Approfondimenti

Speciale su FRANCO BASAGLIA. OLTRE I VINCOLI DEL POSSIBILE. Un breve saggio di M.G. Giannichedda - a cura del prof. Federico La Sala

mercoledì 31 agosto 2005.
 

BASAGLIA

Oltre i vincoli del possibile

Un pomeriggio estivo del 1961 Franco Basaglia varcò per la prima volta i confini del manicomio di Gorizia. Da allora non avrebbe smesso di tormentarsi sulla forza di quella istituzione, e sulla necessità di smantellarne le mura, edificate prima di tutto dentro di noi
-  Alla fine di agosto di venticinque anni fa moriva lo psichiatra al lavoro del quale dobbiamo la legge 180. Per rendere accettabile il dolore mentale, smembrare i manicomi e terremotare la cultura che li sosteneva ideò «infiniti machiavelli istituzionali».

MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA (il manifesto, 27.08.2005)

In una conferenza a Rio de Janeiro nel 1979, pochi mesi prima di ammalarsi, Franco Basaglia rispondeva così a una domanda sul significato del suo lavoro: «la cosa più importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici anni fa era impensabile che un manicomio potesse venire distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, ma noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo». Da quel pomeriggio di fine estate del 1961 a Gorizia, quando per la prima volta nella sua vita era entrato in un manicomio, Basaglia si era tormentato sulla forza di quell’istituzione, che lo aveva indignato e angosciato al punto di indurlo alla tentazione di mollare l’impresa impossibile che sarebbe consistita nel mettere a frutto, lì dentro, ciò che negli anni della clinica universitaria aveva studiato e tentato di fare.

Fuori e dentro le mura

Il lavoro di umanizzazione delle strutture e dei rapporti che vi si intrattenevano gli aveva poi chiarito che il manicomio in realtà non si limitava ai confini della istituzione storica da lui diretta, ma, al fondo, coincideva con l’idea stessa di «internamento», cioè della custodia in nome della tutela, della riduzione della libertà in nome della liberazione dalla malattia. Questo era il nucleo del manicomio, lì stava la sua forza e la capacità di riprodursi nelle istituzioni e nel corpo sociale, attraverso la legge, l’amministrazione e la legittimazione non disinteressata degli operatori psichiatrici.

Negli anni del grande movimento antistituzionale, Basaglia rimproverò spesso a collaboratori e compagni di strada italiani ed europei la tendenza a sottovalutare la potenza del manicomio, che per quanto lo riguardava avrebbe dovuto essere smontato «pezzo per pezzo», perché non rinascesse fuori dalle sue mura e dentro ciascuno di noi. Sono dunque il prodotto di questa cultura le molte invenzioni nate per scomporre il manicomio e spesso evolute nelle strutture nate a seguito della riforma, «gli infiniti machiavelli istituzionali», come Basaglia li chiamava negli anni di Trieste: la prima cooperativa degli internati, che avevano voluto chiamarsi «Lavoratori Uniti»; la trasformazione dei ricoverati in «ospiti» per consentire loro liberà e asilo; i centri di salute mentale aperti ventiquattro ore e organizzati come spazi di vita; le abitazioni nei condomini del centro col sostegno informale degli operatori. Tutto questo prendeva forma in mezzo a scontri e negoziazioni, conflitti e compromessi tra gli operatori non meno che con la città, in un clima allora tutt’altro che facile poiché si camminava per una strada non ancora segnata, cercando un possibile che fosse adeguato alla posta in gioco e che quel gioco riuscisse a mantenerlo aperto e a governarlo.

Franco Basaglia era straordinariamente dotato di quel «senso della possibilità» di cui parla Robert Musil nelle prime pagine dell’Uomo senza qualità, ossia della «capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggior importanza a quello che è, che a quello che non è».

Tra aspirazioni e progetto politico

A questo senso del possibile come «volontà di costruire, come consapevole utopia che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione», Basaglia ha saputo dare spessore e valore politico, riuscendo a coinvolgere istituzioni e persone nella costruzione di altri orizzonti che si allargano tutt’ora sulla società italiana, e non solo entro i suoi confini.

È vero, però, che il senso della possibilità oggi è più visibile come aspirazione che non come progetto politico, e fa impressione il fatto che, quando si parla di questione morale, tutto quanto è legittimo attendersi - laddove quote rilevanti di potere siano nelle mani di persone e di istituti della sinistra - sia limitato al rispetto delle regole. Ma se l’idea di trasformare l’esercizio del potere per trasformare con esso pezzi di mondo viene messa in ombra, o tutt’al più relegata in spazi residuali e ideologici sarà molto difficile rendersi riconoscibili come alternativa al presente e porre le premesse per un diverso futuro.

Quindici anni prima di quella conferenza a Rio, Basaglia aveva già intuito che la distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione (come dice il titolo della sua comunicazione al primo congresso di psichiatria sociale a Londra, nel 1964) era «un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio». In quel testo ci sono già gli elementi che avrebbero fatto evolvere il lavoro appena iniziato a Gorizia in una direzione tutta diversa da quella su cui si erano incamminate le esperienze innovative sorte nella psichiatria pubblica in Francia e Inghilterra. Basaglia criticava il fatto di essersi limitati, in quei paesi, a creare una psichiatria territoriale responsabile, in realtà, di continuare a servirsi dei manicomi, che all’epoca internavano in Europa più di ottocentomila persone.

Del resto, neppure gli premeva costruire «una nuova utopia» che si sarebbe tramutata «in una nuova ideologia» il cui solo valore sarebbe stato quello di «consentirci di sopportare il tipo di vita che siamo costretti a vivere», come scrisse in uno dei saggi dell’Istituzione negata, il libro collettivo del 1968. A Basaglia non interessava, perciò, rifugiarsi nell’esperimento, che elabora nuove tecniche di interpretazione della malattia mentale e forme di trattamento non oppressive al riparo dalla legge psichiatrica e dall’obbligo di accettare qualunque tipo di paziente.

In Europa e negli Stati Uniti, già alla fine degli anni `60, cominciavano a diffondersi molte di queste utopie in piccola scala, non poche delle quali si dimostravano efficaci con chi vi approdava per caso o per denaro, e alcune di esse - come quelle di Ronald Laing a Londra e quella di Felix Guattari a Laborde - era contagiate dal fascino, dalla intelligenza e dalla radicalità dei loro leader.

Ma, allora come oggi, questi esperimenti non erano in grado di scalfire l’apparato dei manicomi, né la cultura psichiatrica dominante veniva intaccata dalle nuove teorizzazioni, e tanto meno il senso comune vacillava di fronte al senso del pericolo, dalla vergogna e dalla scarsa intellegibilità che la follia portava con sé.

L’esperienza di Gorizia indicò una strada più ambiziosa e al tempo stesso più politica che consisteva nel lavorare al centro del potere psichiatrico, l’istituzione pubblica, per introdurvi una pratica e un progetto alternativi al manicomio, al suo ruolo sociale e alla sua cultura. Fu un progetto che incontrò in Italia un sistema istituzionale dove il bisogno di innovazione era fortissimo e l’immobilismo dell’establishment psichiatrico, culturalmente provinciale e concentrato sugli interessi di scuola e di bottega, lasciò molto spazio a quelle che negli anni `70 venivano chiamate «le esperienze esemplari»: esperienze che egemonizzarono i processi di innovazione, sperimentando e mettendo in circolo modelli di servizi che chiedevano e dimostravano possibile la ridefinizione del trattamento psichiatrico nel quadro della Costituzione democratica.

Per questo Basaglia aveva voluto chiamare «psichiatria democratica» il movimento per la riforma, intendendo indicare con questo aggettivo l’intenzione di costruire una psichiatria che interiorizzasse e rendesse vissuti i principi del patto democratico, così come la psichiatria manicomiale si era sviluppata nel quadro di uno Stato liberale che escludeva dalla cittadinanza più di «metà del cielo».

Oggi il sistema istituzionale nel quale Basaglia ha lavorato non c’è più, e lo stesso campo psichiatrico è profondamente cambiato. Basti pensare al protagonismo acquisito delle multinazionali del farmaco, che dominano la ricerca, invadono la comunicazione di massa, conquistano i medici; basti considerare la penetrazione del linguaggio psichiatrico e psicologico nei media, nella vita quotidiana, nella scuola, nei servizi sociali; e il diffondersi delle tecniche psichiatriche e psicologiche - dall’uso degli psicofarmaci ai test - per il controllo dell’efficienza e della vita delle persone.

Dunque oggi non è certo minore che trent’anni fa la necessità di leggere il contesto che abbiamo di fronte in chiave politica. Eppure la depoliticizzazione della società italiana, drammaticamente svelata dal referendum sulla fecondazione assistita, si è resa lampante: lo dimostrano i tecnici interessati a coltivare il proprio orto, a mettere a punto la gestione di problemi e rischi o metodi di formazione nel grande mercato per il controllo delle condotte che Basaglia aveva visto formarsi negli Stati Uniti degli anni `70 e di cui scrisse in diversi saggi, dal Malato artificiale a La maggioranza deviante a Condotte perturbate.

Sembra che solo una minoranza di operatori dei servizi pubblici, di ricercatori e di intellettuali sia oggi interessata a esprimere la sua preoccupazione per i caratteri dello scenario che abbiamo di fronte, e che si affanni a studiarlo e a trovare i punti in cui potrebbe venire attaccato. È un clima, questo, in cui l’opera di Basaglia può risultare inattuale, o può magari suscitare più nostalgie che stimoli; può forse indurre alla tentazione di una lettura accademica delle sue idee, che invece sono legate a un forte senso etico della responsabilità sociale, segnate come sono da un rapporto intenso, fondante tra teoria e pratica politica, la sola chiave in cui possono essere capite e spese.

Basaglia ha temuto che la riforma potesse essere l’inizio della fine della trasformazione, e questo - come scrisse nella prefazione al Giardino dei gelsi - proprio «nel momento in cui si potrebbe cominciare ad affrontare i problemi in modo diverso, disarmati come siamo, privi di strumenti che non siano un’esplicita difesa nostra di fronte all’angoscia e alla sofferenza». Come sempre, cercò di giocare sul terreno della pratica la sfida della riforma, accettando la proposta della regione Lazio di riorganizzare le politiche di salute mentale.

Le sue interviste sulla 180

Lavorò a Roma pochi mesi, formulando alcuni progetti: un concorso di idee rivolto a tutta la città per il riuso del manicomio da chiudere; il riassetto del pronto soccorso di uno degli ospedali più problematici del centro storico, per cercare di trovare risposte diverse alle persone marginalizzate che lì avevano il loro punto di riferimento; il coinvolgimento di alcune cliniche private in un programma di riorientamento delle strutture. Nello stesso tempo, mise in piedi un’iniziativa curiosa e assai emblematica del suo stile.

Mentre le forze politiche, all’indomani della riforma già ne prendevano le distanze, Basaglia decise di intervistare dirigenti politici di spicco sulle ragioni che avevano spinto i partiti ad approvare la «180» e sui mezzi con cui intendevano governarla: riuscì a fare parlare due alti dirigenti della Democrazia Cristiana, Paolo Cabras e Bruno Orsini, il vice-segretario del partito socialista Claudio Signorile e il segretario del partito socialdemocratico Pietro Longo. Aveva avviato i contatti con Enrico Berlinguer, ma non fece in tempo a incontrarlo. Da quelle interviste fu ricavato, alcuni anni dopo, un film di mezz’ora, che testimonia quale fosse il clima del tempo, quale la libertà di Basaglia da ogni schema prefigurato, quale la sua capacità di mettersi in gioco e, come lui diceva, di «tenere aperte le contraddizioni».

Certo Basaglia non si è sottratto alle responsabilità di governo né ha sottovalutato il problema del consenso. Però ha agito il suo ruolo di tecnico per spingere la politica, soprattutto gli amministratori, ad andare oltre l’orizzonte dato, oltre gli assetti consolidati, che generalmente fanno pagare ai più deboli il prezzo di una precaria o apparente pace sociale. Così lui, uomo di sinistra, non è stato un interlocutore facile neppure per la sinistra, che certo nella ormai lunga vita della «legge 180» ha svolto un ruolo fondamentale in parlamento nel bloccare le controriforme, sia con la scelta di candidare al Senato Franca Ongaro Basaglia, sia nella fase di chiusura dei manicomi, con Romano Prodi al governo e Rosi Bindi alla sanità. Ma gli amministratori locali è ancora necessario conquistarli ad uno ad uno, anche quelli di sinistra, per riuscire a dare aggettivi ai processi di innovazione, a introdurvi una qualità diversa.

Il posto di chi non trova posto

Il manifesto dell’ultimo convegno promosso da Basaglia, Psichiatria e buongoverno (Arezzo 28 ottobre 1979) riportava, accanto ad alcuni particolari dell’Allegoria del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, un commento che si concludeva così: «se ciascuno sta al suo posto regnano l’ordine e il potere; e chi non trova posto in questo ordine e in questo equilibrio?» È un interrogativo che vale sempre, ma oggi non ci sono persone altrettanto autorevoli a difenderlo, ed è cresciuto il numero di chi non trova posto in questo ordine delle cose, per la verità assai fragile; perciò vale di più.

SCHEDA

Da Gorizia a Trieste

Franco Basaglia era nato a Venezia l’11 marzo del 1924. Dopo tredici anni di lavoro all’università di Padova, nel 1961 aveva vinto il concorso di direttore nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove avviò l’esperienza di apertura del manicomio divenuta nota attraverso due libri, Che cos’è la psichiatria? (1967 ) e L’istituzione negata (1968), pubblicati entrambi da Einaudi come il libro fotografico Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che Basaglia aveva curato con Franca Ongaro, sua moglie dal 1953 e collaboratrice nel gruppo di Gorizia. Con lei Basaglia scriverà gran parte dei lavori degli anni successivi e condividerà l’impegno nei movimenti degli anni `70.

Nel 1969 fu invitato come visiting professor al Community Mental Health Centre del Maimonides Hospital di New York, e da quella esperienza scrisse Lettera da New York. Il malato artificiale (Einaudi 1969) e La maggioranza deviante (Einaudi, 1971). Per un anno, nel 1970, diresse l’ospedale psichiatrico di Parma, ma l’esperienza si chiuse tra difficoltà burocratiche e dissidi politici, e alla fine dell’anno successivo andò a dirigere l’ospedale di Trieste, dove riuscì a chiudere il manicomio e dare vita a un nuovo sistema di servizi di salute mentale.

Negli anni di Trieste scrisse molti saggi e una ricerca collettiva, Crimini di pace, cui partecipano tra gli altri Michel Foucault, Erving Goffman, Ronald Laing, Noam Chomsky e Robert Castel, che testimonia dell’ampiezza del suo impegno intellettuale. Il 13 maggio del 1978 il parlamento approvò la riforma psichiatrica, nota come «legge 180».

Basaglia era a Berlino, in uno dei suoi numerosi viaggi, quando si sentì male la prima volta, dopo una conferenza nell’aula magna della Freie Universitaet. Erano i segni della malattia che lo avrebbe portato alla morte il 29 agosto nella sua casa di Venezia.

I suoi Scritti sono stati raccolti da Franca Ongaro e pubblicati in due volumi da Einaudi nel 1981 e ’82. Attualmente è in libreria una nuova antologia, L’utopia della realtà (Einaudi, 327 pagine, 22 Euro) che contiene saggi dal 1964 al 1979 con un inedito in Italia, Condotte perturbate. Le funzioni delle relazioni sociali, scritto con Franca Ongaro su commissione di Jean Piaget che curava, per la Encyclopédie de la Pléiade, il volume Psychologie in cui il testo è uscito nel 1987. L’antologia include anche la bibliografia completa delle opere di Basaglia, una presentazione di Franca Ongaro e una introduzione di Maria Grazia Giannichedda, L’utopia della realtà. Franco Basaglia e l’impresa della sua vita.

Negli ultimi anni sono stati riediti diversi testi di Basaglia: Che cos’è la psichiatria? (Baldini e Castoldi 1997), L’istituzione negata (Baldini e Castoldi 1998) Morire di classe (Edizioni Gruppo Abele, 1998), e una nuova edizione di Conferenze brasiliane (Raffaello Cortina, 2000) con quattro conferenze inedite. Nel 2001 è stata pubblicata la monografia Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio (Bruno Mondadori) e nel 2004 il saggio di Nico Pitrelli L’uomo che restituì la parola ai matti. Franco Basaglia, la comunicazione e la fine dei manicomi (Editori Riuniti)


Sul tema, nel sito, si cfr.:

METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.

FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.

Federico La Sala


Rispondere all'articolo

Forum