La sovranità privata
di Carlo Galli (la Repubblica, 10.06.2010)
«Fare leggi rispettando questa Costituzione è un inferno». Certamente, alle molte e anche contrastanti definizioni di "Costituzione" mancava ancora questa: ma c’è da sperare che d’ora in poi i manuali di diritto costituzionale tengano conto anche della Costituzione come inferno, ultima delle esternazioni di Berlusconi in questi giorni.
D’accordo. Si tratta del solito espediente grazie al quale una sostanziale vittoria (il provvedimento sulle intercettazioni) viene fatta passare, in perfetto stile democristiano, per un compromesso di cui non si è soddisfatti: a ciò Berlusconi è spinto anche dal timore di esser poi travolto nella sconfitta nel caso che dal Quirinale venga uno stop alla legge. La prova di forza della "blindatura" - e a maggior ragione il pugno sul tavolo del voto di fiducia - è venata da debolezza, come ha scritto ieri Ezio Mauro.
Al tempo stesso si tratta di una mossa diversiva, per aprire una polemica che distolga l’opinione pubblica sia dalla legge-bavaglio sia dalla manovra economica, due provvedimenti fortemente impopolari. E per incolpare qualcuno o qualcosa - la Costituzione, chi l’ha voluta in passato, chi la difende ora - come responsabile delle debolezze e delle contraddizioni dell’azione di governo, che vanno imputate invece alle divisioni nella maggioranza e all’uso distorto delle istituzioni, che non sono state pensate per essere utilizzate come ora avviene.
Il discorso pubblico che proviene da Berlusconi - esplicitamente post-costituzionale, e ormai anti-costituzionale - è infatti consapevolmente centrato sul trasferimento nel campo politico delle logiche imprenditoriali del "comando efficace", libero da ogni contropotere costituito, anche da quello delle norme e delle procedure. La funzione pubblica è quindi concepita come qualcosa di discrezionale, che dipende dalla volontà del Capo: non a caso egli afferma che la Protezione Civile dovrebbe astenersi dal suo dovere, in Abruzzo; e che la Rai non dovrebbe vedersi rinnovare il contratto di concessione, se non si piega ai suoi voleri.
Questo prevalere del Privato sul Pubblico viene definito da Berlusconi "sovranità": quel Privato ha infatti vinto le elezioni, e ha quindi ricevuto un presunto mandato dal popolo sovrano a governare senza limiti né controlli. A questa aberrante conclusione egli giunge poiché concepisce la sovranità come la titolarità e l’esercizio di una volontà monolitica e irresistibile (in un certo senso, come facevano i giacobini, che concentravano nelle loro mani la sovranità del popolo).
È questo modo di pensare che gli fa dire che i pm e la Corte Costituzionale, esercitando le loro funzioni giurisdizionali, attentano alla sovranità; che cioè lo colloca al di fuori della dimensione costituzionalistica che la nostra democrazia si è consapevolmente data nel secondo dopoguerra. Infatti, la nostra Costituzione (non senza suscitare a suo tempo qualche perplessità, anche a sinistra) ha impiantato sul corpo della sovranità popolare l’elemento - che proviene dalla civiltà politica e giuridica del costituzionalismo inglese e americano - del controllo di legalità, da parte della magistratura, sulle azioni dei membri del ceto politico in generale, e del controllo di legittimità, a opera della Corte Costituzionale, sugli atti del Legislativo (e sui decreti dell’Esecutivo).
Nessuno, nemmeno la sovranità popolare, è onnipotente: la politica si manifesta attraverso il diritto che limita, con la legge, ogni potere; e garantisce così i diritti di tutti. Se Berlusconi afferma che agire secondo la Costituzione è un inferno, evidentemente pensa che il paradiso sia il potere senza limiti: il potere privato di un padrone (in greco, despòtes), reso onnipotente dall’investitura popolare.
Insomma, la sua idea di sovranità è privata e al tempo stesso assoluta: è, tecnicamente, un’autocrazia plebiscitaria. La quale oggi si manifesta con chiarezza programmatica, ma forse anche epigrammatica: come annuncio di linee d’azione "riformistiche" per l’avvenire (secondo le parole di commento di Bossi, e secondo le proposte recentissime di Tremonti sull’articolo 41), ma anche come commento conclusivo di un ciclo politico, reso "infernale" proprio dalla sopravvivenza ostinata della Costituzione.
In ogni caso, questo "discorso" - che, certamente, cela la concreta finalità di coprire specifiche persone rispetto a specifiche responsabilità in specifiche inchieste giudiziarie: una finalità parziale alla quale si sacrificano beni collettivi come l’efficacia delle indagini e la libertà dei cittadini - fa passare come ovvia la tesi che la politica consista in un comando senza controlli, purché efficace. Ed è questa tesi a distaccare gli italiani dalle radici del loro passato democratico e costituzionale (recente, ma anche ormai remoto: o almeno così pare), e a generare, proprio col suo apparente tono iperpolitico, uno specifico atteggiamento antipolitico, cioè quell’analfabetismo civile che afferma qualunquisticamente che solo i fatti contano, e che le regole sono soltanto pastoie che frenano l’agire dei governanti.
Una tesi, quella espressa da Berlusconi, che ha almeno il merito della chiarezza; e che individua un fronte di conflitto politico dal quale sarà difficile sottrarsi, anche per chi lo volesse: il fronte che vede da una parte chi lotta apertamente contro la forma e la sostanza della Costituzione, e dall’altra chi la difende, consapevole che in questa difesa - si spera non rassegnata, né di maniera - consiste ormai la sostanza della nostra democrazia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL REGNO DEL MENTITORE. L’ITALIA SOTTO L’EFFETTO LUCIFERO.
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
ABUSO ISTITUZIONALE DEL NOME "ITALIA" DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO: DIMISSIONI SUBITO.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
“Forme della critica” di Carlo Galli
di Lorenzo Mesini (Pandora Rivista, 14 ottobre 2020)
Con il suo ultimo libro pubblicato presso il Mulino Carlo Galli consegna al pubblico la versione più matura e aggiornata del suo contributo filosofico nell’ambito della storia del pensiero politico occidentale. Il volume ha il pregio di riunire una selezione di testi dell’Autore precedentemente pubblicati altrove (volumi, riviste accademiche), offrendoli al lettore in una forma aggiornata entro un quadro teorico unitario e coerente.
Pur all’interno di una solida cornice di matrice filosofica, il libro si colloca all’incrocio di diverse aree tematiche e disciplinari: diritto, dottrina dello Stato, relazioni internazionali, storia della filosofia e dei concetti politici.
Oltre che con alcuni dei principali esponenti del pensiero politico dell’età moderna e contemporanea (Machiavelli, Hobbes, Hegel, Marx, Nietzsche, Schmitt e Benjamin) Galli si confronta con importanti nodi teorici della storia del pensiero e con le diverse interpretazioni che ne hanno segnato lo sviluppo fino ai giorni nostri. È un importante sforzo di sintesi quello compiuto da Galli per fare emergere quella «continuità tematica, metodologica, teoretica» che attraversa il suo lungo percorso di ricerca scientifica (p.7).
La specificità di questa sintesi può essere illustrata efficacemente richiamando l’attenzione sulle tre dimensioni, reciprocamente connesse, entro cui essa si articola: teorica, (auto)biografica, storiografica. La prima consente di mettere in luce lo specifico paradigma filosofico che emerge dai saggi raccolti nel volume; la seconda, quella (auto)biografica chiama in causa la fisionomia intellettuale dell’Autore e lo specifico percorso filosofico di cui essa è il frutto; infine la terza, quella storiografica, richiama l’attenzione sullo specifico paradigma storiografico che supporta e fornisce profondità storica alla prestazione filosofica dell’Autore.
È uno specifico paradigma filosofico quello che il libro consegna al lettore nelle sue articolazioni interne. Tale paradigma - di cui Galli nell’introduzione offre un’efficace panoramica per tesi - è riassumibile come segue. -L’esercizio della critica, secondo forme diverse, costituisce l’essenza della filosofia. La critica segna il perimetro dell’attività filosofica oltre la quale si colloca la prassi. L’obiettivo della critica - prosegue Galli - consiste nel fare emergere il rapporto irrisolto tra mediazione e immediatezza, il nichilismo presente all’origine della ragione moderna, della sua storia e delle istituzioni che ne discendono.
In quest’ottica la teologia politica si configura come una delle possibili forme - accanto alla critica dell’economia politica (il marxismo nelle sue diverse declinazioni) e alla biopolitica (una costellazione di posizioni comprese tra Foucault, Agamben, Esposito) - attraverso cui è possibile declinare la critica della ragione moderna e delle sue mediazioni. La teologia politica - con la sua specifica radicalità - rappresenta la declinazione filosofica della critica a cui Galli approda nel suo percorso.
La cifra metodologica del paradigma filosofico proposto nel volume consiste da un lato nella critica della storia del pensiero politico moderno (delle sue figure e delle questioni teoretiche di fondo), dall’altro in uno specifico modo di intendere e guardare alla politica e alla società che Galli definisce «realismo critico» (p.8).
All’interno della critica - come non manca di osservare Galli - si ripresenta l’origine nichilistica della ragione moderna. Nel suo intento di aderire «al reale senza legittimarlo» (p.9) la critica filosofica finisce nel corso del Novecento (nelle sue declinazioni decisioniste, francofortesi e decostruzioniste) per incorporare al suo interno lo stesso carattere aporetico del suo oggetto: soggetto e oggetto della critica condividono la stessa assenza di fondamento e sono entrambi aperti alla contingenza. Nel suo essere inevitabilmente condizionata (nella misura in cui è condizionato anche il soggetto che la esercita) la critica non può mancare di criticare se stessa, non può non essere autocritica, pena la perdita del suo costitutivo carattere radicale. Nella chiusura della critica su se stessa emerge il suo carattere ultimamente paradossale: l’esercizio della critica si trova continuamente esposto al rischio di esiti occasionalistici (quando la critica del carattere arbitrario dell’esistente si traduce in una prassi che afferma un’altra forma di arbitrarietà), paralizzanti (quando la critica si traduce in una piena autocritica e si preclude l’accesso alla prassi) o messianici (quando la critica, riconosciuta l’impotenza e/o l’impossibilità della prassi, si affida alla forma più estrema di contingenza contro l’arbitrarietà della realtà sociale).
Ripercorrendo le diverse «forme della critica» l’Autore ne traccia i confini e il loro possibile campo di azione. Nel paradigma definito da Galli la critica filosofica assume così una fisionomia eroica e umile al tempo stesso: per quanto priva di fondamento e aperta alla contingenza, la critica non può congedarsi completamente dall’orizzonte progettuale ed emancipatorio che è caratteristico della Modernità, di cui conserva l’ambizione costruttiva (pur con una diversa consapevolezza). Nella misura in cui riunisce al suo interno l’assenza di fondamento, la coazione all’ordine e un insopprimibile anelito all’emancipazione, la teologia politica delineata da Galli si configura come una delle espressioni più mature del nichilismo, di cui esibisce tutto il carattere contraddittorio.
Attraverso la lettura di questo paradigma filosofico emerge con forza la specifica fisionomia intellettuale dell’Autore, le cui coordinate di fondo meritano di essere brevemente illustrate. Quest’ultima deriva dall’approfondimento dei complessi teorici legati agli autori appartenenti alla costellazione del ‘pensiero negativo’ di lingua tedesca, letta all’interno della tradizione filosofica occidentale. Costellazione a cui Galli accede nel suo lungo percorso (prima di formazione e poi di ricerca) grazie alle coordinate fornite da Karl Löwith, dalla Scuola di Francoforte (in particolare da Theodor W. Adorno e H. Marcuse) e da Carl Schmitt. -Dall’insegnamento di Löwith (in particolare dal celebre libro Da Hegel a Nietzsche) proviene l’accento sul problema della mediazione (tra infinito e finito, universale e particolare, soggetto e oggetto, Stato e cittadini) come chiave filosofica di accesso alla storia del pensiero politico moderno e contemporaneo.
Dalla Scuola di Francoforte proviene il nesso particolare tra filosofia e critica, in cui convergono sia la potenza della filosofia classica tedesca (Kant, Hegel, Marx), sia lo sguardo radicale di Weber e Freud, di Heidegger e Lukács. L’accesso al pensiero dialettico e ai suoi due principali esponenti avviene mediante la lezione di Adorno (specialmente i Tre studi su Hegel) e di Marcuse (in particolare Ragione e rivoluzione - di cui il Mulino ha recentemente ristampato l’edizione italiana curata dallo stesso Galli nel 1997). L’eredità francofortese si configura all’interno di una lettura non idealista del pensiero dialettico, distante dalla tradizione idealista e storicista italiana.
Infine dal lungo e ripetuto studio di Carl Schmitt (della cui opera Galli si è affermato come uno dei principali studiosi nello scenario internazionale con la pubblicazione di Genealogia della politica nel 1996) proviene la concezione della teologia politica come genealogia critica dei concetti politici e giuridici dell’età moderna (opportunamente depurata dagli elementi ideologici degli anni Trenta), la consapevolezza dell’origine nichilistica degli ordinamenti politici (decisionismo) e con essa l’inevitabile coazione all’ordine.
Il paradigma filosofico al centro del libro corrisponde infine all’elaborazione di uno specifico paradigma storiografico a suo supporto. Paradigma incentrato sul pensiero moderno e contemporaneo di cui Galli ha offerto nel corso degli anni una lettura genealogica in chiave teologico-politica. Lettura che ha il merito non trascurabile di non prescindere mai dal rispetto filologico dei testi e della loro autonomia. La storia del pensiero politico moderno, dalla sua origine e alla sua conclusione novecentesca, viene ricostruita da Galli attraverso il prisma fornito dal problema della mediazione nelle sue tre principali tradizioni filosofiche: quella razionalistica (entro cui il liberalismo viene interpretato come un sottoinsieme), quella dialettica e quella del ‘pensiero negativo’.
L’attenzione dell’Autore verte su alcune figure e ne trascura inevitabilmente altre: Machiavelli e Hobbes, Grozio e Kant, Hegel e Marx, Nietzsche e Schmitt, Benjamin e Jünger. Ad Hobbes è dedicato in particolare uno dei capitoli centrali del libro: a partire dall’analisi di alcuni dettagli contenuti nel frontespizio del Leviatano (i due medici anti-peste collocati davanti alla chiesa presente nella città vuota) Galli fa emergere la distanza che separa la lettura bio-politica e quella teologico-politica della sovranità moderna.
Lungo il suo percorso Galli ha prestato una speciale attenzione alla tradizione del ‘pensiero negativo’ (categoria mutuata dai lavori compiuti da Massimo Cacciari negli anni Settanta e poi sviluppata autonomamente dall’Autore grazie all’eredità francofortese) senza tuttavia leggerla in maniera isolata rispetto alle precedenti. Al riguardo merita di essere segnalato l’importante saggio contenuto nel volume su Nietzsche e Schmitt, che costituisce un raffinato esempio di come l’analisi del dato filologico e il confronto filosofico debbano procedere di pari passo.
Di particolare interesse è inoltre l’attenzione (e la passione) mostrata da Galli nei confronti dell’opera saggistica e letteraria di Ernst Jünger di cui offre una pregnante lettura filosofica che è capace di lasciarsi alle spalle le polemiche ideologiche, per collocarla integralmente tra le espressioni più compiute del nichilismo occidentale. Da questo punto di vista l’attenzione e la lettura che Galli fornisce di Jünger rappresentano un caso più unico che raro nel panorama filosofico ed editoriale italiano (meriterebbero di essere maggiormente valorizzati) anche nell’anno che ha visto ricorrere il centenario della pubblicazione del più celebre romanzo dello scrittore tedesco (Nelle tempeste d’acciaio, 1920).
Non sono da trascurare infine gli affreschi contenuti nella terza parte del volume in cui la critica teologico-politica e il «realismo critico» sono messi alla prova su temi specifici non privi di rilievo attuale: la paura, di cui si mostra la produttività politica nel corso dell’età moderna e contemporanea, irriducibile ad ogni immediatezza di carattere antropologico; la guerra, che costituisce l’esperienza all’origine della pace e del diritto, sempre presente in ogni ordinamento come la possibilità latente del conflitto civile o come minaccia esterna.
Per via della ricchezza dei suoi contenuti il volume non si presta solo all’attenzione di un pubblico specialistico, che potrà apprezzare l’ultimo frutto delle ricerche condotte dall’Autore, ma anche a quella di tutti coloro che cercano una bussola per orientarsi nel labirinto ingannevole degli approcci critici che oggi proliferano sulla scena intellettuale italiana ed europea.
Il dono dell’incompiutezza
Saggi. «Marx eretico» di Carlo Galli, pubblicato per Il Mulino
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 17.10.2018)
Un libro felicemente anomalo, questo di Carlo Galli, filosofo della politica che ha ingaggiato da anni un corpo a corpo con le tesi del giurista Carl Schmitt, inquadrandolo in quella corrente di pensiero sotterranea, ma a suo modo potente, che dal nichilismo approda all’elegia della decisione. E che arriva a diventare la tonalità teorica dominante del nazismo.
ATTORNO A QUESTI TEMI, Galli ha lavorato molto, consegnando ai lettori testi importanti, come Genealogia della politica (Il Mulino), Spazi politici (Il Mulino), Contingenza e necessità nella politica moderna, Ancora Destra e Sinistra (questi ultimi due pubblicati da Laterza). La sua vita ha contemplato anche un impegno diretto, come deputato, nell’agone politico. Esperienza istituzionale che non lo ha molto entusiasmato, per i suoi riti e le sue ingessature, tanto in Parlamento che nel partito democratico che lo ha eletto.
Mai però Carlo Galli si era confrontato con le teorie marxiane, meglio con Karl Marx, autore che è stato certo letto, ma che è rimasto finora quasi sempre sullo sfondo, una specie di classico al quale fare riferimento senza nessuna sistematicità. Ed è da accogliere con piacere la pubblicazione del condensato, ma fertile saggio che il filosofo italiano ha dato alle stampe in occasione del duecentesimo anniversario marxiano con il titolo Marx eretico (Il Mulino, pp. 164, euro 13).
UN LIBRO che non ha nessuna pretesa di sistematicità nell’analisi del pensatore di Treviri, ma che ha un nucleo tematico e teorico che va valutato positivamente. C’è il titolo, che è programmatico, perché sgombra il campo da banalità e letture interessate a demolire Marx, magari osannandolo a parole.
L’autore della critica dell’economia politica è un eretico: non lascia nessun appiglio alla costruzione - come invece purtroppo è accaduto - di una teoria dogmatica, deterministica della critica alla società del capitale.
Marx, scrive Galli, si colloca su quel sentiero dove la teoria sfocia nella prassi e dove la prassi alimenta la teoria. I filosofi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo, scriveva Marx. Questo tuttavia non significa che non bisogna più fare teoria e filosofia. Semmai significa che la prassi è esperienza della lotta di classe, della disparità di potere tra le classi e che tutto ciò fornisce materiale per la teoria. Si potrebbe dire che dietro la frase di Marx sul passaggio all’azione c’è un invito a una prassi che non si chiuda in un sistema, ma che tenga aperta sempre l’interrogazione sul mondo.
DUNQUE MARX ERETICO rispetto a Hegel (amato e odiato, ma verso il quale si pone come interlocutore alla pari), perché individua il nocciolo del capitalismo, cioè l’appropriazione privata della ricchezza prodotta socialmente. Per restituire l’individuo alla sua umanità è questo il nocciolo da fondere. Il proletariato è il soggetto che incarna lo sfruttamento del capitale. Per questo è il soggetto riconosciuto per combattere il capitalismo. Su cosa sia il proletariato Marx lo chiarirà parzialmente, lasciando però aperta la porta a modifiche, variazioni, aggiornamenti tanto sulla sua composizione che sulla consistenza politica.
INTERESSANTI sono i riferimenti di Galli agli scritti più direttamente storico-politici di Marx (il 18 Brumaio e Le lotte di classe in Francia), dove le dinamiche politiche e istituzionali francesi e l’entrata in scena del proletariato sono indagate sul loro divenire, dunque sui limiti, il potenziale, i rapporti di forza presenti nella società e nella scena politica. Il proletariato sarà sconfitto nel 1848 con la cancellazione della Comune di Parigi, ma la sua storia non finisce con quell’insuccesso, annota Galli.
Anche la ponderosa critica dell’economia politica occupa un posto di rilievo in questo testo di Galli. Marx è uno studioso sistematico. Lettore onnivoro, passa giornate intere nella biblioteca di Londra, studiando i teorici dell’economia politica (Adam Smith e David Ricardo, ovviamente), ma anche leggendo voracemente giornali e report sui fatti politici.
LA CRITICA DELL’ECONOMIA politica ha una notevole base documentale per segnalare che c’è sfruttamento, c’è plusvalore non pagato al lavoratore. Ma mai - e su questo non si può che concordare con Galli - l’impianto analitico del filosofo di Treviri è voluto diventare sistema o, peggio, una teoria economica da affiancare a quelle già esistenti. Marx voleva sovvertire il mondo, voleva cioè la rivoluzione. Certo non ambiva a una nicchia, più o meno polverosa, nella galleria dei grandi pensatori della modernità, come è accaduto ad altri filosofi e sociologi.
C’È UN’ALTRA PAROLA che torna continuamente in questo libro. Incompiutezza. Marx è l’incompiuto, colui cioè che ha aperto molti sentieri, percorrendone alcuni e abbandonandone altri. L’incompiutezza lo avrebbe dovuto preservare dalla sua musealizzazione, ma non è stato così. Il diamat sovietico e molto marxismo della seconda e terza internazionale lo hanno invece ridotto a un santino e le sue opere a una successione di frasi fatte, usate per legittimare esperienze statali autoritarie e soffocanti. Vero, ma fa bene Galli a ricordare le molte donne e uomini che lo hanno invece utilizzato per affermare proposte di liberazione dall’oppressione.
Marx, dunque, incompiuto. È questa una delle chiavi di lettura del volume, che merita attenzione. Non tanto per quello che evidenzia: il suo progetto di critica del capitale, Marx non riesce a realizzarlo. Continuerà a studiare, leggere, scrivere, inviare lettere per affermare che bisogna continuare a scavare, a interpretare il mondo per trasformarlo, ma la sua filosofia sarà incompiuta.
Non c’è però in questa proposizione nessun intento demolitorio. Semmai l’implicito invito a riaprire i laboratori marxiani, dopo che la sconfitta si è depositata. Galli, in poche pagine, segnala percorsi di ricerca messi in campo in questi anni. Dalla ripubblicazione di nuove edizioni critiche delle opere marxiane, all’incontro di Marx con altri teorici della modernità capitalista. Da chi propone la critica dell’economia politica del capitalismo digitale e finanziario a chi vorrebbe deprovincializzare e decolonizzare il pensatore di Treviri. Tutti percorsi aperti in sordina dopo la grande sconfitta, ma che segnalano la vivacità della riflessione marxiana.
FORSE IL MODO MIGLIORE per ricordare Marx è alimentare i laboratori marxiani, entrare nuovamente negli atelier della produzione (così diversi da quelli industriali di fine Ottocento) e svelarne l’arcano. Producendo dunque teoria e producendo politica. Quella radical che si propone un programma minimo: l’abolizione dello stato di cose presenti.
LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA E I DUE CORPI (E LE "DUE SEDIE") DEL RE *
!Il significato profondo del messaggio porta a galla (è il caso di dire) il PODERE, la Proprietà, la Poltrona! E dà un significato beffardo alla frase di Michel E. de Montaigne: "Anche sul trono più elevato del mondo, si è pur sempre seduti sul proprio sedere"!!! Con tutta la sua boria, il PADRONE (di sempre e di turno) così dichiara *Urbi et orbi*: La Poltrona è mia, e guai a chi la tocca (sul tema, cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/breve.php3?id_breve=697)!!!
MONARCHIA DEL PENSIERO UNICO: "FORZA ITALIA" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3515). Solo al PADRONE è possibile l’uso delle "DUE SEDIE", la salita (dalle stalle alle stelle) e la discesa (dalle stelle alle stalle). Per tutti gli altri e per tutte le altre, alla luce della grammatica del PODERE, ogni META-FORA è vietata, e SEDERE vale solo come sostantivo!!!
COSTITUZIONE E MONARCHIA DEI "DUE SOLI". A ben vedere e a ben leggere DANTE con la sua teoria dei "DUE SOLI" non a caso fu giudicato eretico: aveva lanciato il programma delle "due sedie" per tutti e per tutte, e non per uno SOLO!!!
Dopo 700 ANNI e più, non solo non abbiamo ancora capito il messaggio di Dante (e la lezione di Kantorowicz, "I due corpi del re": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/forum.php3?id_article=5726&id_forum=2635841), ma nemmeno quello della nostra "sana e robusta" COSTITUZIONE (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3811), e ci lasciamo prendere per i fondelli, allegramente: "Forza Italia" ( cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4282). La misura non è ancora colma?!
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Federico La Sala
Così un Cesare democratico cambierebbe davvero il Paese
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 07.06.2016)
«Un Cesare democratico che non c’è» s’intitolava un articolo pubblicato sul Corriere di qualche giorno fa. Dove indicavo come un fatto negativo l’assenza negli attuali sistemi politici dell’Europa occidentale di una leadership populista democratica, molto probabilmente l’unica in grado di opporsi all’ascesa del populismo reazionario e/o antisistema.
Le elezioni italiane di domenica sono una clamorosa conferma di questa assenza: esse hanno indicato infatti che Matteo Renzi, a dispetto di ciò che inizialmente aveva fatto credere, non è quel Cesare.
Per cominciare, proprio domenica è mancata al presidente del Consiglio la capacità di realizzare quello che è l’obiettivo più tipico che distingue una leadership tendenzialmente populista (di qualsiasi segno essa sia) da una leadership democratica tradizionale: cioè ottenere un consenso trasversale a destra e a sinistra - così come, per l’appunto, gli era capitato nelle ultime elezioni europee. Domenica, invece, sotto la guida di Renzi il Pd non è riuscito a pescare voti in alcun serbatoio diverso dal suo, di cui anzi ha sicuramente perduto una parte. Esattamente l’opposto, tra l’altro, di ciò che avrebbe dovuto fare un eventuale «Partito della Nazione».
Il deludente risultato elettorale non nasce domenica. L’iniziativa di Renzi in questo ultimo anno si è mostrata singolarmente inadeguata su due temi a cui l’opinione pubblica è sensibilissima, e che per giunta sono tra quelli la cui essenzialità un Cesare democratico avrebbe dovuto immediatamente cogliere, agendo di conseguenza.
Il primo è quello dell’immigrazione e del connesso ruolo dell’Europa. In un anno e più, al di là di molte belle parole, di promesse non mantenute e di qualche gesto poco significativo (una manciata di navi dei Paesi dell’Unione nel Mediterraneo), da Bruxelles il presidente del Consiglio non ha in pratica ottenuto nulla. E non ha potuto fare nulla per regolare il flusso dei nuovi arrivi.
Alla ricerca anche lui del benevolo accreditamento a Berlino o a Parigi, al quale come al solito i politici di casa nostra aspirano quando si parla di Europa, e timoroso di non ottenere il necessario assenso della signora Merkel sulla «flessibilità» dei conti pubblici, Matteo Renzi ha finito per apparire a rimorchio dei fatti. La proposta del cosiddetto Migration compact (tra parentesi: ma perché mai un governo italiano, presieduto per giunta da un fiorentino, deve esprimersi sempre in inglese? Il Jobs act, poi il Migration compact, adesso si annuncia un Social act: ci si rende conto della ridicolaggine da poveri provinciali di tutto ciò?), il Migration compact, dicevo, ha ricevuto un educato consenso di maniera da tutti, ma da settimane è fermo e non fa un passo avanti.
Un pessimo presagio. Renzi, in particolar modo, non è apparso in grado più di tanto di tenere un profilo realmente deciso e combattivo nei confronti dei nostri partner europei. Realmente deciso significa pronto a usare quel linguaggio realistico, e perciò capace di prospettare eventuali ritorsioni concrete, che è il solo che gli Stati capiscono.
Il secondo fronte che la leadership populista di un vero Cesare democratico avrebbe dovuto subito percepire come peculiarmente proprio, e del quale Renzi invece si è sostanzialmente disinteressato, è stato quello della crisi degli istituti bancari. Una crisi che ha destato un allarme vastissimo in un popolo di risparmiatori quali sono gli italiani, e che per la sua ampiezza (cinque o sei istituti molto radicati nei rispettivi territori) ha mostrato in misura chiarissima i legami ambigui e spesso truffaldini che nella provincia italiana legano le oligarchie locali e le élite economiche, spesso accumunate da una sostanza moralmente opaca dietro l’apparenza di un’operosa rispettabilità.
Renzi non ha colto affatto l’occasione offertagli da una questione così simbolicamente significativa per prendere le difese dei «molti» e «piccoli» contro l’avidità bancarottiera dei «grossi». Ha rinunciato a far pesare in tutta la questione l’autorità del comando politico e delle sua prerogative. Per esempio ha preferito chiudere gli occhi sulla condotta della dirigenza della Consob, una delle «Autorità» di controllo più invischiata da sempre in mille complicità con i suoi controllati, e affidata alla guida di un tipico esponente di quel ceto di alti burocrati convertiti alla politica e poi tornati all’amministrazione, che è interessato sempre e solo a rimanere a galla. Non ha colto il valore generale della questione (specie in un periodo in cui molti sono costretti a stringere la cinghia), lasciando tutto a una gestione inevitabilmente «burocratica».
La verità è che in generale Renzi avverte realmente, io credo, la necessità di cambiare il Paese; ma al di là della «rottamazione» - peraltro finora attuata perlopiù a danno dei suoi avversari interni del Pd - gli riesce difficile individuare altre linee direttrici lungo le quali operare effettivamente. Gli riesce difficile individuare nemici importanti da combattere, amministrazioni cruciali da riformare, interessi economici e sociali da colpire, istituzioni da rifondare. Lo si direbbe voglioso piuttosto di piacere, di elargire, di ottenere in tal modo consenso a destra e a manca: un consenso che così, però, non gli arriva o dura lo spazio di un mattino. Così, il solo consenso vero che è sembrato essergli venuto, infatti, è quello di spezzoni di classe politico-parlamentare in disarmo, alla ricerca di una lista in cui farsi rieleggere.
Per cambiare il Paese - come tre anni fa aveva detto di voler fare, accendendo molte speranze, quello che allora si presentò come un giovane Cesare democratico in potenza - non bastano spurie alleanze parlamentari. Se si vuole davvero farlo, allora bisogna riuscire a mettere insieme molteplici forze sociali da impegnare in un programma comune all’insegna di un reciproco scambio di interessi di lungo periodo; e serve assicurarsi la collaborazione non di ministri perlopiù insignificanti, ma delle migliori energie intellettuali del Paese. E serve, infine, essere capaci di cogliere il sentire della gente (sì della famigerata «gente»), mettersi in sintonia con l’uomo della strada, calarsi nelle sue esigenze quotidiane e nelle sue rabbie, ma anche far conto sui suoi sogni e sul suo desiderio frequente di essere migliore di quello che è.
L’avventurismo del senso comune
Il nuovo libro di Michele Prospero. Il «populismo mite» del potere è la cifra ideologica del capo. Che non è solo un produttore di annunci, ma un fattore di stabilità
di Carlo Galli (il manifesto, 20.10.2015)
Più di vent’anni di politica italiana sono ricondotti, nell’ultimo libro di Michele Prospero (Il nuovismo realizzato. L’antipolitica dalla Bolognina alla Leopolda, Roma, Bordeaux, 2015, pp. 418, euro 26) al filo conduttore dell’antipartitismo, e in generale dell’antipolitica che nei partiti ha avuto la propria testa di turco.
Un’antipolitica solo parzialmente spontanea - generata da una rivolta etica contro il sistema politico degenerato - e in gran parte indotta dall’alto, da agenzie di senso e da poteri mediatici (a loro volta riconducibili a forze economiche) interessati al risultato dell’antipolitica: non solo distruggere i partiti esistenti (un disegno di lungo periodo della storia d’Italia, prevalentemente connotato a destra, da Minghetti a Maranini a Miglio), realizzando una discontinuità radicale (un’idea a cui non si sottrassero però né il Pd di Occhetto né i Girotondi, e che fu il cavallo di battaglia del primo Berlusconi), ma screditare la forma partito in quanto tale (s’intende, il partito pesante, organizzato, che è spazio di confronto e di partecipazione dialettica, ovvero di mediazione).
E aprire così la strada al Nuovo, che è un miscuglio di ideologia (la società liquida, l’individualismo postpolitico, l’immediatezza) e di solida realtà, tanto istituzionale (il partito leggero, la democrazia d’investitura, lo spostamento del potere verso l’esecutivo, il leaderismo pseudo-carismatico) quanto economica (la fine della politicità del lavoro, la sua precarizzazione e la sua subalternità) quanto infine sociale (l’aumento delle disuguaglianze, il declino - programmato - del ceto medio).
Prospero, per questa via, incontra (convocando un grande materiale analitico in chiave prevalentemente politologica) una contraddizione strutturale dell’intero processo storico-politico preso in esame, ossia le due crisi di sistema del 1993-94 e del 2013-14, tutta la seconda repubblica e l’inizio della terza: da una parte vi è in questa storia un dato di occasionalità, di contingenza, e quindi vi è preponderante l’agire di una persona (ovviamente, Renzi) e anche il suo dire, il suo narrare, il suo raffigurare per il popolo un altro mondo, ricco di speranza e di ottimismo e quindi ben diverso da quello di cui la maggior parte dei cittadini fa esperienza.
Questo livello è spiegato con frequenti riferimenti a Machiavelli, non tanto perché l’autore sostenga che Renzi incarna il “Principe nuovo” - anzi, spesso attraverso Machiavelli si mettono in rilievo debolezze e fallacie del suo agire, la sua propensione alla fuga nell’irrealtà, al «romanticismo politico», a un decisionismo fatto di annunci - quanto piuttosto per il peso inusuale («rinascimentale») che la figura del singolo ha nella vicenda politica contemporanea.
D’altra parte, nondimeno, questa figura di Principe immaginario e dopo tutto incapace di dare una forma alla repubblica, impegnato com’è a gestire continue emergenze in continue affabulazioni, è contraddetta dalla robustissima realtà delle profonde trasformazioni che il suo agire produce:
veramente il partito è sul punto di estinguersi e di divenire un corteo di obbedienti seguaci, in perenne lotta tra loro (soprattutto attraverso lo strumento delle primarie, che doveva essere di apertura alla società civile e che invece è una leva per i conflitti interni), mentre nei territori le cordate di potere prendono il posto della partecipazione;
veramente le istituzioni (e il parlamento in primo luogo) sono indebolite dalla personalizzazione della politica, e trovano energia politica solo in quelle che erano state pensate come posizioni di garanzia (Quirinale e Consulta);
veramente la politica è ormai competizione fra leader populisti extraparlamentari per la conquista di un elettorato sempre più passivo (anche se in parte estremizzato);
veramente questi processi si sono sviluppati coinvolgendo tanto la destra quanto la sinistra fino all’attuale formarsi, non casuale, di un partito di Centro la cui forza di gravità spappola ogni altra formazione politica;
veramente sono stati varati il jobs Act e la legge elettorale per la camera ed è in corso di approvazione la riforma della Costituzione;
veramente il sindacato è stretto nell’angolo e gli viene sottratta la contrattazione nazionale; veramente la sinistra fatica (ed è un eufemismo) a trovare una base sociale, una chiave di lettura del presente, una missione politica;
veramente l’astensione e il populismo assorbono e neutralizzano le energie che potrebbero essere di protesta;
veramente l’analisi strutturale della realtà passa in secondo piano rispetto alla traduzione emotiva dei problemi e alla questione della legalità.
L’occasionalismo produce un ordine, quindi; l’avventura personale costruisce forma politica, la chiacchiera è largamente performativa; l’immediatezza è anche mediazione. Un ordine, certo, non inclusivo ma escludente - che espelle da sé le contraddizioni, perché non le teme (e in ciò il Pd è ben diverso dalla Democrazia Cristiana, pur riprendendone il ruolo centrale di pivot e di diga) - e che cerca una base di consenso nel livello più semplice del senso comune (molto bene interpretato), eludendo o smorzando ogni tema controverso ed escludendo il pensiero critico (i «gufi», i «professoroni»); una forma contraddittoria, segnata dalla conflittualità fra quel che resta del vecchio partito e il nuovo leader, fra antichi professionismi e il nuovo «populismo mite» che è la cifra ideologica del Capo (tutt’altro che dilettante, in verità).
Eppure, con queste contraddizioni, Renzi è non solo un problema, ma anche una soluzione; non solo un coacervo di azzardi e di provvisorietà ma anche un fattore di stabilità; non solo un produttore d’annunci e d’irrealtà ma anche un fabbricante di realtà e di processi.
È una realtà condizionata dal populismo (Berlusconi è il populismo nichilistico-aziendalistico, Grillo è il populismo aggressivo dal basso, Renzi è il populismo mite del potere), funzionale, in quanto implica una società disgregata che non deve essere letta politicamente, alla presenza onnipervasiva di logiche e valori liberisti, rispetto ai quali la sinistra (il Pd) è, non certo da oggi, del tutto interna. Ma è realtà, o almeno fascio di potere efficace. È vano pensare che il tempo breve, l’attimo, dell’occasione e della decisione non abbiano la forza di reggere l’assetto della politica; anzi, ne sono capaci, si dilatano in un’eccezione permanente che è il tempo lungo in cui si presentano oggi il potere e la libertà che esso concede.
La risposta a ciò della sinistra, secondo Prospero, è il partito organizzato, capace di esprimere ripoliticizzazione della società, partecipazione popolare e leadership autorevole (non populista). Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. Certo è che la sinistra avrà un futuro solo se saprà pensarsi a questa altezza, e se a partire dalle contraddizioni del presente, ben identificate, saprà proporre un modello di società che combini in sé, con la stessa forza, un’analoga e opposta capacità di tenere insieme l’immaginario e il reale.
Schmitt, l’elogio dell’applauso
La «teoria dell’acclamazione» nazista contro la democrazia borghese
di Giuseppe Bedeschi (Corriere della Sera, 14.01.2012)
A Norimberga Carl Schmitt venne processato per il suo passato nazista: infatti, benché fosse caduto in disgrazia nel 1936 (a causa di un duro attacco sferratogli dalla rivista delle SS che gli rinfacciava la sua collaborazione con von Papen nel 1932), egli era stato una delle personalità culturali più prestigiose che avevano aderito al regime hitleriano. Era stato presidente dell’associazione dei giuristi nazionalsocialisti; aveva avallato con la sua autorità imprese efferate, come la «notte dei lunghi coltelli» del 30 giugno 1934 («l’azione del Führer - affermò allora - è stata un atto di autentica giurisdizione. Essa non sottostà alla giustizia, ma è essa stessa giustizia suprema»). Dal tribunale di Norimberga Schmitt venne prosciolto, ma fu dichiarato «persona non grata» nell’ambito delle istituzioni accademiche.
E tuttavia, benché messo al bando per il suo passato nazista, Schmitt continuò a esercitare un fascino notevole su personalità eminenti della cultura europea. Basti pensare a Raymond Aron - che stava certo agli antipodi, sia sul piano dottrinale sia su quello politico, del pensatore tedesco - il quale in una pagina delle sue Memorie (1983) ricordò di averlo conosciuto personalmente, di avere intrattenuto con lui rapporti epistolari, e poi ne diede questa ammirata caratterizzazione: «All’epoca della repubblica di Weimar Carl Schmitt era stato un giurista di eccezionale talento, riconosciuto da tutti.
Appartiene tuttora alla grande scuola dei sapienti tedeschi, che vanno oltre la propria specializzazione, abbracciano tutti i problemi della società e della politica e possono definirsi filosofi, come, a suo modo, lo fu Max Weber». Aron aggiunse che «uomo di alta cultura, Schmitt non poteva essere un hitleriano e non lo fu mai». Affermazione certo azzardata, questa di Aron, eppure in un certo senso vera, in quanto il filosofo tedesco aveva maturato il proprio pensiero molto prima che il nazionalsocialismo conquistasse il potere in Germania. Ma è altrettanto vero che la sua adesione al partito di Hitler, lungi dall’essere opportunistica (come alcuni hanno sostenuto), era pienamente coerente coi motivi più profondi della sua riflessione.
Tale riflessione era maturata nella repubblica di Weimar, travagliata dalle discordie dei partiti, dall’aspro contrasto degli interessi, dalle spinte centrifughe, dalle minacce rivoluzionarie e «golpiste» (nel 1919 ci fu un tentativo di rivoluzione comunista, represso nel sangue; nel 1920 il Putsch di destra di Kapp, nel 1923 il fallito tentativo di colpo di Stato di Hitler).
A questa situazione di sfacelo, tremendamente aggravata dalla crisi economica, che minacciava l’esistenza della nazione tedesca, Schmitt opponeva il suo concetto di popolo inteso come comunità coesa e organica (Gemeinschaft), che deve unificare completamente gli individui, e che è la base della «vera» democrazia. La quale non può essere confusa con la democrazia liberale, e con quella sua espressione caratteristica che è il parlamentarismo. Il liberalismo infatti si fonda, secondo Schmitt, sull’individuo isolato, sul privato egoista, dedito solo ai propri interessi. Ciò si vede anche, egli dice, nella procedura elettorale introdotta dal liberalismo, in cui il singolo esprime il proprio voto in una cabina, in una situazione di segretezza e di completo isolamento: sicché, proprio nel momento in cui si chiede al privato di diventare cittadino e di esercitare, col voto, una funzione pubblica, lo si relega nel suo ruolo di privato, di «borghese». (Questa critica ha avuto molta fortuna a sinistra: essa ritorna, nella sostanza, nella Critique de la raison dialectique di Sartre). Il risultato di tutto ciò è una maggioranza «puramente aritmetica», cioè nulla di coerente e nulla di stabile.
La vera democrazia, per Schmitt, è tutt’altro. Essa deve essere espressione autentica della volontà del popolo, la quale si manifesta nel modo più alto attraverso l’«acclamazione». «La forma naturale dell’immediata espressione del volere di un popolo - egli dice - è la voce che consente o che rifiuta della folla riunita, l’acclamazione». Attraverso il proprio «grido» (Zuruf) il popolo approva o disapprova, acclama un Führer, si identifica con lui. Grazie a questa investitura popolare del Führer, il regime nazionalsocialista era una vera democrazia, in quanto poggiava sulla sostanza del popolo tedesco, sulla unità della sua stirpe.
Un altro importante filone della riflessione filosofica di Schmitt è stato quello della «teologia politica»: un’espressione con la quale il filosofo tedesco intendeva dire che per un verso i concetti politici derivano da quelli teologici, e per un altro verso presentano una analogia strutturale con essi. «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti.
Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli». A questa idea schmittiana di «secolarizzazione» sono state mosse molte critiche. Hans Blumenberg ha obiettato che essa delegittima la modernità, e quindi non è in grado di capire lo sforzo di autofondazione che è proprio della politica moderna.
Esce ora in edizione italiana, presso Laterza, un libro che raccoglie tutta la discussione fra Blumenberg e Schmitt (L’enigma della modernità. Epistolario 1971-1978 e altri materiali, pagine 227, 20): una discussione profonda, in cui due grandi personalità, con una storia filosofica e politica completamente diversa l’una dall’altra, si misurano, con tolleranza e al tempo stesso con tormentata passione, sul futuro spirituale dell’Europa e, più in generale, del mondo moderno.
LO SCIOPERO
Diritti e contratto, Fiom in piazza
assieme ai Cobas e agli studenti
Il 28 la protesta dei metalmeccanici della Cgil, che contestano le norme contrattuali di Mirafiori e rivendicano gli accordi nazionali e i diritti acquisiti. Cortei e comizi in 18 città, da Torino a Termini Imerese. Accanto a loro i comitati di base, che hanno indetto anche un corteo nazionale a Roma. In piazza anche gli studenti e i precari dello spettacolo
dI ROSARIA AMATO *
ROMA - I metalmeccanici della Fiom, ma anche i dipendenti pubblici e privati aderenti ai Cobas, gli studenti e i precari dello spettacolo: venerdì 28 ci sarà l’Italia in piazza per chiedere un contratto di lavoro equo su base nazionale, il rispetto dei diritti dei lavoratori e, soprattutto per quanto riguarda i giovani, un futuro. Cortei e manifestazioni sono previsti nelle principali città italiane. Nella maggior parte dei casi le varie sigle si uniranno in una protesta unica, seguendo percorsi e orari già stabiliti dalla Fiom, oggi in piazza a Bologna, dove protestano in 30.000. Fischiata il segretario generale della Cgil Susanna Camusso 1, colpevole agli occhi di molti militanti della Fiom di non aver proclamato lo sciopero generale.
La Fiom protesta innanzitutto contro l’accordo Fiat di Mirafiori e quello che sta facendo il governo per "cancellare il sindacato confederale come soggetto che liberamente può contrattare. E stanno trasformando il sindacato in un sindacato aziendale corporativo che, quando va bene, gestisce gli enti bilaterali" ha detto il segretario generale Maurizio Landini nei giorni precedenti. Ma tra gli obiettivi dello sciopero, di otto ore, c’è anche quello, importante, della "riconquista del contratto nazionale", contro la decisa offensiva Confindustria-governo per il suo quasi totale depotenziamento a favore dei contratti aziendali. Questo infatti lo slogan della manifestazione: "Da Pomigliano a Mirafiori. Il lavoro è un bene comune. Difendiamo ovunque contratto e diritti". I metalmeccanici intendono contestare con forza un clima in cui "tutto è in discussione", diritti fondamentali compresi, ma nulla di fatto viene discusso con i sindacati che non vengono ritenuti concilianti.
I Cobas, ha annunciato il portavoce nazionale Piero Bernocchi, sciopereranno "inseme ai metalmeccanici", dunque sfileranno a fianco della Fiom, con "tutte le categorie del lavoro dipendente pubblico e privato" (ad eccezione dei trasporti urbani che hanno anticipato la protesta al 26). Tuttavia il corteo nazionale dei Cobas si svolge invece a Roma (dunque non con la Fiom, che nel Lazio manifesta a Cassino): la partenza è prevista alle 10 a piazza della Repubblica, e vi prenderanno parte anche gli studenti universitari, che partiranno mezzora prima dalla Sapienza. La maggior parte di loro ha fatto sapere oggi che parteciperà alla manifestazione FIom a Cassino: raduno alle 7,30 alla stazione Termini, binario 4. Le motivazioni dello sciopero generale dei Cobas si avvicinano molto a quelle della Fiom: contestato infatti "quel potere economico che ha trascinato l’Italia nella più grave crisi del dopoguerra, e che, invece di pagare per la sua opera distruttiva, cerca di smantellare ciò che resta delle conquiste dei salariati/e e dei settori popolari". Anche gli studenti saranno a fianco della Fiom, hanno annunciato diverse associazioni in tutta Italia. E così anche il "Comitato per la libertà, il diritto all’informazione, alla cultura e allo spettacoli", che riunisce diverse associazioni che operano all’interno dei lavoratori dello spettacolo: in piazza ci saranno soprattutto i precari, particolarmente colpiti dai tagli alla cultura. Accanto ai manifestanti, infine, i sostenitori della campagna "Arancia metalmeccanica", sostenuta dai volontari di Rifondazione Comunista: vendute nelle piazze le arance dei contadini siciliani, il ricavato va a sostegno delle lotte della Fiom. Ecco il calendario delle proteste, città per città.
AOSTA. Presidio in piazza Chanoux dalle 9.00 alle 12.00.
MILANO. Appuntamento alle 9 nel piazzale della Stazione ferroviaria. Il corteo partirà alle 9.30 da Porta Venezia, diretto a piazza Duomo. Il comizio finale verrà aperto dall’intervento del segretario generale Landini. La Fiom Lombardia ha preparato l’allestimento in piazza Duomo di "una catena di montaggio all’aperto": "L’abbiamo realizzata - spiega la segretaria generale Fiom di Milano, Maria Sciancati - per spiegare a tutti, anche a quelli che non hanno mai lavorato in fabbrica, quali sono le condizioni di lavoro: mansioni molto ristrette, in tempi brevissimi, oggi alla Fiat per sette ore e mezzo, dopodomani con l’accordo voluto da Marchionne fino a 10 ore al giorno".
TORINO. Il corteo partirà da Porta Susa intorno alle 9 diretto a piazza Castello, dove avrà luogo il comizio conclusivo, che vedrà la partecipazione del segretario confederale Cgil Enrico Panini e del segretario Fiom Giorgio Airaudo, responsabile nazionale del settore auto.
PADOVA. Il concentramento è previsto alle ore 9 in piazzale della stazione ferroviaria. Da qui il corteo raggiungerà piazza Insurrezione. Tra gli oratori, Giorgio Cremaschi, presidente del comitato centrale Fiom.
BOLZANO. A partire dalle 10, è previsto un presidio di tutti i lavoratori del settore in regione ai cancelli dello stabilimento Iveco. Vi parteciperanno anche i lavoratori del Trentino.
UDINE. Concentramento in piazza Paolo Diacono alle ore 10. Comizio a largo Melzi, di fronte alla sede della Confindustria. In piazza anche l’Osservatorio d’Ateneo degli studenti di Udine.
GENOVA. Concentramento alle ore 8.30 davanti alla Stazione Principe, manifestazioni anche a livello provinciale in altre città. Anche in questo caso, in piazza accanto agli operai ci saranno gli studenti universitari.
MASSA. La manifestazione prevede due concentramenti, uno davanti ai cancelli della Eaton e uno alla stazione, e i manifestanti confluiranno poi in un unico corteo che terminerà in piazza degli Aranci con il comizio finale affidato a Fulvio Fammoni della Cgil e Massimo Masat della Fiom nazionale.
PERUGIA. Alle ore 9.30, in via Cipriano Piccolpasso, di fronte alla locale concessionaria Fiat.
ANCONA. Concentramento a partire dalle 10.00 alla Fiera di Ancona. Da qui un corteo raggiungerà l’area portuale dove Sergio Bellavita, segretario nazionale Fiom-Cgil, terrà il comizio conclusivo.
CASSINO. Alle 9.30, Concentramento davanti alla stazione ferroviaria. Un corteo raggiungerà piazza Alcide De Gasperi. Prevista la partecipazione del segretario confederale Cgil, Vera Lamonica.
LANCIANO. Concentramento alle 9 in piazzale Cuonzo (zona Stadio). Il comizio conclusivo si terrà a piazza del Plebiscito.
POMIGLIANO D’ARCO. Qui ha sede lo stabilimento auto dove sono stati siglati gli accordi separati del 15 giugno e del 29 dicembre 2010. Concentramento alle ore 10 alla rotonda Alfa Romeo (zona industriale). Comizio conclusivo in piazza Primavera, prevista la partecipazione del segretario confederale Cgil, Fabrizio Solari.
BARI. Prevista la partecipazione del segretario confederale Cgil, Nicola Nicolosi. Alla manifestazione aderiranno anche numerose organizzazioni studentesche, docenti di ogni ordine e grado ed il gruppo di ’giuristi pugliesi’ guidati dal professor Mario Giovanni Garofalo dell’Università di Bari.
MELFI. Nella zona industriale (San Nicola di Melfi) ha sede il più grande stabilimento Fiat auto del Mezzogiorno. Per la Fiom nazionale, l’iniziativa sarà conclusa da Sabina Petrucci.
VIBO MARINA. Appuntamento alle 10.00, davanti allo stabilimento del gruppo Nuovo Pignone. Per la Fiom nazionale parlerà qui Barbara Pettine.
TERMINI IMERESE. Qui ha sede lo stabilimento auto che la Fiat intende chiudere a dicembre di quest’anno. Il comizio sarà concluso da Enzo Masini, coordinatore nazionale auto della Fiom.
CAGLIARI. Concentramento in piazza Garibaldi alle 9.00. Da qui partirà un corteo diretto a piazza del Carmine, ove si terrà il comizio conclusivo nel corso del quale, per la Fiom nazionale prenderà la parola Fausto Durante.
* la Repubblica, 27 gennaio 2011
Il Vangelo secondo Marchionne
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 11.01. 2011)
Quanto c’è di cristiano nelle nuove regole imposte da Marchionne a Mirafiori? L’interrogativo potrebbe suonare paradossale, ma si pone dal momento che il firmatario-guida del documento, Raffaele Bonanni, è il leader del sindacato che si richiama consapevolmente alla Dottrina sociale della Chiesa. Tanto più che la Cisl in anni passati si è spesa per portare gli altri sindacati confederali a festeggiare il 1º maggio in piazza San Pietro e, più recentemente, si è schierata con la Conferenza episcopale in quel Family Day, che sabotò la legge sulle coppie di fatto.
Nel crollo delle ideologie il sindacato di matrice cattolica ha sempre voluto attingere al patrimonio
della dottrina sociale della Chiesa, arricchito da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Giovanni
Paolo II ha dedicato al tema lavoro molta parte del suo magistero. All’inizio - sul piano geopolitico
l’attenzione era focalizzata sul diritto dei lavoratori polacchi di organizzarsi in un sindacato
“indipendente” (sebbene da subito, negli anni Ottanta, difendesse a São Paolo anche i diritti dei
sindacati brasiliani, guidati dall’allora trotzkista Lula). Tuttavia, dopo il crollo dell’impero
sovietico, Wojtyla ha continuato negli anni Novanta a occuparsi energicamente dell’argomento a
fronte di un capitalismo che lui chiamava “radicale”, cioè tendente a sopraffare ogni regola.
Lontanissimo e anzi avverso ad ogni concezione di antagonismo di classe, Karol Wojtyla ha messo al centro della sua riflessione il carattere del lavoro come “dimensione fondamentale dell’esistenza”, rigettando quel tipo di prassi in cui “l’uomo viene trattato come strumento di produzione” e il lavoro come semplice “merce”. E usando questi termini - cattolici - sottolineava che il pericolo non andava relegato all’epoca dell’industrializzazione primitiva, ma appartiene al tempo presente laddove prevalga una “civiltà unilateralmente materialistica”.
IL PERICOLO di trattare l’uomo come mera “forza lavoro” - scriveva nella sua enciclica Laborem Exercens - “esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell’economismo materialistico”. Ciò che colpisce nel documento Mirafiori, esaltato come innovativo, simbolo di modernità, spartiacque di una nuova era da coloro che quasi certamente non lo hanno nemmeno letto, è precisamente il fatto che non c’è nulla di innovativo. Non è una rivoluzione nell’organizzazione della produzione o nell’individuazione di nuovi metodi di valorizzazione della persona-operaio. Non è neanche una rivoluzione o, più modestamente, un passo in avanti sulla via della partecipazione dei prestatori d’opera alla gestione dell’azienda: nel senso della Mitbestimmung, la cogestione tedesca, letteralmente “codeterminazione”. La vera carta che la Cisl per la sua tradizione potrebbe giocare e di cui non c’è traccia nel documento Mirafiori.
Il punto non è dunque di schierarsi aprioristicamente per l’una o l’altra componente sindacale, il punto è di valutare le norme del contratto.
E qui, in tema di rappresentanza, la divaricazione con la dottrina sociale della Chiesa è totale. Sosteneva Giovanni Paolo II che il diritto di associarsi è fondamentale perché ha come scopo la “difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni”. Cioè di assicurare la “tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione”. Il corollario, nella vicenda Solidarnosc, era che non toccava al proprietario dell’azienda - lo Stato in questo caso - decidere chi potesse parlare o no a nome dei lavoratori.
Leggendo il testo Mirafiori (e sono gli articoli su cui Bonanni tiene un profilo bassissimo, perché sa che gridano vendetta al cospetto di Dio... per usare un linguaggio biblico) si vede che tutti i paragrafi sotto il titolo “Sistema di relazioni sindacali” sanciscono il radicale smantellamento della presenza in azienda di qualsiasi organizzazione sindacale, che dissenta dal contratto firmato. Chi ha il 51%, cancella gli altri.
ORA UN CONTO è accettare democraticamente i risultati di un referendum, un conto è imbavagliare totalmente un soggetto sindacale che la pensa diversamente. L’articolo 1 permette la costituzione di rappresentanti sindacali soltanto alle Organizzazioni firmatarie. Chi non è Organizzazione firmataria NON usufruisce di permessi sindacali (art. 2), NON può convocare un’assemblea (art. 3), NON ha diritto a un locale per esercitare le funzioni di rappresentanza sindacale (art. 5), NON fa più parte del sistema per cui l’azienda trattiene direttamente dallo stipendio i contributi sindacali versandoli alle rappresentanze. L’abolizione della legge 1993 sull’elezione dei delegati in azienda (festeggiata dai ministri berlusconiani Sacconi e Romani) e la clausola di umiliazione, per cui chi aderisce dopo deve ottenere il consenso di “tutti” i firmatari, completano un impianto che cozza contro la libera partecipazione dei prestatori d’opera e l’organizzazione sindacale dentro l’azienda come “indispensabile elemento della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate”. (Laborem Exercens)
Per chi ritenesse che gli anni passano, Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in Veritate del 2009 sottolinea come segno caratteristico dell’epoca contemporanea la diminuzione delle libertà sindacali e della capacità negoziale dei sindacati. Tuttavia che si arrivasse a dividere i “bianchi” dai “neri” neanche un papa poteva prevederlo.
Fiat/Democrazia. Un’associazione a sostegno della Fiom
di: Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti *
La prima ragione della nostra indignazione nasce dall’assenza, nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono stati privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai più gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno il diritto di decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro. Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti indisponibili. Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto individuale esercitato in forme collettive. Un diritto della persona che lavora che non può essere sostituito dalle dinamiche dentro e tra le organizzazioni sindacali e datoriali, pur necessarie e indispensabili. Di tutto ciò c’è una flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba essere una delle discriminanti che strutturano le scelte di campo nell’impegno politico e civile. La crescente importanza nella vita di ogni cittadino delle scelte operate nel campo economico dovrebbe portare a un rafforzamento dei meccanismi di controllo pubblico e di bilanciamento del potere economico; senza tali meccanismi, infatti, è più elevata la probabilità, come stiamo sperimentando, di patire pesanti conseguenze individuali e collettive.
La seconda ragione della nostra indignazione, quindi, è lo sforzo continuo di larga parte della politica italiana di ridimensionare la piena libertà di esercizio del conflitto sociale. Le società democratiche considerano il conflitto sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della società civile su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico interesse, come l’essenza stessa del loro carattere democratico. Solo attraverso un pieno dispiegarsi, nell’ambito dei diritti costituzionali, di tali conflitti si controbilanciano i potentati economici, si alimenta la discussione pubblica, si controlla l’esercizio del potere politico. Non vi può essere, in una società democratica, un interesse di parte, quello delle imprese, superiore a ogni altro interesse e a ogni altra ragione: i diritti, quindi, sia quelli individuali sia quelli collettivi, non possono essere subordinati all’interesse della singola impresa o del sistema delle imprese o ai superiori interessi dello Stato. La presunta superiore razionalità delle scelte puramente economiche e delle tecniche manageriali è evaporata nella grande crisi.
L’idea, cara al governo, assieme a Confindustria e Fiat, di una società basata sulla sostituzione del conflitto sociale con l’attribuzione a un sistema corporativo di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, sotto l’egida governativa, del potere di prendere, solo in forme consensuali, ogni decisione rilevante sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni dello stato sociale, è di per sé un incubo autoritario.
Siamo stupefatti, ancor prima che indignati, dal fatto che su tali scenari, concretizzatisi in decisioni concrete già prese o in corso di realizzazione attraverso leggi e accordi sindacali, non si eserciti, con rilevanti eccezioni quali la manifestazione del 16 ottobre, una assunzione di responsabilità che coinvolga il numero più alto possibile di forze sociali, politiche e culturali per combattere, fermare e rovesciare questa deriva autoritaria.
Ci indigna infine la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue forme, a una condizione che ne nega la possibilità di espressione e di realizzazione di sé.
La precarizzazione, l’individualizzazione del rapporto di lavoro, l’aziendalizzazione della regolazione sociale del lavoro in una nazione in cui la stragrande maggioranza lavora in imprese con meno di dieci dipendenti, lo smantellamento della legislazione di tutela dell’ambiente di lavoro, la crescente difficoltà, a seguito del cosiddetto "collegato lavoro" approvato dalle camere, a potere adire la giustizia ordinaria da parte del lavoratore sono i tasselli materiali di questo processo di spoliazione della dignità di chi lavora. Da ultimo si vuole sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori uno statuto dei lavori; la trasformazione linguistica è di per sé auto esplicativa e a essa corrisponde il contenuto. Il passaggio dai portatori di diritti, i lavoratori che possono esigerli, ai luoghi, i lavori, delinea un processo di astrazione/alienazione dove viene meno l’affettività dei diritti stessi.
Come è possibile che di fronte alla distruzione sistematica di un secolo di conquiste di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all’altezza della sfida?
Bisogna ridare centralità politica al lavoro. Riportare il lavoro, il mondo del lavoro, al centro dell’agenda politica: nell’azione di governo, nei programmi dei partiti, nella battaglia delle idee. Questa è oggi la via maestra per la rigenerazione della politica stessa e per un progetto di liberazione della vita pubblica dalle derive, dalla decadenza, dalla volgarizzazione e dall’autoreferenzialità che attualmente gravemente la segnano. La dignità della persona che lavora diventi la stella polare di orientamento per ogni decisione individuale e collettiva.
Per queste ragioni abbiamo deciso di costituire un’associazione che si propone di suscitare nella società, nella politica, nella cultura, una riflessione e un’azione adeguata con l’intento di sostenere tutte le forze che sappiano muoversi con coerenza su questo terreno.
* Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti
* il l manifesto, 29.12.2010
Un comitato di liberazione nazionale per sconfiggere il Cavaliere
di Carlo Galli (la Repubblica, 19.12.2010)
Il primo risultato del voto di fiducia a favore del governo è che quando si andrà alle elezioni - anticipate o meno che siano - a Palazzo Chigi ci sarà Berlusconi, e si voterà con questa legge elettorale. Che era appunto il principale obiettivo del premier, dimostratosi ancora una volta un duro e spregiudicato combattente. Ma il secondo risultato è che i suoi margini di maggioranza, e quindi di manovra, si sono paurosamente assottigliati a tre deputati (forse dieci, se i suoi ultimi proclami di vittoria si riveleranno fondati), mentre, specularmente, l’opposizione, pur restando minoranza, si è molto rafforzata. Non solo nei numeri, ma anche nella qualità. Il Terzo Polo, infatti - la convergenza tra Fini, Casini, Rutelli - può introdurre grossi elementi di novità nella dinamica politica. Prima di tutto per il suo potere di coalizione - la capacità di allearsi sia con la destra sia con la sinistra, che è propria di tutti i Centri - ; e poi perché questo è, in una prima fase, limitato. La violenza del conflitto tra Fini e Berlusconi, non rende infatti immediatamente verosimile una loro collaborazione di governo. Il Terzo Polo, almeno in una prima fase, dovrà correre da solo, o avere come unico possibile alleato il centrosinistra.
Se seguisse la sua vocazione e si presentasse in piena autonomia agli elettori, e ottenesse un accettabile successo - la quantificazione è ora del tutto prematura, ma dovrebbe collocarsi verso il 15%, o almeno con grande margine sopra il 10 - , vorrebbe dire che avrebbe intercettato un settore di elettorato moderato ma non reazionario, stanco dell’inconcludenza di Berlusconi e di Bossi, e dello sfascio sociale e istituzionale prodotto dalla destra al governo. Anche solo per questa via la presenza del Terzo Polo alle elezioni potrebbe far perdere alla destra la maggioranza al Senato. Naturalmente, contro questa ipotesi le armi di Berlusconi sono le solite: per impedire il formarsi di quel clima di normalità che rende possibile l’emergere anche di un’opinione moderata, cercherà di esasperare i toni della campagna elettorale, di trasformarla in uno scontro di civiltà per la difesa della libertà, e insomma di accentuare la polarizzazione dell’elettorato. Fra i dogmi berlusconiani c’è la convinzione che l’Italia sia un Paese strutturalmente di destra, e che sia sufficiente alzare la voce per fare emergere questa verità. Il che, finora, gli è riuscito.
Ma la legge elettorale vigente vuole che alla Camera si corra per vincere, e quindi per accaparrarsi il premio di maggioranza su scala nazionale. E qui l’alleanza del Terzo Polo con il centrosinistra si rende necessaria. Si tratta di capire se è anche possibile politicamente. A questo riguardo, un importante effetto del Terzo Polo è appunto di rendere Fini - proprio in quanto federato con Casini e Rutelli - una risorsa spendibile anche in un patto elettorale con il Pd, al quale un’alleanza solo con il leader di Fli avrebbe potuto creare non pochi problemi. Naturalmente, il Pd dovrebbe chiarire che con il Terzo Polo si tratta di stipulare un patto di carattere emergenziale, dettato non solo dalla legge elettorale ma anche e soprattutto dall’esigenza di mettere in sicurezza la democrazia in Italia con una legislatura costituente, capace di riformare profondamente la scuola, il lavoro, la pubblica amministrazione, per dare respiro e prospettive ai giovani - oggi disperati - e alle famiglie, ormai allo stremo. E anche per modificare, naturalmente, la legge elettorale, proprio per consentire, dopo l’emergenza, una più libera e normale espressione delle forze e delle dialettiche che appartengono alla storia d’Italia.
Questa prospettiva politica, per reggersi davanti agli elettorati di centrodestra e di centrosinistra che la dovrebbero avallare e premiare, deve essere animata da fortissima carica riformista, da potente afflato etico, da spiccato spirito repubblicano; e presentarsi come un nuovo Cln, come l’ultima spiaggia della salvezza nazionale. Ma può incontrare due difficoltà. La prima è data dall’evidente sua vulnerabilità da parte di coloro che, a sinistra - da Vendola a Di Pietro - , vi si sottraessero e, tenendo le mani libere, denunciassero il compromesso tra i due Poli come innaturale e sterile, come una cinica alleanza di potere, come un tradimento del bipolarismo e, ben più importante, delle stesse ragioni della esistenza di una sinistra. Un’obiezione che sarà opportuno il Pd tenga ben presente, se non altro per elaborare un’adeguata e credibile narrazione legittimante.
La seconda difficoltà sta, ovviamente, nella contro-strategia di Berlusconi - che potrebbe avere come alleate le gerarchie ecclesiastiche - di garantire una governabilità di lungo periodo riunendo i moderati (com’egli dice) in un nuovo partito Popolare, e portando Casini nell’area di governo (la Lega non fa più obiezioni) magari per garantirgli il premierato, quando il Cavaliere si farà eleggere al Quirinale. Sarebbe la fine del Terzo Polo, e la sconfitta radicale per Fini (oltre che l’inizio di un indispensabile ripensamento profondo della linea del Pd). C’è da scommettere che, nonostante le sue ultime affermazioni, se questa iniziativa verso Casini fallisse Berlusconi preferirebbe le elezioni anticipate - la seduzione in massa del popolo italiano - all’unica alternativa che gli rimarrebbe, se il Terzo Polo avesse invece successo: l’acquisto alla spicciolata di qualche deputato.
Il lavoro spogliato dei diritti
Liberare le imprese dagli impegni presi e dai contratti nazionali firmati con i sindacati non significa innovare
Non si può uscire da una crisi globale rompendo il patto con i lavoratori
di Furio Colombo (il Fatto, 12.09.2010)
“Se non c’è la fabbrica non ci sono i diritti” è la frase più ripetuta del momento. Vuol dire: “Lasciate fare all’impresa, che sa cosa è bene e che cosa è male”. Ecco dunque la frase che molti, anche nel Pd (un partito che dovrebbe essere “del lavoro” più di tutti gli altri rappresentanti in Parlamento) considerano “innovazione”. È “innovazione” perché libera l’impresa dalla “rigidità” (altra parola in voga per dire il nemico dell’innovazione) e dal dovere di mantenere impegni presi, con contratti debitamente firmati da tutti, verso i lavoratori. A proposito, avete mai notato che l’opinione pubblica e politica non viene mai coinvolta in un dibattito sulle imprese (come vanno, dove vanno), ma sempre, solo sul lavoro e gli operai come unica ragione di conflitto, crisi, delocalizzazione, chiusura?
Le regole buttate al macero
LA STORIA del mondo industriale democratico non ci dà nessuna notizia di aziende affondate a causa del costo del lavoro. Ma la proposta adesso è “innovazione” perché non solo vuole tagliare liberamente i costi. Intende cancellare ogni patto precedentemente stipulato tra impresa e lavoro. Ora, dopo una violentissima crisi economica che ha scosso, con la furia di un ciclone, un’Europa senza economisti e senza idee e un’Italia senza governo, la proposta è di uscire da una crisi grande come il ‘29 (parola di esperti) facendo esattamente l’opposto dell’America del New Deal.
Che cosa vuol dire New Deal? Vuol dire nuovo patto. Vuol dire futuro, fiducia (non fiducia astratta, ma fiducia gli uni negli altri) e comunità (siamo insieme, o tutti o nessuno, il Paese sono le sue fabbriche e ogni fabbrica è il Paese, Costituzione, leggi, regole concordate). Che cosa accade adesso in Italia? Non solo non ci sarà un New Deal, ma non ci sarà niente. Anzi, facciamo una cosa. Per evitare equivoci, cancelliamo ogni patto che c’era prima. Via i contratti nazionali. Via le regole discusse e negoziate da una parte e dall’altra, a volte per anni e con confronti anche duri, ma - ovviamente - con l’intento umano e civile di proteggere la parte più debole, che non può ogni volta presentarsi in fabbrica con una batteria di avvocati.
Così inizia il monologo delle aziende
IL NUOVO SLOGAN è “basta con la lotta di classe”. Nel caso della fabbrica, “fine della lotta di classe” (che per fortuna non c’era; c’erano, come dicono i codici, parti e controparti, con molti interessi diversi e uno grande in comune: il lavoro) vuol dire che una parte tace e l’altra è libera di iniziare il grande monologo. Vanno bene 10 minuti per la pausa mensa? Va bene andare in bagno due volte invece di tre? Va bene fare straordinari la notte e il sabato senza retribuzione? Va bene fare o non fare, o interrompere le ferie, sempre a titolo di donazione del prestatore d’opera alla fabbrica? Non devi rispondere. Se lo fai, disturbi la produzione e potresti essere accusato di sabotaggio. La pena è il licenziamento. E se il giudice - restato indietro con le leggi ancora non abrogate della Repubblica - ti reintegra nel posto di lavoro, questo fastidioso dettaglio alla controparte che conduce il monologo non interessa. La controparte è avanti, è nel futuro, è con l’innovazione, confortata dal fatto che anche la ex sinistra chiama innovazione la cancellazione dei diritti. Dunque, giudice o non giudice, vi possiamo buttare la busta paga sulla porta, ma dovete restare fuori.
La nuova versione di “O la borsa o la vita”
PER BUONA MISURA interviene, nell’umiliante caso di Melfi (tutta la Fiat contro tre operai) il settimanale Panorama (9 settembre 2010) con la più spregevole copertina mai apparsa nel giornalismo italiano. La forza di un periodico da milioni di copie viene gettata contro tre operai da 1.000 euro al mese (quando non sono - e lo sono spessissimo - in cassa integrazione), messi alla gogna in copertina con la loro fotografia e il titolo Gli eroi bugiardi; l’accusa (sempre in copertina) di sabotaggio, dunque di un reato, che dà dello stupido (e anche del comunista) al giudice che li ha reintegrati nel loro posto di lavoro. È una nobile iniziativa che assicura a quegli operai che non saranno mai più accettati in alcun posto di lavoro in Italia. Ma tutto trova la sua giustificazione nel nuovo motto da issare sui cancelli: “Se non c’è la fabbrica, non ci sono i diritti”. La prima reazione, che avrebbe dovuto dare una scossa a tanti silenzi ed evitare qualche lode fuori posto, è che la frase corrisponde in modo quasi letterale al celebre grido dei vecchi racconti polizieschi: “O la borsa o la vita”. Il messaggio è chiaro: o cedi o finisci sulla copertina di Panorama.
Ma c’è l’altro aspetto inquietante. La frase resta intatta se formulata a ovescio: “La fabbrica c’è se non ci sono i diritti”. D’ora in poi la fabbrica è extraterritoriale. Si fa secondo le regole che vigono nel territorio in cui vuoi essere accettato perché un po’ ti pagano. Se non ti va bene, ti accompagnano subito alla frontiera. Ora ditemi se tutto un mondo di persone, che un tempo chiamavamo lavoratori, deve rassegnarsi a vivere senza un sindacato (l’immagine della Fiom è peggiore di quella di Vallanzasca), senza un partito (vedi la cauta distanza del Pd dalla questione), con la sola opzione di obbedire. E il rischio di un linciaggio pubblico nello sciagurato caso di una protesta.
Il pugno di ferro degli industriali
di Luciano Gallino (la Repubblica, 08.09.2010)
Il contratto nazionale di lavoro dovrebbe svolgere due funzioni fondamentali: perseguire una distribuzione del Pil passabilmente equa tra il lavoro e le imprese, e stabilire quali sono i diritti e i doveri specifici dei lavoratori e dei datori.
Diritti e doveri al di là di quelli sanciti in generale dalla legislazione in vigore. La disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici da parte di Federmeccanica compromette ambedue le funzioni, a scapito soprattutto dei lavoratori. Caso mai ve ne fosse bisogno. I redditi da lavoro hanno infatti perso negli ultimi venticinque anni almeno 7-8 punti sul Pil a favore dei redditi da capitale (dati Ocse). Perdere 1 punto di Pil, va notato, significa che ogni anno 16 miliardi vanno ai secondi invece che ai primi. Questa redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto ha impoverito i lavoratori, contribuito alla stagnazione della domanda interna, ed è uno dei maggiori fattori alla base della crisi economica in corso.
Quanto ai diritti, sono sotto attacco sin dai primi anni ’90 e la loro erosione ha preso forma della proliferazione dei contratti atipici che sono per definizione al di fuori del contratto nazionale. Per cui lasciano ai datori di lavoro la possibilità di imporre a loro discrezione, a milioni di persone, quali debbano essere le retribuzioni, gli orari, l’intensità e le modalità della prestazione, e soprattutto la durata del contratto.
Si potrebbe obbiettare che il contratto dei metalmeccanici riguarda solo un milione di persone, su diciassette milioni di lavoratori dipendenti. Ma non si può avere dubbi sul fatto che altri settori dell’industria e dei servizi seguiranno presto l’esempio di Federmeccanica. Dietro la quale è sin troppo agevole scorgere non l’ombra, bensì il pugno di ferro che la Fiat sembra aver scelto a modello per le relazioni industriali.
Le conseguenze? Ci si può seriamente chiedere come possa mai immaginarsi un imprenditore o un manager, e come possa sostenere in pubblico senza arrossire, di riuscire a competere con i costi del lavoro di India e Cina, Messico e Vietnam, Filippine e Indonesia, cercando di tenere fermi i salari dei lavoratori italiani mentre li si fa lavorare più in fretta, con meno pause e con un rispetto ossessivo dei metodi prescritti. Magari a mezzo di altoparlanti e Tv in reparto, come già avviene in aziende del gruppo Fiat. Allo scopo di competere con tali paesi bisognerebbe produrre beni e servizi che essi non sono capaci di produrre, o perché sono altamente innovativi, oppure perché sono destinati al nostro mercato interno.
Ma per farlo occorrerebbe aumentare di due o tre volte gli investimenti in ricerca e sviluppo, che ora vedono l’Italia agli ultimi posti nella Ue. Affrontare una buona volta il problema dello sviluppo di distretti industriali funzionanti come fabbriche distribuite organicamente sul territorio, tipo i poli di competitività francesi o le reti di competenze tedesche. Accrescere gli stanziamenti per la formazione professionale, le medie superiori e l’università, invece di tagliarli con l’accetta come si sta facendo.
A fronte di ciò che sarebbe realmente necessario per competere efficacemente con i paesi emergenti, la guerra scatenata da Fiat e Federmeccanica al contratto nazionale di lavoro è un povero ripiego. Che farà salire la temperatura del conflitto sociale. Per di più impoverirà ulteriormente i lavoratori, che così acquisteranno meno merci e servizi, abbasseranno gli anni di istruzione dei figli e dovranno andare in pensione prima perché non possono reggere a un lavoro sempre più usurante. Fa un certo effetto vedere degli industriali che nel 2010, a capo di fabbriche super tecnologiche, si danno la zappa sui piedi.
Tutta colpa degli operai
Marchionne insiste: se la fabbrica non cambia come dico io la Fiat non investe. E per Tremonti cambiamento è: meno sicurezza sul lavoro
di Furio Colombo (il Fatto, 27.08.2010)
Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, deve avere visto le immagini televisive dei tre operai Fiat, Barozzino, Lamorte, Pignatelli che fanno passare le ore sul piazzale assolato e vuoto della fabbrica proibita, ci ha pensato, e ha detto: “C’è da augurarsi che la politica italiana non lasci solo il capo del Lingotto”. Evidentemente Capezzone era scosso dalla risposta immediata e chiara del capo dello Stato sul reclamo di dignità dei tre operai che non possono rientrare in fabbrica nonostante una sentenza. Era turbato dalla ferma solidarietà dei vescovi, che non dovrebbero immischiarsi in beghe sindacali. Certo, un po’ lo avranno consolato le parole di Emma Marcegaglia che, con Cesare Geronzi al suo fianco (dunque il meglio del meglio dell’Italia) ha detto ai fervidi ragazzi di Comunione e Liberazione di Rimini: “Oggi bastano due persone per fermare un’intera produzione. Serve un cambiamento forte o sarà il declino”. Gli autori del declino erano sempre là, a Melfi, con le magliette blu dell’uniforme. Tre uomini spinti fuori, sotto il sole, per otto ore al giorno. La preghiera di Capezzone però non è restata inascoltata. Si è fatta avanti Mariastella Gelmini e ha detto “Marchionne è il più bravo di tutti”.
Probabile che Marchionne comparirà, vita e opere, nelle tracce dei temi di maturità del prossimo anno. Dopo un po’ di esitazione si è fatta avanti la sinistra. Prima Chiamparino che, da sindaco di Torino e da candidato del centrodestra del Pd - fa il tifo per Marchionne (strano, però; lo fa, quando la Fiat va in Serbia e lo fa mentre gli operai torinesi sono rimasti cauti, zitti e umiliati a Mirafiori). Poi Pietro Ichino, per spiegare che Napolitano, in realtà, è dalla parte di Marchionne, non dei tre operai in maglietta blu, soli sul piazzale vuoto. Sentite: “Prendere posizione sulla questione del piano Fiat è ciò che il messaggio del capo dello Stato sottolinea: rispetto degli standard dell’occidente industrializzato”. Gli risponde sullo stesso giornale, lo stesso giorno (Il Corriere della Sera, 26 agosto) il vice direttore Massimo Mucchetti: “I lavoratori tedeschi partecipano alle decisioni strategiche; negli Usa i sindacati sono entrati nel Board per tutelare le azioni ricevute”. Ma “per fortuna Marchionne c’è”.
A Rimini, fra ciellini giovani e festanti, dice queste frasi nette e incoerenti: “Accetto l’invito di Napolitano. Non si possono difendere atti di sabotaggio. La dignità non è esclusiva di tre persone”. Non sarà esclusiva, ma i tre in maglietta blu restano ad aspettare nel piazzale vuoto di Melfi. Il saggio ministro Tremonti offre loro il pensiero del giorno: “Se tutti vogliono diritti perfetti nella fabbrica ideale, si rischia che la fabbrica ideale va da un’altra parte”. Giusto. Il mondo è pieno di schiavi.
L’ANALISI
Sovranità popolare in salsa di destra
I politici del Pdl guardano alla Costituzione come ad una varia ed eventuale da mettere all’ultimo posto. Al primo, naturalmente, c’è l’elettorato. Sostenere che c’è in Italia una situazione rivoluzionaria è risibile. Semmai a dominare sono lo sfinimento e il disgusto per la politica
di CARLO GALLI *
"Troppe cose mi ricordano il ’93, la stagione dei governi tecnici. Dovremo stare attenti prima di aprire una crisi. Stanno facendo di tutto per rendermi ogni cosa difficile". Allarga le braccia, sbuffa. Silvio Berlusconi si sente accerchiato da un nemico invisibile. Chi lo ha visto o anche chi lo ha ascoltato al telefono, ha colto nel premier lo stato d’animo di chi si sente sotto assedio: pronto alla battaglia ma cosciente dei tanti ostacoli che si frappongono da qui alle elezioni anticipate. Mentre i politici di destra, anzi il popolo della libertà, guardano alla Costituzione come si conviene: come a una varia ed eventuale, da mettere all’ultimo posto nell’ordine del giorno della politica. Al primo, naturalmente, la sovranità del popolo.
Questa è la nuova linea che emerge dai comunicati con cui i capigruppo parlamentari della maggioranza hanno risposto alla durissima e ultimativa nota del Quirinale; una linea che consiste nell’ammettere a denti stretti che il potere di scioglimento delle Camere è del Capo dello Stato e non del Presidente del Consiglio, e al tempo stesso nel ribadire che egli se ne deve servire come vuole la destra, cioè nell’eventualità di una crisi di governo deve ricorrervi in pratica automaticamente. E ciò per non tradire e per non vanificare il nuovo assetto politico generato dalle leggi elettorali susseguitesi dal 1993 a oggi; che avrebbe dato vita a una democrazia presidenziale e non parlamentare, e a una nuova modalità d’espressione della sovranità popolare: non più rappresentata nel Parlamento ma incarnata in un leader e in un Verbo: il programma.
Questa ennesima contrapposizione tra popolo (con la sua voce univoca e tonante) e Palazzo (con i suoi intrighi), tra forma e sostanza - indice di una sbrigativa e qualunquistica idiosincrasia per regole e istituzioni, la stessa che proclama la ‘politica del fare’ (ma, appunto, la proclama soltanto) -, si presenta insomma come un pensiero politico, in quanto tale legittimo, che pretende però di avere efficacia costituzionale fin da subito. Il che legittimo non è, perché fra le procedure di riforma della Costituzione non è prevista la legge elettorale. Che infatti non innova proprio nulla per quanto riguarda la forma della repubblica, che continua a essere - anche se sulla scheda con cui si vota è indicato il nome di un politico - una democrazia parlamentare, e non una democrazia elettorale o plebiscitaria.
Il che significa - occorre ricordarlo perché non si tratta di forma, ma di sostanza - che con le elezioni si eleggono le Camere, non il governo; che questo non è un organo sovrano che tragga legittimazione dal popolo, ma un organo esecutivo legittimato, col voto di fiducia, dal parlamento; che rappresenta, questo sì, la sovranità popolare, e che ne è l’unica espressione legale. E quindi chi ha vinto le elezioni è un partito che ha la maggioranza alla Camera e al Senato, e non un uomo politico nominato premier a furor di popolo; e che se il partito maggioritario perde pezzi - evento anch’esso legittimo, perché i deputati e i senatori sono eletti senza vincolo di mandato, e quindi non sono tenuti, finché sono in carica, ad alcuna ‘fedeltà’ - il Capo dello Stato ha la piena e totale libertà di esplorare se ci sono nelle Camere maggioranze alternative a quella che ha vinto le elezioni, e che non c’è più: la questione non è di legittimità, ma solo di praticabilità politica dell’operazione. Ora, contrapporre a questa che è l’unica interpretazione possibile della Costituzione la volontà del popolo sovrano, che, ove non fosse riconosciuta si dovrebbe manifestare nelle piazze, non è altro che invocare la rivoluzione, cioè evocare la suprema energia politica che un popolo può esprimere, per travolgere l’ordinamento costituito con la forza irresistibile del suo potere costituente - senza ricorrere a esempi lontani e sanguinosi, qualcosa di simile ai movimenti di massa che hanno provocato il crollo del Muro di Berlino -. Ma sostenere che c’è in Italia una situazione rivoluzionaria, al di là della retorica leghista (peraltro subito rientrata), è quanto meno risibile: semmai, a dominare, non a caso, sono l’apatia politica, lo sfinimento, lo sgomento, il disgusto per la politica.
Dunque, se né la Costituzione né la situazione politica reale supportano le posizioni della destra, queste vanno considerate momenti tattici di spregiudicata intimidazione istituzionale - presumibilmente arginata, almeno per ora, - e, ancor più, forme di un discorso politico demagogico, volto a far passare nell’opinione pubblica la tesi che l’Italia è già ora una repubblica presidenziale-plebiscitaria, per poter presentare esplicitamente questo tema nel programma elettorale delle elezioni anticipate (auspicate come prossime). Questa finalità mediatico-manipolatoria - che solletica l’antiparlamentarismo qualunquistico dei cittadini, agitando fantasmi di congiure di Palazzo - la dice lunga su che cosa sia la sovranità popolare in salsa di destra: il popolo che dovrebbe imporre la propria volontà è in verità una sorta di sovrano immaginario, un corpo scosso da manipolazioni mediatiche e da una overdose ideologica di propaganda populistica; o, se si vuole, un fantasma polemico da utilizzare in tempi agitati, destinato a esprimere la propria sovranità non nella dialettica del parlamento ma nella voce e negli atti di un Capo che, solo, la rappresenta.
Sostituire le istituzioni con la propaganda, la democrazia col populismo, il parlamento col governo, è - questo sì - un sommovimento di vertice che avviene nella stagnazione e nella strumentalizzazione dei cittadini. Assomiglia anzi a quella che si definiva, un tempo, ‘rivoluzione passiva’, di cui costituisce la variante post-moderna.
* la Repubblica, 19 agosto 2010
Il cavaliere impunito e la regola del silenzio
di Giorgio Bocca (la Repubblica, 12.06.2010)
Giù la maschera. Quello che vuole, che pretende la maggioranza al potere è l’impunità totale, il silenzio sui suoi furti e malversazioni. Ai tempi di tangentopoli la maggioranza al potere si accontentava di far passare i suoi furti per legittima pubblica amministrazione. Ricordate la tesi del craxiano Biffi Gentili? Se i politici sono chiamati ad amministrare grandi città, grandi problemi con competenze da tecnocrati perché non devono essere pagati come tali? E se non lo sono perché si vuole impedire che si autofinanzino? Oggi la maggioranza al potere non ha più bisogno di questi sofismi. Rivendica il diritto di rubare attraverso la politica come un normale, dovuto diritto di preda. Al tempo di tangentopoli i socialisti craxiani ma anche quelli di altri partiti avevano nascosto i furti per mezzo della politica nei conti «protetti» cioè segreti in Svizzera a Singapore a Hong Kong. E avendo messo il bottino al sicuro si erano tolti anche il gusto di prendere per i fondelli i loro concittadini con la tesi assurda che l’autofinanziamento dei partiti non era solo una necessità ma un dovere di chi si faceva carico di amministrare lo Stato e la democrazia.
Oggi nella Italia berlusconiana il furto attraverso la politica è scoperto, normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l’uso della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni abbiano il dovere di proteggerlo. L’Italia un tempo paese dei misteri, delle società segrete, delle congiure massoniche sotto l’egida del cavaliere di Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto all’informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza?
L’imprenditore Anemone che si rifiuta di rispondere ai magistrati che indagano sui suoi affari non è la pecora nera, l’eccezione ma la norma della società berlusconiana del fare tutto ciò che comoda ai padroni, senza pagare dazio.
La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta classe dirigente.
Un’Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa della dittatura.
Il perché di una pagina bianca
di Ezio Mauro (la Repubblica, 11.06.2010)
Una prima pagina bianca, per testimoniare ai lettori e al Paese che ieri è intervenuta per legge una violenza nel circuito democratico attraverso il quale i giornali informano e i cittadini si rendono consapevoli, dunque giudicano e controllano. Una violenza consumata dal governo, che con il voto di fiducia per evitare sorprese ha approvato al Senato la legge sulle intercettazioni telefoniche, che è in realtà una legge sulla libertà: la libertà di cercare le prove dei reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili - nel dovere dello Stato di garantire la legalità e di rendere giustizia - e la libertà dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per conoscere e per sapere, dunque per giudicare.
La violenza di maggioranza è qui: nel voler limitare fino all’ostruzionismo irragionevole l’attività della magistratura nel contrasto al crimine, restringendo la possibilità di usare le intercettazioni per la ricerca delle prove dei reati. E nel voler impedire che i cittadini vengano informati del contenuto delle intercettazioni, impedendo ai giornali la libera valutazione delle notizie, nell’interesse dei lettori. Tutto questo, mentre infuria lo scandalo della Protezione Civile, nato con le risate intercettate ai costruttori legati al "sistema" di governo, felici per le scosse di terremoto che squassavano L’Aquila.
Le piccole modifiche che sono state fatte alla legge (si voleva addirittura tenere il Paese al buio sulle inchieste per quattro anni) non cambiano affatto il carattere illiberale di una norma di salvaguardia della casta di governo, terrorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza. Anzi. La proroga dei termini per gli ascolti, di poche ore in poche ore, è proceduralmente più ridicola che macchinosa. E le multe altissime agli editori non sono sanzioni ma inviti espliciti ad espropriare la libertà delle redazioni dei giornali nel decidere ciò che si deve pubblicare.
Ciò che resta, finché potrà durare, è l’atto d’imperio del governo su un diritto fondamentale dei cittadini - quello di sapere - cui è collegato il dovere dei giornalisti di informare. Se questa legge passerà alla Camera, il governo deciderà attraverso di essa la quantità e la qualità delle notizie "sensibili" che potranno essere stampate dai giornali, e quindi conosciute dai lettori. Attenzione: la legge-bavaglio decide per noi, e decide secondo la volontà del governo ciò che noi dobbiamo sapere, ciò che noi possiamo scrivere. Con ogni evidenza, tutto questo non è accettabile: non dai giornalisti soltanto, ma dai cittadini, dal sistema democratico. Ecco perché la prima pagina di "Repubblica" è bianca, per testimoniare ciò che sta accadendo. E per dire che non deve accadere, e non accadrà.
La vittoria della società opaca
di Alexander Stille (la Repubblica, 11.06.2010)
L’argomentazione principale a favore di queste norme è più o meno questa: «Si immagina il povero cittadino che si vede sbattuto sulle prime pagine dei giornali - con sue frasi prese fuori contesto - e poi magari prosciolto perché il fatto non sussiste?», mi disse una volta Niccolò Ghedini, l’avvocato di Silvio Berlusconi e uno dei promotori della legge.In primo luogo, in tutti gli anni che ho girato l’Italia non ho mai sentito dire da un cittadino normale: «Quello che ci vuole in questo paese è una bella legge sulle intercettazioni telefoniche perché sono stufo di vedermi sbattuto in prima pagina per reati che non ho commesso!». Da cittadini normali ho sentito invece esprimere migliaia di volte il desiderio di essere liberi da un sistema soffocante di corruzione, clientela, favoritismi e crimineorganizzato che rappresenta una minaccia seria allo sviluppo dell’Italia e ai diritti più elementari dei suoi cittadini.
Il desiderio di una legge sulle intercettazioni l’ho visto esprimere solamente dai politici, e solo da una minoranza di essi, in genere quelli attorno a Silvio Berlusconi, il quale si è proprio stufato di vedersi sbattuto in prima pagina con conversazioni davvero imbarazzanti che rivelano frequentazioni assai discutibili e giochi di potere al confine tra il lecito e l’illecito. Il numero di persone intercettate - a differenza del numero di apparecchi messi sotto controllo - è in realtà stimato intorno ai 20.000 all’anno. Il telefono del primo ministro non è mai stato messo sotto controllo: ha soltanto la strana abitudine di parlare con frequenza allarmante con alcuni di questi 20.000 sospettati.
È non solo giusto ma importante che i cittadini conoscano gli indizi di reato, soprattutto in casi che riguardano l’amministrazione pubblica, prima di un processo. Immaginiamo per un momento che l’attuale proposta di legge fosse stata in vigore durante l’anno passato. Non sapremmo nulla dello scandalo della Protezione Civile e della "cricca" di appaltatori che ne hanno beneficiato. Il pubblico italiano continuerebbe a pensare che Guido Bertolaso è l’uomo dei miracoli e che il sistema della Protezione Civile - che salta le normali procedure d’appalto - è il modo migliore per fare opere pubbliche in Italia. Non sapremmo nulla dei massaggi e dei festini offerti a Bertolaso dall’imprenditore Diego Anemone. Il ministro Scajola sarebbe ancora al suo posto nel bellissimo appartamento comprato in buona parte con i soldi di Anemone. Le intercettazioni telefoniche probabilmente non sarebbero concesse in questo caso - non trattandosi di reati di mafia o di terrorismo - e, se fatte, non sarebbero state rese pubbliche.
Nessuno di questi signori è stato processato ed è del tutto possibile che nessuno di loro sarà condannato. Ed è giusto che sia così: le prove devono essere molto consistenti e i magistrati devono seguire procedure giudiziarie molto precise per garantire i diritti degli imputati. Ma qualcuno davvero pensa che sarebbe meglio se non sapessimo nulla di tutta questa palude? I magistrati sono costretti dalla legge, durante un’inchiesta, a fornire prove prima di arrestare un sospetto criminale o al momento di chiedere il rinvio a giudizio. A questo punto, molte prove - comprese le intercettazioni - diventano di dominio pubblico. Anche se gli imputati possono essere eventualmente scagionati, è giusto che il pubblico abbia la possibilità di conoscere il loro contenuto.
In primo luogo questo dà la possibilità alla società di reagire al malcostume, di cambiare rotta, di sostituire ufficiali pubblici sospettati di reati o semplicemente colti in comportamenti poco etici ma forse non illegali. In secondo luogo, il fatto che certi passaggi importanti non avvengano nel buio è una garanzia del funzionamento del sistema giudiziario e politico. Siccome nessuno è perfetto, compresa la magistratura, è giusto che l’opinione pubblica serva come controllo sia alla magistratura sia al mondo politico. È la ragione per cui i processi avvengono in aule aperte al pubblico. In Italia, abbiamo visto tanti processi affossati e finiti nel nulla nonostante prove agghiaccianti.
Poi, lavorando senza malafede, la magistratura può archiviare un caso sulla base di considerazioni tecniche. Il lavoro del giudice non è di stabilire la verità; ha un compito molto più limitato: stabilire se le prove, raccolte e presentate secondo criteri molto precisi, sono sufficienti per portare a una condanna. Il tribunale - per proteggere lo stato di diritto e semplificare una realtà potenzialmente infinita - limita molto il tipo di prove che può esaminare. È costretto a scartare alcuni elementi di prova per ragioni puramente tecniche: prove raccolte illegalmente o la parola di testimoni che non si presentano in aula. E poi anche il semplice passare del tempo - specialmente in Italia con la sua legge sulla prescrizione - può vanificare un processo.
Questo non ha niente a che fare con la ricerca della verità che è il compito dello storico ma anche un diritto dell’opinione pubblica e quindi un dovere del giornalista. Molte prove hanno una grande importanza anche se non costituiscono un reato. Per esempio, intercettazioni fatte su Giuseppe Mandalari, un commercialista di Corleone considerato dalla polizia italiana come il fiscalista del boss Totò Riina, poco dopo le elezioni del 1994 hanno prodotto rivelazioni sconvolgenti. «Bellissimo, tutti i candidati amici miei e tutti eletti!», ha detto Mandalari dopo che il "Polo del Buongoverno" capeggiato da Berlusconi aveva vinto 54 seggi su 61 seggi in Sicilia. Poi nei giorni successivi tre politici della nuova coalizione vincente - due senatori e un deputato - hanno telefonato a Mandalari per ringraziarlo e uno gli ha mandato un fax con il curriculum di suo figlio. I tre parlamentari in questione non sono stati incriminati perché, evidentemente, non c’erano altre prove per dimostrare piena collusione con la mafia. E quindi con la nuova legge non sarebbero mai venute alla luce. Ma è giusto che siano state rese pubbliche anche in tempi rapidi. Il cittadino ha tutto il diritto di sapere se i suoi rappresentanti parlano con mafiosi o furfanti anche se fare ciò può non essere un reato.
Ormai, è un fatto acquisito, tra economisti e politologi, che la trasparenza sia fondamentale per una democrazia sana e che la trasparenza vada di pari con altre cose positive: la crescita economica, la libertà di stampa e lo stato di diritto. Nel novembre del 1999, la Transparency International ha rilevato che i costi di costruzione della metropolitana di Milano sono scesi del 57 per cento dopo l’inchiesta di Mani Pulite. Ma l’Italia da un po’ di tempo sta andando nella direzione sbagliata. Dal 2004 al 2009, l’Italia è scesa dal 42esimo al 63esimo posto nella graduatoria di Transparency. La corruzione, invece, cresce nel buio. Secondo la Corte dei conti, i contribuenti italiani perdono tra 50 e 60 miliardi di euro all’anno a causa della corruzione. Questa legge introduce buio dove finora c’è stata un po’ di luce.
Meditazione su una moneta da due euro...
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “Témoignage chrétien” n° 3398 del 27 maggio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
I miliardi di euro o di dollari volano a squadriglie sopra le nostre teste. Inquietanti come i bombardieri dell’ultima guerra. È per il nostro bene, si dice. Bisogna salvare l’Europa. Bisogna salvare la Francia. Da molto tempo hanno superato il muro del suono. Adesso vanno alla velocità della luce. Un clic, e sono qui. Un clic, e sono là. Chi li governa? Chi li conduce? Non si sa bene: è lui, sono io, sei tu... Tutt’a un tratto qui una fabbrica chiude, il cacao non vale più niente e il rame vale oro, una regione è senza lavoro, degli Stati minacciamo fallimento e i miliardari sono sempre più numerosi.
Ma chi mai ha inventato questo denaro che ci fa tanto male e di cui non possiamo fare a meno? Come la parola, come la scrittura, come la cultura, l’uomo ha inventato la moneta ed è la moneta che lo fa. Gli scambi necessari vi trovano la loro misura e vi cercano la loro giustizia. La moneta permette la scelta e apre alla libertà. Nel Vangelo, Gesù non chiede al giovane ricco di di dare i suoi beni ai poveri, ma di venderli e di darne ai poveri il ricavato. La moneta è incontestabilmente il passaggio in un mondo più umano. Si ha torto di parlare del materialismo del denaro. Esso appartiene all’ordine dello spirito.
Prima di essere chiamato Mammona da Gesù, il soldo che paga la giornata di lavoro, la dracma che viene perduta dalla donna, il talento che il servo riceve dal suo padrone, la doppia dracma che bisogna pagare al tempio o le monetine offerte dalla vedova ottengono la sua approvazione e il suo interesse.
Quando l’oro si mette a brillare per se stesso facendo dimenticare il sudore, la gioia, la fatica, la solidarietà, la riconoscenza, la sicurezza, la carità che gli danno il suo valore umano, comincia il suo ruolo di ingannatore. L’oro, diventando moneta, sfugge alla saturazione degli appetiti, al tempo necessario alla raccolta o alla produzione, al ritmo delle stagioni e alla diversità dei climi. Tende a diventare un al-di-là autonomo, paradiso e inferno, luogo di salvezza o di perdizione. Si divinizza.
Ecco allora il denaro nel suo orribile ruolo di Mammona, il divoratore di vita. È presente fin dall’inizio, nelle prime conchiglie che si sono scambiati gli uomini. È presente come Satana nelle prime parole pronunciate da Adamo ed Eva. Perché tale è la condizione dell’uomo che entra nell’universo dei segni: ciò che significa può ingannare, ciò che manifesta può nascondere, ciò che promette può deludere, colui che parla può essere un bugiardo. E grande è la tentazione di usare il denaro per comprare, per dominare, per spogliare, per possedere il concorrente a cui si fa credere di essere suoi amici. Diventa il nervo della guerra e spesso il suo movente. È il vitello d’oro delle nostre liturgie mondane. È il dio dai mille volti dei nostri panteon.
Prendiamo in mano una moneta. Come ha fatto Gesù per mostrarci ciò che dovevamo a Cesare. Se vi vediamo la fatica di una giornata di lavoro sotto il sole africano, il cibo quotidiano di un bambino bengalese o ciò che manca al nostro giovane vicino per arrivare alla fine del suo corso di studi, vedremo anche la fiducia collettiva che permette a quel gettone di metallo di acquisire valore, l’energia di tutto un popolo senza la quale la sua moneta sarebbe solo polvere, la solidarietà che distribuisce così a ciascuno un po’ della dignità umana. Il denaro è troppo prezioso per perderne il controllo.
Ddl intercettazioni, sì alla fiducia
Il Pd non vota: libertà massacrata
Il testo torna adesso alla Camera.
Bagarre in Aula, Schifani espelle
e poi riammette i senatori dell’Idv *
ROMA Il Senato ha approvato il ddl intercettazioni sul quale il governo aveva posto la fiducia. Sono stati 164 i voti favorevoli della maggioranza (tranne Mpa che non ha partecipato), 25 i contrari di Idv, Api, Udc e Radicali. I senatori del Partito democratico avevano abbandonato l’aula prima del voto. Il provvedimento passa ora all’esame della Camera.
* La Stampa, 10/6/2010
Potere/Responsabilità
di Carlo Galli
Il concetto di Responsabilità - da cui dipende quello di Cura (si ha cura di colui del quale si è responsabili) - ha a che fare con il rispondere: implica cioè una capacità di domanda, e di risposta, dalla quale ha
origine il prendersi Cura: è uno sporgersi dei soggetti oltre sé, dapprima
nella parola e poi nell’azione, fino all’incontro. Non necessariamente,
però, responsabilità implica un diritto di domanda e un dovere di risposta (responsività). Perché tale diritto e tale dovere si diano, è necessario
che ci sia la mediazione del riconoscimento.
Ad esempio, quando in Genesi 4, 8 Dio chiede ragione a Caino di Abele, Caino si dichiara irresponsabile, non riconosce la propria responsabilità verso Dio, e si rifiuta di
rispondere (se non con la sfuggente domanda “sono forse il custode di
mio fratello?”). Dio, d’altra parte, in Genesi 9, 5 promette che chiederà
conto del sangue versato anche dagli animali (rende così tutto il creato,
in particolare l’uomo, responsabile verso di Lui), mentre al contrario si
dichiara irresponsabile - si sottrae cioè al dovere di rispondere, è irresponsivo - davanti a Giobbe che gli chiede conto delle proprie sventure;
alla sua domanda Dio offre, per tutta risposta, l’esaltazione della onnipotenza divina e la sottolineatura dell’impotenza umana, in un’ulteriore
domanda (come aveva fatto Caino, ma ben più diretta e intimidatoria):
ubi eras quando ponebam fundamenta terrae?
Caino avrebbe dovuto rispondere a Dio, ma non comprendeva il fon- damento della sua obbligazione: essere responsabile di Abele davanti a Dio implicava anche riconoscere la insopprimibile alterità, paritetica, di Abele. Al Tre (Dio, Abele, Caino), che sarebbe scaturito da un atto di riconoscimento, Caino si è sottratto, rifugiandosi nella logica dell’Uno, del solipsismo. D’altra parte, Dio avrebbe potuto ma non dovuto rispondere a Giobbe, perché chi gli poneva la domanda - Giobbe - non riconosceva, in quel momento, la Sua insopprimibile alterità, e lo riteneva responsabile secondo una logica di causa-effetto, remunerativa e punitiva, autocentrata, che nel caso concreto era del tutto fallace (è Satana che colpisce Giobbe). Se risponde, Dio risponde per Grazia, non per responsabilità.
Se responsabilità è così un dialogo al quale è necessaria la parità fra gli interlocutori (la responsabilità sta insieme alla responsività, da entrambe le parti); se le è pertanto necessario il riconoscimento, cioè quell’autotrascendimento (non però un auto-annullamento) del Sé che rende possibile la relazione con l’Altro, il prendersi Cura alla pari; allora responsabilità è un atto di libertà, un’apertura del solipsismo, dell’interesse rivolto esclusivamente verso di sé. Nel dominio dell’etica questa apertura si dà nella forma del diritto e del dovere, al di fuori delle relazioni di potere, mentre in politica il potere è sicuramente implicato. Se invece la risposta alla domanda accade in modo necessario - non come decisione di apertura - non si tratta di responsabilità bensì di un automatismo, di un riflesso condizionato. Se infine la risposta alla domanda non c’è, allora questa mancanza di relazione è la libertà dell’Anarca, o dello stato di natura.
La questione della responsabilità - la responsabilità come nesso, mediato dal riconoscimento, di questione e risposta, con la conseguente reciproca Cura - va quin- di posta così: a chi, e perché, possiamo fare domande? A chi, e perché, dobbiamo rispondere? Ovvero: chi è responsivo verso chi, e perché? Chi è responsabile di chi o di che cosa, perché? Chi, infine, si prende Cura di chi, a quali fini, con quali limiti e modalità?
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È vero che sotto il profilo intellettuale già il mondo antico aveva elaborato la teoria di una responsabilità libera, coincidente con l’umanità; l’affermazione di Terenzio (Heautontimoroumenos, v. 77) homo sum, humani nihil a me alienum puto ne è la prova. Ma, dal punto di vista politico, la responsabilità premoderna si struttura essenzialmente come auctoritas: quella della famiglia, della gens, dell’Urbs, e poi quelle della respublica christiana; in età cristiana, particolarmente, il vertice di un legame sociale organicistico, superiore al singolo, è responsabile davanti a Dio del suo prendersi cura dei sudditi, per farli vivere e per farli crescere secondo la loro ‘vera’ natura. In parallelo a questo dovere di Cura del superiore, il singolo ha solo un dovere di risposta nella forma dell’obbedienza: il potere non può essere interrogato dal basso, e non ha il dovere di rispondere (è responsabile ma non responsivo). -Fino al XVIII secolo il termine polizey esprimeva la logica profonda di questa politica che vede il monarca responsabile per il suddito davanti a Dio; una politica, quindi, che implica la minorità dei sudditi e l’azione politica paternalistica (tanto aspramente criticata da Kant), la censura, ecc.
La modernità, nel suo versante proto-liberale e razionalistico, non è altro che - primariamente - l’idea (e la prassi che ne discende) che la responsabilità vada
ridefinita e molto ridimensionata: nessuno ha diritto di rivolgere domande e di ottenere risposta in via autoritativa. Anzi, l’uomo è immaginato autonomo, responsabile
di sé: si interroga e si risponde da sé, scegliendo a proprio rischio la propria via,
per nulla fissata a priori. Infatti, la modernità è caratterizzata dall’assenza di un
Ordine dell’Essere condiviso, di gerarchie riconosciute, di quell’orizzonte comune (e
cogente) di civiltà che era il fulcro della responsabilità premoderna. Un uomo solo
e isolato, quindi, è quello moderno; che in realtà è anti-Prometeico, poiché rifiuta
la grandiose visioni dell’Assalto al Cielo e della redenzione dell’umanità come anche
gli interrogativi ultimi che, privi di soluzione, sono solo portatori di angoscia (non
a caso nel Leviatano di Hobbes, al XII capitolo, intitolato Della religione, Prometeo,
legato al Caucaso, guarda troppo avanti ed è torturato quindi non solo nel corpo ma
anche dalla consapevolezza del suo triste futuro).
Un uomo attento a sé, alla pro-
pria contingenza, che gioca la propria autonomia e libertà contro il paternalismo e
l’autorità, ma che non riconosce l’Altro: lo incontra e lo teme, o ne ha fastidio, o ne
ha bisogno; ma se ne fa un problema solo esterno, non esistenziale né morale. Anche la filosofia politica moderna, quindi, conosce la responsabilità, ma la interpreta
come un’obbligazione che il singolo impone a se stesso, col costruire egli stesso la
Legge (la rappresentanza hobbesiana ne è l’esempio più calzante) a cui rispondere.
Soprattutto, questa responsabilità è un’obbligazione giuridica che non consiste nel
render conto a una persona specifica, a un Altro: si risponde alla Legge, creata dal
potere politico sovrano, rappresentante dei soggetti, a sua volta responsivo verso i
cittadini - almeno perché da essi legittimato. Anzi, in generale il soggetto moderno
è tanto poco sollecitato a uscire dal proprio solipsismo metodologico che rischia di
cadere (e la tarda modernità ne è la prova), in quella negazione della responsabilità
che è l’informe narcisismo dei consumi.
Il potere politico moderno, da parte sua, non è, di conseguenza, paterno: anzi, è costruito dagli uomini - separati tra di loro (Hobbes) e incapaci di promessa efficace - per uscire dallo stato di natura e per essere protetti sotto il profilo dei diritti naturali (da trasformarsi in civili e politici), ma anche per essere lasciati liberi per ogni altro aspetto. Il potere corre piuttosto il rischio di essere un agire tecnico, che è responsabile tanto quanto un automa (cioè per nulla responsabile); che cioè è responsivo perché obbedisce alla programmazione ricevuta, e nulla più; e che quindi ha Cura dei cittadini nel senso che ne protegge meccanicamente la vita e i beni, come da loro gli è richiesto, sottomettendoli a un’unica legge. Un automa costruito per essere dispensatore di Cura non individualizzata ma universale a priori; e che chiede a sua volta di essere oggetto di una responsabilità solo tecnica, di ricevere cioè le dovute manutenzioni, e di essere utilizzato razionalmente. Questa è la responsabilità ‘verticale’ che esige lo Stato-macchina moderno; mentre la responsabilità ‘orizzontale’ è, all’interno di questa logica, che ciascuno sappia fare oculatamente i propri interessi individuali, ossia non infranga la legge nel rapportarsi agli altri, e sia capace di calcolare ragionevolmente all’interno dello spazio del mercato. L’etica della responsabilità, opposta da Weber (La politica come professione, 1919) a quella della convinzione, è anch’essa impersonale, è un’analisi delle compatibilità sistemiche delle conseguenze delle azioni individuali: è un interesse personale temperato da interesse per un’istanza superiore di valore strutturale (lo Stato e la sua potenza). In generale, nella modernità la responsabilità è personale, è una scommessa su se stessi, è un confrontarsi solitario con la Legge (umana); la responsabilità si estende ad altri soltanto in ambiti non politici (la famiglia) e in circostanze che implicano la incapacità di qualcuno (minore o minorato) di essere responsabile di sé.
Naturalmente, c’è anche un’altra autonarrazione della modernità, più complessa
di quella razionalistica, e ad essa alternativa: quella dialettica. Che vede gli uomini
non separati tra di loro (e uniti solo artificialmente nella legge) ma relazionalmente
interdipendenti in un riconoscimento (tematizzato esplicitamente come tale) che
si dà non nell’orizzonte aprioristico del Dio della metafisica, sì nella storia e segnatamente nel lavoro. È da questo e dal potere che scaturisce dalle sue connaturate
asimmetrie (le figure fenomenologiche del servo e del signore) che è reso possibile il
legame sociale; il potere non è un artificio razionale ma una struttura - inevitabile e
al contempo determinata - che attende di essere resa trasparente e umanizzata nella
storia dello Spirito (Hegel). In quest’ottica in cui il riconoscimento è un progressivo farsi dei soggetti (un prendersi Cura di Sé e degli Altri) attraverso la dialettica,
la contraddizione, la responsabilità è l’interrogarsi e il rispondersi concreto degli
uomini, ovvero il loro sfidarsi e confliggere, sempre più consapevole della umana
spiritualità del reale; e implica quindi un dovere di emancipazione e di progresso,
una responsabilità davanti allo Spirito (che è l’insieme delle relazioni dialettiche di
riconoscimento, rese consapevoli). E questo rispondere Sì alla necessità dello sviluppo dialettico dell’umanità, questa responsabilità verso l’avvenire, è, in Marx e
nel pensiero che ne deriva, la responsabilità verso il comunismo, e verso la lotta per
realizzarlo.
Si tratta quindi di responsabilità del singolo verso dimensioni sovrapersonali e progressive, quali sono lo Spirito, la storia e il comunismo (a cui si affianca,
in ambito non dialettico, la responsabilità del singolo verso la Nazione - un’altra
entità sovraindividuale che però è spesso, anche se non necessariamente, regressiva
e arcaica -). Una responsabilità, in ogni caso, verso istanze che da parte loro non
sono responsive, che tendono a nullificare il soggetto, riportandolo alla dimensione
dell’obbedienza, o della conciliazione col corso del mondo.
L’età moderna nega quindi ogni responsabilità a priori; ma pare destinata a oscillare fra il solipsismo e la tecnica, oppure il riemergere di nuove dimensioni dell’autorità (Legge, Storia, Progresso, Nazione): un’autorità che divide (la legge della tradizione razionalistica) o che unisce (il pensiero dialettico e l’ideologia della nazione), ma che è impersonale e immanente, a differenza di quella della tradizione cristiana. Una responsabilità che non si manifesta verso l’Altro, ma, nel versante dialettico, verso un Assoluto (è qui, semmai, e non nel razionalismo, l’aspetto prometeico del Moderno: una responsabilità priva di concretezza che diviene facilmente un incentivo alla irresponsabilità, all’obbedienza al Partito o al Capo, anche alle estreme inumane conseguenze).
Infine, la modernità può interpretarsi - nel pensiero negativo - come estranea sia al calcolo sia al dialogo; come sottratta a qualsiasi riconoscimento. E come fondata sul rapporto abissale (cioè infondato) amico/nemico (Schmitt), un rapporto che mette in causa il soggetto, il quale non può chiudersi in se stesso e che anzi deve specchiarsi nell’Altro. Anche da questo punto di vista, il pensiero negativo ha l’andamento di un liberalismo rovesciato: là la responsabilità è negata da un individualismo che scivola nel narcisismo; qui è negata da un rispecchiamento, non in sé quanto piuttosto in un Altro che è il nemico, e che quindi non genera alcun legame. Infatti, in questo rispecchiamento nessuno dei due si costituisce come persona, nessuno dei due interroga l’altro, né lo riconosce; piuttosto, si tratta di un muto rispecchiarsi di due enigmi, di due incomprensioni radicali (Der Feind ist unsere Frage als Gestalt). E quindi nel rapporto amico/nemico è implicita un’incompletezza del soggetto che non è autotrascendimento, né apertura; un legame negativo e non razionale che - poiché nulla è in comune - non dà luogo ad alcuna responsabilità né ad alcuna responsività.
Potere/Responsabilità
di Carlo Galli *
Davanti a queste tre modalità della responsabilità nella politica moderna - tutte aporetiche, benché diversamente - si comprende perché Nietzsche (Genealogia della Morale, 1887, II, 2) parli della necessità di allevare un tipo d’uomo che sappia fare promesse, ma non “l’uomo necessario, uniforme, uguale fra gli eguali”, sì l’uomo concreto - “l’individuo sovrano”, non seriale, non calcolabile né calcolante - capace di assumersi responsabilità verso altri uomini concreti, in modo libero, cioè non sospinto dalla necessità, né dal dovere di rispondere a una qualche domanda. Un uomo - un’umanità, un sistema di relazioni - estraneo alla logica della domanda e della risposta, ma anche della Cura e dell’Autorità. Una provocazione intellettuale, quella di Nietzsche, che allude a un riconoscimento disinteressato e non servile (semmai signorile) dell’Altro come via d’uscita dalle aporie moderne della responsabilità.
Quella capacità di fare promesse è individuata da Hans Jonas (Il principio responsabilità, 1979) - che opera una sorta di ri-moralizzazione di Nietzsche e di Heidegger - nella stessa struttura ontologica del Mondo: l’essere responsabile deriva immediatamente dall’essere-nel-mondo. Per lui, infatti, il muto stupore davanti al mondo è già un’obbligazione: il mondo è costitutivamente un appello. La responsabilità è quindi un dovere ontologico, non logico: contro la legge di Hume che vieta di dedurre un dovere dal semplice essere, l’esserci della Vita è quindi già in sé una domanda, a cui il soggetto può e deve liberamente rispondere, nelle più diverse modalità.
Naturalmente, la responsabilità archetipica è quella dell’uomo per l’uomo, che dà voce alla trama relazionale dell’Esserci, alla responsabilità dell’Io per gli Enti nella forma della Cura: alla responsabilità pertiene quindi la consapevolezza tanto del limite (senza la quale c’è solipsismo, egolatria) quanto dello scopo, che non è un universale prometeismo ma che consiste nel fatto che è Bene che la potenzialità relazionale del mondo trovi attuazione. Al contrario, nemico della responsabilità è il nichilismo, ossia tanto la pretesa (razionalistica) che oltre il soggetto non ci sia nulla, quanto la nullificazione dialettica del soggetto davanti a un’Autorità universale e assoluta, quanto, ovviamente, la teorizzazione del ‘nulla in comune’ propria del pensiero negativo.
Ma c’è anche un altro modo di intendere la responsabilità, tanto quella verticale del potere verso di noi, e nostra verso il potere, quanto quella orizzontale di ciascuno di noi verso gli altri. Un modo concreto e personale - non assoluto e astratto - che passa attraverso la politica e non la morale, e che implica una re-interpretazione della modernità, e della sua origine a due lati: da una parte, infatti, è vero che nel Moderno il soggetto è tendenzialmente solipsistico e anomico, sordo alla responsabilità, e che quindi vede la politica in modo meccanico (oppure che, per converso, sovraccarica la politica di istanze tanto responsabilizzanti da essere deresponsabilizzanti, tanto assolute da schiacciare ogni singolarità); ma d’altra parte è anche vero che proprio l’età moderna pone come centro e obiettivo della politica il libero fiorire, in uguale dignità, dei diversi progetti di vita umana, nella loro piena e incoercibile diversità (C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, 2010).
In quest’ottica, il soggetto immaginato dalla modernità è in se stesso un appello, una pretesa di fiorire rivolta a sé e a tutti (il soggetto moderno sa di non poter volere istituire supremazie o gerarchie qualitative fra gli umani); e poiché ciò vale per ogni soggetto, l’appello è tanto individualizzante quanto generalizzabile. Il soggetto moderno non può non volere la fioritura di tutti e di ciascuno, e non può quindi non sentirsi responsabile verso questo obiettivo, universale ma anche concreto e determinato. Insomma, i singoli sono l’un l’altro responsabili - moralmente e politicamente - di questo progetto, che non li trascende come un’autorità, che non li affratella forzosamente sotto un unico Padre, ma che è nell’origine stessa (troppo spesso dimenticata) e nella finalità (troppo spesso obliterata) della politica moderna. Che della modernità è la ragion d’essere, e al contempo l’energia propulsiva: l’essere e il dover essere. Analogamente, il potere moderno è responsabile, verso i cittadini, di una Cura non autoritaria, ma per dir così umanistica e liberale (appunto, rivolta al libero fiorire dei singoli, che non devono essere coltivati o allevati, ossia fatti fiorire secondo una loro ‘natura’ presunta ‘vera’, ma trattati gli uni come Altri rispetto a ogni altro, cioè come diversi in pari dignità). Ed è anche ‘responsivo’, ovvero può e deve essere chiamato a rispondere delle sue azioni politiche, se esse siano o non indirizzate a questo obiettivo (tutt’altro che facile e scontato, anzi, probabilmente irrealizzabile ma ugualmente cogente come orizzonte trascendentale dell’agire).
Ciò che nel Moderno può diventare nichilistico solipsismo è qui libera contingenza; ciò che può diventare meccanismo è responsabilità e responsività; ciò che può essere astrattezza dell’ideale a cui obbedire diventa la consapevolezza che la responsabilità e la libertà coincidono, poiché sono due nomi delle stesse relazioni concrete fra individui che si riconoscono diversi ma pari in dignità; relazioni, quindi, di collaborazione, di contesa e anche di conflitto - con l’esclusione della violenza e del dominio: un’esclusione del tutto logica, che può e deve diventare politica - nelle quali consiste una coesistenza umana degna dell’uomo. Il riconoscimento, qui, non è infastidito incontro, e non è neppure mediato dal lavoro e dal potere: è ontologico (ossia immanente a questa interpretazione moderna del soggetto) e politico al contempo, perché nasce dalla singola, comune e concreta consapevolezza dell’esser uomo, e orienta il potere al fine del libero fiorire degli uomini, in uguale dignità. Il riconoscimento, qui, dà vita a una responsabilità immanente (anch’essa un’ontologia che è in sé politica) a cui non ci si può sottrarre: l’ontologia della libera fioritura del singolo, che implica la continua domanda e risposta a noi stessi, e simultaneamente a ogni altro, sul nostro essere capaci di vivere liberi in dignità, e di vivere fra liberi in uguale dignità. È, questa, come si vede, la responsabilità verso la democrazia: verso l’ideale concreto, umanistico, civile, istituzionale, potestativo, del reciproco riconoscimento come uguali e come diversi, che non può non accomunarci pur senza legarci, che non può non interpellarci pur senza comandarci. È la politica della fedeltà a noi stessi, del prenderci Cura (senza interferire) tanto dell’Io quanto dell’Altro, di tutti e di ciascuno.
*Doc. Regione Basilicata - Quaderni (FestivalFemminile)