ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
Quando fu spenta la democrazia
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 6.06.2009)
Caro Augias,
ho letto giorni fa una lettera del professor Lucio Villari nella quale si ricordavano certi accadimenti del fascismo. Ci si può infatti chiedere perché certi sistemi politici che si ispirano a principi di libertà e democrazia si siano, nel corso del Novecento, degradati o siano stati sostituiti da sistemi autoritari con l’aiuto degli strumenti e dei poteri che la libertà e la democrazia avevano creato.
Il regime fascista, giunto al potere nell’ottobre del 1922, ci ha messo quattro- cinque anni per smantellare gli istituti dello Stato liberale, le sue magistrature, le libertà dei cittadini. Le leggi che hanno instaurato il potere autoritario (e personale) del fascismo sono infatti state varate nel 1926-1927.
Le censure continue e infine la soppressione dei giornali dell’opposizione o non graditi al governo avvennero tra il 1925 e il 1926. Accusati, tra l’altro, di mancanza di rispetto al capo del governo e di ostacolo alla sua attività.
Idem per i partiti, le associazioni politiche, le autonomie locali e alla fine per tutte le libertà che la Costituzione di allora (lo "Statuto" del 1848) garantiva abbastanza bene.
Queste decisioni furono prese con leggi e decreti approvati dalla Camera dove per alcuni anni fu resa impossibile la funzione dei partiti di opposizione, anche con l’avallo di giuristi e studiosi di diritto, di avvocati, di intellettuali e artisti di varia estrazione.
Lettera firmata
Anche le dittature hanno bisogno di tempo per assestare i loro colpi finali, prima è necessario che l’opinione pubblica venga lungamente ammorbidita e conciata, proprio come si fa con le pelli per poterle "lavorare" meglio. Quando è diventata sufficientemente duttile è più facile far aderire l’opinione comune alle forme volute, o imposte.
Su Repubblica di ieri Aldo Schiavone ha scritto una cosa illuminante. Ha detto che contro la bolla di stanchezza e di indifferenza che sembra attraversare l’elettorato di centro-sinistra è necessario far ricorso non al cuore, ma alla ragione. La sinistra è famosa per aver sempre avuto molto (troppo) cuore.
Adesso sembra proprio il caso di metterlo da parte e non solo perché quel cuore spesso s’è sbagliato, ma anche perché la deriva populista del paese, martellato per anni da una schiacciante propaganda, "conciato" a dovere, ha ormai raggiunto una soglia di pericolo di cui l’indifferenza è un sintomo.
Anni fa, prima di essere condannato, Cesare Previti minacciava: «Dopo le elezioni non faremo prigionieri». Frase rozza, da capomanipolo. Adesso l’avvertimento è più sottile, ma non meno minaccioso: «Dopo le elezioni sistemeremo molte cose». La ragione dice che astenersi o buttare via il voto seguendo il proprio cuore è un lusso che non possiamo permetterci. A meno di non voler essere "sistemati". O "conciati".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
CRISTIANESIMO, CATTOLICESIMO E BERLUSCONISMO.
LA TEOLOGIA POLITICA DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE E LA COSTITUZIONE.
La crisi, i ricchi e le oligarchie
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 08.11.2011)
L’eguaglianza ha fatto il suo grande rientro nella politica quotidiana. Ed è un ospite non gradito per chi tiene le fila delle transazioni finanziarie e delle politiche monetarie. Lo si vede da come i governi hanno accolto la proposta di istituire una tassa sulle rendite patrimoniali - il nostro è all’avanguardia nell’aver escogitato tutte le misure che possono pesare sui molti senza direttamente toccare i pochi (in extremis e nella disperata ricerca di sopravvivere qualche giorno in più tira fuori la proposta di ‘Tobin tax’ ma senza dimostrare di crederci).
Presumibilmente perché a Roma l’oligarchia governa direttamente, senza intermediari. È fuori di dubbio che Silvio Berlusconi sia il più ricco italiano e quindi tra quell’1% che Occupy Wall Street ha individuato come la minoranza che accumula e concentra potere entrando fatalmente in rotta di collisione con la maggioranza e, quindi con l’eguaglianza. Oligarchia e democrazia sono esplicitamente visibili e in tensione.
In un ottimo libro dal titolo chiaro, Oligarchy, uscito per Cambridge University Press pochi mesi fa, Jeffrey A. Winters ci ricorda che la democrazia non elimina l’oligarchia ma la incorpora. Questo lavoro di inclusione dura e ha successo fino a quando l’economia cresce e produce ricchezza alla quale tutti, chi più e chi meno, possono sperare di accedere e, nei fatti, vi accedono anche. Ma quando questa condizione decade, allora la moltitudine comincia a proporre politiche che intaccano le ricchezze e le proprietà dei pochi, politiche fiscali redistributive. È a questo punto che la differenza tra oligarchia e democrazia si mostra con tutta la sua radicalità.
Occupy Wall Street - il nome di un movimento che è globale nella sua semplicità, come globale è l’1% -- è il segno che la tregua tra oligarchia e democrazia si è interrotta. Le pressioni delle dirigenze finanziarie e bancarie sulla democrazia greca, ce lo ricordava recentemente Gad Lerner su questo giornale, affinché non ricorra al referendum è il segno di un’escalation del potere oligarchico su quello democratico. E che il popolo greco non vada al referendum è un segno del potere che l’oligarchia ha di fare sentire la sua voce. Ma è anche un segno del fatto che le procedure democratiche stesse possono diventare un problema se il loro uso paventa esiti che possono mettere a repentaglio l’interesse materiale dei pochi. In questo frangente si è buttata alle ortiche la logica del proceduralismo democratico, che i manuali scolastici ci insegnavano a non giudicare dal punto di vista degli esiti ma delle possibilità di determinarli con le nostre autonome forze. Ora invece è proprio l’esito che viene invocato per neutralizzare la procedura. Un rovesciamento pericolosissimo poiché chi ci garantirà che le elezioni non verranno giudicate non opportune perché passibili di interrompere la stabilità di governo?
Il linguaggio per dualismi - "i pochi" e "i molti" - ha un sapore quasi antico, arcaico. Chi sono i pochi? E come denotarli? Non essendo più i pochi che producono dirigendo masse di lavoratori, non possono essere qualificati come capitalisti tradizionali. Sono super-ricchi - nuovi e meno nuovi. Individuabili solo per quantità: 1%. E infatti, quando Aristotele doveva definire il governo democratico lo faceva identificandolo con i poveri, che sono i tanti. Non perché una società democratica sia fatta di poveri, ma per una ragione molto più sottile e che si vede oggi molto bene: perché non appena la questione della ricchezza materiale si fa critica in quanto la sua distribuzione prende vie inegualitarie, allora i molti si rappresentano (e spesso sono) come poveri o impoveriti. A questo punto, il dualismo è una realtà che può essere rappresentata solo con la quantità, e ciò è in sintonia con la democrazia, la quale è un governo fondato sulla quantità (dei voti).
Allora 1% contro 99% diventa la raffigurazione aritmetica dell’identità della democrazia quando il patto tra i molti e i pochi si rompe perché la ricchezza si muove in una direzione soltanto.
Sono molti i casi di lotta oligarchica che il libro di Winters ricostruisce, dall’Atene e Roma classiche, all’Indonesia e le Filippine, da Venezia e Siena, dalle commissioni mafiose negli Stati Uniti e in Italia fino alle famiglie degli indiani Apalachi. Insomma non esiste società senza oligarchia. Gli Stati si possono quindi distinguere tra quelli schiettamente oligarchici e quelli che hanno siglato un compromesso con la democrazia. Nell’Atene classica quel compromesso riuscì per alcuni decenni, benché l’alternativa oligarchica restasse sempre una concreta possibilità visto che le grandi famiglie non accettarono mai il governo dei molti. I governi rappresentativi sono riusciti a correggere questa condizione di endogena precarietà della democrazia traducendo in meccanismi costituzionali il rapporto con "i pochi", dalla cui collocazione è sempre dipesa la stabilità dei sistemi politici. Consentire a questi di competere attraverso le elezioni è stato un modo per incorporarli - con il contributo dei molti che li eleggono, giudicano, controllano e limitano nel potere.
Il successo delle democrazie rappresentative costituzionali ha corrisposto a due secoli e mezzo di espansione della società di mercato nelle due forme che conosciamo: il capitalismo industriale e, ora, quello finanziario. È stato un successo reso possibile da una condivisione generale degli oneri che ha consentito che il divario tra arricchimento dei pochi e dei molti non fosse fuori controllo. Oggi questo compromesso è rotto. E per molti ordinari cittadini è cominciato un duro periodo di impoverimento - che non è la stessa cosa della povertà. La durezza di questa crisi consiste nel fatto che per la prima volta cittadini che avevano conosciuto per due o tre generazioni un’espansione dei diritti e delle possibilità, si trovano oggi di fronte alla perdita di status, a non potere aver progetti per il futuro. Con la propaganda mediatica, come ci racconta Paul Krugman, che li vuole convincere ad accettare l’impoverimento senza dare loro in cambio alcuna certezza per il domani. In passato quando si trattava di tirare la cinghia si invocava "l’interesse nazionale", e i super-ricchi erano in molti casi, come gli Stati Uniti, i primi a partecipare. Ma oggi non vogliono condividere gli oneri.
Questa è la gravità dell’attuale tensione tra oligarchia e democrazia: se le due forze si mostrano così bene oggi, se in altre parole l’eguaglianza, anzi la sua violazione, è oggi il tema centrale è perché il patto che mitigava la diseguaglianza e incorporava l’oligarchia dentro la democrazia mostra la corda. Nessuno può allo stato attuale delle cose dire come lo scontro si evolverà. Ma le pressioni dei "mercati" sulla Grecia affinché non convochi i molti a giudizio è un segnale nemmeno troppo velato dei rischi politici che questa crisi contiene. Per la democrazia non si promette nulla di buono.
L’ALTRO FOGLIETTO MOSTRATO AI MALPANCISTI: «PRENDO LA FIDUCIA? LASCIO»
E su un foglio spuntano le parole «traditori» e «dimissioni»
Il premier e gli appunti in Aula dopo il voto:
«ribaltone», «voto», «presidente della Repubblica».... *
MILANO - «Prenda atto, rassegni le dimissioni». È l’invito che Pier Luigi Bersani rivolge in Aula a Silvio Berlusconi dopo il voto sul rendiconto generale dello Stato. Il premier lo annota su un foglietto di carta, fotografato da diversi reporter a Montecitorio. Sul foglio ci sono anche appuntate le parole «ribaltone», «voto», «presidente Repubblica» e «una soluzione». In alto, come primo punto, «308, meno 8 traditori». Quello scritto in Aula dopo il voto non è l’unico foglietto di Berlusconi che esprime la momentanea incertezza del capo del governo. I malpancisti del Pdl recatisi a Palazzo Grazioli prima del voto hanno trovato il Cavaliere che maneggiava uno schema a tutta pagina con in bella mostra alcuni punti interrogativi. «Prendo la fiducia? Lascio? Governo tecnico? Reincarico?».
Ad ogni domanda il Cavaliere aveva inserito sul foglio una risposta, un percorso, evidenziando - riferisce chi è stato in via del Plebiscito - i pro e i contro delle ipotesi in campo. Dal Pdl riferiscono che lunedì sono state affrontati tutti gli scenari possibili e il presidente del Consiglio ha continuato a ripetere di avere intenzione di andare avanti. Anche oggi il premier ha ribadito di voler andare alla conta: devono avere la forza per buttarmi giù, mi devono far cadere, non sono uno che si arrende dall’oggi al domani, è il ragionamento del Capo dell’esecutivo che in questi giorni sta ascoltando tutti i ’fedelissimì per poi trarre le conclusioni. I vertici di via dell’Umiltà sono convinti che si supererà l’asticella dei 310 voti. Il timore, però, a questo punto è che il Quirinale possa tornare ad invocare garanzie di governabilità. Berlusconi agli ospiti ricevuti dice di fidarsi ancora di Giorgio Napolitano che, a suo dire, si è comportato sempre correttamente. L’obiettivo è sempre quello di superare lo scoglio della Camera e porre poi la fiducia al Senato sulla lettera della Bce. Lunedì a confortare il premier è stato in particolar modo la figlia Marina, mentre - sostengono fonti ben informate - gli altri figli, e soprattutto Eleonora, Barbara e Luigi, avrebbero chiesto al premier di evitare lo scontro a tutti i costi. In ogni caso il Cavaliere è ancora convinto di farcela.
Lunedì ad Arcore c’è stata anche una prima riunione sull’eventualità di un voto anticipato: sono stati prenotati gli spazi elettorali, sono spuntati i primi bozzetti con la scritta «Italia sempre» e «Italia viva», con logo e colori che si ispirano a quelli della vecchia Fi. La prima data utile per le elezioni è quella del 20 febbraio, sostengono fonti parlamentari del Pdl. «Questi malpancisti - dicono alcuni parlamentari di via dell’Umiltà - non hanno capito che così facendo accelerano il voto anticipato».
Redazione Online
* Corriere della Sera, 08 novembre 2011 18:09
L’analisi.
Nel ’94 l’annuncio, ma il progetto partì nel ’92. Il premier lamenta
di essere accusato di "cose mai viste" a proposito delle stragi di mafia del 1993
La nascita di Forza Italia
e le bugie del Cavaliere
Ma ci sono anche documenti notarili che retrodatano la creazione del partito
di GIUSEPPE D’AVANZO *
FORZA ITALIA nasce nel 1993, da un’idea covata fin dal 1992. Non c’è dubbio che già nell’aprile del 1993 - quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) - è matura la volontà di Berlusconi di "mettersi alla testa di un nuovo partito".
In luglio - in parallelo con la seconda ondata di bombe, via Palestro, Milano, 27 luglio; S. Giorgio al Velabro, S. Giovanni in Laterano, Roma, 28 luglio - si mette a punto il progetto politico che diventa visibile in settembre e concretissimo in autunno. E’ una cronologia pubblica, quasi familiare, documentata da testimoni al di sopra di ogni sospetto. Dagli stessi protagonisti. Addirittura da atti notarili. Se è necessario ricordarla, dopo sedici anni, è per le sorprendenti parole di Silvio Berlusconi. Dice il presidente del Consiglio a Olbia: "Mi accusano di cose mai viste. Dicono che io sia il mandante delle stragi di mafia del ’92 e ’93; che avrei orchestrato insieme a Dell’Utri per destabilizzare il Paese. E’ una bufala visto che Forza Italia non era ancora nata e nacque solo un anno dopo quando diversi sondaggi mi avevano detto che c’era un spazio politico per evitare che finissimo in mano ai comunisti" (il Giornale, 29 novembre).
"La pianificazione dell’operazione politica di Berlusconi cominciò nel giugno 1993, subito dopo la vittoria dei partiti di sinistra alle elezioni amministrative, e già a fine luglio se ne cominciarono a scorgere le prime, anche deboli, avvisaglie pubbliche", scrive Emanuele Poli (Forza Italia, strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino).
Il 28 luglio, intervistato da Repubblica, Berlusconi invoca "la necessità di una nuova classe dirigente" e rivela che, in quelle settimane, "sta incontrando in varie città d’Italia chiunque condividesse i "valori liberaldemocratici" e credesse nella libera impresa". Nello stesso giorno, intervistato dal Corriere della Sera, Giuliano Urbani, docente di Scienza della politica alla Bocconi, svela i suoi incontri con intellettuali, opinionisti, imprenditori di Confindustria che condividono le preoccupazioni "per una replica su scala nazionale della vittoria delle sinistre alle amministrative". In segreto, Berlusconi e Urbani già lavorano insieme.
Il loro progetto politico diventa pubblico il 29 giugno, quando molti uomini vicini a Berlusconi (Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Antonio Martino, Mario Valducci) costituiscono l’"Associazione per il buon governo" presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Le nove sezioni tematiche dell’Associazione raccolte in un libretto ("Alla Ricerca del Buongoverno") diventano il "riferimento ideologico" dei nascenti club di Forza Italia. Il 6 settembre, Berlusconi ne inaugura il primo. Il 25 novembre viene fondata a Milano da Angelo Codignoni, ex direttore di La Cinq, il network francese di Fininvest, l’"Associazione nazionale del Club di Forza Italia".
Questa è la storia ufficiale, verificata dai politologi. Se ne può mettere insieme un’altra con le testimonianze dirette, che sono mille e una. Ne scegliamo qui soltanto tre. La prima è di Indro Montanelli (L’Italia di Berlusconi, Rizzoli). "Il 22 giugno del 1993, Urbani espone le sue tesi a Gianni Agnelli, che ascoltò con attenzione limitandosi a dire: "Ne ha parlato con Berlusconi?". Il 30 del mese Urbani si trattenne alcune ore a villa San Martino ad Arcore. Le idee che espose erano idee che il Cavaliere già rimuginava. Sta di fatto che, a distanza di un paio di giorni, Berlusconi convocò Gianni Pilo, direttore del marketing in casa Fininvest. Pilo doveva accertare quali fossero i "sogni" degli italiani: il che fu fatto tramite due istituti specializzati in sondaggi d’opinione. Qualche settimana più tardi Pilo ebbe un istituto demoscopico tutto suo mentre Marcello Dell’Utri gettava le fondamenta d’una struttura organizzativa su scala nazionale". Quindi, i primi sondaggi sono del ’93 e non del ’94.
Il secondo testimone diretto è Enrico Mentana, che retrodata al 30 marzo "il primo indizio chiaro della volontà di Berlusconi" di creare un partito. Quel giorno, consueta riunione mensile ad Arcore dei responsabili della comunicazione del gruppo. Ci sono Berlusconi, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell’Utri e Del Debbio di Publitalia, l’amministratore delegato Tatò, i direttori dei periodici, Monti (Panorama), Briglia e Donelli (Epoca), la Bernasconi e la Vanni dei femminili, Orlando il condirettore de il Giornale, Vesigna (Sorrisi e Canzoni). E poi i televisivi, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana, direttore del Tg5. Che cita (Passionaccia, Rizzoli) il verbale della riunione: "Ad avviso di Silvio Berlusconi, l’attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica. Non nasconde che gli viene una gran voglia di mettersi alla testa di un nuovo partito". Cinque giorni dopo, la decisione è presa. Lo racconta il terzo testimone, Enzo Cartotto, ghost writer di Giovanni Marcora e Piero Bassetti, prima di diventare consigliere politico di Berlusconi e Dell’Utri.
I ricordi di Cartotto si possono ricavare dall’interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 20 giugno 1997 e da un suo libro Operazione Botticelli.
"Nel maggio-giugno 1992 sono contattato da Marcello Dell’Utri perché vuole coinvolgermi in un progetto. Dell’Utri sostiene la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo, Fininvest "entri in politica" per evitare che un’affermazione delle sinistre possa portare il gruppo Berlusconi prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà. Dell’Utri mi fa presente che questo suo progetto incontra molte difficoltà nel gruppo e, utilizzando una metafora, mi dice che dobbiamo operare come sotto il servizio militare, e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità. Dell’Utri mi invita anche a sostenere questa sua tesi presso Berlusconi, con il quale io coltivo da tempo un rapporto di amicizia. Successivamente a questo discorso, comincio a lavorare presso gli uffici della Publitalia. (...) Partecipo a un incontro tra Berlusconi e Dell’Utri, nel corso del quale Berlusconi dice espressamente a Dell’Utri e a me di non mettere a conoscenza di questo progetto né Fedele Confalonieri, né Gianni Letta. Dall’ottobre 1992 in poi, mi occupo di contattare associazioni di categoria ed esponenti del mondo politico dell’area di centro e il risultato del sondaggio fu che tutte queste forze sentono fortemente la mancanza di un referente politico. Si arriva quindi all’aprile del 1993, quando Berlusconi mi dice che aveva la necessità di prendere una decisione definitiva su ciò che si deve fare perché le posizioni di Dell’Utri e Confalonieri gli sembrano entrambe logiche e giuste, e lui non è mai stato così a lungo in una situazione di incertezza. Che devo fare?, mi chiede Berlusconi. Confessa: "A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso. Non so veramente come venirne fuori". Mi dice che, per prendere una decisione, quella sera ad Arcore, ha chiamato Bettino Craxi. Alla riunione partecipiamo soltanto noi: io, Craxi e Berlusconi. (...) Dice Craxi: "Bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu - Silvio - trovi una sigla giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e dagli ex comunisti". (...) "Bene - dice Silvio - so quello che devo fare. E’ deciso. Adesso bisogna agire da imprenditori. Chiamare gli uomini, comunicare la decisione. Adesso bisogna dirlo a Marcello (Dell’Utri), perché mi metta attorno persone che mi possano accompagnare. Bisogna fare quest’operazione di marketing sociale e politico. Va bene, allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, ormai la decisione è presa".
E’ il 4 aprile 1993. Quel giorno - è domenica, piove, fa freddo come in inverno - può essere considerato il giorno di nascita di Forza Italia. Perché il Cavaliere vuole farlo dimenticare?
Non è una novità, in Berlusconi, l’uso politico e sistematico della menzogna. In questo caso egli nega la realtà, la sostituisce con una menzogna per liberarsi di un sospetto - fino a prova contraria, soltanto una coincidenza - sollecitato dal sincronismo tra le sue mosse politiche e la strategia terroristica di Cosa Nostra. E’ una contemporaneità che i mafiosi disertori dicono combinata. Se c’è stata intesa o collaborazione, non ha trovato per il momento alcun attendibile, concreto conforto. Confondere le cose, eclissare fatti da tutti conosciuti, appare a Berlusconi la migliore via d’uscita dall’imbarazzante angolo. E’ la peggiore perché destinata a rinvigorire, e non a sciogliere, i dubbi. Un atteggiamento di disprezzo per la realtà già non è mai moralmente innocente. In questi casi, la negazione della realtà - al di là di ogni moralistica condanna - finisce per mostrare il bugiardo corresponsabile di una colpa. Che bisogno ne ha Berlusconi, quando raccontando la verità dei fatti può liberarsi di quella nebbia? Perché non lo fa? Qual è la ragione di questa fragorosa ultima menzogna, in un momento così delicato per il Cavaliere?
© la Repubblica, 1 dicembre 2009
Dove porta l’odio dell’altro
di Barbara Spinelli (La Stampa, 6 giugno 2009)
Tra il discorso di giovedì all’Università del Cairo e la commemorazione dello sbarco in Normandia che avrà luogo oggi in Francia, Barack Obama ha scelto la sosta a Buchenwald, il campo di morte dove tra il 1937 e il 1945 furono rinchiusi 250 mila esseri umani provenienti da cinquanta Paesi diversi.
Morirono uccisi in 56 mila: 11 mila ebrei, gran parte del gruppo dirigente comunista a partire dal suo capo Ernst Thälmann, centinaia di soldati russi, e omosessuali, Rom, Sinti, uomini malati ritenuti «inabili al lavoro». Il Cairo, Buchenwald, la Normandia: tre luoghi e tre date si intrecciano, compongono insieme una storia e un tempo più vasto. Il passato dà pienezza al presente, il Ventesimo Secolo parla al Ventunesimo conferendogli profondità. In ambedue i secoli c’è sete di liberazione, in ambedue è questione di edificare un dopoguerra. Il 6 giugno 1944 in Normandia l’Europa fu liberata dal nazismo, l’11 febbraio 1945 furono i superstiti di Buchenwald a salvarsi. Oggi tocca uscire da un’altra guerra, prima che precipiti in ennesimi orrori e distruzioni: tocca, come ha detto al Cairo il Presidente, metter fine all’infausta guerra tra civiltà. La criminalizzazione dell’Islam deve finire, perché il rischio è grande di punire la diversità nel diverso, e di considerare la diversità un pericolo. Tutte e tre le tappe - Il Cairo, Buchenwald, la Normandia - narrano la difficile edificazione di un dopoguerra meno buio, fondato sulla memoria viva del passato.
Nel suo discorso a Buchenwald Obama ha sottolineato la centralità della memoria, perché non esiste ricominciamento che possa farne a meno. Soprattutto quando si è messi a cospetto di orrori talmente dolorosi che nello spettatore «subentra il mutismo, l’incapacità di proferire verbo» (accadde allo zio Charlie Payne, soldato che partecipò alla liberazione del campo: «per mesi», tornato in America, si chiuse nel silenzio). Eisenhower ne ebbe coscienza, quando vedendo il drappello di scheletri viventi accanto alle baracche disse a sè stesso e decise: bisogna che tutti vedano in immagine quel che sto guardando (tutti: tedeschi, giornalisti, soldati e deputati americani) altrimenti verrà il giorno in cui l’impensabile diverrà un’opinione.
Anche questa decisione ha voluto rammentare Obama, e anche in questo caso le tre tappe del suo viaggio si incrociano e quasi si fondono. Non si inizia una nuova relazione tra Islam e Occidente negando quel che è accaduto durante il nazismo. Non ci si mette a fabbricare un dopoguerra «raccontando menzogne sulla nostra storia». Obama sarà intransigente con lo Stato israeliano, giovedì ha definito «intollerabile» la vita dei palestinesi che vivono in terre di occupazione e ha chiesto al governo di Gerusalemme di smettere subito gli insediamenti, ma tutto questo ha senso se si riconosce quel che gli ebrei hanno sofferto e come avvenne la distruzione dell’ebraismo in Europa. Se si tocca con mano la verità storica come lui ha fatto ieri con Angela Merkel. A Buchenwald, è una guerra giusta che il Presidente Usa ricorda: l’ultima, forse, che gli americani considerino unanimemente tale. Tutti i conflitti successivi - Corea, Vietnam, Iraq - furono contestati.
Obama ha una propensione, forte, a connettere storie e tempi disparati; a creare mosaici molto ramificati, cosmopoliti. Anche la scelta di Buchenwald e di Dresda è colma di significati. Buchenwald fu innanzitutto massacro del diverso. Elie Wiesel, che ha accompagnato il Presidente assieme a un altro ex detenuto di Buchenwald, Bertrand Herz, ha usato ieri un’immagine tremenda: «Il primo esperimento di globalizzazione è stato fatto a Buchenwald, con il solo scopo di diminuire l’umanità degli esseri umani». Ma il luogo dove Hitler decretò la «distruzione attraverso il lavoro» fu anche qualcos’altro: fu simbolo della resistenza, perché i detenuti alla fine si organizzarono e presero il controllo del Lager. Quando i comandanti del campo si resero conto che le truppe Usa si stavano avvicinando, tentarono un’evacuazione dei detenuti (le «marce della morte») e i prigionieri salvarono centinaia di bambini e detenuti nascondendoli. Poi contattarono via radio i militari statunitensi e facilitarono il loro arrivo, l’11 aprile 1945.
Anche la visita di Dresda è significativa: è un esempio luminoso della politica della memoria in Germania, proprio perché evoca la vendetta atroce che si abbatté su di essa (Dresda subì un bombardamento alleato che fece 35 mila morti). Buchenwald simboleggia infine l’altro totalitarismo del ’900: il campo infatti non fu chiuso nel ’45, trovandosi prima in zona sovietica e poi in Germania comunista. Restò aperto fino al 1950: i morti per sevizie furono 7 mila.
Ricominciare la storia è ricordare dove può condurre l’odio dell’altro, e sapere che sempre può riaccendersi trasformandosi: oggi prende le forme, ha detto Obama, «del razzismo, dell’antisemitismo, dell’omofobia, della xenofobia, del sessismo».
Le parole sono importanti per Obama, il suo viaggio in Medio Oriente ed Europa lo dimostra. E proprio perché sono importanti, non si può stravolgerle con bugie e revisionismi. A Ahmadinejad il Presidente ha offerto giovedì il dialogo, giungendo fino a confessare il coinvolgimento americano nella liquidazione violenta di Mohammed Mossadeq (il primo ministro entrato in conflitto con lo Scià negli Anni 50: «Gli Usa svolsero un ruolo nel rovesciamento di un governo iraniano eletto democraticamente», ha ammesso al Cairo), ma gli ha anche detto: ecco, prima di qualsiasi dialogo è a Buchenwald che devi mentalmente venire, sono queste pietre che devi toccare come le sto toccando io. Altrimenti ogni parola è infangata, e il dono della lingua dato agli umani è insensato.
Altrimenti succede come ai nazisti, che fabbricarono un mostro presso Weimar, la città di Goethe e Schiller, e sul cancello del Lager scrissero, a grandi lettere, A OGNUNO IL SUO - JEDEM DAS SEINE, mostrando come uno dei più nobili precetti del diritto romano possa pervertirsi e divenire il più cinico e mortifero segno di odio.
Un test per il popolo del leader
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stamap, 1/8/2010)
Dinanzi a un enigmatico disinteresse dei cittadini, si sta consumando uno scontro decisivo nel partito di maggioranza che dice di rappresentare il liberalismo italiano. Dentro a quel Pdl che in modo enfatico ha monopolizzato il concetto e la (presunta) pratica liberale. Non a caso i due protagonisti dello scontro, Berlusconi e Fini, si rimproverano reciprocamente di non essere liberali. Ma nessuno dei due viene dal liberalismo politico storico. Quella che stanno rappresentando è una mutazione della politica, anzi della democrazia, italiana per la quale non si è ancora trovato il nome appropriato.
In questa circostanza i cittadini sono spettatori non partecipi. Tutto infatti si sta sviluppando freneticamente nel circuito politico-mediatico dominato dalla personalizzazione della vicenda. Il pubblico sta a guardare. Capisce la posta in gioco? Il messaggio trasmesso dai media dice semplicemente che Berlusconi «ha buttato fuori Fini dal Pdl» perché contestava la sua leadership.
Non importa sapere se e come si sia discusso nel merito delle posizioni finiane. Non si sono infatti sentite obiezioni o argomentazioni in merito alle controproposte finiane in tema di intercettazioni o sulla spinosa questione morale. Ciò che conta è che le tesi di Fini non coincidono con quelle di Berlusconi. Peggio: si tratta di tesi non sgradite all’opposizione. Questo spiega tutto.
O meglio questo spiega la reazione di Berlusconi. Il Cavaliere da anni è il dominatore della scena politica italiana dove con il suo intuito e con il suo potere mediatico ha inventato uno stile politico di governo che gode di un innegabile consenso popolare. Ha raccolto attorno a sé una nuova classe politica. Ha creato un sistema di valori e di comportamenti incarnato dalla sua persona e contrapposto al sistema delle istituzioni esistenti considerate «frenanti» se non «nemiche». In una parola, ha creato «il berlusconismo».
Contro di esso si è gradualmente profilato Gianfranco Fini. Si tratta di un politico che nel giro di un ventennio ha avuto una sorprendente evoluzione (o, se vogliamo, maturazione) che lo ha portato da nostrane posizioni nazional-fasciste a una prospettiva di destra europea liberale. Adesso coerentemente, in antagonismo al berlusconismo, sostiene il primato delle regole istituzionali. Non la loro strumentalità a favore degli obiettivi più o meno legittimi della maggioranza politica.
D’istinto Berlusconi ha capito - meglio e prima di tanti suoi sostenitori - che con questo atteggiamento Fini è diventato il suo vero «nemico». Gli è intollerabile, anzi incomprensibile la pretesa di Fini di continuare a essere suo «alleato» politico senza essergli «amico». Sembra una sottigliezza trascurabile (squisitamente liberale), invece è la chiave per capire il berlusconismo in questa fase cruciale. D’istinto Berlusconi divide il mondo tra «amici» e «nemici» senza bisogno di conoscere le teorie di Carl Schmitt che (guarda caso) è stato il più brillante e coerente anti-liberale del secolo passato.
Insisto a parlare di «berlusconismo» perché il Cavaliere conta, deve contare sull’adesione di una classe politica e giornalistica, di un intero complesso mediatico che nel conflitto in corso investe interamente il suo destino. Senza i suoi «amici» Berlusconi è perduto: ma vale anche il reciproco. La classe politica che costituisce la maggioranza parlamentare è perduta senza Berlusconi. Ma entrambi sono perduti senza il loro «popolo-degli-elettori».
Siamo tornati al punto di partenza: il pubblico dei cittadini cosa pensa in questo momento? Per avere informazioni ragionate, ponderate e ragionevolmente complete il cittadino dovrebbe dedicarsi alla lettura attenta di più giornali. Ovviamente è impossibile. Nel migliore dei casi ciascuno si tiene ben stretto il «suo» giornale contando che sia corretto e completo nelle informazioni e nelle valutazioni che offre. Ma la maggioranza degli italiani - purtroppo lo sappiamo - non fa neppure questo. Gli italiani non sono grandi lettori (salvo che per lo sport) e specialmente per la politica sembra che si affidino sostanzialmente alle comunicazioni televisive.
Questa «democrazia mediatica» non risponde affatto ai criteri della «democrazia informata» quale è richiesta da politologi e filosofi. Neppure quando prende la forma del dialogo apparente dei talk show e simili manifestazioni, dove non si cerca il dialogo o il confronto di idee ma l’occasione per ribadire pubblicamente le proprie posizioni. Non si è mai visto un politico o anche solo un giornalista farsi convincere e mutare opinione nel corso di un talk show.
Probabilmente molti berlusconiani avrebbero preferito che non si arrivasse al punto di rottura di queste ore. Ma la scelta del leader è ineccepibile: deve mettere alla prova il «suo popolo», il suo partito che non è uguale agli altri partiti. Il «partito del popolo» berlusconiano infatti ha sostanzialmente la funzione di mettergli a disposizione consenso e risorse. Deve offrire personale esecutivo, realizzatore, implementatore delle idee del leader. E’ per definizione unanime e compatto. In caso estremo deve essere scosso dall’apatia e ri-chiamato alle urne. Pensa già a questo Berlusconi? Sarebbe in sintonia con l’emergenza del momento.