QUALE MISSIONE PER GLI ARCHITETTI?
Se ne discute in questi giorni al congresso mondiale e se ne parlerà alla Biennale di Venezia. Intanto c’è chi chiede alla categoria di progettare edifici tenendo conto della vita delle persone
Se l’architettura fabbricasse felicità
In questa disciplina che è una questione pubblica, si gioca più che in altri spazi la questione della democrazia
di Franco La Cecla (l’Unità, 02.07.2008)
Perché dobbiamo continuare ad accettare un ambiente costruito che una corporazione di professionisti preoccupati solo del proprio successo ci impongono come dato di fatto? È divertente che questi stessi professionisti di fronte ad una critica del loro monopolio scarichino le colpe sui politici, in una ideologia saporitamente post-sinistrese. Ma certo sono i politici ad avere la colpa di tutto! Peccato che qualcuno come Foucault, Illich o perfino Negri da anni ci abbia spiegato che il potere non esiste oggi senza la sua articolazione in monopoli professionali dei beni e dei servizi.
Il cittadino oggi è non solo sottoposto a regimi polizieschi, ad una idea dello spazio pubblico come luogo del controllo da parte del grande fratello, ma lo spazio della città, è tutto complicemente costruito per assecondare questa tendenza. Architetti, Ingegneri, Pianificatori sono molto lesti a mettersi dalla parte del controllo e dello status quo.
Gli spazi della città vengono ridotti a vetrinizzazione e boutique, la dignità dei mercati viene ridotta a shopping mall, e si usa la scusa della emergenza residenziale (emergenza discutibile, visto il patrimonio italiano di stanze vuote e di case dimesse) per lanciare una nuova ondata di periferie, di housing concepito come condanna del centro (o sua destinazione a funzioni da straricchi) decostruzione della città e delle sue occasioni.
Gli architetti sono una chiave fondamentale di quello che sta accadendo nel mondo, proprio perché si nascondono dietro ad una facciata da artisti senza responsabilità. Invece essi hanno una influenza enorme nella costruzione del mondo urbano e rurale come si sta costituendo in questi anni, in Italia come in Cina, come in Africa o in India. Proprio perché il pensiero e la modellistica degli architetti ha influenza sul sistema di valori immobiliari e disciplinari. Oggi gli architetti superstar o no che siano sono direttamente in causa nella espropriazione dei cittadini del potere normale sullo spazio delle proprie vite. È inutile che si nascondano dietro cortine di velluto e si autorappresentino oggi come imbarazzate vestali costrette a lavorare per clienti rapaci. Un capovolgimento della loro professione, del loro ruolo è quantomai auspicabile, ma non è semplice come essi vorrebbero presentarlo. Gli architetti dovrebbero diventare un sindacato della felicità dei cittadini, o almeno dei professionisti che si battano per il benessere dei cittadini nel loro spazio di vita.
L’architettura è una questione squisitamente pubblica e quindi in essa si gioca più visibilmente che in altri spazi la questione della democrazia. Corporazioni professionali più attrezzate e reazionarie di quelle degli architetti, come ad esempio i medici, hanno però un cotè di ricerca che in qualche modo, anche se trasversale raggiunge e benefica la popolazione. Ma gli architetti? Queli strumenti hanno elaborato di ricerca negli ultimi vent’anni che hanno realmente contribuito a migliorare la vita quotidiana? Le case vengono costruite oggi peggio di cinquant’anni fa e la grande rivoluzione della bioedilizia sta arrivando a seguito della crisi energetica e non certo grazie alle spinte della corporazione architettonica. Gli strumenti di lettura, di analisi, di ascolto della città non si sono rinnovati negli ultimi trent’anni e oggi l’urbanistica è una disciplina arida che non racconta nulla della vita di cui vivono le città. Catastrofe urbana e catastrofe ambientale vanno di pari passo.
Oggi gli architetti e gli urbanisti sono talmente ignavi che non intervengono in una questione come quella dei campi nomadi e rom, come se non fossero stati loro ad inventare questa soluzione balzana per un paese balzano come l’Italia. Quello che è avvenuto alle professioni del progetto è in qualche modo scandaloso. È vero che come tutte le professioni queste sono soggette a fare i conti con la realtà, con i clienti, con il potere del denaro e del mercato, ma come tutte le professioni consentono spazi di dissenso, anti-corporazioni che rinnovino la disciplina e la riconducano ad un etica pubblica.
In California si è costituita da qualche anno «Public Architecture» un sindacato degli architetti eticamente responsabili che ha chiesto a tutti gli studi di architettura del paese di fornire l’un percento del proprio lavoro gratis per progetti pubblici (sembra poco, ma invece è molto, visto che hanno risposto un migliaio di studi). Così sono sorti progetti di centri per handicappati, di case provvisorie e di «alberghi diurni» per lavoratori immigrati e saltuari. Oggi un appello al ritorno all’etica e alla deontologia per le professioni del progetto è lanciato non da pazzi surrealisti, ma dai maggiori critici e storici dell’architettura, da Joseph Rykwert, a Kenneth Frampoton, a Curtis.
Solo in Italia gli architetti possono permettersi di pontificare, come se fossero dei politici frustrati, e di non rispondere del proprio lavoro. Fuksas continua a dare ricette al paese, ma non risponde sul disastro provocato a Porta Palazzo, Aldo Aymonino ignora il disastro provocato a danno delle chiese etiopi coperte in maniera vergognosa dalle sue tettoie «architettoniche» che ne hanno accelerato il degrado spendendo cifre vertiginose che avrebbero sfamato l’intera regione.
Non si tratta di fare il processo agli architetti, si tratta però di farli finalmente parlare dello specifico del loro lavoro di cui devono rispondere ai cittadini. Oggi non esiste da nessuna parte un lavoro sulla fortuna di certe opere architettoniche. Gli architetti si sbarazzano dell’opera alla consegna, e non ne sono più responsabili, mentre è allora che l’opera entra nella sua funzione pubblica. Cosa sono le case, le università, gli edifici pubblici, i musei di Gregotti, Purini, Gehry, Zaha Adid, Fuksas, Nouvel, e compagnia bella conosciuta e sconosciuta che sia dopo dieci, vent’anni? Come vivono i cittadini e gli abitanti negli edifici che si sono dovuti sorbire? È possibile che una questione così seria come l’ambiente costruito debba restare tutta nelle mani di questi gigioni delle forme, di questi irresponsabili cronici? O possiamo cominciare a svegliarci e a chiedere qualcosa di più per le nostre citta?
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Carta urbana europea II - Manifesto per una nuova urbanità (con file allegati)
La casa o, l’itinerario di tutti i viventi
di Mauro Garofalo (Il Sole-24 Ore, nòva, 13 maggio 2021).
E su cosa sia la casa. Se queste quattro mura che ci hanno accolto, distratto, fatto sognare, i mostri, il cuore. Su cosa sia il concetto che ci lega a uno spazio, la fatica, il rumore, l’assorto silenzio della concentrazione. Le quattro mura entro le quali abbiamo atteso passasse la pandemia globale, inimmaginabile, un virus mortale: all’inizio intimoriti, poi soffusi, infine passati al contrattacco della risoluzione. L’abitazione che ci permette di essere ciò che siamo. Amare, distruggere, piangere, rinascere.
Con La casa vivente (add editore, 14 euro) Andrea Staid - docente di antropologia culturale e visuale presso la NABA di Milano, direttore della biblioteca/antropologia Meltemi editore e co-direttore di Field work-travel writing Milieu edizioni - trasferitosi a vivere da qualche anno sui monti della Liguria, ci consegna una riflessione e uno slancio che fa il paio con una delle domande-chiave di questo inizio millennio: cosa è, casa?
Per alcuni persone, per altri memorie, il passato che preme, la viralità da cui ci si protegge eppure quanto abbiamo faticato in era pandemica a restare uniti, tenerci per mano, re-inventandoci una quotidianità infranta.
De-quotidianizzazione e disabitudine. Allo stesso tempo, rilancio, opportunità. Perché, ci dice l’autore, una casa è prima di tutto un piano di scivolo, una sopraelevata sulle esistenze.
L’antropologo è andato in giro per il mondo, poiché la prima regola per chi scopre è sempre la stessa, cammino dunque penso: Sudest asiatico, dalla Thailandia fino al Laos, visitando Myanmar, Vietnam, Cambogia, Cina, India, Nepal, Mongolia.
In ognuno di questi posti Staid sofferma e schiude un uscio, che è soglia e habitat, dunque habitus, abitudine. In ogni luogo del mondo la casa è un coefficiente diverso e pure sempre uguale, l’uomo per gli antropologi è tutto nel senso morfologico, fisiologico, psicologico delle vite troppo spesso ridotte, inscatolate dentro lamine e muri, tessere di un domino che non riusciamo a smorzare. La casa-prigione in cui viviamo in occidente.
Il punto è la natura umana. Il genio, il nucleo tematico, il fuoco attorno al quale Staid costruisce la sua analisi è quel che tutti avvertiamo in questo momento senza sapere che non siamo soli.
La caverna di Platone, le ombre lì fuori spaventano, spettri di asocialità e perdita ci attraversano, in fondo alla galleria il freddo si è insinuato nelle ossa. Scegliamo meno, vediamo poco il futuro, non riconosciamo più l’altro come alternativo, di fronte, ma piuttosto siamo tornati primigeni, l’altra riva, rivus, il rivale, lo straniero, l’estraneo, siamo straniti noi stessi, rinchiusi e disabituati a una vita che non è più.
Per questo occorre ripartire dalla, casa. Palafitta, villa con giardino, rurale, appartamento in città, squat, case galleggianti. Questo di Staid è un inno alla scoperta: “il nostro modo di abitare è una costruzione simbolica che orienta le scelte, plasma i gesti, influenza i linguaggi, così come accade nelle relazioni con lo spazio che condividiamo non solo con altri esseri umani, ma anche con gli animali e le piante. La casa è un luogo di produzione e di consumo in cui si articolano sia le dimensioni del privato sia del pubblico esprimendo in maniera pregnante le relazioni fra il luogo in cui si vive e le persone che ci vivono”, scrive l’autore. Ed è lapalissiano e stimolante riscoprire.
Su cosa sia il linguaggio che codifichiamo quando siamo ‘dentro’, e come quello stesso linguaggio lo portiamo all’esterno, nella comunicazione che ci porta al mondo, nel lessico che costruiamo per edificare pensieri, relazioni, volti a cui attribuire voci. Il nome con cui gli altri ci chiamano, la persona-casa che siamo.
Tornare a costruire, tetti, l’uso delle mani, matericità e pensiero, contro la caducità dell’istante capitalistico, effimero per definizione: il capitalismo - talis capus, “voglio” proprio quella cosa là, spasmodicamente, ne determino un prezzo - il capitalismo massimizza l’istante, pensa al breve periodo. Forse è questo il criterio che ci suggerisce l’antropologia ai tempi dell’antropocene. Se casa è dove sono, l’essere si auto-determina per durata, il vincolo della media dei giorni di cui parlava pure Robert Musil.
Coniugando il Terzo Paesaggio di Gilles Clément, maestro giardiniere, urbanista delle erbe vagabonde, alle nuove tendenze critiche di autrici affermate come Donna Haraway, Staid restringendo il campo semantico allarga il criterio delle competenze necessarie all’uomo che voglia oltrevivere questo istante temporale, riappropriarsi delle forme-futuro: “All’omogeneità, le città del futuro dovranno sostituire la ricchezza della diversità in tutte le sue forme; le superfici organiche dovranno invadere, colonizzare, riconquistare quelle minerali, creando varchi per la varietà della vita“.
Un equilibrio naturale che va ricalibrato, destrutturato, l’uomo per essere necessario a se stesso, innescare l’adattamento a un presente continuo in trasformazione - comunque - non deve far altro che accettare la sua morfologia, la mistura di codici e realizzazioni che lo mettono emblematicamente sullo stesso campo di terra e sogni di ogni altro essere vivente. Lasciando la questione del potere, intralcio alla natura dell’uomo, l’autore suggerisce un ri-equilibrio in favore, uno spossessamento, una devincolizzazione dei propri attributi in favore della casa. Dove viviamo, ciò che ci accoglie, il progetto stesso di un futuro sconosciuto. Quando cambiamo casa, non stiamo forse spostando in avanti le lancette del tempo immaginandoci tutte le cose che faremo, i posti che visiteremo, il modo in cui cambieremo noi stessi per mezzo, e attraverso, quella rimodulazione dello spazio - un pavimento, i piatti, il colore delle pareti, le posate, i bicchieri, la novità insita nel quotidiano, se solo sapessimo vederla: le izbe russe, i minka giapponesi, così i tolou cinesi e i tolek africani, sinonimi tutti dell’abitare.
Che casa siamo?, ci domanda in tralice il testo: sei una casa-pietra o una casa-acqua, un rifugio di montagna, una villa con piscina, palafitte sull’oceano, tende e campeggi, siamo case mobili, o sabbie su crinale, mattoni o cemento armato?
Usciamo dunque, “fuori”: usciamo anche dal mito del progresso ci suggerisce l’autore, il velo di Iside si è alzato, la narrazione che occorre, o di che materia siano i sogni, l’auto-costruzione del sé.
La determinazione che occorre per formarsi, poiché ogni forma porta in sé parte del contenuto.
E’ dunque un percorso di scoperta, quello della casa, un itinerario dei viventi. Non a caso, òikos in greco significava casa ed ecologia. La via è evidente, basta solo imboccare il sentiero ci dice ne La casa vivente Andrea Staid.
Fare casa, ri-conoscere i luoghi
di Rebecca Rovoletto (Comune-info, 04 Maggio 2021)
Inoltrarsi nel nuovo libro di Andrea Staid (*), La casa vivente [1], è un po’ come aprire la porta della cucina ed essere investiti dal profumo di pane appena sfornato. E allora ti blocchi un attimo, perché quello che stai sperimentando ha radici ancestrali, sta risvegliando memorie non già del passato, ma del tuo essere profondo. Quell’essere bipede e arguto che ha camminato sul pianeta con competenza di specie, con immaginazione e abilità, occhieggia sulla soglia. Dov’è finito quell’uomo? E che senso ha parlarne ora?
Allo scoppio dell’emergenza sanitaria è ritornato imperioso il tema della casa, della città, delle “aree interne”, in una parola: dell’abitare. In effetti, le crepe sistemiche intorno al disagio abitativo si sono aperte in voragini. Tutti ne parlano dalle rispettive posizioni. Raramente, tuttavia, prima di porsi domande sul “come/dove abitare”, ci si interroga sul “chi abita”. L’auspicata attitudine maieutica che, secondo Louis Kahn, dovrebbe accompagnare la riflessione sull’architettura (e il suo farsi) appare diffusamente ingessata: incapace di porsi domande sull’uomo, artefice e destinatario dell’architettura stessa, sulla sua ontogenesi e il suo posto ecologico, prima che sulle soluzioni tecniche e tecnologiche.
Per questo, anche nel campo delle trasformazioni antropiche dell’ambiente (domestico, urbano, rurale) trovo fondamentale lo sguardo etnoantropologico. Il testo di Staid - il cui titolo indica il compimento di un lungo percorso intellettuale e personale che lo conduce all’autocostruzione della propria casa - è denso di argomenti e riferimenti, non mancando mai di scorrevolezza e chiarezza.
Il punto di partenza è il suo lavoro sul campo come antropologo, che lo porta in giro per il globo - dall’Europa al Medioriente, dal Laos al Perù, dal Vietnam alla Mongolia - a contatto con culture native e modi diversi di stare nel mondo e di relazionarsi ad esso [2]. Da qui l’incontro con quelle che (noi) chiamiamo architetture vernacolari, o meglio spontanee. Da qui la comprensione che fare casa (non avere casa) è un’azione naturale, come ogni altra capacità umana di rispondere a un bisogno primario.
Ma qual è questo “bisogno primario”? Certo, la necessità di un riparo, di un luogo protetto. Ma dovremmo riconsiderare la molteplicità di significati che la casa rende espliciti: la casa come cellula base situata di organizzazione sociale; la casa come luogo di relazione e autopercezione; la casa come camera di condensazione di funzioni simboliche ed esistenziali, come “dispositivo cognitivo” (citando Matteo Meschiari, p. 73), espressione della capacità di “dare coesione spirituale ai bisogni materiali e psicologici di chi la abita” (p. 44) [3].
Lo sguardo etnoantropologico (dell’altro-altrove) ed evoluzionistico (del tempo profondo) funge da specchio: “serve a ripercorrere le origini degli edifici contemporanei, così come a comprendere perché spesso non rispondono più ai nostri bisogni” (p.51). Allo stesso modo, rispecchiarci in altre culture (le più altre possibili, come quelle indigene) serve a “spaesarci”, a guardarci con i loro occhi, a decolonizzare il nostro immaginario, lasciandolo libero di creare possibilità, e a relativizzare la nostra postura monodimensionale antropocentrica.
La decolonizzazione riguarda anche l’immaginario del progetto e la postura del progettista, comunemente inteso. Esiste un approccio al processo progettuale e costruttivo condiviso e aperto alle variabili, che segue il naturale evolvere e divenire delle relazioni: giacché progettare è prima di tutto un fatto relazionale e nelle relazioni serve empatia. Nel caso di altre culture, tocchiamo con mano visioni spesso ribaltate sul significato di dimora e pratiche abitative, sui processi costruttivi e l’utilizzo dei materiali, sul rapporto dentro/fuori e di condivisione di spazio e tempo, sul confluire di domestico e sociale.
Queste prospettive - nel loro concepirsi in termini di compartecipazione di comunità multispecifiche, in termini di condivisione dei luoghi e dei gesti quotidiani - non pongono a critica soltanto il concetto di casa-macchina di Le Corbusier, ma anche quello di terza pelle di Karl Ernst Lotz, se lo intendiamo come ulteriore strato di separazione/esclusione, anziché come la “meta-persona che cura, nutre e si occupa dei suoi abitanti” (p. 46), come la membrana osmotica che comunica e interagisce con l’esterno. .Ecco che, allora, si possono risignificare anche il paesaggio e le regole diplomatiche di un territorio densamente condiviso: il giardino, l’orto, il fuori dell’alterità non è che un’altra “stanza” della casa, dice Staid, con cui entrare in dialogo, nel rispetto del suo essere non-domestica, e in cui sperimentare dialetticamente “l’abitare e l’andare” (citando Franco Remotti, p. 22) [4].
Bello, ma cosa fare in pratica? Staid ci spiega che risignificare, sulla base di queste visuali, ha proprio lo scopo di suggerire applicazioni pratiche: non si tratta di riproporre tout court qui, oggi, sistemi costruttivi a noi alieni nel tempo o nelle geografie, bensì di “ibridare” le conoscenze attuali recuperando quelle tradizionali (che sono ancora molto vive in altre culture). Ma soprattutto mutare l’approccio da muscolare a cooperativo, dove la cooperazione non attiene solo alla comunità umana ma a tutto il vivente da cui attingiamo le risorse. E, in quest’ottica, ri-sperimentare competenze che ci appartengono da sempre: l’autocostruzione familiare è “innata”, un tratto adattivo di specie, abbiamo sempre costruito fino a soli due secoli fa.
L’autore ci ricorda che prima della Rivoluzione industriale conoscevamo i luoghi, gli agenti naturali, i cicli vitali e quelli stagionali; conoscevamo i materiali e le tecniche; sapevamo quando e come dare il tempo agli ecosistemi di rigenerarsi; sapevamo che la casa è un “organismo” che può essere sano e può ammalarsi, che pertanto è in un processo costante di mutamenti. Si tratta di ricomporre la frattura tra costruire e abitare prodotta dal neoliberismo, dal suo rendere la casa una merce di scambio anziché un bene d’uso, dalla sua invenzione di “esperti” e di gabbie burocratico-normative che inibiscono il nostro saper fare. Per Franco La Cecla (citato a p. 94) [5], quando ci viene impedito di modellare i nostri spazi, si parla addirittura di “lobotomizzazione”, laddove veniamo deprivati di una parte cognitiva della nostra “mente locale” che, nel suo compenetrare l’ambiente, ci garantisce competenze essenziali.
Il testo propone esempi molto concreti in questa direzione, sia all’estero che in Italia. Qui, le esperienze nate in centro Italia dopo il sisma del 2016, sono particolarmente significative: come il caso dell’associazione A.R.I.A. Familiare che ha avviato cantieri in autocostruzione dove “(...) architetti, ingegneri, progettisti, artigiani, donne e uomini che insieme hanno pensato di dare una risposta reale” (p. 75). Soluzioni ecologiche e rigenerative, fuori dalle logiche della disaster economy, che diventano pratiche sociali costruite dal basso e che si radicano nel mutuo appoggio e nella condivisione, “come terza logica da affiancare al dono e all’interesse individuale” (p. 131). Tra le faglie divaricate dalla pandemia c’è, infatti, anche quella della socialità, della dimensione collettiva. Nella concezione dell’autore la casa è proprio questo: un nodo attorno cui costruire il collettivo. Ecco un altro punto cruciale del saggio: slegare l’ecologia dal sociale è “uno specchio per le allodole esattamente come la green economy” (p. 99).
Molti esempi riguardano anche le nostre abitudini quotidiane di consapevolezza e gestione dei consumi, degli spostamenti, dei rifiuti, dell’autoproduzione del nostro cibo e beni di necessità; prevedendo anche la possibilità di mettere in comune disponibilità (banche del tempo) oppure oggetti e strumenti ad uso collettivo (banche degli oggetti). Come ci insegna la Permacultura: ogni nostro gesto è un processo di cura reciproca, di coesione sociale tra comunità differenti (umane e non). Ma sono parimenti gesti di emancipazione: l’autogestione, l’autoproduzione e l’autocostruzione della propria casa (che non implica rinunciare all’affiancamento di professionisti) ci mettono nella condizione di reimparare a immaginare e a realizzare. Importanti, in questo senso, i riferimenti a Tim Ingold sul potere dell’immaginazione e sull’agency dei materiali e degli oggetti [6].
Soprattutto, Andrea Staid racconta di come ha messo in pratica il suo pensiero e ciò che ha imparato, come ha fatto esperienza in prima persona del suo “fare luogo” sulle colline liguri, in cui autocostruisce e autoproduce, in cui ha scelto di darsi il ritmo e il passo della propria vita: perché la casa “non è solo stare ma anzitutto esserci” (p. 97) e “produrla non è tanto un assemblaggio, quanto una processione” (p.31) un flusso, potremmo dire, di apprendimento continuo e costruzione incessante.
Ripensare l’abitare, come metonimia e pratica del vivere nel vivente - con lo sguardo al passato di specie, con la conoscenza cosmogonica di altre culture, con l’esperienza di altri modi di stare nel mondo (e ripensando criticamente al ruolo spesso connivente degli operatori del costruito) - ci apre alla possibilità di riequilibrare l’impatto antropico sul pianeta, di alleggerire il nostro modo di viverlo e reimmaginare come abitare una casa, una comunità, la terra stessa.
Sin qui, potrebbe essere il racconto di interessanti ricerche e di belle e singolari esperienze. Vorrei sottolineare che non è così: il valore de La casa vivente va in una direzione precisa.
Innanzi tutto perché, spronandoci a ripristinare competenze (almeno) di sussistenza, ci stimola a uscire dall’infantilismo adulto (di cui parla Paul Shepard nel suo Natura e Follia) e dall’assistenzialismo atomizzato cui ci hanno abituati, cronicamente incapaci di provvedere a noi stessi senza un centro commerciale o un “esperto” a portata di mano; incapaci di gratuità e di dono, di riconoscerci parte di una comunità multispecifica in cui praticare cura.
Ma è soprattutto il suo valore di antidoto al catastrofismo, che non è, come molti credono, l’attitudine a guardare in faccia e testimoniare dello stato di collasso in cui siamo entrati: catastrofismo è la cecità nell’immaginare e ricercare possibilità alternative; catastrofismo è rassegnarsi al pessimismo e all’inerzia; è l’ostinato aggrapparsi a un modello di crescita infinita che sta mostrando il suo fallimento; è il rifiuto di praticare modi ecologicamente compatibili di stare al mondo.
Sgombrato il campo dalla visione cinica, nichilista o negazionista, dobbiamo ragionare in termini di sopravvivenza collettiva, perché il pianeta se la cava da solo, in un modo o nell’altro, noi no.
Assieme al collasso ecosistemico, sta crollando la sbornia neoliberista con i suoi miti, tra cui quello del primato della turbo-finanza e dell’iper-tecnologia come uniche risposte ai disastri. Ma non è che un’altra bolla illusoria, un escapismo deresponsabilizzante.
Dobbiamo immaginare in che modo renderci antifragili per affrontare adattamenti inevitabili. Più dipendiamo e più aumenta la nostra vulnerabilità. Siamo una specie estremamente plastica: ci serve ritrovare competenze diffuse, capacità di attivare comunità attraverso modelli di mutualità non gerarchici, di ravvivare il desiderio di ripristinare quella speranza attiva che apre a domani possibili col respiro delle generazioni. Per fortuna c’è chi, come Andrea Staid, pensa e spiega come compiere passi concreti su questo cammino, come “immettere futuro nelle cose che si fanno nel presente”.
[1] La casa vivente. Riparare gli spazi, imparare a costruire, 2021, ADD editore.
[2] Esperienze di cui parla in un altro suo libro Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in occidente, 2017, Milieu edizioni.
[3] M. Meschiari, Disabitare. Antropologia dello spazio domestico, 2018, Meltemi editore.
[4] F. Remotti in AA.VV., Le case dell’uomo. Abitare il mondo, 2016, UTET
[5] F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, 2020, Meltemi editore
[6] T. Ingold, Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura, 2019, Raffaello Cortina editore.
Rebecca Rovoletto è attivista territoriale, architetta e ricercatrice indipendente. Co-fondatrice dell’associazione Ecotòno.
Immaginare mondi, risignificare spazi
Nel suo libro l’antropologo Andrea Staid redige una mappatura dei diversi modi in cui è possibile abitare la Terra, raccontando come la casa del futuro passi dall’ibridazione e non dagli standard urbani occidentali.
di Beatrice La Tella (Futura-Network, 27.04.2021)
In molti idiomi vivere e abitare sono sinonimi, vicini a livello di campo semantico e di concetto. Questa simmetria non esiste nella lingua italiana, e la sua assenza è forse spia di un atteggiamento schizofrenico, comune al pensiero Occidentale, che ha avuto come conseguenze più disagi (quando non disastri) che benefici.
L’antropologo Andrea Staid pubblica il suo La casa vivente per Add Editore, proprio a partire dalla necessità di un decentramento, prospettico e fisico. Il volume si apre non a caso con una brevissima introduzione all’etnografia: non studio egemonico-quantitativo - lo sguardo di superiorità della civiltà (presunta) evoluta che osserva bonariamente società (presunte) arretrate - ma, al contrario, ricerca di stampo qualitativo fondata sullo scambio e il confronto alla pari. Conversando con le più diverse popolazioni nel corso dei suoi viaggi in Asia, Staid si è trovato spesso innanzi a visioni rovesciate delle nostre certezze (un esempio semplice quanto immediato: la paura di dormire con la porta chiusa piuttosto che con la porta aperta). Da questi raffronti è sorta la necessità impellente di rimettere in questione tanto il concetto quanto il potere stesso di abitare.
Occorre partire dall’idea che “la casa è un processo”: dimorare implica una presa in cura, un’azione sempre relazionale e continuativa. L’abitazione è un nodo e sprigiona contemporaneamente esigenze pratiche e funzioni simboliche che si muovono dallo spazio ristretto al paesaggio più ampio. Il modo in cui si occupa un luogo sottende una visione del mondo, una precisa struttura identitaria che non ha una norma fissa. Dimorare in un posto, infatti, non corrisponde necessariamente a stanziarvisi: “Abitare il mondo non vuol dire soltanto radicarsi, ma anche valicare confini”. L’abitare nomade, dunque, non è meno abitare di quello sedentario, anzi, mostra una diversa relazione tra l’uomo e il suo ambiente, dalla quale, sostiene Staid, si può trarre più di una lezione.
Può sembrare strano che si guardi a tende di pelle continuamente assemblate e smontate in mezzo al deserto in termini di futuribilità, eppure, proprio in queste usanze che a chi vive nei nostri condomini sembrano preistoriche, si possono rintracciare i semi di un modo più armonico di popolare il pianeta.
Per l’autore è fondamentale chiamarsi fuori dalla prospettiva industriale occidentale in favore di un approccio ecologista decoloniale. L’atto stesso della costruzione non deve più essere delegato: riappropriarsi dell’abitare significa, innanzitutto, conoscere i luoghi quanto i materiali che consentono l’edificazione e aprirsi inoltre alla possibilità di scoprirne di nuovi e insospettabili. Costruire, d’altronde, è un “atto immaginativo”, non un accumulo di materia inerte ma un’azione artigiana itinerante, ogni volta diversa, adattiva, che non può avere modelli prestampati cui obbedire ciecamente. La materia stessa è stata erroneamente avvertita nei secoli come passiva: oggi sappiamo invece che ha una propria agentività (agency), le cui ripercussioni si propagano anche nel sociale.
Su questi argomenti, la studiosa di Scienza e Nanotecnologia dei materiali Laura Tripaldi scrive nel suo recente Menti parallele (effequ): “Forse in un futuro potremmo trovarci a vivere in case fluide, capaci di cambiare forma insieme a noi come il guscio di una chiocciola, o in città capaci di disassemblarsi e scomparire per ricostruirsi spontaneamente altrove. Finché queste prospettive fantascientifiche resteranno inaccessibili, possiamo accontentarci di sapere che le nanotecnologie odierne ci forniscono tutti gli strumenti per costruire e studiare sistemi capaci di organizzarsi, riprodursi e modificarsi in autonomia su diverse scale, mostrandoci che è possibile immaginare e progettare attivamente altre forme di vita e nuove menti”. La materia ha un’intelligenza ed è protagonista di importanti e costanti mutamenti: conoscerla è fondamentale per ripensare i nostri rapporti con essa e le infinite possibilità che ci dischiude.
Nel mondo del Capitalocene, termine che Staid ritiene più centrato di Antropocene per indicare gli influssi devastanti e trasformativi dell’uomo sul pianeta, l’unica possibilità che ci è data come specie è vivere - e dunque, abitare - alleggerendo l’impatto umano. Lasciandosi alle spalle l’etnocentrismo, l’antropologo preferisce guardare al dimorare indigeno come possibile maestro di un diverso stare al mondo, fatto di ibridazione e connessioni (non a caso nel testo l’autore cita direttamente Chthulucene di Donna Haraway, che fa del legame - letteralmente kin, “parentela” - il fulcro del suo pensiero). Osservando varie comunità, Staid ha scoperto case che sono spazi sociali potenzialmente illimitati, non individualizzanti, spesso con un proprio ciclo di vita - case che nascono, crescono e muoiono dissipandosi secondo le leggi naturali dello spazio in cui sorgono.
Il libro propone dunque una serie di esempi di “architettura spontanea”: dalla goahti dei sami all’izba russa, dal tulou cinese alla tolek africana, Staid esplora case vive costruite in armonia con l’ambiente circostante, case mobili, orti galleggianti, dimore fatte di scale che finiscono sugli alberi, in una rassegna breve ma allo stesso tempo ricca e suggestiva.
Se la casa è un “dispositivo cognitivo”, che si muove non solo in senso spaziale ma anche culturale, Staid ritiene che questo dispositivo vada espanso, e per farlo è necessario muovere altrove il nostro sguardo. Ciò non significa però soffermarsi solo su realtà distanti: è sufficiente scoprire anche proposte poco note sorte in Italia, come A.R.I.A. Familiare, cantieri di autocostruzione sorti ad Amatrice dopo il sisma.
L’Occidente come sistema di pensiero avversa da sempre queste pratiche di autogoverno, anteponendo l’efficienza (spesso presupposta) ai meccanismi di condivisione e la burocrazia all’immaginazione. Si tende a favorire l’intorpidimento dell’homo comfort a scapito della manualità dell’homo faber. “È importante ricordare che la casa è un bene d’uso, non un bene di consumo”, sottolinea Staid e in questo senso fornisce esempi di progetti, come Pianeta U.M.A.N.A. & C., che sono scuole-cantiere volte proprio a istruire alle pratiche di autocostruzione familiare.
In un’epoca di kit di case da montare proposti da Ikea, in cui la standardizzazione crea lotti malsani identici a se stessi, questo tipo di realtà mostra che altre direzioni sono possibili. Se la rivoluzione urbana, con i suoi condomini iperindividualizzanti, con la sua riduzione di spazi comunitari e la sua omogeneizzazione del paesaggio, genera un disagio abitativo dai volti molteplici, è evidente che urge una controrivoluzione.
In questo senso Staid sottoscrive lo stretto legame che intercorre - o dovrebbe intercorrere - tra ecologia e lotta sociale: non riconoscere che le logiche capitaliste siano la causa principale della crisi ambientale significa mantenere uno sguardo parziale e insufficiente. “L’abitare deve diventare un progetto politico anticapitalista”, afferma in maniera diretta, proponendo poi un abecedario di buone pratiche basilari che passano dalla mobilità sostenibile alla riduzione dei rifiuti. È fondamentale ridimensionare l’umano e lasciare maggiore respiro al paesaggio, riportandoci al di fuori di quel centro in cui ci siamo storicamente auto collocati.
Per comprendere questo scarto è sufficiente considerare che l’uomo rappresenta lo 0,01% della biomassa, contro le piante che corrispondono invece all’80%. È proprio alle altre specie che bisogna guardare per salvaguardare anche la nostra: un esempio è la fabbrica dell’aria realizzata dal botanico Stefano Mancuso, un sistema di filtraggio degli ambienti chiusi che si basa proprio sulla fotosintesi delle piante e la loro capacità di assorbire e degradare gli agenti inquinanti. Bisogna “pensare la fine dell’antropocene senza la fine della vita di noi animali umani sul pianeta”. Il primo passo è allo stesso tempo semplice e arduo: ammettere che il modo in cui abbiamo sempre abitato - infestato - il nostro pianeta possa non essere il migliore e cercare altrove nuovi paradigmi.
L’etnografia è un’esperienza di spaesamento, un approccio per cui ogni viaggio è scambio costante, attività transculturale contro ogni gerarchia e struttura verticale. L’obiettivo è progettare un abitare intraspecie, simile alle parentele auspicate da Haraway, che elimini ogni idea di ‘permesso calato dall’alto’ e riconosca pari dignità a tutto il vivente, concependo ogni specie come entità politica. Una volta superato il mito tossico della crescita e dello sviluppo infiniti sarà forse possibile smettere di infestare la Terra e cominciare ad abitarla e viverla, senza più separare i due concetti.
Risignificare l’abitare è risignificare l’umano: Staid invita a superare la paura che il mettersi in discussione reca sempre con sé e iniziare a concepirci diversamente come specie, agendo di conseguenza. Il suo invito, come la sua scrittura, è chiaro e privo di fronzoli: dobbiamo “immettere futuro nelle cose che si fanno nel presente”, azzardare nuovi immaginari perché la casa smetta di essere soltanto un edificio e ritrovi una più vasta rete di possibilità e significati.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE (2005).
(...) il “nuovo mondo” che abbiamo costruito dimostra quanto presto abbiamo dimenticato la ‘lezione’ delle foreste, dei mari, dei deserti, e dei fiumi e delle montagne!!!
Federico La Sala
Tecnologia.
Abitare nello spazio non è più fantascienza
Colonizzare la Luna e costruire in orbita sono ricerche ormai all’ordine del giorno. Vittorio Netti: «Una sfida non solo tecnologica, ma di pensiero architettonico»
di Silvia Camisasca (Avvenire, venerdì 19 febbraio 2021)
«La terra è la culla dell’umanità, ma nessuno può vivere in una culla per sempre »: furono le parole con cui nel 1890 Konstantin Ciolkovskij, scienziato russo e inventore della missilistica, motivò la scelta di dare vita nel suo appartamento al primo laboratorio di aerodinamica. Accolto ai consessi internazionale dallo scetticismo di colleghi, che in lui vedevano una mente folle quanto basta, non cessò di esporre le sue teorie visionarie su stazioni spaziali e razzi che avrebbero solcato lo spazio siderale e portato a spasso nel cosmo l’umanità. Autodidatta, costretto ad abbandonare la scuola a 14 anni a causa della scarlattina che gli procurò la sordità, elaborò, ispirato dai romanzi di Jules Verne, la “torre orbitale”, ovvero l’ascensore spaziale ormai parte dell’immaginario collettivo. Ma “il sognatore di Kaluga”, nelle parole di Nikolai Rynin, era un matematico e fisico estremamente rigoroso: lui, per primo, calcolò, infatti, la velocità necessaria ad un veicolo spaziale per vincere l’attrazione gravitazionale terrestre e raggiungere le stelle.
Come lui, nella storia si incontrano altre figure - Leonardo Da Vinci, Nikola Tesla, Wernher Von Braun - capaci di viaggiare nel tempo guidati dalla potenza di un’immaginazione incontenibile. Lo stesso Von Braun, già inventore del razzo che portò i primi astronauti sulla luna con il programma Apollo, racconta, in Progetto Marte, il suo piano per colonizzare il pianeta rosso per mezzo di una flotta di astronavi, mascherandolo da romanzo di fantascienza. L’ex scienziato nazista, divenuto padre del programma spaziale americano, descriveva in ogni dettaglio le vite dei neocoloni, immaginando giganteschi razzi riciclabili e basi sotterranee brulicanti di una nuova generazione di scienziati, ingegneri e biologi. La premessa è di straordinaria attualità in questo particolare passaggio storicamente delicatissimo per tutte le dinamiche inerenti lo spazio, ingegneria ed economia incluse, ma, soprattutto, relative alla possibilità di una permanenza prolungata e sostenibile in un “altrove”, oltre il pianeta Terra.
Vittorio Netti
Vittorio Netti - Sicsa
«Immaginare il futuro, anche con voli pindarici della mente, è fondamentale per costruirselo - esordisce Vittorio Netti, ricercatore al Sicsa (Sasakawa International Center for Space Architecture) di Houston, e Ph.D. candidate in Ingegneria e Scienze Aerospaziali al Politecnico di Bari - È come tracciare una rotta, attraverso acque ignote, per arriva a destinazione, anche se ancora nessuna la vede». Al Sicsa, il più avanzato centro di ricer- ca al mondo di ingegneria aerospaziale, vengono studiate soluzioni e tecnologie per la prossima generazione di missioni spaziali con equipaggio umano, perché vivere e abitare oltre il pianeta Terra non è più oggetto di pertinenza della fantascienza: «Da oltre 20 anni non viviamo interamente sullo stesso pianeta. Un certo numero di esseri umani occupa costantemente la ISS in orbita dal 2000 - ricorda Netti - e dal 2017 con il lancio del programma Artemis della Nasa, dopo 50 anni, si sta pianificando il ritorno dell’uomo (e della prima donna) sulla Luna. Questa volta, però, per restarci». La road map, del resto, è già definita: si articolerà in tre fasi e procederà con la prima missione esplorativa nel 2024 e l’installazione delle strutture permanenti dal 2028.
Se passeggiare sul suolo lunare è già parte delle nostre conquiste, come specie, l’impresa, mai tentata prima, di abitarci stabilmente comporta una serie di sfide incredibilmente ardue. A cominciare dal dovere fare i conti con il fattore umano, con una fisiologia e psicologia messe a dura prova dall’ambiente lunare: uno spazio assai ostico, che costantemente incrina l’equilibrio psicofisico ed emotivo umano: radiazioni, pressione, mancanza di ossigeno, microgravità. Nulla di quello che c’è lì fuori è compatibile con la vita, perlomeno quella umana, nulla favorisce il benessere della persona». Per garantire la permanenza in un contesto così avverso, gli habitat spaziali, come la ISS, devono riprodurre microecosistemi contenenti tutto quanto necessario a sostenere gli astronauti, limitando il più possibile i rifornimenti dalla Terra. I sistemi di sostentamento vitale (Eclss nel gergo Nasa) sono attualmente in grado di riciclare una percentuale notevolissima di tutto ciò che è a bordo, ovvero la quasi totalità dell’acqua (90%) e il 40% dell’ossigeno.
Gli Eclsss sono addirittura osservabili come modelli virtuosi di economia circolare, e sulla Luna la loro efficienza potrebbe essere anche superiore; inoltre, l’inesorabile consumo di risorse potrebbe essere rifornito dall’impiego dei materiali locali, il cui ricorso è già al vaglio non solo per l’ambiente lunare. Allo studio, infatti, ci sono soluzioni per utilizzare la sabbia lunare (regolite) e l’acqua dei giacimenti polari per la costruzione delle basi di superficie, nella stessa maniera in cui qui impastiamo cemento e malta. «Costruire sulla Luna significa reinventare l’architettura, non solo le tecniche costruttive» puntualizza Netti, ricordando che nel 1960, agli albori dei programmi di esplorazione spaziale umana, la Nasa reclutò un team multidisciplinare di artisti, designer e architetti per immaginare il futuro dell’uomo nello spazio: lo scopo consisteva nel visualizzare e concretizzare quanto, fino ad allora, era stato solo teorizzato dagli scienziati e, in un certo senso, viveva limitatamente alla dimensione dell’immaginazione.
Da quell’esperienza sono nate alcune tra le più suggestive creazioni delle sfere di Bernal e dei Cilindri di O’Neill, fino ad allora solo costrutti teorici di gigantesche città orbitanti capaci di sfruttare la propria rotazione per generare una gravità simile a quella terrestre. Dall’altra parte della cortina di ferro, l’architetto russo Galina Balašova disegnava stazioni spaziali per l’agenzia sovietica. La capacità di architetti e designer di visualizzare il futuro è da allora diventata un requisito fondamentale per le agenzie spaziali e, più recentemente, anche per le aziende private di settore: alla fine degli anni ’80, l’architetto della Nasa Gary Kitmacher disegnò “ISS cupola”, la più grande finestra della Stazione Spaziale dalla quale è possibile osservare la Terra, e tutt’oggi uno dei luoghi preferiti dagli astronauti, davanti alla quale passare il poco tempo libero sulla ISS. Trent’anni dopo, Axiom space, azienda di Houston autorizzata dalla Nasa a costruire la prima stazione spaziale commerciale, chiamò il designer Philippe Stark per progettarne gli interni, mentre le navette private di SpaceX inaugurarono il turismo dei privati nello spazio, portandovi la prima generazione di astronauti non professionisti e non incaricati dai governi: questo, come intuibile, apre le porte di una rivoluzione senza precedenti nell’industria di settore.
Quelle basi marziane e flotte di navi passeggeri che fanno la spola tra la Terra e i corpi celesti del sistema solare immaginate da Von Braun non sono più un sogno lontano: la soglia di una rinnovata era dell’esplorazione spaziale chiama una generazione di professionisti a disegnare le carte nautiche del contemporaneo “passaggio a Nord Ovest”. Tornano le parole che l’astronomo e astrofisico Carl Sagan scrisse in Cosmos: «L’esplorazione è nella nostra natura. Abbiamo iniziato come vagabondi e siamo ancora vagabondi. Siamo rimasti abbastanza a lungo sulle rive dell’oceano cosmico. Siamo finalmente pronti per salpare verso le stelle».
Intervista
Piano: "Quel progetto il mio regalo a Genova ora lavorerò gratis"
L’archistar parla del viadotto che realizzerà al posto del Morandi, crollato il 14 agosto. "Sarà un’opera bella, semplice ma non banale. E soprattutto, fatta per durare. Sarei stato contento anche se non avessi vinto io, perché grazie al confronto si è alzata l’asticella"
di Massimo Minella (la Repubblica, 19.12.2018)
GENOVA Ha atteso fino a oggi, soffrendo in silenzio «come tutti i genovesi» per la tragedia del crollo del ponte Morandi, e ora che il commissario ha reso pubblico il suo verdetto risponde: «Ne prendo atto e ubbidisco». La lunga giornata di Renzo Piano sta volgendo al termine. Alle 17 Marco Bucci, sindaco di Genova e commissario, ha annunciato che a ricostruire il Morandi sarà la cordata formata da Fincantieri, Salini Impregilo e Italferr che si ispira al disegno di Piano. E lui, nel suo ufficio sulla collina di Vesima che guarda al mare, lembo estremo del ponente genovese, attende che Bucci termini la conferenza e poi riflette sugli ultimi quattro mesi passati fra il dolore del crollo e la voglia di rimettere in piedi quel ponte. Per Piano il commissario ha ritagliato un ruolo nuovo, quello di "supervisore", perché c’è da tanto da ricostruire e cambiare, per cui non percepirà alcun compenso. «Lo faccio a titolo gratuito, sia chiaro» spiega.
Architetto, il verdetto premia la cordata che lavora sul suo disegno, un ponte che si allunga ricordando il profilo di una nave d’acciaio illuminato da 43 lanterne, a ricordare le vittime della tragedia. Come si sente?
«È stata una giornata faticosa, ma va bene così. Devo dire che è stata bella l’idea del confronto fra offerte. Alla fine è stata compiuta una scelta e adesso viene la parte difficile per tutti noi. Il nostro è un mestiere pericoloso, se sbagli non sbagli per te stesso, ma per la comunità. Bisogna essere ben sicuri di quello che si fa».
Partiamo dall’inizio, dal crollo.
«Una tragedia inimmaginabile a cui ho risposto cercando di fare la mia parte, mettendomi subito a disposizione. La mia è stata una reazione istintiva. Le istituzioni mi hanno chiamato e io ho detto di sì, a titolo gratuito. E continuo a fare così. Il sindaco mi ha chiesto di fare il supervisore e ho accettato».
Sono emerse subito con forza due proposte su cui alla fine il commissario ha scelto. Percorso corretto?
«Il confronto è la scelta giusta e premia una squadra eccellente, che sa costruire e che mostrerà la sua capacità».
C’è chi ha definito troppo anticipata la sua presenza in Regione con il plastico del nuovo ponte. Il commissario doveva ancora essere nominato. Che risponde?
«Ma cosa potevo fare? Ho portato il mio contributo in Regione al sindaco e al governatore. Poi, lo so, quell’episodio del modello che cade, con l’amministratore delegato di Autostrade Castellucci... Perché ancora parlare di quello? Purtroppo fa parte di quello che io chiamo mitologia. E non è l’unico caso, sa?».
No, e quali sono le altre mitologie?
«Gliene dico una, che io non ho mai fatto ponti. Ne ho fatto uno ben più lungo del Morandi, 25 anni fa in Giappone. E poi a Sarajevo, Chicago, Los Angeles, per il progetto che sto portando avanti adesso per l’Academy. Io metto i ponti dappertutto, autostradali, urbani, pedonali. Io nei miei progetti parto dalle piazze e dai ponti. Il ponte è l’elemento che unisce. Guardi il nuovo Morandi, lega le due sponde di Genova».
Ma ora rispetto alla prima stesura cambierà il disegno del ponte?
«Ci stanno lavorando, certo, si tratta di un lavoro continuo che coinvolge squadre di ingegneri. Ormai si lavora sui millimetri valutando ogni minimo dettaglio».
Ma che ponte sarà?
«Bello come la bellezza di Genova, semplice ma non banale. E d’acciaio, per durare tanto».
Il gruppo sconfitto aveva dato la sua disponibilità a collaborare con la cordata vincente...
«Cimolai è un grande costruttore e Calatrava un grande architetto. Il sindaco mi ha parlato della loro volontà di dare un contributo. È un’ottima cosa, devono succedere tante cose. Non c’è solo il ponte da ricostruire. Bisogna intervenire sul quartiere e poi c’è il parco urbano».
Lei si occuperà anche di questo?
«No, lì ci saranno dei concorsi. Io ho avuto questo ruolo di supervisore e lo eserciterò peraltro in linea con il mio ruolo di senatore a vita che vuole concentrarsi sul rammendo urbano».
Il ponente genovese sembra averne un grande bisogno, vero?
«È necessario un lavoro di valorizzazione di tutta la vallata, che è straordinaria. Io la conosco bene, mio padre era di Certosa e mi ci portava spesso. E poi dietro c’è Coronata, dove si fa un ottimo vino. Quella vallata non è un luogo abbandonato, ma è vivo, ventoso d’inverno e fresco d’estate. Ecco, la mia idea è quella di favorire un progetto di rigenerazione, per favorire anche le attività industriali. Ci sono 1.500 aziende e altre ne possono arrivare. Non c’è solo il porto, a Genova».
La ricostruzione può avvenire in dodici mesi, una volta che le aree saranno state liberate. I tempi saranno rispettati?
«C’è una cordata di aziende di grande livello e un sindaco-commissario che è un vulcano. Lavoreranno senza soste con rapidità. Penso di sì. E sarà un grande momento di solidarietà quello del lavoro nei cantieri».
Di solidarietà?
«Certo, i cantieri sono sempre un momento di solidarietà e far parte di un progetto come questo la farà aumentare. Il lavoro crescerà con l’orgoglio di far parte di questo progetto e non ci sarà nulla di più bello. Chi ha saputo rendere benissimo questo è Maurizio Maggiani, nel suo "Il romanzo della Nazione", quando si sofferma sulla costruzione della corazzata "Dandolo" all’arsenale della Spezia. Ecco, lo stesso può valere per questo ponte che tornerà a unire due città».
Architetto Piano, sono stati quattro mesi difficili e complessi, quelli passati. Come li ha vissuti lei?
«Come ogni genovese di fronte a questa terribile storia, soffrendo ma poi elaborando il lutto. Solo la nostra lingua italiana riesce a rendere così bene il concetto. Si parte da una sofferenza che poi lentamente diventa sostanza. E senza retorica si ricostruisce. Una cosa molto genovese».
Ma come avrebbe reagito se non fosse stato scelto il suo progetto?
«Sarei stato contento lo stesso, perché grazie al confronto che si è creato l’asticella si è alzata ancora di più. Ora il commissario ha deciso e io ne prendo atto e ubbidisco».
Renzo Piano: «Il ponte l’ho immaginato come una nave, un simbolo per tutta l’Italia»
L’archistar: «Mille anni? No, ne durerà duemila. Dovrà ricucire una città divisa e conservare perenne memoria delle vittime. Un omaggio alla città che amo».
di Giangiacomo Schiavi (Corriere della Sera, 19.12.2018)
Nei suoi appunti, sui fogli da disegno, ha scritto: il ponte. E basta. Non c’è un nome. «Si chiamerà il ponte di Genova», dice Renzo Piano. «Semplice ma non banale. Forte, molto forte, lontano dalla retorica. Bello, di una bellezza genovese: restìa, parsimoniosa, taciturna».
Questa volta destinato a durare...
«Non mille, ma duemila anni. I ponti non possono crollare».
Si parte da una sua idea e lei farà da supervisore, ha detto il sindaco Bucci.
«Ci ho lavorato dal 15 agosto, dopo la chiamata del sindaco. Sono onorato di questo. Oggi si è formata una bella squadra, una squadra molto forte. Ed è stato un bene che il commissario abbia fatto un confronto sui diversi progetti».
Altri architetti come Calatrava si sono messi a disposizione, nel caso ce ne fosse bisogno.
«È un bel segnale. La chiamata generale ha alzato l’asticella».
Il ponte manterrà le caratteristiche previste dalla sua idea iniziale?
«Dovrà ricucire una città divisa, elaborare un lutto, suscitare orgoglio. L’ho immaginato come una nave, un qualcosa di simbolico che però non deve perdere il tema della memoria. Questa tragedia ha creato un vuoto enorme».
Ci saranno i fasci di luce per illuminare la memoria delle 43 vittime...
«Per non dimenticare. Elaborare un lutto vuol dire farlo proprio, fino a diventare una parte di te stesso. Bisogna scavare nel profondo di ognuno di noi, riuscire a creare un nuovo sentimento: non dimenticare ma trovare la spinta per rinascere».
Lei ha parlato ancora una volta di rammendo.
«A Genova non ci sono spazi. È stretta tra il mare e le montagne, diceva lo storico Braudel. Il crollo ha risvegliato il fantasma della città separata, quella operaia e la Superba. Due mondi che devono tornare uniti. La ricucitura passa attraverso il ponte, una delle icone dell’architettura insieme alla piazza. Un ponte è sempre un momento che unisce».
Per un architetto genovese questo progetto è anche un omaggio alla sua città.
«Un omaggio alla città che amo e a un luogo che sento intimamente mio. Mio padre è nato lì, alla Certosa. Da bambino, quando ancora non c’era il ponte Morandi, mi portava in quel quartiere operoso e nel mio immaginario quei nomi, Certosa e Valpolcevera, suonavano come luoghi delle meraviglie».
Il suo contributo resta a titolo gratuito?
«Confermo quello che avevo detto fin da subito e qualche maligno ha messo in discussione. A titolo gratuito. Ci sono cose che si fanno anche per spirito civico».
È stato anche detto che i ponti non li fanno gli architetti.
«E infatti ci sono i tecnici, gli ingegneri. Mi è capitato di fare ponti in Giappone nell’arcipelago di Amakusa, a Sarajevo, a Chicago. Forse qualcuno ha pensato che fossi a caccia di incarichi... Ma alla mia età non vado in cerca di notorietà».
Tre mesi fa aveva detto: bisogna fare rapidamente ma senza fretta. Basteranno dodici mesi?
«I tempi saranno più o meno questi. Ma io credo che questo cantiere dovrà essere soprattutto un laboratorio, anche per l’Italia. Un cantiere è sempre un momento straordinario, di grande energia».
Genova ha bisogno di ritrovarsi, dicono il sindaco Bucci e il governatore Toti, di una rapida ripartenza.
«Genova non si è mai persa e non si è mai data. Ha un orgoglio immenso. In questo ponte si deve riconoscere. Serve un momento positivo per contrastare l’immagine distruttiva del crollo, il dramma di tante famiglie, lo smarrimento e la paura».
Basterà la partenza di questo cantiere?
«Ogni ricostruzione è un atto di fiducia. Ma ricostruire è anche un gesto di pace. Un momento in cui le diversità si mettono via, si devono mettere via. Oggi è il momento di una forte solidarietà. Io ho vissuto a Berlino un cantiere con cinquemila operai, un altro analogo l’ho vissuto a Tokyo. Ogni volta si è creato un clima straordinario, perché stai costruendo insieme ad altri qualcosa di importante, qualcosa che unisce persone e mondi».
La semplicità del progetto ha fatto storcere il naso a qualcuno.
«Semplicità non vuol dire banalità. Questa è un’opera che nasce dall’entusiasmo, dalla voglia di rinascita. E io l’ho immaginata pensando a Genova, solida, concreta, poco appariscente, forte dentro...»
Genova che somiglia a quella del poeta Caproni (Genova illividita/ Inverno nelle dita/ Genova mercantile/ Industriale, civile/ Genova che mi struggi/Intestini, Caruggi/ Genova sempre nuova/ vita che si ritrova...)
«...Genova che oggi rappresenta l’Italia, e può diventare un laboratorio per l’intero Paese, capace di rimettere in moto quel percorso di manutenzione di cui abbiamo tanto bisogno. Il nuovo ponte è un simbolo, un segno di unità e un messaggio di positività».
Renzo Piano
“Genova è fragile ma nessuno la cura”
Intervista di Francesco Merlo (la Repubblica, 15.08.2018)
Renzo Piano era a Ginevra, a lavorare a un progetto per il Cern, quando hanno interrotto la riunione e gli hanno detto che a Genova era crollato il ponte Morandi: «Al di là del legame sentimentale con Genova ho provato una grande sofferenza, di quelle che arrivano all’improvviso e ti sconvolgono. A me prendono allo stomaco. Ho pensato subito alle vittime, e solo dopo alla mia città ferita, a Genova e alle sue catastrofi. Ho immaginato quella gente che passava di là a metà agosto, i camion e i furgoncini per lavoro, gli altri per vacanza, le famiglie allegre e innocenti, ho pensato agli occhi che, quando si passa su un ponte, sono ancora più aperti, perché c’è l’alto e c’è il basso, c’è la sospensione nel mezzo cielo».
E invece proprio il ponte, che accorcia le distanze, dà ordine e bellezza al paesaggio e mette allegria, è crollato di botto. Pioveva quando la linea retta si è spezzata e dunque niente polvere: macerie senza sassi e mattoni perché il cemento non rovina a terra come in una frana, ma collassa. Sembra una catastrofe chirurgica.
«Non esagero, ma è una morte ingiusta e orribile. E di che cosa sono vittime? Non è certo colpa della casualità né della topografia della fragile Genova. Io non so cos’è accaduto, non voglio sembrare arrogante, non ho elementi e non faccio certo polemiche. Posso dire però che non credo al fatalismo che considera incontrollabile l’anarchia della natura, dei fulmini e della pioggia. I ponti non crollano per fatalità. Nessuno dunque venga a dirci che è stata la fatalità».
Cattiva manutenzione?
«L’ho sempre visto sotto controllo, quel ponte, che ha una lunga storia di manutenzione e di stretta sorveglianza».
Però ha ceduto. E non è il primo in Italia.
«I ponti sono anche simboli. È orribile che crollino e che il crollo uccida. Ma un ponte che crolla, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, è come se crollasse due volte».
Già, si alzano i muri e crollano i ponti. Una volta stabilito che non è fatalità, perché è crollato?
«All’opposto della fatalità c’è la scienza. L’Italia è un paese di grandi costruttori, progettisti geniali, scienziati umanisti. E però non applicano quella scienza che viene prima della manutenzione e si chiama diagnostica. In medicina nessuno fa niente senza una diagnosi. Che manutenzione puoi fare del tuo corpo se non sai di che cosa soffri? Come si stabilisce se hai bisogno di una cura di farmaci oppure di un’operazione chirurgica o magari di un po’ di riposo? Solo la precisione della diagnosi garantisce l’efficacia dell’intervento. E i ponti, le case e tutte le costruzioni vanno trattati come corpi viventi. In Italia produciamo apparecchiature diagnostiche sofisticatissime e strumentazioni d’avanguardia che esportiamo in tutto il mondo. Ma non li usiamo sulle nostre costruzioni. Perché? E non è un discorso di tecnica e basta. Solo con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni e si entra in quello delle certezze scientifiche».
La scienza non se la passa tanto bene, e forse vale per i ponti quel che vale per i vaccini. La catastrofe può insegnarci qualcosa?
«Io spero che il maledetto crollo di questo ponte ci faccia riflettere e ci faccia uscire dall’oscurantismo culturale del “secondo me si fa così”. Per esempio con la termografia possiamo determinare lo stato di salute di un muro senza neppure bucarlo, proprio come avviene con il corpo umano: si comincia col misurare le temperature delle sue varie parti».
Quel ponte vivente era un corpo affaticato.
«Io credo che la manutenzione non sia mai mancata. Ma Genova è una città fragile, divisa in due, ed è lunga 20 chilometri. Quel ponte è stato sollecitato all’inverosimile».
Adesso che è crollato forse la città di Genova ha bisogno di una diagnosi. Che succederà?
«Genova è una città portuale che deve trasferire il suo traffico pesante in tutte le direzioni. Non si può caricare la viabilità a dismisura sulla gomma. Non so cosa succederà. Per tenere assieme Levante e Ponente forse dovrebbero pensare a un incremento del trasporto sul ferro e sull’acqua. Ma questo è il momento del cordoglio e del lutto».
Ancora una volta per ragionare Genova ha bisogno del lutto?
«Difficile e straordinariamente bella, è una città molto fragile, stretta com’è tra il mare e le montagne subito alte. Ho già raccontato che i rivali veneziani nel Medioevo dicevano che Genova era una città sfortunata: montagna senza alberi e mare senza pesci. È verticale, ripida, rocciosa, con il fondale profondo e il mare agitato. Ma la topografia, come il cattivo tempo, non può diventare il capro espiatorio di ogni cosa».
Genova sa reagire?
«Ha già dimostrato di saper tenere la testa alta. Una città che passa attraverso le catastrofi ha bisogno di ritrovare subito competenze e amore. Altrimenti, come sta avvenendo in qualche parte d’Italia, si degrada e va in malora lo stare insieme: diventano peggiori gli uomini e anche gli animali. Le alluvioni, per esempio, hanno avviato un lungo lavoro di rinascita idrogeologica. Anche ieri, quando è crollato il ponte, pioveva, ed è normale che piova. Genova è una città dove l’acqua, dolce e salata, arriva da tutte le parti. Come sai, da bambino con la sabbia di Pegli costruivo castelli. Non è facile: bisogna scavare una buca, portarci l’acqua per impastare e rendere malleabile la sabbia e poi fare il castello in modo che l’onda, quando arriva, lo circondi ma non lo invada, lo bagni ma non lo inzuppi. Ci vuole molta intelligenza per governare l’acqua. Genova ha l’intelligenza per governare tutta se stessa e anche il proprio dolore. Sa usare le catastrofi per cambiare. Ha l’orgoglio di essere superba».
La superbia non era un peccato?
«Genova è superba non nel senso del gran peccato cattolico. Addossata sulla collina alpestre, Petrarca la battezzò Superba dal latino “super”: stare sopra. Dunque è fisicamente, prima che in metafora, che Genova ha l’orgoglio di essere superba».
Anche dopo il crollo del ponte?
«Purtroppo Genova, che sa reagire, non sa ancora prevenire. Ma spero che ora cominci la revisione del suo sistema dei trasporti. E mi auguro che parta dal crollo di questo ponte una seria riflessione sulla cultura diagnostica del patrimonio italiano. Solo conoscendo con esattezza lo stato di salute di tutte le nostre costruzioni possiamo proteggere e salvare, con i ponti, la nostra stessa civiltà».
Italiani
«Ho ricevuto minacce di morte per la Moschea di Roma»
L’architetto Paolo Portoghesi che non ama le archistar: «Credo ancora nel socialismo, ma Craxi sbagliò»
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 18.02.2018)
Paolo Portoghesi, 86 anni il 2 novembre scorso. Per molti «Portoghesi» è sinonimo di Grande Moschea di Roma. Cosa significa per lei quell’edificio?
«Una straordinaria occasione. Sono romano. Era un punto d’onore, per me architetto, lasciare a Roma un segno. Sono stato fortunato: è un’opera di grande valore simbolico, rappresenta per la Capitale il suggello della libertà religiosa, il ritorno alla ricchezza che viene dalle differenze e dalle molteplicità. Come successe quando arrivò il Cristianesimo nella Roma dell’Impero».
Una storia durata vent’anni, dall’ideazione nel 1973 all’inaugurazione nel 1995. Allora l’Islam faceva meno paura...
«Veramente faceva già paura ai tempi. Il sindaco di Roma, Giulio Carlo Argan, io e Vittorio Gigliotti, che lavorò con me al progetto, fummo minacciati di morte. Circolarono volantini: “Vi gambizzeremo”. Li conservo ancora... Molta paura, ma non successe nulla. Erano cattolici di destra, e frange del Msi. Poi la destra si scusò, ammise di aver sbagliato».
Dicono che Papa Paolo VI avesse dato via libera. È così?
«Certo. Non ci fu nulla di ufficiale. Ma il presidente della Repubblica, Giovanni Leone, annunciò in un viaggio ufficiale in Arabia Saudita il progetto della Moschea. Nell’Italia di allora, non avrebbe potuto farlo senza il sì del Vaticano».
Torniamo ai simboli della Moschea: arte, religione, dialogo...
«...e petrolio, direi. Leone si impegnò sulla Moschea ed ebbe in cambio la promessa del petrolio, allora essenziale».
Soddisfatto, oggi, del risultato estetico?
«Non sono mai soddisfatto di ciò che ho realizzato, penso sempre che avrei potuto fare di meglio. Ci furono discussioni, una dolorosa lite con Bruno Zevi... Ma Argan, grande storico dell’arte, mi disse: “Sapevo che eri un ottimo storico dell’architettura, vedo che sei anche un eccellente architetto”. L’opera è citata in tutte le maggiori storie dell’architettura del mondo. La Moschea di Roma ha anche una figlia, la Moschea di Strasburgo, oggi luogo di dialogo tra le tre grandi religioni monoteiste. Le due Moschee sono straordinarie macchine di avvicinamento».
Tra i due Grandi Duellanti, Bernini e Borromini, lei ha subito scelto il secondo. Perché?
«Sono nato con sant’Ivo alla Sapienza negli occhi, abitavo in via di Monterone, scrissi il mio primo testo su Borromini a sedici anni. Di lui amo la libertà di operare all’interno della classicità, ma facendola muovere, quasi risvegliare, aprendo una nuova stagione creativa, spalancando spazi di sperimentazione all’architettura e, quindi, la via alla stessa avanguardia».
Nel 1980 lei firmò la sua Biennale Architettura di Venezia con la Via Novissima invitando nomi dal grande futuro: Frank Gehry, Rem Koolhaas, Charles Moore, Hans Hollein. Ora molti riconoscono quell’intuizione.
«Erano tutti, guarda caso, fanatici di Borromini. Conoscevo bene quei talenti creativi e speravo che sviluppassero una sorta di unità nel solco della tradizione, anche nella ricchezza delle posizioni diverse. Invece hanno proceduto per vie individuali, all’insegna dell’avanguardia. Sono diventati Archistar...».
Ma l’avanguardia non è contemporaneità?
«La modernità è stata esaltata e nello stesso tempo interrotta dall’avanguardia. Sono convinto che l’arte possa riconquistare il suo prestigio superando l’avanguardia e non continuando a innovarla con risultati modesti ed enorme fatica».
Detesta il sistema delle Archistar?
«I cambiamenti climatici impongono una radicale svolta negli stili di vita. L’Occidente dovrà smettere di credere nella crescita infinita e nel dominio dell’economia sulla cultura. Oggi occorre un’architettura semplice, quotidiana, figlia dei luoghi, capace di risolvere i problemi della gente comune. Non di crearne».
Ha qualche danno da Archistar in mente?
«Potrei fare facili esempi, ma non mi sembra il caso. Qualcuno è stato mio allievo».
Lei sostenne il Psi di Craxi, di cui fu grande amico. Rinnega quell’esperienza?
«Non rinnego la fiducia nell’ipotesi legata al socialismo, un filone di pensiero al quale mi sento ancora legato. Mi iscrissi al Psi nel 1961. E ricordo i primi anni di Craxi segretario, molto timido, incapace di trovare i fondi per rinnovare il partito: la Dc poteva contare sui soldi Usa, il Pci su quelli russi... Craxi oggettivamente sbagliò, pensando di risolvere il problema rivolgendosi alle attività imprenditoriali. Un metodo assolutamente non condivisibile. Però ho sempre pensato che Craxi sia stato distrutto dal progetto del Pci di arrivare al governo passando sul suo cadavere. Ma sono mie considerazioni personali...».
Lei fece parte del Comitato Centrale del Psi.
«Sì, ma non ho mai fatto parte di ciò che era chiamato sottogoverno. Sono uscito indenne. Non sono mai stato nemmeno ascoltato da Di Pietro».
Ricorda la Milano da bere e la Roma socialista?
«La prima no, ero preside ad Architettura nella Milano degli anni precedenti. Mai avuto simpatie per la Roma socialista. Con mia moglie Giovanna vedevamo molta gente in casa, in via Gregoriana: scrittori, intellettuali, Fellini, De Chirico. Per il piacere di mettere insieme persone diverse».
Lei è sposato con Giovanna Massobrio dal 1971. Cosa ha significato per lei un’unione così solida?
«Sono di natura timido, ho la vocazione alla solitudine: da bambino i miei miti erano Borromini, Leopardi e Rimbaud. Giovanna mi ha regalato mille stimoli e curiosità, tra cui quella per la vita sociale. Abbiamo scritto insieme libri sulla storia del gusto. Senza di lei non sarei quello che sono».
Possibile che l’essere legato al Psi non sia mai stato un vantaggio?
«Indubbiamente mi ha facilitato nella designazione alla Biennale architettura nel 1980 e poi alla presidenza della Biennale. Ma ho subito combattuto contro chi chiedeva favori e assunzioni. Non ho proprio nulla da rimproverarmi».
Dieci anni fa lei ha inventato, per la facoltà di Architettura de La Sapienza a Roma, un nuovo insegnamento, Geoarchitettura. Perché?
«Perché penso che l’architettura debba cambiare strada, diventare un’arte collettiva vicina alle persone che vivono e lavorano nelle città, nei luoghi. Un motivo di conforto mi arriva dalla diffusione della Street Art che, per esempio a Roma, opera dopo aver consultato gli abitanti dei quartieri e riscuotendo il consenso non dei piccoli e ricchi clan che sostengono un’arte contemporanea sempre più astrusa e incomprensibile, ma di intere collettività, spesso entusiaste. Si rivede così la fiducia nella figurazione, nello splendore dei colori, magari con ingenuità».
L’arte contemporanea è davvero astrusa?
«La tragedia della sua incomunicabilità penso sia palese alla stragrande maggioranza delle persone. L’arte deve tornare alla bellezza che è, come dice Stendhal, promessa di felicità. L’arte contemporanea si crogiola invece nell’esteticità. Ben altra cosa».
Nella sua casa di campagna a Calcata, con sua moglie ospitate un vero zoo: gru, cicogne, pavoni, muli. Perché?
«Li abbiamo scelti per la loro bellezza. La nostra generazione ha scoperto che siamo tutti figli della natura. L’Homo Sapiens è l’unico essere responsabile, ma condivide con gli altri un intero mondo, compresi alcuni diritti. Il primo fu un asino: vedendo il film Au hasard Balthazar di Robert Bresson scoprii quanto l’asino somigli all’uomo».
Col libro «Il sorriso di tenerezza/ Letture sulla custodia del creato» lei richiama esplicitamente le parole di Papa Francesco. Cosa pensa di lui?
«Penso sia l’unica persona capace di convincere il mondo contemporaneo a cambiare stili di vita, a difendere l’ambiente, ma evitando che terra e natura vengano divinizzate. Tentazione ricorrente dell’ambientalismo».
Concludendo: pensa di essere un architetto compreso o incompreso?
«Devo compiere un peccato di superbia. Credo che ciò che ho fatto non sia stato ancora compreso veramente e magari lo sarà tra trenta o cinquant’anni. Ho avuto e ho molti nemici ma se davvero si cambiasse stile di vita, si capirebbe che la mia architettura è “calda”, non “fredda”. Jean Clair parla della “giustizia delle forme”. Prendiamo Marcello Piacentini. Hanno tentato di distruggerlo dandogli del fascista... ma alla fine ha prevalso la “giustizia delle forme”. Un caso che apre il cuore alla speranza».
Indisponibili alla mercificazione
di Francesco Biagi (Comune-info, 16 marzo 2016)
In questi giorni sono oggetto di dibattito pubblico l’atto politico della cancellazione dei murali di Blu, da parte dell’autore e di altri compagni dei centri sociali che ospitavano queste opere. Non voglio ripetere elementi della vicenda che già molti lettori e lettrici di Comune conoscono, su eddynburg infatti sono stati raccolti diversi articoli che riflettono su questo. Dai Wu Ming inoltre abbiamo appreso la trama di potere e il desiderio di profitto dietro a questo tentativo di esporre i murali in un museo. Ciò che vorrei fare è riflettere sull’idea di città che Blu ci vuole comunicare con questa netta scelta politica.
Dietro alla cancellazione delle sue opere c’è una precisa idea di città, di spazio urbano e di come quest’ultimo debba essere riprodotto. Di fatto, Blu cancella parte di se stesso per rimanere coerente ai suoi medesimi ideali. Questa scelta però la compie - in ogni caso - nella dimensione collettiva chiedendo ai compagni e alle compagne dei centri sociali XM24 e Crash di aiutarlo nell’azione. La farsa del potere però non si ferma, e denuncia chi ha aiutato Blu nella cancellazione.
Non è buffo sapere che chi amministra una città come Bologna punisce a suo piacimento chi dipinge i murali o chi li cancella. Entra in gioco la dinamica del potere per cui sovrano è colui che decide dello stato di eccezione e a suo piacimento permette o non permette un’azione. Blu, infatti, ha fiutato l’odore putrido del dispositivo governamentale che ora voleva fagocitare le sue opere in un museo a pagamento. Blu ha compreso - per utilizzare il lessico gramsciano - la rivoluzione passiva a cui venivano sottoposte le sue opere e per questo le ha distrutte! Blu e le sue opere sono indisponibili alla mercificazione dello spazio e della cultura, sono indisponibili - fino all’estremo di preferirne la distruzione - a chi vuole speculare e fare profitto sui suoi colori.
Con la cancellazione delle sue opere Blu compie un atto “polemico” - per dirla con Jacques Rancière - rendendo visibile il disaccordo che si istituisce di fronte a un “torto”. Il torto radicale, inaccettabile è la mercificazione di ciò che è stato fatto per tutti e in nome di tutti, per la cittadinanza e affinché essa ne usufruisse liberamente e gratuitamente. L’opera di Blu quindi si configura come uno spazio polemico e di conflitto, è uno spazio di disputa permanente sul quale l’artista pone un “no” radicale a qualsiasi iniziativa del neoliberismo.
L’atto compiuto da Blu non è molto diverso da chi occupa una casa sfitta o uno spazio di un’immobile vuoto di proprietà pubblica o privata per farlo rinascere, per restituirlo alla sua funzione sociale. Attraverso l’atto di Blu siamo in piedi, con la schiena ritta, di fronte ad un neoliberismo che starà anche vincendo, ma che non può ridurre tutto a merce. Riuscirà a mercificare tanto, tantissimo, anzi quasi tutto, ma non tutto. Con Blu impediamo il compiersi in pienezza di questi processi mercificatori, ponendo un confine invalicabile: questa parte di città non è in vendita.
L’intellettuale francese Henri Lefebvre avrebbe detto che Blu ha praticato un atto radicale di quella pratica urbana che ha definito come il “diritto alla città”. L’autore francese con questo concetto ha voluto pensare le differenti possibilità di lottare e intraprendere una battaglia politica per il diritto a cambiare e reinventare lo spazio urbano in modo più conforme ai desideri e ai bisogni sociali, in modo particolare dei più deboli e oppressi. Questa categoria interpretativa delle controcondotte che tentano di frenare la rapacità del modello imposto dalla città neoliberale, si delinea come un esercizio comune che una collettività deve intraprendere per rivendicare uno spazio emancipatorio nei processi di urbanizzazione del territorio.
Al giorno d’oggi - nel pieno della crisi finanziaria - cittadini, gruppi sociali e movimenti ritrovano identità e senso per il loro agire politico in questo termine, e Blu ci indica una via di ribellione percorribile nel rapporto fra “città”, “decoro” e “gentrificazione”. La città è tale non solo per una conformazione geografica o urbanistica, ma per la costruzione comune tessuta dagli abitanti. Il diritto alla città diviene quindi la chiave di volta per frenare i processi di spoliazione, ma anche per ritessere e reimmaginare la città che vorremmo. Il diritto alla città è quell’ideale che riconnette i desideri e i bisogni sociali alla loro concreta praticabilità. Se questo non è permesso - ci dice Blu - allora non userete nemmeno le mie opere per i vostri abusi.
Per Henri Lefebvre la città è come una metafora, o meglio, quasi una sineddoche del concetto di “società” infatti viene definita come una “proiezione della società sul territorio”. La città è la società nella sua declinazione spaziale, è nella forma della città che la società si costituisce tale, e nella produzione dello spazio urbano consente a se stessa un’organizzazione compiuta. Indagando lo spazio dell’organizzazione e del governo degli uomini vedremo emergere le differenze di classe, è la dimensione spaziale il luogo dove più che mai l’economia capitalista modella quotidianamente il sociale.
Nei due volumi dedicati a La produzione dello spazio Lefebvre descrive l’evoluzione che le città oggi vivono attraverso il prisma della dimensione spaziale. L’urbano sta subendo sempre più una forma di “rappresentazione dello spazio”, ovvero attraverso questo concetto l’autore intende evidenziare come lo spazio urbano prodotto dagli architetti, dai pianificatori e dagli urbanisti sia intrinsecamente pensato secondo i rapporti di produzione determinati e imposti dal mercato. Le opere di Blu ad esempio spezzavano radicalmente queste logiche. Lefebvre infatti distingue il concetto di “rappresentazione dello spazio” (dove intravvediamo la morte di un progetto unitario per la pianificazione urbanistica) da quello di “spazio di rappresentazione” (intendendo con il secondo termine lo spazio invece creato dalle istanze e dai bisogni della cittadinanza tutta, in particolar modo dai gruppi meno abbienti). Il filosofo francese quindi alla critica dei processi di asservimento della città all’economia capitalista distingue sempre alcune possibilità di sottrarre lo spazio pubblico alle logiche neoliberali, dove la cittadinanza rende visibile e promuove le proprie istanze valoriali all’interno di momenti di partecipazione collettiva. Blu era questo per la città, pena il suo non-senso.
I due concetti - per Lefebvre - vivono una situazione di conflittualità permanente e latente. Lo spazio urbano viene così sottoposto a processi di mercificazione come “urbanistica dei promotori di vendita”, in cui prevalgono le logiche di mercato, trasformando le città in un prodotto attraente e desiderabile per i capitali e per i grossi gruppi finanziari. All’interno di questo processo il valore di scambio dello spazio si impone in modo autoritario sul valore d’uso della cittadinanza, la quale è radicalmente esclusa da ogni processo decisionale. La valorizzazione speculativa di molti spazi abbandonati o chiusi a causa della crisi economica assume proprio questa matrice: non i bisogni dei cittadini, nessuna progettazione urbanistica partecipata, ma l’imposizione di luoghi che permettono profitto economico a prescindere dalla loro utilità e sensatezza.
Blu dice che la sua arte non è un oggetto buono per tutte le stagioni, buono per l’esposizione estetica fine a se stessa. La sua opera ha senso profondo solo sui muri esposti alla pioggia e alle intemperie, al sole quando c’è, e agli occhi di chi - soprattutto - si è visto sottrarre pezzi di cittadinanza, di città e dignità nello spazio urbano in cui vive.
La città vive di cittadinanza
Ritrovare il valore civile dello spazio urbano contro la dittatura della «postmetropoli»
di Vittorio Gregotti (Corriere della Sera, 12.10.2015)
Come è possibile nei nostri anni, individuare un elemento fondante che si costituisca come riferimento nel tempo di una nuova città? Non più centri cerimoniali, né luoghi dei morti come fu per l’uomo paleolitico, ma neanche le tracce fondative del cardo e decumano, né le fortificazioni come traccia complessiva dell’insieme urbano, né la divisione per funzioni di cui il «centro» e la periferia sono due parti strutturali di vita collettiva in perfetto equilibrio, o il palazzo imperiale è il centro di comando e l’elemento fondante e invece la città è lo schema della perfetta viabilità, o quello intorno ad un grande centro di produzione (niente di più provvisorio). Oppure è un’utopia urbana ed il nucleo stabile è rappresentato dai sistemi che si occupano di cultura scientifica, delle arti, della società stessa e dell’insegnamento, anche se sappiamo bene come tutto questo è ciò che di più dinamico una società potrebbe produrre, e quindi è assai arduo far assumere ad esso una forma stabile.
Ma gli esempi del genere potrebbero continuare, a partire da quello della semplice necessità di abitare: senza gerarchie sociali come luogo dell’incontro necessario di una cittadinanza ideale che muove tra libertà ed equità.
Lo spazio progettuale dei nostri anni è invece probabilmente quello della modificazione della città come qualcosa di esistente a partire dalla conservazione delle sue qualità restanti, nel tentativo di attribuire ad essa un senso specifico anche in relazione al territorio, con la piena coscienza della possibile provvisorietà di quella stessa specificità ed a partire dal tentativo di calmare l’apparente ansiosa necessità della continua variazione del nuovo in tutta la sua provvisorietà come unico valore, ed immaginare un principio insediativo capace invece di durare a lungo ed affrontare il tempo della città in mutazione.
Nei nostri anni di globalismo (lo sappiamo) la città si esprime soprattutto nello sviluppo apparentemente illimitato delle «postmetropoli», sia nelle grandi concentrazioni asiatiche e sudamericane che in quelle, specie africane, che ne assumono la scala per mezzo degli sconfinati accampamenti autocostruiti delle loro poverissime periferie.
L’attenzione nei confronti della città media (non solo europea) si è enormemente affievolita, in parte anche perché molte di esse imitano in modo provinciale le figure delle postmetropoli, in parte perché molte non hanno trovato (nonostante, per alcune, le loro gloriose storie) una sufficiente specificità o un peso economico adeguato. Tuttavia il problema delle «città medie», ed anche piccole, è costitutivo, almeno in Europa, della struttura del territorio, ne articola il servizio con le (relativamente) brevi distanze reciproche. Tuttavia in queste realtà anche la struttura, le architetture e le loro modificazioni ed i nuovi principi insediativi sono incerti, estranei e sovente rovinosi.
Questo non significa un nuovo come ritorno ad un passato neoeclettico e stilistico, ma la ricerca di un inizio capace di muoversi dialetticamente rispetto ad esso e quindi di opporre alle bizzarrie provvisorie dell’architettura nelle città l’interrogativo di quale sia il loro rapporto con quella parte di cittadinanza ancora preoccupata del valore civile della città e del suo disegno. A tutto questo Luigi Mazza cerca di rispondere con un recente volume dal significativo titolo Spazio e cittadinanza (Donzelli editore) per concludere che «le pratiche di governo del territorio sono pratiche politiche» e che in questi anni proprio la relazione tra spazio urbano e cittadinanza si è perduta, perché la finalità primaria del governo della città e del territorio si è posta al servizio del capitalismo finanziario globale ed ha fatto dell’architettura uno strumento «di visibilità dei propri principi», sovente assai lontani da ciò che può fondare, gestire e rappresentare l’interesse di una cittadinanza civile.
Il bel libro di Mazza muove dai tre archetipi di governo del territorio, dalla griglia di Ippodamo da Mileto, alla fondazione come espressione del potere militare rappresentato da Roma (e su questo tema fa riferimento al libro di Joseph Rykwert sul tema dell’idea della città) ed ad un terzo archetipo, in cui la città è composta da sudditi di un potere, un tempo religioso o imperiale, che è ciò che avviene in modi diversi più complessi ed indiretti anche nei nostri anni.
Vi sono poi tre capitoli dedicati al sorgere ed allo svilupparsi del tema della cittadinanza, con speciale contributo (fin troppo specifico) della cultura inglese e nordamericana dal XVIII al XX secolo.
A tre protagonisti architetti urbanisti, costruttori di esempi della città del XIX e XX secolo Ildefons Cerdà, Ebenezer Howard e Patrick Abercrombie (mettendo da parte, non è chiaro perché, Georges Eugène Hausmann, nonostante la sua grande influenza) Mazza dedica una riflessione intorno alla ricerca di un equilibrio positivo tra disegno urbano e cittadinanza. L’apertura nel capitolo successivo è dedicata alle idee intorno al «diritto alla città», a partire da Henri Lefebvre e dalla loro fondamentale importanza nella relazione tra spazio e cittadinanza urbana e territoriale.
Le conclusioni del libro non sono tanto pessimiste da negare la possibilità che domani la cittadinanza torni ad essere «forma di autodeterminazione (...), occasione e spazio in cui i cittadini possono partecipare ad un dialogo di ricostruzione istituzionale» espresso, io aggiungo, in un disegno dell’architettura della città.
Cari ragazzi dovete rompere le scatole
La “rivoluzione” del grande architetto nelle conversazioni con gli studenti delle università Usa: basta parallelepipedi, gli edifici sono esseri viventi e dialogano con il paesaggio
di Frank Lloyd Wright (La Stampa, 16.09.2015)
L’architettura organica
Cosa costituisce un bell’edificio? Cosa crea una bella atmosfera in cui vivere, muoversi, esistere? Come puoi migliorare, senza distruggere, il paesaggio in cui vivi? E quali sono i princìpi all’origine di ciò che chiamiamo architettura organica? Questo principio di cui stiamo parlando in architettura è la cosa più antica, probabilmente, nel pensiero filosofico! Gesù stesso era il più grande promotore dell’architettura organica! Perché e come? Quando ha detto: «Il Regno di Dio è dentro di voi». Ecco dov’è il regno dell’architettura! È dentro di voi! È nella realtà della vostra situazione! Nella natura del vostro ambiente! La natura del vostro luogo! La natura del cumulo su cui dovete stare in piedi! È nella natura delle cose! Ed è nello studio della natura che troverete la differenza tra un’ideologia democratica della civiltà - di una cultura - e un ideale nazista o comunista, o qualsiasi altro ideale! Sta proprio in questo. Nello scoprire l’innato principio e la natura di ciò che è! Non abbiamo bisogno di educazione architettonica, abbiamo bisogno di cultura architettonica
Le Corbusier chi?
Come siamo costruiti noi? Come siete costruiti voi? Dall’interno. Siete costruiti su una spina dorsale. Guardate un albero. Supponete che costruisca quell’albero dall’esterno e cerchi poi di crearne l’interno. Assurdo. È tutto senza senso ma è considerata una buona pratica, e infatti c’è Mies van der Rohe che cerca di prendere quella struttura di acciaio e renderla architettura, pensando solo alla struttura: la struttura: la struttura. Le Corbusier, chi è? È un pittore, non un architetto! Vede la facciata esterna. Anche lui è un uomo di facciata. Sono tutti uomini di facciata, sono tutti sidewalk-happy. Non vedono nemmeno la natura. Non vedono l’albero. Non ti vedono. Non vedono nulla dall’interno.
L’albero e il grattacielo
Quando ero giovane andavo per foreste e vedevo alberi abbattuti con le radici verticali come una mano alzata sopra di essi, poi ho visto alberi un po’ piegati, ma che stavano in piedi, e ho scoperto che erano alberi con la radice a fittone. Ecco da dove ho preso le fondamenta a fittone, come nel Johnson Building e nella Price Tower; come nel Mile-High Building: le fondamenta a fittone. Non ci sarà alcuna oscillazione in cima a questo edificio, nient’affatto. Un’altra sua caratteristica, ovviamente, saranno i pavimenti a sbalzo. I pavimenti sono come braccia che si estendono dal tuo corpo, e i muri sono le tue dita incollate alla fine delle tue mani, tutto l’esterno dell’edificio è appeso alla spina dorsale interna, così abbiamo una pioggia di cavi d’acciaio all’esterno dell’edificio - come questa - che sospende tutti i pavimenti al nucleo centrale. Così ha un’enorme stabilità grazie al modo in cui è costruito.
Musica e architettura
Beethoven è stato probabilmente il più grande architetto mai vissuto. Mio padre mi ha insegnato a vedere una sinfonia come un’architettura di suoni e non ascolto mai una sinfonia senza prefigurarmi un edificio, vedere come è stato costruito, come vengono poste le fondamenta, come l’edificio viene creato dal suono. Queste sono le due grandi arti coerenti: la musica e l’architettura. E non pensate che l’architettura sia musica congelata. Non lo è. Se fosse congelata, non sarebbe architettura. Ed è tale solo in quanto vivente - il ritmo e l’espressione dell’anima umana, e lo spirito - che è architettura.
Dall’interno verso l’esterno
La «scatola» nell’architettura ha una lunga e onorata storia, perché non c’era modo di costruire un edificio se non, in pratica, facendo una scatola o erigendo colonne che formano una scatola. Ma da quando, nell’epoca moderna, abbiamo avuto un materiale, anzi due: l’acciaio e il vetro, i due elementi possono abolire, se vogliamo abolirla, la scatola. Naturalmente gli architetti, essendo colti, sono legati al passato e ritengono ancora che il parallelepipedo sia «la base» di tutto, come dicono loro di solito. In questo modo, ottieni l’edificio delle Nazioni Unite; ottieni queste nostre città legate all’architettura antica che, ovviamente, era la «scatola». Ma questo non è tipico di quella che chiamiamo architettura «organica» o «moderna».
La scatola era un contenitore con ogni cosa al suo interno. Viceversa, la nuova idea intendeva eliminare la scatola, lasciando che ogni cosa all’interno si proiettasse verso l’esterno e dialogasse col suo ambiente. Così l’ambiente, l’interno e la vita stessa diventarono una cosa sola. Per avere un’idea precisa del «moderno» dobbiamo usare la parola organico, ovvero integrale; ciò che procede dall’interno verso l’esterno. Possiamo eliminare il muro esterno di un edificio; fuori ci sono gli alberi, forse un panorama, dell’acqua e un lago. L’interno è lo spazio della stanza in cui vivi e abiti. Se metti in relazione questo spazio interno con questo senso esterno del paesaggio e della vista, hai portato nella tua esistenza la bellezza di entrambi contemporaneamente. Prima, questa era una stanza e questo era un muro che ti separava dal paesaggio, mentre ora è qualcosa che ti permette di dialogare col paesaggio.
Il mattone è vivo
Credo sia stato Paracelso a dire che non c’è oggetto o forma in natura che non sia vivo. Per Paracelso, un mattone sarebbe vivo. Per un buon architetto, un mattone è vivo nello stesso identico senso. Per un buon designer o artista, ciò che egli guarda è vivo. Ha una vita propria, ed è quella vita funzionale alla cosa ciò che interessa all’artista creativo e alla mente creativa, perché il mattone ha un’individualità - che gli è stata data dal fuoco -, la pietra è stata prodotta nei secoli per mezzo del sedimento di varie cose. Tutto questo arriva all’essere secondo determinate condizioni e trova un’espressione precisa nella natura delle cose. Ogni vero artista è un interprete. Deve vedere in profondità. Deve vedere la natura e manifestarla in ciò che fa. La cosa universale è la cosa naturale.
Percepire gli spazi
Il cervello architettonico
di Gabriele Neri (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.06.2015)
Harry Francis Mallgrave, L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano, pagg. 298, € 28,00
«Il fatto che percepiamo (e quindi concepiamo) l’ambiente costruito tramite l’intero nostro corpo (e non semplicemente i nostri sensi o il nostro cervello) può sembrare una cosa del tutto ovvia, ma per formazione gli architetti tendono a pensare agli edifici come a oggetti astratti». È questa una delle considerazioni alla base del libro di Harry Francis Mallgrave, intitolato L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, dedicato a che cosa accade dentro di noi quando guardiamo, percorriamo, viviamo un edificio, un’opera d’arte o un oggetto di design.
Mallgrave, docente all’Illinois Institute of Technology, spiega come grazie alle più recenti tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale - ad esempio la risonanza magnetica funzionale - sia possibile mappare le aree coinvolte nel processo percettivo visivo, ricavando informazioni interessanti sulla nostra reazione all’architettura. Prima che da un punto di vista razionale, facciamo infatti esperienza di un edificio emotivamente, attraverso risposte fisiologiche immediate e inconsce. Secondo alcuni studi, la vista di un edificio innesca i ricettori degli oppioidi (le endorfine prodotte dal corpo) nel cervello, producendo un diverso grado di piacere a seconda della sua gradevolezza: piacere massimo davanti a una fila di case pittoresche, minimo di fronte a un edificio per uffici in acciaio e vetro. Tale deduzione, per alcuni scontata, ha un risvolto fondamentale: le persone gradiscono o meno un edificio non per preferenze personali, ma secondo precise ragioni neurologiche. La “bellezza” non sarebbe così un concetto astratto, bensì - secondo alcuni biologi - il risultato di precisi impulsi elettrici e chimici.
Altri studi porterebbero a dividere gli ambienti costruiti in due categorie: quelli che promuovono l’attività parasimpatica e inducono un rilassamento, e quelli che invece stimolano l’attività simpatica e il consumo di energia. La Galleria Nazionale di Mies van der Rohe a Berlino, con la sue linee regolari e classiche, sarebbe «una tranquilla architettura parasimpatica»; all’opposto la Filarmonica di Scharoun, con le sue superfici sghembe, «è eccitante in tutte le accezioni del termine» e produrrebbe un’iperattività della mente. Importanti riflessioni sono poi ricavate dalla scoperta dei “neuroni specchio”. Quando guardiamo un’architettura il nostro cervello si attiva - in maniera precognitiva - simulando i movimenti che quegli spazi riescono a evocare. Si instaura perciò una relazione profonda tra essere umano e ambiente fisico, che rimanda al noto concetto di Einfühlung (empatia) sviluppato da Robert Vischer nel 1873.
Domanda: come possono influire queste scoperte e ipotesi sulla progettazione? In primo luogo, se tali esperimenti rafforzano il ruolo dell’emozione nei nostri processi di comprensione del mondo e degli edifici in cui viviamo, per Mallgrave dovremmo ridimensionare tutte quelle eccessive «astrazioni concettuali prive di ogni risonanza corporea» che hanno dominato le recenti teorie architettoniche. Gli architetti, infatti, «hanno indirizzato i loro sforzi verso l’”intelletto”, ignorando il più ampio dominio ambientale del corpo/mondo» e senza considerare che mente, corpo, ambiente e cultura sono connessi tra loro a livelli diversi.
Nonostante vi siano architetti attenti a questa dimensione emotiva e multisensoriale - ad esempio Peter Zumthor, legato a una concezione artigianale del costruire - secondo Mallgrave molti di essi oggi inseguono soltanto immagini fotogeniche, e non invece «un ambiente sensibile al benessere umano e alle inclinazioni sensoriali». Uno dei colpevoli sarebbe il computer, che impedisce ai progettisti di «tornare alle cose reali del mondo», tagliando il legame neurologico tra la testa e la mano. «Quando la testa e la mano divorziano - ha scritto Richard Sennet - è la testa a soffrirne».
Come sottolinea Mallgrave - che mescola biologia, psicologia, filosofia, storia dell’architettura, antropologia e neuroscienze con estrema chiarezza - siamo solo all’inizio di un campo d’indagine immenso e sfaccettato. Sono ancora pochi gli esperimenti direttamente riferiti alla percezione neurologica dell’architettura, la quale avviene attraverso stimoli e condizionamenti difficilmente schematizzabili. I risultati attesi nei prossimi anni potrebbero tuttavia essere di grande impatto per i progettisti che volessero prenderli in considerazione. «Il fatto che le tecniche di visualizzazione cerebrale possano catturare sullo schermo i “brividi lungo la schiena” che potrebbero verificarsi durante l’ascolto di un improvviso di Schubert o l’ingresso in una cattedrale medievale indica che vi sono molte possibilità in tal senso».
“Rammendare le periferie così salveremo le nostre città”
di Renzo Piano (la Repubblica, 26.11.2014)
QUANDO il presidente Giorgio Napolitano mi ha nominato senatore a vita non ho chiuso occhio per una settimana. Mi domandavo: io, un architetto che la politica la legge solo sui giornali, cosa posso fare di utile per il Paese? Un Paese bellissimo e allo stesso tempo fragile. Sono state notti di travaglio ma alla fine si è accesa una lampadina: l’unico vero contributo che posso dare è continuare a fare il mio mestiere anche in Senato e metterlo a disposizione della collettività.
Mi sono ricordato di una scena del film Il postino con Massimo Troisi, quando il personaggio di Pablo Neruda spiega: sono poeta e mi esprimo con questo linguaggio. Io invece sono un geometra genovese che gira il mondo e costruisco usando il linguaggio che conosco, quello dell’architettura.
Ecco cosa posso fare. Mi son detto: l’architetto è un mestiere politico, dopotutto il termine politica deriva da polis che è la città. La risposta come la intendo io è questa: quello che farò è un progetto di lungo respiro, come la carica di senatore a vita impone. Ma quale progetto?
Dagli studi liceali è affiorato alla memoria il giuramento degli amministratori agli ateniesi: prometto di restituirvi Atene migliore di come me l’avete consegnata. Per tutte queste ragioni ho pensato di lavorare sulla trasformazione della città, sulla sua parte più fragile che sono le periferie dove vive la stragrande maggioranza della popolazione urbana.
Credo che il grande progetto del nostro Paese sia quello delle periferie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. Sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare. Ma le periferie sono sempre abbinate ad aggettivi denigranti.
Renderli luoghi felici e fecondi è il disegno che ho in mente. Questa è la sfida urbanistica dei prossimi decenni: diventeranno o no parte della città? Riusciremo o no a renderle urbane, che vuole anche dire civili? Al contrario dei nostri centri storici, già protetti e salvaguardati, esse rappresentano la bellezza che ancora non c’è.
Poi la periferia fa parte del mio vissuto, da sempre. Sono nato e cresciuto a Pegli, nella periferia di Genova verso Ponente vicino ai cantieri navali e alle acciaierie. Nel ‘68 quando ero studente al Politecnico di Milano vivevo a Lambrate e andavo rigorosamente in periferia per fare politica e anche per ascoltare jazz al Capolinea, in fondo ai Navigli come dice il nome stesso.
E anche oggi i miei progetti più importanti sono la riqualificazione di periferie urbane, dalla Columbia University ad Harlem, al nuovo palazzo di giustizia della banlieue di Parigi al polo ospedaliero di Sesto San Giovanni che sorgerà dove un tempo c’era la Falck. Un’area che gli anglosassoni chiamano brownfield, ovvero un terreno industriale dismesso.
Questo è un punto importante nel nostro progetto di rammendo. Oggi la crescita delle città anziché esplosiva deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree abbandonate dalle fabbriche, dalle ferrovie e dalle caserme, c’è un sacco di spazio a disposizione. Si deve intensificare la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte.
Di certo non bisogna costruire nuove periferie oltre a quelle esistenti: devono diventare città ma senza espandersi a macchia d’olio, vanno ricucite e fertilizzate con strutture pubbliche. È necessario mettere un limite a questo tipo di crescita, non possiamo più permetterci altre periferie remote, anche per ragioni economiche. Diventa insostenibile portare i trasporti pubblici, realizzare le fogne, aprire nuove scuole e persino raccogliere la spazzatura sempre più lontano dal centro. Per questo con il mio stipendio da parlamentare ho messo a bottega sei giovani architetti che si sono occupati nell’ultimo anno di rendere più vivibili lembi di città a Roma, Torino e Catania. E il prossimo anno saranno altri ragazzi a raccoglierne il testimone e a continuare.
Mi piace parlare di giovani perché sono loro e non io il motore di questa grande opera di rammendo e sono loro il mio progetto. Le periferie e i giovani sono le mie stelle guida in questa avventura da senatore, e non solo. Mi piace anche il concetto di bottega che ha una nobile e antica origine, una sorta di scuola del fare che in questo caso significa fare per il nostro Paese. Anche perché i nostri ragazzi devono capire quanto sono stati fortunati a nascere in Italia. Siamo eredi di una storia unica in tutto il pianeta, siamo nani sulle spalle di un gigante che è la nostra cultura.
Qualcosa noi del G124 abbiamo fatto: si tratta di piccoli interventi di rammendo che possono innescare la rigenerazione anche attraverso mestieri nuovi, microimprese, start up, cantieri leggeri e diffusi, creando così nuova occupazione. Si tratta solo di scintille, che però stimolano l’orgoglio di chi ci vive. Perché come scriveva Italo Calvino: “ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”. Questi frammenti vanno scovati e valorizzati. Ci vuole l’amore, fosse pure sotto forma di rabbia, ci vuole l’identità, ci vuole l’orgoglio di essere periferia.
La modernità patrimonio comune europeo
L’idea di società prodotta dall’Illuminismo non si è esaurita con la globalizzazione
di Vittorio Gregotti (Corriere della Sera, 30.08.2014)
Nella mia generazione vi è stata una lunga contesa intorno a chi fossero i primi moderni. Nella rivista «Casabella» degli anni Cinquanta, le pressioni della mia generazione si erano rivolte anzitutto, forse un po’ troppo prudentemente, ai maestri dei maestri, e quindi alla generazione degli architetti come Van de Velde o Wagner, Tony Garnier o Berlage, sino a Perret e Behrens. Tutto questo nonostante gli uomini di lettere, gli storici e i filosofi si spingessero a identificare i moderni con il pensiero illuminista, e persino con Montaigne.
Per la mia generazione credo, e certamente per me, la sistemazione ordinata e convincente per l’architettura dell’idea di modernità mi fu proprio regalata dal libro del nostro eroe di oggi: Joseph Rykwert. Nella nostra ininterrotta amicizia, che risale a più di sessantacinque anni or sono, ricordo che avevamo, per frammenti discontinui, più volte discusso in molte occasioni pubbliche e private (a partire dal dibattito su questo argomento al Ciam di Hoddesdon) la questione della storia e del contesto fisico e culturale che sarebbe divenuta, in forme molto diverse, materiale essenziale dei progetti della mia generazione. Come anche i celebri libri di Joseph: sulla città, su La casa di Adamo in Paradiso o sulla «seduzione del luogo», solo per citarne alcuni, ci hanno insegnato poi.
Il libro I primi moderni fu pubblicato nel 1980, come una risposta radicalmente alternativa all’ideologia del postmoderno (un’ideologia ben lontana anche dalla descrizione critica di Jean-François Lyotard) che a quella data stava diventando rispecchiamento architettonico dell’era del capitalismo finanziario globale, capace di dimenticare gli ideali della modernità e fare di essi un esercizio di stile mercantile.
È un libro che riletto oggi è lontano da ogni pedanteria accademica e propone con grande talento narrativo una naturale intimità con i personaggi, gli eventi e le situazioni della cultura architettonica europea e delle sue relazioni con la società del XVII e XVIII secolo; comprese le dispute, le ambizioni, i desideri di esibizione, gli «Splendori effimeri», per usare il titolo di un capitolo del libro, ma anche le coraggiose interpretazioni di uno storico-antropologo come Joseph Rykwert che la caratterizzarono. Compresa, in primo piano La verità messa a nudo dalla filosofia cioè dalla Encyclopédie di Diderot e D’Alembert e di Jacques-François Blondel per l’architettura.
Non vi è dubbio che la tradizione iconologica, che con alcuni metodi dell’antropologia ha spazi di tangenza evidenti e che utilizza tutte le testimonianze figurative come fonti storiche per la ricostruzione della storia della cultura, la valorizzazione del contenuto (ben distinto dal soggetto) dell’opera, abbia, nel lavoro di Rykwert storico dell’arte, un’importanza riconoscibile: certo comunque, nella tradizione warburghiana, sia dalla parte di Edgar Wind che da quella di Erwin Panofsky.
Al centro del libro vi è la complessa costituzione della nozione stessa di modernità e delle sue diverse interpretazioni nella storia. Per noi, oggi, tutto questo è accentuato dalle simulazioni che attraversano l’idea stessa di modernità: dalla sua negazione, alla sua falsificazione tecnico-mercantile e dalla sua identificazione con l’idea di novità e di accelerazione, di rivalutazione nella forma del tutto opposta del «meraviglioso e del distante» (in una sorta cioè di caricatura del Romanticismo) purché comprabile e provvisorio. Inoltre i «percorsi della libertà» dell’architetto descritti da Rykwert dopo più di cinquecentocinquant’anni sono oggi sospinti dallo stato di nuove incertezze, promosse dalla liquefazione delle specificità e dei fondamenti del nostro mestiere, anche questa volta, come scrive sempre Rykwert, «dall’iniziato al dilettante».
Mi rendo conto che la mia è un’interpretazione con lo sguardo di oggi dell’insieme delle raffinate riflessioni che I primi moderni ci offrono dei significati della parola modernità; non solo quelle di classico e neoclassico, ma anche di romantico, di neogotico o di eclettismo. Ma è la capacità di suscitare tali interpretazioni critiche, non solo di epoche storiche diverse, ma come fondamento del nostro lavoro di architetto di oggi che rende questo libro prezioso e vivo dopo trentacinque anni.
All’inizio del libro Rykwert scrive: «La parola classico e classicista comportano un senso di autorità e di discriminazione, vale a dire di distinzione di classe. La parola neoclassico è associata a rivoluzione, oggettività, illuminismo, uguaglianza». I nostri anni hanno invece trasferito «il piacere della precisione» da «fondamento di un’architettura universale» (per seguitare a citare i significativi titoli dei capitoli del libro) a servizio del mercato delle immagini.
L’interesse di Rykwert è soprattutto concentrato sul passaggio dall’idea di modernità tra il XVII ed il XVIII secolo, collocando con precisione anche il ruolo storico degli architetti dell’Illuminismo. Naturalmente a questo segue una riflessione sui diversi gradi interpretativi intorno alla parola «romantico» a cui potrebbe seguire la collocazione critica delle ragioni del Neogotico; sia quelle neocattoliche di Pugin che quelle strutturiste di Viollet-le-Duc, come anche le interpretazioni positiviste e del dominio della geometria descrittiva di Louis Durand, utilissime per le ragioni dell’eclettismo della seconda metà del XIX secolo.
Il libro mette anche in evidenza come l’intervento della nozione di gusto alla fine del XVIII secolo, contro ogni valore assoluto proposto dall’idea di classicità, così come lo spostamento degli architetti dalle corporazioni alle accademie abbiano indebolito la posizione dell’architetto nei suoi fondamenti di mestiere. Un indebolimento che le condizioni di produzione, specie quelle di grande scala, hanno oggi accentuato con la collocazione dell’architetto come ideatore di immagine di un prodotto già definito nei suoi elementi di progetto.
La sua conclusione richiama l’opera dell’architetto alla centralità del problema della forma ma è l’intero sviluppo del libro a richiamare continuamente la complessità di quel problema e delle discussioni appassionate intorno alle sue interpretazioni di parte degli architetti, soprattutto quelli del diciottesimo secolo, con cui, pur con tutte le differenze delle nuove condizioni, economiche e tecnologiche e di profonda crisi di valori collettivi a cui siamo oggi di fronte, è necessario confrontarsi.
Che cosa quindi ha insegnato a tutti noi il libro I primi moderni di Joseph Rykwert? Anzitutto qualcosa di importante attorno al patrimonio culturale comune della cultura europea, ancora più importante oggi, nel mondo globale, per chi crede al contributo possibile della specificità strutturale della cultura dell’Europa.
Ma il libro è anche un contributo alla complessità e contraddittoria interpretazione del bene comune e dell’idea di progresso civile, non solo quindi del progresso dei mezzi ma di quello dei fini di un bene collettivo come l’architettura, fondato sui frammenti significativi di verità che essa è in grado di proporre.
In modo più specificamente rivolto alla nostra pratica artistica tutto questo ci suggerisce che la creatività del processo progettuale è forma di modificazione della coscienza critica fondata sul terreno della storia, un terreno insostituibile ma che ci lascia liberi e responsabili della direzione da assumere per la ricerca di qualche elemento strutturale di conoscenza del presente, cioè di ogni nostro futuro possibile e necessario.
L’architettura è arte, non un testo
Senza porsi obiettivi e cercare significati progettare non ha senso
di Vittorio Gregotti (Corriere della Sera, 05.07.2014)
L’avvenire non può anticiparsi che nella forma del pericolo assoluto scrive Jacques Derrida in De la grammatologie. Infatti non sempre, quando si legge un libro, si è nel momento criticamente adatto per riceverlo. Il libro di cui voglio scrivere è: Jacques Derrida e la scrittura dello spazio di Francesco Vitale, pubblicato da Mimesis (pp. 98, e 13), di cui rileggo qui la parte che riguarda l’architettura.
Sono passati un numero sufficiente di anni per poter scrivere con calma, da architetto, intorno al tema del pensiero di Derrida, dei suoi interpreti, delle influenze ma anche dei malintesi prodotti nell’architettura degli ultimi vent’anni, cioè la rimozione (o destrutturazione possibile) «del condizionamento presentato dalla scrittura fonetico alfabetica» (Vitale) nei confronti della spazializzazione (cioè della scrittura dello spazio) come autentica esperienza del vivente.
Purtroppo a queste interessanti riflessioni si è sovrapposto negli ultimi trent’anni il pensiero postmodernista e soprattutto i malintesi che hanno fatto di esso, proprio contro la faticosa conquista del terreno della storia e delle sue forme in termini di contesto da parte del Movimento Moderno, una moda anziché un avvertimento intorno ad una condizione critica della cultura, quale era nelle intenzioni di François Lyotard. Quindi non una nostalgia stilistica, ma una coscienza di come la sua esistenza ci lasci liberi e responsabili della direzione da prendere pur camminando su di essa.
Anche la moda del postmodernismo e la sua superficiale concezione stilistica di ogni passato, divenuta accademia, è oggi al tramonto (anche se i danni si prolungheranno ancora per lungo tempo) e questo sgombra il complicato orizzonte della nostra disciplina da qualche difficoltà, pur lasciandone altre assai complicate come la relazione con la politica o il suo ripudio in nome di un’autonomia linguistica (in particolare puramente sintattica), la questione dell’interdisciplinarietà o quella del futuro tecno-economico come unica possibilità di contenuto futuro. Tutto questo in una falsificata alleanza con il decostruzionismo che aveva ben diversi obiettivi. E tutto questo ha reso ancor più complicato l’orizzonte della cultura architettonica.
Vi sono anzitutto nel libro molti termini come narrazione, scrittura, linguaggio, critica e poi disegno, programma, forma, simbolo, significato, verità, e persino l’atto di abitare, che andrebbero meglio specificati quando si utilizzano sovente con diverso senso nel fare della pratica artistica dell’architettura.
E poi, si può tornare dopo millenni a sospendere nuovamente, pur sulla spinta delle liquefazioni mediatiche, la distinzione tra scrittura e arti visuali? Si può immaginare di proporre architetture che neghino ogni dialettica critica tra autonomia ed eteronomia come materiali della sua costituzione?
Si può accettare l’attuale stato delle cose, che fa dell’illustrazione anziché del progetto l’attuale condizione del fare architettonico, e rinunciare così a proporre l’autentico nuovo come il possibile necessario?
E come dovrebbe essere oggi questa architettura, erroneamente individuata trent’anni or sono nell’opera di qualche architetto come deformazioni dell’immaginazione spaziale delle avanguardie e negazione di ogni impeto rivoluzionario proposto dal movimento moderno? So che sono interrogativi privi di risposte convincenti, ma convincente ed inevitabile resta proprio l’interrogativo.
Derrida definiva l’architettura come «la scrittura dello spazio» (cioè «la spazializzazione del senso come condizione dell’esperienza») come quella del disegno, che è in architettura ovviamente uno strumento di ricerca del senso complessivo del progetto. Scrive Derrida (Talking about writing, 1993) che è oggi necessario «cercare una scrittura in grado di sfuggire all’analogia della scrittura del libro», poi scopre che il progetto «è scrivere l’architettura disegnando», fissando cioè una modalità della spaziatura, che è ciò che da sempre si fa procedendo nel disegno di progetto, dai primi segni alla loro organizzazione complessiva.
Certamente il linguaggio cinematografico, già dai tempi delle avanguardie del primo trentennio del XX secolo, e molto di più nei nostri anni con i sistemi di comunicazioni immateriali, intersoggettive e di massa, avvicinavano il linguaggio derridiano della decostruzione a quello dell’architettura, con vantaggi interessanti come la continua apertura a possibilità spaziali altre. Oggi però anche con danni quasi irreparabili come quello della perdita del disegno come strumento di indagine di progetto.
Ciò che Derrida (e Francesco Vitale come suo interprete) rifiuta è che l’architettura sia rappresentazione di un significato. Ma anche questo si presta a una doppia interpretazione. Significato, fondamenti, principi, sono materiali, insieme a molti altri, con cui muove criticamente il progetto; essi assumono una forma che costruisce le proprie regole strutturali il cui significato (non descrittivo come quello della grande musica) sarà interpretato nel tempo attribuendo a esso nuovi sensi, senza però che la sua struttura significante possa essere violata.
Derrida scrive che «l’architettura è l’ultima fortezza della metafisica», e proprio anche da qui forse nasce la necessità di una sua conservazione, che non impedisce in alcun modo le modificazioni interpretative di quella «fortezza metafisica» proposte continuamente dall’esperienza della storia: anche con una sua decostruzione interpretativa. Senza di questo infatti ridurre l’architettura a un elemento transitorio (la trans architettura) in grado di provocare eventi, testimoniare reazioni, divenendo deposito è solo garanzia dell’evento stesso.
Ma l’architettura in quanto pratica artistica (al di là «dell’abitare come essere dell’uomo sulla terra» heideggeriano) ha in questo modo ancora un senso o è proprio il suo senso che è necessario decostruire?
Benvenuta la parresìa, soprattutto nella terra delle teste di paglia
di Tomaso Montanari (Eddyburg, 15 Giugno 2014)
Confesso di non aver capito bene perché mi trovo qua. Sono molto onorato dall’invito a trarre le conclusioni di questa giornata, ma non sono sicuro di aver compreso le ragioni che hanno spinto il collega e amico Aldo Norsa ad affidare proprio a me - che non sono veneziano, e non sono architetto - questo ruolo in una giornata dedicata a «Venezia e l’architettura moderna», una giornata che ambisce ad indicare una via che permetta di «superare le incomprensioni».
Posso solo supporre che un certo simpatico sadismo del professor Norsa l’abbia spinto ad invitare uno storico dell’arte ormai, suo malgrado, noto per lo sforzo di usare una certa parresia, cioè un certo parlar chiaro, nelle cose che riguardano il nostro patrimonio artistico. E, d’altra parte, un bellissimo saggio di Richard Sennet, da poco anche tradotto in italiano, illumina il nesso tra diritto di parola e diritto allo spazio urbano: e proprio concentrandosi sul Ghetto di Venezia, e sulla sua trasfigurazione shakeaspeariana.
Verrebbe dunque voglia di esercitare subito questa parresia.
Il fatto che il programma della nostra giornata debba ammettere che non si potrà parlare del progetto che rischia di distruggere anche la memoria del Fontego dei Tedeschi perché la proprietà non ha autorizzato un simile dibattito, nega le ragioni stesse della nostra professione di ricercatori. Si tratta di un veto inammissibile: un segno concreto del totalitarismo del mercato che, deformando la città, arriva a deformare anche le regole più elementari della democrazia.
O ancora: sono desolato che una sovrabbondanza di impegni, o una cortesia di educazione, impedisca alla soprintendente Renata Codello di ascoltarmi (dopo che io ho disciplinatamente ascoltato la sua desolante allocuzione), ma vorrei comunque invitarla a ritirare immediatamente la sua querela contro Italia Nostra e contro Gian Antonio Stella, rei di averla duramente criticata per il suo appoggio all’irruzione delle Grandi Navi in Laguna e per le troppe autorizzazioni rilasciate alla speculazione edilizia che sta uccidendo Venezia. Ebbene, io sottoscrivo ogni parola di quelle denunce: non so se la soprintendente vuole farmi tacere, querelando anche me.
In ogni caso, non tirerò le conclusioni della giornata: perché l’hanno fatto ora benissimo gli studenti dello Iuav, che hanno portato una ventata di sano buon senso e di vigile spirito critico in una sala finora davvero troppo chiusa. Certo, verrebbe voglia di sottolineare alcune delle loro osservazioni: come quella che stigmatizzava l’idea di spostare dalla città storica tutti i servizi (dall’ospedale alle università), una scelta che non potrà che accelerare e aggravare lo spopolamento di Venezia. E poi sarebbe giusto chiedersi come è stato possibile infierire in modo così barbaro sullo spazio interno dell’Arsenale. O, ancora, che senso abbia progettare e costruire il cosiddetto M9, il Museo del Novecento di Mestre, senza ben sapere cosa vi verrà conservato. Il rischio concreto è che l’altisonante etichetta di ’museo’ copra l’ennesima location per mostre come quelle che mortificano da anni il Nordest del Paese: e già si annuncia la prossima, intitolata a Tutankhamon, Caravaggio, Van Gogh. E non è uno scherzo: è l’apoteosi di Marco Goldin.
Proverò, invece, a prospettarvi una semplice idea: quella di ribaltare il tema di questa giornata, di guardarlo in un altro modo. Invece che chiedersi (magari dolendosi) perché la modernità, attraverso, l’architettura, non sia riuscita a modificare Venezia, vorrei piuttosto chiedermi se Venezia, attraverso la conoscenza della sua architettura, non possa riuscire a modificare la modernità: la nostra idea di modernità.
Il risultato, insomma, non sarebbe un’altra Venezia, ma un’altra modernità. Nel chiedermelo, mi sono rammentato di questa affermazione di Vittorio Gregotti: «Ma io penso che ’Venezia città della nuova modernità’ abbia oggi anche un altro significato, perché credo che sia l’architettura moderna ad avere bisogno di Venezia, luogo della storia per eccellenza, da quando sono profondamente mutati, negli ultimi trent’anni, la natura e il significato della nozione di moderno» (1998).
Manfredo Tafuri più di tutti ci ha insegnato la connessione strettissima tra principi, mentalità, azioni dell’amministrazione, politica, idee architettoniche.
E un primo punto sul quale Venezia può insegnare molto, è un nodo cruciale di questa rete: vale a dire il rapporto tra pubblico e privato. La storia di Venezia sul lungo periodo è una storia di progettazione pubblica, collettiva. Perché, più che in qualunque altro posto del mondo, a Venezia non c’è confine tra architettura e urbanistica. Il fatto che la forma della città sia stata fissata, nella sua massima espansione possibile, in una data straordinariamente alta conferisce ad ogni innovazione di una singola architettura quella che vorrei chiamare una responsabilità urbanistica intrinseca.
A Venezia, in altre parole, non c’è sfasatura tra forma e funzione, tra natura e politica. E questa è una prima lezione per la modernità: la responsabilità della progettazione architettonica, la sua obbligatoria coincidenza con una visione urbanistica.
Questo è ancora più vero, se possibile, a proposito di un altro punto fatale per l’architettura moderna: il rapporto tra la città e il suo territorio. Un territorio che a Venezia si chiama Laguna. La Laguna ha vissuto perché lo ha voluto la Repubblica, che ha saputo tenere in equilibrio acqua e terra, forza dei fiumi e forza del mare. Piero Bevilacqua ha scritto che «la storia di Venezia è la storia di un successo nel governo dell’ambiente, che ha le sue fondamenta in un agire statale severo e lungimirante, nello sforzo severo e secolare di assoggettamento degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città». Ecco, questa storia è un progetto perfetto per un’altra modernità. Quella che oggi ci manca.
Naturalmente, si tratta una storia controversa e non mancarono le discussioni: celeberrima quella cinquecentesca tra Alvise Cornaro, che avrebbe voluto bonificare la Laguna, e Cristoforo Sabbadino, che ne difese vittoriosamente la continua manutenzione. Una lezione per la conservazione di tutto il nostro patrimonio: la lezione che Giovanni Urbani ha inutilmente provato a portare nel cuore del Novecento.
Come ci ha lucidamente mostrato Edoardo Salzano, questa storia gloriosa si è interrotta con l’avvento dell’Italia unita, ed è definitivamente collassata negli ultimi quarant’anni di malgoverno veneziano. Per fare entrare le Grandi Navi (turistiche, industriali e commerciali) si sono dragati e approfonditi i canali d’accesso in Laguna, e contemporaneamente se ne è abbandonata la secolare manutenzione. Il risultato è stato un abnorme aumento dell’acqua alta, culminato nella vera e propria alluvione del 1966. Fu proprio quell’enorme choc che mise Venezia di fronte all’alternativa: o riprendere il governo della Laguna e mantenere l’equilibrio, o essere mangiata dall’Adriatico.
Fu allora che emerse la terza via: il Mose, che permise di eludere la scelta tra responsabilità e consumo. L’idea era di continuare indefinitamente a violentare la Laguna e poi rimediare meccanicamente, con una gigantesca valvola che chiudesse le porte al mare. È come se un paziente ad altissimo rischio di infarto venisse persuaso dai medici a non sottoporsi ad alcuna dieta né ad alcun esercizio fisico, e a scommettere invece tutto su una costosissima e complicata operazione di angioplastica. Non verrebbe da pensare solo che i medici sono incompetenti: ma anche che hanno qualche interesse occulto nell’operazione. Follemente, la scelta della terapia è stata affidata direttamente ai chirurghi. Fuor di metafora: la salvezza di Venezia e del suo territorio è stata affidata ad un consorzio di imprese private (il Consorzio Venezia Nuova) interessate a realizzare il costosissimo meccanismo di riparazione del danno, il Mose appunto. E tutto è stato asservito a questo ente: anche il controllo del Magistrato delle Acque, che si è trovato a ratificare (invece che a sorvegliare) scelte operate in base all’interesse privato.
Sarebbe difficile spiegare un simile suicidio se non vedessimo che Venezia si distrugge ogni giorno in mille altri modi, prostituendosi, fino alla morte, ad un turismo cannibale.
Privatizzazione del destino della città ed economia della prostituzione: anche nella sua agonia Venezia addita alla nostra modernità le strade da non percorrere.
Ora, qui è il caso di chiedersi: ma in tutto questo l’architettura - gli architetti - da che parte sta? Dalla parte di quale modernità? Dalla parte dell’interesse pubblico, del governo pubblico dell’ambiente, di una visione condivisa di città, di una manutenzione dell’organismo urbano storico, oppure invece dalla parte dell’interesse privato, del governo privatizzato della res publica, dei rimedi meccanici ai danni antropici, del disequilibrio forzato?
Stanno dalla parte di Alvise Cornaro, o dalla parte di Cristoforo Sabbadino? Chi è più moderno? Dove sta la modernità? Tutte queste domande si possono riassumere in una sola domanda: quale sviluppo, quale modernità, noi vogliamo?
In pratica: siamo orientati verso l’aumento dei volumi, o no? Vogliamo continuare a mangiare e privatizzare lo spazio pubblico, o no? Vogliamo cavalcare lungo la rotta attuale, o invertirla? E, ancora più in dettaglio: vogliamo una città-location-per-eventi, o una città viva? Una disneyland per turisti o una città dei residenti? Vogliamo spettatori o vogliamo cittadini? Vogliamo collaborare alla dittatura del mercato, o vogliamo restaurare la democrazia.
Rispondiamo a queste domande e sapremo che tipo di architettura vogliamo fare. Paola Somma, in un aureo libretto sulla Biennale di architettura (significativamente intitolato: Mercanti in fiera), ha scritto: «Ovviamente, la Biennale non è la sola responsabile dello stravolgimento economico e sociale che ha trasformato Venezia prima in vetrina e poi in merce essa stessa. Ma ha attivamente cooperato con i governi e le istituzioni locali e nazionali e con i gruppi finanziari interessati a riconvertire le cosiddette città d’arte in fabbriche di eventi e in condensatori di rendita immobiliare e fondiaria». Le Biennali sono state vetrine di un’architettura vuotamente citazionista, simbolista, fondata su un superficiale e soggettivo gioco di analogie formali. Un’architettura spesso legata a doppio filo ad una selvaggia speculazione finanziaria. Le Biennali sono arrivate fino a legittimare un’aberrazione artistica, sociale e ambientale come la Torre di Cardin. Sono state il palcoscenico di un’architettura programmaticamente irresponsabile: e come tale, profondamente anti moderna. O almeno diametralmente opposta alla modernità suggerita dalla storia costruttiva di Venezia.
Che può essere riassunta in una sola parola: responsabilità. Che è anche la parola chiave di una modernità che voglia avere un futuro.
Salvatore Settis ha recentemente proposto agli architetti di adottare un giuramento che orienti la loro professione appunto nel senso della responsabilità: un giuramento sul modello di quello ippocratico. Un giuramento vitruviano. Ecco, se un simile giuramento di massa dovesse mai celebrarsi davvero - come speriamo - esso non potrebbe avvenire che in un unico luogo al mondo: a Venezia.
Koolhaas «Decide il mercato, l’architetto è solo un clown»
di Francesco Erbani (la Repubblica, 26 gennaio 2013)
Progettisti e curatori si sono finora alternati alla direzione della Biennale Architettura. Adesso arriva Rem Koolhaas, olandese di Rotterdam, che definire solo architetto è irrimediabilmente riduttivo. È certo architetto, stella lucente nel firmamento internazionale. Ma è poi sociologo, ideologo, filosofo metropolitano. È stato giornalista e ha scritto per il cinema. È autore di libri intitolati Delirious New York, Junkspacee S, M, L, XL, che vengono sventolati come vessilli insieme alle formule in essi contenute, «cultura della congestione», «tecnologia del fantastico», «metropoli groviera». Suoi edifici sono in tutto il mondo, a Seattle la Central Library, a Berlino l’ambasciata olandese, a Porto la Casa della Musica, a Pechino il quartier generale della Tv.
A Venezia Koolhaas arriva dopo aver vinto il Leone d’oro alla carriera nel 2010, ma soprattutto sulla scia delle polemiche dell’anno scorso. Polemiche legate al suo progetto per il Fondaco dei Tedeschi, che anche oggi, il giorno della presentazione della “sua” Biennale fanno indispettire il presidente della rassegna Paolo Baratta che rimprovera una giornalista spagnola per aver fatto una domanda sulla questione. È la prova che anche in Spagna si conosce la vicenda del Fondaco, l’edificio rinascimentale affacciato su Canal Grande e ponte di Rialto, sul cui tetto l’architetto olandese immaginava una terrazza panoramica e la cui corte veniva attraversata da una scala mobile che segava balaustre e membrature laterizie. Ora il progetto, bersagliato dai ricorsi di Italia Nostra, bocciato dalla Soprintendenza, è stato modificato. La Soprintendenza l’ha accolto, Italia Nostra vuol vederlo prima di esprimersi, ma nutre ancora perplessità.
La Biennale del 2014, sarà intitolata Fundamentals, che a Venezia ricorda le fondamenta, i tratti di strada che costeggiano canali e rii, ma che nell’accezione dell’architetto olandese e di Baratta sta a indicare proprio i fondamenti dell’architettura, gli elementi basilari - le porte, i pavimenti, il soffitto... Sarà una Biennale sull’architettura e non sugli architetti, convengono Koolhaas e Baratta. E, aggiunge Baratta, nella scelta del tema, «siamo partiti dalla constatazione del divario tra la spettacolarizzazione dell’architettura, da un lato, e dalla scarsa capacità di esprimere domande ed esigenze da parte della società civile, dall’altro».
Però Koolhas, vedendo le sue architetture, così mosse, ardite, ci si domanda se lei si riconosce appieno nella riflessione sul divario crescente fra architetturaspettacolo e architettura che incontra i bisogni. Non pensa?
«L’architettura non è una disciplina isolata. L’hanno condizionata le guerre e le rivoluzioni. Adesso domina l’economia di mercato che ha reso difficile, anche per un architetto come me, misurarsi, per esempio, con l’edilizia sociale. Si è portata l’attenzione sullo stupore e sullo spettacolo, spostandola dalla responsabilità verso gli altri. Il mercato ha ridotto i campi di intervento dell’architettura. E l’architetto si è limitato a svolgere spesso il ruolo del clown»
E lei come reagisce?
«La mia ambizione è quella di estendere di nuovo quel campo».
Ma si può lasciare al mercato il disegno complessivo di una città?
«Certo che no. Però a chi ritiene che la dimensione commerciale di una città sia solo negativa, va ricordato che Amsterdam o Venezia sono state costruite su questo elemento e tuttora vivono di questo».
Lei lavora in Italia da trent’anni. A Roma. A Venezia. Quanto è complicato fare architettura in Italia?
«Gli italiani soffrono di un certo grado di narcisismo e credono che l’Italia sia il luogo più complicato in assoluto. È complicato fare architettura ovunque, non c’è nulla di unico nel complicato ».
Compreso per mettere mano al Fondaco dei Tedeschi sul Canal Grande?
«Sì, compreso».
Il presidente Baratta ha rimproverato una giornalista spagnola che le ha fatto una domanda sul Fondaco. Lei vuole rispondere?
«Quel progetto ha avuto un cammino difficile. Ora stiamo per raggiungere un risultato positivo. Ma, parlando in generale, io vivo l’architettura come partecipazione ai problemi. E non si voltano le spalle ai problemi. Il progetto è una forma di dialogo estremo con i problemi».
Dietro la vicenda del Fondaco, che diventerà un centro commerciale, c’è Venezia che si consegna a una monocultura turistica. Non è grave?
«Non è un problema. Se ne discute, lo so, ma non è un problema. Ieri ho camminato per le calli e ho incontrato metà italiani, metà stranieri. A Venezia non vorrebbero turisti per sentirsi più autentici? Il turismo fa vivere la città. Siamo noi a parlare in negativo del turismo e a creare una distorsione nella percezione della gente».
Ai junkspaces,agli spazi spazzatura, lei ha dedicato un libro. Sono passati più di dieci anni da allora: è cambiato qualcosa?
«Poco o niente. Junkspace è parte dell’architettura generata dall’economia di mercato. Io non la rigetto, voglio capirla. La mia mentalità non è giudicante, cerca di comprendere».
Lei ha lavorato nel cuore profondo dell’Europa, dall’Olanda alla Francia al Portogallo. E poi in Cina. Ha scritto di Singapore. Quale dei modelli urbani prevarrà nel futuro, quello occidentale o quello orientale?
«La domanda è mal posta. Non ci sono modelli puri. In Oriente i modelli sono una commistione di elementi occidentali e orientali. E poi, qual è il modello italiano? In Italia la gran parte delle città comprende zone medievali o rinascimentali e poi le nuove urbanizzazioni novecentesche,in cui dominano i contenitori commerciali. In Cina c’è bisogno di costruire città a velocità accelerata, perché l’urbanesimo è potente. L’Europa, invece, è satura».
Ma lei è convinto o no che, nel progettare un edificio, conti molto la creazione di spazio pubblico?
«È molto importante. Ma tutto ciò è sempre espressione di un sistema politico. Ora che domina il mercato gli spazi pubblici vengono erosi o non vengono da noi stessi mantenuti in quanto tali. Trent’anni fa in Olanda quando nevicava qualsiasi persona puliva davanti al portone di casa. Il marciapiede, pubblico, era sgombro e nessuno scivolava. Ora nessuno pulisce niente. Lo spazio pubblico è tutto ciò che rimane dopo che si è pensato a noi stessi».
Quella della Biennale sarà una mostra-ricerca. Come la interpreta?
«Ho chiesto di avere più tempo del solito per allestirla. Sarà divisa in tre parti. All’Arsenale rifletteremo sullo stato dell’architettura in Italia. Al Padiglione italiano cercheremo di raccontare la storia universale degli elementi architettonici. E lo stesso accadrà nei padiglioni nazionali. Chiederemo che ogni paese si confronti con l’idea di modernità, se è stata accettata o rifiutata. E verificheremo quanto di nazionale e quanto di globale vive in ogni tradizione».
Come convivono in lei i tanti mestieri che ha svolto, ai quali ora si aggiunge quello di curatore?
«L’influenza di quelle esperienze è grande. Ma quella che le contiene tutte è forse il giornalismo, basato su un livello di curiosità che guida la ricerca negli altri campi. Sono un sociologo amatoriale. Uno storico amatoriale. Forse solo la scrittura è per me professionale».
Ma fra lo sceneggiatore e l’architetto ci sono poche analogie. O no?
«Sbaglia. Entrambi lavorano sulla connessione di episodi. Creano momenti di suspense e momenti rilassati».
Addio a Oscar Niemeyer il visionario di Brasilia
Il maestro dell’architettura è morto ieri notte a 104 anni
di Franco La Cecla (la Repubblica, 6.12.2012)
RIO DE JANEIRO - Il grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer è morto ieri sera nell’ospedale Samaritano di , dove era ricoverato da oltre un mese. Aveva 104 anni, ne avrebbe compiuti 105 il 15 dicembre. Lascia la seconda moglie Vera Lucia Cabreira, quattro nipoti, e 19 bisnipoti. Aveva perso da poco l’unica figlia, Annamaria.
OSCAR Niemeyer è stato l’ultimo grande maestro del movimento moderno di quel razionalismo in architettura di cui furono antesignani Gropius, Mies Van der Rohe e Le Corbusier. Di quest’ultimo Oscar Niemeyer fu giovane allievo, quando Le Corbusier venne chiamato nel 1934 a realizzare a Rio la costruzione del nuovo ministero dell’Educazione e della Sanità. E fu con lui nella concezione del nuovo Palazzo delle Nazioni Unite a New York, il cui progetto fu poi sottratto nella costruzione finale all’architetto svizzero.
Le opere di Oscar Niemeyer, una produzione ricchissima che copre ottant’anni di lavoro, sono diventate simbolo di una maniera visionaria, provocatoria di applicare il verbo del movimento moderno molto spesso sovvertendolo. Alle linee rette e alla freddezza di molte opere europee del razionalismo architettonico Niemeyer contrappone linee curve, sensualità di onde, ellissi, ovali, curve di donna che diventano case della musica, ministeri, cattedrali.
Quello che ne fa un maestro della generazione dei primi architetti moderni è l’assoluta mancanza di dubbi, l’assertività, un’architettura che proclama costantemente il trionfo delle forme, le superfici bianche curve che si aprono in vetrate, vengono servite da iperboliche passerelle lanciate nel vuoto. Come se nella architettura di Niemeyer trionfasse la linea di matita continua che non si stacca mai dal foglio. Oscar Ribeiro de Almeida Niemeyer Soares Filho nasce il 1907 a Rio, da una famiglia che per parte di madre ha delle radici in Germania. Cresce in una città piena di fermenti culturali ed in piena espansione.
È della stessa generazione di Vinicius de Moraes, l’inventore della Bossa Nova (c’è un video di Chico Buarque, «As Cidades», «Le città», dove il maestro viene intervistato dal cantante a questo proposito) e fa parte di un mondo progressista che guarda all’Europa come ad un luogo cui ispirarsi per creare un paese moderno.
Diventa comunista e questo gli costa un ventennio di esilio volontario in Europa durante il regime dei colonnelli. A Parigi dove risiede per un certo tempo realizza la straordinaria sede del Partito Comunista, una cupola bianca che emerge da un prato in declivio e che copre un’enorme sala assembleare dalle pareti scoscese. La sua fede marxista non gli impedirà di lavorare per ogni tipo di cliente, con una sicurezza che fa parte anch’essa del suo stile di maestro indiscusso.
Torna negli anni 80 in Brasile e produce una serie di progetti mirabolanti, come il museo d’arte contemporanea di Niteroi, vero e proprio disco volante poggiato su un pilastro da cui sembra che stia per spiccare il volo verso la Baia di Guanabara. Il suo stile diventa sinonimo di una architettura «del futuro» a tal punto da ispirare film ironici come uno famoso con Jean Paul Belmondo (L’uomo di Rio) dove le forme concave, convesse, le iperboli diventano il paesaggio di un futurismo lunare. Perfino nel film il dormiglione di Woody Allen il futuro viene rappresentato con architetture che sono una copia di quelle di Niemeyer.
Lavora in tutto il mondo, Israele, Libano, Algeria, Bolivia, Francia, Portogallo e in Italia realizza su incarico di Giorgio Mondadori la sede della Mondadori a Segrate e quella della fabbrica della Fata Engineering a Pianezza e della cartiera Burgo a San Mauro Torinese. È una fioritura continua di opere che non si arresta nemmeno quando il maestro compie novant’anni e realizza alcune opere di una purezza formale straordinaria, come il museo Oscar Niemeyer a Curitiba e nelle Asturie in Spagna e il museo nazionale del Brasile a Brasilia.
Brasilia rimane la città a cui ha dato i segni più forti del suo stile, a partire dagli edifici realizzati negli anni ‘50 dentro al piano della nuova città concepito dal mestro di Niemeyer, Lucio Costa. Il palazzo del governo a Brasilia, con le sue due coppe una concava ed una convessa e l’edificio alto in mezzo sono state descritte dal musicista Gilberto Gil come una composizione musicale che ricorda samba e bossa nova.
Viene invitato, quasi centenario a realizzare a Ravello una casa della Musica che riproporrà l’ovale dell’occhio del museo di Curitiba, ma questa volta con uno sguardo mozzafiato sul mare campano. Negli ultimi anni di attività alcuni critici hanno rinvenuto nelle ultime opere un manierismo che rappresenterebbe un inaridimento della creatività del maestro. Anche se è difficile non essere impressionato dall’audacia del progetto di una cupola di sessanta metri d’altezza per la nuova Catedral do Cristo Rei e il Santuario della Divina Misericordia a Belo Horizonte.
È difficile dare ragione ai critici, proprio perché l’energia, l’assertività, la sicurezza assoluta di Niemeyer sono ancora dentro ad un’idea di «purezza» del messaggio architettonico come messaggio di progresso e di pace. Niemeyer somiglia in questo a Picasso. Entrambi personaggi complessi, contraddittori, comunisti ricchissimi e militanti mondani, con un rapporto fertile e vorace con il mondo femminile, eppure talmente convinti di essere «alla guida» che qualunque loro scelta sembra parte di una coerenza imbattibile.
Il cinismo dei ricchi
Parlava sempre dei poveri. E per ultimare in tempi rapidi il progetto di Ravello dormì spesso nel suo studio
di Domenico De Masi (l’Unità, 7.12.2012)
OSCAR NIEMEYER È STATO UNO DEI MASSIMI ARCHITETTI DEL SECOLO. EPPURE IL SUO MERITO MAGGIORE FORSE NON CONSISTE NELLA SUA GENIALITÀ ARCHITETTONICA, per quanto straordinaria, ma nella sua generosa saggezza e nel suo coraggio politico.
Parlando di se stesso, ha scritto: «Il mio vero nome è Oscar Ribeiro de Almeida de Niemeyer Soares ma sono conosciuto come Oscar Niemeryer. Le mie origini sono multiple, cosa che mi aggrada particolarmente: Ribeiro e Soares, portoghesi; Almeida, arabo; Niemeyer tedesco. Sono dunque meticcio come sono meticci tutti i miei fratelli brasiliani». Da questo meticciato, Niemeyer ha ricavato un senso di solidarietà che lo ha accompagnato per tutta la vita: «Io mi vergognerei se fossi un uomo ricco», usava ripetere. In tutti questi anni di amicizia, ogni volta che ci incontravamo per le nostre lunghe chiacchierate, il suo discorso sempre finiva sui poveri, sul cinismo dei ric- chi, sulla necessità di intervenire con intransigenza in questo mondo ingiusto che dobbiamo migliorare.
Quando seppe che avrei desiderato un suo progetto per l’Auditorium Oscar Niemeyer di Ravello, ma che il Comune non poteva permettersi un progettista così prezioso, mi telefonò per assicurarmi che in settanta giorni avrebbe approntato il progetto iniziale e in altri quattro mesi di lavoro avrebbe consegnato il progetto definitivo. E così fece, con un impegno ininterrotto, che lo costrinse a dormire più volte nel suo studio, senza tornare a casa.
In Italia vi sono solo tre capolavori di questo grande architetto: la sede della Mondadori a Milano, la sede della società Burgo a Torino e l’Auditorium di Ravello ma più volte Niemeyer mi ha detto che aveva per il capolavoro ravellese una forte predilezione. Gli piaceva l’idea che quest’opera potesse contribuire a destagionalizzare il turismo e dare lavoro ai giovani in un settore come la musica e l’arte. Inoltre gli piaceva l’idea che l’Auditorium sarebbe stato gestito dalla stessa collettività, tramite il Comune. Il poeta Keats diceva che «l’opera d’arte è una gioia creata per sempre».
Ora che l’Auditorium è realizzato, Niemeyer sarà certo felice per la gioia donata alla Campania e per la soave dolcezza che, sotto la sua cupola felice, la musica donerà per secoli agli ascoltatori, sorpresi dalle linee curve del capolavoro nell’azzurro del cielo e del mare.
Ora il modo migliore per essere grati a un genio grande e disinteressato come Niemeyer è di coltivare i suoi valori anche nella nostra regione: la generosità, la creatività, la contemplazione della bellezza, l’umiltà e l’intransigenza.
Niemeyer. L’utopista che creò la sua città dal nulla
di Stefano Bucci (Corriere della Sera, 7.2.2012)
Il 15 dicembre avrebbe compiuto 105 anni. Dal 2 novembre era ricoverato all’Ospedale Samaritano di Rio de Janeiro per disidratazione e i bollettini alternavano speranze e cattivi presagi. Così se n’è andato Oscar Niemeyer, ultimo grande dell’architettura moderna.
Da poco era uscito per Mondadori Il mondo è ingiusto, libro-testamento curato da Alberto Riva. Vanitoso (amava le camicie bianche e i profumi francesi), Oscar Niemeyer fino alla fine ha voluto guardare oltre (non aveva nemmeno esitato a sottoporsi a un intervento di chirurgia plastica per farsi togliere una brutta macchia dal viso). A cominciare dai progetti ai quali continuava a lavorare: un «sambodromo» di Rio (simbolo delle Olimpiadi del 2016); il museo del calcio «Pelè», a Santos; una chiesa a Petropolis; un altro «salsodromo» a Calì, in Colombia; una piazza nel Kazakhistan, ad Astana. E poi c’era l’impegno per la rivista «Novo Caminho» («Partecipo sempre alle riunioni della redazione perché amo stare e parlare con i giovani»).
«Avere cent’anni è una merda»: si era lasciato scappare durante uno degli ultimi incontri pubblici (ma diceva vezzosamente di sentirsi «al massimo sessant’anni»). E aveva aggiunto: «Tutto sta divenendo più difficile. Ogni giorno è come se mi trovassi a dire addio alle persone. D’altra parte il nostro destino è quello di vivere, di morire e di vedere gli altri morire».
L’uomo che creò Brasilia, «l’unico moderno a cui è stato concesso di costruire una capitale», è stato il prototipo di tutte le archistar. Eppure poco prima di morire aveva detto: «Mi fanno inorridire; la nuova architettura è noiosa e priva di bellezza. Tutti quegli edifici di vetro puntano a stupire, ma non sanno che la bellezza sta nella semplicità e che la tecnologia deve essere sempre al servizio della bellezza».
Progettista militante, tra i sostenitori dell’attuale presidente Dilma Rousseff (nonché grande amico dell’ex leader Lula) ha realizzato più di 600 opere in tutto il mondo, in oltre 70 anni di carriera. Secondo Oscar Ribeiro de Almeida de Niemeyer Soares, per tutti Oscar Niemeyer, l’architettura era d’altra parte solo «uno dei tanti tasselli che compongono l’esistenza dell’uomo» al pari di arte, letteratura, musica, scienza e donne: non è stato solo un «tecnico» appassionato di Palladio e Alvar Aalto ma anche «buon intenditore» di Matisse e Calvino, di Einstein e Visconti. E ha sempre cercato di conoscere il mondo.
Compresa la politica: amico di Fidel, amava parlare di sé come dell’«ultimo dei comunisti rimasti», ma era stato anche uno dei 60 artisti prescelti dal cardinale Ravasi per rendere omaggio, in una mostra in Vaticano nella scorsa estate, ai 60 anni di sacerdozio di papa Ratzinger (aveva accettato inviando il modello per il campanile della nuova Cattedrale di Belo Horizonte, perché «voleva che il Papa la vedesse»).
Sperimentatore di nuovi concetti architettonici, è riuscito a elaborare uno stile «scultoreo fluido», servendosi del cemento armato «per creare strutture emozionanti e sensazionali». Strutture che finivano sempre (o quasi) per ricordare le sinuose curve naturali delle sue montagne e spiagge, e della baia di Rio de Janeiro. Al pari dei maestri, Lúcio Costa e Le Corbusier, Niemeyer è stato un modernista, «ma la sua ricerca di architettura grandiosa lo ha portato a elaborare nuove forme di un inedito lirismo architettonico». Dalla Residencia Oswald de Andrade a San Paolo (1938) alla sede della Mondadori a Segrate (1976), dal Museo d’arte contemporanea di Niterói (1996) all’installazione per la Serpentine Gallery a Londra (2003).
Niemeyer nasce a Rio de Janeiro nel 1907, da una famiglia di origini tedesche. Dopo una gioventù da «ricco bohémien carioca» e dopo essersi sposato a 21 anni con Annita Baldo (figlia di immigrati veneti), si laurea alla Scuola nazionale di Belle Arti di Rio nel 1934, e nel ’37 si unisce a un gruppo di architetti brasiliani (tra cui Lúcio Costa e Carlos Leão) che collabora con Le Corbusier («un maestro anche se umanamente non ho mai condiviso certe sue scelte») alla costruzione del nuovo ministero dell’Educazione e della Sanità di Rio (il cosiddetto Capanema Palace), esperienza che lui giudicherà «estremamente formativa». La collaborazione con Le Corbusier, che l’avrebbe definito «ragazzo prodigio», sarebbe proseguita con il Palazzo delle Nazioni Unite di New York (1947).
Le forme «fluide» di Niemeyer sembrarono, da subito, «offrire un’alternativa poetica alle linee dritte e agli angoli retti dello stile internazionale», che rappresentava la tendenza dominante dell’architettura europea anni 30 («non sono attratto dalla rigidità dell’angolo retto e della linea retta, ma dalla sensualità della curva»). Nel 1956, la svolta: Juscelino Kubitschek, presidente del Brasile, nomina Niemeyer consulente architettonico della NovaCap, l’organizzazione incaricata di realizzare i progetti di Lúcio Costa per la nuova capitale del Brasile, in un’area disabitata al centro del paese.
L’anno successivo diventa capo architetto della NovaCap, progettando la maggior parte degli importanti edifici della città (a lui e alla costruzione di Brasilia si sarebbe ispirato il film L’uomo di Rio con Jean-Paul Belmondo). Edifici destinati a diventare «pietre miliari del simbolismo moderno» dove la natura avrebbe dovuto integrarsi con l’architettura, senza divisione tra zone per ricchi e per poveri.
Niemeyer parlava di Brasilia come di «un sogno realizzato»: aver dimostrato che anche «il Brasile poteva essere capace di fare grandi progetti, di creare addirittura una città». Minimizzando le accuse che venivano mosse a quel progetto (sogno mancato, città invivibile): «Brasilia ha gli stessi problemi di tutte le altre città, dal degrado degli edifici alla difficile manutenzione. Ma nonostante tutto può andare bene così». La sua permanenza in Brasile si conclude nel 1964, quando la sua appartenenza politica al Partito comunista (si era iscritto nel 1945) lo costringe a emigrare in Francia. All’inizio degli anni 80, con la fine della dittatura, il ritorno in Brasile, l’insegnamento all’Università di Rio de Janeiro e i progetti per i «privati».
Fino all’ultimo ha lavorato - a 98 anni si è risposato con la segretaria Vera Lucia. Nel suo ufficio, all’ultimo piano di Casa Ypiranga, in un appartamento studio bianco e pieno di luce, fatto di pochi arredi (qualche poltrona di cuoio nero, una chaise longue, una sedia a dondolo di metallo, un tavolo), sulla parete a lungo è rimasto inciso un motto: «Quando la miseria si moltiplica e la speranza fugge dall’uomo, è tempo di rivoluzione». E fino all’ultimo ha avuto nel cuore il Brasile: «Il mio è il paese di Ipanema e delle favelas - diceva - per il quale bisogna combattere sempre».
Se l’architettura è senza equità
di Vittorio Gregotti (Corriere della Sera, 28.03.2012)
L’ultimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese proposto dal Censis ha affrontato (con severità e con precisione) una descrizione della società italiana del 2011 divisa per vari settori: dai processi formativi al welfare, dal lavoro ai soggetti economici dello sviluppo, affrontando anche la questione dei mezzi e dei processi (comunicazioni, governo pubblico, sicurezza, cittadinanza).
È su tutta l’introduzione che sarebbe importante meditare. Introduzione che si conclude affermando che «è illusorio pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. Seguendone le indicazioni, si possono fare molteplici decreti di stabilità e austerità, ma neppure un tentativo di progetto». Questioni di cui tutti i mezzi di comunicazione discutono animatamente e sovente in modo drammatico.
Qui, però, io vorrei occuparmi, favorito dal particolare interesse che il direttore del Censis, Giuseppe Roma, ha sull’argomento, del particolare problema affrontato nel capitolo «Territori e reti», dedicato nella sua parte centrale alla questione del disegno urbano e della crisi dello spazio pubblico. Due argomenti che sono nel rapporto concretamente affrontati, non solo come significativi di una condizione di difficoltà nelle relazioni tra soggetto e struttura delle società, ma come campo di lavoro (certo tra i molti) di costruzione di un riscatto da quella stessa condizione di disperata difficoltà.
Ma di chi sono le responsabilità di quello stato di crisi? Per quanto riguarda almeno le difficoltà e le modificazioni positive possibili del fatto urbano si tratta di discutere anzitutto delle opinioni delle categorie professionali pubbliche e private a cui è assegnato il compito di proporre e regolare nell’interesse collettivo (si spera) il disegno degli insediamenti. Quindi alla capacità della loro cultura specifica di produrre opere di qualità durevoli, capaci di offrire proposte eque e positive proprio alle relazioni tra soggetto e struttura della società (e qui risparmio di elencare le difficoltà e le possibilità del loro stato attuale di mutazione rapida e globale).
Ma secondo me, come secondo il Censis, un progetto di architettura deve essere comunque cosciente del fatto che lo spazio tra le cose e il «progetto di suolo» è altrettanto importante delle cose stesse. Si tratta di un progetto capace di porsi in relazione con un contesto storico fisico di uso sociale; un progetto capace di misurarsi con regole comuni e comprensibili, le sole che possono dar valore anche alle eccezioni. Non si può dimenticare che l’ideologia architettonica dominante sul piano del successo mediatico di questi ultimi trent’anni ha proposto invece, nei fatti e nelle intenzioni, una cultura opposta a tutto questo. Una cultura dell’eccezione competitiva, della provvisorietà, della promozione della privatizzazione dello spazio pubblico, della bizzarria senza necessità, e riferita solo agli interessi dei gruppi di poteri sociali transitori, contro ogni memoria collettiva del fatto urbano, contro l’idea stessa di luogo, di antropogeografia, per un’idea di flusso che, in qualche modo, sostituisce il terreno di fondazione delle cose.
Ma non meno responsabili sono stati gli enti pubblici che dovrebbero, al contrario, riprendere coscienza della necessità del disegno urbano per guidare le trasformazioni della città; una tradizione di qualche migliaio di anni, a cominciare dagli esempi prodotti dalla cultura della modernità (come quelli della Lione di Tony Garnier o dell’Amsterdam di Berlage e della sua scuola, soltanto per citare due casi). Certamente ridurre la contraddizione tra piano e progetto richiede anche una profonda revisione culturale della nozione di piano, ma anche una coscienza della relazione esistente tra insediamenti e antropogeografia del territorio con la propria storia. Una storia intesa come possibilità per l’architettura o come una minore ossessione sviluppista a favore di un nuovo equilibrio.
Mi rendo comunque conto della difficoltà non tanto operativa quanto culturale di queste raccomandazioni, che peraltro coincidono in molti punti con quelle contenute nello stesso rapporto Censis. E che anch’io mi rappresento come assai lontane dall’attuale moda architettonica postmodernista per una rappresentazione, senza costituzione di distanza critica, della cultura del capitalismo finanziario globalizzato. Una moda così lontana da ogni tentativo di progetto di equità, come segnala la stessa introduzione del rapporto del Censis.
CRISI DEI MUTUI?! IN "GOLD" WE TRUST!!!
LA CASA DEL VATICANO E’ COSTRUITA SU UNA "ROCCIA D’ORO"!!!
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 19 gennaio 2011)
«Quanto sono inospitali molte chiese moderne!». In una lectio magistralis alla facoltà di Architettura di Roma, il cardinale Gianfranco Ravasi lancia l’allarme: «Un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione».
Il ministro vaticano della Cultura stigmatizza «l’inospitalità, la dispersione, l’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione». Chiese nelle quali «ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare».
Un degrado inaccettabile e tanto più grave alla luce del «grande contributo offerto in 20 secoli» dalla cultura cristiana all’architettura. «Senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell’architettura sarebbe stata ben più misera - afferma Ravasi -. Pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all’armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell’Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee».
Nel cristianesimo c’è «una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino», con il «baricentro teologico» che si sposta dallo spazio al tempo, perché «tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale: l’incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto».
Per il cristiano, sottolinea Ravasi, la chiesa è «un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo». Il tempio architettonico sarà «sempre necessario», ma solo come «segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell’umanità». Quindi «non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l’esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente».
Ma nell’episcopato c’è chi di chiese ne ha create una decina. È il vescovo di Livorno, Simone Giusti, breviario e tecnigrafo, allievo di Michelucci, Santi e Savioli, laurea in architettura all’università di Firenze, con disegni sulla scrivania, proiezione computerizzata e rendering digitale. «Entrare in una Chiesa è penetrare in un luogo che i m m e d i a t a m en t e parla alla persona e al suo cuore attraverso un linguaggio simbolico-affettivo», racconta. Un linguaggio (come nella parrocchia di Cecina dedicata alla Sacra Famiglia) che si rivolge all’uomo e alla cultura contemporanea senza però rinnegare la tradizione dell’architettura passata, con evidenti richiami a quella romanica.
Una creatività che necessariamente rifugge ogni banalità. Per il fedele e il semplice visitatore. «L’architettura che vado ricercando è l’architettura della diversità - spiega Giusti, palmare e bluetooth a portata di mano -. Nulla che sia simmetrico: proprio come in natura, dove niente è banale e tutto è diverso ed è da ciò che nasce la voglia di scoprire e di interpretare. Le vetrate non sono un optional o un mero abbellimento. I giochi di luce soffusa e colorata che si susseguono dall’alba al tramonto sono di aiuto ai fedeli che si raccolgono in preghiera». E anche i disegni astratti delle vetrate hanno un loro senso perché «solo ciò che non è pienamente definito può esprimere l’inesprimibile mistero di Dio». Insomma niente va lasciato al caso perché «progettare una chiesa può significare anche edificare le anime».
Sanguineti, ovvero l’arte di criticare la realtà
«Destrutturava la forma, ma per cambiare la società»
di Vittorio Gregotti (Corriere della Sera, 03.12.2010)
L’editore Feltrinelli ha raccolto in un volume dal titolo Cultura e realtà (pp. 347, 28) una serie di brevi scritti di Edoardo Sanguineti, che vanno dai temi della letteratura e della politica a quelli delle arti visive, del teatro e della musica. Niente di esauriente certamente per quanto riguarda i saggi di questa personalità centrale della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo ma certo un primo doveroso omaggio a pochi mesi dalla sua scomparsa. All’amicizia e alle discussioni con Sanguineti ed ai suoi consigli anch’io devo molto e questa è una prima occasione per riconoscerlo.
All’ultimo breve saggio del volume Cultura e realtà, che ha come titolo «Per una teoria della citazione», vorrei qui dedicare una breve riflessione per ciò che concerne le questioni connesse al progetto di architettura. Lo scritto di Sanguineti muove dalla tesi che «tutto è citazione» nel linguaggio parlato e scritto e discute del problema del significato della citazione anche in rapporto al contesto storico, ed in particolare nei confronti con quello del presente in cui essa si muove. Per quanto riguarda il mondo delle arti nel contemporaneo aggiunge, a proposito dell’uso del citazionismo, «altro che postmoderno, esso è se mai prearcaico» e più avanti afferma: «Se c’è un sistema citazionale forte, esso è quello del moderno... anche perché (il XX) è il secolo del montaggio», un secolo, quello delle avanguardie, che egli definisce più avanti come il secolo dell’assalto alla sintassi. «È tutto questo che, semmai, entra in crisi con la postmodernità», cioè con la cessazione della capacità autenticamente contestativa ed insieme anarchica della citazione come materiale volutamente estraneo alla sintassi dell’opera, in funzione di un utilizzo efficace della ragione critica intorno allo stato delle cose. La questione del montaggio in quanto citazione-collage è stata, come è noto, oggetto di appassionata discussione tra Benjamin e Adorno negli anni Trenta intorno alla perdita dell’aura ed al senso di autonoma completezza dell’opera, a partire soprattutto «dal principio costruttivistico», come scriveva Peter Bürger, come principio sintattico.
La questione è centrale anche per offrire un giudizio sullo stato di crisi della cultura architettonica dei nostri anni (non a caso coincidente con la sua estesa popolarità mercantile), anche perché in essa risulta palese come la citazione non sia oggi in nessun modo «un assalto alla sintassi» ma, con un ribaltamento del suo significato, funzionale al passaggio per la pratica artistica dell’architettura dalla costituzione di una distanza critica nei confronti della struttura della realtà (e quindi di un giudizio capace di aprire ad essa possibilità altre) al rispecchiamento conveniente dello stato delle cose come il migliore dei mondi possibili.
Ma poiché alla dialettica con la realtà sembra impossibile sottrarsi interamente, tale dialettica viene resa innocua spostandola sulla ricerca di una rottura estetica incessante dell’immagine delle cose come prodotti, soprattutto guardando alla necessità di differenziazione in funzione del loro mercato. Né è un caso che «la citazione», per quanto riguarda l’architettura sia passata da un primo momento che guardava al «revival» stilistico della storia del passato di quest’arte come materiale linguistico (contro la modernità dell’eredità delle avanguardie) ad un altro periodo di «citazione» delle figurazioni della stessa modernità, archiviate anch’esse come storia, e quindi in grado di offrire un panorama linguistico che poteva essere svuotato di senso, tanto da divenire materiale calligrafico preminente di una nuova sintassi della provvisorietà.
Sembra che proprio l’idea di provvisorietà sia diventata l’ultimo rifugio del dubbio sulle ingiustizie e le contraddizioni del nostro mondo, e soprattutto delle sue incertezze di senso (o false certezze) in quanto unici valori rappresentabili del capitalismo finanziario mondializzato.
Si tratta di un giudizio, quest’ultimo, che si riconnette al primo dei saggi (datato 2006 e scritto in occasione del compleanno di Pietro Ingrao) con cui si apre questa raccolta degli scritti di Sanguineti, un saggio dal significativo titolo «Come si diventa materialisti storici » . Anche se è proprio la poetica radicalità di quest’ultimo scritto, anche per quanto riguarda l’architettura, a proporsi come messaggio per i nostri anni.
Architettura, in mostra i giovani progettisti euopei
di Alessia Grossi *
Aveva 26 anni l’architetto Luigi Moretti quando nel 1933, su commissione dell’Opera Nazionale Balilla, progettò la Casa della Gioventù di Trastevere a Roma. Recuperata dalla Regione Lazio dal 2007, e aperta di nuovo la sala delle esposizioni al piano terreno, dal 6 marzo la «ex Gil» accoglierà i progetti della giovane architettura europea.
«Urbanità europea, città sostenibile e innovazione degli spazi pubblici» è il titolo del concorso Europan 9, arrivato alla nona edizione, cui si sono dedicati giovani progettisti di tutta Europa per la realizzazione di 73 siti.
Per Bisceglie ha vinto «Spazi Lenti», un progetto in cui il luogo del mercato è integrato con spazi di ritrovo. Cultura, teatro e libreria verticale, tutto circondato dal verde con parcheggi sotterranei a rendere fruibile l’area.
Carbonia esporrà il suo «Manipolazione di tessuti» che evoca l’intersezione dei tessuti urbani, dalla città-giardino al recupero della linea ferrata e degli spazi della discarica mineraria.
Di Catania il progetto tutto femminile «Limiti urbani e attraversamenti infrastrutturali» che si snoda intorno al percorso tranviario delimitando l’aerea in una galleria di servizi, negozi e locali.
Giovani spagnoli, invece, per il disegno di Erice, che dipinge una «Serata d’estate» siciliana. Al teatro all’aperto si è portati attraverso un lungo percorso panoramico sulle rocce. Intorno case a corte in materiale tradizionale pannelli solari e tetti come giardini.
Tornano le «(S) piagge d’Arno» a Firenze, ispirate alla città di Zenobia di Italo Calvino. L’acqua definisce gli spazi attraverso «gli affluenti» dell’Arno, con una moltiplicazione di sponde e rive in cui sorgono piccole residenze esclusivamente in materiali riciclabili.
Puntano tutto sulle architetture «semi-agricole» e «agricolture semi-architettoniche» i progettisti, anche in questo caso italiani di Pistoia che con «Cromosomi vegetali», riprendono l’edilizia vivaistica del territorio, bassa e sinuosa.
«Nuovo polo di eccellenza per la ricerca e lo sviluppo tecnologico» invece è il progetto vincitore per Reggio Emilia. Un polo tecnologico in cui ogni edificio svolge una funzione rispettando le regole naturali dell’area.
Si oppone all’erosione il progetto «Erosioni Pilotate» che a Siracusa ipotizza un presidio della costa contro l’urbanizzazione e l’inquinamento. Piattaforme in legno e rivelatori sperimentali di inquinamento hanno anche una funzione sociale. In mostra si potranno vedere anche i progetti non vincitori del concorso.
Esposizione a parte, la «ex Gil» ospiterà anche dibattiti sul tema della giovane architettura e della progettazione europea, oltre alla presentazione della decima edizione del concorso, Europan 10.
Prossima sfida per la giovane architettura è Genova. Obiettivo: rigenerare l’area di Begato.
* l’Unità, 26 febbraio 2009
Raccolti gli scritti di Jacques Derrida sull’arte del costruire
Sono passati quasi cinque anni dalla morte di Jacques Derrida e più di una ventina dal periodo in cui la sua attenzione nei confronti dell’architettura si è trasformata, con la superficialità che sovente caratterizza la pratica della nostra disciplina, nella moda del "decostruzionismo".
L’architettura nell’era della post-città
Il pensatore descrive lo stato di mutazione di una realtà urbana, ma afferma che non vi è rottura finché resistono abitabilità, funzionalità e altri valori estetici
di Vittorio Gregotti (la Repubblica, 17.02.2009)
Liberatici da quella moda (ma certo non dei suoi successivi deleteri effetti che sono scivolati verso un superficiale esibizionismo), forse bisognerebbe rendere giustizia al pensiero del grande filosofo e cercare di riflettere ancora su cosa significhi "decostruzione" per l’architettura. L’occasione ci è offerta dalla utilissima pubblicazione dei suoi scritti di architettura raccolti di recente a cura di Francesco Vitale (Jacques Derrida, Adesso l’architettura, Scheiwiller, pagg. 374, euro 24).
Derrida insiste «sull’intersezione tra architettura, letteratura, musica e storia» e questo coincide con il desiderio del confronto e della relazione tra le arti, confronto ed interesse reciproco che ha caratterizzato gli architetti della mia generazione. Tale interesse si è poi degradato nell’attuale tendenza verso una costruzione mediatica in cui arti, moda, pubblicità si sono sciaguratamente mescolati in nome della comunicazione in sé; ma questo richiederebbe un’altra riflessione.
L’elaborazione di questi principi da parte degli architetti dovrebbe quindi muoversi dalla critica al carattere ricompositivo della tradizione del moderno (e più in generale dalla tradizione del classico), dalla messa in evidenza delle stratificazioni e dei contrasti che anche per la scrittura architettonica sono materiale progettuale privilegiato, sottolineando anche simbolicamente, la necessità ed insieme lo spazio della possibilità.
Comunque l’era della post città, a cui fa sovente riferimento, afferma è anche l’era della post architettura, anche se "la sua fine - egli scrive - potrebbe essere un limite ma anche un’origine". Comunque la sua insistenza sulla fine della città e dell’architettura e cioè la loro perdizione è richiamata più volte nei suoi discorsi. «In quel momento», cioè nel mondo dell’avvento della decostruzione, scrive nel 1991, «l’architettura avrà perso il suo nome, la sua unità. Diventerà straniera a sé stessa. E questo sarà un bene o meglio sarà forse fatale».
Nel suo testo del 1985 Maintenant l’architecture (il più importante di questa raccolta) Derrida descrive lo stato di mutazione dell’idea di città per affermare però che, nonostante le grandi trasformazioni «non vi è rottura» perché «abitabilità, funzionalità, valori d’uso e anche il valore estetico (che riconduce alla distinzione fra il sensibile e l’intelligibile) sono valori con i quali bisogna sempre negoziare, quali che siano i progetti architettonici e la loro audacia. Se tutto ciò resta intatto allora la "rottura" di cui scrive evidentemente non è una rottura».
Ma più avanti egli propone un secondo momento, a partire dal modello di storicità in cui si situa l’architettura ponendo anche il problema della messa in questione del valore della memoria. «Come chiamarlo, questo secondo momento? E un momento di decostruzione è quello della rimessa in questione pratica, effettiva, di tutti i valori o di tutti i significati che ho enunciato più sopra: valore di riunione, valore di allocuzione immediata, la parola, il rapporto con l’origine, la memoria, l’abitabilità, l’estetica, eccetera». Forse questa operazione non può chiamarsi architettura perché fondata sulla «sottrazione di tutti i valori prima enunciati», oppure sottraendola a tutti i valori «ciò che resterebbe sarebbe l’architettura stessa»: senza per questo aspirare né alla purezza né alla rovina.
Nel contempo cosa terrà insieme questo «corpo smembrato, questa molteplicità», si chiede Derrida affinché questa "maintenance" senza "maintenant" sia possibile. Egli risponde "una promessa", qualcosa che si manda avanti senza sapere, un avvenire non determinato. E qui la polemica non solo con il postmoderno ma contro il prefisso "post" perché esso sottintende qualcosa di definitivamente terminato, è ribadita, stabilendo nei suoi confronti una distinzione radicale.
Ciò che affascina in queste affermazioni mi sembra sia, anche oggi, l’invito a guardare proprio anche per mezzo dell’architettura e attraverso la messa in discussione radicale dei suoi fondamenti, ciò che non è in alcun modo presente. Un invito affascinante per la sua impossibilità nei confronti della natura costruttiva della stessa architettura.
Ma, in un altro scritto, Derrida introduce un nuovo concetto per noi importante: quello di "reinscrizione". Egli afferma cioè che una volta liberata l’architettura "dall’egemonia dell’estetica, dell’utilità, dell’abitare, dell’economia e persino del passato, quei valori vanno "reinseriti" nell’architettura, una volta però perduta la loro egemonia esterna. E questo riapre un processo che credo però sia già da secoli impegno comune a tutti gli architetti per i quali lo scopo dell’organizzazione architettonica di un problema è precisamente la sua reinscrizione in una morfologia che promuova non tanto il futuro quanto il possibile.
A più di vent’anni di distanza bisogna però ammettere che ciò che è rimasto dell’influenza di questa straordinaria avventura culturale di un grande filosofo che si è occupato direttamente di architettura è stato, nei casi migliori, un esercizio calligrafico sperimentale di interesse essenzialmente "linguistico" e, in quelli peggiori, un immenso inutile spreco, spesso inconscio, proprio di quei valori che secondo Derrida ne costituivano il travestimento ma anche l’inevitabile materiale da far confliggere per mezzo della decostruzione del progetto. Pur con tutte le oscillazioni dei suoi significati interpretativi possibili: ma anche, io aggiungo, "del possibile". Come Jacques Derrida continuamente ci ricorda.
Torino
Al Congresso internazionale che si sta tenendo al Lingotto emerge una verità condivisa: l’architettura di oggi fa acqua.
Prevale il culto dell’immagine, a discapito della vivibilità e di un’etica sociale del costruire
«Archistar» e case colabrodo
Croset: «Detta legge la spettacolarità ma ben poco si conosce delle magagne che si celano dietro certi progetti».
Ghirardo: «Il Mit ha fatto causa a Frank Gehry per non aver previsto certe protezioni, ma lui fa spallucce. C’è troppa arroganza fra i progettisti oggi»
DA TORINO LEONARDO SERVADIO (Avvenire, 02.07.2008)
Non è solo volume e forma, l’architettura è fatta anche di concetti e di parole. Certo, se bastassero queste ultime sarebbe tutto più semplice: all’incontro mondiale degli architetti di Torino proprio queste non sono mancate. La comunicazione verbale dei tanti incontri e dibattiti è di qualità: l’altra comunicazione - quella che dovrebbe più immediatamente attenere alla progettualità - invece genera molti punti interrogativi: grazie alle indicazioni confuse e malgrado l’impegno delle decine di giovani aiutanti in divisa, negli spazi dilatati del Lingotto, le centinaia di ospiti e congressisti si muovono spersi, e le installazioni che dovrebbero ’fare mostra’ e accompagnare l’incontro con uno sfolgorio di esempi di architetture nobili, si presentano spoglie come relitti. Sembra la manifestazione in opera della discrasia tra critica e progettualità, ovvero di quel diffuso «predicare bene e razzolare male ». «Ci vuole più critica dell’architettura, maggiore coscienza del suo cruciale ruolo sociale, meno esibizionismo e meno egocentrismo dei progettisti»: non è l’opinione di uno, ma di tutti i relatori che si sono incontrati nell’ambito del dibattito «Le culture dell’architettura ». «Senza storia non c’è critica. E senza critica non c’è architettura», sostiene Eric Mumford, che vede nel confronto col passato un sine qua non produttivo non solo di conoscenza ma anche di potenzialità espressive. «E la storia della contemporaneità non può essere limitata alla figura dell’architetto: perché la costruzione di spazi di vita riguarda chiunque e di fatto è oggetto di influenza di tutti» sostiene Pierre-Alain Croset, che ricorda come «la scuola veneziana di Manfredo Tafuri non rifugge dall’impegno comunitario e indirizza i propri studi e ricerche nella direzione delle opere collettive, quali quelle generate dall’impegno della socialdemocrazia... Personaggi come Otto Wagner e Bruno Taut fondavano sulla conoscenza storica la loro opera professionale. Il che differisce molto da quanto avviene oggi, quando ciò che è storico è considerato obsoleto dagli architetti militanti». Perché oggi la parola d’ordine è «far parlare di sé», non impostare una seria e fondata critica. «Per cui chi realizza architettura desidera essere pubblicato, ma con commenti di non specialisti: ne consegue che la comunicazione dell’architettura è legata solo all’aspetto spettacolare, non all’aspetto progettuale e generativo dell’edificio. Noi non sappiamo perché la ristrutturazione di un edificio importante come il Parlamento di Berlino sia stata affidata a Norman Foster, per quanto questi non avesse partecipato al concorso precedentemente convocato. Dell’architettura contemporanea forse sappiamo meno di quanto si sappia dell’architettura storica...». A questo si aggiunga il tema della complessità degli agglomerati urbani, che sono qualcosa che supera la somma degli edifici separati.
«Ragion per cui gli architetti dovrebbero sempre lavorare insieme con storici e sociologi, così che lo spessore del contesto - nella piena coscienza dei suoi elementi generativi - sia un elemento che concorre attivamente alla formazione delle nuove costruzioni. È questa la base necessaria perché l’architettura diffusa sia di qualità e no mera edilizia... ». Di contro alla bassa qualità dell’architettura diffusa, negli ultimi decenni abbiamo visto sorgere i totem di alcuni ’mostri’ o ’grandi maestri’ dell’architettura. Tra questi il più noto e chiacchierato è Frank Gehry, contro il quale si scaglia
Diane Ghirardo: «Il Massachusetts Institute of Technology l’anno scorso gli ha fatto causa: l’edificio universitario da lui progettato (soprannominato ’robot ubriachi’), non solo fa acqua ma d’inverno diventa pericoloso perché manca delle protezioni antineve ed è capitato che qualche persona si sia trovata sotto masse di neve scivolata giù dal tetto. Ed è costato 300 milioni di dollari: il doppio rispetto al preventivo. E alle critiche e obiezioni Gehry fa spallucce, non risponde: si sente al di sopra. Ma è in buona compagnia, lo stesso fa Calatrava. Lo stesso fece Le Corbusier quando la famiglia protestò per il suo progetto di ’Villa Savoye’, dopo che il figlio si ammalò di polmonite entro quell’ambiente difficilissimo da riscaldare. ’Vi ho fatto pubblicità, che volete di più?’, rispose. Siamo in un’epoca in cui l’immagine è tutto: di qui l’importanza delle riviste di architettura. Ma queste sono ormai troppo condizionate dalla pubblicità...».
Insomma, dal punto di vista degli storici l’architettura di oggi non sta affatto bene, almeno quella più nota. «Ma vi sono anche realizzazioni interessanti e socialmente importanti - chiosa la Ghirardo - Come le scuole realizzate a Los Angeles da Patrick Hodginson, meno costose (è riuscito a contenere i costi in 300 dollari al metro quadrato) e più efficaci dei continui aumenti nel numero di addetti alle forze dell’ordine nella megalopoli di Los Angeles nel ridurre la devianza giovanile». Perché l’architettura può effettivamente avere un ruolo socialmente importante, se non nasce da un afflato esibizionista.
Escono in italiano gli scritti del filosofo francese sull’arte di edificare la città
L’architettura processa Derrida
«Cattivo maestro» o «utopista», ha armato la mano delle archistar
di Pierluigi Panza (Corriere della Sera, 15.11.2008)
La storia dei grattacieli storti, disassati, antisimmetrici - prima invocati per non escludere l’Italia dalla nouvelle vogue architettonica, poi denunciati come edifici alla moda e incompatibili con il contesto urbano della città europea -, ha una data di inizio, che si può fissare nel 1985. È l’anno in cui l’architetto Bernard Tschumi, vincitore del concorso per costruire il Parc de la Villette a Parigi, chiese al filosofo Jacques Derrida di collaborare con lui e con Peter Eisenman. Preso alla sprovvista, Derrida pensò che il suo propagandato «oltrepassamento della metafisica» attraverso la decostruzione della «traccia» potesse sperimentarsi anche in architettura.
Dalla collaborazione con Eisenman nacque un abbozzo non realizzato, ma Derrida scrisse la presentazione dell’intervento al parco parigino realizzato da Tschumi intitolandola Point de folie - maintenant l’architecture, poi pubblicata in Psyché nel 1987 (parzialmente tradotta in italiano nell’antologia Estetica dell’Architettura edita da Guerini nel 1996). I «punti di follia» di cui parla Derrida sono rappresentati materialmente dalle folies, ovvero 42 casotti quadrati di colore rosso disseminati nel parco secondo una griglia rigida, uguali di misura ma ogni volta decostruiti, con funzioni d’uso diverse e arricchiti con differenti elementi pop: ora un gigantesco orologio, ora un sottomarino che fa da hall di ingresso, ora la ruota di un mulino (nella foto).
L’intervento di Derrida suscitò un dibattito che trovò nuovo esito quando, nel 1988 al Moma di New York, Philip Johnson e Mark Wigley realizzarono una mostra di nuovi progetti intitolandola «Deconstructiviste Architecture». A quel punto il cortocircuito era avvenuto, e le «archistar» misero mano alla matita.
Quell’intervento di Derrida, insieme ai dibattiti che ne seguirono, e ad altre riflessioni del filosofo sull’architettura, trovano ora definitiva pubblicazione italiana in un libro a cura di Francesco Vitale ( Adesso l’architettura, Scheiwiller, pp. 372, e 24).
Questi saggi si configurano come un rapsodico commentario teorico all’architettura decostruttivista, non come una teoria. Il filosofo francese, non immune dallo scivolare in contorti esercizi di stile, lancia più che altro spunti di riflessione, argomenti senza però, come suo proprio stile, arrivare a definire un nuovo metodo e, ancor meno, statuti costitutivi di una disciplina. Come evidenzia nel saggio poi raccolto in Psyché, ciò che sarebbe da decostruire per Derrida è l’idea stessa che «l’architettura debba avere un senso, debba presentarlo e significare qualcosa». L’esperienza della decostruzione deve intervenire sul senso dell’abitare, sulla gerarchia dell’organizzazione architettonica, sull’idea che l’architettura debba essere al servizio di qualcos’altro e in vista di un fine. E anche sull’idea che l’architettura rientri nel campo delle belle arti, aspetto quest’ultimo che però, secondo l’antropologo Franco La Cecla, il decostruttivismo «ha invece favorito». «Il concetto di architettura è esso stesso un constructum mentale- scrive Derrida -. Un’assiomatica attraversa, impassibile, imperturbabile, la storia dell’architettura. Un’assiomatica, cioè un insieme organizzato di valutazioni fondamentali sempre presupposte. Questa gerarchia si è fissata nella pietra, informa ormai tutto lo spazio sociale». Per Derrida questa assiomatica, che coincide con l’intera storia del vitruvianesimo, ovvero quella che il critico inglese John Summerson ha definito Il linguaggio classico dell’architettura (1966) è da decostruire.
A distanza di una ventina d’anni da queste proposte teoriche, l’uscita in italiano di questi testi è l’occasione per una prima verifica della stagione alla quale hanno fornito supporto teorico, prima che tutti gli studenti di architettura si mettano a laurearsi solo su edifici storti. Questa stagione è fatta di «oggetti» riusciti (Guggenheim di Bilbao di Gehry), parzialmente riusciti (Museo ebraico di Berlino di Libeskind), falliti (uffici al Mit di Gehry), in arrivo (grattacieli storti di Libeskind, Isozaki e Hadid a Milano), edifici riusciti e altri mostruosi nella provincia italiana. Decostruire il vitruvianesimo ha voluto dire superare la storia della trattatistica, dimenticare abdicare di fronte a metodi, tipologie, logiche urbanistiche per aprirsi a alla «chance», all’heideggeriano «far spazio». Una direzione scelta ancora da Aaron Betsky nell’ultima Biennale di architettura, nella quale si vuole «andare oltre l’edificio perché gli edifici ormai sono tombe», afferma Betsky, che vede in Derrida una carica di utile utopismo. Si tratta di una dimensione nella quale il relativismo nichilista si presenta come alternativa alla costruzione razionale. Il gioco, prende il posto della meccanica razionale e la dimensione nietzschiana della Gaia scienza e del dionisiaco il posto dell’illuministico «rigorismo » architettonico. Tanto che un teorico che punta tutto sulla geometria, come Nikos Salingaros, boccia senza mezzi termini Derrida come «cattivo maestro»: «Le sue sono parole vuote. Derrida ha decostruito prima la letteratura e la lingua, tagliando i legami tra significati che formano la base della comunicazione. Poi, ha voluto applicare lo stesso metodo distruttivo all’architettura. Solo che non era nemmeno capace di farlo, perché non sapeva niente di geometria. Il suo discorso con Eisenmann per il Parc de la Villette è assurdo. Senza volerlo, Eisenman ha mostrato che le idee di Derrida sono un metodo per distruggere, non per costruire».
I rapporti tra pensiero decostruzionista e progettazione
«Derrida si chiedeva: che c’entro io con l’architettura?»
di Massimiliano Fuksas (Corriere della Sera 18.11.2008)
Non sono sicuro che Derrida abbia «armato» la mano degli architetti. Sicuramente non è il filosofo francese l’inventore della pessima espressione «archistar», che il titolo del pur felice articolo di Pierluigi Panza ( Corriere della Sera del 15 novembre) evoca. Il merito dell’articolo è quello di rimettere in discussione, in termini positivi, i rapporti fra filosofia e architettura. A parte la passione vibrante di Bernard Tschumi per Derrida sin dall’epoca del concorso per il Parc de la Villette da lui vinto, e di François Barré, sofisticato intellettuale allora presidente dell’Etablissement Public del Parc de la Villette, non ci sono molte spiegazioni al successo delle teorie di Jacques Derrida nel mondo dell’architettura. A questo proposito vorrei ricordare qui di seguito una mia breve nota apparsa su L’Espresso del 28 ottobre 2004.
Alcuni anni fa, Derrida disse che non riusciva a comprendere perché fosse così amato e citato dagli architetti in tutto il mondo. Alla fine di una conferenza mi confidò che aveva più inviti da gruppi di architetti che da facoltà di filosofia. L’autore di Il sogno di Benjamin, Politica dell’amicizia, L’ospitalità, Quale domani, e studioso e critico di Heidegger, amico di Foucault, di Lacan e degli strutturalisti, scomparso nel 2004, ha avuto una fortuna incredibile per chi professa la fede nel costruire! La parola chiave decostruzionismo, utilizzata da Derrida come base per una riflessione critica su gran parte della filosofia, è stata per gli architetti una parola magica.
Alcuni anni fa Philip Johnson organizzò a New York una mostra con questo titolo. Chiamò un gruppo di creatori differenti tra loro, ma resi simili e omogenei dal «cappello» con cui coprì Gehry, Coop Himmelblau, Zaha Hadid e altri: tentava di riprodurre l’effetto che aveva avuto decenni prima il libro International style, in cui aveva dato limiti e contenuti a una lunga serie disomogenea di autori. Non so bene in che modo un architetto possa aver trasferito le «aporie» di Derrida nel vile mestiere dell’acciaio, del vetro, del mattone o simili. In ogni caso la parola «decostruttivismo » ha generato un movimento che probabilmente per Derrida era quanto mai semplicistico.
Forse le tracce della sua influenza nel piccolo universo dell’architettura si possono trovare in concetti come il passaggio al limite, l’evento, la casualità di molti accadimenti e la difficoltà di comprenderne i meccanismi. Come diceva: «La decostruzione passa per essere iperconcettuale e certamente lo è, dal momento che fa un grande consumo di concetti, concetti che genera almeno tanto quanto eredita. Essa tenta di pensare oltre i confini stessi del concetto».