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"RISVEGLIATI E CAMMINA". UN PROGETTO IN SUDAFRICA - di MARIA G. DI RIENZO (da: LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO Numero 1161 del 31 dicembre 2005) - selezione a cura del prof. Federico La Sala

domenica 8 gennaio 2006.
 

"RISVEGLIATI E CAMMINA". UN PROGETTO IN SUDAFRICA di MARIA G. DI RIENZO (da: LA NONVIOLENZA E’ IN CAMMINO Numero 1161 del 31 dicembre 2005)

Nel 1999, il "Centro per lo studio della violenza e per la riconciliazione" (Csvr) di Johannesburg sviluppò un progetto chiamato "Le voci dei giovani criminali", che coinvolse 24 detenuti nella prigione di Leeuwkop. L’intento era quello di capire la natura e le cause dei comportamenti violenti nella gioventù e di indirizzare chi li aveva attuati verso la risoluzione nonviolenta dei conflitti e la reintegrazione nella comunità.

L’intervento ebbe tale successo che dal 2000 al 2004 il Csvr ampliò il programma, grazie anche ad un finanziamento provenuto da una Ong irlandese di cooperazione allo sviluppo, e lavorò con i giovani prigionieri e prigioniere in vari centri di detenzione sudafricani. Il nuovo progetto fu chiamato "Vuka S’hambe" che significa "Risvegliati e cammina" e prevedeva: la promozione della consapevolezza personale rispetto alle ragioni per cui si era stati coinvolti in attività criminali; lo sviluppo di abilità efficaci nel portare alla luce le risorse e la forza di ciascuno utili alla risoluzione nonviolenta dei conflitti; la promozionedella fiducia in se stessi e negli altri; la costruzione di relazioni emotive positive e stabili; le sessioni sulle istanze di genere. Una delle facilitatrici, Lindiwe Mkhondo, chiarisce: "Le ragazze ed i ragazzi con cui ho lavorato per più di due anni, alla prigione di Johannesburg, hanno aperto i loro cuori e condiviso la loro verità con me. Accettando che li guidassimo nel loro personale viaggio verso la consapevolezza, hanno fatto crescere e cambiare anche noi facilitatori. Le domande che la gente mi poneva più spesso erano: Ma non hai paura a lavorare con i detenuti? Ti senti al sicuro, là dentro?

Sorprendentemente, ma forse poi non tanto, i detenuti avevano la stessa percezione di se stessi che gli altri avevano di loro. Avevano una conoscenza di se stessi come di persone pericolose e temibili. Uno di essi mi fece la stessa domanda: ’Lindi, sorella, sei così rilassata ed amichevole con noi, non hai mai paura?’. La verità’ è che non mi sono mai sentita in pericolo in loro compagnia. Sì, ci sono state molte lacrime, lacrime di gioia e di sollievo, e lacrime di frustrazione e di infelicità. La sfida più grande, per me, era quella di rendere capaci questi giovani di realizzare la propria umanità, di apprendere assieme a loro i metodi grazie ai quali non avrebbero più usato la violenza come una difesa contro le loro paure e contro il loro terribile dolore".

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Il Sudafrica ha un alto livello di criminalità giovanile, che è persino aumentato negli ultimi anni. Secondo le statistiche del 2004, circa il 43% della popolazione carceraria sudafricana ha meno di 25 anni, e circa 25.000 detenuti hanno meno di 21 anni. Le ragazze sono l’1,65% del totale. Vuka S’hambe ha analizzato le origini del fenomeno partendo dalle prospettive dei partecipanti al progetto (motivazioni individuali, contesto in cui la violenza si diede, retroscena culturali ed economici) ed ha utilizzato tale conoscenza per sviluppare programmi che spezzano il ciclo della violenza. I facilitatori hanno attestato che la principale precondizione, emersa durante i seminari, per il manifestarsi della violenza è la mancanza o la percezione della mancanza di metodi nonviolenti per trasformare i sentimenti di rabbia e vergogna, dolore e autostima ferita. La seconda e la terza sono la mancanza di riconoscimento o status sociale/economico, e l’incapacità emozionale dell’individuo di provare empatia per gli altri.

Lo sviluppo di tale capacità si è rivelato di grande importanza, durante il programma, per trasforma e le reazioni aggressive. Uno dei ragazzi di Vuka S’hambe, che sta scontando una sentenza a vent’anni di prigione per rapina a mano armata ed omicidio, ha detto: "Io sono come un fiore morto. Come un fiore avrei avuto bisogno di acqua, ma nessuno ha mai avuto cura di me, non sono stato amato. Sento che la rabbia mi ha fatto marcire da dentro. Adesso io non riesco ad amare me stesso, e nessun altro. Come posso farlo, se l’amore non so cos’è?". Una delle ragazze, allo stesso proposito, ha citato un proverbio Xhosa: "Umntu Ngumntu Ngabantu" che significa"una persona è umana grazie a coloro che ha intorno".

Vi farà piacere sapere che entrambi, come il resto di coloro che hanno partecipato al progetto (ed è davvero un dato da festeggiare), sono stati capaci di mutare la percezione che avevano di se stessi, attestando di sentirsi degni di amore e rispetto, e di sentire quindi che degne di amore e rispetto erano anche le persone verso cui avevano usato violenza. Ora parecchi di questi giovani detenuti beneficiano di semiliberta\’, e molti di essi hanno incontrato le proprie vittime o i parenti delle stesse, per ottenere il perdono e la rinascita. Questo accade, ad insegnare la nonviolenza.


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