui banchi degli accusati alla Corte di Giustizia. È vero che sono molte le procedure di infrazione adottate dalla Commissione Ue contro le autorità italiane (fra le più recenti: legge Gasparri, rifiuti a Napoli, progetto del il ponte di Messina), ma non è mai accaduto, finora, che uno stato membro si sia dovuto difendere davanti ai massimi giudici europei dall’accusa di aver violato diritti fondamentali delle persone.
A questo punto se Berlusconi e il suo incauto ministro dell’Interno tengono duro e si fanno deferire alla Corte mettono in conto una sentenza sicuramente negativa. Se poi non la rispettano, rischiano pesanti sanzioni pecuniarie da parte della Commissione. Ma, soprattutto, espongono il Paese al ludibrio. L’alternativa è che gli inquilini di Palazzo Chigi e del Viminale facciano macchina indietro tutta, accettino le osservazioni di Bruxelles e smantellino i provvedimenti con cui si presentarono agli italiani, mesi fa, spacciando la propria pietosa insipienza per una impietosa "tolleranza zero". La precipitosa marcia indietro di Maroni sulle impronte dei piccoli rom, l’assicurazione che le norme in materia di sicurezza sarebbero state inviate al Barleymont per un «esame preventivo» e una confusa promessa di «tenere aperti i tempi» dell’attuazione delle direttive lascerebbero pensare che ci si avvii per la seconda strada. Ma se è così, il ministro leghista e tutto il governo dovranno pagare un prezzo altissimo. Sarà come confessare che nei mesi scorsi si è fatta solo demagogia.
Una specie di legge del contrappasso ha fatto sì che la mazzata sul capo del ministro italiano sia venuta proprio dall’uomo che aveva cercato, nei giorni scorsi, di salvargli la faccia. Sono stati infatti i servizi del commissario alla Giustizia Jacques Barrot a spiegare nei dettagli tecnici che cosa intendeva il loro capo quando sosteneva che le nuove norme italiane abbisognavano ancora di qualche «correzione». Vediamo qualcuna delle obiezioni.
1) Le modifiche apportate dal governo Berlusconi al decreto legislativo del febbraio 2007 che recepiva la direttiva Ue 2004/38 sulla libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari sono illegittime sotto vari aspetti: tra l’altro, l’introduzione di termini temporali, l’allontanamento in base a criteri di «pericolosità sociale» e la detenzione di cittadini comunitari nei centri di identificazione.
2) Vanno riscritte anche le norme, introdotte con modifica del decreto di attuazione della direttiva 2005/85 sulle procedure per il riconoscimento e la revoca dello status di rifugiato. Procedure - dicono tra l’altro i servizi europei - caratterizzate da un inaccettabile pregiudizio di diffidenza.
3) Tutte sbagliate, infine, le norme introdotte da Maroni in materia di ricongiungimenti familiari. Per il diritto comunitario è inammissibile stabilire un’età minima per il coniuge che si voglia ricongiungere, è illecito (oltre che odioso) escludere gli invalidi e i figli maggiorenni che non provino il possesso di risorse proprie.
Si tratta solo di qualche esempio. Ma basta a far comprendere come la legislazione maronesca abbia bisogno di ben altro che di qualche «correzione». I decreti, che ora come ora sono legge dello Stato, andranno riscritti dalla prima all’ultima parola. Oppure resteremo i fuorilegge dell’Europa.