Conversando con Edoardo Sanguineti
Poeta e scrittore
«Questa Italia scoraggiata è finita nelle mani dell’uomo delle tende azzurre»
La sinistra scomparsa: «C’è stata una generazione che ha voluto cancellare la storia in modo dissennato» Il potere di Berlusconi: «Con le tv nasce un avveduto affarista che si è comprato l’Italia e fa di tutto per dominarla»
Il poeta e l’operaio: «Per me è cambiato tutto quando, giovane borghese, conobbi un vero operaio. Capii che era parte di un altro mondo. Quell’operaio aveva il fucile ed era un partigiano. Allora, a Torino, sono diventato materialista».
intervista di Pietro Spataro (l’Unità 12.04.2009)
In tv continuano a scorrere le immagini del disastro dell’Abruzzo. Le case sventrate, le chiese ferite, le bare allineate, gli sfollati spersi. «È terribile», dice Edoardo Sanguineti. «È terribile vedere come certi edifici siano finiti in briciole e abbiano portato la morte. Eppure dovevano essere garantiti dal rischio sismico...».
Si ferma un attimo poi aggiunge con tono polemico: «E davanti a questa grande tragedia c’è chi cerca di ricavare consenso dalle tende azzurre...». A Edoardo Sanguineti, poeta e saggista acuto e ironico, Berlusconi non è mai piaciuto e non lo nasconde. Non gli piace per niente, oggi, quella continua esibizione di sé tra le rovine dell’Aquila. Proprio il terremoto - il segno di questa Italia vulnerabile e sofferente - è il punto da cui partiamo per ragionare su di noi e sul futuro.
Allora, Sanguineti un disastro ineluttabile quello dell’Abruzzo?
«Non credo proprio. Diciamo che non c’è stato controllo. Come è stato possibile che l’ospedale, la prefettura, la casa dello studente siano venuti giù in quel modo? Come è possibile che chi era lì per studiare non abbia avuto la minima garanzia di sicurezza? Che fine hanno fatto le leggi sul rischio sismico? È tutto terribile e dimostra a che livello di degrado siamo arrivati. Meno male che di fronte all’emergenza almeno una certa risposta di solidarietà c’è stata...»
L’emergenza mostra sempre il lato migliore degli italiani. Ma secondo lei nella normalità l’Italia di oggi non è invece cinica e indifferente?
«Io direi che questa Italia è molto scoraggiata. È caduta ogni fiducia, ormai si dice solo “spendete e spandete”. Ma questo scoraggiamento va oltre i nostri confini. La globalizzazione infatti sta mostrando i suoi effetti perversi. C’è un mondo pieno di proletari che non sanno di esserlo e la coscienza di classe si è persa. Ormai la pratica sociale più diffusa è il mobbing».
Eppure solo qualche anno fa ci dicevano che il capitalismo era trionfante...
«E invece nel momento di massimo splendore il capitalismo entra in crisi. Ma attenzione, perché vedrete che reagirà e lo farà con durezza. Però, possiamo dirlo: aveva ragione Marx. Basta vedere come nelle nostre città si aggirano masse disperate e ricchi spaventosamente ricchi per i quali non ci sono limiti. Rileggere Marx, questo dobbiamo fare se vogliamo riorientarci. Dico Marx, ma anche Gramsci e Benjamin: credo possano ancora aiutarci».
Qualcuno dice che è fallito un modello, quello del consumismo. È d’accordo?
«Certo. Ormai siamo cittadini non più di una Repubblica fondata sul lavoro ma di una Repubblica fondata sulla concorrenza spietata. Quando il consumo è tutto la Costituzione può essere rovesciata come un guanto. È quel che dice il nostro premier».
Insomma ha vinto Berlusconi?
«Sì, ha vinto violando, tanti anni fa, le norme sulle tv. Lì è nato un avveduto affarista che costruisce il suo apparato di persuasione. La tv non serve più a insegnare a leggere e a scrivere come faceva il maestro Manzi, né a formare una coscienza critica. La tv si occupa di questioni di letto, di grandi fratelli. E allora Berlusconi diventa un modello. Appunto: è l’uomo che ricava consensi dalle tende azzurre del terremoto. Le tende azzurre sono il simbolo del berlusconismo. Si è comprato il paese e utilizza ogni mezzo per dominarlo: il suo è un modello nazional popolare».
Che arriva persino all’uso delle ronde contro gli immigrati...
«Anche le ronde sono espressione di un paese arcaico. Un paese che non è più in grado di sopportare la presenza di chi non è noto. Non si tollera lo straniero e allora si occupa il territorio. È un elemento spaventoso della nostra storia recente».
Un vero disastro. E la sinistra dov’è finita?
«E chi lo sa... La sinistra è scomparsa in tutte le sue forme. E non solo nei suoi tentativi di trasformazione dopo gli errori di Occhetto. C’è stata una generazione dissennata che ha lavorato per cancellare la propria storia. E Berlusconi infatti si presenta come il salvatore dal comunismo. All’opposizione dice: arrendetevi. Tutto questo fa impressione».
Insomma non c’è speranza?
«Ma no, mantengo sempre una disperata speranza nella sinistra. Ma devo dire che è sempre più flebile».
Qualche segnale positivo ci sarà pure. Per esempio, i ragazzi dell’Onda. O il sindacato. Non sono un po’ di luce in mezzo al buio?
«Il sindacato sì. La Cgil sì e non solo per la bella manifestazione del Circo Massimo. L’Onda invece no, assolutamente. Ho visto in quel movimento una spaventosa depoliticizzazione, non sanno proprio quel che vogliono. C’è solo tanto individualismo».
Per fortuna che c’è Obama allora. Persino Ingrao dice che è l’unica grande novità...
«Non sono d’accordo con Ingrao. Certo Obama mica è da buttar via, un nero alla Casa Bianca, o un abbronzato come dice qualcuno, è una novità. E ci sono elementi positivi nei suoi primi passi. Anche una certa spinta utopica. Il punto è: chi rappresenta e quali classi? Non dimentichiamo che l’America non ha mai conosciuto la lotta di classe».
E se invece Obama riuscisse laddove la sinistra ha fallito, cioè cambiare il mondo?
«È possibile, è possibile. Ma io non ci credo, non credo che l’America cambierà mai. Un paese nato con una Dichiarazione di Indipendenza così arcaica e conservatrice dove può andare? Per me Obama non è una speranza. L’unica speranza resta il comunismo».
Il comunismo è la sua ossessione...
«Ma che cosa c’è d’altro? Il mondo è precarizzato, l’uomo è ridotto a merce. Quando vai in banca ti rendi conto che chi ti serve dietro lo sportello è uno sportello. È un essere docile che obbedisce per salvarsi. Se questo è il mondo bisogna impegnarsi e non solo con le manifestazioni o con le notti bianche. Ho spiegato due anni fa, proprio in occasione di un compleanno di Ingrao, come si diventa materialisti storici, come ci sono diventato io...»
E come ci si diventa?
«Con gli operai. La mia storia di materialista comincia con un operaio. Per me, bravo ragazzo borghese, tutto è cambiato quando ho conosciuto un operaio per la prima volta. Eravamo in guerra, lui si è fermato e ho capito che era parte di un altro mondo. L’ho visto poi con il fucile in spalla il giorno della Liberazione: l’operaio era un partigiano. Abitavo a Torino, tutto è cominciato da lì».
Un verso della sua raccolta “Postkarten” dice: “la poesia è ancora praticabile probabilmente”. In un mondo così a che serve la poesia?
«Serve a scrivere poesie che guardano il mondo con ottica comunista. Guardano il mondo, lo raccontano, lo interpretano».
Qual è il poeta che ha capito meglio il carattere degli italiani?
«Sicuramente Dante anche se era un feroce reazionario. Lui ha capito che il mondo era cambiato, che la borghesia era in ascesa, ha capito che la storia aveva avuto una svolta irreparabile. Insomma ha capito meglio di altri il disordine del mondo».
Sanguineti, qual è il leader della sinistra a cui si è sentito più legato?
«L’ultima persona sana è stato Berlinguer. Poi certo la sua impresa è fallita. Ma è fallita perché sono arrivate le armi. Hanno rapito Moro, sono cominciate le sedute spiritiche e il progetto si fermò».
Quale lezione ha lasciato Berlinguer?
«Berlinguer diceva allora una cosa semplice e forte: far soldi non è lo scopo dell’esistenza. C’è ancora qualcuno che lo dice? Mi pare di no e infatti guardate dove siamo finiti».
Ancora comunista, ancora avanguardista: insomma fedele a se stesso?
«Una volta mi chiesero quale fosse la mia migliore qualità e quale il mio peggior difetto. Risposi: l’ostinazione. Mi ostino, come Berlinguer, a dire che non si vive per accumulare ricchezza e penso che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro e non sul consumo. Qui invece ti dicono grazie solo perché consumi. E allora io ripeto: no grazie. E mantengo la mia ostinazione».
Ha descritto un quadro fosco: quindi è pessimista per il futuro?
«Userei questa espressione: ottimismo catastrofico. Certo che è un dovere essere ottimisti, come si fa. Però, devo essere sincero: non scommetterei un soldo sull’ipotesi che il mondo così com’è duri altri cinquant’anni. Forse ce ne andremo su Marte. Ma costa troppo, vedrete che non si farà».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sanguineti, la vita dell’ultimo marxista tra politica e poesia
Il piccolo volume è una conversazione da lontano che colma un vuoto
di Furio Colombo (Il Fatto, 19.03.2018)
Edoardo Sanguineti era mio compagno di banco al liceo D’Azeglio di Torino. Era appena finito il grande disastro del fascismo ed eravamo sicuri che toccava a noi riempire il vuoto. I nostri insegnanti di quel liceo (il più importante della città ) e di quella nostra classe (sezione B) erano tutti personaggi della Resistenza partigiana. È la Resistenza (la Resistenza, non l’Italia, che in tutta la nostra vita era stata fascista, persecutrice, priva di valori che non fossero uccidere o morire) il territorio in cui eravamo radicati. Anzi, nella Resistenza eravamo nati, giovanissimi adulti, legati per sempre a quello straordinario soprassalto di libertà, legati per sempre a quelle radici, come tutti coloro a cui ci siamo legati a mano a mano, nel corso degli anni. Eppure fra il 1946 e il 1949 (il periodo del nostro liceo) non siamo mai diventati i discepoli di chi già ci parlava del passato.
Puntavamo avanti, in politica (volevamo parlare di delitti non pagati, di diritti non ricevuti, di scioperi già malvisti, dei partiti già inclini a scansare le ingiustizie), nella ricerca di ciò che stava per venire e nel non accettare che il fatto di essere liberi fosse un punto di arrivo. È stato seguendo questa spinta che, nel secondo anno, Sanguineti e io, abbiamo organizzato un nostro luogo di incontro e di discussione. Lui o io abbiamo iniziato a portare testi da leggere e da discutere, e il punto d’incontro era a casa mia, dove mia madre aveva sgombrato una stanza. Sanguineti lo racconta nella sua autobiografia per dire che eravamo più adatti a scoprire il dopo che a celebrare il prima.
Quando ho avuto fra le mani il piccolo, utilissimo libro di Lanfranco Palazzolo, Edoardo Sanguineti, il poeta dell’avanguardia (postfazione di Pino Pisicchio, Historica Editore), mi sono reso conto che questo nuovo testo colmava un vuoto.
Mancava tra le tante opere e i tanti scritti di e su Sanguineti, una conversazione da lontano: Palazzolo raggiunge Sanguineti nel 2010, molti anni dopo l’esperienza tedesca (1971) e 100 poesie dalla DDR, e lo induce a raccontare di un periodo cruciale, per un mondo spaccato della guerra fredda, per la enigmatica politica italiana, per Sanguineti, stesso, mai così poeta, mai così politico (“Torno in Italia e mi iscrivo a Pc”, ha detto a Palazzolo ).
Il fatto è che il giornalista riesce, con domande informate e abili, a far fronte al poeta e a tener testa al politico. E il documento che gli dobbiamo merita di entrare sia nelle biblioteche della politica italiana di quegli anni, sia nella biografia di un grande poeta italiano.
Magazzino Sanguineti. Gli inediti, le curiosità.
Le sue opere scritte, poesia o prosa, sono tutte pubblicate e gli studi su di lui appartengono alla critica e alla letteratura specialistica. Fuori dall’ambito strettamente scientifico, però, in questo sito si possono trovare immagini e notizie, commenti inèditi e exempla delle decine di migliaia di lettere ancora inèdite custodite nella sua casa, fotografie di zone e oggetti della casa stessa, l’elenco di mille tra cassette e dvd scelti e acquistati in un arco temporale lungo quanto la stessa storia del cinema, e molto altro ancora.
Per tutto il prezioso materiale raccolto e fotografato, che in qualche modo sottrae all’oblio anche qualche momento della vita, del quotidiano, degli affetti del poeta, un vivo ringraziamento va alla signora Luciana Sanguineti che ha messo a disposizione con pazienza la propria casa e buona parte dei contenuti perché si potesse realizzare questo sito. Un grazie anche al prof. Federico Sanguineti, che ha voluto mettere a disposizione dei dantisti di tutto il mondo il materiale di commento ai canti 1-26 del Purgatorio che erano di sua proprietà.
Il sito comprende quattro voci principali, ognuna delle quali ha sottovoci interessanti o, a volte sorprendenti. E’ un sito ‘in progress’ che sarà ancora arricchito e in qualche parte completato.
EDOARDO SANGUINETI. E’ MORTO EDOARDO SANGUINETI, UN GRANDE SPIRITO LIBERO.
Lo scrittore ligure esamina i meccanismi del Comico al centro di una rassegna
Homo ridens
Quel riflesso primordiale addomesticato dalla società
Ma nel mercato planetario far ridere è arma di potere
di Edoardo Sanguineti *
L’uomo è l’animale che ride. So benissimo che molti etologi alla Lorenz, e una quantità di «-ologi» senza fine, sono pronti a smentirmi con infiniti argomenti. Ma devo confessare che, personalmente, inclino a schierarmi con quel saggio autore della vita del grande Gargantua, padre di Pantagruel (libro pieno di pantagruelismo, diceva), il quale, rivolgendosi ai propri lettori, ricordava che è meglio scrivere di riso che di lacrime, perché ridere è ciò che è proprio dell’uomo. Nel testo, Rabelais proclama, meglio e più precisamente, che appunto «mieux est de ris que des larmes escrire, pour ce que rire est le propre de l’homme».
Mi piace dire, e lo dico ad ogni occasione propizia, e anche quando propizia non è, che l’uomo nasce animale, e con molta pena e travaglio, suo e di chi lo umanizza, o si sforza di farlo, si fa umano, trasferendosi dalla sua naturale animalità alle sfere della società e della storia. Quest’operazione, per un groddeckiano come sono, dà risultati modestissimi. Ma l’orizzonte della cultura, che si giuoca per intiero tra Eros e Thanatos, non ha contenuti diversi. Chiunque abbia la pazienza di osservare un neonato, un bambino, un infante qualunque, sa perfettamente che un riflesso banale quale è il sorriso viene addomesticato, o vogliamo dire umanizzato, battezzandolo come sorriso. Che sia un effetto di mera soddisfazione digestiva, un segnale radicato più o meno in comportamenti gastrici, mi appare ipotesi ragionevole, e statisticamente diffusa. Chi ha voglia e pazienza, può impegnarsi anche nell’interpretazione di quel «risu cognoscere matrem », cui si esorta il «parvus puer» di Virgilio.
Ora, dicano tutti i filologi quello che vogliono, per me, ostinato, l’espressione è intenzionalmente ambivalente. Il «puer» si fa la sua smorfia, e la madre (o chi non vuole fabbricarsi un «enfant sauvage» con poca spesa) ride a quel riso, innalzando a un livello superiore tutto quello che è apprestato, da infiniti preamboli importantissimi, nella lunga preistoria uterina. Un mio recente nipotino trienne, anagrafato come Luca, mi ha concesso di ripassare quanto avevo appreso da quattro paternità, e anche da svariate osservazioni meno coinvolgenti e per così dire, disinteressate.
Allora, quell’equivoco civile che si produce tra un ridere infantiloide e un ridere maternoide, è poi la base per cui il plasmabilmente umanoide in divenire è spronato a mimare, da buon mimoide qual è, il dilettoso ridere nostrano (o, per essere più scrupolosi, quello della tribù alla quale appartiene).
Chi ha sfogliato anche soltanto un po’ certe pagine del grandissimo Mauss, intorno alle tecniche del corpo, che invito a mandare a mente e a divulgare con ardore, sa che ogni gruppo umano ha un suo modo specifico, nel ridere, e oggetti di riso che sono assolutamente caratterizzanti. Nell’età della globalizzazione compiuta, rimescolandosi i codici comunicativi internazionalmente, si può speculare, a fini economici (connessi ai valori pubblicitari, come è noto): il riso si omogeneizza nel mercato planetario e diventa contagiosamente poco meno che terrestre, con quegli effetti di risate indotte, talora dal pubblico a ciò ostentatamente ormai invitato sul piccolo schermo, e altre volte, che è cosa più forte, incorporato nel sonoro televisivo, impudicissimamente. L’utente solitario, così, è trascinato sopra una piazza spettacolare, e trova sodali immaginari mirabilmente predisposti.
Detto in altra maniera, i dialetti del ridere muoiono di morte artificiale, come quelli verbali, salvo che per alcuni reazionari nostalgici, che intendono serbarsi idioti, nell’accezione grecizzante del vocabolo, e di qui pronti a transitare in comunità in cui il vocabolo diventa indizio di patologia mentale, come avviene nell’uso e nelle locuzioni correnti. Ma si può giungere, volendo, alle più sottili sfumature localistiche, da cui, infine, si deduca un motto del tipo: dimmi, tu che mi ascolti, se mi ascolti, come ridi, e di che, e ti dirò chi sei.
E ho fiducia nel consenso unanime degli analisti, se non di altre e più vaste complicità. La umanizzazione della bestia che abita in noi, a farla breve, è che, un po’ alla volta, l’infante che ride perché infetto degli adulti a siffatto costume, apprende dagli adulti, con tutti gli altri codici comunicativi, quello del ridere con garbo e proprietà, per quel che l’ambiente socio-politico- ideologico gli prospetta e gli censura. Chi riesce a farti ridere, quello già ti possiede, in certa misura, perché, infine, ti seduce.
Ogni seduttore sa bene che, per conquistare l’oggetto vivente del desiderio, si tratta, dosando bene le scelte, le situazioni, le dosi, di muoverlo al riso o al pianto. Chi si guarda dal politico che, come iena temibile, va barzellettando, si avvia, per questo stesso fatto, sulla lunga strada della libertà. Dai leoni non è difficilissimo guardarsi, per noi, poveri uomini, ma dalle volpi amene occorre prendere prontamente le distanze, con quell’onestà decorosa che giova al buon cittadino.
Edoardo Sanguineti
* Corriere della Sera, 18 maggio 2010
Il sultano democratico
Come si corrodono le garanzie costituzionali
Esce da Laterza una raccolta di scritti sulle trasformazioni del potere e sul rischio di svuotamento delle istituzioni dall’interno
di Giovanni Sartori (Corriere della Sera, 16.04.2009)
Dopo le elezioni idilliache volute e pesantemente perdute da Veltroni, l’idillio è presto finito e la sinistra torna ad accusare Berlusconi di intenzioni dittatoriali e anche di essere già un dittatore in pectore. Ma «dittatura» non deve essere usato a vanvera.
Per lungo tempo il termine è stato inteso nel suo antico significato romano, un significato del quale ci dobbiamo dimenticare. Perché oggi «dittatura» denota una fattispecie che si è affermata tra le due guerre mondiali, che in quegli anni ha largamente travolto le democrazie parlamentari, che a sua volta è stata travolta dalla sconfitta bellica del nazi-fascismo e che purtuttavia resta viva e vegeta, sotto mentite spoglie, in giro per il mondo. Visto che molti non lo sanno, importa ricordare che le democrazie dell’Ottocento sono già cadute una prima volta.
Agli inizi degli anni Venti il regime sovietico era già dittatoriale e tutti gli Stati comunisti sono stati tali finché sono durati. Il camuffamento fu solo di dichiararli «dittature del proletariato »; dizione che Marx usò di rado e a casaccio, per poi essere reclamizzata dal marxismo-leninismo. Ma era, ed è, una nozione assurda. Una dittatura collettiva di una intera classe, o anche di un demos nel suo insieme, non ha alcun senso. E se qualcuno ricorda, a questo proposito, che i costituenti americani, e poi Tocqueville e John Stuart Mill, usarono la dizione «dittatura della maggioranza», quel qualcuno ricorda male: quei signori non dissero mai dittatura ma tirannide, «tirannide della maggioranza».
La precisazione è, allora, che le dittature degli anni ’20-40 si gloriavano di essere tali. Abbattevano, a loro dire, una democrazia spregevole, una plutocrazia corrotta e un governo imbelle, incapace di assicurare l’ordine e di contrastare il caos rivoluzionario dei «rossi». In quegli anni l’Inghilterra resse e anche la Francia; ma Italia, Germania, Spagna, Portogallo e quasi tutta l’Europa dell’Est (salvo la Cecoslovacchia) passarono sotto il tallone di dittatori o di monarchi-dittatori. Il punto è che in quegli anni le dittature si consideravano regimi legittimi che «superavano » le democrazie.
Oggi le nostre democrazie sono di nuovo in perdita di credibilità. Ma reggono anche perché il principio indiscusso di legittimità del nostro tempo è (teocrazie a parte) che il potere viene dal basso, che si deve fondare sul consenso e sulla libera espressione della volontà popolare. Il che rende le dittature regimi «cattivi», regimi illegittimi. E questa è la grossa differenza che al giorno d’oggi non consente più alle dittature di esibirsi come tali e di presentarsi come superamenti delle democrazie. Oggi le dittature sono endemiche in Africa e abbondano in gran parte del mondo. Ma sono dittature camuffate, che smentiscono di essere tali e fingono di essere democrazie o quantomeno regimi in corso di democratizzazione. Questa è una importante differenza rispetto alle dittature fasciste, naziste e comuniste di settanta anni fa. E anche una differenza che ci impone più che mai di stabilire cosa sia una dittatura anche se e quando si camuffa. In prima approssimazione la dittatura è potere concentrato in una sola persona. Per così dire, la dittatura è del dittatore, un signore (anche donna, s’intende) legibus solutus che non è sottoposto a leggi e che usa le leggi per sottoporre i sudditi al suo volere.
Al che viene opposto che sono anche esistite «dittature collegiali» e cioè gestite da una piccolissima oligarchia. Sì, tale è stata dopo la morte di Stalin la formula adottata nell’Unione Sovietica. Ma fu soprattutto una formula salva vita (che non salvò la vita di Beria, ma che consentì a tutti gli altri membri del politburo moscovita di morire nel proprio letto). Comunque sia, la dittatura collegiale, che oggi vige soprattutto in Cina, resta una anomalia di alcuni regimi comunisti.
Una anomalia spesso più apparente che reale e che comunque non basta a inficiare la caratterizzazione «personalistica» delle dittature. Che passo a definire così: un regime di potere assoluto e concentrato in una sola persona, nel quale il diritto è sottomesso alla forza.
La sostanza delle dittature è e resta questa. Ma la strategia della loro creazione è cambiata. Prima il dittatore abrogava senza infingimenti la Costituzione preesistente. Senza arrivare al caso limite di Hitler che dichiarava «la Costituzione sono io», il dittatore del secolo scorso eliminava platealmente le camere elettive e istituiva scopertamente strutture di comando a suo uso e consumo.
Oggi, invece, il dittatore si infiltra gradualmente e senza troppo parere nelle istituzioni democratiche preesistenti e le svuota dall’interno. Una prima incarnazione di questa strategia furono le «democrazie popolari» inventate nel secondo dopoguerra dal Cremlino per i Paesi dell’Europa dell’Est restati nella zona di influenza sovietica. Ma in quel caso il camuffamento fu soltanto nella denominazione, nel nome. L’accettazione, nella cosiddetta democrazia popolare, di partitini satelliti era soltanto una cortina fumogena dietro la quale il bastone di comando restava interamente in mano del partito comunista di ogni Paese.
Ma oggi la strategia di conquista dittatoriale delle democrazie è graduale e molto più raffinata. È una strategia che sviluppa «Costituzioni incostituzionali » e cioè che ne elimina senza dare nell’occhio le strutture garantistiche. Il costituzionalismo è tale nella misura in cui istituisce poteri controbilancianti che si limitano e controllano a vicenda. Quando è così i cittadini sono garantiti dall’abuso di potere e sono comunque in condizione di difendere e di affermare la loro libertà. Quando non è più così, le Costituzioni diventano semplicemente qualsiasi forma, qualsiasi struttura, che ogni Stato si dà. Con tanti saluti, in tal caso, alle libertà del cittadino.
Riassumo così: oggi le dittature sono Stati caratterizzati, dicevo, da Costituzioni incostituzionali, Stati la cui forma (Costituzione) consente e autorizza un esercizio concentrato e incontrollato del potere politico. Nessuno si dichiara più dittatore. Tutti fanno finta di non esserlo. Ma lo sono.
Arrivo a Silvio Berlusconi. È un dittatore? No: non viola la Costituzione. Lo può diventare? Sì, le riforme costituzionali che caldeggia sono tutte intese a depotenziare e fagocitare i contropoteri che lo intralciano. Ma vuole davvero diventare un dittatore? Qui dobbiamo rispondere a naso, a fiuto. A mio fiuto, a Berlusconi interessa semplicemente fare quello che vuole. Si ritiene bravissimo ed è a questo titolo che pretende a mano libera, che mal sopporta chi lo frena. Però è vero che la sua megalomania sta crescendo, che esibisce un complesso di persecuzione addirittura nei confronti dei media (tutta la televisione che gli spara contro! Figurarsi). Il che depone male. Eppure a tutt’oggi il personaggio resta, a mio vedere, soprattutto quello di un padrone autoritario.
Congetture a parte, nei suoi due precedenti periodi di governo Berlusconi si è impegnato a salvare se stesso dalla magistratura e a corazzare un impero tutto intriso di conflitti e di abusi di interesse. Questa volta su questo fronte è oramai tranquillo. E si è così dato a costruire, all’interno di Palazzo Chigi, e della sua personale sfera di potere, un sultanato. Mi sono divertito a battezzarlo così perché il termine (islamico) è evocativo, insieme, di fasto e di potere dispotico. Il fatto è che Berlusconi concede a Bossi quel che Bossi vuole (federalismo e due ministeri chiave) e concede qualche contentino anche a Fini (promosso a presidente della Camera per meglio rimuoverlo da An).
Dopodiché il Cavaliere sultaneggia su un partito cartaceo davvero prostrato ai suoi piedi. Nomina ministri e ministre chi vuole. Caccia chi vuole, come se fosse personale di servizio. Nessuno fiata. I ministri del partito di sua proprietà sono tali per grazia ricevuta. E tornano a casa senza nemmeno un gemito se così decide il padrone. Non manca, nel suo governo, nemmeno un gradevole harem di belle donne. Il sultanato era un po’ così.
Specchio, bello specchio...
di Philippe Ridet
(Le Monde, 13 aprile 2009 - traduzione dal francese di José F. Padova)
Da un mese a questa parte Palazzo Chigi, sede della presidenza del Consiglio, rettifica tutte le informazioni pubblicate dalla stampa estera ritenute offensive per l’Italia e gli italiani. Il Times, che aveva ironizzato sulle dichiarazioni di Silvio Berlusconi che consigliava agli sfollati del terremoto de L’Aquila (Abruzzi) di ”passare il fine settimana al mare”, si è visto immediatamente bacchettare da un comunicato ufficiale, mercoledì 8 aprile: ”Se l’inviato speciale britannico fosse stato sul posto, avrebbe potuto verificare la reazione positiva degli sfollati alle parole di conforto (...), pronunciate con un tono divertente, per convincere le famiglie a lasciare le tende per recarsi in uno degli alberghi della costa messi a loro disposizione”.
Un altro quotidiano britannico, The Guardian, ha anch’esso avuto diritto a rimostranze ufficiali per avere scritto che la fusione fra i partiti Alleanza Nazionale e Forza Italia avrebbe fatto nascere una formazione ”post-fascista”. Il quotidiano spagnolo El País e il settimanale tedesco Der Spiegel hanno ricevuto una lettera di rimprovero da parte degli ambasciatori d’Italia in Spagna e in Germania. Il primo per avere scritto che Berlusconi è uno dei leader ”più sinistri”, il secondo per aver pubblicato in prima pagina un titolo giudicato sprezzante per l’Italia: ”Lo stivale puzzolente”.
Suscettibile, Silvio Berlusconi? Si, ma non più degli italiani, che rifiutano di riconoscersi nello specchio che la stampa straniera mette loro davanti. Eppure non sono avari di critiche su loro stessi. Hanno perfino inventato una parola per questo, autolesionismo, per evocare la loro propensione a vedersi come gli ultimi della classe, i disprezzati d’Europa. Ma se qualcun altro lo fa al posto loro subito gli stessi che si descrivevano come ”abitanti di un Paese dove nulla funziona” inforcano il cavallo dell’orgoglio nazionale. L’atteggiamento pieno di dignità offesa di Silvio Berlusconi che rifiuta l’aiuto internazionale dopo il dramma de L’Aquila ne è un’illustrazione.
Questa questione dell’identità dell’Italia come viene percepita all’estero è stata perfino oggetto di un intervento durante un seminario per gli ambasciatori, il marzo scorso. Invitati dalla Farnesina (il ministero italiano degli Affari etseri), il corrispondente del Wall Street Journal e quello di Le Monde sono stati pregati di spiegare come essi vedevano l’Italia e in che modo ne dessero notizia. I due giornalisti si sono trovati d’accordo nel dire, in termini altrettanto diplomatici di quelli usati dal loro uditorio, che almeno quattro ostacoli impedivano loro di fare l’elogio quotidiano della Penisola: la mafia (e le sue declinazioni locali), l’inefficienza dell’amministrazione e dello Stato in generale, la politica xenofoba esaltata - e talvolta messa in atto - dalla Lega Nord e le pessime battute di Silvio Berlusconi.
”Saremo sempre gli italiani di un tempo”, si è lagnato qualche giorno fa il quotidiano Il Giornale (proprietà del fratello di Berlusconi) dopo la comparsa sulla stampa straniera di articoli che riguardavano le violenze contro gli stranieri. Le vittime dei pregiudizi: Il Paese della pizza e del mandolino è diventato il Paese dei razzisti”.
L’Istituto Ipsos ha presentato a Siena, nel dicembre 2008 e in occasione di un incontro organizzato dalla Fondazione Intercoltura, un sondaggio qualitativo centrato sulla percezione della Penisola da parte di una dozzina di testate estere, fra le quali Le Monde, realizzato fra giugno e settembre 2008. Secondo questo studio soltanto gli argomenti che riguardano coltura e patrimonio [artistico] portano all’elogio. Per il resto, l’evocazione della “dolce vita” provoca ”ironia”. La crisi economica e finanziaria porta a giudizi ”sovente negativi”, l’azione del governo è valutata con un ”approccio critico e severo”. I più indulgenti? La stampa russa e indiana. I più critici: i giornali francesi e argentini. In conclusione, Ipsos spiegava: ”Come riuscire a fare parlare delle cose belle e positive? Questa è la sfida per il futuro degli italiani e dell’Italia”.
Per la stampa che preferisce i treni che arrivano in ritardo a quelli puntuali l’Italia è un paradiso. I giornali della Penisola, che sono anch’essi una delle fonti d’informazione dei corrispondenti stranieri, traboccano di storie di malversazione, d’incuria, di corruzione, di crimini mafiosi. Silvio Berlusconi, che possiede più dell’80% dei mezzi audiovisivi italiani in quanto presidente di Mediaset e del Consiglio, tiene ugualmente d’occhi i giornali. Rimprovera loro di non vedere l’Italia con gli occhiali rosa e si lagna di essere maltrattato, poco amato, mal giudicato: ”Sono tentato di applicare misure dure” nei confronti della stampa, ha dichiarato recentemente.
Il terremoto de L’Aquila gli verrà in aiuto? I quotidiani italiani cominciano a lodare l’energia che ha ostentato per rassicurare le vittime e sovrintendere all’organizzazione impeccabile dei soccorsi. Perfino El País gli ha dedicato un editoriale elogiativo. La notizia è stata bene diffusa, sicuramente. Affinché ci ispiri?
NE’ CIECO NE’ MUTO
di don Aldo Antonelli
Ho deciso: rompo il silenzio che mi ero imposto. Non se ne può più!
Non se ne può più di questo presidente androgino che, novella Osiris, scende e riscende, gongolante e gonzo, tra questa povera gente, per evidenziare se stesso e la sua politica assassina. Stringe mani, dà paccate consolatorie, piange lacrime da coccodrillo, LUI, l’ideatore del "piano casa" che prevedeva “procedure semplificate per le costruzioni in zone sismiche” fra cui l’abolizione di ogni autorizzazione preventiva, sostituita dal “controllo successivo alla costruzione, anche con metodi a campione”, come scrive Salvatore Settis su La Repubblica di oggi. Quel "piano casa che prevedeva “la legalizzazione previa di abusi e reati: una vera e propria istigazione a delinquere nei panni di una bozza di legge, un regalo agli “osceni palazzinari di cui ci lamentiamo da anni, ai comuni annaspanti nella corruzione, ai costruttori senza regole e ai politici imbroglioni: uomini che disprezziamo, ma che sono stati prodotti da noi, sono parte di noi” (Orhan Pamuk).
Se non fosse stato per il terremoto quel piano sarebbe passato liscio liscio come "salvagente" in questa crisi, anch’essa (non dimentichiamolo) frutto della politica liberista di cui il vampiro si sente araldo.
Se fosse per lui, tutta l’Italia sarebbe peggiore che L’Aquila terremotata!
Ci vuole una bella faccia tosta per presentarsi tra i terremotati a terremoto avvenuto, senza che si sia mossa una sola foglia per ben tre mesi di scosse che hanno fatto da premessa al disastro.
Dov’erano tutte queste facce di culo, nei mesi di dicembre e gennaio e fabbraio e marzo, quando la città, a intervalli ravvicinati, sobbalzava di paura di notte e di giorno?
Sono le stessa facce di bronzo che senza pudore, dopo aver predicato anni e anni la loro ideologia di "più mercato e meno stato", ed aver inventato il trucco della "cartolarizzazione", oggi, dopo il terremoto della "loro" crisi economica, invocano la presenza dello Stato!
Assassini! Mi viene il vomito al solo vederli!
Assassini travestiti da crocerossini: mi viene la pelle d’oca al solo sentirli nominare!
Vampiri che si autoriciclano come donatori di sangue!
Non trovo parole!
A proposito della trasmissione "Annozero" di Santoro, condivido il giudizio di Furio Colombo: "A giudicare da corsivi, editoriali, interventi e paginate dei migliori giornali di destra (ma non solo di destra) nella puntata di giovedì scorso Santoro è stato molto più malvagio del clan dei Casalesi e assai più dannoso del terremoto"...
Ho scritto per MicroMega.it questo commento:
Sono abruzzese, nato a Tagliacozzo, in provincia dell’Aquila e residente ad Avezzano, sempre in provincia dell’Aquila. Amo questa terra ma l’amore non mi rende cieco e ancor meno silente. Sono addolorato per questo "tremor mortis" che strozza il respiro in gola alle popolazioni, ma questo dolore non mi anestetizza né mi addormenta nel pietismo compassionevole, furbo e opportunista degli, questi sì veri, sciacalli! I nuovi impresari delle pompe funebri della destra populista, e non solo loro, vorrebbero affiancare alle salme immobili delle vittime, anche le figure silenti e ossequiose dei sopravvissuti. Per loro l’informazione diventa diffamazione, per noi, irriducibili al silenzio, essa resta ancora iscritta nell’albo d’oro dei diritti civili! Peccato che di Santoro ce ne sia solo uno!
Sono troppo arrabbiato per comunicarvi il miniprogetto di intervento che, con le donazioni dei miei parrocchiani e, mi auguro, anche vostre, vorrei, d’accordo con l’Ass. Pro Loco e il Comune di Fossa, si ha intenzine di finanziare.
Domani, sperando in un minimo di calma necessaria, vi presenterò la proposta.
Un abbraccio a tutte e tutti.
Aldo [don Antonelli]
Lo chef consiglia di Andrea Camilleri e Saverio Lodato
I rischi che tutto il Paese corre con questo terremoto *
Camilleri, ci voleva Giorgio Napolitano per diradare la melassa dell’efficientismo, ricordare che la tragedia rimanda a responsabilità anche umane, rifuggire dai fotografi. Notte del 15 gennaio 1968, terremoto del Belice: 370 i morti. Leonardo Sciascia scrisse su “L’Ora”: “E al presidente della Repubblica che oggi è qui sentiamo di dover dire che egli rappresenta un paese tremendo. Dilacerato da contrasti e ingiustizie che sotto quiete apparenze non sono meno gravi di quelli che in altri paesi del mondo sanguinosamente si dispiegano. E’ che la Sicilia è stanca, che muore ogni giorno anche senza l’aiuto delle calamità naturali.” I terremoti non cambiano e in Italia continuano a trovare terreno fertile.
Il terremoto del Belice, come Lei ha ricordato, successe nel gennaio 1968. Le sensibilissime antenne di Sciascia captarono le sotterranee vibrazioni di un altro terremoto che di lì a poco si sarebbe scatenato: quello dei movimenti del ’68. La differenza, fra allora e oggi, è data dal fatto che non solo non esistono più gli Sciascia, i Moravia, i Pasolini, e se esistessero non sarebbero ascoltati, ma che gli odierni politici e i sedicenti giornalisti, anche se con tessera dell’ordine, si servono di questo terremoto per coprire gli inquietanti segnali di un altro devastante sisma. Che la cig sia aumentata del 925 per cento, rispetto allo stesso mese dell’ anno scorso, è un segnale che dovrebbe sconvolgere i nostri governanti, invece stanno lì a litigare sulle ronde. E se qualcuno domanda cosa stiano facendo rispondono spacciando fragili castelli di sabbia come solidi provvedimenti. Nel terremoto del Belice, Sciascia avvertì che la Sicilia poteva restarne travolta. Nel terremoto dell’ Aquila è l’Italia intera a correre il rischio. Solo che tutti fanno finta di non accorgersene.
Intervista a Alessandro Amadori
«Leader messianico e populista come era Peron»
di Natalia Lombardo (l’Unità, 12.04.2009)
Il “fenomeno messianico” Berlusconi non è razionale, è pre-politico: bypassa tutte le mediazioni e entra in rapporto diretto con l’opinione pubblica. E i media si appiattiscono in un monologo, un reality show»: Alessandro Amadori, psicologo, semiologo e fondatore di Coesis Research; sulla strategia comunicativa di Silvio Berlusconi nel 2001 scrisse il libro «Mi consenta».
Secondo lei la sovraesposizione mediatica sul dramma del terremoto è stata voluta dal premier?
«A me è sembrato che Berlusconi abbia manifestato una parte reale del suo modo di essere. La parte che chiama e riesce a instaurare il contatto messianico con l’opinione pubblica. Esiste la categoria dei leader messianici, un leader che bypassa i filtri, supera i corpi intermedi di mediazione e cerca di entrare in risonanza diretta col proprio popolo. È la base del populismo. Questa volta credo Berlusconi sia stato spontaneo, non voluto o costruito. È così».
Quindi andare fra la gente al funerale, piuttosto che fra le autorità, non è stato un calcolo preciso?
«Lo escluderei. Esiste un meccanismo, sottovalutato, che porta al lungo successo di Berlusconi: questa capacità di risonanza diretta. Un grande punto di forza per lui, ma che espone a rischi di una deriva personalista, più che autoritaria. Non lo immagino aspirante dittarore».
Già ma il volere più poteri per il premier, il vivere il Parlamento come un freno, non sono rischi?
«Sì, ma non tanto per volontà autoritaria, quanto per questo rapporto messianico, diretto».
Vuol fare tutto da solo?
«In un certo senso sì. È una forma di empatia portata all’estremo, e questo lo rende insofferente per i processi di mediazione. Ma non lo accomunerei a Mussolini, a Stalin o a Hitler, quanto a leader come De Gaulle e Peron, soprattutto quest’ultimo. Berlusconi è più impulsivo che machiavellico».
Chi lo conosce dice che non fa niente a caso...
«Forse sì, ma più nella politologia classica che quando è in mezzo alla gente. In questo è davvero allievo di Bossi, si somigliano. Insomma, al funerale mi è sembrato un leader popolare, anche populista, con un rapporto stretto, diretto e reciproco con la sua opinione pubblica».
Berlusconi capisce la gente anche quando fa le battute del tipo: una vacanza “in campeggio” o “al mare”?
«Sì. anche se nel voler sempre sdrammatizzare gli sfuggono battute distoniche. Ma la gente gliele perdona, subito dopo il meccanismo si rimette in moto. Però nessun altro leader ha questo rapporto con i suoi elettori. Franceschini, infatti, oltre alla gravità del momento, ha capito che sarebbe stato fuori luogo attaccare o ironizzare su Berlusconi, semmai bisogna rifletetre su questo rapporto».
Controcampo: le televisioni alimentano il culto della personalità?
«Ho notato un forte appiattimento dell’offerta televisiva. Tutto è raccontato nello stesso modo, senza capacità di elaborazione, quasi in “presa diretta”. Ecco, i media hanno seguito il format del reality show. Un monologo visivo senza pluralismo delle voci, tutti gli altri sono scomparsi. Capisco che per le tv è difficile sottrarsi al fascino polarizzante di Berlusconi, ma la scena, oggi, è un monologo».