Oltre i vincoli del possibile
Un pomeriggio estivo del 1961 Franco Basaglia varcò per la prima volta i confini del manicomio di Gorizia. Da allora non avrebbe smesso di tormentarsi sulla forza di quella istituzione, e sulla necessità di smantellarne le mura, edificate prima di tutto dentro di noi
Alla fine di agosto di venticinque anni fa moriva lo psichiatra al lavoro del quale dobbiamo la legge 180. Per rendere accettabile il dolore mentale, smembrare i manicomi e terremotare la cultura che li sosteneva ideò «infiniti machiavelli istituzionali».
MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA (il manifesto, 27.08.2005)
In una conferenza a Rio de Janeiro nel 1979, pochi mesi prima di ammalarsi, Franco Basaglia rispondeva così a una domanda sul significato del suo lavoro: «la cosa più importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici anni fa era impensabile che un manicomio potesse venire distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, ma noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo». Da quel pomeriggio di fine estate del 1961 a Gorizia, quando per la prima volta nella sua vita era entrato in un manicomio, Basaglia si era tormentato sulla forza di quell’istituzione, che lo aveva indignato e angosciato al punto di indurlo alla tentazione di mollare l’impresa impossibile che sarebbe consistita nel mettere a frutto, lì dentro, ciò che negli anni della clinica universitaria aveva studiato e tentato di fare.
Fuori e dentro le mura
Il lavoro di umanizzazione delle strutture e dei rapporti che vi si intrattenevano gli aveva poi chiarito che il manicomio in realtà non si limitava ai confini della istituzione storica da lui diretta, ma, al fondo, coincideva con l’idea stessa di «internamento», cioè della custodia in nome della tutela, della riduzione della libertà in nome della liberazione dalla malattia. Questo era il nucleo del manicomio, lì stava la sua forza e la capacità di riprodursi nelle istituzioni e nel corpo sociale, attraverso la legge, l’amministrazione e la legittimazione non disinteressata degli operatori psichiatrici.
Negli anni del grande movimento antistituzionale, Basaglia rimproverò spesso a collaboratori e compagni di strada italiani ed europei la tendenza a sottovalutare la potenza del manicomio, che per quanto lo riguardava avrebbe dovuto essere smontato «pezzo per pezzo», perché non rinascesse fuori dalle sue mura e dentro ciascuno di noi. Sono dunque il prodotto di questa cultura le molte invenzioni nate per scomporre il manicomio e spesso evolute nelle strutture nate a seguito della riforma, «gli infiniti machiavelli istituzionali», come Basaglia li chiamava negli anni di Trieste: la prima cooperativa degli internati, che avevano voluto chiamarsi «Lavoratori Uniti»; la trasformazione dei ricoverati in «ospiti» per consentire loro liberà e asilo; i centri di salute mentale aperti ventiquattro ore e organizzati come spazi di vita; le abitazioni nei condomini del centro col sostegno informale degli operatori. Tutto questo prendeva forma in mezzo a scontri e negoziazioni, conflitti e compromessi tra gli operatori non meno che con la città, in un clima allora tutt’altro che facile poiché si camminava per una strada non ancora segnata, cercando un possibile che fosse adeguato alla posta in gioco e che quel gioco riuscisse a mantenerlo aperto e a governarlo.
Franco Basaglia era straordinariamente dotato di quel «senso della possibilità» di cui parla Robert Musil nelle prime pagine dell’Uomo senza qualità, ossia della «capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggior importanza a quello che è, che a quello che non è».
Tra aspirazioni e progetto politico
A questo senso del possibile come «volontà di costruire, come consapevole utopia che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione», Basaglia ha saputo dare spessore e valore politico, riuscendo a coinvolgere istituzioni e persone nella costruzione di altri orizzonti che si allargano tutt’ora sulla società italiana, e non solo entro i suoi confini.
È vero, però, che il senso della possibilità oggi è più visibile come aspirazione che non come progetto politico, e fa impressione il fatto che, quando si parla di questione morale, tutto quanto è legittimo attendersi - laddove quote rilevanti di potere siano nelle mani di persone e di istituti della sinistra - sia limitato al rispetto delle regole. Ma se l’idea di trasformare l’esercizio del potere per trasformare con esso pezzi di mondo viene messa in ombra, o tutt’al più relegata in spazi residuali e ideologici sarà molto difficile rendersi riconoscibili come alternativa al presente e porre le premesse per un diverso futuro.
Quindici anni prima di quella conferenza a Rio, Basaglia aveva già intuito che la distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione (come dice il titolo della sua comunicazione al primo congresso di psichiatria sociale a Londra, nel 1964) era «un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio». In quel testo ci sono già gli elementi che avrebbero fatto evolvere il lavoro appena iniziato a Gorizia in una direzione tutta diversa da quella su cui si erano incamminate le esperienze innovative sorte nella psichiatria pubblica in Francia e Inghilterra. Basaglia criticava il fatto di essersi limitati, in quei paesi, a creare una psichiatria territoriale responsabile, in realtà, di continuare a servirsi dei manicomi, che all’epoca internavano in Europa più di ottocentomila persone.
Del resto, neppure gli premeva costruire «una nuova utopia» che si sarebbe tramutata «in una nuova ideologia» il cui solo valore sarebbe stato quello di «consentirci di sopportare il tipo di vita che siamo costretti a vivere», come scrisse in uno dei saggi dell’Istituzione negata, il libro collettivo del 1968. A Basaglia non interessava, perciò, rifugiarsi nell’esperimento, che elabora nuove tecniche di interpretazione della malattia mentale e forme di trattamento non oppressive al riparo dalla legge psichiatrica e dall’obbligo di accettare qualunque tipo di paziente.
In Europa e negli Stati Uniti, già alla fine degli anni `60, cominciavano a diffondersi molte di queste utopie in piccola scala, non poche delle quali si dimostravano efficaci con chi vi approdava per caso o per denaro, e alcune di esse - come quelle di Ronald Laing a Londra e quella di Felix Guattari a Laborde - era contagiate dal fascino, dalla intelligenza e dalla radicalità dei loro leader.
Ma, allora come oggi, questi esperimenti non erano in grado di scalfire l’apparato dei manicomi, né la cultura psichiatrica dominante veniva intaccata dalle nuove teorizzazioni, e tanto meno il senso comune vacillava di fronte al senso del pericolo, dalla vergogna e dalla scarsa intellegibilità che la follia portava con sé.
L’esperienza di Gorizia indicò una strada più ambiziosa e al tempo stesso più politica che consisteva nel lavorare al centro del potere psichiatrico, l’istituzione pubblica, per introdurvi una pratica e un progetto alternativi al manicomio, al suo ruolo sociale e alla sua cultura. Fu un progetto che incontrò in Italia un sistema istituzionale dove il bisogno di innovazione era fortissimo e l’immobilismo dell’establishment psichiatrico, culturalmente provinciale e concentrato sugli interessi di scuola e di bottega, lasciò molto spazio a quelle che negli anni `70 venivano chiamate «le esperienze esemplari»: esperienze che egemonizzarono i processi di innovazione, sperimentando e mettendo in circolo modelli di servizi che chiedevano e dimostravano possibile la ridefinizione del trattamento psichiatrico nel quadro della Costituzione democratica.
Per questo Basaglia aveva voluto chiamare «psichiatria democratica» il movimento per la riforma, intendendo indicare con questo aggettivo l’intenzione di costruire una psichiatria che interiorizzasse e rendesse vissuti i principi del patto democratico, così come la psichiatria manicomiale si era sviluppata nel quadro di uno Stato liberale che escludeva dalla cittadinanza più di «metà del cielo».
Oggi il sistema istituzionale nel quale Basaglia ha lavorato non c’è più, e lo stesso campo psichiatrico è profondamente cambiato. Basti pensare al protagonismo acquisito delle multinazionali del farmaco, che dominano la ricerca, invadono la comunicazione di massa, conquistano i medici; basti considerare la penetrazione del linguaggio psichiatrico e psicologico nei media, nella vita quotidiana, nella scuola, nei servizi sociali; e il diffondersi delle tecniche psichiatriche e psicologiche - dall’uso degli psicofarmaci ai test - per il controllo dell’efficienza e della vita delle persone.
Dunque oggi non è certo minore che trent’anni fa la necessità di leggere il contesto che abbiamo di fronte in chiave politica. Eppure la depoliticizzazione della società italiana, drammaticamente svelata dal referendum sulla fecondazione assistita, si è resa lampante: lo dimostrano i tecnici interessati a coltivare il proprio orto, a mettere a punto la gestione di problemi e rischi o metodi di formazione nel grande mercato per il controllo delle condotte che Basaglia aveva visto formarsi negli Stati Uniti degli anni `70 e di cui scrisse in diversi saggi, dal Malato artificiale a La maggioranza deviante a Condotte perturbate.
Sembra che solo una minoranza di operatori dei servizi pubblici, di ricercatori e di intellettuali sia oggi interessata a esprimere la sua preoccupazione per i caratteri dello scenario che abbiamo di fronte, e che si affanni a studiarlo e a trovare i punti in cui potrebbe venire attaccato. È un clima, questo, in cui l’opera di Basaglia può risultare inattuale, o può magari suscitare più nostalgie che stimoli; può forse indurre alla tentazione di una lettura accademica delle sue idee, che invece sono legate a un forte senso etico della responsabilità sociale, segnate come sono da un rapporto intenso, fondante tra teoria e pratica politica, la sola chiave in cui possono essere capite e spese.
Basaglia ha temuto che la riforma potesse essere l’inizio della fine della trasformazione, e questo - come scrisse nella prefazione al Giardino dei gelsi - proprio «nel momento in cui si potrebbe cominciare ad affrontare i problemi in modo diverso, disarmati come siamo, privi di strumenti che non siano un’esplicita difesa nostra di fronte all’angoscia e alla sofferenza». Come sempre, cercò di giocare sul terreno della pratica la sfida della riforma, accettando la proposta della regione Lazio di riorganizzare le politiche di salute mentale.
Le sue interviste sulla 180
Lavorò a Roma pochi mesi, formulando alcuni progetti: un concorso di idee rivolto a tutta la città per il riuso del manicomio da chiudere; il riassetto del pronto soccorso di uno degli ospedali più problematici del centro storico, per cercare di trovare risposte diverse alle persone marginalizzate che lì avevano il loro punto di riferimento; il coinvolgimento di alcune cliniche private in un programma di riorientamento delle strutture. Nello stesso tempo, mise in piedi un’iniziativa curiosa e assai emblematica del suo stile.
Mentre le forze politiche, all’indomani della riforma già ne prendevano le distanze, Basaglia decise di intervistare dirigenti politici di spicco sulle ragioni che avevano spinto i partiti ad approvare la «180» e sui mezzi con cui intendevano governarla: riuscì a fare parlare due alti dirigenti della Democrazia Cristiana, Paolo Cabras e Bruno Orsini, il vice-segretario del partito socialista Claudio Signorile e il segretario del partito socialdemocratico Pietro Longo. Aveva avviato i contatti con Enrico Berlinguer, ma non fece in tempo a incontrarlo. Da quelle interviste fu ricavato, alcuni anni dopo, un film di mezz’ora, che testimonia quale fosse il clima del tempo, quale la libertà di Basaglia da ogni schema prefigurato, quale la sua capacità di mettersi in gioco e, come lui diceva, di «tenere aperte le contraddizioni».
Certo Basaglia non si è sottratto alle responsabilità di governo né ha sottovalutato il problema del consenso. Però ha agito il suo ruolo di tecnico per spingere la politica, soprattutto gli amministratori, ad andare oltre l’orizzonte dato, oltre gli assetti consolidati, che generalmente fanno pagare ai più deboli il prezzo di una precaria o apparente pace sociale. Così lui, uomo di sinistra, non è stato un interlocutore facile neppure per la sinistra, che certo nella ormai lunga vita della «legge 180» ha svolto un ruolo fondamentale in parlamento nel bloccare le controriforme, sia con la scelta di candidare al Senato Franca Ongaro Basaglia, sia nella fase di chiusura dei manicomi, con Romano Prodi al governo e Rosi Bindi alla sanità. Ma gli amministratori locali è ancora necessario conquistarli ad uno ad uno, anche quelli di sinistra, per riuscire a dare aggettivi ai processi di innovazione, a introdurvi una qualità diversa.
Il posto di chi non trova posto
Il manifesto dell’ultimo convegno promosso da Basaglia, Psichiatria e buongoverno (Arezzo 28 ottobre 1979) riportava, accanto ad alcuni particolari dell’Allegoria del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, un commento che si concludeva così: «se ciascuno sta al suo posto regnano l’ordine e il potere; e chi non trova posto in questo ordine e in questo equilibrio?» È un interrogativo che vale sempre, ma oggi non ci sono persone altrettanto autorevoli a difenderlo, ed è cresciuto il numero di chi non trova posto in questo ordine delle cose, per la verità assai fragile; perciò vale di più.
SCHEDA
Da Gorizia a Trieste
Franco Basaglia era nato a Venezia l’11 marzo del 1924. Dopo tredici anni di lavoro all’università di Padova, nel 1961 aveva vinto il concorso di direttore nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove avviò l’esperienza di apertura del manicomio divenuta nota attraverso due libri, Che cos’è la psichiatria? (1967 ) e L’istituzione negata (1968), pubblicati entrambi da Einaudi come il libro fotografico Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che Basaglia aveva curato con Franca Ongaro, sua moglie dal 1953 e collaboratrice nel gruppo di Gorizia. Con lei Basaglia scriverà gran parte dei lavori degli anni successivi e condividerà l’impegno nei movimenti degli anni `70.
Nel 1969 fu invitato come visiting professor al Community Mental Health Centre del Maimonides Hospital di New York, e da quella esperienza scrisse Lettera da New York. Il malato artificiale (Einaudi 1969) e La maggioranza deviante (Einaudi, 1971). Per un anno, nel 1970, diresse l’ospedale psichiatrico di Parma, ma l’esperienza si chiuse tra difficoltà burocratiche e dissidi politici, e alla fine dell’anno successivo andò a dirigere l’ospedale di Trieste, dove riuscì a chiudere il manicomio e dare vita a un nuovo sistema di servizi di salute mentale.
Negli anni di Trieste scrisse molti saggi e una ricerca collettiva, Crimini di pace, cui partecipano tra gli altri Michel Foucault, Erving Goffman, Ronald Laing, Noam Chomsky e Robert Castel, che testimonia dell’ampiezza del suo impegno intellettuale. Il 13 maggio del 1978 il parlamento approvò la riforma psichiatrica, nota come «legge 180».
Basaglia era a Berlino, in uno dei suoi numerosi viaggi, quando si sentì male la prima volta, dopo una conferenza nell’aula magna della Freie Universitaet. Erano i segni della malattia che lo avrebbe portato alla morte il 29 agosto nella sua casa di Venezia.
I suoi Scritti sono stati raccolti da Franca Ongaro e pubblicati in due volumi da Einaudi nel 1981 e ’82. Attualmente è in libreria una nuova antologia, L’utopia della realtà (Einaudi, 327 pagine, 22 Euro) che contiene saggi dal 1964 al 1979 con un inedito in Italia, Condotte perturbate. Le funzioni delle relazioni sociali, scritto con Franca Ongaro su commissione di Jean Piaget che curava, per la Encyclopédie de la Pléiade, il volume Psychologie in cui il testo è uscito nel 1987. L’antologia include anche la bibliografia completa delle opere di Basaglia, una presentazione di Franca Ongaro e una introduzione di Maria Grazia Giannichedda, L’utopia della realtà. Franco Basaglia e l’impresa della sua vita.
Negli ultimi anni sono stati riediti diversi testi di Basaglia: Che cos’è la psichiatria? (Baldini e Castoldi 1997), L’istituzione negata (Baldini e Castoldi 1998) Morire di classe (Edizioni Gruppo Abele, 1998), e una nuova edizione di Conferenze brasiliane (Raffaello Cortina, 2000) con quattro conferenze inedite. Nel 2001 è stata pubblicata la monografia Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio (Bruno Mondadori) e nel 2004 il saggio di Nico Pitrelli L’uomo che restituì la parola ai matti. Franco Basaglia, la comunicazione e la fine dei manicomi (Editori Riuniti)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI.
Federico La Sala
RECENSIONE di "CONTRO TUTTI I MURI. Franca Ongaro Basaglia nella biografia" di Annacarla Valeriano
di Paolo F. Peloso (psychiatryonline, 19 febbraio, 2022)
Di Annacarla Valeriano abbiamo già avuto modo di apprezzare gli studi sugli archivi del manicomio di Teramo: Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1831) (Donzelli, 2014), e Malacarne. Donne e manicomio nell’Italia fascista (Donzelli, 2017), quest’ultimo recensito dal sottoscritto per questa rivista (vai al link) e da lei presentato a Genova nell’ambito del percorso di letture della manifestazione 180 x 40 (vedi il video allegato).
Questo nuovo volume - che nasce evidentemente dal suo duplice interesse per la storia della cura della follia e per la questione femminile - ha al centro la figura di Franca Ongaro Basaglia, nata a Venezia nel 1928. Attraverso la consultazione dell’Archivio Basaglia di Venezia, Valeriano recupera gli appunti scritti per interventi inediti a convegni di quegli anni, le risposte a interviste o gli articoli destinati a periodici, che miscela sapientemente con gli interventi pubblici, più noti, svolti da Ongaro da sola o a quattro mani con il marito nei libri collettanei del gruppo: Che cos’è la psichiatria (1967, vai al link), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968, vai al link), Morire di classe (1969), sul quale Valeriano si sofferma particolarmente, e Crimini di pace (1975).
Tra gli appunti cui l’Autrice fa riferimento, mi ha colpito ritrovare quelli per il suo intervento all’XI Congresso internazionale di legge e psichiatria, al quale ricordo di avere preso parte a Firenze dal 18 al 20 marzo 1985; o al convegno Isole. Percorsi delle difese e delle libertà organizzato da Antonio Slavich a Genova dal 7 al 12 ottobre 1992. Fu lì che Antonio mi presentò a Franca Ongaro, e la scena mi è rimasta impressa; fui colpito dagli occhi chiarissimi, l’atteggiamento autorevole e dalla deferenza con la quale mi parve allora che gli altri “goriziani” (ricordo tra loro Slavich stesso, Pirella, Venturini) la trattassero.
Scrive Valeriano che «le carte d’archivio rivelano che Franca Ongaro, negli anni di Gorizia e all’interno del gruppo dei basagliani, si spese moltissimo per sviluppare una riflessione compiuta sulle pratiche di de-istituzionalizzazione e in questo fu agevolata dalla sua capacità di non semplificare mai la complessità dei problemi e di restituire profondità a tutte le dimensioni possibili dell’esistenza».
Il libro potrebbe essere idealmente diviso in due parti: la prima, nella quale è ricostruito il lavoro della Ongaro prima dell’approvazione della legge 180 ea fianco del marito, che aveva sposato nel 1953, con il quale trovò nella vita, nel lavoro, nel pensiero e nella scrittura una sintesi straordinaria, condividendone l’indignazione, la passione e i progetti; e la seconda, quando si impegnò a portare avanti le idee che avevano maturato insieme in un’Italia trasformata dall’approvazione della legge 180 e dalla nascita faticosa dei servizi. Consapevole che occorreva da un lato consolidare la rivoluzione avvenuta, ma dall’altra andare oltre la psichiatria, «a conferma» - scrive Valeriano, del fatto - «che la de-istituzionalizzazione non poteva fermarsi semplicemente alle soglie del manicomio, ma doveva rappresentare un processo continuo contro tutti i muri di parole, contro i pensieri, i pregiudizi, le culture che potevano limitare la dignità degli uomini e delle donne». L’impatto con la spaventosa condizione degli internati e con l’odore dell’istituzione, questa volta è affrontato con gli occhi e il naso di Franca che, per raccontare il manicomio nel 1982, scrive di «un odore spaventoso che ti impregnava i vestiti e che non ti andava via neanche quando tornavi a casa, ti facevi la doccia e ti cambiavi. L’odore del manicomio. Odore di chiuso, di feci, di orine e di sofferenza».
Secondo Valeriano, poi, per Franca Ongaro il lavoro fatto a Gorizia era costituito da «“due elementi complementari l’uno all’altro”: da un lato, opporsi a Gorizia aveva significato lottare contro un’ideologia scientifica che, coprendo la realtà, si era tradotta in un dogma utilizzato dai medici per sancire l’incomprensibilità della malattia mentale e non occuparsi dei malati. Dall’altro, il rifiuto della realtà istituzionale aveva comportato anche un cambiamento della pratica manicomiale. In questa lotta, condotta su due versanti, le persone ricoverate erano sempre state l’unico punto di riferimento e di verifica da non perdere mai di vista».
Mi hanno emozionato le parole che Ongaro dedica ai giovani che, da ogni parte d’Italia e non solo, affluivano a Gorizia per prendere parte a quell’esperienza che, partita quasi in sordina in un piccolo ospedale psichiatrico di confine, coll’avvicinarsi del ’68 diventava un’occasione di vivere nella pratica quelle parole di comunità e solidarietà che venivano gridate, cantate e “scritte sui manifesti appesi contro i muri” (Finardi): «”Anche per loro fu un’occasione, un’esperienza ricca di significato” - ricorda Franca Ongaro - “vivevano in ospedale la vita dei pazienti e con la loro presenza numerosa servirono a rompere la monotonia, portando attività, iniziative nuove, movimento, vita e la loro gioventù. Chi suonava la chitarra, chi insegnava a scrivere e a far di conto, chi organizzava corsi di ginnastica per la riabilitazione, chi accompagnava i più anziani e regrediti a passeggiare per il parco o a trovare qualche amico in altri reparti, chi si assumeva l’incarico di restare tutto il giorno, tanti giorni, con un paziente che era entrato in crisi. Tutto questo servì più di quanto la psichiatria fosse mai riuscita a fare”. I volontari sapevano poco o nulla della malattia mentale, ma “la loro azione pratica, la loro disponibilità di fronte a persone che erano state sempre rifiutate davano risultati inaspettati”».
Si realizzava così quello che altrove ho definito l’incontro fortunato tra Basaglia e il ’68 (vai al link). Altre parole ancora della Ongaro, rinvenute da Valeriano nelle buste dell’Archivio e riproposte in questo libro interessante e piacevole alla lettura, contribuiscono a rendere il calore e la passione di quel momento: «”ci volevamo bene tutti” - ricorda Franca Ongaro - e si era scoperto che era anche attraverso questo volersi bene che diventava terapeutico tutto all’interno del manicomio, perché i malati lo sentivano ed erano oggetto di una circolarità di comunicazione e di affetto”».
Ma non si deve pensare che tutto a Gorizia fosse spontaneismo, improvvisazione, affetto. No. Il gruppo di Basaglia studiò sodo, più di molti altri gruppi nell’Italia di quegli anni nei quali pure al “fare” si era forse più capaci di oggi di associare il “pensare”, sforzandosi di attingere dalle esperienze di psichiatria in quel momento più avanzate, in Gran Bretagna e Germania Federale soprattutto. E Valeriano ricorda così che anche Franca Ongaro fece la sua parte, trasferendosi per un periodo nel 1963 a Dingleton, in Scozia, presso la Comunità Terapeutica fondata da Maxwell Jones nel 1952. Non solo. Ricostruisce anche come sia stato prezioso in quegli anni per l’équipe, e per Franca Ongaro particolarmente, la scoperta di Erving Goffman, che presentò nel 1967 al lettore italiano nel suo capitolo di Che cos’è la psichiatria, e poi attraverso la traduzione integrale nel 1968 di Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza e nel 1971, insieme a Enrico Basaglia, de Il comportamento in pubblico.
Centrale appariva infatti a Ongaro - in quella rivoluzione alla quale quanto accadeva a Gorizia andava sempre più somigliando - per Valeriano il ruolo dello studio e degli intellettuali: «coloro che possedevano mezzi culturali adeguati, erano anche nelle condizioni di utilizzarli per trovare una via d’uscita, per reagire e “lottare con gli stessi strumenti di chi ha il potere”, poiché ”avere un nome, un volto, una qualifica agli occhi del mondo” significava avere una risorsa in più per ottenere la liberazione».
Certo, tutto pareva andare abbastanza bene nonostante barriere e incidenti, finché si trattò di umanizzare, democratizzare, trasformare l’interno dell’Ospedale; i problemi nascevano, e Valeriano illustra bene la consapevolezza che Ongaro ne ebbe da subito, quando si trattava di affrontare quello che definiva “il malinteso della porta aperta”, cioè il fatto «che non era sufficiente scardinare la porta sbarrata del manicomio per restituire una reale libertà alle persone che vi erano rinchiuse. Per consentire agli internati di riconquistare il loro posto nel mondo, per mettere in crisi il manicomio, bisognava forzare le sue porte e fare in modo che si spalancassero su una comunità pronta ad accogliere gli esclusi, pronta a rimettere in discussione anche il proprio modo di pensare l’abnorme».
Ma la rivoluzione basagliana, che aveva fino a un certo punto navigato con gli anni ’60 in poppa, si trovò a navigare sempre più controcorrente in un mondo e un’Italia che andavano chiudendosi anziché aprirsi già dagli anni ’70, e più ancora nei quattro decenni che sarebbero poi seguiti. E finiva così per essere una rivoluzione interrotta, incompleta; sospesa a metà.
E l’accostamento operato da Valeriano poco oltre di Franca Ongaro a una figura tragica come Rosa Luxemburg può far pensare proprio a questo. Così, a partire dalla morte di Franco il 26 agosto 1980 (vai al link), Franca Ongaro si trovò, senza più il compagno di una vita e di tante lotte accanto, da un lato a presidiare ciò che era stato conquistato e dall’altro a lottare perché alla chiusura dei manicomi corrispondesse l’apertura di servizi forti nei territori e, cosa ancora più difficile, di spazi di tolleranza e accoglienza per il diverso (ogni diverso) nella società.
E qui, ha inizio quella che mi pare la seconda parte del volume, che ha al centro l’impegno politico diretto che vide Franca Ongaro eletta per due legislature consecutive - dal 1983 al 1992 - in Senato come indipendente nel PCI nel gruppo della Sinistra indipendente. Valeriano ricorda che fece sempre parte della XII Commissione, Igiene e Sanità, e si occupò di temi che vanno dall’organizzazione dei servizi per la salute mentale, all’assistenza sanitaria, le tossicodipendenze, e poi eutanasia, trapianti, violenza sessuale, carcere.
In Senato, Valeriano ricorda che Ongaro scrisse su “Nautilus”, il supplemento che “Il manifesto” pubblicò per qualche tempo su salute mentale e temi affini, di avere avvertito «la “percezione di una sorta di svuotamento” degli argomenti su cui si dibatteva, “come fossero purgati del loro peso e della loro concretezza”. Inizialmente, dunque, si era sentita “estranea alle regole interne” e aveva avuto bisogno di qualche tempo per capire i processi attraverso i quali le questioni finivano per assumere una “forma rarefatta”. Avrebbe presto rilevato come “gli interessi da tutelare e da difendere” sembravano spostare la discussione in “una dimensione quasi senza oggetto, in cui ciò di cui di fatto si parla non viene mai nominato, mentre ciò che si nomina non viene in realtà discusso”». E sono osservazioni dei meccanismi di funzionamento che a volte il potere assume che mi hanno immediatamente ricordato quanto Toni Negri raccontò in un’intervista a proposito dei pochi giorni di attività parlamentare che in quegli stessi anni gli vennero concessi, dei quali lo colpì soprattutto la distanza siderale dalla realtà vissuta dalle persone. Per non dire poi della fustigante espressione usata sempre negli anni ’80 da Giorgio Gaber, che al termine di una condanna generale del ceto politico e intellettuale italiano cantava che “la politica è schifosa e fa male alla pelle”. Ma ciò nonostante la politica che Ongaro cercò di fare in quegli anni dentro e soprattutto fuori il Parlamento era strettamente legata ai bisogni e ai corpi delle persone.
Continuò così a occuparsi, scrive Valeriano, di trovare e inventare «”assieme - malati, operatori, politici, amministratori e popolazione - delle soluzioni che, di volta in volta, riescano a rispondere ai reali bisogni di chi soffre di disturbi psichici”». A lottare perché la comprensibile indignazione delle famiglie abbandonate spesso a se stesse dopo il 1978 non si lasciasse strumentalizzare da chi voleva tornare indietro rispetto alla “svista” che il Potere aveva commesso nel lasciare chiudere il manicomio (nei primi dieci anni furono presentate ben dodici proposte di modifica della legge). A dire che «”io sono con loro semplicemente perché quello che si dice è stato fatto della 180 non è la 180”». A evitare il rischio di vedere contrapporre famiglie da una parte, a spngere dentro i muri, e servizi e pazienti dall’altra, a spingere fuori. E a cercare anzi con le famiglie «alleanze “per lottare insieme e ottenere quanto la legge prevede: un complesso di soluzioni diversificate che riescano a far fronte al problema senza ricorrere all’internamento”».
Erano gli anni degli attacchi alla 180 e a quella che veniva definita la sua applicazione a pelle di leopardo. E l’impegno parlamentare di Ongaro la vide quindi avanzare proposte volte a obbligare (tutte) le Regioni all’applicazione della legge, fornendo loro indicazioni concrete e cogenti. E Valeriano ricorda la proposta di legge presentata in Senato dal Pci nel 1983 e sottoscritta anche da Ongaro, che «conteneva norme di indirizzo alle Regioni per l’istituzione dei Dipartimenti di salute mentale e per la realizzazione di servizi aperti 24 ore, dettandone tempi di attuazione e prevedendo un finanziamento specifico». E poi il disegno di legge elaborato nel 1987, base del Progetto Obiettivo 1994-1996.
Si discuteva già dal decennio precedente di Ospedale Psichiatrico Giudiziario, che la 180 aveva lasciato indietro, e del quale la Corte costituzionale, con sentenza n. 141 del 1982, aveva condannato il fatto di non corrispondere più ai criteri generali dell’assistenza psichiatrica, al cui rispetto anche i condannati - che avrebbero dovuto attendere invece più di trent’anni - avevano diritto.
Ma il discorso era ed è più ampio. Così, Valeriano ricorda che «nel 1983 Franca Ongaro presentò in Senato, insieme ad altri senatori, un disegno di legge sull’imputabilità del malato di mente autore di reato e sul trattamento penitenziario a esso riservato, proponendo di abolire la nozione di incapacità di intendere e di volere del reo sofferente di disturbi psichici per equipararlo ai soggetti che commettevano reati in stato di ubriachezza, di stupefazione o per cause emotive e passionali». Come è noto, la questione è ancora aperta oggi.
Poi, ricorda ancora che «con un intervento in Senato pronunciato il 24 novembre 1989 in occasione della discussione del disegno di legge Jervolino-Vassalli sulle droghe, sostenne con forza l’idea che la tutela non potesse prevaricare l’autonomia individuale e che la solidarietà dovesse consistere nel farsi carico della persona nella sua globalità». Che si occupò di eutanasia, un tema al centro del dibattito in questi giorni. Che nel 1987 prese parte alla presentazione di un Progetto di legge sulla violenza sessuale, e si trovò in quell’occasione nella difficoltà di voler vedere certo punita l’offesa odiosa contro la donna, ma anche che «le donne si sforzassero di dare prova della propria “diversità” mostrandosi “sufficientemente forti per poterci permettere un gesto più forte di noi”, come ad esempio esigere per i colpevoli un modo diverso di vivere la pena che fosse emancipatorio e non solo punitivo e vendicativo». Ricordo che in quegli anni mi interessai al fatto che Franca Ongaro promuovesse con l’amico Mario Tommasini - al quale dedicò un libro-intervista nel 1987 - con Franco Rotelli e altri, il comitato Liberarsi dalla necessità del carcere, volto a cercare una strada abolizionista che mettesse il carcere in archivio, come vi era stato messo il manicomio.
E quindi si comprende come sostenesse che «”per cambiare la cultura della violenza e dello stupro”» non si poteva certo «pensare di fare ricorso alla violenza delle carceri nelle quali - come in tutte le istituzioni totali - si riproponeva la medesima logica della sopraffazione, seppur a un livello diverso». Ancora, Valeriano ricorda che «la senatrice Ongaro Basaglia, tra l’altro, fu colei che, nel 1989, propose l’istituzione dei centri antiviolenza, ravvedendo la necessità che questi luoghi rispondessero ai bisogni delle vittime nel modo più globale possibile». E ricorda, ancora, il suo impegno in favore della depenalizzazione dell’aborto.
Le ultime pagine del libro le dedica all’attenzione di Franca Ongaro per la questione femminile. Da un lato l’impatto particolare che la follia ha sulla donna. Dall’altra la questione del rapporto uomo-donna, a proposito del quale raccolse nel 1982 i suoi scritti nel volume Una donna;, la necessità di riconoscere una diversità, ma insieme di perseguire una parità che non può essere data per scontata e una volta per tutte acquisita.
Per questo incessante e straordinario impegno civile, Franca Ongaro è stata insignita della laurea honoris causa in Scienze politiche da parte dell’Università di Sassari nel 2002. È morta a Venezia il 13 gennaio 2005.
E a lei viene oggi dedicato questo libro da parte di Annacarla Valeriano che ne ricostruisce la vita dedicata incessantemente alla lotta per il riconoscimento dell’universalità dei diritti della persona, davvero “contro tutti i muri”. E insieme il pensiero, volto ad affrontare in modo mai semplicistico né scontato molte questioni fondamentali: il rapporto tra normalità e follia, tra salute e malattia, quello tra i generi, quello tra colpa, follia e pena, tra colpa e pena, tra gli altri.
Mi pare che questo libro rappresenti il giusto riconoscimento della statura di protagonista dell’Italia tra gli anni ’60 e ’90 di un’intellettuale e una militante che merita, come mi pare che Valeriano al di là di ogni dubbio dimostri, molto più che essere solo ricordata come la moglie di Franco Basaglia.
Politiche sanitarie e società
Salute mentale, turbolenze a nord-est
di Federica Sgorbissa (Le Scienze, 25 giugno 2021)
Le modalità e l’esito di un concorso per la direzione del Centro di salute mentale di Trieste che fu già di Franco Basaglia, il “padre" della legge 180 che portò alla chiusura dei manicomi, hanno scatenato un’aspra polemica. C’è chi teme un attacco al modello che dirige la gestione della salute mentale in Italia e che rappresenta un punto di riferimento globale
Se in questi giorni vi è capitato di vedere citato con toni allarmanti il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia, Trieste, addirittura sulle pagine di qualche quotidiano britannico (An unfolding nightmare, un incubo che si svela, titola “The Independent”) vi sarete chiesti che cosa stia capitando in questo lembo periferico del nostro paese. No, la bora non c’entra, questa volta la protagonista è un’altra specialità triestina: la salute mentale.
La vicenda in breve. Siamo alla fine di maggio: al concorso per la nomina del direttore del Centro di salute mentale (CSM) 1 di Trieste (noto ai locali come quello di “Barcola”, forse questo nome vi risuona) la prova orale ribalta l’iniziale graduatoria per curriculum dei tre candidati finali, mandando all’ultimo posto quello che era il primo e viceversa. Il 9 giugno viene confermata la nomina del primo in graduatoria, il medico Pierfranco Trincas, proveniente dai servizi di salute mentale di Cagliari, psichiatra con una specializzazione in ambito criminologico (così nel suo curriculum), che supera gli altri due candidati, ovvero Fabio Lucchi, che ha lavorato agli Spedali civili di Brescia, e Mario Colucci, da trent’anni al servizio del Dipartimento di salute mentale (DSM) di Trieste, un basagliano doc, per così dire.
Per la prima volta negli ultimi quarant’anni questa posizione sarà occupata da un medico che non fa capo alla tradizione triestina, quella inaugurata dallo psichiatra veneziano Franco Basaglia, autore della legge 180, che dal 1979 regola e dirige la gestione della salute mentale italiana. Subito divampa un’aspra polemica che si condensa in una lettera pubblicata (a più riprese) sulle pagine del quotidiano locale, “Il Piccolo”, firmata da alcuni ex direttori del DSM del Friuli-Venezia Giulia e da un gran numero di medici e personalità, nazionali e internazionali, in cui si denuncia un attacco al sistema della gestione della salute mentale. Da questa azione scaturisce anche una petizione internazionale on line da titolo “Save Trieste’s mental health system”.
La vicenda approda anche fra le news del "British Medical Journal" (BMJ), oltre che, come già detto, su “The Independent”, complice il grande numero di medici e psichiatri britannici fra i firmatari della petizione.
Perché tanto sconcerto, preoccupazione e opposizione per questa nomina? Perché a quella che sembrerebbe una vicenda squisitamente locale si interessano addirittura personalità internazionali?
La paura è che si vada a minare quello che a oggi nel nostro paese risulta essere un sistema di gestione di salute mentale che funziona, rispettoso dei pazienti ed efficace nel promuovere il loro benessere e (non sono cose scollegate) l’unico esempio in Italia di continuità e fedeltà nell’attuazione della legge 180. Modello che - da qui l’interesse internazionale - ha rappresentato e rappresenta un riferimento globale che ha più volte, anche di recente, ricevuto il plauso di realtà del calibro dell’Organizzazione mondiale della Sanità.
Concorso a porte chiuse
Quello che i firmatari della lettera sostengono è che - anche alla luce di presunte irregolarità nel concorso stesso - ci sia una palese voglia di minare dal di dentro questo modello, inserendo ai vertici della sua gestione medici in aperta opposizione.
Come spiega sulle pagine de “Il piccolo" Franco Rotelli, ex-direttore del DSM triestino e figura storica nella riforma psichiatrica, la procedura del concorso desta più di qualche perplessità. Quello che era il candidato con il maggiore punteggio per curriculum, uno psichiatra che lavora da oltre trent’anni nelle strutture triestine, docente universitario, che ha presentato nel suo curriculum diverse decine di titoli (72 pubblicazioni, scrive Rotelli, molte in riviste internazionali di grande autorevolezza) è stato superato largamente - dopo una prova orale di pochi minuti, a porte chiuse, in assenza del direttore del Dipartimento - da un candidato che era ultimo in graduatoria e con “in dote” due sole pubblicazioni e qualifiche meno brillanti.
Coloro che contestano la nomina aggiungono inoltre che della prova orale non è nemmeno possibile conoscere i dettagli poiché non riportati nei verbali, dove si trovano solo valutazioni standard uguali (al netto degli aggettivi “sufficiente”, “discreto”, “buono”, “ottimo”...) per tutti i candidati.
Il vincitore inoltre risultava per curriculum e titoli fra gli ultimi anche nella rosa più ampia di otto candidati, dalla quale sono stati scelti i tre “papabili” finali, dove invece il terzo candidato finale risultava in assoluto il primo.
“Con l’aggravante - aggiunge Roberto Mezzina, psichiatra e ultimo direttore ufficiale del DSM di Trieste (fino al 2019) - che il direttore generale dell’Azienda sanitaria universitaria Giuliano Isontina (ASUGI), che può scegliere il candidato a sua discrezione nella rosa dei tre, ha preferito quello con il curriculum peggiore, nonostante la sua scarsa esperienza.” La classifica finale di tre candidati infatti non rappresenta in sé un’attestazione conclusiva ma solo un pool di scelte dalle quali il direttore generale può pescare facendo le debite considerazioni.
L’Azienda sanitaria del Friuli-Venezia Giulia da noi contattata in merito alla vicenda si è limitata, tramite l’ufficio stampa, a una lapidaria risposta via e-mail sottraendosi a un’intervista più articolata. Così scrivono: “Riguardo la ‘notevole eco mediatica’, come lei riporta, in merito l’esito di una regolare procedura concorsuale espletata secondo la norma Balduzzi, la Direzione non ha nessuna dichiarazione da aggiungere”.
La tesi di Mezzina, Rotelli e gli altri, tuttavia è che la politica abbia prevalso su competenze e buonsenso. Ricordiamo qui - anche se ormai dopo due anni di emergenza pandemica la cosa è abbastanza chiara a tutti - che la gestione della sanità è ampiamente regolata dalle regioni, e che la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia oggi è guidata da una coalizione di destra, formata da partiti che storicamente hanno combattuto strenuamente la legge 180 fin dalla sua nascita.
Chiaramente le accuse sono state prontamente rispedite al mittente, e bilanciate da una serie di contro-accuse: gli psichiatri basagliani vorrebbero solo difendere il loro orticello e non lasciare entrare “nel sistema” figure che non fanno a capo alla loro scuola di pensiero.
L’importanza dei Centri di salute mentale
Una delle cose che potrebbe sorprendere il “lettore ingenuo”, è l’enorme polverone sollevato intorno a una nomina che per quanto importante a livello locale, potrebbe apparire marginale in un quadro complessivo: si tratta pur sempre del direttore di uno solo dei quattro Centri di salute mentale (21 a livello regionale) di Trieste
L’importanza della nomina, tuttavia, si attesta a diversi livelli. Uno di questi è sia simbolico che pratico. I Centri di salute mentale sono l’essenza del “sistema Trieste” e riassumono l’etica basagliana. “I CSM sono la struttura inventata a Trieste da Franco Rotelli nel 1975, con Basaglia direttore, diffusa prima a Trieste poi in tutta la regione, realizzata adesso anche in altre regioni italiane, dove però spesso si applica in maniera molto minimale. Questa struttura è stata realizzata anche in alcune parti del mondo tra cui il Brasile, che ha adottato questo modello per i Centros de Atenção Psicossocial (CAPS). Anche altre esperienze in giro per il mondo hanno mutuato questa idea,” spiega Mezzina.
Il CSM è la struttura portante dell’assistenza territoriale. Ogni centro è basato su un’équipe che si muove sul territorio e le persone che ne hanno bisogno vi accedono in maniera libera, senza cioè quell’invio da parte del medico di base o chi per lui, senza formalità. “Vengono quando vogliono, quando sono in crisi, quando gli pare”, puntualizza Mezzina. “Questa è un’altra eccezionalità. Queste persone possono essere ospitate dalla stessa équipe che le conosce e che le segue attraverso un piccolo numero di posti letto dentro la struttura. Si tratta quindi di un’assistenza territoriale. Che è di per sé è una bestemmia per una psichiatria ospedaliera che vede il posto letto solo in ospedale.”
L’eccezione della realtà triestina (e più in generale del Friuli-Venezia Giulia) è la continuità nell’applicare un approccio di cura e accoglienza del malato mentale, che anziché mettere i malati dentro un ospedale, vestendoli con un camice, magari usando la contenzione come visto più volte in altri luoghi (anche con conseguenze gravissime), li lascia liberi, con i propri vestiti, circondati da amici e familiari, in un posto accogliente che somiglia a una casa. Gli operatori inoltre conoscono bene la persona, mentre in altre realtà italiane il malato mentale in crisi viene spesso affidato a medici e assistenti sanitari sconosciuti che devono rifare tutta la valutazione diagnostica, oltre che ricostruire da zero il rapporto di fiducia con la persona.
“Tutto ciò è una garanzia di maggior continuità, maggiore umanità dell’assistenza e maggiore efficacia, perché sulla base del rapporto di fiducia si costruiscono le azioni terapeutiche. Questo, in base alla ricerca, è uno degli indicatori del buon esito di un trattamento”, conclude Mezzina.
Situazione incerta
La nomina del direttore di un CSM, tuttavia, è importante anche a un livello più prosaico: chi ricopre questa carica entra infatti automaticamente in lizza per il posto di direttore del Dipartimento di salute mentale. Questa crisi attuale si inserisce in un momento di stallo e insieme di imminente ristrutturazione dei servizi di salute mentale regionale. Basti dire che da oltre un anno e mezzo (da quando cioè Mezzina non è più direttore del DSM di Trieste) questo è gestito da una “direttrice facente funzioni”, la dottoressa Elisabetta Pascolo.
Una situazione anomala, perché “di solito il facente funzioni non potrebbe stare in carica più di 6 mesi, massimo un anno”, spiega Mezzina. Ma non basta, oltre al direttore vacante, c’è imminente un cambio di assetto strutturale dei servizi di salute mentale dell’Azienda sanitaria Giuliano Isontina: verranno infatti presto pubblicati gli atti aziendali in cui un’azienda definisce la sua organizzazione, il suo funzionigramma e organigramma. Tutto ciò desta preoccupazioni rispetto a possibili tagli e riduzioni.
Insomma non si tratta di un periodo di grande serenità, da qui i nervi tesi.
Soprattutto, da un lato c’è chi crede che i fatti recenti si inseriscano in una lunga battaglia fra destra e sinistra sulla legge 180, con la volontà di smantellare quanto di buono fatto a Trieste e nel Friuli-Venezia Giulia negli ultimi quarant’anni.
Dall’altro lato, i commentatori di sponda opposta (non l’Azienda sanitaria, va precisato, che non ha dichiarato pubblicamente nulla più di quanto riportato anche in questo articolo) insinuano che la reazione sia dettata solo dalla volontà di non fare entrare elementi estranei in quella che viene vista come una roccaforte basagliana. Del merito sulle competenze e le intenzioni del designato nuovo direttore invece non si sa praticamente nulla.
Intanto però è in via di presentazione un ricorso ufficiale: “Gli elementi di procedura sono al momento al vaglio. Adesso ci sarà un ricorso e quindi verranno valutati. Da quello che ho potuto appurare il concorso si è svolto a porte chiuse: i candidati non hanno potuto ascoltare quello che gli altri dicevano. Sono stati fatti allontanare, è stata una scelta sbagliata”, conclude Mezzina. Si preannuncia un’estate calda.
Legge 180
Le parole di Franco Basaglia
di Massimo Bucciantini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.06.2018)
Le quattordici conferenze che tenne in Brasile a giugno e novembre del 1979 sono il testo di Basaglia più conosciuto fuori dall’Italia. E al tempo stesso - come osserva Maria Grazia Giannichedda - sono «il modo migliore per avvicinarsi al suo lavoro e alle sue idee e per ritrovare, nelle sue parole, le radici della Legge 180».
Già, le sue parole. C’è un lavoro ancora da fare sulle “parole” di Franco (di Franca e dei «goriziani»). Perché tanto si è discusso in questi mesi dell’azione che lo condusse allo smantellamento del manicomio, meno, però, delle sue parole, che accompagnano e guidano quella esperienza radicale. E il presente libro - più di altri - si presta a riflettere su questo aspetto.
Tornando a leggerlo, sono rimasto colpito dall’inquietudine che lo pervade. Eppure era trascorso appena un anno dall’approvazione della legge che prese il suo nome. Non siamo cioè all’inizio di un percorso ma a un significativo risultato di messa in pratica del progetto a cui lui - insieme al gruppo di psichiatri che partecipò a quella stagione irripetibile - dedicò quasi vent’anni della sua vita.
Ma l’aria che si respira in queste conferenze non ha niente di celebrativo. Si percepisce subito che Basaglia non si sente maestro di alcunché, né è venuto per esportare un modello di psichiatria o di salute mentale. Ciò che gli interessa è «organizzare qualcosa che vada al di là di queste riunioni, qualcosa che sia come un cemento che può unire le persone che vogliono lavorare in modo diverso». Quello che gli preme comunicare è l’urgenza di un agire che non può limitarsi al rapporto con i malati e con la follia, ma che deve coinvolgere «il popolo in generale» e le sue organizzazioni sociali e politiche. Ben sapendo che ogni conquista di libertà può tramutarsi nel suo contrario, in una nuova forma di oppressione.
Ma questa situazione di pericolo e di incertezza non vanifica i cambiamenti, come se gli sforzi di trasformazione della società fossero destinati sempre e comunque all’insuccesso perché «il potere» ha la capacità di recuperare tutto. Scrive, al riguardo, Basaglia: «Se questo fosse vero dovremmo dire che le Brigate Rosse hanno ragione, cosa che invece non è affatto vera perché sono anch’esse manipolate dal potere: il terrorismo in Europa è un’immagine speculare dello Stato».
Siamo nel 1979, a un anno dall’assassinio di Moro, e sono parole pesanti le sue. Così come lo sono quelle lanciate contro la psichiatria e la medicina tradizionali. Una lotta impari, del nano contro il gigante, di una minoranza che vuole una realtà diversa, ma che può diventare - e il nome di Gramsci ricorre più volte - una minoranza egemonica.
Le Conferenze brasiliane sono abitate da parole ed espressioni che oggi ci sembrano lontane, che appartengono a un orizzonte ideologico e politico distante ere geologiche dal nostro presente. A una prima lettura siamo quasi tentati di trascurarle, di metterle in secondo piano, come se provenissero da un passato arcaico. Ma che invece non possono essere cancellate, se vogliamo provare a calarci dentro quella pratica antistituzionale, se vogliamo capirne il senso. Ecco allora che brani come questo diventano occasione di riflessione:
Si tratta di avviare un’opera di restituzione, anche filologica e linguistica, di quel progetto. E ciò significa, a quasi mezzo secolo di distanza, provare a leggere quei testi pesando e bilanciando le sue parole, all’interno di quell’originale incrocio tra battaglia scientifica e battaglia politica su cui Basaglia ha tentato di costruire una nuova forma di umanesimo.
Al tempo stesso, però, si avverte la necessità di ascoltare altre voci, di entrare in quel pezzo di storia da punti diversi. Per questo, il racconto autobiografico di Antonio Slavich (1935-2009) riempie un vuoto e vorremmo che altri se ne aggiungessero.
Intanto è una testimonianza preziosa, di un protagonista. E non solo perché Slavich fu il primo allievo di Basaglia, colui che dal 1961 lavorò al suo fianco fino al 1969, fino a quando i coniugi Basaglia decisero di trasferirsi prima a Colorno e poi a Trieste, ma anche perché riesce, con una scrittura in terza persona limpida e coinvolgente, a rendere il clima di fermento e di continua sperimentazione che si respirava nei padiglioni di uno degli ospedali psichiatrici più periferici e insignificanti d’Italia, al confine del mondo occidentale.
Ci si accorge subito che siamo di fronte a uno sguardo che cattura i dettagli, anche quando vorresti che il racconto non indugiasse ed entrasse subito nel vivo della battaglia. Anzi, in un primo momento saresti quasi portato a saltare, ad andare al dunque. Poi però scopri che questa andatura minimalista ha il merito di farti vedere le persone più da vicino e di spazzare via luoghi comuni. «Il primo incontro di Basaglia con Slavich fu sobrio, breve, cortese, nessun tu asimmetrico fra barone e allievo implume. Da quella mattina di fine ottobre del ’59, fino al ’68, Basaglia e Slavich si sarebbero dati sempre del lei». E riferendosi a Basaglia: «Il francese lo leggeva bene e molto, come l’italiano e l’inglese; il tedesco, invece, se lo faceva tradurre; quanto a parlarle, le lingue, l’unica che orgogliosamente usava era il veneziano, a meno che la cosa fosse proprio inopportuna».
Ma le vicende si susseguono senza tregua, e il ricordo si fa incalzante. A cominciare dalla «bella primavera» del 1965, quando a Gorizia, arriva Agostino Pirella già primario a Mantova («lo sguardo era diritto, intelligente e un po’ ironico, uno studioso serio») e subito dopo Nico, Domenico Casagrande, e poi ancora, nell’ottobre del ’66, Giovanni Jervis, la psicologa Letizia Comba Jervis, Lucio Schittar. I sette goriziani, come li chiama Slavich. Il settimo era Leopoldo Tesi arrivato nel novembre del ’62. E attorno a questo sparuto, e a volte conflittuale, gruppo si formano in quegli anni tanti operatori, allora studenti e giovani laureandi, che diventeranno il motore della preparazione della Legge 180.
Slavich racconta la genesi del libro collettivo Che cos’è la psichiatria?, curato da Basaglia e stampato dall’Amministrazione provinciale di Parma, «con il disegno autoritratto di Hugo Pratt in divisa da matto in copertina». E subito dopo affronta i nodi concettuali che portarono all’uscita dell’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico. È uno dei capitoli più belli del libro, con la discussione delle contraddizioni che emersero all’interno del gruppo e provocate dalla presenza degli ultimi due reparti ancora chiusi, i reparti C uomini e donne.
Il libro uscì nel febbraio del ’68. E fu un successo. Slavich ricorda così la commozione di Basaglia al momento della consegna del dattiloscritto a Einaudi: «I primi di dicembre, un pomeriggio, Franco aspettava pazientemente in biblioteca la consegna degli ultimi dattiloscritti. Li impilò in bell’ordine in un faldone da ufficio, di quelli grigi con i nastrini neri subito legati a fiocco; sollevò felice il faldone stringendolo al petto, salutò tutti, guardandoci uno a uno con uno sguardo mite carico di affetto e gratitudine: poi di scattò si girò e scendendo le scale a grandi balzi s’infilò in macchina, grattò la marcia, e si precipitò a Torino». Un’immagine fulminante.
Quarant’anni dopo la Legge Basaglia
La rivoluzione di Marco Cavallo
di Mario Cardano (Il Mulino, 17 maggio 2018)
Gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso vedono il nostro Paese protagonista di una delle più importanti rivoluzioni sociali, la chiusura dei manicomi e la sperimentazione di una cura del male mentale dentro la società e non ai suoi margini. Tutto comincia a Gorizia, nel 1961, quando un giovane psichiatra, Franco Basaglia, lascia l’università, dove riconosce di non avere alcuna opportunità di carriera, per assumere la direzione del locale ospedale psichiatrico.
Varcata la soglia del «Francesco Giuseppe I», Basaglia incontra un’umanità dolente, assoggettata a una disciplina severa quanto vana, avvolta da un fetore che immediatamente gli evoca quello del carcere nel quale fu rinchiuso durante il periodo della lotta partigiana, e che lo invase, poco meno di vent’anni più tardi, quando fece visita al manicomio di Barbacena: un rifiuto fisico dell’istituzione manicomiale, prima ancora che intellettuale.
Il manicomio era il luogo nel quale venivano rinchiuse le forme più diverse di alterità, tutto ciò che, come la follia, suscitava scandalo, paura o più semplicemente fastidio. I manicomi rinchiudevano, con i folli, bambini indisciplinati, epilettici, alcolisti, deboli di mente, ma anche, come accadde durante il fascismo, uomini e donne che si opponevano al regime o ne incrinavano la reputazione. Prima della scoperta degli psicofarmaci, negli anni Cinquanta, i manicomi erano il teatro di un frastuono e di un caos efficacemente rappresentato dal film di Litvak The snakes pit, del 1948. Con la diffusione degli psicofarmaci, a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, i manicomi diventano il luogo di un silenzio irreale, di un torpore chimico, rotto in modo intermittente dalle urla degli «agitati», prontamente legati al letto e ridotti al silenzio.
Da principio, Basaglia prova a demolire il manicomio all’interno delle sue stesse mura. Toglie le inferriate alle finestre, bandisce il ricorso all’elettroshock e alla contenzione, elimina le divise, abbatte la separazione fra uomini e donne. Arriva anche a sperimentare, con la comunità terapeutica, il coinvolgimento attivo dei pazienti nella gestione del manicomio.
Tutto ciò non basta, Basaglia si persuade che un semplice ammorbidimento del regime manicomiale altro non è che una forma di «tolleranza repressiva», che non risolve, e semmai occulta, la violenza del manicomio. -L’istituzione manicomiale non può essere riformata, deve essere negata.
Cogliamo qui quanto a me pare la cifra del pensiero basagliano, una disposizione riflessiva che lo conduceva a mettere alla prova nella pratica quotidiana le proprie rappresentazioni del mondo. Basaglia fu capace di assoggettare le proprie obbedienze teoriche (la psichiatria fenomenologica) e ideologiche (il pensiero gramsciano) a ciò che aveva modo di sperimentare nella propria quotidianità. A ciò va aggiunta la lucida consapevolezza dell’ambiguità della propria professione, sospesa fra la custodia e la cura.
Riflessivo, ma anche audace, Basaglia aprendo le porte del manicomio corse più di un rischio, e per questo venne trascinato nelle aule dei tribunali. Scelse di abbattere le mura del manicomio nella consapevolezza di «violentare la società», obbligandola ad accettare il folle.
Da Gorizia, Basaglia si trasferì prima a Colorno per poi approdare a Trieste nel 1971. Trieste non fu solo l’ultima tappa di un percorso clinico, ma anche la stagione di una grande sperimentazione politica. Valeria Babini, in Liberi tutti, accosta la Trieste degli anni Settanta alla Vienna di Freud, un laboratorio di effervescenza politica e culturale, il luogo di edificazione di una peculiare pedagogia della libertà. Nel febbraio del 1973 la corte di Basaglia, fatta di folli, di tecnici, di militanti e di artisti, invade la città scortando - come in processione - un enorme cavallo azzurro di cartapesta, Marco Cavallo. Un’azione simbolica che prelude alla restituzione del folle alla società che avverrà qualche anno più tardi.
Con la legge del 13 maggio 1978, l’utopia di Basaglia inizia a prendere forma. Basaglia guardava a questo traguardo con un sano scetticismo. Sin da subito espresse le proprie riserve sulla sussunzione della psichiatria alla medicina, forse presagendo la deriva organicistica degli ultimi anni. A ciò aggiungeva uno sconsolato pessimismo sul carattere risolutivo della chiusura dei manicomi, temendo l’emergere di forme di manicomio diffuso, nutrite dal business della follia.
Di fatto, la chiusura dei manicomi resta per molti anni un progetto che trova il proprio compimento sono nei tardi anni Novanta, quando gli ultimi manicomi vengono chiusi.
Negli anni che seguirono, quelli dell’aziendalizzazione della sanità pubblica e del suo pesante definanziamento, il progetto di una cura della sofferenza psichica costruito sulla relazione è stato sfidato su più fronti. La prima criticità che merita di essere segnalata attiene al severo indebolimento dei servizi territoriali, chiave di volta della legge 180. Questa debolezza si mostra sin dal primo ingresso nel sistema delle cure, con il medico di famiglia che - di norma - affronta la sofferenza psichica sostituendo alla relazione la somministrazione di farmaci. Le cose non migliorano a sufficienza nei servizi di salute mentale, che solo in alcune zone d’Italia offrono orari di apertura prolungati.
La gracilità dei servizi territoriali finisce per scaricare sui caregiver il carico della cura, riproducendo, anche nella salute mentale, quel modello di welfare familistico che demanda alle famiglie responsabilità che non sempre è in grado di affrontare. Debole, non di rado, è l’integrazione fra i diversi servizi territoriali deputati alla cura del male mentale, in particolare fra i Centri di salute mentale e i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, le strutture chiamate a gestire le crisi più severe. Le falle dei servizi territoriali offrono il fianco al riemergere - in forma diffusa - dell’istituzione manicomiale. Alludo al sistema delle case di cura attraverso le quali migra un’umanità dolente, spesso anziana, immobilizzata dai farmaci o dalle cinghie di contenzione.
La seconda criticità su cui merita soffermarsi riguarda l’individuazione del farmaco come la principale, se non la sola, risposta alla sofferenza psichica. A proposito torna utile ricordare la posizione di Basaglia che, ne L’Utopia della realtà, scrive: «Se il malato ha perduto la sua libertà a causa della malattia, questa libertà di ripossedere se stesso gli è stata donata dal farmaco». Basaglia riconobbe nel farmaco lo strumento con il quale diventava possibile stabilire una relazione con il paziente, ma non già ciò poteva sostituirla. Questa linea di pensiero trova una chiara espressione nella formula di uno fra i più influenti allievi di Basaglia, Renato Piccione, quella della «dose minima efficace, per il minor tempo possibile». Le ragioni di queste cautele sono dettate, innanzitutto, dalla corte di effetti collaterali che accompagna l’assunzione di psicofarmaci. Una situazione aggravatasi in tempi recenti dalla tendenza al loro uso in associazione. All’attenzione agli effetti collaterali di breve e medio periodo si è di recente aggiunta quella per le conseguenze a lungo termine dell’assunzione di psicofarmaci. Il bel libro di giornalismo investigativo di Robert Whitaker, Indagine su di un’epidemia, documenta in modo convincente il carattere iatrogeno di una terapia tutta giocata sul farmaco. Voci critiche nei confronti della sostituzione della relazione di cura con il farmaco emergono anche dal mondo dei pazienti, fra le quali merita di essere ricordata quella di Will Hall.
È comunque possibile riconoscere anche l’affacciarsi di alcune pratiche di resistenza che fanno ben sperare sulle sorti di Marco Cavallo. Penso alla sperimentazione - anche nel nostro Paese - di un approccio dialogico, relazionale, nel fronteggiare le crisi psicotiche: l’open dialogue e il diffondersi di pratiche di auto-mutuo aiuto fra pazienti, primi fra tutti gli Uditori di voci.
È ancora Basaglia, nelle Conferenze brasiliane, a ricordarci che un folle può essere «molto più terapeuta di uno psichiatra».
Basaglia e il suo tempo
di Pietro Barbetta (Doppiozero, 13.05.2018)
Franco Basaglia muore a Venezia nel 1980, dove era nato 56 anni prima. Quarant’anni fa esatti, il 13 maggio 1978, due anni prima della sua scomparsa, viene approvata la legge di chiusura delle istituzioni manicomiali, nota come legge Basaglia, benché nel testo, e nelle sue applicazioni successive, non risponda del tutto alle sue idee e ai suoi progetti. Sul piano storico, la legge Basaglia si colloca dopo una serie di provvedimenti che liberano lo psichiatra dalla posizione di “agente di custodia” e lo rendono, sulla carta, “terapeuta”. Si passa, a livello del testo, da una dimensione di contenzione a una dimensione di cura. Nello stesso tempo, a partire dai primi anni Sessanta, nasce l’idea che la cura della “malattia mentale” sia da ridiscutere e che sia da ridiscutere persino l’idea di “malattia mentale”.
Basaglia non è solo al mondo, è l’avanguardia di uno Zeitgeist. Lo psichiatra Thomas Szasz (1920-2012), nel 1961, scrive Il mito della malattia mentale. Szasz lavora a quel tempo in una città dello stato di New York che porta un nome singolare, dal sapore antico: Siracusa. È un ebreo ungherese, immigrato negli Stati Uniti nel 1938, scampato allo sterminio. Erving Goffman (1922-1982), sempre nel 1961, scrive Asylum, un’opera di denuncia del trattamento manicomiale. Tuttavia l’opera fondamentale di tutta questa vicenda è La storia della follia di Michel Foucault, recentemente riedita, in edizione critica integrale, da parte di Mario Galzigna, per BUR.
Prima dell’uscita di queste opere, Basaglia, nonostante gli studi medici, ha già una robusta formazione filosofica. Alcuni dicono che i suoi ispiratori principali sono Eugène Minkowski (1885-1972), Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) e Jean-Paul Sartre (1905-1980), si dice anche che la sua impostazione psichiatrica sia legata alla fenomenologia. In realtà Basaglia è un grande conoscitore della psichiatria fenomenologica e della filosofia esistenzialista, ma il suo contributo teorico e pratico va ben al di là di queste impostazioni.
Molti psichiatri fenomenologi spostano la sguardo sulla “malattia mentale” dal piano strettamente biologico a quello della vita intesa come forma di esistenza. Tuttavia per i fenomenologi classici si tratta pur sempre di “forme di esistenza mancata”, per citare una formula di Ludwig Binswanger (1881-1966). Per Basaglia invece si tratta della vita, della sua imprevedibilità e della relazione tra ciò che accade e la risposta sociale e comunitaria. In altri termini Basaglia va ben oltre la posizione della psichiatria fenomenologica: sposta lo sguardo psichiatrico e psicologico dalla medicina verso la società, crea una clinica del sociale.
Marco Cavallo, il cavallo azzurro costruito al tempo dell’apertura/chiusura del manicomio di Trieste, è il simbolo della relazione tra i matti e la società. Da quel momento diventa chiaro che il primo lavoro da fare è decostruire i pregiudizi sociali sulla follia, in particolare su quella parola che ha un potere metaforico enorme: schizofrenia. Marco Cavallo gira per le strade e racconta di come la follia sia parte della vita; racconta, per citare Edgar Morin, la storia di homo sapiens demens. Con Basaglia la clinica diventa clinica sociale della singolarità. In questo contesto, la diagnosi stessa diventa forma di potere. Sulla scorta delle intuizioni di Michel Foucault (1926-1984) il potere e il sapere, in epoca moderna, diventano sinonimi di controllo dei corpi al fine di renderli docili.
Basaglia è parte di un Rinascimento internazionale che inizia nel 1962 con l’apertura delle porte del manicomio di Gorizia. Un Rinascimento che coinvolge, più ancora dei paesi occidentali ricchi, l’America Latina, e in particolare il Brasile, dove Basaglia tiene una serie di conferenze pubblicate da Cortina: le Conferenze brasiliane. Il pensiero e l’opera di Basaglia in America Latina hanno dato vita a un movimento di salute pubblica di enorme importanza e la sua fama odierna, laggiù, è certamente più forte e viva di quanto non sia qui. Da tempo questo Rinascimento, in Europa e in America del Nord, è terminato. Non sappiamo quando, forse alle soglie di fine secolo, quando Big Pharma rilancia il mercato degli psicofarmaci e riesce a convincere i governi di molti paesi a tenere sotto controllo i medici che non li usano costantemente nel loro lavoro. I medici che, prima di somministrarli, pensano se siano o meno necessari; gli psichiatri che rispettano la volontà dei pazienti quando i pazienti li rifiutano, che non li sottopongono ad amministrazione sanitaria controllata.
Oggi, questi medici - “scientifizzati” dall’industria farmacologica - sono a rischio di denuncia. Forse è in questo momento, da quando è cominciato questo fondamentalismo scientista, che il Rinascimento democratico in psichiatria, e in psicologia, tramonta. È possibile oggi far ritornare questo Rinascimento basagliano?
Basaglia non è mai stato un idealista, ha sempre saputo che i farmaci hanno un effetto su chi li assume, il suo problema però è fondare la possibilità di una pratica clinica differente da quella farmacologica, ma anche diversa da quella del comportamentismo condizionante e dalla psicoanalisi classica. Non si tratta di cambiare il cervello, o la consapevolezza, del soggetto, non si tratta neppure di costringerlo a integrarsi (o disintegrarsi) nella società; si tratta della vita, si tratta di dare valore all’esistenza, non riguarda la guarigione da una malattia, riguarda il riconoscimento dell’altro come soggetto degno di rispetto; sempre, anche in caso di reato. Il reato va punito, ma nell’ambito delle procedure garantite dallo stato di diritto, dalla Costituzione, non attraverso la contenzione psichiatrica. L’obiettivo di Basaglia non è mai stato quello di una perfetta utopia libertaria, ma la psichiatrizzazione dei reati ha un sapore totalitario, lo stesso che hanno le cinghie di contenzione appese ai lettini nei reparti di diagnosi e cura.
In quegli anni, la scienza psichiatrica era stata messa in crisi anche dalla psicologia sociale. Nel 1973, in piena epoca basagliana, lo psicologo David Rosenham (1929-2012) fece un esperimento: inviò otto persone “sane” in altrettanti ospedali psichiatrici del territorio americano, le persone inviate avevano il compito di dichiarare che sentivano alcune voci; poi, dopo questa dichiarazione, dovevano comportarsi normalmente. Sette di loro ricevettero la diagnosi di schizofrenia, una la diagnosi di psicosi maniaco-depressiva. Quando fu pubblicato l’articolo relativo a questo esperimento, lo psichiatra direttore di un ospedale si offese e sfidò Rosenham chiedendogli di inviare una campione più grande di pazienti, perché in statistica sono possibili errori casuali, ma non errori sistematici. Rosenham disse che avrebbe inviato a quell’ospedale un numero di circa 200 pazienti. Dopo quel periodo, in quell’ospedale, il numero dei “simulatori” crebbe enormemente, ma Rosenham aveva mentito; non aveva mai inviato nessuno.
Quelli tra il 1960 e il 1980 sono gli anni dello smascheramento del fenomeno che Foucault chiama “potere psichiatrico” (si vedano le lezioni di Foucault del 1973-74 al Collège de France, pubblicate da Feltrinelli). Credo che l’esperimento di Rosenham non sarebbe stato possibile senza l’esperimento sociale ben più ampio dell’apertura del manicomio di Gorizia nel 1962 da parte di Basaglia e di Antonio Slavich (1935-2009). Gorizia è, secondo me, l’evento storico più importante per il mondo della salute mentale; segna la fine del dominio medico sulla follia. La follia torna a essere campo di interesse, al di là della medicina, per la psicologia, l’arte e la letteratura; diventa oggetto di studi per la filosofia, l’antropologia, le scienze sociali.
L’impresa del 1962 a Gorizia coinvolge operatori che vengono da tutta Italia e si stabiliscono nella “città maledetta”: tra gli altri Letizia Comba (1932-2000), psicologa, che aveva lavorato con Ernesto De Martino in Puglia intorno al fenomeno del tarantismo, e il marito Giovanni Jervis (1933-2009); Franca Ongaro (1928-2005), compagna di Basaglia, che ha creato la letteratura basagliana, scrivendo con Franco, correggendo i suoi testi, mantenendo una propria autonomia di scrittura, che va oltre l’esperienza basagliana in senso stretto. Gorizia: un po’ dimenticata, e messa da parte, a favore di un’esperienza più stabile e, oggi, istituzionale: Trieste.
Un autore che dà lo spazio che merita all’esperienza di Gorizia è John Foot nel libro La “Repubblica dei matti”, che ho recensito su queste pagine quando uscì, un paio di anni fa, per Feltrinelli. Nella prima parte del libro si racconta la storia di un collettivo di persone che discute, si scontra e infine si separa. Finalmente la storia del Rinascimento basagliano si trasforma da una sorta di agiografia salvifica, in un dibattito, un confronto tra idee, qualcosa che non è monolitico, qualcosa in cui le donne, non-psichiatre, dicono la loro e influenzano fortemente le pratiche di quegli anni.
In questi giorni sta uscendo, per eléuthera, il libro di Piero Cipriano Basaglia e le metamorfosi della psichiatria. La cronaca dell’esperienza culturale basagliana è di nuovo felicemente raccontata. Soprattutto la distanza, sul piano teorico, di Basaglia da una certa psichiatria fenomenologica. Si scrive di un Basaglia influenzato da Edmund Husserl (1859-1938), il fondatore della “messa tra parentesi” fenomenologica, ma anche, e soprattutto, da Henri Bergson (1859-1941). Bergson, a sua volta, influenzò lo sguardo di Minkowski; uno sguardo controverso perché nel libro Il tempo vissuto, scritto nel 1933, l’ispirazione bergsoniana è evidente, mentre nel testo La schizofrenia, antecedente di sei anni, l’impostazione diagnostico-fenomenologica è ancora marcatamente presente.
Personalmente, se devo trovare un referente letterario all’opera di Basaglia, lo trovo a oltre un decennio dalla sua prima esperienza goriziana. Non ho alcun dubbio a indicarlo nell’AntiEdipo di Gilles Deleuze e Felix Guattari. È vero, Guattari lavora alla clinica La Borde, che non è certo paragonabile all’esperienza di Gorizia, che in qualche modo è una gabbia d’oro, una clinica no-restraint.
A La Borde, insieme a François Tosquelle (1912-1994), ci lavora anche Frantz Fanon (1925-1961), che, oltre a essere uno psichiatra e un militante rivoluzionario africano, firma insieme a Tosquelle alcuni testi sulla possibile efficacia dell’elettroshock, insomma un decolonizzatore della psichiatria, che, come ognuno, vive le contraddizioni di un’epoca e di un contesto. Direi dunque che “nessuno è perfetto”, forse neppure Basaglia, per questo lo ammiro. Ma va dato atto che Guattari, a La Borde, ha fatto un lavoro importante come psicologo anti-psicoanalista. Non aveva potere perché non era medico, è possibile che, se avesse avuto almeno un po’ di potere medico, La Borde avrebbe potuto essere una Gorizia francese, chissà. Dunque la domanda finale di questo saggio è: forse Basaglia ci ha insegnato che a dirigere un centro comunitario terapeutico, dove si incontrano persone che non hanno un’etichetta, non solo diagnostica, ma anche medico-biologica, o di “esperto” in senso psi, ci vorrebbe, che so io... un antropologo, per esempio, magari un antropologo su Marte, un folle, chissà. Un Antonin Artaud, una Camille Claudel, un Daniel Paul Schreber, una Lucia Joyce, un’Alda Merini; qualcuno che l’esperienza del manicomio l’ha vissuta da dentro, non da fuori. Questo accadrà in un nuovo Rinascimento, che accadrà solo se riusciremo a fermare la fine del mondo.
La legge 180
Compie 40 anni la legge Basaglia, che rese i matti «cittadini»
di Peppe Dell’Acqua *
È il 16 novembre 1961 quando il giovane Basaglia entra nel manicomio di Gorizia. Vede non solo la violenza delle porte chiuse e delle contenzioni. Vede “da filosofo” una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Ci sono più di 600 internati, senza più volto senza più storia. Vede la mostruosità dell’istituzione totale: i cancelli, le chiavi, le porte chiuse, i letti di contenzione ma, quello che angoscia più di ogni altra cosa Basaglia, è l’orrore dell’assenza. Non c’è più nessuno.
Gli internati sono tutti appiattiti nella stessa grigia identità, tutti invisibili. Basaglia è costretto a mettere tra parentesi la malattia, la diagnosi, il grigiore di anni d’internamento. Messa tra parentesi la malattia, persone, storie, relazioni, memorie riaffiorano. I cittadini compaiono sulla scena.
Per incontrare le persone bisognò aprire le porte, abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Tutti cominciarono a chiamarsi per nome. Divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile un altro modo di curare e di ascoltare: il malato e non la malattia, le storie singolari e non la diagnosi, la possibilità di vivere e di abitare la città.
Sabato 13 maggio 1978: Aldo Moro è stato ucciso da pochi giorni dalle BR. Una giovanissima partigiana, Tina Anselmi, democristiana, presiede con autorevolezza i lavori della commissione che sta discutendo la legge dei manicomi. Si interroga se i malati di mente siano cittadini, se possano godere dei diritti costituzionali. La legge che avrebbe chiuso i manicomi restituisce così prima di tutto diritto, cittadinanza, dignità alle persone che hanno la ventura di vivere una malattia mentale. Non più la pericolosità, ma la cura nel rispetto della libertà di ognuno. Tina Anselmi, quel giorno, affermò “semplicemente” che l’articolo 32 della Costituzione valeva per tutti, anche per i matti. A maggior ragione per i matti.
Quaranta anni di Legge Basaglia
Il giovane Aldo Moro aveva fatto parte della Costituente. Aveva discusso con Calamandrei, con Togliatti, con La Pira l’art. 32 e ne era stato l’estensore. Al secondo capoverso così recita: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». L’attenzione alla persona umana avrà formidabili conseguenze nel garantire i diritti fondamentali nella nostra democrazia. In quei giorni terribili Aldo Moro, prigioniero senza diritti e condannato a morte, costruiva la via d’uscita.
I matti diventavano cittadini. La legge 180 compie 40 anni, la Costituzione 70. Bisognerà conservare gelosamente la memoria.
Arriviamo all’ottobre 2010. Una Commissione parlamentare denuncia la condizione di vita dei sei Ospedali psichiatrici giudiziari del nostro Paese. Che fare dopo aver visto tanto orrore? Chiesero consiglio al Presidente Napolitano, tornarono in quei luoghi, documentarono tutto e mostrarono il video al Presidente. Di fronte a tanta violenza i corazzieri non riuscirono a trattenere le lacrime.
Il vecchio Presidente, inaspettatamente, nel messaggio di Fine anno del 2012 parlò degli Ospedali psichiatrici giudiziari, pronunciando parole dolorose: «Luoghi orrendi non degni di un Paese appena civile». Così ricominciò il viaggio di Marco Cavallo, la scultura di legno e cartapesta che aveva abbattuto le mura del manicomio di Trieste nel 1977, diventando emblema della liberazione. Marco Cavallo arrivò nelle periferie degli OPg: non c’era più tempo. Bisognava liberare tutti da quel tormento. Il 30 maggio 2014 la legge per chiudere tutti gli istituti fu approvata. Il 27 gennaio 2017 l’ultimo internato lasciava l’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto.
Se qualcuno mi avesse detto, quando ho cominciato a lavorare, che i manicomi criminali sarebbero stati chiusi lo avrei preso per pazzo.
Maggio 2018, sono passati 40 anni dalla riforma Basaglia. Di fronte a conquiste luminose e a tante persone che riescono a farcela, ancora capita di dover fronteggiare l’abbandono, le porte chiuse, le contenzioni, le morti per psichiatria. Ma questa, lo sappiamo, è una storia senza fine. È utopia, ci hanno sempre detto.
Utopia é qualcosa che si può solo sognare. Ma, come recitava il Cantastorie collettivo nato nel ’77 per i Centri di Salute mentale h24 a Trieste, «utopia è che il ghetto più non ci sia, che muri e reti buttiamo via. E quante cose possiamo ancora fare se ci mettiamo tutti insieme a sognare?».
* Il Sole-24 Ore, Domenica, 13 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini e allegati).
L’anniversario
La Legge Basaglia compie 40 anni
di Claudio Mencacci (Corriere della Sera, Salute, 13.05.2018)
Direttore DSMD Neuroscienze
Sono trascorsi 40 anni (13 maggio del 1978) dalla nascita della Legge 180, che affermava e riconosceva i diritti e la dignità delle persone affette da gravi disturbi mentali e che permise all’Italia, unico Paese al mondo, il superamento e la chiusura degli Ospedali psichiatrici (manicomi) e la creazione di una rete di assistenza psichiatrica di comunità.
Oggi guardiamo avanti ed è legittimo domandarsi: come sta la salute mentale nel nostro Paese, quanta è cambiata da allora? Sono mutate negli anni le richieste e i bisogni di cura parallelamente ai cambiamenti profondi intervenuti nel Paese? Il bisogno di salute mentale è cresciuto, come in tutti i Paesi Europei, soprattutto nell’area giovanile, poco considerata nonostante il dato epidemiologico che indica che in quasi il 70% dei casi i disturbi mentali insorgono in età adolescenziale e giovanile.
Le persone che accedono ai servizi psichiatrici oggi sono diverse da chi un tempo era costretto nei manicomi, vi è stato un profondo cambiamento dell’utenza: oggi i disturbi psicotici (schizofrenia e psicosi) su cui era stato tarato il sistema di assistenza, costituiscono solo il 25% dei casi. Si è invece verificata una crescente richiesta di interventi per disturbi dell’umore (depressione-bipolarità) ansia (panico-Ossessivi-Compulsivi), comportamento alimentare, personalità (borderline), dipendenza comportamentale (gioco d’azzardo patologico) e da sostanze stupefacenti.
Appare quindi necessaria l’implementazione effettiva e sempre più capillare di percorsi di cura, con interventi basati sulle evidenze scientifiche che i dati disponibili indicano come ancora scarsamente diffusi nei servizi italiani. Oggi la moderna psichiatria orientata a diagnosi e cure precoci con strumenti farmacologici più innovativi, sostegni domiciliari, sociali e sul posto del lavoro, sono in grado di migliorare la qualità e la quantità di vita delle persone, come accade per altre specialità mediche.
La consapevolezza del fondamentale ruolo dei fattori psicosociali nel rischio di sviluppo, mantenimento ed aggravamento di molti disturbi mentali gravi, richiede un più capillare sforzo di prevenzione primaria e secondaria da parte dei servizi psichiatrici, purtroppo impoveriti di risorse, ma anche la consapevolezza della necessità di rivedere e potenziare gli strumenti di welfare, soprattutto a favore delle fasce più deboli della popolazione, e di sostegno alle famiglie.
Asst Fbf-Sacco, Milano
Terapie controverse
Elettroshock
In Italia ogni anno sono almeno 300 i malati mentali gravi curati con le scariche elettriche. E il mondo accademico si divide
di Gianna Milano (l’Espresso, 20 agosto 2017)
Ogni lunedì, mercoledì e venerdì, per tutti i mesi dell’anno, all’ospedale Montichiari di Brescia accompagno i pazienti che fanno la Tec, ovvero la terapia elettroconvulsivante, nota come elettroshock. Luca è giovane, schizofrenico ma è fortunato perché ha scoperto per tempo di soffrire di un disturbo mentale e può curarsi senza buttare via anni di vita. A me non è andata così, io di anni ne ho persi tanti, senza sapere perché stessi in un certo modo. Nel 1973, a sei anni ho tentato il suicidio per la prima volta. Nei trenta anni successivi, ci sono stati altri nove tentativi di suicidio e stati maniacali, prima che qualcuno mi dicesse che ero bipolare. Avevo 37 anni. È il 2010 quando per la prima volta percorro il corridoio che conduce alla sala del day hospital, dove faccio le Tec. Ci ritornerò altre tre volte nei tre anni successivi. Mi sono liberato dal fardello della sofferenza: la terapia mi ha restituito la lucidità, e mi ha fatto tornare la voglia di vivere». Questa è la storia di Giampietro Ferrari, "utente esperto" che oggi con l’associazione AITEC-Etica cerca di informare «su quello che erroneamente si chiama elettroshock».
Una tecnica terapeutica che ha conosciuto fasi alterne: sperimentata per la prima volta nel 1938 da due neuropsichiatri italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, induce una crisi convulsiva con un passaggio di corrente elettrica attraverso il cervello per curare le malattie mentali. Accolta con entusiasmo negli anni ’40 e usata fino a metà degli anni ’60 la Pushbotton Psychiatry, come la definì un libro del 2002 sulla storia culturale dell’elettroshock in America, venne poi soppiantata dall’avvento della psicofarmacologia e solo verso la fine degli anni ’80 ha conosciuto un revival. Di cui poco si sa.
La psichiatria sociale su modello basagliano lo considera un trattamento obsoleto se non peggio: simbolo di una visione della malattia mentale legata al passato che porta all’annullamento dell’individuo. Repressiva e inumana. Un punto di vista condiviso anche dall’opinione pubblica che ricorda immagini brutali di film come "Qualcuno volò sul nido del cuculo" e "La fossa dei serpenti". «L’elettroshock di oggi è diverso da quello presente nell’immaginario collettivo e molto meno traumatizzante sul piano emotivo. Lo si pratica secondo linee guida internazionali: in anestesia totale, con una dose di corrente molto bassa (inferiore a 5 volt) che stimola il cervello per pochi secondi (al massimo 6 o 8), e che ottiene una crisi convulsiva di 30-40 secondi. Gli elettrodi sono applicati sulla fronte sinistra e la tempia destra o bilateralmente (a seconda della patologia) e i parametri variano da un paziente all’altro», spiega Giuseppe Fàzzari, psichiatra che dirige l’Unità Operativa di Psichiatria agli Spedali Civili di Brescia, uno dei centri in cui si fa la Tec in Italia.
In teoria fra cliniche private e strutture pubbliche i centri sono 16, ma dove lo si fa davvero sono forse la metà e i pazienti circa 300 l’anno.
«Quando a Milano mi sono specializzato in psichiatria ero contrario all’elettroshock, poi nel 1991 capitò qui una giovane con una depressione grave e disturbi psicotici post partum. Parlava di suicidio e i farmaci non le facevano granché. Decisi di provare e, con il suo consenso, fu sottoposta a 8 trattamenti. Il risultato fu sorprendente. Altri casi seguirono: riuscii a ottenere attraverso una donazione un apparecchio moderno per la Tec e convinsi direttore sanitario e comitato etico ad accreditare l’ospedale per questi trattamenti» continua Fàzzari. Era il 2005.
I casi nei quali la letteratura scientifica concorda sui risultati ottenuti dall’elettroshock sono le depressioni gravi con alto rischio di suicidio resistenti ai farmaci, e le forme maniacali o miste che non rispondono alle terapie. L’esperienza clinica ne ha poi dimostrato l’efficacia in altri disturbi mentali, come schizofrenia, catatonia, sindrome maligna da neurolettici, sindrome ossessivo-compulsiva non rispondenti alle terapie. Una meta-analisi, ossia una revisione sistematica di diversi studi eseguiti per valutare efficacia e sicurezza della Tec (Ect, l’acronimo in inglese) pubblicata su Lancet, una delle riviste mediche più autorevoli, concludeva nel 2003 che il trattamento era «probabilmente più efficace dei farmaci nella depressione».
«Di solito all’elettroshock ci si arriva dopo anni di tentativi falliti: abbiamo provato di tutto perché non la Tec. I medici di base, ma anche gli psicologi e gli psichiatri ne sanno poco. All’università non se ne parla e non lo si insegna», dice Alessandra Minelli, psicoterapeuta dell’Università di Brescia. A riconoscerne l’efficacia sono l’American Psychiatric Association, l’American Medical Association, il National Institute of Mental Health, la Food and Drug Administration, e le corrispondenti organizzazioni in Canada, Gran Bretagna e altri Paesi europei.
Nel mondo si stima siano 2 milioni le persone sottoposte a Tec e solo negli Usa 300 mila. Sono cinquemila i pazienti trattati in Belgio su una popolazione di 11 milioni di abitanti, e dodicimila nel Regno Unito su una popolazione di 64 milioni di abitanti. Quanti siano esattamente in Italia non si sa. Gli unici dati ufficiali furono raccolti nel 2012 dall’allora ministro della Salute Renato Balduzzi e si parlava di 1.406 pazienti tra il 2008 e il 2010 (521 nel 2008, 480 nel 2009 e 405 nel 2010). Dopo di allora solo stime parziali. Un’indagine eseguita da Fàzzari ha concluso che nel 2014 sono stati trattati 18 pazienti a Oristano, 12 a Brunico, 63 a Brescia-Montichiari, 57 a Pisa, 110 alla casa di cura Villa Santa Chiara a Verona. Poche centinaia rispetto a Europa, Stati Uniti e Canada dove la Tec è considerata una terapia tra le tante disponibili e talora di prima scelta.
«Ai convegni di psichiatria in Italia non se ne parla e siamo per lo più assenti a livello internazionale. Solo pochi di noi hanno contatti con centri di ricerca all’estero», sostiene Fàzzari. «Le ragioni di questo pregiudizio ideologico e acritico? C’è chi teme di dispiacere alle case farmaceutiche, chi lo vive come uno stigma e un conflitto con i propri principi. Qualora i clinici ne facessero richiesta, ben difficilmente gli amministratori accetterebbero di acquistare l’apparecchiatura, non perché costosa (25 mila euro), ma per il timore di critiche. La Tec non prevede un Drg nel tariffario della Sanità: è una terapia che non ha un ritorno economico».
Il Comitato nazionale di bioetica nel 1995, dopo aver esaminato le diverse posizioni scientifiche e aver valutato le più autorevoli fonti internazionali concluse che non vi erano «motivazioni bioetiche per porre in dubbio la liceità della terapia elettroconvulsivante nelle indicazioni documentate nella letteratura scientifica». E il Consiglio Superiore di Sanità, dopo aver dibattuto le perplessità suscitate dal trattamento nel 1996 concluse che: «Il diritto del malato alla tutela della vita, della salute e della sua piena dignità di essere umano, in accordo con il Comitato nazionale di bioetica, rappresenta un aspetto centrale nella valutazione dell’opportunità di un trattamento medico e che tale diritto non può costituirsi in opposizione alla scienza, né può anteporle affermazioni o teorie di natura ideologica». Ma nel 1999 una circolare del ministro della Sanità Rosy Bindi chiudeva: «La psichiatria attualmente dispone di ben altri mezzi per alleviare la sofferenza mentale, a tal punto che la Tec risulterebbe quasi desueta almeno nelle strutture pubbliche sia universitarie che del Servizio Sanitario Nazionale».
Una delle obiezioni avanzate dai detrattori dell’elettroshock è che non se ne conosce il meccanismo d’azione. Franco Basaglia, lo psichiatra che nel 1978 portò all’approvazione della legge 180 e al superamento dei manicomi, lo descrisse così: «È come dare una botta a una radio rotta: una volta su dieci riprende a funzionare. Nove volte su dieci si ottengono danni peggiori. Ma anche in quella singola volta in cui la radio si aggiusta non sappiamo il perché». Ribatte Marco Bortolomasi, psichiatra, direttore sanitario della Clinica Villa Santa Chiara di Verona: «Vari studi avvalorano l’ipotesi che la ripetuta stimolazione attivi fattori di crescita delle cellule nervose. L’effetto terapeutico è in rapporto a complesse modificazioni neurochimiche (di neurotrasmettitori e neurormoni) e neurofisiologiche come per gli psicofarmaci».
Un trattamento di solito prevede tre sedute di Tec alla settimana, a giorni alterni. «Per due settimane o più, a seconda della patologia, più o meno grave. In alcuni casi sono previste terapie di mantenimento: una ogni 3 settimane. Alcuni studi clinici controllati hanno dimostrato l’opportunità di questi richiami. Una cosa è certa, non esiste un’unica ricetta» spiega Fàzzari. Uno degli effetti collaterali della Tec è la perdita della memoria, anche se transitoria. Per Beppe Dell’Acqua, che lavorò a fianco di Basaglia all’Ospedale psichiatrico di Trieste, è a questo cervello "smemorizzato", che si attribuisce il sollievo dalla sofferenza mentale. Con il recupero della memoria torna, a suo parere, anche la sofferenza. «Ma quando i farmaci non danno sollievo, non ti consentono di convivere con la malattia e tantomeno di vivere. Quando non esistono strutture che ti accompagnino in un progetto terapeutico o capaci di restituirti attraverso le relazioni e il lavoro un ruolo sociale? Io avevo sperimentato di tutto. Per me è stata l’ultima spiaggia e ora mi dico: perché non potevamo arrivarci prima?», conclude Ferrari.
Non basta dire che fa bene al paziente
di Ignazio Marino (l’Espresso, 20 agosto 2017)
Ci sono situazioni in cui tutti noi, pur non disponendo di informazioni scientifiche, tuttavia attribuiamo senza esitare un giudizio negativo: è il caso dell’elettroshock, una scarica elettrica a cui si ricorre per alcune forme di grave depressione, avvolto da ombre che non si dissolvono. Eppure un metodo che si pratica con una certa regolarità all’estero ma anche in alcune strutture in Italia. Ci sono stati anni in cui non se ne parlava più.
Quando frequentavo la facoltà di medicina, pur essendo un trattamento descritto nei manuali, di fatto non era mai chiesto agli esami e non ricordo nessuno che ci scrisse la tesi di laurea. In realtà non è mai davvero scomparso e, anzi, nel tempo si è profondamente trasformato. Oggi si pratica in un ambiente ospedaliero controllato, con tutte le attenzioni necessarie in procedure complesse. Il paziente viene addormentato e durante la terapia elettroconvulsivante (Tec), eseguita in anestesia generale, non prova alcun dolore. Al risveglio molte persone riferiscono di sentirsi meglio e di trarre un beneficio dalla terapia. E davvero nei centri in cui si pratica l’elettroshock non esiste nulla di ciò che la maggior parte delle persone ha costruito nel proprio immaginario grazie soprattutto al cinema e alla letteratura, anche se il modo in cui è praticato non può non suscitare forte emozione: si tratta pur sempre di una scarica elettrica che provoca al corpo del paziente convulsioni scuotenti.
Fermandosi a queste constatazioni, forse si potrebbe affermare che se il paziente riscontra un beneficio allora il metodo va applicato. Ma chi si occupa di medicina e di scienza ha il dovere professionale e morale di farsi qualche domanda in più. Perché quale sia il beneficio reale collegato a una scarica elettrica nel cervello non è dato saperlo e al momento non vi sono riscontri scientifici certi sul meccanismo di azione. Siamo nel campo delle ipotesi, mentre ciò che invece sappiamo con certezza è che ogni trattamento distrugge un certo numero di neuroni, in diversi casi fa perdere anche parte dei ricordi memorizzati e, inoltre, espone sempre il paziente ai rischi inevitabili connessi all’anestesia generale. Parliamo dunque di un metodo invasivo il cui meccanismo di azione non è mai stato validato scientificamente. Se si accettano le regole della scienza, è necessario spiegare come funziona una terapia, su cosa agisce, quali conseguenze ha, quali sono gli effetti collaterali, senza tutto questo siamo fuori dai parametri di ciò che si definisce cura o trattamento medico.
Fatte le debite differenze, si può azzardare un paragone con l’omeopatia. Chi assume sostanze omeopatiche racconta spesso di trarne un beneficio, eppure non vi è alcuna evidenza scientifica che l’omeopatia sia una cura, anzi, la medicina tradizionale non la riconosce, proprio perché le sostanze somministrate non sono sottoposte al metodo sperimentale previsto per i farmaci e quando è stato fatto i risultati non sono stati soddisfacenti. Per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che l’omeopatia non sia un trattamento medico. La rivista Lancet, spesso chiamata in causa per i suoi autorevoli giudizi, nel 2007 ha decretato che l’efficacia delle cure omeopatiche riscontrabile in alcuni pazienti è spiegabile solo con l’effetto placebo. Il potere della suggestione, ma almeno con l’omeopatia non si corrono grossi rischi.
Nel caso dell’elettroshock purtroppo parliamo di situazioni molto gravi, di malati che non trovano più giovamento nei farmaci e per i quali la Tec rappresenta l’ultima tappa di un percorso pesante e doloroso. Per questo, per rispetto verso tutti questi pazienti, sarebbe il caso di fare chiarezza. Per avere un giudizio più sereno in merito all’utilizzo della terapia elettroconvulsivante servirebbe almeno quella che nell’ambiente scientifico viene chiamata una consensus conference, ovvero un confronto tra un ampio gruppo di esperti della materia che, assieme a rappresentanti della società debitamente informati, esprimano una posizione possibilmente unanime. Sulla base di questo giudizio dovrebbero poi essere adottate le decisioni sanitarie.
Un percorso che anche la Corte Costituzionale italiana ha indicato in due sentenze, nel 2002 e nel 2003, affermando che le scelte terapeutiche, nel caso specifico l’elettroshock, non possono dipendere dalla discrezionalità della politica che le autorizza o le vieta, ma dovrebbero basarsi sulle conoscenze scientifiche e sulle evidenze sperimentali acquisite tramite organismi tecnico-scientifici nazionali o sovranazionali.
Smemorarsi non è curarsi
«I benefici della Tec arrivano solo dalla temporanea perdita di memoria. Ma appena tornano i ricordi, svanisce ogni effetto positivo»
di Alessandra Cattoi(l’Espresso, 20 agosto 2017)
Febbraio 2015, il pilota spagnolo Fernando Alonso esce di pista e con ogni probabilità riceve una scarica elettrica all’interno dell’abitacolo della sua automobile in modo accidentale e incontrollato. Una volta ripresa conoscenza, Alonso non ricorda più nulla della sua vita fino al 1995, tutto rimosso tranne il suo sogno di diventare pilota di Formula 1. Fortunatamente Alonso rimase senza memoria solo per un paio di giorni ma la sua storia presenta esattamente i sintomi tipici dell’amnesia post elettroshock. E rivela il nodo centrale sulla questione: la terapia elettro convulsivante non ha effetti collaterali tranne per la perdita della memoria. Dunque, sostengono molti psichiatri, se si toglie la memoria a una persona depressa e la si riporta indietro di un anno o anche di pochi mesi, i sintomi della depressione possono affievolirsi ma non perché vi sia una guarigione, piuttosto perché vi è una perdita di pezzi di sé e poi, quando la memoria riemerge, ritorna anche il male di vivere.
Piero Cipriano, psichiatra presso il dipartimento di salute mentale dell’ospedale San Filippo Neri di Roma e autore del libro "Il manicomio chimico", è fortemente critico verso la pratica dell’elettroshock, avendola sperimentata personalmente. Durante gli anni della sua formazione venne cooptato nel gruppo della clinica universitaria romana che praticava l’elettroshock.
«Ho assistito ad alcuni casi, ho visto chi vi accedeva e quali erano gli esiti. Per fortuna dopo poco tempo sono partito per il militare e, conoscendo un altro tipo di psichiatria, ho iniziato a pormi molte domande. Ricordo un anziano giornalista che, dopo venti anni di farmaci antidepressivi, aveva iniziato le sedute di elettroshock ma la sua depressione si trasformava in stolidità, sembrava perdere pezzi della propria storia. Al contrario, ricordo una ragazza con diagnosi di disturbo borderline che scappava sempre dai luoghi di cura. Venne sottoposta a sei o otto sedute di elettroshock e non ebbe alcuna perdita di memoria, ma nemmeno alcun beneficio per il suo problema psichiatrico. A riprova che se non vi è effetto sulla memoria, non vi è effetto alcuno».
Eppure molti centri clinici di paesi avanzati nelle cure psichiatriche, come la Gran Bretagna, la Germania, ma anche gli Stati Uniti, vi ricorrono in maniera quasi sistematica.
«Dove prevale un’impostazione organicistica quando uno strumento non funziona si ricorre ad un altro, così quando i farmaci non bastano più, si passa alla corrente elettrica. Sappiamo che gli antidepressivi dopo quindici o vent’anni perdono il loro effetto. È un po’ quello che succede con la cocaina o le benzodiazepine.
La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele ma poi, gradualmente, le sostanze modificano i vari recettori cerebrali, l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Si va avanti così fino a quando i farmaci perdono il loro effetto e ricorrere alla terapia elettrica è l’unica cosa in più che si può fare, ma in realtà si aggiunge danno al danno. Lo racconta bene Paolo Virzì nel film "La pazza gioia" in cui la protagonista chiede di andare a Pisa a fare l’elettroshock, non per guarire, bensì per non pensare, smemorarsi, come farsi dare una botta in testa».
Seguendo questo ragionamento allora l’intervento andrebbe fatto a monte, nella terapia farmacologica. -«Oggi i medici di famiglia, i neurologi o altri specialisti prescrivono gli antidepressivi a pioggia, per qualunque forma di tristezza, per i lutti o per disturbi leggeri. Per di più con dosaggi uguali per tutti. È lapalissiano dire che sarebbe meglio prescrivere gli psicofarmaci solo quando veramente è necessario, alle dosi minime efficaci e per periodi limitati».
In Italia il ricorso all’elettroshock è tutto sommato molto limitato, forse perché l’eredità di Basaglia e della sua scuola sono ancora molto forti.
«A mio parere abbiamo il migliore sistema che ci sia, i servizi di salute mentale con tutti i loro problemi affrontano le malattie mentali con la relazione, con la psicoterapia e non solo con i farmaci. Senza demonizzarli, ma le sostanze che si pensava avrebbero spazzato via le malattie mentali non si sono rivelate miracolose e di certo il rimedio non può essere l’elettroshock, di cui riguardo ai meccanismi di azione non si sa assolutamente nulla. Concordo con lo psichiatra Kurt Schneider molto apprezzato dagli organicisti: anche se tutto ciò fosse di aiuto, non tutto ciò che aiuta è consentito».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RESTITUIRE LA SOGGETTIVITA’. Chi, a chi, come - e quale soggettività?! P. A. Rovatti a scuola di Franco Basaglia.
Intervista a Nico Casagrande:
Basaglia gli anni di Gorizia
di Francesco Bollorino, Lisa Attolini (Psychiatry On Line)
Il "periodo" di Basaglia a Gorizia secondo noi rappresenta veramente un momento rivoluzionario per la psichiatria mondiale. Ci interesserebbe sapere innanzitutto come Franco Basaglia è arrivato a Gorizia?
Franco era nell’università di Padova, una delle più potenti scuole neuropsichiatriche, perché allora non c’era la psichiatria separata dalla neurologia, infatti io stesso sono specialista delle malattie nervose e mentali.
A Padova ci si specializzava in neuropsichiatria. Franco si era sempre più occupato della parte psichiatrica più che di quella neurologica ed era uno dei più giovani della covata e come tu sai, l’università aveva delle regole ben precise, si andava in cattedra non per meriti scientifici ma per tutta una serie di altri motivi: se eri il più anziano, se eri quello di una certa parte, ecc. A Franco essendo uno dei più giovani, fu detto che difficilmente sarebbe arrivato in cattedra e che quindi gli conveniva andare a fare il direttore di ospedale psichiatrico. Fu così che nacque la scelta di direttore a Gorizia. Certo non credo che facesse molto piacere allora a Franco anche perché era uno studioso, era un fenomenologo, era stato quello che aveva portato la fenomenologia in Italia anche con articoli originali.
Quindi lui avrebbe continuato la ricerca, ma si trovò improvvisamente sbattuto in questa realtà del manicomio.
Io credo sia molto importante in questo l’esperienza personale di Franco, cioè Franco durante il periodo finale della guerra è stato messo in carcere a Venezia perché giovane socialista e aveva rischiato di essere fucilato, fu invece salvato. Però aveva fatto questo periodo di carcere alle spalle e quando è capitato nell’ospedale psichiatrico ha constatato che il manicomio era molto simile al carcere, non c’era nessuna differenza tra il carcere ed il manicomio allora ha cominciato ha farsi delle domande del tipo: " Cosa ci faccio qui?" ovvero ciò che viene ovvio pensare ad una persona sbattuta dal mondo universitario in un mondo clinico, in un mondo diverso, in una realtà così tragica. Bisogna inoltre tenere conto di una cosa di cui probabilmente non si tiene mai conto, ovvero che negli anni sessanta la realtà psichiatrica italiana era molto arretrata, c’era il manicomio da un lato e la clinica psichiatrica dall’altro, non c’era nient’altro in mezzo.
Io ricordo che ero alla clinica di Bologna e ricordo che avevamo il cortile del nostro reparto che confinava con l’ospedale psichiatrico. Noi sentivamo le persone urlare, pensavamo ad un mondo diverso ed invece erano le stesse persone che venivano ricoverate in clinica: quando andava bene tornavano a casa ma spesso andavano dall’altra parte del cortile. Non c’era situazione intermedia: Basaglia cominciò a pensare che o doveva venirne via o doveva cambiare quel mondo perché quel mondo non era la modalità terapeutica che poteva dare una risposta al malato, era una cosa diversa e la sua esperienza in carcere gli aveva fatto capire in che condizione erano queste persone, cosa potevano vivere queste persone nel mondo concentrazionario. Quindi il primo impatto è stato quello col mondo concentrazionario, cioè il manicomio come mondo concentrazionario.
Oggi a noi sembra ovvio tutto quello che c’è nell’assistenza psichiatrica, ovvio che ci sia il territorio, ovvio che ci sia l’SPDC, ovvio che ci siano le comunità, ci sembra normale, non viene neanche in mente che ci possa essere qualcosa di diverso. Franco si è trovato di fronte a due ovvietà: la prima ovvietà era quella che lui ha colto che gli sembrava ovvio che l’istituzione non funzionasse così come era perché era entrata in crisi anche per colpa degli psicofarmaci, ho l’impressione. L’altra ovvietà era che il mondo intorno a lui pensava che i manicomi avrebbero dovuto esserci per sempre. Vogliamo incominciare un po’ da qui...
Se vogliamo parlare di ovvietà, la prima ovvietà trasformare questo mondo concentrazionario, questa istituzione totale, questo carcere in ospedale. Questo è stato un passaggio ovvio di Franco Basaglia, cercare di dare una funzione, la sua vera funzione, quindi il primo passaggio l’umanizzazione di questa situazione. Ecco questo è stato il primo passaggio.
Quale è stato l’impatto interno di questa ovvietà, da parte del personale, prima ancora che dei ricoverati, lui ha trovato terreno fertile, una disponibilità oppure no? Ha dovuto combattere perché molti erano abituati a vivere in un certo modo l’istituzione e parlo del personale?
Ecco se io devo dire quale è stato il mio impatto su questo anche se è stato successivo, qualche anno dopo, però dava conto di chi c’era prima, bisogna dire che Franco è arrivato lì insieme ad Antonio Slavich come suo assistente giovane con l’aura di professore universitario quindi ben accettato e diciamo che l’impatto iniziale è stato di grande aspettativa ma di aspettativa di mantenimento della situazione: il luminare che arriva, giovane e di buone speranze con già un nome alle spalle.
So che allora c’era anche un assessore bravo che lo sosteneva che aveva capito un po’ le sue idee di rinnovamento che però poi è morto. Poi quando lui ha cominciato la sua azione ha cominciato ad avere le sue resistenze all’interno quando io sono arrivato le resistenze c’erano e c’erano eccome. Probabilmente erano maggiori nel periodo in cui siamo arrivati io, Pirella e Gervis; c’erano proprio due fronti: da un lato persone che avevano cominciato ad aver fiducia in Franco Basaglia come persona che avrebbe portato qualcosa di nuovo di interessante, di scientifico, di importante per cui ad esempio ricordo il caposala che quando veniva qualcuno a visitare l’ospedale e gli chiedevano cosa pensava di Franco diceva: "Sa noi non sappiamo dove vuole arrivare però lui lo sa!". Cioè non capivano bene la sperimentazione che c’era, lo vivevano come una persona che aveva un piano ben preciso e sapeva dove stava andando senza saper che il cambiamento che avveniva nell’ospedale psichiatrico non si sapeva dove potesse arrivare, perché non c’era nessuna esperienza tale che ci potesse predire il risultato. C’erano quelli che invece vivevano questa esperienza in modo molto intenso anche dal punto di vista politico e quindi aggregandosi a favore di questa esperienza e andando avanti fino a quando sono stato direttore io.
Pian piano si era organizzata anche la frangia contraria; i primi anni c’era un po’ questo disorientamento: da un lato l’uomo nuovo che arriva, senza sapere dove si poteva andare.
Quando io sono arrivato iniziava un discorso diverso: il momento dell’umanizzazione cioè il cominciare a dare delle risposte diverse, ad adoperare gli psicofarmaci in modo diverso, a diminuire l’intervento con l’elettroschok terapia: L’elettroschok terapia a Gorizia si è continuata a fare fino abbastanza avanti anche se man mano che noi in qualche modo conquistavamo i reparti, se così si può dire, si terminava con tale terapia. Certo c’erano anche dei medici tradizionali che continuavano a fare l’elettroschok e ad adoperare dei metodi costrittivi. Quando sono arrivato io però in Italia i metodi costrittivi erano praticamente terminati, ma l’elettroschok era ancora praticato: certo veniva fatto in un certo modo mentre prima venivano utilizzati dei metodi un po’ artigianali, comunque veniva fatto.
L’altro elemento erano gli ospiti. Che impatto ha avuto questa umanizzazione nei confronti dei ricoverati? Quale è stato l’impatto sugli ospiti, di questo arrivo e di questi cambiamenti?
Direi che gli ospiti sono stati molto più accettanti di quanto può essere stato forse il personale, ci sono stati dei problemi perché quando io sono arrivato c’erano ancora dei reparti chiusi. Agostino Pirella era in un reparto chiuso che era il più difficile in cui era concentrato un po’ di tutto poi ha aperto anche quello. Però direi che i pazienti amavano Basaglia.
Alcuni episodi siano stati episodi importanti: C’era un certo C. che era nel reparto dove c’era Slavich che era considerato il peggiore paziente perché aveva una forza non indifferente: se lo chiudevano in un bagno lui sradicava il lavandino, era uno di cui tutti avevano paura. Poi ha cominciato a essere liberato e è diventato una persona gentile, una specie di vecchio saggio; questi sono stati episodi molto importanti anche per gli altri ricoverati. Se devo dire nel corso del tempo c’erano i maniacali che erano i più difficili perché erano coloro che tendevano a "mangiare lo spazio" in tempi e in modi così intensi che "mangiavano" anche il personale nel senso che per non recludere le persone c’era bisogno di avere persone; c’era bisogno di avere delle persone vicino e questi cercavano sempre di alzare il prezzo della loro richiesta stancando il personale.
Ecco un’altra situazione significativa: una persona mandata in manicomio criminale, a un certo punto facciamo la riunione con Pirella e con gli infermieri che dicevano: "Non ce la facciamo più, questo ha fatto delle cose, che le sconti come è giusto che faccia", allora è andato in manicomio criminale poi dopo sei mesi è tornato e quando è tornato la prima cosa che ha fatto è ringraziarci perché solo stando in manicomio criminale aveva capito quali sforzi avevamo fatto noi per lui ed è diventata una persona diversa. Dico di questi due casi perché se ancora oggi si parla con gli operatori di Gorizia, li ricordano tutti. I pazienti sono quelli che hanno reagito meglio di tutti che hanno capito meglio di tutti, proprio questo S. una volta in una riunione disse: "Basaglia ha infilato le chiavi nella porta, noi le abbiamo girate". Ecco come veniva vissuto Franco Basaglia che non era il papà buono diciamo, non era il liberatore, era la persona che aveva dato l’opportunità.
Dicevamo che oggi i giovani, ma spesso la gente comune non sa cosa era il manicomio e non sa nemmeno cosa era successo in un epoca tra l’altro in cui si agiva in barba alla legge, perché voi agivate nelle pieghe della legge italiana che vi permetteva di fare certe cose perché era una legge vecchia ma non era poi tanto malaccio rispetto al resto del mondo. Ecco vediamo un attimo questi passi: parlavamo di rivoluzione quali sono stati i passi topici di questa rivoluzione goriziana.
Il primo passo è stato l’umanizzazione, quindi all’interno del manicomio era cambiare i rapporti umani o se vogliamo il potere dal potere medico; Franco lo scrive in un articolo del 64: si passa ad un rapporto più comunitario, più paritario: siamo insieme abbiamo un problema comune da risolvere, naturalmente uno è medico , l’altro paziente e su questo non credo ci fossero dubbi. Questa è una fase che però è ancora prima di quello che sarebbe il dire che la porta ha una serratura ma poi il passaggio successivo sarebbe quello di mettere la chiave dentro e insieme girare e aprire.
Ecco quali sono stati i momenti importanti?
Allora due cose, primo mi rifarei un attimo alla legge, la legge era una legge abbastanza precisa, parlava di cura e custodia; allora il manicomio era la rappresentazione della custodia non della cura ma della custodia intesa in un certo modo e questo allora è stato il primo passo: l’umanizzazione ha dovuto agire all’interno di questa contraddizione cioè riportare l’ospedale alla cura e interpretare diversamente la custodia; custodia non vuol dire che io per custodire una persona devo chiuderlo dentro; per custodire una persona mi devo prendere cura di lui, anziché chiuderlo gli metto una persona vicino. L’umanizzazione è stata questa: rivalutare la cura e interpretare diversamente la custodia custodia come prendersi cura e non come reprimere. Questo direi che è stato il momento cruciale che ha portato a cosa, all’abbattimento delle mura dei cortili quindi alla liberazione all’interno dell’ospedale delle persone.
Che non stavano più chiuse nei reparti e potevano muoversi
Il primo muro di cinta che è stato abbattuto...ricordo che, abbattuto questo muro, c’era un paziente che continuava a girare per il cortile non andando oltre il muro abbattuto finché piano piano ha incominciato a mettere un piede dall’altra parte e a guardarsi attorno ma non nella stessa giornata, in giornate successive finché ad un certo punto ha visto che andando al di là non succedeva niente e ha cominciato ad andare: è la riconquista della libertà però non può bastare, l’abbattimento del muro è un momento importante, è un simbolo che tutti colgono e la persona ricomincia a riconquistare il proprio spazio insieme ad altre cose.
Noi abbiamo dato dei tavolini per porre le proprie cose, degli armadietti, abbiamo imbandito le tavole, dato i coltelli, cioè tutti passaggi che sono stati importanti per l’umanizzazione, che sono stati il recupero dello spazio e del tempo della persona quindi direi un momento fondamentale, quindi umanizzazione ha voluto dire questo riconquista di uno spazio e di un tempo perduto. Quindi avviene la necessità di un secondo movimento cioè come gestire questa situazione: sono incominciate le riunioni di reparto, le prime furono quelle del reparto di Slavich, sono incominciate per discutere su cosa fare durante la giornata, su come si mangiava, su come tener pulito...
Queste persone che hanno continuato a tacere per vent’anni come si sono trovate nel momento in cui hanno avuto questa possibilità?
Parlando di cose così concrete le persone parlavano, hanno cominciato a occuparsi di queste cose: se si mangiava male a protestare e non solo... Pian piano si costruivano dei gruppi con dei leader, pian piano si proponevano e direi che pian piano è sorta una dinamica abbastanza simile. I primi a venir fuori erano le personalità psicopatiche erano quelli che si ponevano come leader che poi distruggevano loro stessi la leadership e poi venivano fuori gli psicotici, a distanza venivano fuori loro come vere persone. Era abbastanza particolare come tipo di situazione e direi che questo è stato un momento molto importante perché ha fatto partecipare della vita dell’ospedale molte persone, cioè allora si è dato un po’ gambe a quello che era uno slogan. Viviamo tutti sullo stesso piano, siamo tutti uguali, viviamo tutti sullo stesso piano pur nella diversità dei ruoli, cerchiamo di far scomparire queste situazioni di disuguaglianza almeno all’interno della situazione, logicamente nell’ambito sociale bisogna tacere, cercando di cogestire la situazione. Allora viene messa in crisi la figura dell’infermiere, qui cominciano le grosse resistenze: " Voi tenete più conto del paziente e non dei nostri problemi", data la situazione bisogna dire che noi siamo qui per i pazienti. È facile dirlo oggi, ma in passato questo ha portato non solo discussioni, sindacati... oggi è una cosa normale ma non lo poteva essere in quei tempi, non avevamo esempi. Direi quindi che il momento delle assemblee di reparto è stato un momento molto importante che ci ha posto di fronte ad un problema: il problema psicoanalisi si o no.
Leggiamo queste dinamiche attraverso una lettura psicodinamica solo? ma nessuno di noi era psicoanalista, oppure anche noi cresciamo insieme a questa esperienza? E questa è stata la nostra scelta, la diversità...
In quel periodo io e Pirella facevamo dei gruppi, li facevamo insieme perché nessuno dei due era analista e scoprivamo un po’ le cose che trovava Laing dall’altra parte. Però con delle diversità, cioè avevamo visto che il fantasma persecutorio che descriveva Laing, nel momento in cui noi avevamo aperto il reparto scompariva, allora ci siamo resi conto che eravamo noi i persecutori, non erano fantasmi era la realtà, aperto il reparto non c’era più il fantasma persecutorio.
Noi continuiamo a tener conto del momento psicodinamico ma anche del metro sociale, sociale e politico: il fatto di domandarsi chi siamo, quale compito abbiamo, la psichiatria cos’è, noi psichiatri siamo dei medici, dei curatori o siamo delle persone che anche recludono, opprimono? La psichiatria è una scienza medica, una scienza che cerca di spiegare la malattia oppure è una scienza del controllo? Queste sono le domande che venivano fuori pian piano e noi abbiamo dato la nostra risposta fino a dire: " Basta l’ospedale deve essere chiuso" però a quel punto lì non è più Gorizia ma diventa Trieste. Direi che Gorizia è il momento che ci impone queste domande e ci dà queste risposte. A un certo punto a Gorizia scopriamo che la comunità terapeutica non ci basta nel senso che la comunità terapeutica rischia di far diventare il manicomio un bel manicomio ma riperpetuare la necessità del manicomio, cioè un posto buono dove stare. L’umanizzazione, la compartecipazione e quindi la comunità terapeutica, la scoperta che l’ospedale comunque è un luogo di malattia e non di cura, è un luogo di oppressione, di allontanamento e allora la malattia deve essere riportata nel suo luogo naturale, dove nasce.
In realtà a Gorizia Franco fa la rivoluzione, immagina giustamente di riportare il malato nel luogo dove vive, un principio che per noi è normale, ma...
Non era per nulla normale allora
In realtà a Gorizia Franco fa la rivoluzione, immagina giustamente di riportare il malato nel luogo dove vive, un principio che per noi è normale, ma...
Non era per nulla normale allora
Ecco ma tra la gente fuori, e mi riferisco ai famigliari, al milieu sociale di Gorizia e a i politici, questa rivoluzione che voi stavate facendo dentro con la voglia di portarla fuori, di andare oltre, che effetto ha fatto? Che reazioni ci sono state?
Direi che per quanto riguarda i familiari è stato anche in questo caso un processo che si è messo in moto, logicamente i familiari i primi tempi erano contrari. Però non bisogna vedere questo non come un "adesso tutti fuori". No, si è cominciato un rapporto con l’esterno molto forte con partecipazioni all’interno...
Prima voi avete fatto entrare la società dentro?
Sono stati anni molto belli e molto pesanti, belli perché eravamo in contatto con molte persone, a Gorizia sono venuti anche personaggi importanti , Facchinelli ad es. mi ricordo che dopo aver partecipato ad una riunione di reparto disse a me e ad Agostino Pirella "Qui fate un trattamento psicoanalitico perfetto":
Anche nella quotidianità avevamo stabilito un po’ di attività diverse, cioè quando visitavamo le persone, facevamo visite domiciliari, continuavamo a seguire gente all’esterno, facevamo igiene mentale nel senso che aprivamo l’ambulatorio all’interno dell’ospedale per vedere le persone.
In questo senso c’era una quotidianità di rapporti col territorio, avevamo preso contatti anche con sindaci, per chiedere se si potevano aprire all’esterno dei centri di salute mentale e qui comincia la vera resistenza, grossa resistenza politica, mentre sugli altri piani vi fù più dialettica.
Eravate una dannata cricca di comunisti.
Questa situazione di Gorizia è sempre andata di pari passo, si è sempre incontrata con i movimenti sociali in qualche modo ma non perché Gorizia voleva essere così ma perché quello che andavamo proponendo andando avanti si sposava per forza con lo spirito del tempo. Perché Gorizia nasce negli anni 60 perché negli anni 60 c’è una modifica totale del mondo italiano si passa da un mondo agricolo ad un mondo industriale, non si può più permettere la società italiana di avere i manicomi, parliamoci chiaro. Franco diventa l’interprete di quel momento. Franco è uomo del suo tempo non è fuori dal tempo e interpreta perfettamente il suo tempo. Se si volesse essere gramsciani è organico al suo tempo.
Quando noi diciamo vogliamo portare il malato di mente là dove nasce la sua malattia, la dove nasce la sua situazione, là dove lui è radicato.. sono gli stessi anni in cui i sindacati cominciano a dire vogliamo curare la malattia nel territorio, cioè sono gli stessi concetti ma non è che ci siamo messi d’accordo: questa stupidità di pensare da parte della destra che la sinistra si voglia mettere d’accordo è una polemica che sorge anche in questi giorni...molti di noi non erano mica comunisti, Slavich leggeva il Corriere della Sera, il Corriere della Sera di allora.
E’ interessante notare che Basaglia non ce ne sono più lui è stato un leader, cioè il ragionamento è molte persone hanno avuto delle buone idee ma spesso sono morte con loro e non hanno avuto se non dopo molto tempo riconoscimento postumo. Il caso di Basaglia è invece il caso di un leader che ha modificato, è riuscito a modificare alla fine una realtà a livello nazionale partendo da un piccolo posto.
All’inizio vi sentivate soli e che ruolo ha avuto il suo carisma? Per uscire da Gorizia e far diventare questo un fenomeno più grande?
Sembra semplice però è complessa perché pone in campo numerose questioni, allora cerchiamo di vederle un momentino.
Il mondo esterno, il mondo politico, era contrario logicamente perché la rivoluzione basagliana mette in discussione delle dinamiche consolidate: cioè chi sono queste persone? Perché queste persone devono star fuori dal mondo? Perché il mondo non le vuole? E se queste persone mostrano anche di poter vivere nel mondo cosa è che portano con loro che sconvolge tanto? Al di là che possa esserci più o meno lo schizzococco? Anzi magari ci fosse lo schizzococco così risolviamo il problema.... invece è per loro comportamento che non sono accettati perchè mettono in discussione il sistema di potere costituito che non vuole essere messo in discussione da qualsiasi parte lo si veda.
Questo è lo sconvolgimento che porta Gorizia in sè e lo porta su tutti i piani: mondo politico ma anche mondo universitario: riconoscono Franco ma non quello che Franco fa perché sono due cose diverse infatti ad un certo punto gli si offre la cattedra psichiatrica a Pavia, ma senza letti in modo che lui parli ma che il suo parlare sia ideologico senza riflesso pratico perché si capisce che la forza di Franco Basaglia non è solamente quella di un teorico ma quella di una persona che agisce la cui forza è l’utopia non l’ideologia, intendendo per ideologia quell’insieme di situazioni che cercano di coprire la realtà e l’utopia quella che smuove la realtà, che smuove in qualche modo le situazioni, in questo senso Basaglia dà fastidio.
Non è casuale che oggi i giovani specialisti in psichiatria non sappiano nulla di Gorizia se non parole al vento che "la malattia mentale non esiste" cosa non vera ecc. e non capiscono invece che c’è stata una profonda rivoluzione del cercare di capire in modo diverso il malato e la malattia.
Partendo dal malato e non dalla malattia perché partendo dal malato tu scopri una contraddizione con cui ti devi confrontare se hai la malattia ti confronti con niente, non ti metti in discussione metti in discussione solamente l’altro anzi cerchi di costringere l’altro in un angolo che è quello dell’etichetta che tu gli dai dentro la quale lui deve stare.
Questa è la situazione che ha messo in discussione la psichiatria.
Allora che cosa è la psichiatria?
Perché ancora oggi è una domanda, è una domanda che ha una risposta più articolata per certi aspetti di quanto non fosse 40 anni fa però è ancora una domanda. Cioè questo uomo spostato dal manicomio al territorio perché il territorio vuole ancora cercare di circoscrivere di recludere in uno spazio altro, è ancora una volta una persona scomoda pur avendo fatto vari passi in avanti sulla ricerca scientifica, perché ancora questo uomo non è un oggetto che tu prendi e cataloghi una volta per tutte è una complessità che è un divenire è questo il problema, quindi tu devi avere degli strumenti che sono in divenire non degli strumenti che cercano di fissarlo, per fissarlo un momento ma per quel momento ma poi si deve divenire insieme con lui. È anche la tua tecnica che è importante che tu abbia deve essere duttile, deve modificarsi insieme con l’altro. Io credo che Freud sia stato questo: la psicoanalisi non è questo, questo è il probema, o certa psicoanalisi. È questo il problema importante. Diciamo che Gorizia è intervenuta su diverse cose, mettendo in crisi troppe cose.
La reazione dei colleghi? Della psichiatria delle altre zone d’Italia? Quale è stata?
Diciamo che ci sono stati pochi colleghi che hanno cominciato ad avvicinarsi, molti giovani.
Perché è più facile andare dietro al potere, più difficile creare delle situazioni alternative. Io dico sempre che il potere ce l’hai lo stesso se agisci in un certo modo, però è più facile in un certo modo che in un altro. È più facile seguire la carriera universitaria, ma anche andare nei servizi e fare quello che ci ha insegnato l’Università piuttosto che fare quello che si deve fare. Gli psichiatri che ho sono il risultato dell’università di oggi. Questa è la realtà ed è con questa realtà che noi ci dobbiamo confrontare, certo se mi date cartalibera qualcuno lo trovo in giro per l’Italia, però questo è il risultato anche della situazione di allora.
Quando è successo il caso di una persona che uscendo ha ucciso la moglie, non aspettavano altro per attaccare Gorizia.
Noi eravamo 4 gatti allora, entravamo al mattino alle 8 uscivamo alle 4 del mattino e alle 8 eravamo di nuovo lì. Però siamo stati bravi noi e Franco soprattutto a coinvolgere le persone e più che in Italia, all’estero. Diciamo pure che se in Italia c’è una grossa ignoranza su Gorizia, questa ignoranza non c’è all’estero. Se uno va in Francia, in Belgio, Spagna, Franco è molto conosciuto . Io non dico che gli psichiatri devono essere Basagliani io dico che non si può, come non si può non conoscere Freud, non si può non conoscere Franco Basaglia perché non è una persona comune, è stato un leader.
Siamo stati delle persone normalissime credo con una discreta intelligenza però non avevano il carisma di Franco, lui aveva una grossa capacità intanto di entrare in contatto con le persone, e di coinvolgerle. Aveva una grossa capacità di tradurre in pratica quello che pensava e di coinvolgere gli altri sulla pratica non solo sull’ideologia, io credo che il più bello scritto di Franco siano le Conferenze Basagliane in cui si vede chi era, si capisce tutto Franco nella capacità di prendere la platea ma di prenderla per qualcosa. Franco aveva la capacità di mettersi costantemente in discussione sul piano concreto come uno che viveva sul rapporto, nel rapporto, non era capace di rimanere fuori dal rapporto quindi questo lo traduceva in tutte le sue forme di vivere.
C’era una domanda che facevano ogni tanto a Franco: ma se lei non avesse fatto il direttore di ospedale psichiatrico, lo psichiatra, cosa avrebbe fatto? Lui rispondeva: per me anche se avessi fatto il venditore di noccioline per me sarebbe stato uguale. Avrei avuto il problema di come vendere le noccioline. Il problema è che nulla è mai un atto passivo ma deve essere sempre attivo, sempre domandarsi chi sono, cosa faccio, chi è l’altro? Cosa vede e cosa vuole l’altro.
Questa era la sua costante che gli ha permesso di passare dal mondo universitario al ruolo di direttore di un piccolo ospedale di provincia nella parte più sperduta d’Italia.....
Lui arriva nel 63 e va via nel 69. Arriva con l’ospedale psichiatrico come era come uno dei tanti ospedali ospedali psichiatrici di allora e nel 69 cosa lascia.
La vera rivoluzione è stata Gorizia, trieste è stata la conseguenza, tutti parlano di Trieste ma Trieste viene dopo draaticamente, senza Gorizia non ci poteva essere Trieste.
Tu hai attraversato la psichiatria di questi ultimi 40 anni e hai avuto la fortuna di vivere la rivoluzione dall’interno ma che cosa è rimasto nella psichiatria di oggi? Io ti dico sinceramente ho l’impressione che non sia rimasto quasi più niente.
Non è vero che non è rimasto niente. È la domanda che mi faccio tutti i igiorni. Molto probabilmente se ci fosse qualcosa di diverso io non sarei qui a 65 anni. Perché non c’è un altro giovane di 30 anni come me o meglio di me? Sarebbe meglio di me, io potrei dargli una mano, avrebbe più spirito, perché non ci deve essere ?
È vero che ci sono poche persone però è vero che lo spirito è passato, se non si costruiscono nuovi manicomi, se la Burani Procaccini ha così difficoltà ad essere messa in moto se io quando sono solo in mezzo a una serie i primari italiani alla prima presentazone della legge e quando io metto il dito sulla piaga e mi dice che sono ubriaco, è segno che qualcosa è passato, l’idea che il manicomio non ci debba più essere, l’idea che anche il territorio può essere il manicomio. La rivoluzione culturale che noi abbiamo fatto è ancora una rivoluzione culturale all’interno di uno specifico, che ha avuto anche dei riglessi più generali ma che non può essere accettata da questo mondo e che non può essere quindi diffusa da questo mondo.
Il mondo non è fatto di diversi è fatto di uguali e i diversi rimangono sempre fuori dalla porta quindi può essere un’idea vincente un’idea che bisogna che vada avanti.
Franco Basaglia è un intellettuale del nostro tempo che ha agito per cambiare il nostro mondo.
C’è stato una demonizzazione in Italia e molti suoi epigoni hanno distorto il suo pensiero in slogan che non hanno certamente aiutato la rivoluzione.
Basaglia. Lettere dal manicomio L’archivio dello psichiatra che diede la parola ai matti
A Sartre scriveva dei processi, al collega Maxwell Jones confidava quanto si sentisse in crisi come psichiatra
I documenti inediti raccontano la più pazzesca delle rivoluzioni: quella di un medico “interessato più al malato che alla malattia”
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 15.02.2015)
L’APPUNTAMENTO CON SARTRE era alla Closerie des Lilas, una mattina di sole. Mi raccomando non fate tardi, aveva detto Franco Basaglia ai suoi giovani collaboratori, ancora più emozionato di loro. Il padre dell’esistenzialismo era un maestro, forse l’unico che avesse mai considerato tale. Avevano molte cose di cui parlare, com’era già capitato in passato. Il ruolo dell’intellettuale dentro istituzioni oppressive. La dignità delle persone fragili e ingarbugliate. La non neutralità della scienza. E il valore della libertà, la libertà del malato ma anche la libertà del medico. Il filosofo aveva scritto della rivoluzione basagliana nel suo Temps Modernes. Lo psichiatra lo ricambiava mostrando una lettura attenta dei sacri testi, L’essere e il nulla e anche L’idiota della famiglia, la ricerca sulla vita di Flaubert che da ragazzo l’aveva riscattato dal disagio di sentirsi “fuori posto”: anche a Franco era parso a lungo di essere l’idiot de la famille. Chissà se avesse mai osato confessarglielo, anche solo un accenno quel giorno di primavera del 1978. L’anno della legge che portava il suo nome.
La conversazione va avanti spedita fino all’arrivo di Simone de Beauvoir, algida nella sua eleganza perfetta, solo un lieve moto di irritazione che traspariva dall’impeccabile cappellino. «Sartre spinse bruscamente verso di me il suo aperitivo», ricorda oggi la ragazza che accompagnava Basaglia, Maria Grazia Giannichedda. «Con sguardo sorridente Franco mi invitò a prendere in mano il bicchiere. Sartre non poteva bere alcolici e dovevamo salvarlo dall’ira della compagna». Non si sarebbero più rivisti.
SARTRE E BASAGLIA, FRAMMENTI D’UNA STAGIONE di disordine e furore che affiora dalle carte conservate in archivio, ora inventariate da Leonardo Musci e Fiora Gaspari. Per raccoglierne le tracce bisogna andare nell’isola dei matti, l’ex manicomio che guarda Venezia da San Servolo. Qui è la Fondazione dedicata a Franca e Franco Basaglia, diretta da Giannichedda che ci fa da guida, e qui sono custodite migliaia di documenti tra lettere, taccuini, agende, verbali, atti processuali, studi scientifici che raccontano una rivoluzione culturale, una delle poche che ci siano state in Italia. «L’impossibile che diventò possibile», dice la figlia Alberta Basaglia, che alla sua storia famigliare ha dedicato il bel libro Le nuvole di Picasso. Una storia che non è mai finita, e gli ottanta faldoni dell’archivio servono a ricordarlo.
Si rovesciava il mondo, tra gli anni di Gorizia e quelli di Trieste. Al fianco di Basaglia era la moglie Franca Ongaro, l’unica capace di insegnare agli altri basagliani come fronteggiare una personalità potente rimanendo se stessi. Tutti insieme cominciano a liberare i matti dalle catene, dai corpetti di costrizione, dall’elettroshock, dal mutismo in cui si erano rinchiusi anche per difesa. Nel marzo del 1968 esce da Einaudi il libro che suggella la rivoluzione psichiatrica. L’istituzione negata fu subito bestseller. Sessantamila copie, otto edizioni, traduzioni perfino in finlandese, e il premio Viareggio nella saggistica.
Per la prima volta viene data voce agli esclusi. Parla Andrea che racconta della rete intorno al manicomio, di loro buttati a terra perché senza sedie, in ottanta in una sala e poi a letto alle sei del pomeriggio, anche d’estate con il sole ancora alto. E poi Margherita dice che faceva male stare legati come Cristo in croce, dalla mattina alla sera, coi piedi e con le spalle al letto, e se si usciva in giardino si stava legati all’albero. Lo stesso racconta Carla, che si sentiva come la principessa Mafalda chiusa nel lager e non sopportava di restare sporca. «Un enorme letamaio impregnato di un lezzo infernale», aveva detto Basaglia appena varcato il portone del manicomio di Gorizia. L’istituzione negata rappresenta un gigantesco “no”: alla «disumanizzazione» del malato e anche dei medici, a quella dei «violentati» e dei «violentatori».
Del suo carattere sovversivo s’accorse subito Giulio Bollati, che il 26 gennaio del 1968, su carta intestata alla casa editrice Einaudi, annota: “Caro Franco, avrei voluto scriverti subito per dirti che il vostro libro è bellissimo e molto importante. Vive delle tensioni che si producono nel suo interno, si sostiene delle sue stesse tendenze autodistruttive”. Troppo sottile Bollati per lasciarsi sfuggire l’inquietudine di un movimento che si nutre di contraddizioni senza approdare a regole definite. “Non mi stupirei che voi dramatis personae ne foste scontenti, irritati, offesi anche più di quello che se non sbaglio già siete: è infatti come se un gruppo di persone si fosse raccolto non per raccontare o fingere la morte di Agamennone, ma per ucciderlo con le proprie mani”.
Moriva non la psichiatria ma un certo modo di intenderla, come insieme di norme e codificazioni. «Tra la malattia e il malato senza dubbio mi interessa più il malato», diceva Basaglia ai suoi interlocutori ormai diffusi nel mondo. Le lettere dell’archivio mostrano una rete vastissima di relazioni, da un maestro della fenomenologia come Eugène Minkowski, sulle cui pagine Basaglia s’era formato, agli esponenti dell’antipsichiatria quali David Cooper e Ronald Laing, che spingevano per il superamento della disciplina. Anche voci più ufficiali manifestavano attenzione per le sue posizioni eterodosse. Ignacio Matte Blanco aveva in mano Che cos’è la psichiatria?, un libro di Basaglia che introduceva parole nuove sul mondo oscuro della follia, quando nell’ottobre del 1967 gli scrive: “Non sono sicuro di essere d’accordo con lei in tutti i punti - il che sarebbe impossibile tra esseri pensanti - ma condivido fortemente l’impostazione generale ed ammiro l’altezza e la larghezza delle sue visioni”.
Gli animatori dell’antipsichiatria vorrebbero condurlo dalla loro parte, ma Basaglia resiste. Vuole cambiare la psichiatria, non cancellarla, allargando i suoi confini ad altri campi, in una più vasta riflessione politico- culturale sulle istituzioni. Lo spiega bene in una lettera a Giulio Einaudi, che lo incalza con la richiesta di altri libri. “Nell’ultimo viaggio a Londra ho parlato con Laing, che suggeriva di organizzare un trattato di antipsichiatria di cui avrei dovuto curare la parte italiana. La cosa però a mio avviso è assurda: fare un trattato di antipsichiatria non ha senso in questo momento”.
A Basaglia interessa di più trasformare la psichiatria in “un’occasione di incontro-discorso politico antistituzionale” che offra una possibilità di azione. Un progetto poi realizzato con Crimini di pace, volume collettaneo scritto insieme a Noam Chomsky e Michel Foucault, Vladimir Dedijer e il suo amico Sartre: al centro è la figura dell’intellettuale-tecnico che vuole liberarsi dal ruolo di “funzionario del consenso” cui lo costringe l’istituzione. Per Basaglia una riflessione autobiografica.
Anno di successi ma anche di tormento, il Sessantotto. A Gorizia il lavoro si fa sempre più duro, tra moltissime resistenze. “Caro Max, ci sono un sacco di difficoltà, non ultima il fatto che voglio andarmene da Gorizia”, scrive a Maxwell Jones, l’inventore britannico delle “comunità terapeutiche” dove il disagio psichico viene curato con la collaborazione reciproca di medici e pazienti. “Sono in crisi anche per quel che riguarda il significato più profondo del mio lavoro: vivendo all’interno di una struttura sociale sento sempre di più che il mio lavoro è funzionale all’attuale sistema politico ed economico rispetto al quale sono in disaccordo, e devo trovare qualcosa di diverso, altrimenti non vedrò alcun significato in quel che faccio”.
Sarà un incidente ad allontanarlo da Gorizia. Nel settembre del 1968, un paziente ricoverato da tanti anni esce in permesso, litiga con la moglie e la uccide a colpi di scure. Per Basaglia, che pure sarebbe stato assolto, è un momento di «grandissima angoscia». Si dimette dalla direzione dell’Ospedale psichiatrico. L’anno successivo va a insegnare a New York.
Per realizzare il suo progetto - chiudere il manicomio e dare vita a un nuovo sistema di servizi di salute mentale - deve aspettare l’incarico a Trieste, sul finire del 1971. È la stagione più intensamente vissuta, in una esplosione di immaginazione e utopia. Sono gli anni di Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di cartapesta che nella pancia custodisce i desideri di chi l’ha costruito, «pazzi» e «sani», teatranti e pittori. Può capitare che, nel teatro del manicomio, all’armonica di un’anziana paziente risponda il sassofono di Ornette Coleman. E dall’aeroporto di Trieste decolla l’aereo dei matti, a bordo del DC9 solo pazienti, medici e personale volontario dell’Ati. Ma nel giugno del 1972 arriva l’altro fattaccio. Giordano Savarin, dimesso in esperimento dall’Ospedale psichiatrico, uccide il padre e la madre. Anche in questo caso per Basaglia la sentenza sarebbe stata di assoluzione, ma il processo si chiude tra molte ombre.
Ancora una volta l’amico Sartre interviene pubblicamente in suo sostegno. Lui lo ringrazia con una lettera molto amara. “La cosa si è conclusa molto ambiguamente”, gli scrive Basaglia il 25 novembre del 1975. Era stato infatti condannato il medico del centro di igiene mentale cui spettava il controllo. “La responsabilità viene trasferita ai centri di igiene mentale, come un prolungamento poliziesco del controllo che l’ospedale psichiatrico non può più attuare”. Una vittoria e una sconfitta, “perché la sentenza lascia immutato il problema della prevedibilità o impre- vedibilità della pericolosità del malato di mente”. Una questione che dopo quarant’anni è ancora irrisolta, con lo scandalo dei manicomi giudiziari tuttora in vita.
È anche per questo che la famiglia Basaglia ha deciso di rendere pubblico l’archivio dell’isola di San Servolo. «Il discorso sui matti e sui più deboli resta attuale», commenta Alberta, che continua la tradizione famigliare con la sua attività di psicologa. «È una storia che va avanti e non dobbiamo fermarci». Sartre diceva che ci sono morti che vivono, e sono loro il nostro avvenire, il compito futuro. «Questo si può dire anche di Franco e Franca Basaglia e dell’impresa da completare che ci hanno lasciato », conclude l’antica collaboratrice Giannichedda. Morti che ci parlano da un tavolino assolato di Parigi, contenti di stare insieme, anche se per l’ultima volta.
Antipsichiatria
La rivoluzione dei «goriziani»
di Massimo Bucciantini (Il Sole-24 Ore Domenica, 14.12.14)
«Qui è notte fonda, su un’isola popolata di fantasmi. Barricata su se stessa, lontana dalla memoria degli uomini». A pronunciare queste parole non è il capitano Willard di Apocalipse now, né il marinaio Marlow in Cuore di tenebra. Siamo in Italia, in una piccola città di provincia, nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Ma siamo ugualmente in uno dei luoghi più tenebrosi della terra e quella che si sta compiendo è una vera e propria discesa agli inferi.
A scriverle è Franco Basaglia appena giunto a Gorizia. È l’inverno del 1961 quando decide di lasciare il suo posto di assistente all’Università di Padova - non ci sono cattedre per lui, glielo dicono chiaro e tondo - e se ne va alla fine del mondo, in un luogo dimenticato e senza futuro, dove non ci si passa ma «ci si va soltanto se bisogna andarci».
Allora l’Ospedale psichiatrico di Gorizia era «il più periferico, piccolo e insignificante di tutti i manicomi italiani». Abitato da 600 pazienti, la metà dei quali non parlava italiano, era come la città diviso in due dalla cortina di ferro. Il confine tra Italia e Jugoslavia passava proprio tra le mura, i cancelli, le sbarre, i reparti chiusi a chiave del manicomio; come dentro ai suoi bellissimi giardini, sempre silenziosi e deserti, fatta eccezione per la presenza di qualche internato legato a una panchina o al tronco di un albero.
Quando vi mise piede la prima volta, Basaglia si sentì male. «Ritrovava l’odore "di morte, di merda", lo assaliva il ricordo dei sei mesi passati in una prigione fascista a Venezia nel 1944, a vent’anni». Nessuno, in quegli anni, avrebbe scommesso che in un posto simile sarebbe nata una rivoluzione, nessuno avrebbe mai immaginato che da lì sarebbe partita la battaglia contro l’establishment accademico e politico, tanto da diventare in poco tempo uno dei luoghi più visitati da giornalisti, amministratori e medici provenienti da ogni parte d’Italia. E uno dei simboli - insieme all’Ospedale di Trieste - per l’intera generazione sessantottina.
La storia di Basaglia, chiamiamola così per brevità, è stata raccontata più volte. Ma questo libro è per molti aspetti diverso da quelli che lo hanno preceduto. Certo non nasce nel deserto, e fa buon uso di studi recenti (come Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio, o Liberi tutti di Valeria Babini), ma ha caratteristiche che lo contraddistinguono e lo rendono un libro che segna un nuovo inizio. E ciò dipende non tanto dalle informazioni di prima mano provenienti dall’archivio della Fondazione Basaglia o da quello della casa editrice Einaudi, quanto dalla prospettiva con cui l’autore interroga e seleziona le fonti della sua ricerca.
Provo a dirlo in altro modo. Ci sono libri che aprono e libri che chiudono. Ecco, questo è un libro che fa parte del primo gruppo. E vi rientra a pieno titolo perché segna un cambiamento di orizzonte negli studi sulla nuova psichiatria italiana e scava in profondità più di quanto tante biografie dedicate al suo capo carismatico sono riuscite a fare. E vi riesce proprio perché la prospettiva da cui guarda le cose non è "basagliocentrica". La parola è orrenda, lo ammetto, ma ha il pregio di farsi capire: se si illumina di troppa luce il protagonista, il risultato che si ottiene è che il suo cono d’ombra impedisce di vedere tutto ciò che gli sta attorno. Scrive John Foot: «Soltanto se distogliamo una parte della nostra attenzione dalla persona di Basaglia potremo apprezzare davvero la centralità del suo ruolo».
Il libro prende spunto da una foto scattata a Gorizia nel 1967. Attorno a un tavolo, in una stanza dell’ospedale, Basaglia è ritratto insieme ai suoi collaboratori durante una riunione di lavoro. Alcuni, come Giovanni Jervis e Agostino Pirella, sono nomi noti; altri, come Antonio Slavich, Domenico Casagrande e la psicologa Letizia Comba, la moglie di Jervis, lo sono molto meno. A questi vanno poi aggiunti i nomi di Lucio Schittar, Leopoldo Tesi, Giorgio Antonucci e Maria Pia Bombonato. Sono loro i "goriziani", il nucleo principale della squadra che dal 1961 al 1969 lavorò con entusiasmo e senza un attimo di sosta a fianco di Basaglia riuscendo a smantellare, anche se solo parzialmente, quel luogo estremo di segregazione e di annientamento.
Insieme a loro c’era anche Franca Ongaro, la moglie di Franco Basaglia. E le pagine a lei dedicate ristabiliscono un minimo di verità storica sul suo contributo a quella esperienza pilota. Nonostante nutrisse ambizioni letterarie - scrisse fiabe per il «Corriere dei Piccoli» e a più riprese, fino al 1959, inviò senza fortuna i propri racconti per l’infanzia alla Einaudi, e in particolare a Italo Calvino - Franca svolse nel gruppo un ruolo chiave. Oltre a essere traduttrice di testi fondamentali come Asylums di Erving Goffman e autrice di alcuni articoli pubblicati in Che cos’è la psichiatria? (1967), Franca fu molto più di una collaboratrice. «Il disordine istintivo e prorompente delle idee di Franco veniva messa in riga, e in pagina, da Franca».
A tal punto che Foot sostiene che tutti i loro scritti sono più da attribuire a lei che a lui. Anche per quanto riguarda il libro più celebre tratto dall’esperimento scientifico goriziano, L’istituzione negata, fu lei a occuparsi della raccolta dei testi e a mantenere i rapporti con Giulio Bollati, dopo che Jervis, apprezzato consulente einaudiano da svariati anni, aveva spianato la strada tra Gorizia e Torino, troncando così i contatti che Basaglia aveva stabilito con Enrico Filippini (che, per inciso, già allora era molto di più di «un dirigente della Feltrinelli», pagina 124). Nonostante il frontespizio riportasse la dicitura «a cura di Franco Basaglia», si trattò di un appassionante e duro lavoro di squadra, anzi con ogni probabilità il "vero" curatore del libro fu Giovanni Jervis. Ma, come osserva Foot, «senza Basaglia non ci sarebbe stata Gorizia. Era la sua creatura, e lui ne era chiaramente il leader». L’istituzione negata uscì nel marzo del 1968. Al momento giusto. E fu un bestseller: 12.500 copie vendute in quell’anno, 60mila tra il ’68 e il ’72. Fu il libro di un’intera generazione, che fece di Basaglia un leader indiscusso, e di Gorizia «un riflesso e un motore del Sessantotto italiano».
Ma Foot indaga anche le zone d’ombra, parlando delle divergenze politiche e delle rivalità presenti nel gruppo. Affronta il tema del conflitto sempre più marcato tra Basaglia e Jervis, ma anche quello dei frequenti disaccordi sulle strategie da seguire con gli amministratori locali o sul grado di responsabilità da concedere ai pazienti.
Proprio nel momento in cui Gorizia acquistava un rilievo nazionale e diventava, insieme a un altro luogo sperduto, Barbiana nel Mugello, uno dei simboli del movimento, la squadra dei "goriziani" si sfaldò. Da un lato i difficili rapporti con l’amministrazione provinciale, che impediva di proseguire nello smantellamento del l’ospedale, e dall’altro la sempre più debole coesione del gruppo, condussero alla frantumazione e alla dispersione.
Il 28 gennaio 1968 Basaglia scriveva allo psichiatra Maxwell Jones, che stava sperimentando una comunità terapeutica a Dingleton, in Scozia, la sua intenzione di andarsene: «Anch’io sono in crisi, (...) sento che il mio lavoro risulta sempre più funzionale all’attuale sistema politico ed economico che non condivido, e devo trovare qualche cosa di diverso, altrimenti non vedrò significato nel farlo».
L’anno seguente i coniugi Basaglia lasciano Gorizia per trasferirsi prima a Colorno e poi a Trieste. Negli stessi mesi se ne vanno Slavich, Schittar, Jervis e Letizia Comba. Nel frattempo esperimenti di riforma sono realizzati a Perugia, Varese, Venezia, Napoli, Nocera Superiore, Parma, Bologna, Reggio Emilia, Padova, Pistoia.
Poi, nel 1971, sarà la volta di Agostino Pirella ad abbandonare Gorizia per dirigere l’Ospedale psichiatrico di Arezzo - sul colle del Pionta, attuale Dipartimento di scienze della formazione dell’Università di Siena - e continuare così l’attività anti-istituzionale appresa a fianco del maestro.
È stata l’unica vera rivoluzione del ’68. E questo libro - oggi, che in suo nome nessuno più combatte delle battaglie politiche - ha il merito di farci capire il valore e i limiti di quella rivoluzione. «È il tempo della tregua storica», per usare le parole dell’autore, che consente di guardare con occhi disincantati quel pezzo importante di storia italiana. Un buon viatico da prendere come esempio e da proseguire, per "aprire" la storia del ’68 ad altri e originali punti di vista.
Se gli psichiatri si rimettono il camice bianco
Il rischio è che i medici tornino ad avere un mandato solo tecnico come accadeva prima di Basaglia
di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 24.06.14)
Dove sta andando la psichiatria è una domanda ricorrente: essa risuona nei luoghi deputati (se ne è anche discusso di recente a Roma in un convegno sul Centenario del Santa Maria della Pietà), ma rimbalza a tutti i livelli, dalla politica al territorio diffuso del disagio mentale. La psichiatria (quella ufficiale) sta andando avanti oppure - in un modo più o meno esplicito - sta tornando indietro? Avanti o indietro rispetto a che cosa?
A quest’ultimo interrogativo è facile dare una risposta perché il giro di boa è avvenuto nel 1978 con la legge Basaglia (la “180”) che chiudeva i manicomi e restituiva agli ex internati quei diritti che erano già scritti, nero su bianco, nella nostra Costituzione.
Un punto fermo, dunque? Non precisamente ed è proprio su questo che si è scatenata la battaglia che arriva fino a oggi. Per averne una conferma, basta solo ripercorrere l’acceso dibattito che ha preceduto e accompagnato (anche in Parlamento) il decreto approvato a fine maggio, con il quale si è spostata di un anno la chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) che ancora sopravvivono in Italia, nonostante tutto. In tale decreto sono stati introdotti decisi miglioramenti con l’obiettivo di evitare la riproduzione di molti piccoli manicomi criminali, di costruire percorsi di cura personalizzati nel territorio e di valorizzare il più possibile i Dipartimenti di salute mentale. E soprattutto si è stabilito un tetto temporale non oltrepassabile che sanasse lo scandalo di veri e propri “ergastoli bianchi”.
Non è qui la sede per scendere in ulteriori dettagli, voglio soltanto ricordare come si è fatta sentire in questo contesto la voce della psichiatria ufficiale attraverso una lettera inviata alla ministra Lorenzin dalla più potente delle sue associazioni. «Facciamo molta attenzione - vi si legge - perché c’è il pericolo di essere trascinati dall’onda dell’emotività e di confondere coloro che rientrano in una diagnosi psichiatrica e devono quindi essere terapeutizzati, da coloro che sono “infermi di mente” e anche da coloro che sono socialmente anomali per via delle loro dipendenze e delle loro incapacità di integrarsi con gli altri».
Traduzione: la psichiatria deve occuparsi solo di quelli il cui disturbo rientra nei canoni specialistici della disciplina (e i Dipartimenti di salute mentale non devono fare un lavoro di recupero che non li riguarda).
Ecco dunque la risposta. La psichiatria procede spedita verso una restaurazione del suo mandato puramente medico e tecnico-scientifico. Medici del cervello che - per dir così - tornano finalmente a indossare il camice bianco e non vogliono più saperne di mandati sociali o politici. Allora si capisce bene perché le lodi di rito rivolte a Basaglia e alla sua legge siano perlopiù delle finzioni retoriche: Basaglia aveva infatti sconquassato la logica della psichiatria ufficiale non solo mettendo fuori gioco (e fuorilegge) ogni strumento di contenzione ma anche togliendo il camice agli psichiatri, denudandone il potere di controllo e riconfigurando in positivo il loro ruolo sociale e politico.
Nessuno, oggi, potrebbe negare il progresso scientifico (per esempio, nell’ambito dei farmaci), ma non si può neppure nascondere un regresso della psichiatria rispetto al cambio di passo sancito dalla “180”, grazie al quale coloro che sono affetti da disturbi psichici sono diventati “soggetti” nel senso pieno della parola e il compito della psichiatria si è trasformato in un ruolo sociale di rilevante responsabilità.
«Si nascondono dietro un dito», mi dice Peppe Dell’Acqua, lo psichiatra triestino che, portando da un capo all’altro della penisola il famoso “cavallo azzurro” di Basaglia, è stato uno dei maggiori protagonisti della lotta contro gli OPG. E aggiunge: «Tutto ciò che toccano diventa terapia».
È molto difficile dargli torto. Aggiungo che il nodo da sciogliere resta sempre quello della “pericolosità sociale”, blindato nei vecchi codici penali e che buona parte della psichiatria ritiene - ma solo a parole - ormai obsoleto.
Nei fatti, tutto rimane fermo su questo nodo, che forse è proprio ciò che permette agli psichiatri di nascondersi dietro a un dito e impedisce alla società in cui viviamo di diventare davvero civile, perché civile sarà quella società - come ha detto Basaglia - che riuscirà a ospitare effettivamente la follia. Il che significherebbe anche espellere finalmente dalle nostre menti l’idea di manicomio come recinto in cui rinchiudere i diversi. Siamo purtroppo ben lontani da simile traguardo, come gli eventi ci confermano ogni giorno.
Perché Basaglia è ancora attuale
Un’analisi sulla sopravvivenza dei “manicomi giudiziari”
di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 29.03.2013)
Di solito, per tranquillizzare la nostra coscienza, pensiamo che l’epoca dei manicomi sia ormai conclusa. Come se fosse uno ieri molto lontano, ricordiamo pionieri come Franco Basaglia il quale abbandonò le stanze universitarie per andare a dirigere il manicomio di Gorizia: scoperchiò un sottosuolo infernale e i suoi resoconti sono depositati in scritti e immagini che hanno fatto il giro del mondo, fino al documento-racconto che la televisione pubblica ha diffuso in prima serata pochi anni fa.
Tuttavia, nella testa della gente, i manicomi sono ormai un capitolo finito e Basaglia, con la “sua” legge del 1978, dopo quasi un decennio di battaglie anti-istituzionali a Trieste, ne avrebbe sancito la definitiva estinzione. Certo non veniva chiuso il capitolo della salute mentale (anzi lo si apriva clamorosamente), ma i manicomi diventavano qualcosa come un brutto ricordo.
Non è così. Non solo perché nel mondo la realtà manicomiale continua a esistere, ma anche perché nel nostro stesso Paese essa mantiene, nonostante tutto, laceranti sopravvivenze.
Faccio solo l’esempio dei cosiddetti “manicomi giudiziari” (Opg): come si sa, dovevano sparire entro questo mese, ma è già stata decisa una proroga e ormai si dubita molto sulla loro conversione in “comunità protette”. La scadenza - non osservata - ha comunque richiamato l’attenzione sul tema della grande informazione: su questo stesso giornale è apparso un reportage di Adriano Sofri che si è calato nell’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), parlando con gli internati ed evocando di nuovo l’immagine dell’“inferno”.
Sono così riaffiorati alcuni aspetti cruciali, ferite istituzionali e culturali lontane dall’essere rimarginate: la connessione tra l’idea di “pericolosità sociale” e quella di disturbo mentale, un nodo terribile e persistente, evidente sopravvivenza di una questione mai sciolta nella sua barbarie sociale e civile.
Occorre però vedere come lì si è perpetuata la carriera dell’internato: nella prigione- manicomio si entra anche per episodi minori (un furto, una lite violenta) e poi ci si rimane sine die, e magari lì si muore (o si decide di farla finita) attraverso una sequela di conferme di persistente pericolosità. Perché è accaduto questo? Molto è dipeso dall’incapacità di adeguarsi allo stato di detenzione (e contenzione) e all’obbligatorietà di un regime farmacologico assai pesante e somministrato a semplice scopo sedativo.
Di cura vera e propria non c’è ombra, quindi niente riabilitazione né terapeutica né sociale. Nulla che assomigli a una “guarigione”. Dato che ti ribelli, convinto di essere oggetto di un’ingiustizia spaventosa, la tua ribellione diventa la prova che sei ancora “socialmente pericoloso”, e così, di due anni in due anni, la tua condizione di internato viene confermata.
Si dirà: per fortuna questi infernali manicomi giudiziari ce li stiamo lasciando alle spalle. In proposito, tuttavia, corrono parecchi e motivati dubbi. Nessuno sa ancora bene che cosa debba essere una struttura protetta, dove tali strutture sorgeranno, come vi si articoleranno il regime psichiatrico e quello giudiziario, chi vi verrà “accolto” oltre ai superstiti dei manicomi giudiziari. Se si può prevedere che in esse la psichiatria (ma quale?) avrà un ruolo prioritario, niente ci autorizza a pensare che l’elemento manicomiale, e in sostanza il problema della pericolosità, scompaia magicamente.
È più facile sospettare il contrario, e cioè che la cultura manicomiale possa trovare qui un ulteriore terreno per diffondersi, unificandosi a una quantità di altri segnali che provengono dalla “normale” gestione della pratica psichiatrica, nei reparti ospedalieri dei “Diagnosi e cura” e nella disseminazione già esistente di comunità di contenimento del disturbo mentale.
Credo che l’attenzione agli Opg abbia comunque lanciato un allarme che potrebbe propagarsi dentro l’intera istituzione psichiatrica.
Questo allarme si traduce in una drastica domanda: «Ma si può guarire, e come?». E soprattutto: «Dove?». Forse “guarire” è una parola che, nella sua evidente esplicitezza, potrebbe portarci fuori strada bloccandoci nella coppia malattia-salute, quando invece qui guarire non significa solo trovare la giusta diagnosi del disturbo e una soddisfacente risposta farmacologica.
Ma vuol dire soprattutto riemergere da una condizione di non-soggettività a una condizione di soggetti, liberi e dotati di diritti sociali. Una condizione di risveglio pratico della nostra soggettività che sarebbe l’unico vero antidoto alla cultura manicomiale ancora diffusa.
Mentre questa cultura è pur sempre incline a difendere la società dal disturbo mentale segregando i cosiddetti folli, la cultura del risveglio soggettivo va nella direzione opposta: vorrebbe eliminare ogni forma di contenzione e isolamento protettivo e restituire un corredo di soggettività a chi ne è privo o ne è stato privato.
Non è forse proprio questa l’eredità che ci ha lasciato Basaglia? E cioè, che non basta chiudere i manicomi per farla finita con la cultura manicomiale? Se è così, come credo, allora dobbiamo constatare che il messaggio è stato ascoltato molto parzialmente e solo localmente, e che adesso occorrerebbe una decisa volontà politica per compiere il grosso del lavoro.
Ho trovato molti e utili spunti in un libro appena pubblicato (Guarire si può. Persone e disturbo mentale di Izabel Marin e Silva Bon, introduzione di Roberto Mezzina, edizioni Alpha Beta Verlag di Merano), in cui si dà conto con testimonianze e riflessioni di una ricerca condotta a Trieste sulla recovery (che possiamo tradurre con “ripresa” o “riemersione” del soggetto). Questo libro è apparso in una collana nella quale era anche stata pubblicata la sceneggiatura del film televisivo di Marco Turco che ho ricordato all’inizio, C’era una volta la città dei matti.
Dal disagio alla cura, storia vera di Basaglia
Una biografia di Pivetta sulla figura del celebre intellettuale
di Luciana Sica (la Repubblica, 30.06.2012)
Togliamoci dalla testa l’idea di Franco Basaglia come un san Francesco della povertà mentale, un guru sensibile e caritatevole votato alle ragioni di pazzi veri o presunti. Finiamola d’inchiodarlo a quella caricatura che lo etichetta come “il profeta dell’antipsichiatria”, come un uomo ossessionato dalla chiusura dei manicomi. Soprattutto non identifichiamolo con la legge 180, che porta sì il suo nome, ma di fatto è stata formulata da uno psichiatra e parlamentare democristiano, dal meno noto Bruno Orsini. Una legge discutibile e discussa, quella approvata nel ’78, non proprio il risultato di un pensiero culturale e politico contrario alla medicalizzazione della follia che ha consentito i peggiori abusi.
Amato e odiato, considerato un genio e un impostore, oggi Basaglia andrebbe ripensato come uno dei grandi intellettuali del secolo scorso: questa è la tesi principale della biografia scritta da Oreste Pivetta, che esce ora con un titolo popular come Franco Basaglia. Il dottore dei matti (Dalai, pagg. 286, euro 17).
È riuscito il tentativo di tracciarne un ritratto più autentico, ora che certe ubriacature ideologiche sono definitivamente alle spalle, ora che è più chiara la distanza di Basaglia dalle banalizzazioni antipsichiatriche, dall’esaltazione della devianza e delle sregolatezze individuali.
In quei due decenni - Sessanta e Settanta - complessivamente segnati, per dirla con Magris, da “una confusa esigenza messianica”, Basaglia è stato un tipico leader carismatico, forse travolto dal successo e trascinato da un movimento che a tratti perdeva il senso della misura. Ma la sua utopia - ci dice l’autore del libro - non era mai “un sogno strampalato”, piuttosto una pratica rigorosamente etica, era un fare continuo e inventivo, la determinazione di “mettere una pietra accanto all’altra”.
Ma a Pivetta non basta far intuire come la questione delle persone più sofferenti ed emarginate fosse diventata per Basaglia una sfida radicale per una società incapace di accogliere “tutte” le diversità che ospita, “tutte” le figure del disagio, di costruire relazioni meno brutali e più umane. Il suo controverso personaggio viene puntigliosamente contestualizzato in quella irripetibile stagione del nostro Paese, nei fatti ormai storici come nell’informazione, e anche nel cinema e nella fotografia, nel teatro e nella letteratura che ha ispirato.
C’è tutto intero il percorso personale e professionale, il carattere dell’uomo, le idiosincrasie e le generosità del veneziano amico di Hugo Pratt. Dalla militanza antifascista all’esperienza fallimentare dell’università, alla direzione degli ospedali psichiatrici di Gorizia e Trieste, Basaglia risulta un protagonista del suo tempo, apprezzato da personaggi come Sartre e Pasolini, capace di senso politico, di costruire alleanze, di contare sempre su collaboratori eccellenti. Come lo stesso Giovanni Jervis, anche se poi se ne allontanò, seguendo tutt’altra strada - fino all’agosto di tre anni fa. Pivetta fa bene a non presentare Jervis come il nemico di Basaglia, a combattere l’idea di un duello che c’è stato solo per chi ama le più sciatte semplificazioni.
Franco Basaglia
grande intellettuale
La biografia del medico dei matti che ha cambiato la realtà
L’anticipazione
Un brano dal libro di Oreste Pivetta, da oggi in libreria, dedicato alla vita dello psichiatra che chiuse i manicomi e propose uno sguardo diverso su follia e umanità
di Oreste Pivetta (l’Unità, 28.06.2012)
Dopo una fortunata adolescenza a Venezia, Franco Basaglia visse la sua storia tra l’antifascismo, le speranze del dopoguerra, lo studio, l’avvio di una possibile carriera universitaria, la direzione degli ospedali psichiatrici, a Gorizia, a Parma, quindi a Trieste, infine per breve tempo a Roma. Visse all’interno dei grandi mutamenti che coinvolsero la società e la cultura italiane, in particolare in un periodo che s’aprì nel segno dei governi di centrosinistra e si chiuse con i governi di solidarietà nazionale, tra grandi lotte operaie e studentesche, tra le bombe stragiste e il terrorismo, che contrastarono una spinta riformista, che si esaurì negli anni Ottanta e che mai più sarà ritrovata.(...)
Basaglia, il «filosofo» (così lo chiamava con evidente ironia, il primo maestro, il professor Giovanni Battista Belloni, il biologista direttore della clinica di Padova), nutriva un’autentica passione per Sartre, che varie volte aveva incontrato. Si capisce tanta attenzione, tenendo conto del continuo lavorio attorno al tema della libertà del filosofo francese, alla sua idea di impegno culturale, immaginando sempre «quell’uomo condannato a essere libero».
Mi stupisce, invece, che Basaglia non abbia mai preso in considerazione, neppure un cenno, il «rivale» algerino di Sartre, meno riconosciuto dalla moda del tempo ma alla fine mi sembra più intellettualmente longevo e per noi necessario, cioè Albert Camus, lo «straniero», un altro isolato, emarginato, straniato, per conseguenza delle sue origini, francese sì, di genitori francesi, ma nato in Nordafrica.
L’uomo in rivolta di Camus, la rivolta che è «secolare volontà di non subire» nella lotta al male (...) sembrerebbe offrire spunti di riflessione a un combattente come Basaglia, che incontra invece un altro intellettuale, legato alla vicenda algerina e alla lotta di liberazione algerina, Frantz Fanon. Quasi coetaneo, nato nel 1925 in un’altra colonia (la Martinica), figlio di antichi schiavi, Fanon diventa psichiatra, prima di scrivere un libro di culto nel nostro Sessantotto, I dannati della terra. La «rivolta» è anche di Fanon: prima individuale nella sua isola di fronte all’arrogante presenza francese, poi collettiva in terra di Francia nella resistenza contro il nazismo, poi nel manicomio di Blida, in Algeria, contro la doppia condanna che colpiva gli internati, malati mentali e colonizzati, la doppia espropriazione dei diritti.
Fanon lascia l’ospedale, per entrare nel Fnl, il Fronte nazionale di liberazione algerino: lui, ci ricorderà Basaglia, ha potuto scegliere la rivoluzione, noi per ragioni evidenti ne siamo impediti. Ma la rivolta può seguire altre strade e comunque una: quella di una continua riconsiderazione in senso etico e in senso politico del proprio lavoro, qualunque sia la circostanza.
È un dubbio personale, quello sul mancato incontro con Camus, quasi solo una curiosità, che conta ovviamente poco e che soprattutto non indebolisce la certezza che Basaglia sia stato un grande intellettuale, come si intende in genere, e cioè intellettuale in virtù delle letture e delle frequentazioni, degli studi approfonditi, della comprensione e dell’elaborazione.
Ma credo che lo sia stato anche in un senso ben più alto, come s’usa poco dalle nostre parti italiane, e non solo per quanto aveva imparato da Gramsci, ma soprattutto per quanto aveva arricchito, nel «lavoro», quel suo sapere critico di valori morali e per quanto aveva messo in pratica. Chi vorrà leggere questo libro, mi auguro possa capire quanto quella parola, «pratica», contasse per Basaglia e quanto, proprio per questa consapevolezza di un «dover fare», egli rappresentasse la forma e la sostanza di un intellettuale anomalo, paragonabile a pochi altri, capace di accantonare la sua dottrina, per misurarsi con la realtà senza approfittare di varchi ideologici, avvertendo l’esigenza di cambiare la realtà, quando la realtà ci fa indignare, senza neppure mai tentare di dedurre da quella «pratica» una scienza immobile e tantomeno un inventario di regole, anche quando questo procedere aveva condotto al «successo» (espressione estranea al vocabolario di Basaglia).
Vengono in mente le parole di don Lorenzo Milani (citate da Adele Corradi in un libro-diario): che togliere spazio alle opere per pregare fosse una perdita di tempo, che si dovesse anche pregare tenendo conto delle circostanze e delle urgenze, che se vi fosse stata urgenza bisognasse agire, infine che «sarà urgente pregare quando a tutti sembrerà importante operare».
In questo senso mi azzardo a dire che Basaglia sia stato uno dei grandi intellettuali del secolo passato, poco considerato in fondo. Meraviglia, a proposito, che Pasolini, pur avendolo conosciuto a Gorizia, ne riferisca nei suoi scritti solo due o tre volte e sempre con una medesima, ricalcata, espressione di tre o quattro parole. Una volta scrivendo sul settimanale Tempo nel 1968, a proposito di Vietcong, definiti contadini ed «eroi».«Ho messo tra virgolette la parola “eroi”, perché come mi ha raccontato Basaglia, nel suo manicomio, una ricoverata ha detto che gli eroi sono un prodotto delle società repressive» (19 ottobre 1968).
Un’altra volta a proposito di Panagulis «eroe» nella Grecia dei colonnelli, cioè nella Grecia della spietata repressione (Tempo, 7 dicembre 1968). La terza volta, per la morte di Jan Palach, esplicitamente ricordando il debito accumulato: «Nel corso di questa rubrica ho voluto citare due volte la frase di una ricoverata nel manicomio di Gorizia, diretto da Basaglia... » (Tempo, 8 marzo 1969). Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi o sventurata la terra che ha bisogno di eroi, alla maniera di Bertolt Brecht: di eroi costretti a battersi contro il male.
Si dovrebbe contare un’altra citazione di Pasolini: quando, polemizzando con Adriano Sofri a proposito di un suo testo teatrale, Calderòn (rifacendosi a La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca, mutuandone i nomi e la tematica del sogno), definisce due personaggi, due medici, si chiamano entrambi Manuel, rappresentanti di una posizione «borghese gauchista», «psichiatri alla Basaglia». Con una precisazione: «I gauchisti per anni (“Gauchismo si dice in Calderòn malattia verbale del marxismo!”) hanno fatto del Potere (chiamato Sistema) l’oggetto di un transfert: su tale oggetto essi hanno scaricato tutte le colpe, liberando così, per mezzo di un meccanismo estremamente arcaico, la propria piccolo-borghese “coscienza infelice”» (Tempo, 18 novembre 1973).
Non può dirsi questo per Basaglia che non può certo condividere con quegli «psichiatri alla Basaglia» quel «transfert» e quell’infelicità piccoloborghese. Basaglia ironizzava sul pessimismo degli intellettuali, esperti in legittimazione (come li definì Chomsky in Crimini di pace), stanchi e impassibili all’idea che non si possa far nulla se non scrivere libri, contrapponendo la convinzione che il cambiamento parta da noi, da un modo di essere e di fare soprattutto.
L’eccentricità di Basaglia avrebbe dovuto incontrare quella di Pasolini, affini entrambi nel rifiutare la funzione fondamentale attribuita in ogni epoca agli intellettuali, orientare e disciplinare le masse, tacitarne il disagio e le nevrosi, affini entrambi nel riconoscere, su tutto, il valore della libertà.
Neppure un riferimento a Basaglia si ritrova nelle migliaia di pagine di Italo Calvino, di un anno più giovane, cronista dei suoi tempi (anche nel senso stretto di giornalista). Ma Calvino aveva paura della follia, che allontanava da sé con il silenzio.
Basaglia per le scuole
«Salute/malattia»
un libro storico da rileggere
Il Festival. Di follia e delirio, di sintomi e diagnosi si parlerà a Gorizia, dove parte oggi «èStoria», con tanti appuntamenti e oltre 150 ospiti, da Luciano Canfora a Margherita Hack
di Pier Aldo Rovatti (l’Unità, 17.05.2012)
ESCE IN QUESTI GIORNI IL TERZO TITOLO DELLA COLLANA «180. ARCHIVIO CRITICO DELLA SALUTE MENTALE» (EDIZIONI ALPHA BETA, MERANO), che fa seguito al Marco Cavallo di Giuliano Scabia e a C’era una volta la città dei matti (il film televisivo di Marco Turco sulla vita di Franco Basaglia).
Si tratta del volume Salute/malattia firmato da Franca Basaglia (ed. Alphabeta Verlag collana 180 diretta da Peppe Dell’Acqua e Pieraldo Rovatti, 272 pagine 16 euro), in prima presentazione domani sera al festival èStoria di Gorizia), compagna di Franco, sua stretta collaboratrice a Gorizia e anche in seguito, coautrice di molti suoi testi. Ma molto di più, poiché la biografia intellettuale di Franca Ongaro Basaglia (anche senatrice della Sinistra indipendente tra gli anni Ottanta e i Novanta) resta ancora tutta da valorizzare per l’impegno civile, l’ampiezza di orizzonte, la finezza critica, la ricchezza delle proposte.
Nel libro, che sostanzialmente raccoglie alcune ampie «voci» apprestate per la prestigiosa Enciclopedia Einaudi alla fine degli anni Settanta (quando la legge «180» cominciava a prendere vita), troviamo ora un apparato critico e informativo che ci permette di capire chi era Franca Basaglia e cosa è stata la sua opera, dalla sostanziale partecipazione agli ormai mitici «libri di Gorizia» (Che cos’è la psichiatria?, L’istituzione negata), a La maggioranza deviante del 1971, ai lavori meno noti dedicati al rapporto tra donne e follia, o rivolti a spiegare ai giovanissimi la realtà del manicomio, infine alla monografia del 1991, Vita e carriera di Mario Tommasini (l’eccezionale «burocrate scomodo» di Parma, un protagonista oggi quasi dimenticato).
La bibliografia completa è uno di questi preziosi apparati messi a punto da Maria Grazia Giannichedda (presidente della Fondazione Basaglia di Venezia e curatrice del volume); ma bisognerà ricordare almeno l’appendice dedicata alla lezione magistrale tenuta da Franca Basaglia a Sassari, in occasione del conferimento della laurea honoris causa, documento inedito di grande interesse culturale e politico, e naturalmente l’introduzione della stessa Giannichedda («La voce di Franca Basaglia»), ritratto profondo da cui emerge la peculiarità di una donna di grande intelligenza, a un tempo schiva e pungente. Ce n’era bisogno poiché, se lei aveva scelto di stare in qualche modo all’ombra dell’importante compagno, donandogli la sua capacità di pensiero critico e di scrittura, adesso è giunto il momento di darle la visibilità e l’autonomia che le spettano.
Basta scorrere i temi che si snodano in Salute/malattia per capire al volo la loro importanza e l’attualità che conservano: cura/normalizzazione, esclusione/integrazione, farmaco/droga, follia/delirio, medicina/medicalizzazione, normale/patologico, sintomo/diagnosi. Ricordo che il sottotitolo del libro è: «Le parole della medicina». L’impianto critico complessivo potrebbe essere allora condensato nel modo seguente: una lotta culturale (e pratica) per liberare queste parole, che restano decisive per noi, da ogni incrostazione naturalistica. Esse non rimandano a qualcosa di «naturale» ma sempre a esperienze storiche e ogni volta a dei dispositivi che le incapsulano e le fanno diventare oggettività insormontabili, pareti che sembrano imprigionare la nostra soggettività.
A ben vedere, non si tratta solo di temi attuali ma di questioni che sono state oscurate, rese «inattuali» dal montare trionfante dei processi di medicalizzazione. Franca Basaglia ha dunque anticipato tempi che devono ancora arrivare: quello che non poteva prevedere è che gli orizzonti già allora angusti sarebbero diventati i tempi bui della restaurazione che stiamo vivendo. Faccio solo l’esempio della malattia. Lei propone di guardarla dal lato di un soggetto che riesca a vivere il suo essere malato anche come un’opportunità di consapevolezza e di crescita, un’occasione di soggettivazione.
Oggi, invece, la medicalizzazione della società ha fatto piazza pulita di simili discorsi (poco «realistici»?) e marcia, senza troppi intralci, verso la naturalizzazione della malattia come semplice «oggetto» del sapere medico, nel quale la soggettività interferisce poco o nulla. Perciò, io credo che Salute/malattia sia un libro da far leggere ai giovani e magari da portare dentro le nostre scuole come contributo di educazione per costruire una cittadinanza attiva.
FRANCO BASAGLIA: VENEZIA 11 MARZO 1924 - 29 AGOSTO 1980
Per lo psichiatra, cui si deve l’introduzione in Italia della legge 180 e la chiusura dei manicomi, il paziente non è solo una malato ma una persona in tutta la ricchezza.
Franco Basaglia
Dimenticato dagli psichiatri, amato dai filosofi
Franco Basaglia cinquant’anni fa assunse la direzione del manicomio di Gorizia ma di quella eredità nei reparti ospedalieri rimane assai poco Invece le domande sulla follia sono ancora terreno d’indagine dei pensatori
di Massimo Adinolfi (l’Unità, 26.11.2011)
Chi si ricorda di Franco Basaglia? Nel novembre di cinquant’anni fa, l’anno di Asylums di Goffman e della Storia della follia di Foucault, il giovane psichiatra veneziano assume la direzione del manicomio di Gorizia. Avviando una rivoluzione: dalla riorganizzazione del personale sanitario all’abolizione delle divise per i degenti, dai permessi di uscita alla eliminazione di ogni mezzo di contenzione, Basaglia interverrà su tutti gli aspetti della vita dell’ospedale, trasformandola radicalmente. E accompagnerà questa attività con una formidabile azione comunicativa e un impegno politico inesauribile, il cui ultimo frutto sarà la legge 180 sui trattamenti sanitari obbligatori.
Due anni dopo Basaglia muore, e poco alla volta i riflettori accesi da Basaglia sulla follia si spengono. La legge 180 rimane in vigore, ma le domande sollevate da Basaglia si attutiscono e le battaglie da lui condotte si smorzano fin quasi a scomparire. Chi oggi si chiede ancora se la follia sia (soltanto) una malattia mentale? In realtà, la questione arde ancora nel braciere della filosofia, ma sapere medico e organizzazione sanitaria l’hanno ormai, di fatto, accantonata. E così a ricordarsi di Basaglia finiscono con l’essere quasi soltanto i filosofi o gli psicanalisti (che medici non sono), i quali hanno dedicato un libro alla sua esperienza: Franco Basaglia. Un laboratorio italiano, a cura di Federico Leoni (Bruno Mondadori). La psichiatria universitaria, invece, forte di solide certezze farmacologiche e di un naturalismo più solido ancora, si tiene parecchio alla larga dall’eredità di Basaglia.
UN CASO TRAGICO
Non è però il solo paradosso. Perché se a suo tempo erano le idee di Basaglia e dell’antipsichiatria a mettere a soqquadro il rassicurante fondamento di ogni umanesimo, la possibilità cioè di tracciare senza incertezze il confine fra il sano e il malato, il normale e l’anormale, l’umano e l’inumano, oggi le distinzioni saltano più facilmente per via della convinzione che tutto l’arcano della follia stia dentro i termini medico-biologici del problema.
Negare alla parola, alle pratiche sociali o al contesto territoriale qualunque presa sulla realtà della follia significa infatti ridurre drasticamente fino a negarlo del tutto l’ambito in cui l’uomo si esprime e viene compreso come un uomo, e ampliare a dismisura quello in cui viene invece compreso e spiegato a partire da ciò che umano non è (ma è biologico o chimico o neurologico).
C’è quindi un motivo teorico di stringente attualità per ricordare Basaglia, ma c’è anche una ragione pratica e politica: basti pensare all’orrore della morte di Franco Mastrogiovanni, maestro elementare, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio, costretto per quattro giorni in un letto di contenzione del reparto psichiatrico di Vallo della Lucania e, a seguito di ciò, deceduto. Non decenni fa, ma due anni fa. Il processo al personale sanitario e agli infermieri è da poco ripreso, e nell’ultima udienza il direttore sanitario dell’Ospedale di Vallo ha avuto l’ardire di affermare che «la contenzione è un sistema di terapia». Sono parole, queste, sufficienti per indignarsi, ed entrare nuovamente con i fari accesi da Basaglia negli ospedali.
«Ma la sua idea di guarigione è parte di tutti noi»
Peppe Dell’Acqua che ha condiviso l’esperienza triestina: molti Paesi nel mondo si ispirano alla nostra 180
intervista di Cristiana Pulcinelli (l’Unità, 26.11.2011)
Peppe Dell’Acqua con Basaglia ci ha lavorato a lungo. Insieme a Trieste hanno condiviso anni di battaglie e sperimentazioni. Poi Dell’Acqua è diventato direttore del Dipartimento di Salute Mentale proprio lì, a Trieste. Fra poco uscirà il secondo volume di una collana che cura insieme a Pieraldo Rovatti e Nico Pitrelli, per Alpha Beta Editore 180 archivio critico della salute mentale”: la sceneggiatura e il dvd del film «C’era una volta la città dei matti», andato in onda sulla Rai nel 2010. «Sono pienamente d’accordo sul fatto che bisogna riaccendere i fari su Franco Basaglia dice ma non vorrei diffondere un’amarezza eccessiva che finisce per coprire e disconoscere una presenza straordinaria e quotidiana di Basaglia. Ovunque si parli di salute mentale nel mondo non si può fare a meno di parlare di Franco Basaglia».
Non potrebbe sembrare un’affermazione apodittica?
«Forse, ma basta guardare quello che succede nel mondo. L’Argentina ha fatto una legge sulla salute mentale che riprende molto dell’insegnamento di Basaglia e della legge 180 di cui Basaglia è stato inconsapevole ispiratore. In Brasile sta succedendo la stessa cosa. Ma c’è di più. Se possiamo parlare dell’orrore della morte di Franco Mastrogiovanni legato a un letto è grazie al fatto che Basaglia è nella testa e nella cultura di ognuno di noi e non solo di chi l’ha conosciuto o ci ha lavorato. Per qualcosa che abbiamo letto, o sentito, o percepito oggi possiamo dire che legare una persona a un letto è un atto criminale. Prima non era così. E molti altri sono morti prima di Mastrogiovanni».
E oggi?
«Oggi ancora ci sono realtà difficili. Proprio recentemente ho saputo di esperienze al Niguarda di Milano che fanno pensare ad epoche passate: porte chiuse, persone legate, maltrattamenti. Accendere i fari su Basaglia oggi significa ricominciare a dire la verità.
E a proposito delle certezze della psichiatria?
«Quando Basaglia si pose l’interrogativo “che cos’è la psichiatria?” portava l’incertezza nel mondo delle certezze psichiatriche. Oggi gli psichiatri utilizzano di nuovo le certezze della biologia e delle neuroscienze per spiegare i dogmi. Siamo arrivati a questo punto a causa della prepotenza delle case farmaceutiche e dell’atteggiamento delle accademie. Ma c’è una cosa di cui si deve tenere conto. Quelle certezze sono state messe in crisi. E non sono state messe in crisi dagli psichiatri, ma da una larga popolazione di familiari, utenti dei servizi di salute mentale, operatori. Gli psichiatri oggi non hanno più peso proprio perché si sono rifugiati nella cittadella delle certezze. Ma l’inganno ormai è stato svelato. Oggi genitori mi chiamano da Marsala come da Milano per dirmi: mio figlio deve guarire. Ma da dove hanno preso quest’idea di “guarigione” se non da Basaglia?»
Condivide la denuncia di una psichiatria che torna a negare la parola e i diritti?
«Non solo la condivido, ma sono ancora più duro. Quello che accade tra i dannati della Terra nei manicomi giudiziari accade perché la psichiatria si permette di prevedere che la tale persona sarà pericolosa. I giudici non decidono da soli. Ma quello che mi sembra di vedere è che gli psichiatri cercano di stare lontano da Basaglia perché quando si avvicinano al suo pensiero e alla sua pratica vivono la miseria e la pochezza del loro essere. Questi psichiatri cercano l’evidenza, ma non si accorgono che intorno a loro ci sono pratiche rivoluzionarie, come la restituzione del diritto. Non si accorgono che vivono in un mondo in cui tutto è cambiato, in cui i manicomi non ci sono più».
Basaglia insegna
La denuncia. Il giornalista Kazuo Okuma e la sua esperienza infernale in un ospedale psichiatrico
Il dramma. Nel suo paese esistono quasi solo strutture private e gli internati sono in aumento
I manicomi non curano
Il Giappone studia il modello italiano
Grazie al coraggio di un giornalista e alle denunce dei familiari dei malati, in Giappone c’è una spinta a copiare la nostra 180. Una delegazione del Sol Levante è in visita in Italia per capire come funziona
di Cristiana Pulcinelli (l’Unità, 12.04.2010)
Kazuo Okuma in Giappone è un uomo conosciuto. Per trent’anni ha lavorato come giornalista del più importante quotidiano giapponese, Asahi Shimbun, ed è autore di un libro che negli anni Settanta ha suscitato un certo clamore: Reportage da un padiglione manicomiale. Kazuo vi raccontava la sua odissea all’interno di un ospedale psichiatrico in cui si era fatto ricoverare fingendosi alcolista e da cui aveva faticato non poco ad uscire. Da quella esperienza Kazuo ha maturato l’idea che il manicomio fosse un luogo infernale, «ma non vedevo alternative racconta fino a che non ho saputo che in Italia era stata varata una legge che prevedeva l’abolizione dei manicomi».
Da questo incontro con la riforma italiana è nato un altro libro, Il Giappone dei manicomi e l’Italia senza manicomio, con il quale Kazuo ha vinto il premio Franco Basaglia istituito dalla Provincia di Venezia e dalla Fondazione Franca e Franco Basaglia. Ora l’autore è in Italia insieme a una delegazione giapponese formata da psichiatri, operatori sanitari, familiari di pazienti. Vengono a studiare il modello italiano. Ma hanno anche voglia di raccontare il dramma dei pazienti con problemi di salute mentale nel loro paese. «In Giappone racconta Kazuo oggi ci sono 340.000 letti per una popolazione di 120 milioni di persone. Negli ultimi 30 anni il numero dei letti manicomiali è diminuito in tutti i paesi sviluppati, tranne che in Giappone, dove invece sono drasticamente aumentati. Il 90 % di questi posti letto si trova in ospedali privati per i quali il guadagno viene prima della vita dei pazienti». Il modello è complesso: quasi ogni ospedale psichiatrico ha un proprietario diverso, spesso si tratta dello stesso psichiatra che lo dirige. Dato che il guadagno maggiore deriva dal numero di ricoverati, i letti devono essere sempre pieni. Quindi, pazienti che potrebbero essere seguiti al di fuori della struttura, vengono invece tenuti in ospedale il più a lungo possibile. Spesso i letti vengono riempiti con malati di Alzheimer e anziani.
Maya Aishi, odontotecnica, è la mamma di un ragazzo schizofrenico ed è anche vice presidente di un’associazione di familiari di pazienti. Anche lei è in Italia e racconta la sua storia: «Mio figlio ha cominciato a manifestare problemi gravi verso i 16 anni. Per chiedere un aiuto ci siamo rivolti al comune della nostra cittadina, ma ci hanno detto che l’unica soluzione era ricoverarlo in ospedale: una struttura privata con oltre 500 posti letto che si trova in una cittadina non distante dalla nostra. Così abbiamo fatto. Per 10 anni mio figlio è entrato e uscito dall’ospedale senza nessun miglioramento. Ora è a casa da 6 mesi, potrebbe andare al servizio diurno, ma siccome si trova all’interno dell’ospedale, non vuole metterci piede». Cosa chiedono i familiari? «Vogliamo servizi territoriali. Io sono andata dal sindaco della mia cittadina e gli ho detto: diventiamo la Trieste del Giappone».
Il coraggio di cambiare le cose
La grande lezione di Basaglia: volere la luna
di Livio Pepino (l’Unità, 13.02.2010)
Tra i meriti della bella fiction televisiva di Marco Turco dedicata a Franco Basaglia c’è il rilancio di una prospettiva che sembra passata di moda, anche a sinistra: quella del cambiamento (della sua possibilità e della sua necessità). Il messaggio vale per tutti: anche per chi quella prospettiva ha coltivato e praticato.
Nel 1979, a poco più di un anno dalla riforma che porta il suo nome, Basaglia, in un intervento che può essere letto in Conferenze brasiliane, disse parole allora sorprendenti: «La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare». Oggi da quelle parole profetiche occorre ripartire. Sapendo che il cambiamento è possibile. Anche in una stagione difficile come quella che stiamo attraversando. Purché continuiamo a “volere, ostinatamente, la luna”.
Anni prima, mentre si preparava la chiusura dei manicomi, nasceva Psichiatria democratica e cominciava a dipanarsi una vicenda parallela, un’altra scommessa giocata sul crinale della trasformazione del sistema istituzionale in senso ugualitario. Riguardava, questa vicenda, la giustizia, la cui trasformazione cominciò ad essere considerata una possibilità reale e non «una nuova utopia per consentirci di sopportare il tipo di vita che siamo costretti a vivere» (per usare, ancora, parole di Basaglia).
Era la vicenda di Magistratura democratica, che qualche anno dopo Giuseppe Borrè avrebbe sintetizzato in questi termini: «Perché è nata Md? Personalizzando un po’ potrei dire: perché sono entrato in Md? Credo che la risposta stia nello stretto e indissolubile intreccio di due ragioni complementari. Da un lato, il rifiuto del conformismo, come gerarchia, come logica di carriera, come giurisprudenza imposta dall’alto, in una parola come passività culturale; dall’altro, il sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti, e sentirsi “da questa parte” come giuristi, con le risorse e gli strumenti propri dei giuristi».
Sono passati gli anni. Con alti e bassi. Da ultimo, prevalgono i bassi. Ma, anzitutto, siamo ancora qui, Magistratura democratica e Psichiatria democratica e molti altri. E, poi, conosciamo la strada. L’importante è continuare a percorrerla, incuranti degli inviti al realismo di troppi “cattivi maestri”.
Le famiglie dei pazienti psichiatrici
Molto romantico e commovente il suo commento a proposito di Franco Basaglia. Peccato che nella realtà ci siano migliaia di malati di mente che non vengono curati per niente e vengono abbandonati alle loro famiglie, che sono senza gli strumenti necessari, quando non direttamente responsabili di quelle malattie.
Paolo Izzo
Risponde Luigi Cancrini:
Franco Basaglia non ha mai negato la malattia mentale. Ha detto che l’ospedale psichiatrico la rendeva invisibile sovrapponendo ai sintomi i danni dell’esclusione e dell’emarginazione. La cura, diceva, deve essere portata avanti fuori dall’ospedale con l’aiuto delle famiglie che (la fiction lo mostrava bene) all’inizio fu dato per scontato e che andava costruito invece con pazienza, con umiltà e con mezzi adeguati.
Ne discussi a lungo con lui quando venne a trovarci nell’università dove tentavamo di aiutare la famiglia di un ragazzo autistico e credo che si sarebbe battuto con noi e con tanti altri, se avesse vissuto di più, perché il diritto al sostegno e alla cura delle famiglie. La letteratura ci dice che il lavoro con le famiglie è lo strumento più importante nel prevenire le ricadute e le ospedalizzazioni dei pazienti affetti da un disturbo schizofrenico.
«Al di là dei ricordi suggestivi lei scrive la malattia rimane» ed io sono d’accordo anche se curarla e alleviarla è assai più facile oggi che ieri. Dobbiamo solo fare di più e di meglio sul territorio in cui, al tempo di Basaglia, le cure non esistevano.
*l’Unità/Lettere, 12.02.2010
L’autogoverno li strappa alla fossa dei serpenti
Una clinica psichiatrica senza celle, senza camicie di forza, senza infermieri, dove i malati vivono in libertà, discutono con i sanitari i loro problemi: ecco quanto si è realizzato nella "comunità" di Roma, una iniziativa per certi aspetti unica e che comunque sta tentando una strada nuova in questo campo delicatissimo.
di Stelio Martini (Il Giorno 24 maggio 1964)
«I malati psichiatrici possono governarsi da soli? Sono capaci di vivere in una ordinata comunità, di assolvere a certi compiti sociali, di prendere delle "sagge" decisioni?»
Mi sembravano ipotesi assurde, e non senza scetticismo suonai alla porta della Comunità. Il cancello si aprì quasi subito e, mentre attraversavo il breve giardino che divide la villa dalla strada, mi investì il suono di un disco di Celentano.
Le note rimbalzavano anacronisticamente sulla facciata 1930, anacronisticamente per lo stile, ma ancora di più per il suo contenuto. In fin dei conti non si trattava di una clinica per malati psichiatrici? Nessuno mi venne incontro, e perciò entrai direttamente nella stanza a pianterreno, che era piena di gente. C’erano uomini e donne: chi leggeva chi ascoltava la musica chi chiacchierava, e alcuni risposero al mio saluto. La loro disinvoltura favorì la mia.
Ma mi sentivo ugualmente a disagio. Di fronte ad un malato, anche la disinvoltura è una forma di ipocrisia, e io temevo che incontrando qualcuno di «loro» il mio comportamento avrebbe tradito il mio stato d’animo, di timore e istintiva pietà. Ma si trattava di una preoccupazione ormai inutile. Quasi tutte le persone che avevo incontrato fino a quel momento erano membri della Comunità, cioè malati. Me lo rivelò il dottor Fagioli, Il giovane direttore, ricevendomi nel suo ufficio.
Da tre anni egli abita, mangia, dorme e lavora, insieme alla moglie che sta per avere un figlio e «senza nessuna precauzione psichiatrica » (un eufemismo per dire: senza celle infermieri, camicie di forza), in mezzo ai pazienti, e queste cose non gli fanno più effetto. Si, era un malato quel tale che usciva mentre io entravo . E anche quello che mi aveva accompagnato in ascensore. E anche quello, aggiunse, che all’ora di pranzo ritira le medicine in infermeria e le distribuisce si suoi compagni, osservando la nota consegnatagli dal medico. « Certo...» sorrise lo psichiatra all’espressione della mia incredulità. Del resto, se mi fossi trattenuto avrei potuto constatarlo di persona. «E le dirò, in tre anni non è mai successo che un paziente incaricato di questo compito sbagliasse una dose. Come un infermiere, anzi meglio di un infermiere...»
Giovane ed entusiasta del metodo di cura applicato e perfezionato dal dottor Fabrizio Napolitani, Massimo Fagioli era assistente presso l’ospedale psichiatrico di Padova quando seppe dell’esperimento che il suo collega stava conducendo in Svizzera, in un padiglione a sé del sanatorio di Kreuzlingen. Immediatamente abbandonò il posto e lo raggiunse. I suoi colleghi dissero che era matto; oggi egli può vantarsi di aver partecipato ad un’iniziativa per certi lati unica, e che comunque tenta una strada nuova in un campo molto difficile.
Alla parola «malato di mente» la gente reagisce ancora con la paura. Senza far distinzioni, questo tipo di malato è considerato un’irresponsabile per eccellenza , dal quale bisogna difendersi. La legge riflette ed esaspera questa concezione, demandando il ricovero dei malati all’autorità giudiziaria. In tal modo ci si cautela contro le possibili conseguenze, ma si sottrae alla medicina la possibilità di vagliare, distinguere ed intervenire in condizioni ideali. E se è vero che in alcuni ospedali psichiatrici si sono fatti dei passi avanti, la codificata diffidenza contro la malattia è ancora molto grande. Uno dei pregi dell’esperimento tentato con la Comunità è quello di opporsi a questa diffidenza. E proprio certe parole che sembrano le più assurde sono, almeno per il profano, le più stimolanti. Autogoverno dei malati psichiatrici. Consiglio normativo della Comunità formato da medici e pazienti. Comitato di infermi e assistenti sociali. E così via.
Una casa come le altre
Esponente della moderna psichiatria, che sta abbandonando i tradizionali sistemi per le nuove tecniche psicoterapiche ispirate alla psicoanalisi, Fabrizio Napolitani ha creato in sostanza una specie di famiglia, dove malati e medici collaborano alla cura, si fa vita di gruppo e dove tutti (salvo il veto dei medici) accettano le decisioni della maggioranza. Egli ha lavorato diversi anni a questa iniziativa. Per la prima volta ne parlò al Congresso internazionale di Montreal nel ’61; ora, dopo tre anni di rodaggio in Svizzera, ha trasferito a Roma la sua «democratica» Comunità, suscitando molto interesse negli ambienti medici. Di fuori la clinica (situata in una via quasi centrale), è una casa come le altre, in mezzo alle altre. Far sì che il malato non si senta isolato, messo al bando dalla società, è infatti uno degli scopi di questo metodo che si propone prima di tutto di socializzare il paziente. « Socializzare e motivare...», precisò il dottor Napolitani, «sono gli scopi pregiudiziali della cura...».. Bruno tarchiato, le sopracciglia folte, quasi unite, il «padre» (anche in senso affettivo) della comunità ha lo sguardo di chi è abituato a scrutare le sofferenze dell’animo umano; ma spira dalla sua persona anche la rassicurante fiducia della persona che crede nelle inesauribili risorse dell’uomo.
Il punto di partenza delle nuove tecniche cui si è ispirato è infatti quello di considerare il malato non oggetto ma soggetto di cura. Cioè capace di collaborare alla sua guarigione. Tutto sta che esista in lui una parte sana, un nucleo anche piccolo, sulla quale far leva. «Se esiste è possibile spezzare il muro dietro il quale, per paura dell’ambiente, si è chiuso, fargli riprovare il piacere di comunicare e quindi far sorgere in lui il desiderio di guarire. Se si riesce a tanto, il più è fatto. Da quel momento infatti si può iniziare con il malato, divenuto consapevole della sua malattia, un colloquio che un po’ alla volta lo riporta verso la normalità...» Questo colloquio non si svolge soltanto tra il medico e paziente, ma anche tra malato e malato. Come intuì John Maxwell, i malati di mente hanno un effetto terapeutico gli uni sugli altri, e su questo principio sono basate le cosiddette «psicoterapie di gruppo», nelle quali si inquadra anche la Comunità fondata dal dottor. Napolitani.
Ma insieme al dottor. Fagioli egli ha fatto un passo di più, organizzando qualcosa che fa venire in mente la «Città dei Ragazzi». Il caso del paziente che sostituisce l’infermiere, non è un’eccezione. Qui dentro ognuno è incaricato di una certa funzione, e fa parte quindi di un certo comitato. I comitati sono quattro: di Assistenza Vitto e Alloggio, Sociale, Culturale. E se dietro questi nomi importanti (un po’ i « ministeri» della comunità) si nascondono solo compiti di carattere pratico, « è sorprendente che un maniaco depressivo si occupi di tenere la corrispondenza con i pazienti dimesso, o un malato bilaureato, sia pure in via di guarigione, di stabilire le coppie di cucina, o di servire il pranzo in tavola, o la mattina di mettere fuori della porta il secchio dell’immondizia »
Sempre vicino ai suoi malati
Oltre ai comitati vi sono 3 consigli, che corrispondono idealmente ai 3 poteri dello stato democratico. Legislativo, d’azione e di riabilitazione. Ciò significa che i malati, eletti ogni 2 mesi, sono investiti anche del potere di fare e disfare le leggi della comunità? E’ proprio così, anche se ai medici spetta l’ultima parola. Ma il parere dei pazienti è sempre sollecitato e ogni argomento affrontato con loro. Nelle bisettimanali riunioni di gruppo, si discute di tutto. Dei problemi comuni e di quelli individuali, in una sorta di confessione collettiva nella quale ciascuno porta i suoi casi di fronte al gruppo, racconta tutto di sé, e ci fu uno che una volta raccontò persino che si era innamorato di una paziente, e lei lo seppe solo in questa occasione.
«Con i malati», disse il dottor. Fagioli, «si discute perfino se accettare o dimettere un paziente, anche se la decisione finale è riservata a noi. La cosa importante però è abituarli a discutere, farli sentire partecipi di una comune famiglia». Di questa famiglia, mentre il dottor Napolitani che l’ha fondata è il «padre ideale», Il dottor Fagioli, accondiscendente benevolo, sempre vicino ai malati e disposto ad ascoltarli, impersona un po’ la figura «materna». Dal punto di vista scientifico si potranno muovere obiezioni all’esperimento della comunità ma questo medico che vive sempre in mezzo ai malati è una prova a favore del metodo e un indubbio esempio d’abnegazione. E siccome si era fatta l’ora di pranzo, e il dottor Fagioli doveva mettersi a tavola con i suoi « pensionanti» lasciammo l’ufficio ed entrammo nella Comunità.
Nell’interno questa assomiglia ad una comune pensione, con le camere a due o tre letti, la sala da pranzo con il tavolo comune, fatto a elle, il soggiorno con la TV, le riviste, il giradischi. Le camere erano tutte aperte. In una c’era una piccola libreria, tra i cui volumi c’era anche un libro di Freud. In un’altra una ragazza si stava ravviando i capelli davanti allo specchio. In cucina mi presentarono, col suo nome e cognome, una signora che stava preparando i piatti. Alcuni pazienti erano già a tavola. C’era, malgrado tutto un’aria di famiglia. E infatti la funzione essenziale della Comunità è proprio di costituire per ciascun paziente una famiglia ideale, in sostituzione della loro che spesso è stata la causa prima della malattia.
Ogni anno il professore ritorna
Così si spiega come alcuni riescano a svolgere durante il giorno una normale attività e rientrino «a casa» la sera. E perché quelli che lasciano restino sempre legati ai loro «fratelli» da vincoli affettivi. «C’è un professore di università» diceva il dottor Fagioli « che ritorna a trovarci ogni anno», ma già sfrecciava verso i suoi pazienti e collaboratori, quasi assurdo nella sua dedizione e nella sua fiducia nelle loro risorse. Ma un po’ di fiducia è necessaria; altrimenti si resta sempre fermi alle celle, agli infermieri, e alle camicie di forza.
Capiremo i folli solo con la nostra follia
L’esperienza basagliana travalica i confini suscitando entusiasmi
In Brasile, in Norvegia, in Canada le tracce del suo insegnamento
di Luigi Cancrini (l’Unità, 10.02.2010)
Trieste, 1976. Mi incontro con Franco nel suo ospedale. Un paziente con un buffo cappello sulla testa passa veloce accanto a noi che parliamo chiedendogli dove sta Big House, lui risponde «di là mi pare», poi si gira verso di me e mi spiega che stava parlando di Casagrande, il suo aiuto che di li a qualche anno sarebbe andato a dirigere l’ospedale dei servizi psichiatrici di Venezia. Stavamo per salutarci, avevamo discusso della legge che stava per venire, il mio ruolo era quello di rappresentante della commissione sanità del Pci nell’ambito della trattativa complessa che sarebbe sfociata nella 180 e mi dispiaceva andarmene e mi venne da chiedergli dove viveva in quel periodo, la sua famiglia era a Venezia e lui sembrava come un po’ smarrito nella confusione di una vita troppo piena di cose da fare. Mi guardò Franco allora per un attimo negli occhi con quella sua aria trasognata e dolce e si guardò intorno e gli occhi gli si fermarono su una valigia aperta che era la sua, e mi disse ridendo che era lì che abitava, forse, nella valigia con cui andava in giro per il mondo a raccontare la buona novella del superamento degli ospedali psichiatrici, dei matti, che erano solo persone che non avevano più la capacità o la possibilità di raccontare se stessi e la loro vita. Suscitando entusiasmi straordinarii di cui ho trovato le tracce quando ho viaggiato per parlare di lui e della rivoluzione psichiatrica italiana. In Canada dove le sue idee erano oggetto di insegnamento all’università e in Inghilterra dove R. Laing, Esterson ed altri portavano avanti, in contesti tanto diversi, un discorso tanto simile al suo, in Brasile dove le sue conferenze furono raccolte in un libro straordinario ed in Norvegia dove, a Tromso, mi sarebbe capitato di ricordarlo insieme agli psichiatri che avevano seguito i suoi consigli liberando i pazienti dall’ospedale, a Liegi dove ancora c’è oggi una associazione con il suo nome e un po’ dappertutto nel mondo dove l’esperienza di Gorizia e di Trieste è stata presentata e discussa come una proposta rivoluzionaria dal punto di vista politico e straordinariamente coerente dal punto di vista scientifico.
Semplice e forte, il discorso di Franco sulla follia ha aperto prospettive teoriche di grande respiro di cui il superamento degli ospedali era solo la premessa. Contestuale e non genetica, l’origine dei comportamenti che non capiamo e che difensivamente chiamiamo «folli» va cercata sempre nella storia della persona e nella geografia dei suoi rapporti più significativi. Nulla accade a caso nella vita psichica, aveva detto Freud e Basaglia l’invera, questa affermazione, nel contatto quotidiano con gli ultimi degli ultimi. Con quelli che a parlare non provano più dopo che tanti muri hanno incontrato che respingono e soffocano le loro parole. Cui è possibile stare vicini solo se si riesce a stare in contatto con le parti «folli» e bambine di sé. Conoscere l’handicap, diceva Franco (è uno degli ultimi ricordi che ho di lui a Roma, la malattia lo condizionava già molto) è possibile solo per chi si guarda dentro alla ricerca del suo di handicap. Sorridendo lo diceva, come se lo stesse ancora cercando.
Trasformare i pazzi in uomini la bella rivoluzione va in tv
La fiction sull’uomo che provò a chiudere i manicomi è una bella "rivoluzione"
Basaglia in tv, l’utopia dei matti
Precisione efficacia e commozione nella descrizione delle pratiche punitive terribili
Il medico si batté contro la miseria e il degrado a cui la follia non di rado si imparenta
Stasera su RaiUno la seconda puntata di "C’era una volta la città dei matti", il bel film di Marco Turco che ripercorre la vicenda dello psichiatra veneziano. E ci convince a non cancellare le sue conquiste
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 08.02.2010)
COME faccio a sapere che malattia ha una persona legata in un letto di contenzione da 15 anni? Come faccio a sapere di che cosa soffre un individuo a cui sono stati tolti, oltre ai suoi abiti, tutti gli oggetti personali, in cui poter rintracciare una pallida memoria di sé?
E che dire di quanti, in occasione di una crisi, venivano immersi in un bagno d’acqua gelata, o sottoposti a elettroshock? Erano queste alcune domande che Franco Basaglia si era posto quando, escluso dalla carriera universitaria per le sue idee non proprio in linea con la psichiatria vigente, giunse a Gorizia a dirigere il manicomio di quella città.
Marco Turco, regista della fiction televisiva, la cui prima puntata è andata in onda su RaiUno ieri sera, descrive con precisione, efficacia e commozione le pratiche di punizione, di controllo e persino di tortura che si praticavano nei manicomi in nome della scienza psichiatrica, ma soprattutto coglie e mette bene in evidenza che la chiusura dei manicomi era, negli intenti dello psichiatra veneziano, solo un primo passo verso una rivisitazione dei rapporti sociali a partire dalla "clinica", la quale, per tranquillizzare la società, non aveva trovato di meglio che incaricare la psichiatria a fornire le giustificazioni scientifiche che rendessero ovvia e da tutti condivisa la reclusione dei folli entro mura ben cintate.
Entro queste mura Basaglia, prima della follia, incontrò la miseria, l’indigenza, il degrado, l’emarginazione, l’abbandono, la spersonalizzazione, a cui la follia non di rado si imparenta. Infatti la follia dei ricchi non si esprime con la "segregazione", ma tutt’al più con l’"interdizione", qualora intacchi gli interessi patrimoniali. E allora non è che per controllare e contenere questa miseria non s’è trovato modo migliore che renderla muta come "miseria" e farla parlare solo come "malattia"?
Questo tema è messo bene in evidenza dallo sceneggiato televisivo che ha colto perfettamente l’intenzione di Basaglia secondo il quale: se la clinica ha messo il suo sapere al servizio di una società che non vuole occuparsi dei suoi disagi, non è il caso di tentare a l’operazione opposta, ossia l’accettazione da parte della società di quella figura, da sempre inquietante, che è la follia, dal momento che, scrive Basaglia: "La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la ‘follia’ in ‘malattia’ allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere che è poi quella di far diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere ‘folle’ per trasformarsi in ‘malato’. Diventa razionale in quanto malato".
L’ansia di accreditarsi come scienza sul modello della medicina ha fatto sì che la psichiatria trascurasse, senza curarsene, la "soggettività" dei folli, i quali furono tutti "oggettivati" di fronte a quell’unica soggettività salvaguardata che è quella del medico. Ma è davvero credibile che, negando istituzionalmente la soggettività del folle, sia possibile guarirlo, cioè restaurarlo nella sua soggettività? Di qui l’invito agli operatori sanitari di togliersi i camici, simboli del potere medico che non può operare, dice lo sceneggiato, se prima non si smonta il lager. "Ma i pazienti sono muti" obiettano gli infermieri. E allora, risponde Basaglia: "Avresti voglia di parlare quando nessuno ti ascolta?". E ancora: "Le anime di questi pazienti non sono ‘vuote’, come voi dite, ma semplicemente ‘svuotate’, in questo carcere di cui voi siete ‘buoni’ carcerieri, ma sempre carcerieri". E poi perché non restituire ai ricoverati gli abiti e i loro effetti personali. "Se a voi, medici e infermieri, togliessero tutte le cose più care che avete in casa, che cosa resta di voi?"
Accettando la condizione di parità tra medico e paziente Basaglia scopre che, restituendo al folle la sua soggettività, questi diventa un uomo con cui si può entrare in relazione. Scopre che il folle ha bisogno non solo delle cure per la malattia, ma anche di un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali per il suo essere, di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche il medico che lo cura ha bisogno. Insomma, dice Basaglia: "Il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità".
L’utopia di Basaglia di fare della clinica un laboratorio per rendere "umane" e non "oggettivanti" le relazioni tra gli uomini, attraverso la creazione di servizi di salute mentale diffusi sul territorio, residenze comunitarie, gruppi di convivenza, con la partecipazione di maestri, educatori, accompagnatori, attori motivati, oggi sembra in procinto di naufragare e fallire. Anche se l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 2003 ha definito la legge Basaglia che ha chiuso i manicomi come "uno dei pochi eventi innovativi nel campo della psichiatria su scala mondiale", ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per cento, divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte. Che facciamo? Mettiamo tutti in manicomio o facciamo recuperare loro quel rapporto col mondo che il manicomio preclude definitivamente e i servizi di salute mentale, così come sono oggi, non garantiscono, per incuria, trascuratezza, indifferenza, per la paura che la società ha della diversità che ospita nelle figure degli immigrati, dei tossici, dei senzatetto, degli emarginati?
Questo Basaglia lo temeva e perciò, un anno prima di morire scrisse: "Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo ‘vincere’, perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo ‘convincere’. Nel momento in cui convinciamo, vinciamo, cioè determiniamo una situazione da cui sarà più difficile tornare indietro". E il contributo dello sceneggiato televisivo, bellissimo nel suo ritmo, nelle sue cadenze e nella sua documentazione, va nella direzione di convincerci a non tornare indietro.
DIMENTICARE I MANICOMI
Salute mentale, il recupero
attraverso il lavoro funziona
Lavorare come matti:
a trent’anni dalla morte
di Basaglia si moltiplicano
le esperienze di recupero.
In Spagna la catena di Zara
apre un outlet di abbigliamento
gestito da disabili psichici
di GIAN ANTONIO ORIGHI (La Stampa, 8/2/2010)
MADRID L’Italia celebra con una fiction televisiva la legge Basaglia, che nel 1978 cancellò i manicomi con l’intenzione di reinserire socialmente i disabili mentali. E mentre a Trieste, dove Franco Basaglia lavorò a lungo, si aprirà domani il forum mondiale «Che cos’è salute mentale», in cui mille delegati di quaranta paesi (dal Giappone alla Giordania) descriveranno i passi avanti del sistema Basaglia nei loro Paesi, in tutta Europa si moltiplicano gli esperimenti concreti di recupero attraverso il lavoro.
L’ultima iniziativa di grande respiro arriva dalla Spagna, dove la Inditex (una multinazionale leader mondiale della moda prêt-à-porter con i suoi otto marchi, tra cui il celeberrimo Zara) ha appena varato il progetto del suo quarto outlet gestito soltanto da «descapacitados». Inditex è una delle molte imprese di Amancio Ortega, l’uomo più ricco di Spagna (e numero 10 tra i Paperoni del mondo con i suoi 14 miliardi di patrimonio), e lavora con i malati di mente dal 2002, quando a Palafolls, nell’hinterland di Barcellona, aprì un grande magazzino in collaborazione con la Fundació Molí, una ong che da tempo si occupa dell’integrazione dei disabili psichici.
Il bilancio in attivo
Il negozio, 140 metri quadrati nel centro della cittadina, occupa a tempo pieno una dozzina di persone affette da disturbi mentali anche gravi. I risultati? Il fatturato è aumentato da 500 a 700 mila euro mentre i giorni di ricovero ospedaliero dei dipendenti si sono ridotti a zero. «Una delle scommesse vinte dal progetto è proprio la redditività economica - dice Javier Chércoles, direttore della divisione “Respon- sabilidad Social Corporativa” di Inditex - il che dimostra il suo autentico valore di integrazione». La performance è stata così brillante che l’azienda di Ortega (il cui primogenito soffre di un grave handicap) ha moltiplicato le iniziative: il quarto megastore che darà lavoro ai malati mentali aprirà tra qualche settimana ad Elche. «La risposta della clientela è eccellente - dice ancora Chércoles - E anche gli altri dipendenti valutano molto positivamente questa esperienza».
La legge e le persone
Passi in avanti verso un traguardo che, in ogni Paese, è ancora lontano dall’essere raggiunto. «Di salute mentale si parla poco e male - dice Peppe Dell’Acqua, erede di Basaglia al Dipartimento di Salute mentale a Trieste - Dopo gli anni di grande fermento, non siamo più riusciti a ritrovare una dimensione di verità, di concretezza, di onestà intellettuale nel discutere di queste cose. Tutto viene sempre rimandato all’assetto legislativo. Fa notizia solo quando c’è una tragedia: si potrà cominciare a parlarne in maniera diversa, quando ci si interrogherà sulla singolarità delle storie umane».
Franco Basaglia era uno psichiatra veneziano, che ha affrancato la sofferenza mentale dalla prigionia dei manicomi.
Prima a Bari, poi a febbraio su Raiuno, il film «C’era una volta la città dei matti». Che coglie nel segno.
Per Basaglia
In tv il 7 e 8 febbraio la vita dello psichiatra che affrancò la sofferenza mentale dai manicomi
Impresa riuscita: una vicenda corale per capire la rivoluzione del padre della legge 180
L’antieroe che liberò i matti val bene questo film
di Toni Jop (l’Unità, 27.01.2010)
C’era una volta Franco Basaglia. E allora? Non è un santo, non è un Papa, non è un grande condottiero ma il suo antieroismo è stato il più potente motore di cambiamento della nostra storia recente: se ne accorgerà il pubblico di Raiuno che per una volta la fiction di prima serata torna sulla terra per raccontare di donne e uomini uniti dalla sofferenza e dal piacere di liberarla. Franco Basaglia era uno psichiatra, un «dottor dei matti» veneziano, e da psichiatra ha distrutto i manicomi, ha affrancato la sofferenza mentale dalla prigionia, ha messo in crisi la sanità, ha messo in crisi la professione, ha messo in crisi la scienza, ha fornito un gancio formidabile alla rivolta contro le istituzioni totali, ha offerto una sponda preziosa al movimento di liberazione che friggeva negli anni Sessanta-Settanta tra le due sponde dell’Atlantico.
Tutto qui: dal punto di vista dello spettacolo, diremmo, poco più di niente. Quindi ti aspetti una fiction di questo si parla discretamente noiosa, densa, tra l’altro, di contenuti decisamente fuori-moda nei tempi del pensiero brevissimo berlusco-leghista. E invece, seguiamo i fatti: l’altra sera «C’era una volta la città dei matti» è stato proiettato tra i legni del Petruzzelli di Bari davanti a una platea stracolma. Se l’è accaparrato con abituale fiuto Felice Laudadio, patron del BifEst barese alla sua seconda edizione.
Tre ore di film -lo si vedrà in due puntate il sette e l’otto febbraio e neanche un colpo di tosse; alla fine venti minuti di standing ovation, commozione e, ammettiamolo, il cuore più caldo per una vicenda molto corale che si sviluppa sostanzialmente tra due manicomi, Gorizia e Trieste, tappe decisive del lavoro di Franco Basaglia. Regìa intelligente e di gran livello firmata da Marco Turco, sceneggiatura smagliante dello stesso Turco, Alessandro Sermoneta, Elena Bucaccio, Katia Colja; interpretazioni ammirevoli, misurate e in qualche caso entusiasmanti: seguite Fabrizio Gifuni nei panni di Basaglia e proverete l’ebrezza che potevano erogare mostri sacri come Alec Guinness o Peter Sellers. Attendiamo smentite. Niente a che vedere con la qualità alla quale ci ha abituati la fiction, qui siamo a casa del miglior cinema italiano, è un nuovo standard.
PAZIENTI TRITURATI
La vicenda inizia con un «a-prescindere» stravagante e niente realistico: Franco Basaglia dichiara il suo amore a Franca Ongaro ancillare nello svolgimento cinematografico dei fatti ma per nulla a rimorchio nella vita vera, non si può aver tutto e da una finestra veneziana si tuffa in Canal Grande, lei lo segue. Matafora, va bene. Poi, il film riesce miracolosamente a destreggiarsi in un groviglio di situazioni, personaggi, episodi che seguono e rincorrono a grappolo gli spostamenti dello psichiatra da un manicomio all’altro. Quindi, vite di pazienti istituzionalizzati e triturati così come prescriveva la pratica terapeutica prima che Laing, Foucault, Basaglia squarciassero il sipario pazientemente tessuto dal potere su queste realtà atroci. Una «Margherita» finita da ragazza nel tritacarne della «buona scienza» da incanto, grazie alla bravura di Vittoria Puccini, denuda il percorso che portava all’esclusione e alla segregazione.
Ma tutto il film segue un impianto didascalico che tuttavia non appesantisce la dinamica drammaturgica: serve a capire molti passaggi cruciali della storia di Franco Basaglia. Il modo in cui viene estromesso dalla carriera universitaria, il suo rapporto conflittuale con le istituzioni, la fiducia nel «fare», la teoria e la pratica del convincere. Ma anche la politica Franco Basaglia era un «compagno» oltre che uno scienziato e l’Italia di allora. Il suo arrivo a Trieste e il suo lavoro di smantellamento dell’ospedale psichiatrico, la creazione di una rete di servizi territoriali superando la diffidenza della popolazione, l’incessante collaborazione di formidabili psichiatri (da Rotelli a Dell’Acqua)e di altrettanto formidabili infermieri per far sì che si realizzasse la sola grande rivoluzione che l’Italia possa contare nel suo dopoguerra. Il ruolo decisivo del Pci, quello non meno importante dei radicali, l’allargarsi su scala planetaria della fama dell’esperienza triestina. La legge che abolì i manicomi (la 180 del ‘78), il passaggio di Basaglia nella complessa realtà romana, la sua morte prematura e raggelante (1980). Nessuna scorciatoia epica, solo fatti, rinominati ma semplicemente veri, accaduti.
Per questo, alcune scene possono risultare forti, impegnative ma conviene guardare senza chiudere gli occhi. «Ci pensavo da tempo racconta il regista mi pareva un’impresa quasi impossibile, ma devo ringraziare il coraggio di Claudia Mori che ha deciso di produrre una scommessa così impegnativa. Franco Basaglia per me era un mito, la sua presenza andava ben oltre l’ambito psichiatrico, ho cercato di far parlare i fatti, i personaggi che lo hanno circondato». Fabrizio Gifuni riflette: «In questo film viaggia un messaggio nettamente in controtendenza rispetto alla cultura oggi egemone: l’esperienza di Basaglia dice che cambiare è possibile, che si può fare se si sta insieme, se si lavora insieme, se si libera il nostro cervello». ❖
Addio manicomi. Dove germogliano i semi di Basaglia
di Cristiana Pulcinelli *
Il Brasile è forse l’esperienza più interessante, sicuramente la più grande. Trent’anni fa il paese aveva un’enorme numero di pazienti psichiatrici chiusi in manicomi privati per venti, trent’anni della loro vita. Lo stato pagava le rette e quindi la psichiatria del Brasile era un grande business. Nel 1979 Franco Basaglia tiene una serie di seminari nel paese raccontando l’esperienza italiana di superamento del manicomio con l’apertura delle strutture e la restituzione dei diritti al malato.
Nel paese c’era ancora la dittatura militare e i seminari di Basaglia probabilmente incontrano una più generica voglia di libertà. Sta di fatto che partecipano centinaia di operatori, psichiatri, intellettuali La “luta antimanicomial” del Brasile comincia da lì. Negli anni “fermenta”: già con il governo precedente a quello attuale comincia un processo di riforma. I contatti con gli psichiatri di Trieste sono costanti: Franco Rotelli, che andò a dirigere il manicomio di Trieste al posto di Basaglia nel 1979 e che lo chiuse definitivamente un anno dopo, va spesso in Brasile. Nasce un enorme movimento di utenti. I risultati: i posti letto in psichiatria diminuiscono del 40%, in 15 anni i centri territoriali aumentano del 70%.
Oggi il Brasile del presidente Lula ha ridotto drasticamente i grandi ospedali psichiatrici, in alcuni casi li ha chiusi definitivamente. Ha creato oltre 2000 servizi territoriali e ha esperienze di punta a Santos, San Paulo, Bel Orizonte, nel Minas Gerais.I semi di Trieste nel mondo stanno germogliando? “Trieste è un modello di riferimento per l’Organizzazione Mondiale della Sanità -commenta Franco Rotelli - Il superamento degli ospedali psichiatrici e l’utilizzo di servizi decentrati nelle comunità ormai è un dato acquisito anche dalla letteratura scientifica, ma poi esistono realtà molto diverse fra loro. La frammentazione delle pratiche e delle teorie, i processi di regionalizzazione, l’autonomia gestionale fanno sì che sia difficile disegnare una mappa, sia mondiale che italiana”.
Esperienze avanzate nel mondo ce ne sono molte: in Nuova Zelanda e in Australia, ad esempio. Alcune fanno riferimento esplicito al modello triestino: in Brasile, in Argentina, in Islanda, nei Balcani, dove si parte da situazioni molto arretrate, ma dove si stanno verificando importanti cambiamenti. E in alcune zone dell’Inghilterra come racconta John Jenkins che oggi dirige la International Mental Health Collaborating Network (IMHCN), una organizzazione non governativa che aiuta i paesi che vogliono aprire servizi di salute mentale centrati sulla comunità: “Sono diventato direttore di un grande ospedale psichiatrico nel Devon nel 1976. L’anno successivo, ispirati in parte dal lavoro di Trieste, decidemmo di aprire i servizi di salute mentale di comunità che avrebbero rimpiazzato l’ospedale. Così avvenne: l’ospedale fu chiuso nel 1985. Da allora, il governo inglese ha appoggiato questa politica e i molti altri manicomi sono stati chiusi”.
Anche in Italia le esperienze positive sono molte. “Non esiste il disastro italiano di cui talvolta si sente parlare - dice Peppe Dell’Acqua, direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste - Pensiamo solo alla zona di Aversa: il fatto che nella patria dei casalesi ci siano 5 centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno per 7 giorni la settimana fa riflettere”.Tutti i protagonisti di queste esperienze, italiane e straniere, saranno a Trieste dal 9 al 13 febbraio in occasione dell’incontro “Che cos’è salute mentale?”. Un incontro fortemente voluto da Peppe Dell’Acqua: “Usciamo da un periodo difficile, i segnali che arrivano sono quelli di un ritorno della psichiatria della sicurezza, della medicalizzazione forte”.
Anche Franco Rotelli avverte questo clima: “In Francia Sarkozy ha detto recentemente che, oltre a sviluppare i servizi territoriali, bisogna qualificare gli ospedali psichiatrici. E’ l’esempio del vento che sta girando in Europa, un vento in cui si accentua l’aspetto sicurezza. Il paziente è considerato persona da tenere d’occhio perché rischiosa e quindi crescono i sistemi di controllo” .
A fronte di questo, esiste un mondo vastissimo di operatori, cooperatori, familiari, pazienti che dicono cose diverse. E’ questo mondo che l’incontro di Trieste vuole mettere insieme.Ma c’è dell’altro. L’incontro triestino vuole essere anche la risposta a un paradigma che oggi sembra vincente: secondo questo paradigma, dice Rotelli, “la mente è il cervello e la malattia mentale è qualcosa che non funziona nel cervello. Qualcosa che i farmaci rimetteranno a posto”. “Un paradigma vecchio - prosegue Dell’Acqua - che si ammanta di nuove parole come neuroimaging, ma che dietro ha strutture territoriali misere e psichiatri ridotti a prescrittori di farmaci”. A questo “sé” neurochimico si contrappone un “sé” che si costruisce attraverso le relazioni tra le persone. Quello di cui si parlerà a Trieste nei prossimi giorni.
L’incontro che si svolgerà dal 9 al 13 febbraio nell’ex ospedale psichiatrico di San Giovanni dove lavorò Franco Basaglia, morto trent’anni fa. Centinaia di operatori della salute mentale, dell’economia sociale, dell’associazionismo, ricercatori, persone con esperienza di disturbo mentale e familiari provenienti da 40 paesi metteranno a confronto le proprie esperienze.
Dibattiti, proiezioni e spettacoli si alterneranno. E’ prevista la presenza di studiosi internazionali, come il sociologo inglese Nikolas Rose, autore di “La politica della vita”, e il sociologo francese Robert Castel. Nell’ ex sede della direzione del manicomio saranno in mostra gli archivi Oltre il Giardino, più di cinquemila foto e cinquanta ore di riprese dal 1964 a oggi. E verrà proiettata la fiction di Raiuno “C’ era una volta la città dei matti”, dedicata alla vita di Basaglia, alla presenza del regista Marco Turco e del protagonista Fabrizio Gifuni.
Il dottor Hester, la signora Anna, e l’ elogio della follia
di Oliver Sacks (la Repubblica, 31.12.2009)
QUANDO udiamo la parola "manicomio", siamo portati a pensare a posti orribili, fosse di serpenti straboccanti di squallore, miseria, brutalità. La maggior parte è oggi chiusa e abbandonata. Ricordiamo con un brivido di terrore quei poveretti che un tempo erano costretti a vivere in simili posti.
È dunque salutare ascoltare la voce di una paziente, una certa Anna Agnew, giudicata malata di mente nel 1878 - da un giudice, non da un medico - e rinchiusa nell’ Ospedale per malati di mente dell’ Indiana.
Anna venne ospedalizzata dopo diversi tentativi di uccidere se stessa e uno dei suoi figli. Anna si sentì sollevata quando le porte dell’ ospedale si chiusero dietro di lei e trasse sollievo dal fatto che la sua malattia era stata riconosciuta. Come lei stessa lasciò scritto: «Dopo solo una settimana di soggiorno nell’ ospedale, avvertivo un senso di appagamento quale non sentivo da più di un anno. Non perché mi fossi riconciliata con la vita, ma perché avevano capito il mio stato mentale, ed ero trattata di conseguenza. Ero circondata da altri nelle mie condizioni, turbati e confusi, e mi ritrovai a provare interesse per le loro miserie, il mio senso di simpatia umana si risvegliava. Al tempo stesso, ero trattata come una donna malata, con una gentilezza che nessuno mi aveva mostrato prima di allora. Il dottor Hester fu la prima persona abbastanza gentile da rispondere alla mia domanda: "Sono matta?", "Sì signora. Lei è pazza e molto ...".E continuò: "Ma vogliamo aiutarla in ogni modo, e la nostra speranza è che questo posto possa farlo"».
Il vecchio termine per indicare gli ospedali per malati di mente era in inglese "lunatic asylum", e "asilo", nella sua accezione originaria, significava rifugio, protezione, santuario. A partire dal IV secolo dell’ era Cristiana, i monasteri e le chiese erano luoghi d’ asilo. A questi si aggiunsero gli asili laici, creati, come Foucault ha suggerito, utilizzando le strutture ormai inutili dei lebbrosari per ospitare gli indigenti,i criminaliei malati di mente.
Nel suo famoso libro Asylums, Erving Goffman li classificava tutti- ospedali religiosi e laici, manicomi e ospizi - come "istituzioni totali", luoghi dove la distanza tra il personale e i degenti era immensa, dove rigidi ruoli e altrettanto rigide regole impedivano ogni forma di solidarietà e di simpatia, dove i ricoverati erano privati dell’ autonomia, della libertà e della dignità, ridotti a numeri senza volto o identità.
Negli Anni 50, quando Goffman conduceva le proprie ricerche presso l’ ospedale St. Elizabeth di Washington, le cose stavano proprio così, almeno nella maggior parte dei manicomi. Eppure, non erano queste le finalità che si erano prefissi quei filantropi e bravi cittadini che avevano fondato i primi manicomi in America, tra gli inizi e la metà del XIX secolo.
In mancanza di trattamenti specifici per la malattia mentale, il "trattamento morale" veniva visto come l’ unica alternativa possibile: ci si occupava dell’ individuo nel suo insieme, come espressione di una potenzialità di salute fisica e mentale, e non solo di quella parte del suo cervello che sembrava non funzionare.
I primi manicomi statali erano spesso veri e propri palazzi con soffitti alti, finestre grandi e giardini, dove l’ aria e la luce non mancavano, si faceva molto esercizio fisico e il vitto era variato. Molti manicomi erano autosufficienti, e coltivavano gran parte delle risorse che consumavano. I pazienti lavoravano spesso nei campi o nelle stalle e il lavoro era considerato come una cruciale forma di terapia, oltre che di sostentamento.
Il senso di comunità e la solidarietà erano importanti, vitali per i pazienti, che si sarebbero altrimenti sentiti isolati nei loro mondi mentali, vittime delle loro ossessioni e allucinazioni. Parimenti cruciale era il riconoscimento e l’ accettazione del loro stato da parte del personale e degli altri pazienti.
Infine, per tornare al termine originario di "asilo", questi ospedali fornivano ai pazienti controllo e protezione, sia dai loro stessi impulsi (omicidi o suicidi che fossero) sia dal ridicolo, dall’ isolamento, dalle aggressioni o dagli abusi che spesso subivano nel mondo esterno. Gli asili fornivano una vita protetta e certo limitata, una vita semplificata e ristretta, ma all’ interno della struttura protettiva godevano anche della libertà della loro follia, di attraversare le proprie psicosi ed emergere, a volte, dal baratro come persone più stabili e sane.
Col tempo, i manicomi statali divennero piccole città. Pilgrim State, il manicomio di Long Island, ospitava circa 14.000 pazienti. Era inevitabile che i grandi numeri e le scarse risorse facessero allontanare i manicomi statali dagli ideali delle origini. Già alla fine dell’ Ottocento erano diventati sinonimo di squallore e abbandono, spesso amministrati da burocrati inetti, sadici e corrotti, una situazione che si è prolungata sino alla metà del XX secolo.
Il movimento di anti-istituzionalizzazione dei malati di mente, un rivolo negli Anni 60, divenne un fiume in piena negli Anni 80, anche se era sempre più chiaro che le buone intenzioni stavano creando problemi gravi quanto quelli che intendevano risolvere.
In molte città, l’ enorme popolazione di "psicotici del marciapiede" era una drammatica dimostrazione di come mancassero cliniche psichiatriche e centri di accoglienza, o infrastrutture capaci di occuparsi delle centinaia di migliaia di pazienti che erano stati allontanati dai manicomi statali.
Le medicine antipsicotiche che avevano favorito il processo di deistituzionalizzazione si rivelarono meno miracolose di quanto si fosse sperato. Erano certo in grado di affievolire i cosiddetti sintomi "positivi" della schizofrenia: allucinazioni e deliri psicotici. Ma a poco servivano per porre rimedio ai sintomi "negativi" - l’ apatia e la passività, la mancanza di motivazioni e la capacità di rapportarsi agli altri - che spesso erano più pesanti dei sintomi "positivi".
Agli inizi degli Anni 90 divenne chiaro a tutti che ci si era sbagliati, che la chiusura dei manicomi era avvenuta troppo in fretta, senza che si fossero attivate strutture alternative. Non c’ era bisogno di chiudere tutti i manicomi. Occorreva invece farli funzionare: mettere mano all’ affollamento, alla mancanza di personale, porre fine all’ abbandono e alla brutalità.
L’ approccio farmacologico, sia pur necessario, da solo non bastava. Ci eravamo scordati degli aspetti positivi degli "asili", o forse non volevamo più sborsare soldi per tenerli aperti; per dare ai pazienti spazi e senso di comunità, un posto per lavorare e giocare, per apprendere un mestiere e imparare a vivere insieme - quel rifugio sicuro che i manicomi statali delle origini intendevano offrire.
Qual è ora la situazione? I manicomi ancora aperti sono pressoché vuoti, e la popolazione dei pazienti consiste essenzialmente di malati cronici che non rispondono più a nessun trattamento farmacologico, o di individui talmente violenti che non possono essere lasciati liberi.
La grande maggioranza dei malati di mente vive fuori dalle strutture ospedaliere. Alcuni restano in famiglia e si servono di supporto ambulatoriale nei momenti di crisi, altri vivono in residenze aperte: strutture che garantiscono al paziente una certa libertà e autonomia, pur provvedendo alle necessità terapeutiche.
Esistono anche, negli Stati Uniti, delle comunità residenziali che si rifanno in parte alle comunità terapeutiche degli "asili" dell’ Ottocento e offrono ai pochi che vi vengono ammessi un’ assistenza completa. Ne ho visitate alcune, e ho ritrovato quel che c’ era di meglio nei vecchi manicomi statali: un forte senso di solidarietà, delle opportunità di lavoro e spazi di creatività, il rispetto per gli individui. Il tutto unito a quanto di meglio la psicoterapia e i trattamenti farmaceutici possono offrire oggi.
Purtroppo, strutture simili sono rare, e possono ospitare qualche centinaia di pazienti, a fronte dei milioni che negli Stati Uniti soffrono di malattie mentali. I pazienti che sono ammessi debbono contare sul supporto finanziario delle famiglie, visto che in media la degenza costa intorno ai 100.000 dollari l’ anno.
Gli altri - il 99 per cento di malati privi di risorse adeguate - debbono accontentarsi di cure insufficienti e rinunciare al proprio potenziale di vita. L’ Alleanza nazionale dei malati di mente fa quel che può, ma i milioni di malati di mente restano ancor oggi la parte più esclusa e la più abbandonata della nostra società.
Eppure è chiaro che persino la schizofrenia non è necessariamente una malattia che inesorabilmente peggiora (anche se ciò può verificarsi). In circostanze ideali, e con risorse adeguate, anche persone molto malate, quelle che vengono classificate come senza speranza, possono vivere una vita produttiva e degna.
* La versione integrale di questo articolo comparirà nel numero di gennaio 2010 della Rivista dei Libri (Traduzione di Pietro Corsi)
Le prime riprese della miniserie prodotta dalla Rai e da Claudia Mori sul «padre» della legge 180
Il ribelle Basaglia un eroe da fiction contro i manicomi
Fabrizio Gifuni nei panni dello psichiatra «Fu incompreso anche dai comunisti»
In tv le vicende di un reduce di guerra ridotto al mutismo e di un ex partigiano sottoposto a terapie crudeli
di Emilia Costantini (Corriere della Sera 24.06.2009)
OSTIA - «Non bisogna allungare il vestito, basta accorciare il degente ». «Sono spettinata, vorrei pettinarmi. Non possiedo un pettine. Ho diritto a un pettine!». Slogan, o piuttosto, appelli accorati, scritti sui muri da chi ha perso la dignità di essere umano: il malato di mente.
È dedicata a Franco Basaglia, colui che sconvolse il mondo dei manicomi, la miniserie prodotta da Rai Fiction con la Ciao Ragazzi di Claudia Mori, in onda su Raiuno nella prossima stagione. Fabrizio Gifuni è protagonista con Vittoria Puccini, per la regia e sceneggiatura di Marco Turco.
Prima c’era la città dei matti, il manicomio, con tutto il suo corredo di orrori piccoli e grandi. Letti di contenzione, camicie di forza, celle d’isolamento, elettrochoc punitivi. In tutto il mondo occidentale, nessuno aveva mai messo in discussione il manicomio. Almeno fino all’inizio degli anni ’60 quando, in una città di provincia del nord Italia, un giovane psichiatra ribelle provocò un incendio impensabile fino a qualche tempo prima.
Nella cittadina di Ostia, alle porte di Roma, nella vecchia residenza di una colonia estiva è ricostruita la casa Rosa Luxembourg, ovvero quella che era la residenza del direttore dell’ospedale di Trieste, dove Basaglia, alla metà degli anni ’70, creò la prima casa-famiglia, un altro passo verso quel radicale cambiamento che culminerà nella legge 180. «Ma l’avventura parte da prima - avverte Gifuni - la sua esperienza prende le mosse dallo choc che, nel 1961, il giovane medico subisce quando va a lavorare all’ospedale di Gorizia: lui non vede un luogo di cura, ma un lager nazista. Sbarre alle finestre, sevizie, torture. Per lui è una rivelazione ed entra in crisi profonda. Basaglia è indignato. E si sente impotente: cosa può fare per cambiare tutto questo? La risposta è una sola: il manicomio va distrutto».
Il giovane psichiatra si trova di fronte «casi» come quello di Boris, reduce da una guerra terribile che lo ha ridotto al mutismo, che viene «curato » con l’elettrochoc. Oppure Furlan, ex partigiano, sottoposto a terapie crudeli. E poi c’è Margherita (interpretata dalla Puccini): una ragazza bella e piena di vita, con l’unica «tara» di avere una madre ossessionata dalla colpa di averla concepita con un soldato americano, che poi l’ha abbandonata. Un «peccato» che la madre scarica sulla figlia, abbandonadola in un istituto di suore che, per domare il carattere ribelle della ragazza, la fanno ricoverare in un ospedale psichiatrico, dove Margherita, diventata ingovernabile, viene tenuta in una gabbia come una bestia feroce. Interviene la Puccini: «Il mio personaggio, realmente esistito come gli altri, oggi verrebbe definito una borderline. Ma a quell’epoca, gente così veniva considerata matta e riunchiusa. Ho visto un’intervista che è stata fatta in tempi recenti a Margherita, che ora ha circa 60 anni e vive tranquilla con due amiche: parlando di Basaglia, si commuoveva, le si illuminavano gli occhi, lo descriveva come il suo salvatore».
La realtà che si trova di fronte Basaglia, dunque, è terrificante. E con la moglie Franca Ongaro, donna coraggiosa che diventerà in seguito parlamentare, decide di cambiare quella realtà. Spiega il regista: «Comincia a scardinare i cancelli della psichiatria e a liberare una ad una le persone rinchiuse, cancellando per sempre dai loro corpi e dalle loro menti il duplice marchio del pericolo e dello scandalo, che le leggi e la mentalità dell’epoca conferivano alla follia». E nel 1973, quando Basaglia si trova già a Trieste, i «matti» escono dall’ospedale e invadono la città con Marco Cavallo, una macchina teatrale costruita dentro l’ospedale, una sorta di cavallo di Troia, nella cui pancia ogni degente aveva riposto le proprie speranze, desideri, aspirazioni. «Il suo principale obiettivo - riprende Gifuni - è rimettere al centro l’uomo, il paziente. E il medico non deve esercitare il suo potere, ma il suo sapere, mettendosi al servizio del suo ruolo pubblico. Il suo pensiero è da ’eretico’ della psichiatria di quel tempo. Un pensiero che non viene compreso neanche dal Partito Comunista. C’è una scena nel film, realmente avvenuta, in cui Basaglia parla nell’aula del gruppo parlamentare a Montecitorio e i comunisti lo guardano come fosse un matto».
Al di là del medico, che tipo di uomo era? «Era dotato di carisma, ironico, sempre sorridente, uno spirito arguto che spiazzava l’interlocutore. La sua formazione scientifica era rigorosissima, ma arricchita da una formazione filosofica: l’unico maestro che riconosceva era Sartre». Un egocentrico? «Aveva la giocosa irresponsabilità del bambino e dell’artista, che poteva apparire egocentrismo, data la forte personalità. Ma in realtà era tutto il contrario: ha dedicato la sua vita agli altri».
HO VISTO L ’AQUILA
di Andrea Gattinoni *
Lettera a mia moglie scritta ieri notte
Ho visto l ’Aquila. Un silenzio spettrale, una pace irreale, le case distrutte, il gelo fra le rovine. Cani randagi abbandonati al loro destino. Un militare a fare da guardia a ciascuno degli accessi alla zona rossa, quella off limits. Camionette, ruspe, case sventrate. Tendopoli. Ho mangiato nell’unico posto aperto, dove va tutta la gente, dai militari alla protezione civile. Bellissimo. Ho mangiato gli arrosticini e la mozzarella e i pomodori e gli affettati.
Siamo andati mentre in una tenda duecento persone stavano guardando "Si Può Fare". Eravamo io, Pietro, Michele, Natasha, Cecilia, Anna Maria, Franco e la sua donna. Poi siamo tornati quando il film stava per finire. La gente piangeva. Avevo il microfono e mi hanno chiesto come si fa a non impazzire, cosa ho imparato da Robby e dalla follia di Robby, se non avevo paura di diventare pazzo quando recitavo.
Ho parlato con i ragazzi, tutti trentenni da fitta al cuore. Chi ha perso la fidanzata, chi i genitori, chi il vicino di casa. Francesca, stanno malissimo. Sono riusciti ad ottenere solo ieri che quelli della protezione civile non potessero piombargli nelle tende all’improvviso, anche nel cuore della notte, per CONTROLLARE. Gli anziani stanno impazzendo.
Hanno vietato internet nelle tendopoli perché dicono che non gli serve. Gli hanno vietato persino di distribuire volantini nei campi, con la scusa che nel testo di quello che avevano scritto c’era la parola "cazzeggio". A venti chilometri dall’Aquila il tom tom è oscurato. La città è completamente militarizzata. Sono schiacciati da tutto, nelle tendopoli ogni giorno dilagano episodi di follia e di violenza inauditi, ieri hanno accoltellato uno.
Nel frattempo tutte le zone e i boschi sopra la città sono sempre più gremiti di militari, che controllano ogni albero e ogni roccia in previsione del G8. Ti rendi conto di cosa succederà a questa gente quando quei pezzi di ***** arriveranno coi loro elicotteri e le loro auto blindate? Là ???? Per entrare in ciascuna delle tendopoli bisogna subire una serie di perquisizioni umilianti, un terzo grado sconcertante, manco fossero delinquenti, anche solo per poter salutare un amico o un parente.
Non hanno niente, gli serve tutto. (Hanno) rifiutato ogni aiuto internazionale e loro hanno bisogno anche solo di tute, di scarpe da ginnastica. Per far fare la messa a Ratzinger, il governo ha speso duecentomila euro per trasportare una chiesa di legno da Cinecittà a L ’Aquila.
Poi c ’è il tempo che non passa mai, gli anziani che impazziscono. Le tendopoli sono imbottite di droga. I militari hanno fatto entrare qualunque cosa, eroina, ecstasy, cannabis, tutto. E ’ come se avessero voluto isolarli da tutto e da tutti, e preferiscano lasciarli a stordirsi di qualunque cosa, l’importante è che all’esterno non trapeli nulla.
Berlusconi si è presentato, GIURO, con il banchetto della Presidenza del Consiglio. Il ragazzo che me l ’ha raccontato mi ha detto che sembrava un venditore di pentole. Qua i media dicono che là va tutto benissimo.
Quel ragazzo che mi ha raccontato le cose che ti ho detto, insieme ad altri ragazzi adulti, a qualche anziano, mi ha detto che "quello che il Governo sta facendo sulla loro pelle è un gigantesco banco di prova per vedere come si fa a tenere prigioniera l ’intera popolazione di una città, senza che al di fuori possa trapelare niente". Mi ha anche spiegato che la lotta più grande per tutti là è proprio non impazzire. In tutto questo ci sono i lutti, le case che non ci sono più, il lavoro che non c ’è più, tutto perduto.
Prima di mangiare in quel posto abbiamo fatto a piedi più di tre chilometri in cerca di un ristorante, ma erano tutti già chiusi perchè i proprietari devono rientrare nelle tendopoli per la sera. C ’era un silenzio terrificante, sembrava una città di zombie in un film di zombie. E poi quest’umanità all’improvviso di cuori palpitanti e di persone non dignitose, di più, che ti ringraziano piangendo per essere andato là.
Ci voglio tornare. Con quella luna gigantesca che mi guardava nella notte in fondo alla strada quando siamo partiti e io pensavo a te e a quanto avrei voluto buttarmi al tuo collo per dirti che non ti lascerò mai, mai, mai. Dentro al ristoro privato (una specie di rosticceria) in cui abbiamo mangiato, mentre ci preparavano la roba e ci facevano lo scontrino e fuori c ’erano i tavoli nel vento della sera, un commesso dietro al bancone ha porto un arrosticino a Michele, dicendogli "Assaggi, assaggi". Michele gli ha detto di no, che li stavamo già comprando insieme alle altre cose, ma quello ha insistito finchè Michele non l’ha preso, e quello gli ha detto sorridendogli: "Non bisogna perdere le buone abitudini".
Domani scriverò cose su internet a proposito di questo, la gente deve sapere. Anzi metto in rete questa mia lettera per te.
Andrea Gattinoni, 11 maggio notte
* Questa lettera è stata scritta da Andrea Gattinoni, un attore che si trovava a L ’Aquila per presentare un film. Le parole sono dirette a sua moglie ma rappresentano un’efficace testimonianza per tutti quelli che a L ’Aquila non ci sono ancora stati.
Andrea, per chi non se lo ricordasse, era uno degli interpreti del recente film Si può fare con Claudio Bisio, su un gruppo di "pazzi". (Maddalena Gasparini).
Follia e società
Scriveva Franco Basaglia: "È importante entrare nel tessuto sociale per ottenere un consenso finalizzato non tanto a una maggior tolleranza, quanto a una presa in carico da parte della comunità dei problemi che le appartengono"
Risponde Umberto Galimberti *
Leggo sempre D La Repubblica delle Donne e vado subito alla sua rubrica. Ma la sua risposta a proposito della "Follia criminale" mi ha riempito di amarezza. È una risposta troppo semplificativa, basata su molte citazioni di Basaglia che mi appaiono piuttosto datate: il concetto di "malattia" come gioco di prestigio per rassicurare la società e mascherare colpe della società e della famiglia purtroppo non risponde alla verità.
Il disturbo mentale grave, come la schizofrenia, la sindrome ossessivo-compulsiva, il bipolare, esistono e assai sovente non sono frutto di "incuria educativa", di "disinteresse" verso una persona più sensibile o più fragile di altre. Glielo posso dire in tutta onestà, perché ho trascorso una vita a cercare di capire, di aiutare me stessa, mio figlio e tante altre persone che abitano e/o convivono in queste tragiche situazioni.
Nel 1988 con un’altra madre ho fondato un’associazione di volontari a sostegno di malati e famiglie nel tentativo frustrante di far sorgere un’assistenza territoriale e residenziale innovativa e professionalmente impegnata a dare aiuto concreto ai sofferenti psichici.
Ho seguito tanti casi di malati e famiglie e ho potuto accertare che molti (purtroppo ancora troppo pochi) se curati farmacologicamente, hanno potuto vivere con meno ansia, con meno paure e tornare a "godere" le piccole meravigliose cose che la vita ci offre. Alcuni riescono a reggere un lavoro, a viaggiare, a vivere! Per altri non è così.
Sono stanca, ho 70 anni e ne ho trascorsi più di 30 a occuparmi della straziante vita dei malati di mente. Non facciamo l’errore commesso nello scorso secolo quando le mamme dei bimbi autistici venivano incolpate del disturbo del bimbo, infierendo crudelmente su di loro.
Maria Luisa Gentile ml.gentile@sidom.it
Sono costretto a ritornare sul tema della malattia mentale perché ininterrotto è il flusso di lettere che ricevo e che disapprovano il pensiero di Franco Basaglia, nonché le sue iniziative che hanno portato alla promulgazione della legge 180 che ha sancito la chiusura dei manicomi. Capita spesso che per denigrare un pensiero lo si riassuma in una formula di facile comprensione, che ha qualche attinenza con quel pensiero, ma di fatto lo stravolge.
La formula facile e immediatamente comprensibile che stravolge il pensiero di Basaglia è che "le malattie mentali sono un prodotto della società". Basaglia non ha mai detto questo. Le sue esatte parole sono:
"Occorre fondare una nuova medicina, consapevole del fatto che l’uomo è un corpo sociale oltre che un corpo organico. Ed è su questo corpo sociale che la nuova medicina deve lavorare, non più solo sul corpo organico. Noi vogliamo trasformare il malato mentale morto nel manicomio in persona viva, responsabile della propria salute. Non lasciamo la persona che sta male nelle mani del solo medico, ma cerchiamo di costruire un nuovo schema di vita insieme con altre persone, che non sono solo malati. Quando cerchiamo di coinvolgere la comunità nella cura del paziente, stiamo tentando di eliminare il corpo morto, il manicomio, e di sostituirlo con la parte attiva della società. Questo è il modello che proponiamo e che è disfunzionale alla logica della società in cui viviamo".
Questa non è una posizione "datata", ma fortemente innovativa. Se poi la società, a differenza di lei, cara lettrice, e dell’impegno che profonde, si disinteressa della malattia mentale, questo non dipende da Basaglia, la cui utopia era di fare della clinica un laboratorio per rendere "umane" e non "oggettivanti" le relazioni tra gli uomini, attraverso la creazione di servizi di salute mentale diffusi sul territorio, residenze comunitarie, gruppi di convivenza, con la partecipazione di maestri, educatori, accompagnatori, attori motivati.
Oggi tutto questo sembra in procinto di naufragare e fallire, anche se l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, e che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per cento, divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte.
Che facciamo? Mettiamo tutti in manicomio o facciamo recuperare loro quel rapporto col mondo che il manicomio preclude definitivamente e i servizi di salute mentale, salvo rare e nobili eccezioni, così come sono oggi, non garantiscono, per incuria, trascuratezza, indifferenza, per la paura che la società ha della diversità che ospita nelle figure non solo dei malati mentali, ma anche degli immigrati, dei tossici, dei senzatetto, degli emarginati? La sintesi del pensiero di Basaglia non è quindi "le malattie mentali sono un prodotto della società", ma se proprio vogliamo fare una sintesi: "Il tipo di relazioni sociali si ripercuotono anche nelle relazioni cliniche", che non mi pare assolutamente un’idea datata.
L’eredità di Sergio Piro
«Per prima cosa slegate i pazienti»
di Luigi Attenasio, Angelo Di Gennaro, Gian Piero Fiorillo* (Liberazione, 10.1.2009)
La sera di mercoledì 7 gennaio è morto Sergio Piro. Era nato a Palma, in Campania, il 9 settembre del 1927. Trascorse l’infanzia a Cagliari, dove tornò, dopo aver conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia a Napoli, per specializzarsi in Neuropsichiatria con una tesi sulla Semantica del linguaggio schizofrenico, argomento difficile e affascinante che lo impegnò per tutta la vita, e di cui resta importantissima documentazione in Il linguaggio schizofrenico (Feltrinelli, Milano 1967).
Fu libero docente in Psichiatria e in Clinica delle malattie Nervose e Mentali a Napoli, e direttore dell’Ospedale Psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore (Salerno), dove iniziò un esperimento di psichiatria alternativa che divenne la seconda "comunità terapeutica" in Italia dopo quella di Basaglia a Gorizia. Quindi fu direttore dell’Ospedale Psichiatrico Frullone e del L. Bianchi di Napoli, impegnandosi nella loro dismissione secondo i dettami della Legge 180 del 1978, di cui era stato uno dei più importanti anticipatori.
Membro della Segreteria Nazionale e poi del Coordinamento Nazionale di Psichiatria Democratica, recentemente fra i promotori del Forum Salute Mentale, non ha mai smesso di lavorare per la trasformazione della psichiatria, inserendo il discorso terapeutico in una visione complessiva del mondo, in cui le dimensioni spaziali, storiche e umane si compenetravano in una sola unità, con lo sguardo di chi andava senza sforzo oltre le miserie e le ristrettezze del tempo che gli era toccato in sorte.
Sapeva concentrare l’attenzione sul microevento per coglierne l’apertura epocale, ed è questa attitudine una delle eredità più cospicue che lascia a chi lo ha conosciuto o anche soltanto ascoltato in uno dei numerosissimi interventi pubblici, sempre densi di temi e prospettive inusuali, oltre che di una carica umana sorprendente.
Di Basaglia, altro grande realista visionario ed eretico, fu da sempre amico e compagno in un rapporto di confronto aperto e costante.
Alla didattica ha dedicato anni importanti della sua vita, fondando nel 1980 il Centro Ricerche sulla psichiatria e le scienze umane, e successivamente la Scuola di Antropologia Trasformazionale, che, contro ogni deriva sclerotizzante, ebbe il coraggio di chiudere quando ne ritenne concluso il momento creativo.
Fra i suoi ultimi lavori, il fondamentale Trattato della ricerca diadromico-trasformazionale, in cui unisce teoria e storia del movimento di riforma, con una capacità di sintesi di pensiero (fenomenologia, psicanalisi, costruttivismo, epidemiologia ecc.) e realtà assolutamente rara. Così come nella vita coniugava pratica, teoria e impegno progettuale, anche nella pagina scritta la teoria e la realtà si attraversavano senza mostrare confini, intrecciandosi e includendosi reciprocamente nell’opera che risultava così, insieme, testimonianza e riflessione.
Ma al di là dei suoi meriti scientifici, Sergio Piro fu persona di grandissima, ineguagliabile umanità e di un’antica correttezza nei rapporti umani, priva di qualsiasi condiscendenza, una persona vera, diretta, sincera e tuttavia sempre dolce e amabile. E così lo abbiamo conosciuto, noi del Dipartimento di Salute Mentale della Asl Roma C nell’aprile del 2003, durante un incontro sulla "Cura della sofferenza detta psichiatrica come prassi polivalente". Una lectio magistralis in cui cucì, davanti a un auditorio ipnotizzato, passato e futuro, astrazione e concretezza, riforma istituzionale e trasformazione delle prassi operative, arricchendo la riflessione di ricordi puntuali, mai aneddotici o fini a se stessi.
In quell’occasione ebbe a dire, del suo rapporto con Basaglia: «Il fatto che la mia cultura alternativa venisse dalla semantica, dalla linguistica e dall’antropologia marxiana e la sua dalla filosofia della prassi di Sartre e dalla sociologia delle istituzioni non aveva nessuna importanza: entrambi, come diversi nostri coetanei, avevamo un sogno ed era lo stesso sogno. Quando negli anni precedenti avevo tanto lavorato con il linguaggio dei matti, ero giunto alla conclusione che il linguaggio schizofrenico non era uno scombinato ed inutile guazzabuglio, ma costituiva, anche nelle sue forme più contorte e incomprensibili, un autentico linguaggio ed un’autentica creazione: ne trassi perciò già dal 1961 la seguente conclusione: "Se quello che è lì davanti a te non è un produttore di sintomi inutili e privi di senso, ma uno che parla un linguaggio, allora tu lo sleghi immediatamente"; negli stessi anni, quasi con le stesse parole, a chi gli chiedeva che cosa fare di fronte a un paziente legato Franco Basaglia rispose: "Per prima cosa, slegalo subito".
E ancora, ecco solo un esempio del suo sguardo comprendente l’intero orizzonte storico. «La psichiatria anti-istituzionale italiana ha una storia lunga. Il movimento nasce infatti sia dalla complicata crisi interna del paradigma professionale psichiatrico, sia, poco dopo, dall’avanzarsi dei movimenti di liberazione nel periodo della guerra del Vietnam fino alla costituzione del movimento studentesco che fa suoi e diffonde i temi antipsichiatrici. (Ma) benchè profondi e importanti, questi momenti culturali, ideologici e sovrastrutturali non sarebbero stati sufficienti a determinare il passaggio dalle prime esperienze antimanicomiali all’idea di una riforma organica di tutta l’assistenza psichiatrica. Questo si fece possibile perché negli anni Sessanta-Settanta era in atto in Italia, unico fra tutti i paesi occidentali, il tentativo forte e sostenuto di realizzare una democrazia sociale avanzata in un paese capitalistico: è la grande stagione della sinistra politica e della Triplice sindacale, delle riforme sociali e sanitarie».
A seguire, parlò della malattia mentale come «inizio della guarigione», contro ogni concezione riduttiva che ne fa una menomazione o perdita; elencò una serie di condizioni ineludibili delle "buone pratiche" in salute mentale, al cui centro mise ancora una volta il rispetto dei diritti della persona e il rifiuto di tutte le pratiche coattive ereditate dall’era manicomiale; delineò gli impegni prioritari per la continuazione dell’azione riformatrice di fronte all’affermarsi di un revisionismo storico-psichiatrico di stampo biologistico.
Fra i suoi numerosi testi, oltre al già citato Il linguaggio schizofrenico, ricordiamo Le Tecniche della Liberazione, Una dialettica del disagio umano (Feltrinelli, Milano, 1971), I mille talenti. Manuale della Scuola sperimentale antropologico-trasformazionale (Franco Angeli, Milano, 1995), Introduzione alle antropologie trasformazionali (La Citta’ del Sole, Napoli, 1997), L’io mancante (Loggia de’ Lanzi, Firenze, 1997), Trattato di antropologia diadromico-trasformazionale , (Idelson Gnocchi, Napoli, 2005).
* Direzione e Centro di Documentazione "Vieri Marzi". Dipartimento di Salute Mentale AslRmC
L’addio a Sergio Piro
Un protagonista dei processi di modernizzazione e di trasformazione della psichiatria italiana
di MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA (il manifesto, 10 gennaio 2009)
Si e’ fermata mercoledi’ notte la vita di Sergio Piro, per un infarto arrivato verso le undici e mezzo mentre lavorava al computer nella sua casa di Napoli. Negli ultimi anni, cercava di proteggere il suo cuore malandato che aveva subito due operazioni, ma non rinunciava a vivere con generosita’, allegria e progetti. Lo scorso 27 maggio aveva fatto con una certa fatica la lunga scalinata che porta alla sala della Protomoteca in Campidoglio, dove si svolgeva la cerimonia di consegna del Premio "Trenta anni per la 180" istituito dalla Cgil.
Tra i venti premiati, la standing ovation era stata per Agostino Pirella, per Sergio Zavoli e per lui, che si era presentato in maniche di camicia, una camicia azzurrissima come i suoi occhi, un po’ perche’ faceva caldo ma anche perche’ non voleva assecondare la cerimoniosita’: cosi’, nel suo intervento aveva raccontato l’avventurosa costruzione, nei primi anni ’60, della sezione Cgil nel manicomio di Materdomini, un’Opera Pia convenzionata con la Provincia di Salerno, ma aveva poi continuato con un’analisi puntuale e dura sulle politiche sanitarie recenti e soprattutto sull’universita’, che continuava a ignorare o a minimizzare i contributi teorici, le realizzazioni e le trasformazioni culturali che avevano preceduto e seguito la legge di riforma e avevano fatto uscire la psichiatria italiana dall’isolamento culturale del dopoguerra.
Di questi processi di modernizzazione e di trasformazione della psichiatria Sergio Piro e’ stato fin dall’inizio un protagonista. Era nato nel 1927, quasi coetaneo di Franco Basaglia (che era del ’24) e i loro percorsi furono molto simili: entrambi avevano iniziato a lavorare all’universita’, alla fine degli anni ’50 avevano conseguito la libera docenza secondo il sistema concorsuale dell’epoca ma poi erano andati entrambi a dirigere un manicomio pubblico: Piro al Materdomini di Nocera Superiore nel 1959, Basaglia a Gorizia nel ’61.
L’incontro tra i due, che divenne poi collaborazione e amicizia, risale a quegli anni di grande vivacita’ culturale e di sperimentazioni, condotte da gruppi di operatori in gran parte esterni all’universita’, respingenti, o quanto meno non attraenti per gli studiosi piu’ vivaci e piu’ presenti nel dibattito internazionale. In un libro del 1988, Cronache psichiatriche. Appunti per una storia della psichiatria italiana dal 1945 (Esi), Piro ricostruisce con l’accuratezza che gli era propria le vicende, i personaggi, le idee, gli incroci culturali di quel "periodo di modernizzazione", a cui segui’ la fase "del mutamento" (tra il 1968 e il ’78) che in Italia ebbe un percorso del tutto peculiare, in cui ebbero poco o nessun peso le ideologie "antipsichiatriche" di derivazione sia anglosassone che francese, mentre presero piede in molti ospedali psichiatrici processi di trasformazione che disturbavano e coinvolgevano comunita’ locali, movimenti sociali, amministratori pubblici, giornalisti, intellettuali, artisti. Sergio Piro in quegli anni continuo’ a scrivere - Il linguaggio schizofrenico e Le tecniche della liberazione vennero pubblicati da Feltrinelli nel 1967 e nel 1971. Nel 1974 fu tra i fondatori di Psichiatria Democratica, diresse per un breve periodo l’Ospedale Psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli (dopo essere stato costretto, nel 1969, a lasciare la direzione del Materdomini), e poi dal 1975 diresse l’altro ospedale psichiatrico di Napoli, il "Frullone".
Gli anni del dopo riforma sono stati molto difficili per Sergio Piro. La sua competenza e il suo carisma lo rendevano un interlocutore privilegiato quando si trattava di collaborare alla scrittura della legge regionale campana per l’attuazione della "legge 180", che venne approvata nel 1983 e fu tra le prime leggi regionali. Assai piu’ duro fu invece il fronte della chiusura dei manicomi e della creazione dei nuovi servizi, dove lo scontro esplicito o la resistenza muta dei piccoli e grandi potentati di psichiatri e amministratori rendevano assai arduo il percorso verso un cambiamento vero, in Campania non meno che nel resto d’Italia, e talvolta di piu’.
Sergio Piro ha resistito con grande coerenza. Ha insegnato molto sia all’Universita’ di Napoli che all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, ha continuato il suo lavoro di ricerca (Introduzione alle antropologie trasformazionali e Trattato della ricerca diadromico-trasformazionale sono stati pubblicati nel 1997 e nel 2005 da La Citta’ del Sole), ha chiuso con troppa fatica l’ospedale psichiatrico "Frullone".
Nel 1994, che fu un anno di svolta per il destino della riforma dato che la legge finanziaria del primo governo Berlusconi aveva reiterato l’obbligo di chiusura di quello che la neolingua psichiatrica definiva il "residuo manicomiale", Piro gia’ dirigeva il Frullone dove erano stati ricavati, da alcuni reparti, degli appartamenti per le persone in via di riabilitazione. Il sistema fognario era pero’ in condizioni pessime e grandi topi contendevano lo spazio ai ricoverati, mentre l’amministrazione si limitava a ignorare il problema. Piro, che era un grande estimatore dei gatti, ne porto’ una ventina e li presento’ ai giornalisti come suoi collaboratori.
Il prossimo 7 febbraio, a Nocera, e’ stato promosso un incontro per ricordarlo, nella sala, che prendera’ il suo nome, della Fondazione Cerps (Centro Ricerche sulla Psichiatria e le Scienze Umane). Gli amici e i suoi collaboratori chiedono a chi lo ha conosciuto di scrivere due, tre pagine, che saranno raccolte in un volume, perche’ possa restare, insieme alle cose che Sergio Piro ha scritto e fatto, la memoria del suo modo di essere, della sua capacita’ di coinvolgere le persone e di tenerle insieme per creare pezzi di mondo in cui tutti possano avere spazio, parola, dignita’.
Postilla biobibliografica. Percorsi di generosita’
Sergio Piro era nato a Palma, in Campania, il 9 settembre del 1927. Trascorse l’infanzia a Cagliari, ma si trasferi’ a Napoli quando si tratto’ di iscriversi alla Facolta’ di medicina, dove si laureo’ nel 1951 e cinque anni piu’ tardi consegui’ la specializzazione in neuropsichiatria con una tesi sulla "Semantica del linguaggio schizofrenico". Dal giugno del 1959 al febbraio del 1969 e’ stato direttore dell’ospedale psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore, in provincia di Salerno: e’ qui che avvio’ un esperimento di psichiatria alternativa, dal quale nacque la seconda "comunita’ terapeutica" funzionante in Italia, dopo quella di Basaglia a Gorizia. Sergio Piro fu uno dei fondatori di Psichiatria Democratica.
Diresse il Materdomini di Nocera Superiore dal 1959, ma dieci anni dopo fu costretto a lasciare. Si sposto’ per per un breve periodo alla direzione dell’ospedale Leonardo Bianchi di Napoli, poi nel 1975 ando’ a dirigere l’altro ospedale psichiatrico di Napoli, il "Frullone". Ha stilato il progetto da cui derivo’ la Legge regionale n. 1/83 della Regione Campania sulla psichiatria. Tra i suoi libri: Il linguaggio schizofrenico, Feltrinelli, 1967; Le tecniche della liberazione. Una dialettica del disagio umano, Feltrinelli, 1971; I mille talenti. Manuale della Scuola sperimentale antropologico-trasformazionale, Franco Angeli, 1995; Introduzione alle antropologie trasformazionali, La Citta’ del Sole, 1997; L’io mancante, Loggia de’ Lanzi, 1997.
La denuncia di Mario Colucci responsabile del Dsm di Trieste
Le parole del più grande psichiatra del secolo non hanno patria
L’Università non ama Basaglia. I suoi scritti ignorati dai prof
di Luigina Venturelli (l’Unità, 11.12.2008)
Lunedì prossimo verrà presentato a Napoli, alle ore 17 nella straordinaria cornice del Conservatorio di Musica di San Pietro a Majella il volume «Centottanta», antologia a cura di Emilio Lupo e Salvatore di Fede realizzata per il trentennale della Legge Basaglia. Informazioni sul sito psichiatriademocratica.it
Dicembre è l’ultimo mese per ricordare la legge 180 che compie 30 anni. Un convegno a Milano è stato un’occasione per indagare le nuove prospettive del rapporto fra disagio psichico e società.
Il suo più grande successo è stata anche la sua condanna. Franco Basaglia riuscì nell’impresa impossibile: trasformò l’utopia in realizzazione politica, la sua visione teorica diventò norma dello stato, ma questa conquista relegò il suo pensiero a mera circostanza. Fatta la storia - l’approvazione della legge 180, che trent’anni fa sancì la chiusura dei manicomi - l’idea è passata in secondo piano. «Invece gli scritti di Basaglia sono di profondissima attualità, non solo per il percorso politico - ha spiegato lo psichiatra Mario Colucci, del Dipartimento di salute mentale di Trieste - ma anche per la posizione etica di fronte alle persone con disagio psichico, tesa non al controllo della libertà dell’altro, ma alla capacità di far esprimere l’altro». Un principio etico che nella pratica diventa anche principio terapeutico, «ma queste sono parole senza patria, oggi gli scritti del più grande psichiatra del secolo scorso non trovano spazio in molti corsi universitari».
Per questo va segnalato il convegno organizzato ieri all’Università statale di Milano dalla fondazione Bertini Malgarini, Franco Basaglia e la filosofia del ‘900: un’occasione per riaprire il confronto sullo studioso e per indagare le nuove prospettive del rapporto fra disagio psichico e società, per opporsi ai tentativi di revisione ideoligica della 180 e per promuoverne una migliore applicazione sul territorio. «È una legge meravigliosa che tutta l’Europa ci invidia, purtroppo applicata a macchia di leopardo perchè poco conosciuta dagli stessi operatori. Il suo fondamento è sempre valido: la psichiatria deve ridare diritto di cittadinanza alle persone con disagio psichico» ha affermato Carmen Mellado, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’ospedale milanese Sacco.
«Basaglia è un’anomalia nella nostra cultura, non è mai stato letto davvero, nemmeno dai suoi allievi» ha sottolineato Massimo Recalcati, docente di Psicopatologia presso l’Università degli Studi di Pavia. «Nella sua elaborazione teorica, ad esempio, è centrale il problema dell’integrazione: lo psichiatra triestino si poneva già negli anni Settanta il tema del confine, che delimita l’identità del singolo, ma che non si deve inspessire fino a trasformarsi in barriera di segregazione». Un confine poroso, dunque, in grado di comunicare con l’esterno e assorbirne gli stimoli.
Legge «180»
Storie di cura senza custodia
di Maria Grazia Giannichedda (il manifesto, 13.05.2008)
Che la vita della riforma psichiatrica sarebbe stata dura era chiaro a tutti quel 13 maggio di trent’anni fa, quando fu approvata. Il clima politico era dei peggiori, con il corpo di Aldo Moro ritrovato da appena cinque giorni in via Caetani e la nomina a ministro della sanità, nei mesi successivi, del liberale Renato Altissimo, esponente del solo partito che non aveva votato la riforma sanitaria in cui «la 180» era confluita. La sfida era chiudere i manicomi nel segno dei diritti.
La posta in gioco era la riforma, chiudere i manicomi nel segno dei diritti e sostituirli con una cura senza custodia. «In fondo si tratta soltanto dell’inserimento nella normativa sanitaria di principi già posti dalla Costituzione», scriveva in quelle settimane Franco Basaglia, leader indiscusso del composito movimento che aveva voluto la riforma: estromettere dal sistema sanitario un’istituzione che imprigiona persone che nessun giudice ha condannato, e che organizza una violenza strutturale particolarmente odiosa perché consumata su persone che soffrono, «è un atto di riparazione che la democrazia fa verso i cittadini». Anche chiedere agli operatori psichiatrici di rispettare i diritti e la dignità delle persone che hanno in cura in fondo è solo «ribadire un elemento di civiltà che dovrebbe essere implicito», continuava Basaglia: aveva ben chiaro non ci si poteva aspettare un’applicazione di questa legge «lineare e priva di conflitti, date le caratteristiche del terreno in cui interviene, dove confluiscono pesanti pregiudizi culturali e interessi stratificati».
Chiusura dei manicomi nel segno dei diritti: su questo punto si sono sempre concentrati gli attacchi contro «la 180», e ancora qui ha recentemente puntato la coalizione che ha vinto le elezioni e che si propone di modificare il Trattamento sanitario obbligatorio (vedi scheda). Eppure, è proprio questo nesso tra chiusura dei manicomi e affermazione dei diritti che spiega l’inattesa longevità di questa riforma che ha potuto produrre un’innovazione colossale, 100mila posti letto chiusi in quarant’anni e un sistema di servizi diffuso in tutto il territorio nazionale (vedi le schede in questa pagina).
La qualità di questo nuovo sistema è assai variabile, con differenze profonde tra le regioni e all’interno della stessa regione, differenze che spesso (ma non sempre) coincidono con quelle del sistema sanitario generale. Su questa variabilità, che oggi è insieme debolezza e forza del sistema della salute mentale, torneremo più avanti. Prima vale però la pena di soffermarsi su questo dato: solo l’ltalia è riuscita finora a realizzare un obiettivo che molti paesi perseguono, liberarsi da un sistema di istituzioni che pesano troppo sulla spesa pubblica e producono lungodegenti che impediscono i nuovi ingressi.
I costi sono stati infatti, e sono, la dannazione dei sistemi psichiatrici pubblici nei paesi europei. Gli ospedali pubblici costano più di quelli privati in quanto sono costretti a standard alti di rapporto tra personale e posti letto, e questo per via delle leggi e dei controlli formali e informali a cui invece il privato riesce più facilmente a sottrarsi, come sa bene chiunque abbia tentato, anche nell’Italia di questi anni, di guardare dentro una clinica psichiatrica privata.
Inoltre, l’assistenza psichiatrica nella «vecchia Europa» di oggi è quasi sempre mista, ovvero gli ospedali psichiatrici convivono con i servizi territoriali ma siccome la coperta è stretta, se i posti letto in ospedale non diminuiscono i servizi territoriali hanno meno risorse, il che rende più difficile ridurre quell’ospedalizzazione di lungo periodo che produce cronicizzazione senza speranza. Occorrono quindi scelte drastiche, che l’Italia ha fatto con la riforma del ’78 e ha confermato con le leggi finanziarie del ’94 (primo governo Berlusconi) e nel ’98 (governo Prodi). Così, vista dai 40mila posti letto in ospedale psichiatrico che la Francia non riesce a chiudere né a ridurre, e dai 35mila letti pubblici inglesi (qui fu Margaret Thatcher a costringere gli ospedali psichiatrici a dimagrire), l’esperienza italiana appare appunto un caso di innovazione compiuta, che apre una domanda: com’è stato possibile far abbandonare agli psichiatri italiani la loro roccaforte? Quali elementi hanno creato quello zoccolo di consenso senza il quale la riforma non avrebbe potuto diventare adulta?
Dobbiamo ritornare al nesso tra diritti e chiusura dei manicomi. Questo elemento, a lungo percepito da molti, anche a sinistra, come una forzatura ideologica, è invece ciò che ha fatto la differenza. La sfida a mettere insieme, nel servizio pubblico di massa, cura e diritti ha infatti mobilitato le risorse professionali migliori, che hanno costruito modelli organizzativi inediti, che poi sono quella cinquantina di sistemi di servizi comunitari che oggi rappresentano l’eccellenza del nostro paese: sistemi che funzionano sulle 24 ore, che non costringono la famiglia al ruolo di manicomio domestico, rendono inutile l’ospedalizzazione di lungo periodo, sanno aiutare, nella costruzione di una propria vita, anche chi sta male in modo non episodico e magari, solo qualche chilometro più in là, è invece costretto a subire abbandono, esclusione, violenza.
Questi modelli «alti» sono anche punto di riferimento, di ricerca e di formazione per molti che lavorano in sistemi inadeguati, e sono stati soprattutto il riferimento su cui le associazioni di familiari e di utenti hanno identificato e misurano le proprie aspettative. «Vogliamo per noi una normalità che non costi il loro internamento» è diventato, dopo alcuni anni di scontri e confronti, lo slogan della grande maggioranza di associazioni - che in questa e nelle prossime settimane hanno promosso una quantità di iniziative, segnate dalla speranza combattiva di tenere aperto il tema della trasformazione della psichiatria e del welfare, ma anche in affanno per le troppe cose che non vanno, per i tradimenti, travisamenti, trasformismi, e per la distanza a volte intollerabile tra le parole e i comportamenti di tanti operatori e amministratori.
L’esito delle elezioni certo non aiuta, visto che una controriforma sta nel programma dei vincitori: ma il potere vero, il potere di fare in campo sanitario e sociale ormai da tempo ce l’hanno le regioni. La Sardegna però è la sola che in questi anni ha avviato e persegue un programma complessivo di cambiamento, mentre le altre regioni, pure quelle da sempre amministrate dal centrosinistra, si sono limitate e si limitano a lasciar fare: sia chi organizza servizi a misura dei pregiudizi tranquillizzanti e degli interessi consolidati, sia chi trova mezzi e consenso per un progetto di trasformazione degli assetti e delle culture.Così, la grande innovazione che suscita interesse in tutto il mondo ha prodotto finora meno di ciò che «la 180» vuole e consente, e anche di ciò che hanno dimostrato possibile quelle Asl che, in tutte le regioni e per le vie più diverse, l’hanno presa sul serio.
Su queste storie opposte e contigue occorrerà tornare per capire cosa è cambiato nella possibilità di vivere la follia, a trent’anni dalla legge di riforma e a quarant’anni dall’uscita del libro - L’istituzione negata (Franco Basaglia, Einaudi, 1968) - che ha rivelato alla società italiana la follia segregata e offesa, la logica del manicomio e le vie per combatterla.
l’Unità 12.5.08
Basaglia, la dignità e il riscatto della follia
di Peppe Dell’Acqua
DOMANI CON L’UNITÀ a trent’anni dalla legge che porta il nome del grande psichiatra, il libro di Nico Pitrelli dedicato all’esperienza che condusse alla chiusura dei manicomi e alla biografia del suo ispiratore. Ne anticipiamo la prefazione
Il punto cruciale era dare finalmente voce alla sofferenza mentale e farla parlare contro i ghetti della psichiatria
Era il giugno 2002, e in un’affollatissima sala della Stazione Marittima di Trieste, stavamo presentando il libro Franco Basaglia di Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio. A un certo punto, dal pubblico si alza un giovane che chiede la parola. Conclude il suo intervento con passione: «Vorrei dire solo questo: quanto, a noi giovani oggi, manca un Basaglia». Questo giovane era Nico Pitrelli, l’autore del libro L’uomo che restituí la parola ai matti, che domani i lettori troveranno in edicola con l’Unità. Mi sono chiesto e molti di noi presenti a quell’incontro l’avranno fatto, che cos’è che fa dire a un giovane, per giunta laureato in fisica: «Ci manca un Basaglia... ».
Ho conosciuto Franco Basaglia che Gorizia era già finita; lavorava da qualche anno a Colorno ed era nell’aria «l’inizio dell’avventura triestina». Era la primavera del 1971. L’occasione fu l’incontro Cus Parma-Cus Napoli. Siamo andati a trovarlo a Colorno, io e alcuni compagni, tutti laureandi in medicina, interni all’Istituto di Malattie Nervose e Mentali e giocatori della squadra di rugby dell’Università. A Napoli, negli anni caldi, avevamo letto L’istituzione negata. Stavamo già ereditando dal sessantotto interrogativi e problemi sulla professione che ci apprestavamo a intraprendere: il rapporto tra la nostra professione e gli apparati del potere e del consenso, il ruolo del medico a essi subalterno.... Era per tutti noi la prima volta che entravamo in un manicomio e non nascondo il senso di disgusto, di nausea, di panico che quel primo impatto mi provocò. Franco Basaglia ci accolse con familiarità, ci mise a nostro agio, ci parlava dandoci del tu. Oggi può sembrare strano, ma in clinica le gerarchie erano rispettate e noi studenti eravamo sempre all’ultimo posto della coda dei camici bianchi che si formava dietro al direttore, il quale mai si rivolgeva a noi direttamente.... Franco Basaglia ci disse che sarebbe andato a lavorare a Trieste e che cercava medici giovani. Avrebbe fatto di tutto per formare un gruppo di giovani psichiatri. Piú semplice - diceva - formare nuovi psichiatri in una pratica nuova, piuttosto che cambiare testa e cultura a psichiatri vecchi e già formati. Il rapporto con noi fu affettuoso, attento, duro.
Appena arrivati a Trieste, nel novembre del 1971 ci inviò subito «al fronte», nei reparti, con le nostre insicurezze, a contatto immediato con i problemi: la responsabilità, la gestione del reparto, l’assemblea, i rapporti con le gerarchie degli infermieri.
Passavamo giornate intere nei padiglioni di San Giovanni. A sera, in riunioni quotidiane difficili e spesso frustranti, affrontavamo i problemi della giornata, i nuovi programmi terapeutici, le storie degli internati che riemergevano. Di fronte all’impasse, ai vicoli ciechi in cui ci cacciavamo, Franco Basaglia riusciva sempre a spostare i termini del problema, a farci guardare da un altro punto di vista, a capovolgere le situazioni. Riuscí a spostare, a capovolgere, anche la nostra vita. Con Basaglia, senza accorgercene, abbiamo trovato la nostra strada, senza separazioni, senza dissociazioni: è la «lunga marcia attraverso le istituzioni» che ci ha indicato con il lavoro quotidiano, instancabile. Accettare la sfida del lavoro istituzionale: trasformare, creare nuovi spazi per agire, determinare momenti di vita e di creatività...
Un giorno di molti anni dopo, chiesi ad Antonio Facchin, infermiere già alla fine degli anni sessanta, che ha vissuto e partecipato al cambiamento, di organizzare una riunione con gli infermieri, gli ispettori, i capisala oggi ultrasettantenni. Vogliamo salvare la memoria del manicomio, dissi. E cosí che insieme ad altri, ho rivisto il vecchio signor Facchin, il padre di Antonio.
Il vecchio Facchin ha cominciato a lavorare a San Giovanni nel 1947. È andato in pensione 25 anni dopo, nel ’72. Proprio mentre cominciava il lavoro di Franco Basaglia. Ha detto con rammarico: «Per 25 anni avevo sempre desiderato parlare con i medici, con i superiori; desideravo parlare dei malati, di quello che mi dicevano. Era vietato. Quando finalmente sono cominciate le riunioni, le assemblee e le porte aperte e perfino Basaglia una volta ha chiesto il mio parere, io sono andato in pensione». Ora, a distanza di tanti anni, un giovane, fisico, che si è avvicinato alla storia del grande cambiamento del manicomio nell’ambito di un Progetto di ricerca tra la SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) e il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, sulla comunicazione della «follia» e della storia delle istituzioni in psichiatria, ritrova il bisogno di raccontarci Basaglia e in lui e con lui, l’importanza del comunicare, dello sforzo di stare nelle cose e di aiutare chi forse fa piú fatica degli altri, a starci. Restituire, come dice il titolo del libro, la parola ai matti. Che sono, prima di tutto, persone, uomini e donne, con il medesimo, taciuto, urlato, disperato, inconfessato bisogno di riconoscersi e di essere riconosciuti come soggetti della propria esistenza, del proprio qui e ora. Stare nelle contraddizioni, anche la contraddizione di essere «diversi», «malati» e nel contempo con gli stessi sentimenti, le medesime pulsioni, i desideri di tutti. Gli «uguali», i «sani». Questa capacità dialettica che tuttora manca ovunque, e senza la quale è difficile, se non impossibile, avere e riprodurre direzione, senso, spessore, umanità. Comunicare questo, a se stessi, al mondo, a chi ci sta curando o dovrebbe farlo, è Basaglia, il suo lascito, il suo insegnamento. Il libro di Nico Pitrelli coglie sicuramente questa attenzione, questa urgenza che Basaglia ha posto nel rompere le barriere comunicative all’interno dell’istituzione manicomiale - il luogo della negazione assoluta della comunicazione. L’altro aspetto che il libro certamente sottolinea è quello della capacità di sviluppare una comunicazione al di fuori del campo cosiddetto psichiatrico.
L’Ospedale psichiatrico cosí come nasce e si costruisce - e Nico lo spiega bene nella parte storica del suo libro - è la frattura di questa comunicazione: le mura dell’ospedale chiudono un discorso e da quel momento in poi si tende sempre piú a far prevalere la ragione sulla follia, e la ragione diventa sempre piú «pulita», eliminando sistematicamente tutte le contraddizioni. Il discorso diventa sempre piú asettico, fino a rimandarci la freddezza, l’igienicità delle macellerie, delle camere mortuarie, dei tavoli di marmo, dove ogni cosa è al suo posto, in «ordine». Questo modo di comunicare intorno alla follia, alle persone che ne soffrono, è ancora oggi impregnato di questa logica, perché tutto viene comunicato a partire dalla negazione della persona. E tutto ciò che ha a che vedere con l’umano viene cancellato, non ha piú senso vedere che cosa le persone mangiano, come si lavano, come vestono, dove vivono, che rapporti hanno. Tutto nasce e viene riportato a una diagnosi. Se si leggono, oggi, i lavori «scientifici» della psichiatria si coglie la scomparsa dei luoghi, delle Istituzioni, delle persone. Della sofferenza, delle urla, dell’opposizione muta e sorda. Degli ambienti miseri, sporchi, vuoti. Delle porte chiuse, delle persone legate, dei corpi violati. Tutto viene restituito in quell’asettico linguaggio dove la singolarità scompare e ogni cosa viene riportata a medie, numeri, definizioni evidenti e indiscutibili.
Quando Basaglia si interroga su che cos’è la psichiatria e tenta di rispondervi, apre in realtà gli armadi, fa venire fuori gli scheletri, e nel momento in cui si denuncia, si svela, ecco che si apre anche il campo della comunicazione. Senza questo svelamento, Basaglia non avrebbe nulla da comunicare se non la piatta riproduzione della psichiatria stessa. Altri sguardi, altre orecchie, altre bocche possono finalmente giocare ora in questo campo comunicativo. L’apertura ai media, agli amministratori, ai politici, ai filosofi, agli artisti, agli architetti, diventa possibile perché finalmente questo terreno conquistato dalla psichiatria e difeso da muri alti e impenetrabili tanto concreti quanto simbolici è un terreno che mostra tutta la sua inconsistenza e tutta la sua violenza...Basaglia fa la prima grande campagna contro il pregiudizio e lo stigma, senza mai dichiararlo.
Da quel momento, e nel libro ciò appare chiaro, il pregiudizio non ha piú niente a che vedere con quello che la gente pensa ma piuttosto con quanto i poteri e la scienza psichiatrica producono e riproducono instancabilmente, in termini di fratture, esclusioni, sottrazioni. Che cosa fa la psichiatria, è la domanda da farsi. In questo senso la chiusura dell’Ospedale psichiatrico assume il significato dell’unico intervento oggi possibile per far fronte allo stigma. Il libro mi sembra utile a partire da due considerazioni. La prima, molto generale e che però mi colpisce continuamente, è che i giovani dell’età di Nico sanno poco e i giovani che io incontro ogni anno al mio corso di psicologia sono desiderosi, sono proprio come terre secche che hanno voglia e bisogno di sapere...
L’impegno che Nico si è preso dicendo «quanto ci manca un Basaglia» lo ha mantenuto in questo libro, cercando di offrire ai giovani, ai suoi coetanei e molti altri, uno strumento piú che necessario. Credo che dicendo che ci manca un Basaglia, Nico voglia dire che ci manca uno sguardo obliquo, trasversale, dinamico, uno sguardo dialettico insomma. Oggi la spinta all’omologazione è irresistibile e nulla veramente mette in discussione un impianto di pensiero dominante; è difficile trovare uno spiraglio, un filo, una posizione dislocata per contrapporsi.
La seconda considerazione è che questo libro mi tranquillizza rispetto al futuro. Ho avuto e ce l’ho tuttora, l’ansia che tutto vada dissipato, che la memoria di questa vicenda, di cui io penso non bisogna perdere nulla, vada invece perduta. Il libro di Nico contribuisce, assieme ad altri che mi auguro continueranno a venire, a costruire mattone su mattone una disponibilità di conoscenza utilissima alle generazioni del presente e a quelle future. Oggi tutti i percorsi di formazione in medicina, in psichiatria, in psicologia, in scienze infermieristiche sono percorsi che di nuovo hanno trovato il loro specialismo, la loro separatezza, la loro assoluta incapacità di rapportarsi a radici, di costruire continuità, coerenza, ponti, campi di tensione, possibilità di opposizione.
l’Unità 12.5.08
Storia della «180». Conquista minacciata da destra
di Stefania Scateni
Trent’anni fa, il 13 maggio 1978, veniva varata la legge 180, conosciuta anche come legge Basaglia perché fu dal pensiero e dal lavoro di Franco Basaglia e dei colleghi che lo sostennero nella battaglia per riportare i matti a essere considerati persone, che tale legge nacque.
L’abolizione dell’istituto manicomiale ne era l’aspetto più evidente. In realtà incarnava (se una legge può farlo) una vera e propria rivoluzione culturale. Che ha cambiato il volto della salute mentale nel nostro paese: vi si considerava la malattia mentale come una «malattia», alla stregua cioè delle altre malattie, e non uno stigma incancellabile, e capovolgeva il modello manicomiale precedente basato sul segregamento, la custodia, il controllo, riconoscendo alle persone sofferenti di disagio mentale una dignità e una cittadinanza fino a quel momento negate.
Fu un progetto ambizioso, che chiuse i manicomi e vietò di costruirne altri e che prevedeva un progetto di rete territoriale diffusa per l’accoglienza e la cura delle malattie mentali. Un progetto pilota: nel 2001, anno dedicato alla salute mentale, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ricordato l’esperienza italiana come modello da seguire.
Ma cosa è successo in questi trent’anni? È successo che nella maggior parte del nostro paese sono presenti servizi attivi giorno e notte, centri diurni di riabilitazione e cooperative sociali, ma sono ancora molto forti le resistenze alla piena applicazione della legge (sono ancora tanti i centri di Salute Mentale senza fondi sufficienti, ad esempio) e numerosi i tentativi di modifica della 180 (tutte le proposte di riforma sono state presentate in Parlamento dal centro destra) che vorrebbero chiudere i ponti tra strutture sanitarie e territorio per riesumare gli ospedali psichiatrici sotto forma di cliniche private. Ecco perché continuiamo a parlare della legge di riforma psichiatrica 180/78 e a ricordare Franco Basaglia.
Perciò vi proponiamo di leggere, nella nostra collana «Le chiavi del tempo», (curata da Bruno Gravagnuolo), il libro Editori Riuniti di Nico Pitrelli L’uomo che restituì la parola ai matti (da domani in edicola con l’Unità a 6,90 euro più il prezzo del quotidiano), che ripercorre lavoro e impegno dello psichiatra che sperimentò per primo l’apertura dei manicomi a Trieste e che, con la sua intelligenza, umanità e capacità comunicativa, aprì la strada a una rivoluzione. In questa pagina anticipiamo l’introduzione al libro firmata dal direttore del Distretto di salute mentale di Trieste, Peppe Dell’Acqua, che con Basaglia ha condiviso questa rivoluzione.
Intervista a Giovanni Jervis
I miei conti con Basaglia
Esce "La razionalità negata", un discorso su psichiatria e antipsichiatria che discute la cultura degli anni Settanta
Il libro è costruito in forma di dialogo con lo storico della medicina Gilberto Corbellini
"Il mio Manuale contrapponeva ai miti antipsichiatrici qualche nozione sensata"
"Andai a Gorizia nel ’66 affascinato dalla sua personalità, ma avevamo opinioni diverse"
di Luciana Sica (la Repubblica, 04.09.2008)
Le aggettivazioni sono tutte al negativo: «vaga, poco chiara, generica». E poi, per trent’anni l’abbiamo chiamata legge Basaglia, ma sbagliando. Non perché l’avremmo dovuta indicare più correttamente con il numero "180" - e ai numeri siamo sempre un po’ ostici, si sa. Il punto è un altro: si doveva chiamare con un altro nome! Il vero padre di quella legge - «fatta all’italiana» - non sarebbe Basaglia, ma un medico psichiatra, un parlamentare democristiano: a Bruno Orsini si deve «la formulazione e la promulgazione» della celebre normativa che ha cancellato i manicomi.
«Lo sanno tutti!», si sorprende Giovanni Jervis, in questa intervista. «Tutti quelli che se ne sono occupati, ne sono perfettamente a conoscenza. Orsini ha raccolto le esigenze di cambiamento, certe idee che avevano conquistato un largo consenso nell’opinione pubblica, ma la sintesi è stata sua, e Basaglia non era mica d’accordo, lo ha detto subito, non gli piaceva per niente l’ispirazione generale favorevole alla medicalizzazione, considerava la psichiatria una disciplina sbagliata e oppressiva proprio per un eccesso nell’impostazione medico-biologica - quella che aveva permesso i peggiori abusi. Per dire, Basaglia non avrebbe mai voluto strutture psichiatriche come i reparti negli ospedali: immaginava piuttosto "un network di appartamenti anti-crisi"... Lui e il movimento antipsichiatrico erano violentemente contrari all’interpretazione del problema psichiatrico in termini medici - per loro era piuttosto una questione politica. Al contrario, l’impostazione di Orsini era del tipo: basta con i matti che turbano l’ordine pubblico, questa è gente che ha disturbi, insomma sono malati e come tali vanno trattati...».
"Jervis contro Basaglia"? Messa così, non si coglie il senso del nuovo libro di Giovanni Jervis che si presta poco a una lettura tanto riduttiva, a una semplificazione così sciatta, anacronistica e anche un po’ brutale, restituendo l’immagine di un duello con un’ombra (il grande psichiatra veneziano è morto nell’estate del 1980 a cinquantasei anni, per un tumore al cervello). È un pamphlet - senz’altro discutibile e decisamente destinato a far discutere - che Jervis firma con Gilberto Corbellini, un cinquantenne storico della medicina, e infatti si presenta sotto forma di dialogo: si chiama La razionalità negata - sottotitolo "Psichiatria e antipsichiatria in Italia" (esce giovedì 11 da Bollati Boringhieri, pagg. 174, euro 12).
Corbellini svolge un ruolo d’interlocutore dello studioso settantacinquenne, autore di saggi importanti che spesso hanno come oggetto temi sociali e politici, oggi più coinvolto nel mestiere di analista, dopo aver lasciato molto tempo fa la psichiatria "attiva" e nel 2005 l’insegnamento universitario alla "Sapienza" di Roma. È Corbellini, nelle ultime righe dell’introduzione, che incoraggia «a prendere consapevolezza dei danni, delle sofferenze e dei ritardi che una serie di irragionevoli controversie ideologiche stanno causando da quasi mezzo secolo alla vita civile italiana». Un invito genericamente rivolto a chi si occupa delle innumerevoli varianti del disturbo mentale, ma anche - e forse soprattutto - «a politici e intellettuali». Sia per la questione che si solleva - gli ideologismi che indubbiamente hanno segnato la nostra storia recente - sia per i destinatari della riflessione inevitabilmente rapida, in ballo c’è qualcosa di più di una valutazione più o meno condivisibile della legge Basaglia. L’impressione generale è quella di una presa di distanza nettissima, radicale, inequivocabile da un certo clima politico e culturale in cui si era sempre e comunque "con" o "contro" qualcuno o qualcosa.
Professor Jervis, la sua ripulsa degli anni Settanta è priva di sfumature: sembra viscerale, oltre che razionale... È vero?
«Certo, e per molte buone ragioni: ho maturato un giudizio negativo di quella stagione per quel suo gusto dell’astrattezza, la tendenza al trionfalismo e alla retorica, i settarismi, le contrapposizioni, gli schematismi, ignorando totalmente la realtà fattuale, il rigore dell’analisi, la previsione delle conseguenze di azioni o anche solo di parole... Una stagione incline alla violenza - non solo verbale, come sappiamo - intrisa anche di romanticherie vagamente spiritualiste, di confusi esistenzialismi, d’improbabili sperimentazioni, e molto più spesso di eccessi tutt’altro che innocui... Del resto, sappiamo anche come le follie collettive possano essere terribilmente normali».
La razionalità negata fa vistosamente il verso a L’istituzione negata, il famoso volume collettaneo uscito nel ’68 da Einaudi. Il sottotitolo di quel libro era "Rapporto da un ospedale psichiatrico", e infatti si raccontava la straordinaria esperienza di Gorizia. "A cura di Franco Basaglia" era l’unica dizione che appariva in copertina. Come mai non figurava anche il suo nome?
«Perché era giusto così. Perché Basaglia era il vero artefice di quell’esperienza, era lui il capo dell’équipe. In quegli anni io ero consulente della casa editrice Einaudi e andai a Gorizia nel ’66 - avendo già in mente il progetto di quel libro - affascinato dalla personalità di Basaglia, uomo di grande intelligenza, con uno sguardo sulle cose penetrante, perspicace, spiritoso, spregiudicato in senso buono. Non si può dire che avesse un buon carattere, non era sempre facilissimo andare d’accordo con lui, ma non era mai una persona mediocre. In ogni caso io non l’ho idolatrato e molto presto è venuto fuori che avevamo opinioni diverse - mai però c’è stata una lite tra noi. Del resto, il mio maestro era già stato Ernesto De Martino, l’antropologo della devianza: non mi sono mai considerato un allievo di Basaglia, e di fatto non lo ero».
L’istituzione negata ha un successo enorme e Basaglia diventa di colpo una star. Lei che ha ammirato il modello goriziano "razionale e moderato", nello stile delle comunità terapeutiche britanniche, detesta invece il movimento antipsichiatrico degli anni Settanta che in Italia avrà un indiscusso capo carismatico: Franco Basaglia, appunto. È questo a rendere il vostro rapporto sempre più ambivalente?
«Basaglia era un uomo ambizioso, sanamente ambizioso, e fino a quel momento con una vita professionale un po’ frustrata perché lui avrebbe voluto fare la carriera universitaria e inoltre non amava né Gorizia né i goriziani. Ma lui, uomo di forte carattere, lì aveva fatto una scommessa: voleva trasformare in un’esperienza-pilota quel vecchio ospedale retrivo in un angolo periferico d’Italia - con pochi mezzi, senza l’appoggio delle amministrazioni locali, con un paio di medici che lo spalleggiavano. E quella scommessa, lui l’ha vinta. Dopo, nulla è stato più uguale a prima, di fatto Basaglia è stato un po’ travolto dal successo, dal culto della sua personalità e dalle ubriacature ideologiche di quegli anni».
Certi suoi modi di fare non lo nobilitano: ad esempio, il rapporto piuttosto autoritario con gli infermieri, a volte con gli stessi medici... Ma che senso ha dissacrarne il mito tirando fuori questi aspetti un po’ meschini della personalità?
«Io non li considero meschini, perché Basaglia - per quanto egocentrico - non era mai un uomo volgare. Piuttosto apparteneva a una famiglia abituata a comandare. Le racconterò un aneddoto: un giorno andammo insieme a prendere la sua macchina, nel garage accanto alla stazione di Venezia. Per qualche ragione la sua auto gliel’avevano spostata, in un posto non suo e comunque molto meno prestigioso. Lui si era scocciato, e non poco. "Noi", mi disse in quell’occasione, "certi privilegi sociali, abbiamo il difetto di prenderli un po’ per dovuti"...». Nel ’75, da Feltrinelli, esce il Manuale critico di psichiatria. Piace molto quel suo libro, ma a Basaglia no. Perché?
«Il mio Manuale contrapponeva ai miti antipsichiatrici qualche nozione sensata, neppure troppo originale, spiegava che parole come delirio, allucinazione, psicosi non sono designazioni arbitrarie ma fenomeni tragicamente reali. Per Basaglia, era un’operazione culturale sbagliata: il punto è che non accettava volentieri nessun comprimario, dire che era un accentratore è dire niente. Se uno pubblicava una cosa per conto suo, era automaticamente diffidente».
Il suo Manuale rispecchia in pieno un certo linguaggio degli anni Settanta, è un libro "contro le istituzioni, contro la scienza borghese, contro le gerarchie e l’autorità", in cui neppure manca quella frase-simbolo per eccellenza: "ciò che è personale è politico". Oggi, ne La razionalità negata, lei dice "ammettiamolo, siamo tutti cambiati, anche noi studiosi...". Ammetterebbe di essere cambiato un pochino più di altri?
«Il discorso politico è sempre rimasto al centro dei miei interessi, ma prima del Sessantotto credevo di più nel mondo della politica e dopo, mano a mano, com’è accaduto anche ad altri, sempre meno. Io ero un po’ filocinese, ma non sono mai andato a un’assemblea o a un corteo, non sono mai stato un militante, un organizzatore, un uomo d’apparato... Io ero un intellettuale conficcato nei libri, m’interessava la psicoanalisi seppure con molte riserve, e non disperavo di finire all’università, come poi è accaduto. Sapevo perfettamente che l’esperienza della psichiatria "attiva" sarebbe stata a termine, e lo dissi subito a Basaglia nel ’66: io vedevo il mio futuro come quello di un clinico e di uno studioso... Sì, lo ammetto: ho molto annacquato il vino politico, ma chi non l’ha fatto?».
Lei e Corbellini menate fendenti in più direzioni: sono attaccati, quasi ridicolizzati non solo gli antipsichiatri, ma anche tutti quelli che anche oggi non disdegnano la letteratura e la filosofia per la comprensione della "follia", tenendo magari poco conto delle categorie nosografiche o delle ricerche epidemiologiche. L’intellettuale per il quale lei mostra la più totale idiosincrasia è Michel Foucault: è stato davvero un cattivo maestro?
«Di Ronald Laing, non lo direi mai: lo definirei senz’altro un antipsichiatra, ma anche un poeta, un mistico, un rinnovatore, uno spontaneista, uno che navigava su territori politico-culturali rarefatti. Foucault invece è stato proprio un cattivo maestro: uno che generalizzava molto e analizzava pochissimo, con il grave demerito di aver idealizzato la devianza sociale. È vero che non è stato il solo, ma lui l’ha fatto in modo particolarmente convincente. Non per me, comunque».
Torniamo all’oggi, con l’aiuto dei dati che fornisce Corbellini nelle ultime pagine del libro. Particolarmente sconfortanti sono quelli che confermano in modo inequivocabile l’eccessivo peso del settore privato nella cura dei malati. Nel Sud - si legge - i letti privati sono addirittura il doppio di quelli pubblici. Ma se in questo Paese regna il malaffare, se le Regioni privilegiano le cliniche convenzionate piuttosto che rafforzare le strutture territoriali pubbliche, Franco Basaglia cosa c’entra?
«Assolutamente niente. Se oggi la psichiatria continua a zoppicare, se l’assistenza ai malati è ancora quella che è, i motivi vanno fatti risalire alle derive della politica e della cultura, ai fallimenti delle Regioni, alla vulgata di certe idee antipsichiatriche. Non a Franco Basaglia, che ne è del tutto innocente... Questa è l’Italia».