Berlusconi rilancia sulla giustizia:
«Riforma costituzionale e referendum»
Il premier: «Prendere il toro per le corna».
Sul lodo Alfano: «La Consulta riapre la caccia all’uomo» *
SOFIA - «Bisogna prendere il toro per le corna». Silvio Berlusconi rilancia il tema della riforma della giustizia. «C’è un grande lavoro da fare» spiega il premier, secondo il quale una «democrazia vera» non può essere «soggetta al potere di un ordine che non ha legittimazione elettorale». Per questo, continua il presidente del Consiglio da Sofia (dove ha affrontato anche il tema Rai), c’è bisogno di una «riforma costituzionale». «Ricorreremo al popolo - annuncia il premier - Siamo pronti al referendum». E a chi gli chiede se ricercherà larghe intese in Parlamento replica: «Faremo come sarà possibile fare». Tempi lunghi, in ogni caso? «Non è che le rivoluzioni si possono fare in tempi brevi» afferma Berlusconi. E gli alleati? Sono tutti concordi? «Penso di sì, siete voi che vedete discordie».
SECONDO GRADO - Il capo del governo ribadisce poi un suo vecchio «pallino»: in caso di assoluzione è sbagliato portare un cittadino ancora nelle aule giudiziarie. «Ricordo - afferma - una decisione del Parlamento che a me pare doverosa e giusta. Ossia quella in base alla quale un cittadino sottoposto all’accusa di aver commesso un reato e ritenuto innocente non possa essere richiamato da un pubblico accusatore in una ulteriore fase di processo e magari ancora in un’altra fase ancora che riguarda la Corte costituzionale». Il premier ripete più volte il concetto: «Ora, naturalmente, per un pm questo è il suo mestiere. Normalmente succede che i pm quando non vedono accolta dai giudici la loro tesi accusatoria ricorrono in appello e se quell’appello respinge la loro tesi ricorrono in Cassazione. Per loro è il mestiere, per un cittadino è la distruzione della propria vita per se e per la propria famiglia».
LODO ALFANO - Berlusconi torna poi sulla bocciatura del lodo Alfano da parte della Corte Costituzionale: «Una decisione assolutamente non condivisibile» afferma. «Praticamente la Corte - spiega il premier - ha detto ai pm rossi di Milano: ’riaprite la caccia all’uomo nei confronti del premier’».
FINI - Più tardi, è Gianfranco Fini a dire la sua sulla possibilità di riformare la giustizia. «Quando si fanno le riforme - afferma il presidente della Camera - bisogna ricordare che le Istituzioni sono di tutti» e non dimenticare «che una riforma a maggioranza è già stata fatta e poi è stato attivato il referendum», previsto dalla Costituzione, «che l’ha bocciata». «Ci sono alcuni elementi come la fine del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, il Senato delle Regioni su cui c’è la possibilità di fare riforme condivise. Se c’è la volontà, lo si fa». Fini quindi ricorda: «I costituenti hanno previsto le modifiche costituzionali attraverso l’articolo 138, che include anche un referendum, nel caso in cui la maggioranza sia inferiore ai due terzi e, quindi, non sia più ampia di quella di governo». A proposito delle polemiche degli ultimi giorni, il presidente della Camera aggiunge: «Ci sono istituzioni di garanzia che non devono essere oggetto di polemiche di natura politica. Ci sono altre istituzioni che invece naturalmente interagiscono tra di loro, dando così vita alla dialettica politica».
SCHIFANI - Interviene anche il presidente del Senato, Renato Schifani: «Sul tema della giustizia occorre tutti insieme, maggioranza e opposizione, chiudere la lunga fase di transizione che ormai dura da 15 anni, per ristabilire attorno a tutte le istituzioni, nessuna esclusa, prestigio, autorevolezza, rispetto». «Il rinnovamento e la riforma della giustizia - prosegue - non sono contro la magistratura, ma devono essere da tutti interpretati e indirizzati verso l’obiettivo di esaltare e valorizzare il ruolo, l’autorevolezza e il prestigio di chi assolve la propria missione di servitore dello Stato. Riformare la giustizia non contro qualcuno, ma a favore di tutti i cittadini».
DONADI - Dura la reazione alle parole del Premier del capogruppo Idv alla Camera Massimo Donadi: «Tutte le forze democratiche devono essere unite nell’opposizione a Berlusconi. Il capo del governo vuole distruggere la credibilità delle istituzioni e le garanzie costituzionali. Un’operazione in puro stile peronista che punta ad instaurare la dittatura della maggioranza, eliminando il sistema di pesi e contrappesi tra poteri dello Stato».
* Corriere della Sera, 16 ottobre 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NAPOLITANO= ITALIA ...
VIVA NAPOLITANO, VIVA L’ITALIA!!!
MORALITA’ E INTERESSE GENERALE QUASI PERSI, DOPO 15 ANNI DI ATTACCHI DA PARTE DI UN CITTADINO (E DEI SUOI SOSTENITORI) CHE SI E’ MESSO A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" E A GRIDARE CON TUTTI I SUOI POTERI MEDIATICI. "FORZA ITALIA". CON TUTTE LE CONSEGUENZE..
L’ITALIA INTERA - DI DESTRA, DI SINISTRA, E DI CENTRO - TRUFFATA E BUTTATA NELLA INDECENZA CIVILE E SOCIALE, POLITICA E CULTURALE.
NAPOLITANO E SOLO NAPOLITANO E’ L’UNICO E LEGITTIMO DETENTORE DELLA PAROLA "ITALIA" - SOLO IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!!
VIVA L’ITALIA, VIVA NAPOLITANO!!!
FEDERICO LA SALA
Fini e il male minore
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 15/11/2009)
Da quando ricopre la terza carica dello Stato, Gianfranco Fini ha un’aspirazione che lo domina, costante: quella a esser statista oltre che uomo politico, e a scorgere nelle trasgressioni istituzionali di Berlusconi pericoli che lui, anche se solitario, vuol diminuire o combattere. Il suo magistero, come quello di Napolitano, è delicato: egli rappresenta la nazione, non può esser presidente di parte. Ma Fini ha osato molto, ultimamente, fino a praticare quella che Albert Hirschman chiama l’autosovversione: esprimendosi su temi essenziali come l’immigrazione, i diritti civili, il testamento biologico, la laicità. Il libro che ha appena pubblicato (Il futuro della libertà. Consigli non richiesti ai nati nel 1989, Rizzoli) conferma una volontà precisa, e il desiderio di pensare la democrazia italiana nel tempo lungo, prendendo congedo dai dizionari delle «parole neoideologiche» e dei luoghi comuni («Il caso di Eluana Englaro ci ha dimostrato in modo eclatante che la politica italiana tende ancora a presentarsi, nei momenti di più aspro confronto, non secondo le linee contemporanee del “fare”, ma secondo le linee novecentesche dell’ “essere”, vale a dire le linee in definitiva rassicuranti, ma immobili, dell’ “identità”»).
Proprio perché ha deciso di scandagliare nuovi mari, vorrei porre al presidente una domanda di fondo, attorno a un assioma apparentemente importante che lo guida: se sia giusto, nonché utile, perseguire sistematicamente il Male Minore, nella resistenza al degrado delle istituzioni democratiche. Se davvero la situazione sia così degradata e povera di alternative, da imporre questa classifica dei mali, basata sulle categorie economiche del più e del meno. Nelle dittature la ricerca del male minore è spesso la sola via, anche se non necessariamente la più feconda.
Spesso è un camuffamento per iniziare i recalcitranti; solo di rado ingenera i casi Schindler, che accettò il nazismo salvando 1100 ebrei. Ma nella democrazia? L’economia dei mali è usanza antica, ma ha senso farne un assioma?
L’interrogativo si pone perché tutta la politica italiana, da anni, ruota attorno a questo concetto. L’hanno interiorizzato le opposizioni, svariati giornali, anche la Chiesa. Lo difendono i centristi (nuovi o vecchi): spesso moderati per non-scelta, per calcolo breve, per conformistica aderenza all’opinione dominante. L’ultimo esempio di politica del male minore è quello di Fini nell’incontro col presidente del Consiglio del 10 novembre: per evitare il peggio la prescrizione rapida, cui Berlusconi assillato dai processi Mills e Mediaset teneva molto il presidente della Camera gli ha concesso il processo breve, che è una prescrizione camuffata e accorcia i procedimenti con l’eccezione di alcuni reati (non i più gravi d’altronde, essendo escluso anche il reato di clandestinità: «una semplice contravvenzione punibile con banale ammenda», commenta Giulia Bongiorno, deputato, vicina a Fini).
La giustizia lenta affligge gli italiani, ma il rimedio non consiste nel dichiarare che il processo si estingue automaticamente dopo tre gradi di giudizio per la durata complessiva di 6 anni, bensì nell’introdurre preliminarmente le riforme che consentono di abbattere i tempi. Riforme da applicare a monte, senza toccare i processi pendenti. Non si tratta di troncare i processi, ma di accelerarne il corso. Dichiarare estinto un processo perché dopo due anni non c’è sentenza di primo grado è di una gravità estrema. In certi casi, soprattutto per reati delicati con rogatorie internazionali, due anni davvero non bastano. Scansare il male maggiore è buona cosa, ma quello minore ambiguo, sdrucciolevole non è detto dia frutti.
Classificare i mali e le colpe è attività millenaria, in teologia e filosofia. Cominciò il cristianesimo nel IV secolo a graduarli, con Agostino, introducendo nella valutazione il calcolo economico (il filosofo Foucault parla di teologia economica). C’erano colpe più o meno nefaste, e alcune erano talmente nefaste che in assenza di alternative la Chiesa tollerava mali minori. Nell’«economia del male», sosteneva Agostino, meglio le prostitute che l’adulterio; meglio uccidere l’aggressore prima che egli uccida l’innocente. La guerra, se proporzionata e volta al bene, divenne giusta. Il fine comunque rimaneva determinante, e il fine era il perfezionamento e l’imprescindibile trasformazione dell’uomo cui esso conduce.
Secolarizzandosi, tuttavia il male minore non punta più alla perfezione-trasformazione, ma all’ottimizzazione dell’esistente e del male.
Cessa d’essere tappa d’un cammino accorto, si fa consustanziale alla democrazia, addirittura suo sinonimo. Lo descrive con maestria Hannah Arendt, negli Anni 50 e 60, con ragionamenti che sono ripresi oggi da Eyal Weizman, l’architetto israeliano direttore del Centre for Research Architecture a Londra, in un eccellente libricino intitolato Male Minore (Nottetempo 09). Marco Belpoliti l’ha recensito su La Stampa il 28-8-09.
Accade a ciascuno di cercare il male minore, nella vita individuale e pubblica. È il momento in cui urge, tatticamente, scongiurare il precipizio nel peggio. In politica spingono in questo senso la prudenza, l’astuzia. Ma il male minore rischia di installarsi, di divenire concetto stanziale anziché nomade: non ambivalente paradosso ma via aurea, con esiti e danni collaterali che possono esser devastanti, non subito ma nel lungo periodo. A forza di mitigare l’iniquità agendo dal suo interno, in effetti, sorgono insidie che la Arendt spiega bene: «Lungi dal proteggerci dai mali maggiori, i mali minori in politica ci hanno invariabilmente condotti ai primi».
«Ossessionati dai mali assoluti» (Shoah, Gulag) ci abituiamo a non vedere il nesso, stretto, tra male maggiore e minore.
La mente stessa muta, quando il male minore si cristallizza in norma.
Chi l’adotta tende a scordarsi, dopo, che in fin dei conti ha optato per un male. Nella memoria, l’opzione si trasfigura e si naturalizza, in politica, trasformando l’eccezione in regola: «Una misura meno brutale scrive Weizman è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente». E applicandole con crescente frequenza, «qualsiasi senso dell’orrore verso il male si perde», non solo nei politici ma nell’insieme della nazione.
Quando Fini sceglie un piccolo male per evitare al peggio, è pur sempre nel male che resta, anche se forse a disagio: con effetti infausti sul futuro cui tiene tanto. Una successione di piccoli mali finisce infatti col produrre un male grande raggiunto cumulativamente, non fosse altro perché è impossibile calcolare l’estensione dei loro guasti.
Fini e Napolitano vengono da esperienze non dissimili. Ambedue hanno accostato i mali assoluti, avendone condivise le ideologie, e con coraggio ne sono usciti. Ambedue hanno scoperto le virtù del moderatismo pragmatico, del male minore. Ma il male minore è una trappola, se il suo essere anfibio e la miopia del pragmatismo son taciuti. Il male assoluto, paradossalmente, attenua la vigilanza: «Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente d’aver scelto a favore del male», dice la Arendt. Dimentica che l’eroe delle tragedie greche è sempre alle prese con un dilemma: con due mali più o meno terribili, con le due corna del toro infuriato. La via di Robert Pirsig, evocata da Weizman, è non privilegiare un corno piuttosto che l’altro, ma prendere il toro per le corna (Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi 1981). Il che significa: disobbedire, rifiutare il miserando gioco della torre. Oppure: «Si può gettar sabbia negli occhi del toro; si può tentare di addormentare il toro con una ninna nanna; e infine ci si può rifiutare di scendere nell’arena».
La Stampa, 17/10/2009 (18:26)
RIFORME - E’ SCONTRO APERTO
Giustizia, le toghe contro Berlusconi
"La democrazia del Paese è a rischio"
L’Anm dichiara stato di agitazione.
Mancino frena il piano del governo
«Assurdo un Csm sotto il ministero»
Duro Alfano: «Guerra preventiva»
ROMA Cresce la polemica sul fronte giustizia. Ieri il premier Berlusconi ha annunciato l’intenzione di andare avanti sulla strada di una riforma costituzionale «anche a costo di arrivare ad un referendum». Oggi arriva la replica di Anm e Csm.
«A chi dice che bisogna fare un doppio Csm io dico che non si può, perchè uno dei due dovrebbe andare sotto al ministero della Giustizia, il che è assurdo» è la reazione del vicepresidente dell’organo di autogoverno dei magistrati, Nicola Mancino. «O si è giudici e si è indipendenti, oppure si è qualcos’altro e bisogna vedere che cos’è questo qualcos’altro». «Al momento non c’è un testo di riforma - ha spiegato Mancino a margine di una conferenza organizzata dall’Ordine degli avvocati di Avellino - e quindi non si può esprimere un parere. Ci sono propositi, molti velleitari, molti duttili e prudenti, molti altri non ancora definiti. Quando ci sarà una proposta definitiva, che è nei poteri del Governo formulare, allora noi ci esprimeremo».
Ancora più dura la reazione dell’Anm che ha dichiarato lo stato di agitazione e convocazione di assemblee in tutti i distretti giudiziari per decidere le future iniziative di protesta da adottare, non escluso lo sciopero. Il parlamentino dell’Anm parla di riforme «punitive» nei confronti della magistratura. Le iniziative sono state decise all’unanimità e con un documento che definisce «stupefacente e vergognoso» il fatto che il giudice Raimondo Mesiano, «reo unicamente di aver pronunciato una condanna della Fininvest al pagamento di una somma di denaro in una controversia civile, venga spiato e inseguito dalla rete televisiva di tale gruppo mentre compie le proprie attività quotidiane», il tutto per «denigrare e svilire la sua persona».
Dura la reazione del ministro Alfano che parla di «sapore di una guerra preventiva alle riforme», oltre ad essere «inspiegabile, sorprendente e dunque pretestuosa». Ma per il il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara «è a serio rischio la tenuta democratica del Paese» a introdurre l’argomento al parlamentino del sindacato delle toghe. La preoccupazione è massima e riguarda non solo le «aggressioni alle massime autorità del Paese», come dice il segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, ma anche «l’intimidazione» al giudice del tribunale civile di Milano Raimondo Mesiano, e le riforme «brandite come una clava» e finalizzate a ridurre l’indipendenza del pubblico ministero, sottoponendolo al potere esecutivo. La magistratura è unita. E i rappresentanti di tutte le correnti parlano espressamente di «emergenza democratica»; anche il gruppo più moderato, Magistratura Indipendente, che in questo momento è all’opposizione del governo dell’Anm, ma che è pronto a fare una battaglia comune a difesa dell’indipendenza della magistratura.
Il parlamentino ha dunque dato «un segno tangibile di protesta per ciò che sta accadendo», come auspicato dallo stesso Palamara. L’allarme delle toghe è dunque molto alto per le «aggressioni» non solo alla magistratura ma anche alle massime autorità di garanzia del Paese. «Sono state rivolte accuse di partigianeria alla Corte costituzionale e al capo dello Stato», dice Cascini che definisce poi «l’intimidazione» rivolta al giudice Mesiano, che ha condannato la Fininvest al risarcimento in favore della Cir di De Benedetti, «un messaggio per tutti: chi esercita un potere in maniera indipendente stia attento ai suoi scheletri; chi ha la televisione, i giornali, il potere mediatico può distruggere una persona». Un messaggio «molto più grave, rispetto alle riforme annunciate in materia di giustizia». «In gioco non è la sopravvivenza dell’ordine giudiziario, ma il destino della democrazia», osserva il segretario di Unicost Marcello Matera, che rivolge un appello all’unità per una «mobilitazione culturale e istituzionale, a difesa delle fondamenta dello Stato democratico».
E di «vera emergenza democratica» parla anche Rita Sanlorenzo, che sottolinea che «mai si era arrivati a questo punto». «C’è un totale intolleranza per il ruolo di tutte le istituzioni di garanzia, non solo per la magistratura», rilancia Valerio Fracassi, segretario del Movimento per la giustizia, che propone «uno sciopero per la democrazia». «Quello in atto è l’attacco finale definitivo», afferma a sua volta Antonietta Fiorillo, esponente di Magistratura Indipendente, che invita il parlamentino a lanciare un «messaggio forte: noi magistrati non ci faremo intimidire».
Volontà di potenza
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.10.2009)
Il nuovo discorso bulgaro di Berlusconi è solo apparentemente più conciliante del diktat che sette anni fa attuò una prima pulizia etnica del video. Anzi, contiene elementi per certi versi ancora più inquietanti.
Si ammette, certo, la facoltà della stampa, e dei media in generale, di criticare il potere politico; ma questo è immediatamente personalizzato nella figura del premier, e nella sua asserita volontà d’amore e di giustizia, una volontà talmente universalistica da consentirgli di accettare (viene da dire ‘tollerare’) anche le critiche, purché, naturalmente, restino "nei confini della moderazione"; in questo caso possono essere "usate per colmare le mancanze" dell’azione di governo. Se vanno oltre, però, se cioè non sono "moderate" - se non condividono le cose che il governo fa, anziché limitarsi a criticare il modo in cui le fa - allora diventano calunnie, che "non fanno piacere a chi è calunniato"; e che per di più si ritorcono provvidenzialmente contro il calunniatore, data l’istintiva simpatia che un popolo di grande intelligenza e saggezza come l’italiano prova per i perseguitati. La critica o è ‘costruttiva’, e accetta il terreno concettuale e valoriale del potere, o è una cattiveria, e lede il vincolo sentimentale che unisce la società, e che trova espressione nell’amore (ricambiato) del leader per la "gente".
A fronte di ciò, nel discorso bulgaro si parla di «preoccupazione per l’opposizione che ci ritroviamo in Italia», motivo non ultimo, insieme alla condivisione di valori e programmi, perché l’alleanza di governo sia salda. Il nemico è alle porte, insomma, e anzi sta per entrare: da qui l’esigenza di una compatta unità delle forze nostre. Improvvisamente l’immagine della società amorevole è sostituita da accenni di guerra e di oscuri fantasmi. Il che significa, anche se a Sofia non è stato detto esplicitamente, che le riforme - della giustizia, e forse della Costituzione - si hanno da fare da soli, e non dialogando con l’opposizione, tranne che questa non accetti obiettivi e metodi del governo, limitandosi a proporre qualche variante in uno schema già definito (da altri).
Da una parte, insomma, Berlusconi propone l’immagine di una società omogenea, coesa, sostanzialmente pacificata, perché condivide - grazie a un rapporto affettivo col capo - valori e stili di pensiero, senza voci dissonanti e fuori dal coro. Una società in cui il conflitto non esiste, né quello di classe né quello ideale, né quello - aperto e proclamato - degli interessi; una società in cui le voci della critica, dei media e delle altre istanze che costituiscono la pubblica opinione, non portano altro contributo che qualche variazione su un unico tema. Una società che si compiace delle stesse evidenze, che si turba per le stesse inquietudini; una sfera pubblico-sociale anestetizzata, e certamente assai diversa da quelle che storicamente sono state le società liberali e democratiche, caratterizzate da intensa e vivacissima dialettica di posizioni, dalla violenza della polemica nella stampa, nelle accademie, nelle case editrici, nei salotti intellettuali. Una società omogenea, insomma, e una stampa allineata o molto prudente.
A ciò si contrappone una visione della politica come combattimento contro estranei o nemici, come una lotta tanto aspra che non trova moderazione e neutralizzazione neppure nelle istituzioni, nei poteri dello Stato. Queste, anziché essere interpretate come sistemi di regole intrinsecamente neutrali, la cui finalità è di lasciare sussistere il conflitto fra le parti senza essere esse stesse ‘parte’ - tranne il caso del potere esecutivo, che può essere ‘parte’, ma soltanto secondo precisi limiti -, paiono a Berlusconi sempre attraversate dall’energia della polemica, dalla partigianeria. Una sorta di iper-politicismo per cui la politica esce dalle istituzioni, le eccede continuamente, le travolge come la piena inarrestabile di un fiume, gonfio di polemicità. Tutte le magistrature sono necessariamente parziali e mai neutrali, la politica è sempre faziosità, la dismisura non può non travalicare la misura.
Sembra a volte di avere a che fare con un’applicazione domestica e in tono minore del celebre ‘politico’ di Carl Schmitt, il teorico secondo il quale la politica consiste essenzialmente nel rapporto amico-nemico. Oppure possono venire alla mente interpretazioni della politica come volontà di potenza, come grandioso e tragico destino di conflitto; una visione terribile, certo, ma anche nobile, che sta fra Nietzsche e Lenin. Ma lo sembra soltanto. Infatti, queste concezioni della politica la vedono come un’energia pubblica, che emana da un popolo, come una forza collettiva rivoluzionaria che mobilita ogni ordine giuridico-istituzionale. Berlusconi, invece, pensa alla politica come alla sua personale volontà di potenza, come a un eccesso privato che dilaga nel pubblico. In mano a lui, insomma, quello che in altri contesti è la rivoluzione che travolge le istituzioni, diventa più banalmente tentativo di prevaricazione, unito a un continuo sospetto della prevaricazione altrui.
Tutto ciò non è né rassicurante né innocuo, soprattutto se è diventata la nuova costituzione materiale del nostro Paese, e se diventerà - come sostengono e auspicano esponenti della maggioranza - la nuova costituzione formale. Infatti, lo scenario che prevede istituzioni politiche ‘calde’ percorse da spasimi di polemicità, e la società civile ‘fredda’, libera da conflitti e unificata semmai nel tepore pacificante dell’amore, è un’inversione quasi perfetta dell’Abc della moderna democrazia: è l’immagine, non rassicurante ma inquietante, di una democrazia autoritaria.