Recensione del libro “Ma dove vivi?”, di Edoardo Salzano, da Sardinews, mensile di informazione socioeconomica della Sardegna, anno VIII n. 10, ottobre 2007
Nel 1946 nel primo capitolo del suo “Modo di pensare l’urbanistica”, Charles Edouard Jeanneret, noto con il nome di Le Corbusier, riflettendo compiutamente sulla città moderna e su come essa sia malamente progettata e abitata, afferma che “c’erano già stati grandi urbanisti i quali non maneggiavano la matita ma le idee: Balzac, Fourier, Considérant, Proudhon”.
Nel libro recente di Edoardo Salzano, “Ma dove vivi?”, l’urbanistica converge verso la storia, la filosofia e la letteratura. Il testo si conclude con Lucrezio e il rapporto tra la natura e l’uomo che la vive, con la Manchester industriale, razionale e inumana descritta da Engels nel XIX secolo, la Napoli di Matilde Serao nella quale vince, sino dall’ottocento, la speculazione edilizia.
Il capo indiano Sealth, profeticamente e con profonda filosofia, vede la futura degenerazione del rapporto uomo “consumatore di risorse” e il mondo naturale che porta ovunque la traccia del divino, invisibile ai colonizzatori.
Questa necessità di una visione “universale” della città sentita da Edoardo Salzano, è evidente sin dall’incipit. Le prime pagine sono dedicate alla nascita della città. La storia che Salzano, nella foto, racconta incomincia con l’aggregazione umana e, attraverso una lunga parabola, l’Autore spiega la forma urbana di oggi.
Numerosi e in perfetta consequenzialità storica i riferimenti alla realtà italiana nella quale il consumo dei suoli è indirizzato dal predominio della sterile rendita su ogni altra economia. Sono proprio i meccanismi della storia, di quella grande e di quella piccola ( le vicende di tangentopoli, le ingerenze della micropolitica, i disastri degli anni novanta), che guidano i capitoli del libro.
L’urbanistica, i meccanismi applicati ad un’azione essenziale e primaria qual è l’abitare i luoghi, spiegati attraverso la storia. Le planimetrie di Siena e di Lipsia medievali, insieme a tante altre tavole tutte dense di significato, servono a decifrare la contemporaneità sulla quale Salzano si concentra. L’oggi spiegato utilizzando il passato. Chi non possiede gli strumenti per comprendere la realtà soffre perché non ha altra possibilità che subirla.
Così l’Autore cerca di fornire al lettore i mezzi per comprendere. Anche quelli normativi, a partire dalla prima legge che dota le amministrazioni di uno strumento che è un punto di partenza, la legge 1150 dell’agosto del 1942. Da allora le città smettono, in Italia, di svilupparsi caso per caso e lo Stato detta le direttive attraverso i piani regolatori. Da qui l’Autore dipana un lineare racconto sulle cose, piccole e enormi, che molti cittadini vedono avvenire nelle proprie città, senza comprenderle, senza interrogarsi.
La divulgazione è un compito riservato ai “saggi” i quali possiedono la conoscenza in un grado così elevato da raggiungere la semplicità. “Ma dove vivi?” è, perfino nel titolo, uno sforzo di far ragionare chi non si fa domande sul dove vive, neppure quando, dice l’Autore, avverte la fatica e il peso di abitare in luoghi difficili, complessi e talvolta dolorosi come le nostre città. Un tentativo di far guardare chi non vede.
La divulgazione “alta” che Salzano opera felicemente, fa comprendere come l’Urbanistica non sia una specialità culturale riservata agli architetti (i quali praticano un artigianato e in casi rarissimi producono perfino arte ma non sono che una via possibile all’urbanistica ) ma è una conoscenza intricata che si regge su una serie di discipline, richiede la capacità di interpretare i luoghi e le società, una visione storica del mondo intorno ed esige, come nel caso di Lucrezio e di Capo Sealth, una filosofia che la sostenga.
Infine le riflessioni sulle condizioni di rischio ambientale planetario calate nelle realtà quotidiane, la qualità ambientale e l’insostenibilità di uno sviluppo ottusamente fondato sul pil. L’accenno ai princìpi latouchani sulla necessità di una decrescita di un meccanismo economico che invece tende alla crescita progressiva e inesorabile. La sostenibilità malignamente confusa con la tollerabilità e le conseguenze terribili di questa confusione. Il collegamento tra i grandi sistemi e la nostra città attuale, la città italiana e la fatica di abitarla, la fatica giornaliera di spostarsi dentro i nostri sistemi urbani. La dimostrazione di quanto una teoria economica entri nel nostro quotidiano e lo influenzi. Gli argomenti si susseguono rapidamente, sempre espressi con rigore e chiarezza esemplari.
Salzano trova perfino il tempo, in chiusura, di ipotizzare un’urbanistica salvifica la cui energia dovrebbe provenire dalla partecipazione di ognuno alla costruzione della città, spesso “pensata” e imposta dal cosiddetto “alto” della politica davanti al quale il cittadino debole sceglie la via del proprio “particolare” sul quale si concentra e dentro il quale si rinchiude. Non è un esercizio retorico rivolgersi ai giovani visto che in essi, se non altro per biologia, è contenuta l’energia sociale sulla quale l’Autore fonda la speranza di un contenimento armonico della crescita al posto dell’aggregazione di uomini e costruzioni chiamata città. Ai giovani è esplicitamente rivolto il libro, ma non solo. Anche il prezioso, accurato glossario è uno strumento ulteriore che l’Autore mette a disposizione del lettore giovane e non più giovane che si avvicina, magari per la prima volta, all’argomento.
L’Autore, l’abbiamo accennato, conclude con “l’urbanistica dei filosofi e degli scrittori” e il lettore chiude il libro con la convinzione che tutti dovremmo essere in possesso di una spinta naturale a riflettere sui luoghi che abitiamo, su come sono fatti e su come dovrebbero essere. Tutti dovremmo diventare urbanisti delle nostre città.
Edoardo Salzano
“Ma dove vivi?”
Edizioni Corte del Fondego
Venezia, 2007.
Quarta di copertina
La città è la casa della società. Ma in che modo la società partecipa alla costruzione della sua casa? In che modo i cittadini esprimono la loro volontà sugli obiettivi, sulla priorità dei problemi, sulle soluzioni definite nei piani urbanistici?
L’obiettivo di questo libro è aiutare a comprendere la natura della città, le ragioni della crisi, gli strumenti disponibili per concorrere a trasformarla. L’urbanistica, un modo corretto di vivere e trasformare la città, non vince se non diventa un sapere diffuso, radicato fin dai primi gradi di apprendimento.
Da qui nasce l’esigenza di divulgare le ragioni dell’urbanistica e della pianificazione a un pubblico largo e soprattutto giovane. Da qui la scelta del titolo: ma dove vivete voi giovani e voi adulti che avete studiato ma conoscete poco delle cose trattate in questo libro che determinano la vostra vita e il vostro futuro?
Introduzione
Oggi consideriamo la città come il luogo "naturale" della vita dell’uomo. Secondo le statistiche ufficiali, la maggioranza della popolazione vive nelle città. In Italia la popolazione urbana è quasi il 68%, in Australia, Nuova Zelanda, Corea supera l’80%, nei Paesi Bassi, nel Regno Unito, in Germania, in Argentina e in Cile, si avvicina al 90% e raggiunge il 97% in Belgio.
Che cosa intendiamo quando parliamo di città? Le definizioni correnti si riferiscono essenzialmente a soglie quantitative: alla concentrazione in poco spazio di un numero alto di persone. A questa caratteristica corrispondono quantità altrettanto elevate di attività, di costruzioni nelle quali le persone abitano e lavorano, di relazioni materiali e immateriali tra le costruzioni, tra le persone e tra le attività.
In questo libro proporremo invece una definizione che ci consenta di cogliere, nella città attuale e nella sua crisi (nei disagi che essa provoca ai suoi abitanti) il punto di partenza di una sua possibile rinascita. Proporremo una definizione che della città interpreti la storia, il modo cioè in cui l’uomo l’ha inventata partendo da una condizione nomade, che ne individui l’anima e le regole che l’hanno resa (e possono renderla di nuovo) bella, ordinata, amica dei suoi abitanti. Ci riferiremo soprattutto alla città europea, perché siamo convinti che qui l’elaborazione di questa particolarissima creazione della civiltà umana abbia raggiunto storicamente il suo risultato più alto. E il nostro sguardo si soffermerà soprattutto su quella fase della storia della città europea nella quale la nascente borghesia, per affrancarsi dalle servitù feudali, promuoveva quei valori comuni che per la città, come argomenteremo, sono decisivi.
L’obiettivo essenziale di questo libro è aiutare chi vive nella città a comprenderla per concorrere a trasformarla; vi allude del resto il titolo, che è stato scelto dall’Editore prima ancora che il testo venisse scritto. Questa scelta spiega anche perchè non troverete in queste pagine nessuna completezza di trattazione; non è questo lo scopo di chi si è proposto di aprire un percorso e indicare alcune direzioni lungo le quali proseguire la ricerca, affidandosi all’intelligenza e al sentimento: solo così può nascere un sapere sufficiente a chi voglia essere, insieme, individuo e membro di una comunità larga e aperta. Il glossario, l’antologia e la piccola bibliografia ragionata, in appendice al testo, potranno aiutare il lettore a chiarire e ad approfondire gli argomenti trattati.
«Dove viviamo?»
Siamo individui e siamo membri di una comunità. L’individualità è la nostra prima natura: l’abbiamo espressa fin dalla nascita del genere umano. La socialità è la nostra seconda natura: l’abbiamo faticosamente acquisita nel crescere della civiltà umana. Se vogliamo che la città sia migliore di quella di oggi, quando ci occupiamo di essa dobbiamo esprimere la nostra seconda natura. Il primo passo da compiere è quindi sentirci cittadini: occuparci della nostra città (nel senso ampio di “territorio urbanizzato”) in quanto “bene comune”: poiché essa è un tutto organico, nel quale tutte le parti sono solidalmente legate tra loro. Non somma di interessi di individui, di famiglie e di gruppi, ma espressione di una comunità di cui noi siamo parte.
Ecco in che senso è necessario partecipare alle politiche di governo della città. Dobbiamo intervenire, valutare, proporre, e non lasciare che siano altri, sia pure eletti da noi, a decidere per nostro conto. Ma dobbiamo farlo esprimendo gli interessi di ciascuno di noi perché comuni. Per intervenire, valutare, proporre bisogna, prima, conoscere: conoscere la realtà nella quale viviamo, che è una realtà ampia, complessa, ricca di stratificazioni; conoscere i suoi problemi, che hanno anch’essi molte facce, molte cause, molte implicazioni; conoscere gli strumenti mediante i quali si può intervenire per cambiarla.
Ecco perché il titolo di questo libro: ma dove vivi, ragazza e ragazzo che hai già studiato tanto ma conosci poco delle cose trattate in questo libro, che determinano la tua vita e il tuo futuro, o almeno contribuiscono a determinarli? E tu, donna e uomo maturi che della vita conoscete tanto ma non vi siete mai chiesti perché proprio lì quella scuola o quell’ospedale, chi e quando e perché ha deciso di far costruire palazzi o fabbriche in quell’area o far passare quella strada, oppure ha stabilito che realizzare un megaponte o un’altra “grande opera” è più importante che collegare con una pista ciclabile e pedonale un quartiere alla scuola e al mercato e all’ambulatorio e al parco? Dove vivete?
La speranza dell’autore è che quanto esposto in questo libro con un linguaggio che ci si è sforzati di rendere semplice, senza negare la complessità delle cose, vi aiuti a rispondere a questa domanda. E a diventare cittadini che agiscono con efficacia per migliorare il “bene comune” nel quale vivete e che è anche a voi affidato.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Renzo Piano
“Genova è fragile ma nessuno la cura”
Intervista di Francesco Merlo (la Repubblica, 15.08.2018)
Renzo Piano era a Ginevra, a lavorare a un progetto per il Cern, quando hanno interrotto la riunione e gli hanno detto che a Genova era crollato il ponte Morandi: «Al di là del legame sentimentale con Genova ho provato una grande sofferenza, di quelle che arrivano all’improvviso e ti sconvolgono. A me prendono allo stomaco. Ho pensato subito alle vittime, e solo dopo alla mia città ferita, a Genova e alle sue catastrofi. Ho immaginato quella gente che passava di là a metà agosto, i camion e i furgoncini per lavoro, gli altri per vacanza, le famiglie allegre e innocenti, ho pensato agli occhi che, quando si passa su un ponte, sono ancora più aperti, perché c’è l’alto e c’è il basso, c’è la sospensione nel mezzo cielo».
E invece proprio il ponte, che accorcia le distanze, dà ordine e bellezza al paesaggio e mette allegria, è crollato di botto. Pioveva quando la linea retta si è spezzata e dunque niente polvere: macerie senza sassi e mattoni perché il cemento non rovina a terra come in una frana, ma collassa. Sembra una catastrofe chirurgica.
«Non esagero, ma è una morte ingiusta e orribile. E di che cosa sono vittime? Non è certo colpa della casualità né della topografia della fragile Genova. Io non so cos’è accaduto, non voglio sembrare arrogante, non ho elementi e non faccio certo polemiche. Posso dire però che non credo al fatalismo che considera incontrollabile l’anarchia della natura, dei fulmini e della pioggia. I ponti non crollano per fatalità. Nessuno dunque venga a dirci che è stata la fatalità».
Cattiva manutenzione?
«L’ho sempre visto sotto controllo, quel ponte, che ha una lunga storia di manutenzione e di stretta sorveglianza».
Però ha ceduto. E non è il primo in Italia.
«I ponti sono anche simboli. È orribile che crollino e che il crollo uccida. Ma un ponte che crolla, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, è come se crollasse due volte».
Già, si alzano i muri e crollano i ponti. Una volta stabilito che non è fatalità, perché è crollato?
«All’opposto della fatalità c’è la scienza. L’Italia è un paese di grandi costruttori, progettisti geniali, scienziati umanisti. E però non applicano quella scienza che viene prima della manutenzione e si chiama diagnostica. In medicina nessuno fa niente senza una diagnosi. Che manutenzione puoi fare del tuo corpo se non sai di che cosa soffri? Come si stabilisce se hai bisogno di una cura di farmaci oppure di un’operazione chirurgica o magari di un po’ di riposo? Solo la precisione della diagnosi garantisce l’efficacia dell’intervento. E i ponti, le case e tutte le costruzioni vanno trattati come corpi viventi. In Italia produciamo apparecchiature diagnostiche sofisticatissime e strumentazioni d’avanguardia che esportiamo in tutto il mondo. Ma non li usiamo sulle nostre costruzioni. Perché? E non è un discorso di tecnica e basta. Solo con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni e si entra in quello delle certezze scientifiche».
La scienza non se la passa tanto bene, e forse vale per i ponti quel che vale per i vaccini. La catastrofe può insegnarci qualcosa?
«Io spero che il maledetto crollo di questo ponte ci faccia riflettere e ci faccia uscire dall’oscurantismo culturale del “secondo me si fa così”. Per esempio con la termografia possiamo determinare lo stato di salute di un muro senza neppure bucarlo, proprio come avviene con il corpo umano: si comincia col misurare le temperature delle sue varie parti».
Quel ponte vivente era un corpo affaticato.
«Io credo che la manutenzione non sia mai mancata. Ma Genova è una città fragile, divisa in due, ed è lunga 20 chilometri. Quel ponte è stato sollecitato all’inverosimile».
Adesso che è crollato forse la città di Genova ha bisogno di una diagnosi. Che succederà?
«Genova è una città portuale che deve trasferire il suo traffico pesante in tutte le direzioni. Non si può caricare la viabilità a dismisura sulla gomma. Non so cosa succederà. Per tenere assieme Levante e Ponente forse dovrebbero pensare a un incremento del trasporto sul ferro e sull’acqua. Ma questo è il momento del cordoglio e del lutto».
Ancora una volta per ragionare Genova ha bisogno del lutto?
«Difficile e straordinariamente bella, è una città molto fragile, stretta com’è tra il mare e le montagne subito alte. Ho già raccontato che i rivali veneziani nel Medioevo dicevano che Genova era una città sfortunata: montagna senza alberi e mare senza pesci. È verticale, ripida, rocciosa, con il fondale profondo e il mare agitato. Ma la topografia, come il cattivo tempo, non può diventare il capro espiatorio di ogni cosa».
Genova sa reagire?
«Ha già dimostrato di saper tenere la testa alta. Una città che passa attraverso le catastrofi ha bisogno di ritrovare subito competenze e amore. Altrimenti, come sta avvenendo in qualche parte d’Italia, si degrada e va in malora lo stare insieme: diventano peggiori gli uomini e anche gli animali. Le alluvioni, per esempio, hanno avviato un lungo lavoro di rinascita idrogeologica. Anche ieri, quando è crollato il ponte, pioveva, ed è normale che piova. Genova è una città dove l’acqua, dolce e salata, arriva da tutte le parti. Come sai, da bambino con la sabbia di Pegli costruivo castelli. Non è facile: bisogna scavare una buca, portarci l’acqua per impastare e rendere malleabile la sabbia e poi fare il castello in modo che l’onda, quando arriva, lo circondi ma non lo invada, lo bagni ma non lo inzuppi. Ci vuole molta intelligenza per governare l’acqua. Genova ha l’intelligenza per governare tutta se stessa e anche il proprio dolore. Sa usare le catastrofi per cambiare. Ha l’orgoglio di essere superba».
La superbia non era un peccato?
«Genova è superba non nel senso del gran peccato cattolico. Addossata sulla collina alpestre, Petrarca la battezzò Superba dal latino “super”: stare sopra. Dunque è fisicamente, prima che in metafora, che Genova ha l’orgoglio di essere superba».
Anche dopo il crollo del ponte?
«Purtroppo Genova, che sa reagire, non sa ancora prevenire. Ma spero che ora cominci la revisione del suo sistema dei trasporti. E mi auguro che parta dal crollo di questo ponte una seria riflessione sulla cultura diagnostica del patrimonio italiano. Solo conoscendo con esattezza lo stato di salute di tutte le nostre costruzioni possiamo proteggere e salvare, con i ponti, la nostra stessa civiltà».
Indisponibili alla mercificazione
di Francesco Biagi (Comune-info, 16 marzo 2016)
In questi giorni sono oggetto di dibattito pubblico l’atto politico della cancellazione dei murali di Blu, da parte dell’autore e di altri compagni dei centri sociali che ospitavano queste opere. Non voglio ripetere elementi della vicenda che già molti lettori e lettrici di Comune conoscono, su eddynburg infatti sono stati raccolti diversi articoli che riflettono su questo. Dai Wu Ming inoltre abbiamo appreso la trama di potere e il desiderio di profitto dietro a questo tentativo di esporre i murali in un museo. Ciò che vorrei fare è riflettere sull’idea di città che Blu ci vuole comunicare con questa netta scelta politica.
Dietro alla cancellazione delle sue opere c’è una precisa idea di città, di spazio urbano e di come quest’ultimo debba essere riprodotto. Di fatto, Blu cancella parte di se stesso per rimanere coerente ai suoi medesimi ideali. Questa scelta però la compie - in ogni caso - nella dimensione collettiva chiedendo ai compagni e alle compagne dei centri sociali XM24 e Crash di aiutarlo nell’azione. La farsa del potere però non si ferma, e denuncia chi ha aiutato Blu nella cancellazione.
Non è buffo sapere che chi amministra una città come Bologna punisce a suo piacimento chi dipinge i murali o chi li cancella. Entra in gioco la dinamica del potere per cui sovrano è colui che decide dello stato di eccezione e a suo piacimento permette o non permette un’azione. Blu, infatti, ha fiutato l’odore putrido del dispositivo governamentale che ora voleva fagocitare le sue opere in un museo a pagamento. Blu ha compreso - per utilizzare il lessico gramsciano - la rivoluzione passiva a cui venivano sottoposte le sue opere e per questo le ha distrutte! Blu e le sue opere sono indisponibili alla mercificazione dello spazio e della cultura, sono indisponibili - fino all’estremo di preferirne la distruzione - a chi vuole speculare e fare profitto sui suoi colori.
Con la cancellazione delle sue opere Blu compie un atto “polemico” - per dirla con Jacques Rancière - rendendo visibile il disaccordo che si istituisce di fronte a un “torto”. Il torto radicale, inaccettabile è la mercificazione di ciò che è stato fatto per tutti e in nome di tutti, per la cittadinanza e affinché essa ne usufruisse liberamente e gratuitamente. L’opera di Blu quindi si configura come uno spazio polemico e di conflitto, è uno spazio di disputa permanente sul quale l’artista pone un “no” radicale a qualsiasi iniziativa del neoliberismo.
L’atto compiuto da Blu non è molto diverso da chi occupa una casa sfitta o uno spazio di un’immobile vuoto di proprietà pubblica o privata per farlo rinascere, per restituirlo alla sua funzione sociale. Attraverso l’atto di Blu siamo in piedi, con la schiena ritta, di fronte ad un neoliberismo che starà anche vincendo, ma che non può ridurre tutto a merce. Riuscirà a mercificare tanto, tantissimo, anzi quasi tutto, ma non tutto. Con Blu impediamo il compiersi in pienezza di questi processi mercificatori, ponendo un confine invalicabile: questa parte di città non è in vendita.
L’intellettuale francese Henri Lefebvre avrebbe detto che Blu ha praticato un atto radicale di quella pratica urbana che ha definito come il “diritto alla città”. L’autore francese con questo concetto ha voluto pensare le differenti possibilità di lottare e intraprendere una battaglia politica per il diritto a cambiare e reinventare lo spazio urbano in modo più conforme ai desideri e ai bisogni sociali, in modo particolare dei più deboli e oppressi. Questa categoria interpretativa delle controcondotte che tentano di frenare la rapacità del modello imposto dalla città neoliberale, si delinea come un esercizio comune che una collettività deve intraprendere per rivendicare uno spazio emancipatorio nei processi di urbanizzazione del territorio.
Al giorno d’oggi - nel pieno della crisi finanziaria - cittadini, gruppi sociali e movimenti ritrovano identità e senso per il loro agire politico in questo termine, e Blu ci indica una via di ribellione percorribile nel rapporto fra “città”, “decoro” e “gentrificazione”. La città è tale non solo per una conformazione geografica o urbanistica, ma per la costruzione comune tessuta dagli abitanti. Il diritto alla città diviene quindi la chiave di volta per frenare i processi di spoliazione, ma anche per ritessere e reimmaginare la città che vorremmo. Il diritto alla città è quell’ideale che riconnette i desideri e i bisogni sociali alla loro concreta praticabilità. Se questo non è permesso - ci dice Blu - allora non userete nemmeno le mie opere per i vostri abusi.
Per Henri Lefebvre la città è come una metafora, o meglio, quasi una sineddoche del concetto di “società” infatti viene definita come una “proiezione della società sul territorio”. La città è la società nella sua declinazione spaziale, è nella forma della città che la società si costituisce tale, e nella produzione dello spazio urbano consente a se stessa un’organizzazione compiuta. Indagando lo spazio dell’organizzazione e del governo degli uomini vedremo emergere le differenze di classe, è la dimensione spaziale il luogo dove più che mai l’economia capitalista modella quotidianamente il sociale.
Nei due volumi dedicati a La produzione dello spazio Lefebvre descrive l’evoluzione che le città oggi vivono attraverso il prisma della dimensione spaziale. L’urbano sta subendo sempre più una forma di “rappresentazione dello spazio”, ovvero attraverso questo concetto l’autore intende evidenziare come lo spazio urbano prodotto dagli architetti, dai pianificatori e dagli urbanisti sia intrinsecamente pensato secondo i rapporti di produzione determinati e imposti dal mercato. Le opere di Blu ad esempio spezzavano radicalmente queste logiche. Lefebvre infatti distingue il concetto di “rappresentazione dello spazio” (dove intravvediamo la morte di un progetto unitario per la pianificazione urbanistica) da quello di “spazio di rappresentazione” (intendendo con il secondo termine lo spazio invece creato dalle istanze e dai bisogni della cittadinanza tutta, in particolar modo dai gruppi meno abbienti). Il filosofo francese quindi alla critica dei processi di asservimento della città all’economia capitalista distingue sempre alcune possibilità di sottrarre lo spazio pubblico alle logiche neoliberali, dove la cittadinanza rende visibile e promuove le proprie istanze valoriali all’interno di momenti di partecipazione collettiva. Blu era questo per la città, pena il suo non-senso.
I due concetti - per Lefebvre - vivono una situazione di conflittualità permanente e latente. Lo spazio urbano viene così sottoposto a processi di mercificazione come “urbanistica dei promotori di vendita”, in cui prevalgono le logiche di mercato, trasformando le città in un prodotto attraente e desiderabile per i capitali e per i grossi gruppi finanziari. All’interno di questo processo il valore di scambio dello spazio si impone in modo autoritario sul valore d’uso della cittadinanza, la quale è radicalmente esclusa da ogni processo decisionale. La valorizzazione speculativa di molti spazi abbandonati o chiusi a causa della crisi economica assume proprio questa matrice: non i bisogni dei cittadini, nessuna progettazione urbanistica partecipata, ma l’imposizione di luoghi che permettono profitto economico a prescindere dalla loro utilità e sensatezza.
Blu dice che la sua arte non è un oggetto buono per tutte le stagioni, buono per l’esposizione estetica fine a se stessa. La sua opera ha senso profondo solo sui muri esposti alla pioggia e alle intemperie, al sole quando c’è, e agli occhi di chi - soprattutto - si è visto sottrarre pezzi di cittadinanza, di città e dignità nello spazio urbano in cui vive.
A proposito della "mostruosa fratellanza" tra pubblico e privato
di Maria Cristina Gibelli (il manifesto, 28 Maggio 2013)
In due recenti appuntamenti alla Casa della Cultura e alla Provincia di Milano si è discusso dell’ultima fatica di Mario De Gaspari: un libro snello ma importante dall’intrigante titolo e dall’inquietante sottotitolo Bolle di mattone. La crisi italiana a partire dalla città. Come il mattone può distruggere l’economia (Milano, Mimesis edizioni). Invitati a discuterne Roberto Camagni e Giancarlo Consonni nel primo incontro; Arturo Calaminici, Massimo Gatti e Maria Cristina Gibelli nel secondo).
Preceduto da una bella introduzione di Walter Tocci (http://www.eddyburg.it/2013/03/bolle-di-mattone-di-mario-de-gaspari.html), Bolle di mattone affina ulteriormente, grazie a un supporto teorico rigoroso, le riflessioni sull’intreccio fra rendita, speculazione immobiliare, finanza e comportamenti della pubblica amministrazione: temi già affrontati dall’Autore in altri scritti recenti , e sempre con uno sguardo acuto che gli deriva dalla sua ‘doppia personalità’ di intellettuale critico ma anche, nel passato recente, di amministratore locale (prima come sindaco di Pioltello, un comune dell’hinterland milanese, e poi come consigliere della Provincia di Milano).
Mario De Gaspari conosce quindi bene ciò che, con una locuzione efficace, definisce la “mostruosa fratellanza” fra pubblico e privato, fra chi dovrebbe amministrare per il bene collettivo e chi vuole trarre il massimo vantaggio dalla città della rendita: il settore finanziario immobiliare, e le sue “bolle di mattone” appunto, che ha ottenuto in passato e continua ad attendersi, anche in epoca di crisi, margini di gran lunga più elevati di qualsiasi altro settore produttivo.
Centrale in questo nuovo libro è una riflessione teorica su moneta bancaria, sviluppo e rendita che parte dai classici, Marx e Ricardo, e si estende a Keynes, Schumpeter e Minsky; fondamentale altresì la capacità di ricollocare la attuale e peculiare crisi del settore immobiliare e finanziario del nostro paese in una dimensione teorico-interpretativa complessa.
Importante è il parallelismo, che De Gaspari illustra benissimo, fra creazione di moneta bancaria (attraverso l’attivazione del credito alle imprese) e creazione di moneta urbanistica, il “cubo”, (attraverso l’attivazione di concessioni e diritti volumetrici). In entrambi i casi, i processi portano a crisi rovinose non appena si invertono le aspettative di mercato: allo scoppio delle bolle finanziarie e immobiliari.
Come ha sottolineato Roberto Camagni nella prima tavola rotonda, c’e una differenza sostanziale fra i due processi. Nel primo, il credito bancario genera uno spazio all’imprenditore all’interno della distribuzione del reddito nazionale, attraverso un processo inflazionistico, a fronte di una promessa di profitti da innovazione (come indica Schumpeter), e dunque a fronte di uno sviluppo produttivo. Nel secondo caso, si realizza lo stesso effetto, ma a fronte di una generazione di rendita (e di qualche sviluppo edilizio): una rendita che in Italia non viene assolutamente intaccata dalla fiscalità pubblica per effetto proprio della sopra evocata“mostruosa fratellanza”.
De Gaspari, nelle due occasioni di presentazione del libro, ci ha spiegato il ‘suo’ malessere (oltre a quello della città, che aveva costituito il titolo di un suo precedente bel libro): un malessere che deriva dalla peculiarità della ‘speculazione edilizia’ italiana e dalla debolezza della pianificazione.
Tutti i PRG (o loro succedanei) messi assieme valgono oggi in Italia - ci ha detto l’Autore - molto più di qualsiasi altra attività produttiva in termini di punti di PIL. Dopo 20 anni di liberismo e di deregolamentazione urbanistica, e in assenza di una riformata legge urbanistica nazionale e di una nuova legislazione di fiscalità immobiliare risolutamente orientata alla tassazione della rendita, i beni immobiliari si sono trasformati, con l’indebitamento sui mutui, in “risparmio abortivo” (una locuzione di Keynes).
Si tratterebbe attualmente, secondo quanto dichiarato recentemente dall’immobiliarista Puri Negri in un dibattito in televisione, di 400 miliardi di euro di crediti immobiliari complessivi in possesso delle banche più importanti. E questo dato evidenzia un intreccio fra mattone e finanza, fra filiera immobiliare e banche che appare sempre più soffocante e senza prospettive, in un contesto in cui il ‘cubo’ è diventato la moneta urbanistica corrente.
Ma anche i governi locali hanno fatto la loro parte: per fare cassa hanno infatti inventato la “zecca immobiliare” (come la definisce Walter Tocci nell’introduzione al libro), continuando a concedere sempre più estesi diritti edificatori e consumando con voracità risorse territoriali preziose, perché “nella strisciante concezione estremisticamente liberista della città del 2000 la rendita dei suoli è considerata una variabile assolutamente avulsa, indipendente, ininfluente (...) e il governo della città un fatto quasi privato delle amministrazioni comunali e le conseguenze economiche delle scelte urbanistiche, a livello locale e sul piano nazionale, del tutto trascurate” (De Gaspari: 110).
Nel dibattito che si è sviluppato in occasione delle due presentazioni del libro sono emerse alcune considerazioni interessanti, sia da parte di studiosi che di amministratori locali.
A fronte della crisi immobiliare che ha colpito un po’ ovunque nei paesi avanzati, altrove ci sono già state delle risposte che hanno saputo ridurre il danno; e, certamente, sono alcuni paesi ‘mediterranei’ che hanno subito più danni perché, con l’entrata nell’Euro, hanno goduto del vantaggio dato dall’opportunità di sostituire monete deboli con una moneta forte concessa con prestiti a basso tasso di interesse.
In Italia si è creata una grande quantità di moneta urbanistica, grazie alla concessione generosissima di diritti edificatori e alla altrettanto generosa attribuzione agli immobiliaristi di credito bancario con garanzia sui diritti stessi. Oltre un certo limite, ampiamente superato, di crescita irrazionale dei prezzi immobiliari, la crisi della bolla non poteva che esplodere.
In più, in Italia il contesto politico-istituzionale si caratterizza per una evidente mancanza di cultura e di una legislazione sulle procedure negoziali pubblico/privato capace di garantire adeguati vantaggi pubblici nello scambio.
Due esempi sono stati evidenziati nella discussione per porre in evidenza questa ingiustificabile propensione allo scambio ineguale fra pubblico e privato: la tassazione ‘ordinaria’ associata ai permessi di costruire; gli ‘extra-oneri’ ottenibili dai progetti in deroga. A differenza di altri paesi europei, nel nostro paese gli oneri concessori di legge continuano ad essere molto bassi: 244 euro/mq a Milano; 155 euro a Torino; 105 a Bologna; i più elevati a Firenze con 480 euro.
A puro titolo di paragone, in Francia, con la legge n. 2010-1658 del dicembre 2010 si è introdotta la Taxe d’aménagement che sopprime e unifica 11 tasse precedentemente vigenti, fissando un valore unico per gli oneri da versare alla PA: 748 euro per metroquadro di superficie netta di pavimento (SHON) nell’Ile-de-France e 660 euro nel resto del territorio nazionale. A questa tassa si è aggiunto nel 2012, in coerenza con gli obiettivi della Grenelle de l’Environment (la legge nazionale sull’ambiente del 2010), un ulteriore balzello (VSD/Versement pour sous-densité) per contenere i consumi di suolo e le basse densità edilizie in aree urbane e periurbane.
Un’altra significativa differenza riguarda la ripartizione fra pubblico e privato dei valori realizzati attraverso progetti di rigenerazione in deroga ai piani urbanistici vigenti. Da indagini mirate sui bilanci di grandi progetti di trasformazione realizzati a Roma e Milano, è emerso che la quota della rendita si aggira fra il 45% e il 55%, mentre alla città pubblica spetta circa il 5% del valore complessivo. Si tratta di valori bassissimi, se comparati con altre città europee che con i progetti negoziati arrivano a recuperare per la collettività fino al 30-32%.
E’ evidente, e De Gaspari ce lo spiega con accuratezza ma anche con grande disincanto, che la mostruosa fratellanza fra immobiliaristi, banche e PA che ha dato luogo a uno scambio così ineguale sta alla base della bassa qualità delle nostre città, della loro progressiva perdita di vivibilità, della mai risolta, anzi sempre più drammatica, questione delle abitazioni che evidenzia soprattutto nelle maggiori città “il paradosso della povertà nell’abbondanza. I grattacieli in costruzione e i senza tetto accampati sotto i ponteggi”.
L’Italia è un paese anomalo? Forse sì, perché gli amministratori locali sempre più si sono limitati a svolgere meramente un ruolo di ‘facilitatori’, con il risultato che la quota di invenduto/sfitto nelle grandi città risulta ormai patologica. E quando un invito a tassare la rendita arriva da amministrazioni locali in mano alla sinistra, sottolinea l’Autore, non può non sorgere un sospetto di rapporto collusivo con le cooperative rosse che godono, dal punto di vista fiscale, di un regime speciale.
E se 400 miliardi di euro di crediti immobiliari sono oggi in possesso della banche, se le banche spesso sono diventate proprietarie di un tale ingentissimo patrimonio dopo il fallimento di speculatori immobiliari cui avevano garantito prestiti elevatissimi, esse avranno tutto l’interesse a esercitare il loro potere di influenza per continuare (e anzi potenziare) i progetti speculativi.
Le banche si comportano dunque come ‘speculatori’: spingono per evitare riduzioni di prezzo degli immobili (che costituirebbero il solo modo per avviare un rilancio dell’edilizia) e usano la loro autorevolezza per valorizzare le loro garanzie fondiarie e immobiliari, onde evitare forti effetti negativi sui loro bilanci.
Come uscirne? Occorrerebbe ri-legittimare la pianificazione. Occorrerebbe porre argine alle procedure perequative - specie quelle ‘estese’, che distribuiscono diritti edificatori atterrabili ovunque -; porre argine alla flessibilità delle destinazioni d’uso e, sopratutto, porre argine alla inarrestabile concessione da parte dei comuni di diritti edificatori amplissimi e staccati da ogni razionale previsione sulla domanda effettiva: anzi, occorrerebbe revocarne molti elargiti in passato, come è nei poteri delle amministrazioni locali (importante, a questo proposito, la recente sentenza del Consiglio di Stato 6656/2012 che conferma la legittimità del nuovo PRG di un piccolo comune del Salentino che ha destinato a verde privato un’area precedentemente destinata a zona di completamento, affermando che « l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità...”: http://www.eddyburg.it/2013/02/e-confermato-non-esistono-diritti.html).
Ma l’ottimismo non è aleggiato negli incontri milanesi, perché né il contesto politico nazionale attuale, né i comportamenti delle amministrazioni locali, per lo più acquiescenti, o anestetizzate, o con un complesso di inferiorità nei confronti degli immobiliaristi e delle banche, lo autorizzano.
* Fonte: Eddyburg
«Ma dove vivi?», la città raccontata da Salzano
di Eleonora Puntillo (Corriere del Mezzogiorno, 20 agosto 2008)
«Mi piacerebbe che l’Urbanistica s’insegnasse nelle scuole elementari...», e la città dove ce n’è più bisogno è proprio Napoli. Il condivisibile desiderio è di Edoardo Salzano, napoletano trapiantato a Venezia, urbanista, docente universitario, giornalista, amministratore pubblico, autore di saggi e libri, maestro molto amato da molti allievi che, in tutta Italia, si sono assunti il compito di difendere e salvare il territorio. Un desiderio da cui è nato il suo ultimo libro Ma dove vivi? La città raccontata (Corte del Fontego, 120 pagine, 14,90 euro) che, non a caso, reca in appendice un brano di Matilde Serao, tratto dal celebre Il ventre di Napoli.
La domanda vuole indurre a prendere coscienza che «la città è la casa della società », che i cittadini, devono imparare a conoscere il luogo dove vivono e lavorano, a partecipare, a determinare le scelte che riguardano la loro vita. Ci sono molte risposte alle domande che tutti (o quasi) si pongono quando, per esempio, nel ventre di Napoli si verificano eventi disastrosi, ferite nell’abitato come crolli e le voragini. E che molti si pongono essendo vittime quotidiane della crisi urbana fatta di traffico paralizzato, di costi eccessivi delle case, di fitti impossibili. C’è la risposta anche al perché le nostre città antiche erano belle e vivibili, al perché nell’Europa del Nord tante città sono oggi ancora belle e vivibili, oggetto dell’ammirazione di quanti le visitano e si chiedono perché da noi non è possibile.
Salzano narra come la «proprietà indivisa » ossia pubblica dei suoli, concessi (non venduti) ai cittadini per costruire entro regole precise, abbia prodotto città belle e funzionali. E come con la rivoluzione industriale il suolo urbano sia diventato merce, oggetto di sfruttamento, e «rendita »: assume cioè valore solo perché appartiene a qualcuno in un certo posto senza che il proprietario abbia lavorato per produrre quel profitto.
La borghesia imprenditrice dell’800 (europea e americana) riuscì a togliere potere ai proprietari fondiari perché produrre e commerciare necessita di strutture e servizi, cosicché nacquero presto le leggi di esproprio per fare strade e ferrovie e impianti di utilità pubblica. In Italia invece la borghesia industriale del Nord (quella che volle l’unità nazionale) si alleò con la grande proprietà fondiaria del Centro-Sud, per cui la rendita immobiliare divenne componente fondamentale e condizionante dell’economia italiana. A New York il Piano regolatore venne disegnato nel 1811, quasi due secoli fa, quando la città aveva solo sessantamila abitanti; cinquanta anni dopo gli stessi residenti capiscono che non si può vivere solo fra strade e palazzi e impongono di annullare l’edificabilità nel centro di Manhattan, dove nasce il famoso Central Park. Le grandi città creano regole precise: a Parigi succede nel 1853, l’anno dopo a Barcellona, a Vienna nel 1859. In Italia per avere una legge urbanistica bisogna aspettare addirittura il 1942, legge che appena nata viene paralizzata dalla guerra fascista prima, dal dopoguerra democristiano poi, successivamente dalla egemonia di una Destra «purtroppo molto diversa da quella degli altri paesi europei ». È nostra storia recente l’obbrobrio della «urbanistica contrattata» fra imprenditori e amministratori e/o segreterie dei partiti, lo svuotamento dei poteri locali, il mercato come misura di tutto e produttore di spaventoso disordine: lo sdraiarsi sguaiato (sprawl) di case casette supermercati capannoni strade, alloggi scarsi e costosi dove servono, ma vuoti nei paesi mal collegati, fitti altissimi, un popolo erratico che ogni giorno corre fra casa e lavoro, costretto a sperperare e a inquinare con 59 auto ogni cento abitanti (in Europa appena 50, con uso molto minore), import/ export e globalizzazione senza freni inquinano e impoveriscono le colture locali. Nonostante tutto, Salzano crede fermamente che un giorno anche l’urbanistica possa essere patrimonio culturale condiviso ed espressione dei reali bisogni dei cittadini.