"CI PENSERO’ SU’". Pier Aldo Rovatti, Elvio Fachinelli, e l’immaturità nei confronti della dimensione dell’altro. Una “seduta” lunga vent’anni, ma felicemente terminata.
di Federico La Sala (Milano, 17.07.2009)
E’ stata solo una questione di tempo - di tempo vissuto - ma, alla fine, Pier Aldo Rovatti ce l’ha fatta e, con onestà e coraggio, lo ha ammesso - pubblicamente. A Luserna, nel paese natale di Elvio Fachinelli, “ne ho parlato come di un pensatore inattuale. Inattuale proprio perché è rimasto scomodo, come era allora, e perché non siamo ancora riusciti ad ascoltarlo davvero” (la Repubblica, 03.04.2009).
Evidentemente, l’ultimo incontro con Fachinelli, - una vera e propria “seduta analitica”, a ben vedere - è stato decisivo: “quando proprio nel 1989, alla vigilia della sua prematura scomparsa, accettò l’invito della redazione di aut aut a venire a discutere il suo ultimo libro [La mente estatica], se ne rimase zitto in un angolo quasi tutto il tempo e alla fine ci liquidò con un secco Ci penserò sù”, ha posto Rovatti di fronte al suo “aut aut”, lo ha svegliato e sollecitato a un personale e teorico “ci penserò sù”, di conoscenza di sé e dell’altro - di “sé come un altro” (P. Ricoeur, ricordiamo - ed Enzo Paci) - di lunga durata.
Vicino/lontano - in un circolo vizioso, sull’orlo della follia. "Abitare la distanza" è la condizione dell’uomo, caratterizzata dal paradosso: egli è dentro e fuori, vicino e lontano, ha bisogno di un luogo, di una casa dove "stare" ma poi, quando cerca questo luogo, scopre il fuori, la distanza. Per Rovatti, che cerca di trovare la strada “per una pratica della filosofia”, non sembrano esserci più speranze; e si rassegna a indicare un modo, un atteggiamento, un "come" stare nel paradosso. (Rovatti sembra aver dimenticato definitivamente la lezione di Paci e di Ricoeur - insieme nel Lager di Wietzendorf, in Polonia, nel 1944).
Ma la lingua continua a battere dove il dente duole: “Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi - come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno, trovare? (...) Restiamo appunto necessariamente estranei a noi stessi, non ci comprendiamo, non possiamo fare a meno di confonderci con altri, per noi vale in eterno la frase: Ognuno è a se stesso il più lontano - non siamo, per noi, uomini della conoscenza" (F. Nietzsche, Genealogia della morale, Prefazione,Opere, VI, t. II, p. 213).
“Vicino/lontano”. Un’Associazione culturale. Un’altra inziativa: un’altra “aut aut”? Si riprende il lavoro, pratico e teorico. La Forum Editrice Universitaria Udinese apre le porte: “la collana vicino/lontano è diretta da Marco Pacini con la consulenza scientifica di Stefano Allievi, Giovanni Leghissa, Giangiorgio Pasqualotto, Pier Aldo Rovatti e Davide Zuletto”.
La ripetizione non è ripetizione, è ripresa - come in questo caso. Pier Aldo Rovatti scrive un’agile e veloce riflessione: “Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale” (Forum 2007). Il tema è ancora, sempre, e di nuovo (qualcuno, Slavoj Zizek - in questo caso, lo sollecita), la “nostra immaturità nei confronti della dimensione dell’altro” (p. 32) - e, ovviamente, di sé.
Così il sommario: Aspettando i barbari, Turisti per forza, Il gioco di verità in cui siamo, Una porta aperta. E, così, l’avvio del discorso, di ogni capitoletto:
Immaginiamoci sul confine (...)
Possiamo immaginarci di stare sul confine, contro ogni apparenza (...)
Più precisamente, nella sua monografia su Foucault (...), Deleuze ipotizza un ‘dentro come piega del fuori’. La metafora (...) ci aiuta, ma noi abbiamo forse bisogno di immagini più direttamente traducibili. Come, per esempio, quella di soglia adoperata da Derrida per descrive l’aporia dell’ospite. Si tratta, come ho cercato di dire altrove, di abitare la distanza (...) Di accettare la sfida di una identità senza luogo, disegnando i contorni di una prossimità esposta al fuori e all’alterità ma non cancellata da questa esposizione (...)
Abitiamo in una casa che dovremmo cercare di descrivere. (...).
E questa la chiusura: “Mi ritorna in mente quello stupefacente racconto di Franz Kafka che si intitola La tana. E’ una descrizione perfetta della nostra condizione ansiosa, di soggetti snervati dalla paura che la casa non sia sicura e che l’estraneo, nonostante tutto, possa penetrarvi. Ci sembra di poterci rassicurare barricandoci (...) Ma subito, in preda all’angoscia, per la nostra vulnerabilità, corriamo su per i cunicoli fino all’ingresso, il punto più debole. E non ci limitiamo a spiare se qualcuno fuori si aggiri minacciosamente, ma apriamo la porta stessa, usciamo fuori e ci acquattiamo all’esterno perché da lì pensiamo di vedere meglio e prima l’eventuale aggressore. Poi ci accorgiamo dell’errore (...) e con altrettanta precipitazione torniamo dentro la casa e barrichiamo l’entrata. L’inquietudine non si calma: ancora una volta usciremo e ancora una volta rientreremo precipitosamente
(...) Se possibile, la nostra condizione attuale è peggiore di quella dello strano animale che abita la tana (...) Ma il problema è lo stesso. Non riusciamo a vivere né dentro né fuori mentre ci illudiamo di stare sempre in un interno, dentro la ‘serra’. In realtà siamo collocati su sottilissime pareti, e l’esercizio che dovremmo riuscire a fare sarebbe quello di trasformare ogni volta queste pareti sottilissime in una soglia, in un luogo di passaggio ed di scambio, nella de-soggettivazione di un incessante dentro-fuori come luogo del nostro abitare. L’inquilino della tana di Kafka non ci riesce, ma forse ci suggerisce, nel suo fallimento, quale potrebbe essere il movimento giusto” (pp. 47-48).
Immaginiamoci su un confine. Una porta aperta. Pur senza mai citarlo, si sente che Fachinelli è presente (“zitto in un angolo”), in questa veloce riflessione sulla "condizione globale". Rovatti comincia a intravedere e a capire il senso della ‘risposta’ che Fachinelli gli aveva dato - quasi vent’anni prima.
Vicino/lontano - in un circolo virtuoso, sulla spiaggia, dinanzi al mare. Nel 2009, sostenuto dalla volontà e dal coraggio di mettersi in gioco e di entrare nel gioco (pp. 36-7), Rovatti è giunto “Sulla spiaggia” (E. Fachinelli. La mente estatica, Milano, Adelphi, 1989, pp. 13-25) e, finalmente, ha capito il senso del lavoro di Fachinelli ed è capace di riconoscerne tutto il valore: Fachinelli è “un pensatore inattuale”, il suo “dialogo con la psicoanalisi freudiana ma anche lacaniana, si trasforma in una filosofia che indaga - lungo il filo della temporalità vissuta - che cosa significa pensare. E che risponde (si veda il bellissimo incipit di La mente estatica): per pensare dobbiamo sospendere il tempo e aprirci all’ascolto del nostro ospite interno” (P. A. Rovatti, Un pensatore inattuale, cit.).
Non Enzo Paci né Fachinelli si sbagliava. Rovatti ce l’ha fatta: è uscito dalla ‘serra’, sano e salvo!
Federico La Sala (Milano, 17.07.2009)
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
UNA QUESTIONE DI ECO. L’orecchio disturbato degli intellettuali italiani
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della #madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
Psicoanalisi contaminata. Recensione di "Un singolare gatto selvatico". Il caso di Jean-Jacques Abrahams
di Alessandro Siciliano ("Psychiatry on line Italia", 20 novembre, 2017)
Jean-Jacques Abrahams ha 32 anni quando, nel dicembre 1967, si presenta per l’ultima volta nello studio del suo analista. Era in analisi dall’età di 14 anni, per volontà del padre, e dopo diverse interruzioni decide intorno ai 28 anni di interrompere definitivamente la sua terapia, da sempre vissuta come violenta e obbligata. Tre anni dopo accade l’episodio che lo renderà celebre fra le marginalità della storia della psicoanalisi e che sarà discusso da Sartre, Pontalis, Pingaud, Fachinelli, Deleuze e Guattari, Castanet, negli anni fra il ’69 e il ’77.
Tale episodio costituisce un evento, una “irruzione”, dice Fachinelli; un oggetto sconosciuto e irriconoscibile agli occhi dell’analista prima, dei commentatori poi, si presenta sulla scena del setting psicoanalitico. Jean-Jacques Abrahams entra nello studio del suo analista e accende un magnetofono, un vecchio registratore, con l’intenzione di registrare il colloquio. “Credevo di dovergli [all’analista] far parte del risultato delle mie riflessioni, fatte nell’intervallo, sullo scacco di ciò che era stata questa interminabile relazione analitica”. L’atteggiamento è recriminatorio, il paziente chiede all’analista che gli vengano “resi dei conti”, che risponda a una imputazione pronunciata nei confronti dell’analista e della psicoanalisi tutta. Il Dialogo psicoanalitico finisce con l’internamento del protagonista in ospedale psichiatrico. Abrahams fugge dunque dall’ospedale, sbobina il nastro e lo invia alla redazione della rivista Le Temps Modernes, dove viene pubblicato nel 1969, con commenti critici di Jean-Paul Sartre, Jean-Bertrand Pontalis e Bernard Pingaud.
La vicenda sarà discussa da tanti altri, in primis da Deleuze e Guattari ne “L’Anti-Edipo”. Negli anni della contestazione, Jean-Jacques Abrahams, con il suo gesto di denuncia assolutamente sui generis, acquista una certa notorietà, producendo un dibattito sullo statuto della psicoanalisi: pratica di liberazione del soggetto o dispositivo borghese di regolamentazione del desiderio?
Ci viene data occasione, oggi, di ritornare a parlare e discutere di tutto ciò, grazie al lavoro di Pietro Barbetta, Enrico Valtellina, Giacomo Conserva e degli altri autori di Un singolare gatto selvatico, edito da Ombre Corte. “Ulteriore tappa della fortuna di Jean-Jacques Abrahams”, questo piccolo volume ripropone il celebre “dialogo psicoanalitico” tra Abrahams e il suo analista, pubblicato per la prima volta nel ’69 in Francia e nel ’77 in Italia, a opera di Elvio Fachinelli, sulla rivista “L’Erba voglio”; a seguire, i testi di Sartre, Pontalis e Pingaud, il bellissimo commento di Fachinelli, le distopie realizzate del nostro Abrahams, e poi Lea Melandri sull’esperienza di “L’Erba Voglio”, Antonello Sciacchitano su psicoanalisi e psicoterapia, Alfredo Riponi sulle risonanze del testo biblico nella parola di Abrahams.
Cos’è che rende interessante la performance di Abrahams? Di fatto non sappiamo nulla della storia che fa da contesto all’evento in questione. Tuttavia, se leggiamo i suoi scritti, in particolare Fallofonia e Che si fotta il sonoro, il profilo dell’avversario, della cosa contro cui Abrahams si scaglia senza riserve si fa più chiaro. E in fondo, viene da pensare che forse ogni contestazione abbia in sé un richiamo abrahamsiano.
C’è infatti una progressione in Dialogo psicoanalitico, Fallofonia e Che si fotta il sonoro: il primo è una denuncia del dispositivo analitico, la talking cure, il rapporto terapeutico basato sulla parola; il secondo è un testo in cui si critica un altro dispositivo, il dispositivo dei dispositivi, il linguaggio; nel terzo testo, Abrahams inveisce contro l’avvento del sonoro nel cinema, dunque contro la voce. Psicoanalisi, linguaggio, voce. “Se la specie umana è pressappoco una delle poche in cui ci si uccide l’un l’altro è sicuramente a causa del linguaggio” (p. 116). Questa linea interpretativa ci permette di cogliere meglio le questioni in causa nel Dialogo psicoanalitico.
Leggendo il Dialogo, appare chiaro come l’oggetto della contestazione del protagonista sia la tecnica psicoanalitica. “Non si può guarire là sopra!”, rimprovera Abrahams indicando il divano. La pratica analitica, dice, non aiuta a “guardare in faccia gli altri”, a viverci assieme, non insegna nulla di buono sulla impossibilità in gioco nei rapporti e nei legami sociali. Nel prescrivere l’astensione dall’azione, per favorire e incentivare l’analisi della vita psichica attraverso il medium della parola, la psicoanalisi ostacolerebbe l’elemento propulsivo, trasformativo dell’azione umana, disinnescherebbe la possibilità per l’uomo di risolvere la causa del proprio disagio e della propria angoscia nella realtà, attraverso un’azione che punti a toccare, a trasformare la realtà.
Un elemento in particolare disturba Abrahams, elemento che ha a che fare con una certa violenza. Nel Dialogo psicoanalitico sono frequenti i momenti in cui i due “attori” si accusano vicendevolmente di violenza, violenza fisica del paziente, violenza simbolica dell’analista. Ed è proprio contro questa “violenza simbolica” che il nostro intende fare qualcosa, per riscattare sé stesso e tutte le altre vittime di tale violenza.
“In cosa consiste questa violenza?”, si chiede Fachinelli nel suo commento, scorgendo nel Dialogo psicoanalitico e negli altri due testi una collocazione precisa di tale violenza: “Ciò che conta soprattutto è la traduzione in parole effettuata dall’analista, o meglio il presupposto di traducibilità - implicito nella sua posizione e nella sua tecnica - di tutto ciò che proviene dall’altra parte. Insomma, il conflitto dentro l’analisi è solo in parte conflitto tra chi interpreta e chi viene interpretato; più profondamente, esso si concentra intorno alla decisione di permutazione o equivalenza verbale di quanto accade” (p. 46).
Psicoanalisi, linguaggio, voce. Sotto accusa è dunque la legge fondamentale di ogni civiltà umana: la legge della parola. Sotto accusa, secondo Fachinelli, è quella strana legge non scritta, ma scritta ovunque e da sempre, che impone che tutto il reale passi attraverso la strettoia del simbolico.
Jacques Lacan, utilizzando Ferdinand De Saussure, parlerà di significante. L’essere umano si costituisce prendendo le distanze, emancipandosi dal reale attraverso la mediazione del significante, attraverso cioè una struttura che abolisce la cosa nella sua immanenza per conservarla nella trascendenza del simbolo di quella stessa cosa (la hegeliana Aufhebung). Nell’habitat umano, le cose significano altre cose, e la significazione è il movimento che collega tutte le cose e che crea un discorso. Il discorso sarà dunque un modo per fondare un legame sociale tra esseri umani attraverso la stabilizzazione di determinate significazioni, di determinati sensi. Nell’ordine del discorso si “dirà” ciò che è ammesso e ciò che non lo è, ciò che è riconoscibile, visibile, dicibile, conscio, e ciò che è irriconoscibile, invisibile, indicibile, inconscio.
La voce del Padrone pronuncia un discorso che denota, inquadra la vita come vita umana; il soggetto, dice sempre Lacan con un gioco di parole, è assoggetto, in posizione di sudditanza rispetto all’Altro. Nell’habitat umano, il reale è dunque cancellato originariamente, pertanto insiste e torna sempre allo stesso posto.
Tutta la lotta di Abrahams sembra andare contro questo funzionamento. Il gesto del nostro uomo col magnetofono veicola una obiezione fondamentale, mirabilmente colta da Fachinelli, contro un dispositivo terapeutico (che sarebbe scorretto identificare nella psicoanalisi, come se esistesse La psicoanalisi) fondato rigidamente sul “presupposto di traducibilità” in parola di tutto ciò che non è parola. “Un movimento teorico che, riferito non a ciò che taglia fuori, ma a ciò che si annette, dobbiamo pure chiamare predace, tende perciò ad abbinarsi a una pratica della “trasformazione”, del “controllo”, che in alcuni suggerimenti estremi delinea una “somministrazione” del codice della normalità”. Ciò che l’uomo col magnetofono mette in atto, continua Fachinelli, è “un movimento di cui occorre sottolineare insieme la problematicità e la positività, e che passa attraverso la parola contaminata, per così dire, vale a dire una parola non scissa, o il meno scissa possibile, da ciò che non è parola” (p. 47).
Ci sembra allora importante avere l’occasione di ricordare, o incontrare per la prima volta, il personaggio concettuale di Jean-Jacques Abrahams, grazie al lavoro di questo vitalissimo gruppo di studiosi, consolidatosi attorno all’interesse per le marginalità, letterarie, psicoanalitiche, filosofiche, storiche.
Ricordiamo infatti un altro bel lavoro a cura di Barbetta e Valtellina, Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale (Manifestolibri, 2014), dedicato allo “studente di lingue schizofrenico” che, con i suoi due romanzi in neolingua, ha insegnato più di qualunque teoria su linguaggio e schizofrenia. Così come in Wolfson, anche nell’uomo col magnetofono possiamo trovare una importante lezione, messa in scena ad opera di quello che di solito è l’oggetto dei saperi “psi”, oggetto piuttosto recalcitrante. E possiamo intendere questa lezione, a condizione, però, di sospendere le difese rispetto all’evento, che in psicoanalisi possono prendere il nome di “diagnosi”, “passaggio all’atto”, “follia”.
NOTA:
VITA, FILOSOFIA, E PSICOANALISI: LA FRECCIA FERMA, CLAUSTROFILIA... E LOCKDOWN!
PREMESSO E CONSIDERATO CHE "In Italia la vicenda di Abrahams e il suo gesto di rottura arrivano nel 1977 grazie alla casa editrice di Elvio Fachinelli, L’erba voglio. La vicenda riverbera fino ai nostri giorni e il dialogo psicoanalitico viene ripubblicato, a cura di Giacomo Conserva, Pietro Barbetta e Enrico Valtellina, per Ombre corte. 1967-1977-2017: l’uomo col magnetofono non c’è più, ma la sua registrazione testimonia ancora di qualcosa che, nell’era della tecnica, forse non ha più così risonanza: i rapporti di potere all’interno dei setting di psicoterapia" (Gianluca D’Amico, "Un singolare gatto selvatico. Jean-Jacques Abrahams, l’uomo col magnetofono", Psicologia Fenomenologica, 21.04.2021) , è da DIRE (a mio parere, ovviamente) che la situazione del "lavoro psicoanalitico" OGGI è ancora (purtroppo) come (e peggio di) IERI: "Leggendo i commenti [...]" al testo di Abrhamms, scrive Fachinelli (nel 1977) - "si ha ora il senso di una curiosa immobilità". Niente è cambiato! E tutto è fermo: una questione al di là del bene e del male, al di là della debolezza e della forza e al di là del femminile e del maschile (Sul tema, cfr. La lezione di Dante - e Nietzsche, oggi)!
Giusto: "Che la vicenda di Abrahams instilli in noi tecnici della salute mentale il dubbio. Il dubbio sul nostro sapere; il dubbio sull’uso che ne facciamo di questo sapere di fronte alla persona che incontriamo e che ci chiede aiuto. Il delicato e strano equilibrio di cui parlavamo prima è un equilibrio che dovrebbe farci oscillare e renderci consapevoli di questo esercizio di oscillazione: a tratti posso pendere dalla parte della tecnica, del come si fa; a tratti mi sarà necessario pendere dalla parte della soggettività che eccede la tecnica e, quindi, chiedermi non tanto come si fa a guarire questo disturbo ma chi è questo persona che ho di fronte e chi sono io per lei: appunto, l’enigma dell’intersoggettività.
Niente di magico e spirituale, anzi. Si tratta, per l’appunto, di un esercizio: fare pratica di pensiero debole direbbe il filosofo Pier Aldo RovattiPrendere distanza dalla tecnica, immergersi nella dimensione profondamente interpersonale dell’esperienza per costruire e ricostruire costantemente questa fragile sensazione di reciprocità con l’Altro" (G. D’Amico,cit.)! Ma per fare questo passo, al di là della vecchia antropologia, occorre portarsi "Sulla spiaggia" (1985), deporre le armi dialettiche della "intelligenza astuta" hegelo-lacaniana, e "mettersi in gioco, coraggiosamente", come ha sollecitato a fare e ha fatto Fachinelli ("La Mente estatica", 1989).
Federico La Sala (30.04.2021).
Grottesco fachinelliano
di Dario Borso (Sinistra in rete, 14 agosto 2020).
Appena laureatosi in Medicina a Pavia, Elvio Fachinelli si trasferì nel 1953 a Milano, dove lavorò per qualche anno come microbiologo in una grossa industria farmaceutica. Di sera, frequentava una compagnia così descritta quasi mezzo secolo dopo dal poeta Elio Pagliarani, allora giornalista del quotidiano socialista “L’Avanti!”:
In un dibattito riportato su “Il Tempo” del 19 dicembre 1976, Fachinelli aveva ironicamente specificato le dinamiche del gruppetto, dichiarando che nel 1955
E un appunto sparso datato 20 dicembre 1954 (il primo in assoluto conservatoci) fotografa la posizione di Fachinelli stesso, ironica e disincantata:
II. Entriamo nella seconda metà degli anni Cinquanta: nel mondo, crisi del modello sovietico dopo la morte di Stalin e rivolta d’Ungheria; in Italia, inizio del boom economico con Milano apripista. E nel nostro gruppetto di area socialista, due ali che si divaricheranno col tempo sempre più, per forma mentis ancor prima che per idee politiche: Fortini e Amodio da un lato, Pagliarani e Majorino dall’altro4.
Coetanei questi ultimi di Fachinelli, poeti d’avanguardia entrambi con interessi sociali preminenti: Majorino esordì nel 1959 per l’editore Arturo Schwarz con La capitale del Nord, un poemetto sulla Milano industriale5; Pagliarani si affermò nel 1960 su “Il Menabò” di Vittorini con La ragazza Carla, poemetto che ha a protagonista una dattilografa milanese.
Pagliarani aveva iniziato a comporlo nel 1954, e l’idea primigenia era stata di farne un soggetto cinematografico da presentare a Zavattini e De Sica6.
In quello stesso anno Fachinelli iniziò come inviato speciale al Festival di Venezia una collaborazione a “Cinema nuovo”, rivista di area marxista che si batteva per un rinnovamento critico del neorealismo; e sempre nel 1954 pubblicò sotto pseudonimo in vari settimanali racconti brevi di vita moderna che sono interpretabili a tutti gli effetti come soggetti cinematografici.
Interessante infine, sempre a proposito di Pagliarani, l’esergo dubitativo che l’autore pose alla riedizione mondadoriana del 1962 de La ragazza Carla e altre poesie:
L’amico è Fachinelli, e l’aneddoto è perfettamente in linea con quelli riportati qui in Grottesche, come il lettore avrà modo di constatare.
III. In effetti il 1962 fu un anno decisivo per Fachinelli: neospecializzato in neuropsichiatria, inizia a lavorare sotto la direzione di Gaddo Treves alla casa di cura “Villa Turro”. Enzo Morpurgo, psichiatra e psicanalista amico di entrambi, così descrive quel particolare rapporto lavorativo:
Quando Gaddo morì, troppo presto, di malattia cardiaca, Elvio gli dedicò un necrologio che cominciava con le parole: “A Gaddo Treves, mio ironico maestro”. Certamente l’ironia apparteneva più a Elvio, che era di temperamento controllato e distaccato, come si conviene a chi è ironico, che non a Gaddo che era passionale anche nella sua vis comica.7
Ad accomunare i due fu pure la passione per il cinema, che spinse il più anziano a partecipare come esperto in materia al telequiz “Lascia o raddoppia?” oltreché a recitare, diretto da De Sica, nel film del 1961 Il giudizio universale8.
Sempre nel 1962 Fachinelli inizia un’analisi didattica con lo psicanalista Cesare Musatti e in contemporanea traduce con la moglie Herma Trettl L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud9.
Aprendosi al campo psicanalitico, avrà certo incrociato o ripreso Psicopatologia della vita quotidiana e Il motto di spirito, due classici freudiani strettamente imparentati anche dal punto di vista formale, in quanto sono gli unici a presentare una serie nutrita di aneddoti gustosi - che in fondo è la struttura di Grottesche.
E un altro spunto può averlo fornito il Diario fenomenologico di Enzo Paci, uscito per Il Saggiatore verso la fine del 1961: ugualmente alieno da connotazioni strettamente private, rispetto al diario di Paci quello di Fachinelli, da cui provengono le Grottesche, si sarebbe tentati di chiamarlo un diario psicosociologico, nel cui primo quaderno a risaltare è il valore emblematico che singoli aneddoti assumono riguardo al passaggio epocale da una realtà agricola a una industriale - una fenomenologia del miracolo economico insomma, con un’attenzione particolare per le tensioni paradossali che esso immette nei costumi degli italiani10.
IV. Sta di fatto che a metà 1963 Fachinelli inizia a redigere il suo diario a spron battuto, tant’è che a fine 1964 ha già collezionato circa duecento annotazioni.
Come vedrà il lettore dalle mie note al testo, le annotazioni hanno tutte una rispondenza reale, si riferiscono cioè a fatti realmente accaduti.
Da ciò la ricerca di uno stile piano, zavattiniano potremmo dire, che si avvale di metariferimenti al margine sporadici ma precisi: Baudelaire (“Trouver la frénésie journalière”)11; Jules Renard (“La creazione vera, cioè povera”)12; Montaigne (“Je n’ay pas plus faict mon livre que mon livre m’a faict, livre consubstantiel à son autheur, d’une occupation propre, membre de ma vie”)13.
E decisivo comunque, come messa a punto stilistica, è un appunto sparso del 18 marzo 1964:
V. Il diario rallenta nel decennio 1965-74, ma non si arresta e anzi guadagna in qualità. Complice l’affinamento dell’approccio psicanalitico, la scelta dei fatti si orienta sul loro carattere paradossale, e ciò ha effetto sullo stile, che volge più decisamente all’aforisma, con una sensibilità particolare per la pointe.
Anche qui traspaiono abbastanza nette due sollecitazioni “estreme”, proprie cioè di territori estranei alla letteratura canonica: da una parte la frequentazione di raccolte kōan della tradizione zen, da cui Fachinelli trascrive lietamente sorpreso14; dall’altra la fonte inesauribile dell’infanzia.
Come noto, all’inizio degli anni Settanta Fachinelli fu tra gli animatori di un asilo nido autogestito, ma anche dopo fu sempre ricettivo agli echi che venivano dalla scuola primaria, come dimostra appunto una raccolta di temini delle elementari che comparve sul numero di marzo-aprile 1975 de “L’erba voglio” con titolo redazionale L’occhio storto - storto appunto, capace cioè di scoperchiare la realtà da un’angolatura eretica, come questi due “pensierini” di Lucia e Bernardo che riporto perché del tutto assonanti con gli aforismi di Grottesche:
Per tutti gli anni Ottanta infine prende corpo nel diario una vena epigrammatica spesso e volentieri caustica, che prende a bersaglio la figura dell’intellettuale in tempo di riflusso.
VI. Verso la fine del 1985 Fachinelli riprende in mano i quaderni del diario e inizia a trascrivere gli aforismi più significativi lì contenuti in un nuovo quaderno recante a titolo Grottesche. La scelta del titolo, a metà tra il letterale sostantivato delle decorazioni antico-romane e il metaforico aggettivato del genere letterario ottocentesco16, si capisce da sé; ma è interessante notare come nel corpus freudiano la categoria di grottesco, pur così imparentata con l’altra fondamentale di unheimlich, sia del tutto assente17.
Assai lunga, in ambito critico, la sfilza di sinonimi o limitrofi per circostanziarlo: il comico, il paradossale, il parodico, il caricaturale, il bizzarro, il macabro... o, a tentare una dinamica: quando il comico diviene inquietante, e il paradossale assurdo...
Ma vale forse restare all’instar omnium ovvero al dato bruto, riprendendo l’esempio segnalato da Pagliarani nel suo esergo: cosa rende grottesca la giovane impiegata? Prendere un sonnifero che la inchioda in catalessi al letto da sabato sera a lunedì mattina, ossia che annulla il tempo libero, di svago, del piacere. Grottesca è l’assenza totale del Lustprinzip, grottesco il dominio assoluto del principio di realtà, che riduce la ragazza a un automa. Il grottesco insomma è iperrealismo puro, realizzato (iperrealizzato, verrebbe da dire, se non rasentassimo così anche noi il grottesco), un raddoppiamento della realtà che è poi un altro modo per definire la ripetizione col suo Zwang.
Jean Paul, il primo e forse massimo teorico-pratico del grottesco, dette una definizione icastica del tema: “Antropoliti: uomini impietriti”18.
Ma per tornare a Fachinelli: che in questo senso andasse anch’egli, lo possiamo desumere dal fatto che la categoria di grottesco gli si presenta a metà anni Ottanta in contemporanea con l’altra di estatico19.
E pure questa seconda categoria fuoriesce dal dizionario freudiano, in direzione opposta al grottesco, quasi a formare due condizioni-limite dell’umano: da una parte l’iperrealtà orrida della pietra, dall’altra l’irrealtà sublime della brezza marina20.
RIVOLUZIONE COPERNICANA, IN ASTRONOMIA E IN FILOSOFIA, E "IL PENSIERO DEBOLE" E TRISTE, ANCORA ALLA RICERCA DI SE STESSO. Lasciamoci guidare da un’etica "minima"....
RICORDANDO LA LEZIONE DI ENZO PACI E RIPERCORRENDO CON LA MENTE LA SUA "PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE ITALIANA" ("Milano, 16 settembre 1968") ALL’OPERA DI EDMUND HUSSERL, "LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE E LA FENOMENOLOGIA TRASCENDENTALE", come in parte sollecita a fare Pier Aldo Rovatti (cfr. A. Gnoli, "Lasciamoci guidare da un’etica minima", "Straparlando", Robinson/la Repubblica, 24.10.2020, pp. 42-43), forse, per meglio comprendere il percorso fatto (dal "mitico" ’68) da molta parte della "filosofia" (italiana ed europea) è utile - oltre che storiograficamente significativo, esemplare - riprendere un "passaggio" della sua intervista:
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
AL DI LA’ DEL ’FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO’, UN ESERCIZIO DI PARRHESIA EVANGELICA : PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
"Kant, Freud, e la banalità del male. Note per una rilettura (2010)"
Federico La Sala
Straparlando
Gianni Vattimo
Ho rottamato il pensiero forte
di Antonio Gnoli (“Robinson - la Repubblica”, 28.12.2019) *
Ora che da un po’ ha superato gli ottant’ anni dice che non se li aspettava così. Dice che essendo stato un giovane brillante - per alcuni perfino un enfant prodige - che ha smosso le acque provinciali in cui di solito navighiamo, forse è un modo di pagare un conticino. A chi? Boh. Non lo sa. Dio e gli uomini hanno un modo strano di esercitare la giustizia: tu fai una cosa bella e ricevi un premio. Ne fai una brutta e paghi pegno.
Questo almeno in teoria. Ma quando sei vecchio, quando, diversamente da altri vecchi, senti il peso della materia che si disgrega, allora ti chiedi perché proprio a me? «Sai, ho fatto un sogno l’ altra notte», dice Gianni Vattimo. «Ho sognato che stavo giocando con la mia vecchiaia e che mi sentivo leggero. E bello come un tempo. Poi quando mi sono svegliato ho pensato: ma ero io quello? Ero proprio io? E se ero io che cazzo mi significava quel sogno?».
Partiamo se vuoi da questo interrogativo chi sei oggi?
«Non lo so, vorrei saperlo. Ci sono vari strati di me. Vari dolori. Alcuni lontani, altri recenti. I dolori raccontano la tua storia, la circoscrivono, a volte. Oppure l’ amplificano. E poi, ci sono i dolori della memoria e quelli del corpo».
Quali prevalgono in questo momento?
«Mi vedi, no? Faccio fatica a camminare. Quattro o cinque anni fa mi hanno diagnosticato un Parkinson. Allora che faccio? Provo a convivere con il signor Parkinson. Gli dico, beh vediamo di non farci troppo male. Io non dò fastidio a te e tu non ne dai a me. Poi scopro che quel signore lì è molto esigente. Paziente ma insidioso. Ti giuro che se fosse stato per me non l’ avrei mai invitato. Si è presentato senza neanche farsi annunciare, senza un biglietto da visita, senza un mazzo di fiori. Capisci?»
Capisco. Però siamo qui, nella tua casa, mentre parliamo e mangiamo quello che è stato apparecchiato a tavola. E non mi sembri così malandato.
«Non lo sono, è vero. Ti piace il risotto?».
Mi piace il risotto. Ma mi piacciono anche altre cose di te.
«Cosa ti piace? Scusa la curiosità».
Beh alcune cose che hai scritto sono state importanti per questo paese. Hai sdoganato Heidegger, ti sei inventato il "pensiero debole", e non hai mai tromboneggiato da accademico.
«Sai è stata la scuola di Luigi Pareyson da cui provengo a formarmi. Rigorosa ma anche molto appartata. Lo scelsi perché era il professore più giovane della facoltà. Esistenzialista e cattolico.
Amico di Karl Jaspers. Io, allora, ero sedotto da Adorno. Dai tedeschi che erano usciti dalla guerra.
Ma se lei vuole studiarli veramente si dedichi a Nietzsche, mi disse Pareyson. Era un personaggio complicato. Bisogna farsi le ossa con i maestri e poi lasciarli andare. Se non lo fai finisci nella gabbia».
Eri molto brillante?
«Credo di sì. Provengo da una famiglia dignitosa ma povera. Padre carabiniere. Madre sartina. Ho frequentato l’ Azione Cattolica. Posso dire che all’ università ero decisamente brillante».
Il tuo cattolicesimo ha conosciuto alti e bassi. Ora dove si colloca?
«Non lo so, onestamente non saprei collocarlo. Adoro questo papa che mi pare sia rimasto il solo anticapitalista in circolazione. Qualche tempo fa gli ho fatto avere il mio ultimo libro Essere e dintorni nella speranza che lo leggesse. Ci sono, infatti, diverse considerazioni sul cristianesimo».
E Francesco l’ ha letto?
«Letto non lo so, certo lo ha sfogliato. Tramite un amico comune, un argentino, Luis Liberman, gli è arrivato il libro. Mi ha telefonato per ringraziarmi del dono. E io gli ho spiegato che era un libro su Heidegger».
La tua ossessione.
«Bisogna pur vivere di qualche passione intellettuale. E poi come lui ha detto: soltanto un Dio ci può salvare».
Ma questo Dio dove lo andiamo a cercare?
«Certo non nelle costruzioni metafisiche e neppure in quelle mitologiche. Dio non può essere ispirato da ragioni teoretiche».
Tu hai scritto che "Essere e Tempo" - l’ opera più importante del primo Heidegger - rispondeva a una domanda storica e non a una esigenza astratta e universale. A questo pensi?
«L’ essere di cui parla Heidegger non è quello di cui discute la metafisica. È l’ evento. Dire evento significa che qualcosa accade. Dove? Nel linguaggio, nella storia, nel mondo. Dell’ evento non puoi dare una spiegazione scientifica, oggettiva. La nascita di Gesù non è dimostrabile. Eppure è un evento che accade nella storia ed è all’ origine della cristianità. Io mi sento tanto cristiano quanto heideggeriano. E tutto questo non ha niente a che vedere con la verità oggettiva. Per cui l’ unica ragione che mi consente di chiamarmi cristiano è perché non credo nell’ oggettività delle cose, non credo, come non crede Heidegger, nella metafisica».
Secondo te papa Francesco ha chiaro in testa questo tuo ragionamento?
«Non lo so e non lo pretendo. Però so che lui ha rimesso la Chiesa al centro di una discussione profonda. Mica facile, perché un corpaccione bimillenario non lo sposti facilmente. Le resistenze che il suo magistero incontra sono pazzesche».
È in corso un forte scontro religioso in seno allo stesso cristianesimo.
«C’ è una posta in gioco altissima. Né la scienza né la filosofia tout court sono in grado di vincere il piatto. Penso che Heidegger fosse consapevole di questo quando nella meditazione degli ultimi anni in maniera drammatica non vedeva soluzione umana al problema della desertificazione del mondo».
E affidava la salvezza a un Dio?
«Proprio così, nella direzione indicata da Lutero, e prima ancora da Paolo, per cui non sono le nostre opere che ci salveranno ma la grazia di Dio».
In questo modo viene meno la responsabilità dell’ atto umano. Puoi essere nazista o decidere di bruciare l’ Amazzonia tanto non dipende dalle tue opere la salvezza.
«Ma è proprio perché ti salvi che le tue opere avranno un senso tutt’ altro che nichilista. Siamo irresponsabili nella misura in cui saremo costretti a restare inautentici. E inautentico è il nostro mondo dominato dalla metafisica, dall’ oggettivazione, dal calcolo, dall’ utilitarismo, dalla tecnologia che tutto divora. Ci sarà un nuovo inizio? È ciò che Heidegger spera, ma non dipenderà dalla decisione dell’ uomo. Del resto, cose in parte analoghe le pensava Wittgenstein, almeno il Wittgenstein che si ribella a Russell e al pensiero anglosassone».
Ci sono due Heidegger come pure due Wittgenstein.
«Mi sono occupato della "svolta" di entrambi. Però Ludwig era certamente più tormentato. La frequentazione dei suoi amici analitici non lo aiutava. Era credente, frocio e pieno di sensi di colpa. Quando cede tutti i suoi beni alle sorelle lo fa anche perché ribolle di turbe mentali».
Tu hai mai avuto sensi di colpa?
«Ma sì, ogni volta che ti scompare una persona che ti è cara ti chiedi cosa hai fatto per essa. E perché gli sopravvivi».
Pensi a qualcuno in particolare?
«Penso ai miei due compagni di vita. Giampiero morto tragicamente di Aids e Sergio per un cancro ai polmoni. Sono stati rapporti bellissimi, importanti. Sergio morì in volo, tornavamo dagli Stati Uniti, aveva espresso il desiderio di vedere il museo di San Francisco. Spirò tra New York e Francoforte. È buffo andarsene mentre sei su un aereo e ho pensato che il cielo in quel caso era la via più breve per il paradiso. Mi chiedevi dei sensi di colpa».
Sì.
«Ho paura di essere diventato un po’ cinico. Se mi raccontano una sciagura il primo impulso è di pensare sì vabbè ma allora io, io che ne ho viste e passate di molto peggio che dovrei dire?».
Ti infastidisce la gente che si lamenta?
«Ma no, la sto ad ascoltare. Però loro che ne sanno della mia stanchezza, della mia vecchiaia che mi ha sorpreso come un ladro nella notte».
Ti viene mai il dubbio che come filosofo avresti potuto dare di più?
«Credo di aver smantellato, decostruito, rottamato buona parte del pensiero forte. Sulla scorta di Nietzsche e di Heidegger mi sono preso la briga di porre un freno alla filosofia come etica del dominio».
Eppure proprio Nietzsche con il superuomo e Heidegger con l’ adesione al nazismo hanno facilitato quel dominio.
«Ma il superuomo di Nietzsche non è volontà di potenza è l’ oltreuomo che libera se stesso e l’ Heidegger nazista si riduce a qualche frase di adesione allo spirito del tempo».
Non sei un po’ riduttivo?
«La giro in un altro modo: se li vuoi trattare come due fanatici sanguinari allora brucia pure le loro opere. Ma è questo che vogliamo? Ho trascorso dei lunghi periodi in Germania, lavorato con Gadamer, penso che la filosofia sia un’ esperienza ermeneutica. Non c’ è verità che non sia interpretazione».
Cosa vuoi dire?
«Che la verità è legata al linguaggio. E che non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Prima accennavi a Pareyson e alla sua scuola.
«Fui fortunato. Venimmo da lì io e Umberto Eco e poco dopo si aggiunsero Mario Perniola e Sergio Givone».
Però ognuno per la sua strada.
«Avevamo la libertà di scegliere. Con Umberto siamo restati amici. Facemmo insieme il concorso in Rai. Ci siamo frequentati fino all’ ultimo. Non so però se l’ ho davvero conosciuto. Per certi versi era imperscrutabile. Io non gli avevo mai rivelato le mie tendenze sessuali. Però una volta ebbi l’ impressione che mi prendesse in giro. Siccome ero con un amico mi disse, forse scherzando, ma allora ti sei deciso. Fu l’ unica volta che sfiorò l’ argomento. Dietro la sua grande estroversione c’ era molto riserbo».
Dovuto a cosa?
«Aveva orrore di dover parlare di sé. Credo che tutta la sua verve barzellettistica discendesse da questa cesura: il comico che uccide o rimuove una parte della vita. Del resto si può leggere perfino Il nome della rosa in questa chiave».
Hai mai avuto la tentazione del romanzo.
«Mi piace leggerli non scriverli».
Meglio la filosofia?
«Chi può dirlo? Se lo chiedi a uno scrittore ti ride dietro».
E tu?
«Non ho messo la mia vita nelle mani della filosofia. Semmai ho messo un po’ di filosofia nella mia vita. Sono obliquo come il volo degli uccelli».
Dove ti vorresti posare con il pensiero?
«Mi piacerebbe scrivere su cristianesimo e heideggerismo. Ho pensato di cominciare con una frase: se non fossi heideggeriano non sarei cristiano, e se non fossi stato cristiano non sarei stato heideggeriano. Ma ogni tanto mi vengono dei dubbi sull’ utilità di un discorso del genere».
Perché?
«A parte il peso o la fatica dell’ argomentazione, a chi interesserebbe? A volte mi metto davanti al computer e sto lì fisso, come un babbeo. La mia vita è fatta ormai di pause. Un sogno ce l’ ho».
Quale?
«Che la mia opera, per quel tanto o poco che vale, non vada dispersa».
PSICOANALISI, POLITICA, E SOCIETA’. "PADRI", "FIGLI", E QUESTIONE ANTROPOLOGICA - "EDIPICA"...*
I giovani infelici
di Pier Paolo Pasolini ("primi giorni del 1975")*
Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.
Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.
È il coro - un coro democratico - che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.
Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.
Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. Senza scampo, perché i figli non solo sono nati, non solo sono cresciuti, ma sono giunti all’età della ragione e il loro destino, quindi, comincia a essere ineluttabilmente quello che deve essere, rendendoli adulti.
Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine - cioè oggi, primi giorni del ’75 - il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore, che, appunto, non da luogo a «odio» ma a «condanna».
Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa che resta al di qua del verbale: manifestandosi irrazionalmente, nell’esistere, nel «provare sentimenti». Ora, poiché io - padre ideale - padre storico - condanno i figli, è naturale che, di conseguenza, accetti, in qualche modo l’idea della loro punizione.
Per la prima volta in vita mia, riesco così a liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile, astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce come naturale la «punizione dei figli».
Solo che il coro, dotato di tanta immemore, e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la «colpa dei padri».
Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo; ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine.
La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove - nuove senza equivalenti possibili nel passato?
Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto, credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di conformistico e troppo logico - cioè di non-storico - nell’identificare in questo la colpa.
Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» - seguito dal loro ricatto - a quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch’io ho diritto alla vita - perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre per me la vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli, ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.
I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.
Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, ne forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto al loro coetanei di dieci o vent’anni prima, ma non abbastanza. L’integrazione non è un problema morale, la rivolta si e codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamente contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti - sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita - a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio - dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l’essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.
Certo: i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci o vent’anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?
Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti»: «puniti», intanto, dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il nostro sentimento, insopprimibile).
Ma sono figli «puniti» per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. È giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda, senza risposta, del motivo dominante del teatro greco.
Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione - che pareva cosi ciecamente irrazionale e crudele - del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati - in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano - dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.
Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri.
È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una cosi atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana. E questi padri siamo noi. Cosa che ci sembra incredibile.
Come ho già accennato, intanto, dobbiamo liberarci dall’idea che tale colpa si identifichi col fascismo vecchio e nuovo, cioè coll’effettivo potere capitalistico. I figli che vengono oggi cosi crudelmente puniti dal loro modo di essere (e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile), sono anche figli di antifascisti e di comunisti.
Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino oggi, con inconscio razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi.
La storia era la loro storia.
Il popolo, secondo noi, aveva una sua storia a parte, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l’antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri.
Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo.
Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo.
Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello «sviluppo». Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario - per la prima volta veramente totalitario - anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività).
La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di non antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberarti della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti «i nostri fratelli cretini», come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione - tanto più colpevole quanto più inconsapevole - della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo.
Perché tale complicità col vecchio fascismo e perché tale accettazione del nuovo fascismo?
Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.
In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
* Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Roma 1991, 5-12.
*SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FACHINELLI, PASOLINI E IL LORO DIALOGO IN-INTERROTTO ... (Alfabeta 2, 28.06.2018)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER: VITA E FILOSOFIA. IL PROBLEMA DELLA NASCITA... *
Arendt, sempre al di là del dove, e ora stretta in una striscia
Questioni tedesche/Graphic. Dall’infanzia prussiana, all’università con Strauss, Löwith, Marcuse, Lévinas, alla bohème berlinese, all’esilio parigino, a N.Y. «Le tre fughe di Hannah Arendt» di Krim Krimstein, da Guanda
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, Alias Domenica, 13.10.2019)
Nell’opinione comune, i filosofi sono gente reclusa in studi foderati di libri e priva, in sostanza, di biografia e accessi al mondo. Fu Hannah Arendt, per esempio a citare una frase di Heidegger su Aristotele, secondo cui lo stagirita «visse, lavorò e morì». L’immagine del filosofo come essere estraneo alla vita e alla realtà è stata formata nell’Ottocento da un libretto divertente e maligno di Thomas de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, in cui il gran saggio è mostrato come un vecchio un po’ rimbambito che vaga per le vie di Königsberg e si sbrodola a tavola.
In realtà, un buon numero di pensatori ebbe una vita turbolenta e attiva. Pitagora esaltava le pratiche sportive e Platone, oltre che essere esperto di lotta, tentò a più riprese di influenzare il governo di Siracusa, per essere infine venduto come schiavo dal vendicativo tiranno Dionisio il vecchio, con cui era entrato in conflitto. Quanto a Cartesio, si sa che prima di chiudersi in una capanna a meditare sul cogito era stato soldato nella guerra dei trent’anni. E non parliamo di Leibniz, matematico, diplomatico ed esperto di miniere, o di Voltaire che corrispondeva con i principi di tutta Europa e interveniva pubblicamente contro la tortura e la pena di morte.
La rinuncia alla filosofia
È forse pensando alla leggenda grigia dei filosofi maldestri e appartati che il cartoonist Krim Krimstein ha dedicato una storia a fumetti o graphic novel a Hannah Arendt, la filosofa che meno corrisponde all’immagine del pensiero solitario ed estraneo al mondo. In Le tre fughe di Hannah Arendt. La tirannia della verità (traduzione di Antonella Bisogno, Guanda, pp. 233, e 20,00) Krimstein realizza il singolare tentativo di fondere la biografia di Arendt con il suo pensiero. L’aspetto più interessante in questa vicenda è l’estraneità di Arendt alla filosofia in senso stretto. Come si legge nel prologo («Umano troppo umano. Introduzione a una vita»): «Come mai questa persona, probabilmente la più grande filosofa del ventesimo secolo, ha rinunciato alla filosofia, e, nonostante questo, il suo pensiero rimane per l’umanità una via praticabile per progredire?».
La domanda rimane senza risposta, nel romanzo a fumetti, e non poteva essere diversamente. Dagli anni Ottanta in poi, la critica, in centinaia di libri e saggi, si è sbizzarrita sulla questione, cercando la soluzione nel tormentato romance di Arendt con Heidegger, il filosofo che cedette al nazismo, nell’incapacità della filosofia contemporanea di pensare la politica e, spiegazione che mi sembra la più ragionevole, in una personalità poliedrica, che cercava la spiegazione dei problemi che la assillavano nella filosofia, certamente, ma anche nella teoria politica, nella storia, nella letteratura e nella poesia. Più che rinunciare alla filosofia, come certamente la stessa Arendt ha affermato, si può dire che la nostra filosofa si sentiva stretta nella galleria soffocante di pensatori accademici, che pure aveva frequentato e variamente apprezzato, da Husserl a Jaspers e allo stesso Heidegger.
Krimstein riversa in immagini la storia di questo personaggio eccentrico, sempre al di là di dove si cerca di fissarla: ebrea, ma affascinata dal pensiero cristiano, allieva dei tre massimi pensatori di area tedesca, ma soprattutto affine al cugino acquisito Walter Benjamin, l’irregolare per eccellenza, attratta dalla dimensione della politica, ma impossibile da classificare in uno schieramento (anarchica e per certi versi tradizionalista, aristocratica e profondamente democratica, sionista in gioventù e critica di Israele e così via).
Tutta questa complessità, d’altronde era giù iscritta nella biografia, che la vede intellettuale a Berlino e studentessa di filosofia a Marburg, perseguitata dai nazisti e fuggiasca in Francia, esule negli Stati Uniti, accademica onorata e infine rigettata dagli intellettuali ebrei e ignorata dagli amici per avere scritto in modo non convenzionale e assai penetrante del processo a Eichmann nel 1961.
Pensatrice fuggiasca per definizione, può Arendt essere inquadrata in modo appropriato da un romanzo a fumetti? Come può il suo pensiero paradossale, ovvero la supremazia dell’azione rispetto al pensiero, che appare nelle sue opere fondamentali (Vita activa e La vita della mente), essere tradotto in vignette?
Krimstein sceglie di privilegiare la biografia rispetto alla teoria, come è inevitabile. E così ci scorrono davanti le immagini dell’infanzia in Prussia, dell’università - in cui frequentò compagni destinati a diventare famosi (Leo Strauss, Karl Löwith, Herbert Marcuse, Emmanuel Lévinas), della bohème berlinese, dell’esilio parigino, della vita intellettuale di New York e infine della solitudine che precedette la morte. Ecco allora che, attraverso la vita di questa filosofa per certi versi inafferrabile, un pezzo di Novecento, con le sue tragedie immani e le sue illusioni scorre davanti agli occhi (si spera) di gente giovane, curiosa e insoddisfatta delle categorie e dei pregiudizi dell’opinione corrente.
Tra le lenzuola di Heidegger
Resta, nell’operazione di Krimstein, qualcosa che probabilmente Arendt non avrebbe troppo apprezzato, e cioè il rilievo eccessivo attribuito alla sua vita intima e sentimentale. Se c’è un aspetto sul quale Arendt rompe con quasi tutta la filosofia del Novecento è la sua critica radicale dell’interiorità. In Vita activa, appare quasi un gesto di disprezzo nei confronti di una certa filosofia, che pretende di chiudersi nella contemplazione della vita soggettiva e dell’anima, invece che del mondo. In questo Arendt si distacca radicalmente dalla fenomenologia e dal suo amato Agostino (Noli foras ire! In interiore homine habitat veritas). Forse Krimstein avrebbe dovuto rammentarlo mentre si accingeva a disegnare Arendt e Heidegger che si scambiano effusioni a letto discettando di morte e verità...
Ma non dovremmo fargliene una colpa. A un periodo di critica, giusta o sbagliata, aspra o apologetica, del pensiero di Arendt è seguita una serie di libri che, in nome della verità biografica, si soffermano sulla sua relazione con Heidegger, ai limiti del gossip filosofico. È mettendo da parte questo genere letterario francamente scadente che il discorso su Arendt può ripartire.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LA VITA DELLA MENTE. Conclusioni" (H. ARENDT): AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO"
"NICODEMO O DELLA NASCITA": LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
VITA E FILOSOFIA: METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
VERSO IL "PARADISO TERRESTRE" (DANTE, 2021):
DALLA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA ALLA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA. Al di là della Trintà edipica....*
Trinità, il mistero che abita dentro noi
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 13 giugno 2019)
Memoria emozionante della Trinità, dove il racconto di Dio diventa racconto dell’uomo. Dio non è in se stesso solitudine: esistere è coesistere, per Dio prima, e poi anche per l’essere umano. Vivere è convivere, nei cieli prima, e poi sulla terra. I dogmi allora fioriscono in un concentrato d’indicazioni vitali, di sapienza del vivere. Quando Gesù ha raccontato il mistero di Dio, ha scelto nomi di casa, di famiglia: abbà, padre... figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito, ruhà, è un termine che avvolge e lega insieme ogni cosa come libero respiro di Dio, e mi assicura che ogni vita prende a respirare bene, allarga le sue ali, vive quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata da altre vite. Abbà, Figlio e Spirito ci consegnano il segreto per ritornare pienamente umani: in principio a tutto c’è un legame, ed è un legame d’amore.
Allora capisco che il grande progetto della Genesi: «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza», significa «facciamolo a immagine della Trinità», a immagine di un legame d’amore, a somiglianza della comunione. La Trinità non è una dottrina esterna, è al di qua, è dentro, non al di là di me. Allora spirituale e reale coincidono, verità ed esistenza corrispondono. E questo mi regala un senso di armoniosa pace, di radice santa che unifica e fa respirare tutto ciò che vive.
In principio c’è la relazione (G. Bachelard). «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà... parlerà... dirà... prenderà... annunzierà». Gesù impiega tutti verbi al futuro, a indicare l’energia di una strada che si apre, orizzonti inesplorati, un trascinamento in avanti della storia. Vi guiderà alla verità tutta intera: la verità è in-finita, «interminati spazi» (Leopardi), l’interezza della vita. E allora su questo sterminato esercito umano di incompiuti, di fragili, di incompresi, di innamorati delusi, di licenziati all’improvviso, di migranti in fuga, di sognatori che siamo noi, di questa immensa carovana, incamminata verso la vita, fa parte Uno che ci guida e che conosce la strada. Conosce anche le ferite interiori, che esistono in tutti e per sempre, e insegna a costruirci sopra anziché a nasconderle, perché possono marcire o fiorire, seppellire la persona o spingerla in avanti.
La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nell’umanità di Gesù, volto del Padre, respiro dello Spirito: una sapienza sulla nascita e sulla morte, sulla vita e sugli affetti, su me e sugli altri, sul dolore e sulla infinita pazienza di ricominciare, che ci viene consegnata come un presente, inciso di fessure, di feritoie di futuro.
(Letture: Proverbi 8,22-31; Salmo 8; Romani 5,1-5; Giovanni 16,12-15)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI. --- "DOPO DEWEY"! MARGINI della filosofia (Jacques Derrida).
MARGINI della filosofia. Intervento libero. In memoria di Jacques Derrida...
Siccome orientarsi nell’infinito è un problema meta-fisico e costituzionale, e - dopo Kant e la sua "rivoluzione copernicana" - non sappiamo ancora distinguere "dewey"anamente tra "prima di Cristo" e "dopo Cristo", tra Tolomeo e Copernico, tra il tutto e la parte, tra antropologia e andrologia - e ginecologia, tra Italia e "Italia", tra Costituzione e Partito, tra forza Italia e "Forza Italia", mi è sembrato opportuno fornire un piccolo banale (comune!) elemento per uscire dal sonnambulismo e dalla confusione! Siamo o non siamo "Dopo Dewey" !? O no?!
P. S. - SUL TEMA, MI SIA CONSENTITO, SI CFR.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
Filosofia.
Jullien: Vivere di coincidenze? Questo è il dilemma...
In “L’identità culturale non esiste” mostra che proprio quando non ci si chiude in se stessi si va avanti: e per farlo serve fare spazio alla “de-coincidenza” Cioè mettersi in gioco
di Simone Paliaga (Avvenire, sabato 18 maggio 2019)
«Per far accadere costantemente il nuovo è necessario distaccarsi dallo stato anteriore, desolidarizzare rispetto alla sua coerenza, e non perpetuarla. Vivere è de-coincidere’ scrive François Jullien, il filosofo e sinologo francese, che in Il gioco dell’esistenza. De-coincidenza e libertà (Feltrinelli, pagine 128, euro 15) affronta un argomento cruciale. «Se de-coincidere - annota il filosofo - implica l’uscire dall’adeguamento a un sé, dal proprio adattamento a un mondo allora significa propriamente esistere ». La de-coincidenza crea così un gap fertile, una lacuna in cui la vita spazia, si completa e si rinnova. Ecco che per Jullien la più alta definizione di vita non è rappresentata dalla coincidenza con se stessa come spesso si crede. E lo stesso avviene per la coscienza che viene a essere solo grazie a uno scarto, a de-coincidenza.
È il divario tra la mente e il mondo che consente alla coscienza di esprimersi. Questo è così naturale che spesso viene dimenticato. Senza questo spostamento, l’uomo sarebbe trasparente, permeabile al mondo esterno e agli altri. La de-coincidenza è la rottura con se stessi e con il mondo, è il disadattamento che si apre sull’inalienabile ambiguità dell’esistenza. Crea disagio, dunque, perché ci posiziona all’esterno e ci lascia orfani di ogni attaccamento, stabilità e sicurezza. Così, nel momento di un tanto atteso risultato raggiunto, uno si sente già spinto fuori da esso, di nuovo insoddisfatto, pronto a uno slancio per rinnovare la vita. Tuttavia la de-coincidenza è considerata negativa, un allontanamento da un’assoluta armonia con se stessi e con il mondo, come un tempo auspicavano gli stoici.
Perciò François Jullien sfida disegni convenzionali e inverte la gerarchia che ha a lungo dominato la filosofia: il primato della coincidenza sulla de-coincidenza, dello stabile sull’accadere, del razionale sul fortuito. Ma se fosse invece la coincidenza a essere negativa perché immobile e senza via d’uscita? E se il de-coincidere fosse la condizione necessaria della coscienza, dell’esistenza, dell’arte e di tutto ciò che è giusto per l’umano?
La coincidenza è l’adeguatezza, certo, ma è anche la paralisi, la conformità, l’impasse: la morte di ogni iniziativa e di ogni accenno di cambiamento. Sotto la sua ombra c’è saturazione, ma ma nella saturazione si genera un malessere che proietta al di fuori dell’adattamento. Per Jullien già Lucrezio era in grado di discernere un vuoto, una minima de-coincidenza nella caduta degli atomi. Solo lo scarto dalla traiettoria predefinita permette a loro di scontrarsi, invece di cadere per sempre, coincidere e iniziare una nuova aggregazione. Uno scarto vitale non solo per le esistenze individuali ma anche per quelle collettive.
Jullien lo dimostra in L’identità culturale non esiste (Einaudi, pagine 96, euro 12) dove avverte come lo scarto da sé stesse permette di non isolarsi, come accadrebbe parlando di differenza, ma le mantiene «una di fronte all’altra promuovendo un terreno comune». Pertanto, nell’individuale come nel collettivo, per Jullien «in principio era la De-coincidenza», la sola a portare a eterne ricombinazioni, come tanti tentativi di creazione, senza piani prestabiliti o a priori immutabili.
Jullien fa leva qui sull’etimologia. Esistere da ex-sistere, tenersi fuori. L’esistenza già dal nome appare l’opposto dell’aderenza al mondo e alla sua logica. È distinguendo che l’umano diventa consapevole, perché la coscienza accade «tramite un’operazione di uscita dall’adeguamento ». Se facciamo caso alla vita di tutti i giorni cerchiamo spesso di de- coincidere per vivere meglio: fare un viaggio per fuggire dal solito ambiente, per cambiare rituali e abitudini, per allontanarsi da una situazione compiendo magari un passo indietro.
Porre la de-coincidenza al principio della vita significa squadernare una nuova etica lontana da una morale che cerchi di irretire in schemi prestabiliti. «Quella che ci serve - scrive Jullien - è un’etica che non sia rinuncia ascetica alla vita ma che, invece, sia in grado di dispiegare la vita in esistenza». Adottare questa etica significa abbandonare l’idea di un sé stabile e immutabile. Perché stagnare in un sé prevedibile, senza essere malleabile al cambiamento e quindi al miglioramento, equivale a perdere la vita.
«La “follia della Croce” - continua il sinologo e filosofo francese - opposta alla sophia dei greci in quanto, come dice Giovanni, “chi vuole salvare la propria vita” - chi vuole coincidere con essa e aderirvi - “la perde”». La valenza de-coincidente della Parola di Cristo emerge proprio dal quarto Vangelo come François Jullien fa emergere in particolare in Risorse del cristianesimo (Ponte alle Grazie, pagine 118, euro 14). In questa riflessione lo studioso francese, «senza passare per la via della fede», mette in risalto come «la de-coincidenza propria della vita sia al cuore dell’insegnamento di Gesù secondo Giovanni». «Gesù non apre un’altra via, non apporta un altro insegnamento - ricorda Jullien - bensì insegna a passare dall’aderenza con l’essere- in-vita a ciò che fa in modo che la vita sia vita».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI. Una nota di Federico La Sala
AL DI LA’ DEL ’FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO’, UN ESERCIZIO DI PARRHESIA EVANGELICA: PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
Federico La Sala
Meditare la vita
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 Febbraio 2019)
Nonostante sia “mushotoku” ossia, secondo la definizione Zen, senza scopo né spirito di profitto, si parla spesso della meditazione a partire dai (molti) benefici psicofisici che è in grado di produrre in chi vi si dedica con una certa continuità; tuttavia tale approccio rischia di tradire il senso originario e decisamente più profondo di questa pratica che, come spiega con una prosa ispiratissima e a tratti poetica Chandra Livia Candiani, consiste piuttosto nel fare i conti con se stessi per provare, e non necessariamente imparare, a stare con quel che c’è:
Si tratta di un passo molto denso, sul quale vale la pena di meditare, che prende immediatamente le distanze da un uso strumentale della meditazione che è piuttosto presentata come un vero e proprio stile di vita, una postura grazie alla quale, zittendo il brusio del pensiero e delle sue rendicontazioni, ripristinare una certa intimità con il mondo.
Meditare, come scriveva infatti María Zambrano, “è riconquistare il sentire originario delle cose, del paesaggio, della gente, degli uomini e dei popoli, il sentire della realtà immediata che apre la realtà del mondo” (Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 87).
Non si pensi che questo significhi accedere a una dimensione straordinaria: si tratta piuttosto di apprendere a prestare attenzione a quelli che Chandra chiama “i miracoli del noto, del così già tanto visto che lo si dà per scontato.” Riuscendo a fare “spazio intorno a quei gesti tanto ordinari”, la meditazione “li fa brillare e permette che aprano un varco nell’oscurità in cui si solito viviamo, nel nostro quotidiano sonno. Allora pian piano si ricevono le visite di quella consapevolezza” (p. 19) che si rivela una “forma di amore” (p. 40), una premura e un’attenzione realmente maieutiche perché capaci di facilitare la fioritura di ciò di cui si prendono amorevolmente cura, rivelandosi capaci, prosegue idealmente Zambrano, di chiamarle “non solo a rivelarsi, ma a divenire, a divenire presenti» (M. Zambrano, L’uomo e il divino, Ed. Il lavoro, Roma, 2009, p. 246), a farsi vive, direbbe, altrove, Chandra.
Che vuol dire che questa particolare forma di «intimità» con ciò che accade, in noi e fuori di noi, è «impersonale»? Significa che essa non pone più l’io al centro della propria narrazione ma il Sé, ossia, come spiegava Jung, qualcosa che “anche noi siamo”. L’esperienza che ne consegue non è affatto spersonalizzante, essa chiama anzi in causa l’intero psichismo dell’individuo, ma si dà in virtù di quella che la psicoanalista Marion Milner definiva “una resa creativa” dell’ego, (M. Milner, Una vita tutta per sé, Moretti &Vitali, 2013, pp. 207, 12 euro) grazie alla quale il soggetto smette di girare attorno al proprio ombellico, a parlare sempre di sé, per provare piuttosto a essere davvero presente a sé e a osservarsi. Scrive Chandra:
Una forma di meditazione zen invita a prendere coscienza dei propri pensieri e stati d’animo, a riconoscerli con chiarezza, a etichettarli con una definizione chiara (ad esempio “ansia”) e poi a dirsi, mentalmente, “non io”. Non siamo di fronte ad un invito alla negazione, tutt’altro, bisogna avere piena coscienza degli stati d’animo che ci attraversano, ma occorre imparare a non identificarsi con essi, ad esercitare quello che il buddismo chiama, “non attaccamento”. Questa capacità che “consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto”, spiega Simone Weil, si chiama “attenzione” (Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, 2008, pp. 197) che a sua volta - come Chandra la consapevolezza e Zambrano il sapere filosofico - considera una forma d’amore.
Allo stesso modo, il pensiero non è affatto svilito nelle sue funzioni, al contrario; proprio perché non ha coperto le emozioni, sostituendosi ad esse, può rielaborarle e contribuire a chiarirne il senso, il significato, la portata, dando vita a quello che lo psicoanalista Thomas H. Ogden chiama “pensiero trasformativo”. Siamo di fronte ad un pensiero che segna “il passaggio da una mentalità basata sull’evacuazione dell’esperienza emotiva disturbante, non mentalizzata, a una mentalità in cui si prova a sognare/pensare la propria esperienza e, più avanti, il passaggio dalla conoscenza della realtà della propria esperienza, al divenire la verità della propria esperienza” (Thomas H. Ogden, Vite non vissute. Esperienza in psicoanalisi, Raffaello Cortina editore, 2016, p. 27).
Si capisce qui come quella sospensione del pensiero come atteggiamento giudicante o anche solo intellettualizzante che Chandra scorge al centro della meditazione e che, ancora una volta sotto altre forme, sta anche al cuore dell’analisi (“prego astenersi da giudizi” a vantaggio delle “libere associazioni”), non abbia nulla a che vedere con la condanna del pensiero, ma costituisca piuttosto un metodo per valorizzarlo appieno, imparando innanzitutto a prendere posizione sulle sue prese di posizione, permettendoci di comprendere come, spesso, gli schemi abituali attraverso i quali organizza la nostra esperienza non siano gli unici possibili.
Per questa ragione, lo psicoanalista Christopher Bollas si spinge ad affermare che “la psicoanalisi è una forma speciale di pratica meditativa che permette agli assiomi del sé di emergere” (C. Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, 2013, p. 106). Nonostante si tratti di due percorsi di consapevolezza evidentemente differenti, è possibile scorgere tra loro alcune suggestive analogie che vorrei qui indicare: entrambi invitano a liberarsi dalle idealizzazioni per imparare ad essere se stessi e a stare con quel che (si) è, cosicché ciò che Chandra dice dell’esperienza della meditazione, vale senz’altro anche per quella della psicoanalisi: “non mi chiede di essere esemplare, non mi chiede di essere eroica, non mi chiede di tendere a niente di ideale, non cancella, non acuisce, sta. Con me. [mi permette di] Imparare a stare” (p. 4).
Non solo, dunque, non si tratta di percorsi per uscire dalla condizione che ci preoccupa ma, semmai, per imparare, come direbbe Hegel, “a soggiornarci, a guardarla faccia in ogni suo farsi,” (G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Bompiani, Torino, 2000, p. 87.) al tempo stesso non per accettarla e rassegnarsi ad essa ma, come spiega bene Chandra, per accoglierla (p.75) e solo dopo averla accolta, poterla rielaborare, sino a cambiarle di segno e di significato.
Certo è possibile che si abbia l’impressione che simili svolte, le stesse che sottolinea Ogden, avvengano all’improvviso, come a seguito di un insight particolarmente fecondo; tuttavia esse sono piuttosto il frutto di una pratica costante che nel tempo ci ha esercitato a stare, ad ascoltare, a comprendere e poi, grazie a questi passi, a concepire e vivere diversamente, ciò che ci faceva problema; non solo a inquadrarlo da un altro punto di vista, ma anche a porci diversamente rispetto ad esso.
Ma non si tratta di scoprire una verità profonda sull’esistenza, che si svela dietro le apparenze che la nascondevano, quanto, piuttosto, di sviluppare la possibilità di sperimentare, concepire e poi restare fedele, a una diversa maniera di vivere, di sentire, di concepire se stessi, il mondo e l’esistenza tutta. Una fedeltà che sarà stimolata da un senso di consonanza con ciò che nell’esercizio di queste pratiche sarà stato percepito come maggiormente autentico e significativo rispetto ai precedenti e abituali schemi di recettività e di elaborazione dei nostri pensieri e delle nostre emozioni.
L’irriducibilità di questo processo a uno schema impersonale - nel senso, questa volta, di valido per tutti, indipendentemente dalle specificità di ciascuno -, sottolinea come tanto la meditazione, quanto la psicoanalisi nelle sue diverse forme, non siano tecniche ma arti (Chandra, p. 59): le prime indicano procedure valide in se stesse che, se correttamente applicate, conducono necessariamente a risultati prevedibili e già testati, le seconde sono invece attività che coinvolgono l’intero psichismo dell’individuo e non possono verificarsi che secondo i suoi personali talenti, ossia le peculiarità di ciascuno, assumendo una piega e uno sviluppo mai del tutto prevedibili a priori e sempre, in qualche modo, unici. Mentre le tecniche richiedono di compiere atti oggettivi, le arti chiamano in causa comportamenti soggettivi nei quali gli individui non sono semplici esecutori di procedure ma interpreti, proprio come lo si può affermare di un artista del quale si dice che ha dato prova di una straordinaria interpretazione, frutto non solo del suo sapere ma, non di meno, della sua personalità e del suo percorso di vita.
Per questo entrambe, da ultimo, restano depotenziate se confinate in una o due ore a settimana nelle loro reciproche stanze di riferimento e compiono davvero la loro missione solo se il soggetto assume su di sé la responsabilità di estenderne l’esperienza alla vita di tutti i giorni. Scrive Chandra:
Che cosa c’è di male a sviluppare una vita un po’ più quieta e a incentrarla sull’io, vi chiederete? Niente in sé, ma non è per questo che nascono sia la meditazione che la psicoanalisi; entrambe, nel solco della filosofia antica, mirano piuttosto alla piena fioritura delle nostre potenzialità, che non significa diventare straordinari ma divenire, appieno, se stessi, compiendo quello che Jung chiamava il processo di individuazione. E non è forse delle possibilità di quel tanto vituperato io che comunque si parla in questo processo, non è lui che deve diventare se stesso? potreste chiedervi. No, spiega Jung, il soggetto di questo processo deve essere il Sé, centro della personalità non solo conscio e pienamente consapevole di non essere il padrone di casa, per citare Freud.
In gioco, come intende sottolineare il titolo di questo articolo che mi accingo a concludere, non c’è l’io ma la vita. Meditare sulla vita permette di meditare anche sull’io, meditare sull’io rischia di non dischiudere mai le questioni della vita. Ma soprattutto chiunque meditasse a fondo sulla propria condizione esistenziale finirebbe per comprendere, per dirlo con le fulminanti parole del filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag, che “la mia vita non sono io” (M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 120), che, semmai, ne faccio parte.
Ora il pensiero debole è diventato riluttante
Pier Aldo Rovatti, protagonista con Vattimo della svolta di inizio anni Ottanta, propone un modello di impegno critico che si colloca nelle istituzioni e nella storia. E per questo ricorda Croce
di Giancristiano Desiderio (Corriere della Sera, La Lettura, 16.09.2018)
Domanda delle cento pistole: qual è il compito dell’intellettuale? Riluttare. Prego? Sì, proprio così: l’intellettuale deve essere riluttante e, quindi, dubitare, criticare, sfidare, resistere e, per dirla con Giuseppe Prezzolini, essere anche apota, ossia non bersela, mettere alla prova anche sé stesso e svolgere un lavoro ai fianchi di un’epoca o di una cultura che facilmente innescano dispositivi di potere che il consenso e il conformismo naturalmente non arginano, ma alimentano e consolidano.
A delineare il profilo di chi e come rilutta è Pier Aldo Rovatti con il libro L’intellettuale riluttante (Elèuthera). Perché, in fondo, quanti tipi di intellettuale ci sono? Alla buona, possiamo distinguerne più o meno tre: l’universale, l’organico, il tecnico.
Il primo parlava a nome dell’umanità ed è morto e sepolto. Il secondo è colui che, credendo di parlare in nome della verità, la sposò con il potere e nel segno della sacra unione giustificò disastri. Il terzo non è organico, ma integrato, ed è una sorta di amministratore delegato nei vari settori in cui è competente. Quest’ultimo tipo di intellettuale è l’unico esistente e in buona salute, ma ha un difetto: è competente come un sociologo o un ingegnere o un cuoco o anche un politico, ma è inconsapevole dei limiti della sua competenza.
È qui che entra in scena l’intellettuale riluttante che, appunto, oppone, smussa, limita, si mette in gioco nel tentativo ironico e serio di indebolire le strutture di potere, dall’economia alla politica allo stesso sapere, per recuperare respiro e libertà. Nel «conformismo dilagante - dice Rovatti - propongo di adottare la parola “riluttante” per caratterizzare il tipo di intellettuale critico e autocritico che sta venendo a mancare e di cui avremmo, invece, un gran bisogno».
L’intellettuale riluttante è senza pretese, sa soprattutto che non c’è più, per fortuna, «un’onda collettiva» sulla quale contare, puntare e in nome della quale parlare e ha imparato dai suoi stessi errori che il bene più prezioso del suo lavoro è la critica che dovrà esercitare anche su di sé. Un’opera preziosa perché a volte l’«onda collettiva» ritorna, anche se non ha più il suo bugiardo metafisico a darle voce, ma un più modesto capo-popolo.
Non si può discutere di e con Pier Aldo Rovatti senza ricordare che con Gianni Vattimo diede vita nel 1983 al «pensiero debole». Ora, il «pensiero riluttante» viene a rimpiazzare il «pensiero debole»? No, piuttosto il «pensiero riluttante» è la pratica di quella critica della ragione metafisica che fu la «ontologia dell’attualità» di Vattimo e Rovatti. Infatti che cos’è il cosiddetto «pensiero debole»? È l’esaurimento della metafisica o la presa d’atto che l’essere - cioè la vita, la storia, ciò che crediamo di essere - non corrisponde in modo univoco ad una struttura razionale e quando, invece, ciò accade, nasce o, nel migliore dei casi, la società dell’organizzazione totale come Tempi moderni di Charlie Chaplin o, nel peggiore, il totalitarismo come Il grande dittatore, ancora Chaplin.
Ma perché questa interpretazione, che è bella «forte», viene detta «debole»? Perché, appunto, è un’interpretazione e non una teoria o verità descrittiva assoluta. Il pensiero debole - finalmente lasciamo cadere le virgolette - altro non è che un pensiero storico e quella che è passata alla storia come «sinistra heideggeriana» è una filosofia di Hegel senza sapere assoluto.
Non diceva, forse, Hans-Georg Gadamer che la dialettica hegeliana andava ripresa nell’ermeneutica? E allora potremmo dire, senza scandalo per nessuno, che il pensiero debole è mezzo parente dello storicismo crociano. In fondo, l’apparente debolezza di Vattimo e Rovatti è tutta in questo gesto o aneddoto: un giorno a Michel Foucault, che discorreva della struttura, dissero: «Scusa, ma tu da dove parli?». Ecco, le verità del pensiero debole possono essere argomentate solo storicamente, giacché gli enunciati sono parte della storia o della condizione umana e saltarne fuori è impossibile come distaccarsi dalla propria ombra.
Così è per l’intellettuale riluttante che non parla da un pulpito, da una cattedra, da uno scranno, da un piedistallo, non è al di sopra delle cose, ma dentro le cose e proprio così può pensare e criticare, resistere e dubitare, scalfire e argomentare e, insomma, riluttare. A questo punto la battuta è a portata di mano e tocca farla: rilutto, dunque sono.
Sennonché ciò che viene a dire Rovatti è proprio che il pensiero non è una battuta, ma un esercizio faticoso in cui tocca resistere alla tentazione della rassegnazione o del congedo o del convento o della torre d’avorio in cui si sta tranquilli e sicuri ma perdenti; mentre chi rilutta sente che «la propria battaglia è quella di stare nelle istituzioni, scomode e perfino orribili che siano, e lì resistere, opporsi, dire no, “riluttare” anche al suo stesso ruolo e alle sue eventuali competenze privilegiate». Questa resistenza riluttante, che altro non è che la palestra in cui si impara ad allenarsi il giudizio senza il quale non si è esseri pensanti ossia giudiziosi, la si può praticare ovunque, tanto in pubblico quanto in privato, tanto al lavoro quanto in famiglia, la possono esercitare gli insegnanti a scuola, i medici in ospedale, gli amministratori in municipio.
Tuttavia, la caratterizzazione di «riluttante» non è di Rovatti bensì - e lui con onestà lo riconosce - dello psichiatra Piero Cipriano e nasce in ambito sanitario come cura che rilutta, recalcitra, si oppone o più modestamente e con giudizio mette in gioco i «trattamenti obbligatori» e tutte le pratiche e le conseguenze che ci possono essere in un ambiente dalle «porte chiuse».
Rovatti estende la «riluttanza» dalla cura all’intelletto, dalla medicina alla filosofia o ad una condizione culturale «che dovremmo impegnarci tutti a costruire». In gioco vi è nientemeno che il «problema della verità». Giacché l’ultimo passo dell’intellettuale o, forse, il primo è quello di sapere che il suo stesso sapere non è del tutto affidabile e il più delle volte, quando ci si rifugia nel sapere allontanando la lotta che infuria là fuori nel mondo, ci si sta comodamente difendendo «immaginando che tra il vero e il falso passi una netta linea divisoria, mentre risulta patente il contrario, e cioè che questo confine è fragile, vi avvengono continui movimenti di entrata e di uscita, e noi siamo proprio lì, completamente esposti».
È la fotografia della contemporaneità, una condizione come quella del mito di Sisifo, che deve ricominciare sempre da capo la stessa fatica. Ma se solo abbassiamo la guardia e tiriamo i remi in barca, o per rassegnazione o per convinzione, perdiamo il bene dell’intelletto più che il bene dell’intellettuale: lo spirito critico. Altro da fare non c’è che riluttare.
"PERVERSIONI". UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO ....
Il corpo che gode
di FELICE CIMATTI *
La psicoanalisi è morta, o comunque moribonda. È morta perché, nonostante il suo “successo”, ormai è stato largamente rimosso il suo nucleo bollente, che è fatto di godimento autistico e di sessualità. Gli psicoanalisti, oggigiorno, scrivono di “amore”, “legge”, “desiderio”, “relazione”, “oggetto”, “maternità”, “intersoggettività”, “empatia” (elenco che potrebbe essere allungato ancora molto): parlano di tutto, ma proprio di tutto (talvolta anche di come votare), ma non parlano più di sesso e di inconscio. Ma una psicoanalisi che non parla di questo, di che cosa può propriamente parlare? Da questo punto di vista il prezzo che la psicoanalisi ha dovuto pagare per il suo “successo” sembra essere stato di rimuovere la propria stessa ragion d’essere. Per non parlare della sempre più forte tentazione moralistica.
Facciamo un solo esempio, ma illuminante: la questione della gestazione per altri (GPA), al centro di accese discussioni nella società contemporanea, perché rimette in questione assetti ritenuti eterni della famiglia borghese eterosessuale e mononucleare (sulle tante varianti storiche di quell’entità che noi chiamiamo “famiglia” ha scritto un libro esemplare Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa). Si prenda il caso dell’articolo apparso sul quotidiano di sinistra “Liberation” nell’estate del 2015, scritto da una figura significativa della psicoanalisi francese, Marilia Aisenstein; un intervento che già dal titolo ci fa capire quanto tempo sia passato da Freud: “Un enfant à quel prix?”. Aisenstein scrive, sul quotidiano fondato fra gli altri da Jean-Paul Sartre, che «trop souvent, le désir d’un enfant “à tout prix” me paraît, lui, marqué par la collusion entre une forte pression sociale et un désir personnel anachronique de la petite fille qui veut un bébé pour elle, doublée d’un déni du temps qui passe».
Non si rendono conto, queste quarantenni che si ostinano a volere un figlio, che sono vecchie e che il loro desiderio “collude” con la pressione sociale? E che cos’è questa negazione «du temps qui passe»? Memento mori, si sente sullo sfondo. Dopodiché la psicoanalista francese ci spiega anche che cos’è «un véritable désir d’enfant»: ovviamente «le résultat de l’amour qui unit deux êtres». E se si vuole un figlio da sola/o? Aisenstein non soltanto ci ricorda compiaciuta che il tempo passa, ma anche come dovremmo passarlo, quel tempo, se volessimo un figlio. Ma in nome di chi parla, Marilia Aisenstein? Nell’articolo, subito sotto il titolo e accanto al nome dell’autrice, è ben evidenziato «membre de la Société psychanalytique de Paris». È la voce della psicoanalisi. Ma sembra quella di un prete. Tanti cari saluti all’ateo Freud.
In un articolo che compare sul sito ufficiale della Società Psicoanalitica Italiana, lo psicoanalista Pietro Rizzi, commentando e riprendendo l’articolo di Aisenstein, scrive: «Se il desiderio di un figlio, e la sua nascita, può legittimamente far sentire alla neo-madre di aver realizzato il compito immemoriale di proseguire la specie, esso può anche produrre, nella odierna temperie di negazione/oblio della storia, un’esperienza di auto-creazione narcisistica, a metà tra la fantascienza e la magia».
L’articolo di Rizzi è pieno di interessanti osservazioni, tuttavia si pone per lui lo stesso problema che si pone per Aisenstein: qual è il titolo “scientifico” - per non parlare di titolo “morale” - della psicoanalisi per giudicare se un desiderio è “legittimo” oppure no, se è “narcisistico” oppure no? E chi stabilisce che alla donna spetta il «compito immemoriale di proseguire la specie»? Se un giorno alla riproduzione pensassero delle macchine (uno scenario neanche troppo futuribile, esplorato nell’interessantissimo La fine del sesso e il futuro della riproduzione umana, scritto dal giurista e genetista Henry Greely)? E non poteva mancare, infine, un classico del discorso psicoanalitico contemporaneo, il mortifero riferimento al lutto; infatti è «il lutto, [la] necessaria premessa di una maternità consapevolmente scelta, creata dall’amore tra due esseri umani, dove un figlio è desiderio di un “altro” da sé e non appendice del proprio sé».
E il divertimento, il sesso, e il godimento “narcisistico”, e soprattutto, l’inconscio? Si parla di tutto, anche del lutto («un lutto, non necessariamente così doloroso»), pur di non parlare del godimento. Vengono in mente le parole di Gilles Deleuze: «il fatto è che la psicoanalisi ci parla in continuazione dell’inconscio, ma in un certo modo lo fa sempre per ridurlo, distruggerlo, scongiurarlo» (Deleuze 2000, p. 59).
In questo desolante panorama spicca al contrario la figura di Sergio Benvenuto, psicoanalista e filosofo che negli anni ha costruito un proprio autonomo e originale profilo teorico. Una originalità che Benvenuto collega proprio al dimenticato e rimosso Freud. Quel Freud, e così torniamo al nucleo originario della psicoanalisi, che nella Vienna fin de siècle mette sotto gli occhi di tutti quel che è sempre stato evidente e proprio per questo si è sempre voluto nascondere: «la sessualità» - scrive in Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi (2017) - «per Freud, è questo bordo tra il linguaggio e il puro grido; un bordo di per sé impresentabile, di cui non possiamo vantarci, a meno che non siamo in una posizione critica proprio nei confronti del mondo della decenza e della rispettabilità» (p. 13).
La psicoanalisi non si occupa del godimento sessuale per dargli una forma, fosse anche la forma della meta-psicologia freudiana; se ne occupa perché la psicoanalisi freudiana nasce dalla scoperta di questo oggetto, tutto il resto già si sapeva: «se, come accade spesso, l’analisi viene vista come una relazione tra due soggetti, un modo di definirsi di un essere-con, allora l’inconscio svapora, e con esso anche la sessualità come esperienza che eccede la parola, che ne esula e la rende insufficiente» (p. 15). Si tratta di una precisazione rilevante, perché smonta la tentazione, a cui troppi psicoanalisti non riescono a resistere, di credere che l’analisi serva a dare parole all’inconscio. L’onnipresente tentazione di pensare la psicoanalisi come esperienza di comprensione e interpretazione, come dialogo e scambio intersoggettivo.
Al contrario, per Benvenuto «l’inconscio è sacrilego» (p. 14). Non rispetta nulla, e non vuole nessuna comprensione.
La psicoanalisi si occupa piuttosto di quel lato dell’umano che sfugge al calcolo e alla ragione, alla mente ma anche al corpo. L’inconscio, infatti, non è al servizio né della mente, ma nemmeno del corpo animale, quello che condividiamo con tutti gli altri mammiferi: «insomma, la psicoanalisi si orienta a occuparsi della parte non adattativa dell’essere umano» (p. 193). Nonostante Darwin, la natura specie-specifica dell’umano è profondamente disadattativa, se non direttamente anti-biologica.
La psicoanalisi di cui ci parla Benvenuto ci offre una immagine dell’umano agli antipodi con quella corrente, sia quella offerta dalle scienze cognitive (il mainstream ideologico della contemporaneità) che quella offerta dall’economia (che ha preso il posto un tempo occupato dal Catechismo): un essere umano abitato e attraversato da forze che non controlla, da desideri che non hanno alcuna funzione biologica (la sessualità umana è normalmente perversa, come scopre Freud nel suo capolavoro, i Tre saggi sulla teoria sessuale), naturalmente scisso al suo interno: «quella di Freud non è una teoria dell’individuo, ma del “dividuo”. Non dell’Io come indivisibile, ma del soggetto come diviso. E rispetto a questa visione dell’essere umano in quanto dividuo che possiamo misurare la portata della restaurazione cognitivista, che consiste nel ristabilire l’unità dell’individuo in quanto essere sostanzialmente razionale e calcolatore» (p. 141).
Una psicoanalisi che proprio per questo non pretende di essere una scienza, come invece prova a fare affannosamente e vanamente la psicoanalisi del nostro tempo “cognitivo”, del tutto subalterna all’ideologia scientista contemporanea, che ammette come unico criterio di validità quello scientifico (o presunto tale). Si tratta di un punto rilevante dell’analisi di Benvenuto, perché rivendica l’autonomia della psicoanalisi, che ha valore non perché sia una (pseudo) scienza, bensì perché dà spazio alla natura intrinsecamente e radicalmente irrazionale dell’animale umano, non perché sia appunto una scienza, al contrario, perché è materialista e quindi volgare: «molti parlano di “rivoluzione psicoanalitica” - io invece direi che la psicoanalisi è stata un Ritorno riabilitativo al popolare» (p. 22). Nei sogni si parla di escrementi, di buchi, di carne e passione. Di questo è fatto l’inconscio. Questa è la psicoanalisi:
La psicoanalisi di Benvenuto è così radicalmente scomoda, perché parla non tanto di quello che non ci piace di noi, piuttosto dice la nostra radicale subordinazione a pulsioni che ci attraversano, e parlano per noi, al nostro posto. Freud, l’intransigente materialista Freud, ci ricolloca al nostro posto, quello di primati parlanti, che però credono a quello che si dicono (Homo sapiens è l’unico animale che pensa di sé di non esserlo). È troppo cruda, e sconsolante, questa immagine, per questo la rimozione della psicoanalisi è cominciata nello stesso momento della sua comparsa. Ma questo, ancora una volta, significa che l’animale umano, per Freud, non smette di essere un primate, una scimmia, anche se si tratta di una scimmia con la testa piena di parole e pensieri che pensano per lei, che ha bisogno di sentirsi amata, e di credere che un senso, da qualche parte, c’è.
La psicoanalisi non crede al senso, neanche a quello biologico (che, ammesso che sia un senso, è del tutto privo di senso, è cieco e autistico, come mostrò in modo esemplare, sebbene sgradevole, il biologo Richard Dawkins ne Il gene egoista). La psicoanalisi non è ottimista, non propone una soluzione, soprattutto non ci e si racconta storie: «si ha voglia di rigirare la frittata, ma se si è freudiani si crede nella pulsione di morte, e quindi nell’impossibilità costitutiva di una società Buona e Felice» (p. 129).
Ma attenzione, Benvenuto non è dalla parte del “lutto”, tutto al contrario, la psicoanalisi è dalla parte del godimento e della liberazione del corpo dall’Io, che infatti - qui Benvenuto è affatto lacaniano - «è a un tempo solo sé stesso, ma anche l’Altro che l’io stesso ha assunto come il proprio» (p. 140). La psicoanalisi non rafforza l’Io, che non esiste, o meglio esiste solo come introiezione dello sguardo dell’Altro.
Da questo punto di vista la grande e rimossa figura della psicoanalisi è, insieme allo stesso Freud, è quella del suo allievo rinnegato, eretico ed eccessivo, Wilhelm Reich, che cercò in modo pazzo e fallimentare di coniugare comunismo e psicoanalisi, sessualità e rivoluzione, libertà e godimento. Non è un caso che il suo nome non compaia più fra quelli citati dalla psicoanalisi “scientifica” (nemmeno nel libro di Benvenuto, per la verità; la sua storia dimenticata si può leggere in un libro di qualche anno fa di Paul Robinson, La sinistra Freudiana - Wilhelm Reich, Geza Roheim, Herbert Marcuse), e che sia morto nel 1957 in un penitenziario negli Stati Uniti. La psicoanalisi è eccessiva, anche se le piace presentarsi sotto le luci soffuse di un accogliente ed elegante studio borghese, è esagerata, è intrattabile. Insistiamo su questo punto, la libertà della psicoanalisi. Una libertà che per essere “libera” deve liberarsi, per prima cosa, da quello stesso soggetto, l’Io, che per Freud è il riflesso interno delle forze sociali esterne.
Benvenuto è esplicito su questo punto, in cui cade buona parte della psicoanalisi contemporanea: «l’analista teorizza come se in realtà egli stesse dicendo al suo analizzante: “Io so scientificamente, medicalmente, il tuo questo, quel self che tu sei”. [...] Questo analista, nell’istante in cui teorizza, crede che il soggetto sia qualcosa. Per l’analista praticante invece ogni essere “qualcosa” è un’alienazione» (p. 89).
Per questa ragione, per Benvenuto, «l’abilità dell’arte psicoanalitica consiste nel mostrare a un soggetto l’altro sogno, quello dentro al quale egli non suppone di vivere» (p. 100). Il problema del sogno, in fondo, è che appunto è soltanto un sogno, un sogno che qualcun altro sogna per noi. La psicoanalisi, per Benvenuto, è invece una pratica di radicale individuazione: «di fatto, è il lavoro di ogni psicoanalisi riuscita: aiutare ciascuno di noi a individuarsi, a soggettivarsi, ovvero a raccontarsi la storia giusta delle proprie origini in modo di “svincolarsi dal gruppo”» (p. 151). Si va in analisi non per stare meglio con gli altri, tantomeno per adattarsi ad un mondo che non si sopporta, ma per fare a meno del bisogno di essere guardati, dagli altri e da sé stessi. E questo non è narcisismo, questa si chiama libertà.
Riferimenti bibliografici
S. Benvenuto, Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi, Orthotes, Nocera Inferiore (SA) 2017.
G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste. 1975-1995, Einaudi, Torino 2000.
H. Greely, La fine del sesso e il futuro della riproduzione umana, Codice, Torino 2017.
F. Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari 2008.
* Fata Morgana, 12 febbraio 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
IL PUNTO DI SVOLTA. Proseguendo nel suo «viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre», Fachinelli è giunto finalmente dinanzi al mare. «Sulla spiaggia», questo è il titolo del primo e più originale scritto de "La mente estatica".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Marxisti nel tempo
Che cosa rispondere a chi ti chiede, oggi: “Sei marxista?”. E se insistono: “Sei comunista”? Due suggerimenti. E qualche altra piccola domanda
di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, Robinson, 29.04.2018)
Se mi chiedono “Sei marxista?”, dopo una breve esitazione rispondo “Sì”. Marx mi ha insegnato come funziona il capitalismo nella sua dinamica essenziale. La lettura del Capitale è stata decisiva per la mia formazione intellettuale e per la mia vita di cittadino responsabile. Purtroppo oggi i giovani quasi mai passano attraverso questa esperienza e sono tantissimi quelli meno giovani che credono di aver letto Marx senza averlo fatto. Mi domando come si possa possedere un po’ di spirito critico senza avere letto almeno il primo volume del Capitale, senza avere un’idea non del tutto vaga di cosa sia una “merce”, il “valore di scambio”, la “forza lavoro”, lo “sfruttamento”, il “plusvalore”. E come sia possibile orientarsi nel mondo attuale della finanza planetaria, o magari solo ascoltare un bollettino sull’andamento delle borse, senza avere chiaro il fatto che Marx, lungi dal darci lezioni di economia politica, ci spiega che il nostro compito, culturale e politico, è quello di riuscire a esercitare una “critica dell’economia politica” (sottotitolo fondamentale per capire cosa troviamo nelle pagine del Capitale e, direi, in tutto ciò che Marx ha scritto).
Marx “inattuale”? Ci sono due sensi della parola inattualità. Quello ovvio che caratterizza che qualcosa è ormai invecchiato e non è più rilevante per i problemi del nostro tempo, e quello meno ovvio che indica l’esatto contrario, cioè qualcosa che abbiamo rimosso mentre ha a che fare non solo con la società in cui siamo ma soprattutto con quella società in cui vorremmo poter vivere e che ci sembra attualmente sbarrata. Basta pensare alla condizione culturale in cui ci troviamo, completamente dominata dall’idea di individualismo.
Marx mi ha insegnato che l’individualismo è il principale nemico e che tra l’idea di individuo e l’idea di soggetto c’è uno scarto drammatico. La chiusura nell’individualismo è la morte del soggetto perché c’è soggettività solo dove si realizza comunità e socializzazione. Ecco l’insegnamento “politico” che Marx ci trasmette, quanto di più inattuale immaginabile se solo pensiamo che oggi tutti noi viviamo dentro una bolla (possiamo chiamarla neoliberale ma non è il nome che conta) in cui ciascuno viene spinto a diventare imprenditore di sé stesso. Gli altri sono spariti o, se ci sono, diventano ostacoli sul cammino della pura e semplice realizzazione individuale. Marx va proprio nella direzione opposta e non stupisce che oggi risulti culturalmente rimosso.
Quanto alla mia vicenda personale, vorrei solo ricordare che ho combattuto la mia piccola battaglia contro coloro che sostenevano che la “vera” lettura di Marx, quella cosiddetta scientifica, consisteva nel buttar via ogni ciarpame filosofico relativo alla soggettività. Al contrario, io volevo evidenziare quel Marx che mi aiutava a capire come il “bisogno” sfondi ogni rigida concettualizzazione perché possiede una radicalità non negoziabile che fa tutt’uno con la politicità dei soggetti sociali.
Un Marx “rivoluzionario” per il suo stesso modo di pensare e che non può mai essere avulso dal rapporto con la storia. Non possiamo farlo diventare una figura di pensatore distaccato, un modello semplicemente intellettuale, il che ha reso sempre più difficile collocarlo negli apparati che disciplinano la nostra formazione scolastica. Con una battuta, direi che oggi Marx farebbe fatica ad avere successo in un concorso universitario. Devo comunque giustificare la mia inziale esitazione. Non è facile, perché vi si coagulano diversi elementi che agiscono da freno.
La domanda “Sei marxista?” già di per sé contiene una provocazione. “Sei ancora marxista?”, ecco la provocazione sottesa, che sarebbe come dire che oggi è strano, improprio e perfino inopportuno dichiararsi tale. Come negarlo? Marxisti si dichiarano, di solito, quelli che impettiti vogliono qualificarsi come irriducibili. Quasi fossero dei reduci impegnati a salvare le loro memorie di lotta, incuranti e magari masochisticamente desiderosi di vedere la loro rappresentanza politica ridotta al minimo.
Ma c’è qualcosa di più. Esito (per poi dire di “sì”) perché considero da estinguere tutti gli “ismi”, compreso quello che risuona nella parola “marxismo”. È una parola che veicola tante vicende discutibili che corrispondono ad altrettanti tentativi di realizzazione, a partire da quella enorme vicenda che è stata la nascita dell’Unione Sovietica. Se rispondessi “No, sono rimasto marxiano”, farei sorridere anche me stesso, però è questo che dovrei dire e che ho cercato di tirar fuori in queste righe. Già, e se la domanda fosse “Sei comunista?”. È curioso, ma forse sarei meno imbarazzato nel dare una risposta affermativa. Se il comunismo, a quanto risulta, è qualcosa di impossibile e di ancora più inattuale, proprio per questo ne avverto nitidamente la sfida e l’urgenza.
CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ! .... *
Massimo Recalcati, il nuovo saggio
Il coraggio di affrontare il desiderio
Il ritratto del nevrotico e il significato del sacrificio sono al centro del volume (Raffaello Cortina) dell’autore, in cui il sapere teorico si unisce all’esperienza di terapeuta
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, 10.04.2018)
È un ritratto potente, e per certi aspetti sconsolato, del nevrotico quello che emerge dalle pagine di Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale (Raffaello Cortina, 2017), il recente saggio di Massimo Recalcati che sviluppa e approfondisce temi già toccati in libri precedenti, e in particolare in L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica (stesso editore, 2010). Nei brevi e limpidi capitoli di questo libro il sapere teorico si unisce all’esperienza di terapeuta e anche alla memoria personale, come se l’autore, individuato uno dei peggiori e più insidiosi nemici della vita umana, intendesse stanarlo e aggredirlo moltiplicando i punti di vista e le possibili strategie. Ed ecco emergere, pagina dopo pagina, la cupa figura dello «schiavo del peccato», del rinunciante sempre invischiato nell’economia perversa del «fantasma sacrificale». Tutto ciò di cui non gode, pensa quest’uomo, costituisce un capitale, o meglio un investimento che gli sarà restituito a tempo debito. Non c’è impoverimento della propria vita (e di quella di chi gli è vicino!) che non gli appaia conveniente in nome di un finto ideale di purezza e superiorità morale che è solo un alibi per non assumersi mai la responsabilità del proprio desiderio.
Nello Zarathustra, Friedrich Nietzsche escogitò la metafora del «cammello» per irridere questa vita tanto priva di spirito quanto fondata sulla penitenza e l’ascetismo. Lo sguardo rivolto a terra, la schiena carica di pesi, il «cammello» è la perfetta incarnazione di un’esistenza del tutto spogliata di senso da un imperativo morale che sembra sempre giungere da fuori e dall’alto, ed esige cieca obbedienza e rassegnazione. Recalcati non ha dubbi: così sottomessa a una Legge che si afferma negando il desiderio, l’esistenza dello «schiavo della colpa» è un errore irredimibile, una pulsione di morte travestita da virtù. «La vita interiore prende il posto della vita: ruminazione incessante, abnegazione, autocolpevolizzazione, risentimento, sacrificio di sé».
Il compito dell’analisi, per Recalcati, è riconoscere che proprio l’identificazione della vita e del sacrificio è «la malattia più grande del nevrotico». La posta in gioco è altissima, perché consiste nella possibilità di fondare e rafforzare un’alleanza vitale fra la Legge e il desiderio. Se c’è una «colpa», essa va riconosciuta nell’aver tradito la propria singolarità e tutte le sue inclinazioni, di non essersi caricati sulle spalle l’unico peso che è davvero necessario assumersi, che è quello di ciò che si vuole.
Si leggono queste pagine di Recalcati come un messaggio di speranza ancora più che come un rigoroso discorso scientifico e filosofico, capace di far interagire, con grande sapienza dialettica, i Vangeli e Nietzsche, Søren Kierkegaard e Jacques Lacan. Uno dei meriti dei saggi di Recalcati è quello di far sempre proseguire per conto suo il lettore nel percorso iniziato con la lettura.
Tutto sommato, è della nostra vita che si tratta, e del rischio perenne di sprecarla e dissiparla. Proprio per questo, mi sembra urgente formulare a questo bel libro, e al suo autore, una domanda: una volta liberati dal «fantasma sacrificale», come diventiamo in grado di riconoscere ciò che davvero vogliamo, e che ci definisce come individui? Non è questo un altro pezzo di strada lungo il cammino in direzione della nostra libertà?
Per il momento Recalcati confina questa ulteriore questione in una nota a piè di pagina. Ma mi sembra che valga la pena di scavare ancora in un terreno così fertile. Magari in un nuovo libro, dedicato questa volta all’arte più difficile che esiste: quella di conoscere sé stessi.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
Filosofia
Veca, lezioni su utopia e realismo.
La storia non è una via obbligata
di Maurizio Ferrera (Corriere della Sera, 16.03.2018)
Il discorso politico contemporaneo, soprattutto in Europa, è sempre più intriso di «necessità». La globalizzazione, si dice, impone conformità alle logiche di mercato. Le tecnostrutture sovranazionali dettano regole vincolanti basate su semplici numeri. Il motto di Margareth Thatcher - there is no alternative - domina le scelte di governo e sempre più anche quelle individuali (pensiamo al mercato del lavoro). È il trionfo di quella colonizzazione del «mondo della vita» da parte degli «imperativi sistemici» di cui parlano da molto tempo autori come Jürgen Habermas o Axel Honneth. Una dinamica che genera inevitabilmente nuove diseguaglianze: le capacità e le opportunità di adattamento non sono equamente distribuite. Gli elettori esprimono disagio e protesta. Ma se non si danno alternative reali e credibili, il confronto democratico degenera in una inconcludente agitazione.
Nel suo ultimo libro Il senso della possibilità (Feltrinelli), Salvatore Veca indica una strada per uscire da questo vicolo cieco. Di fronte alla dittatura del presente e delle sue supposte necessità, sostiene, occorre recuperare appunto il «senso della possibilità». L’idea che non vi siano alternative nasce dalla nostra ignavia, dal mancato esercizio di spirito critico nei confronti dello status quo, dei paradigmi dominanti e delle loro false necessità. E, soprattutto, dalla diffusa rinuncia a usare l’immaginazione, a elaborare futuri possibili, a «prenderci per mano, ragionare e operare per forme più decenti di convivenza».
Salvatore Veca è uno dei più noti e originali filosofi contemporanei. Il volume presenta i risultati di una nuova fase delle sue ricerche, che lo avevano portato a riflettere prima sull’incertezza (su che cosa è il mondo e su ciò che vale) e poi sull’incompletezza (sulla natura e i limiti delle nostre interpretazioni del mondo). Per certi aspetti, il «senso della possibilità» si può considerare la pars construens del pensiero di Veca. Ai margini dell’incertezza e dell’incompletezza si aprono infatti i varchi del possibile. Una modalità dell’essere che lo sottrae al necessario, che conferisce al presente (all’attualità) un carattere plastico e che apre margini per scegliere il futuro.
I capitoli del libro sono spesso tecnici, si confrontano con teorie e modelli situati alla frontiera del dibattito filosofico. Anche chi non padroneggia gli strumenti della filosofia e della logica trova però nel volume spunti di estremo interesse. Il «senso della possibilità» può essere usato come una chiave per aprire due «scatole» da cui sono scaturiti molti di quei discorsi sulla necessità di cui oggi ci sentiamo prigionieri.
La prima scatola è quella della storia, dello sviluppo umano nel tempo. Noi siamo inevitabilmente immersi nel presente: l’attuale ha priorità su passato e futuro. Ciò che è stato non può essere disfatto. E questo pone alcuni vincoli ineludibili (dunque necessari) per costruire ciò che sarà. Eppure il presente è circondato dal possibile. Lo è retrospettivamente, innanzitutto. Le cose avrebbero potuto andare altrimenti. La realtà di oggi (compresi i famosi «imperativi sistemici») non è che il distillato, nel bene e nel male, di mondi possibili che abbiamo di volta in volta scartato nel passato in base a fattori e scelte contingenti.
Il mondo attuale è l’unico sopravvissuto. Ma il senso della possibilità ci sottrae all’incubo dei destini inevitabili, degli ingranaggi storici che ci relegano al ruolo di automi. Usato in ottica prospettica, il senso della possibilità ci rende invece liberi di immaginare un’ampia gamma di scenari futuri e ci sprona all’impegno per valutarli e realizzarli.
La seconda scatola è quella della politica. Si tratta della sfera di attività umana che gestisce il presente, lo guida nel mare aperto delle possibilità. La chiave di Veca fa però fatica ad entrare in questa scatola. Gli imperativi della necessità hanno come bloccato la serratura, soffocando il più potente generatore di mondi possibili che siamo riusciti a inventare come umani: la liberaldemocrazia. La colpa non è del «sistema», intendiamoci, che è contingente nella sua genesi e non necessitante rispetto al futuro. Il generatore liberaldemocratico si è inceppato perché è stato usato in modo irresponsabile sia dai governati sia dai governanti. Questi ultimi non hanno poi fatto adeguata manutenzione (pensiamo al deficit democratico della Unione Europea).
Possiamo sbloccare la serratura? Ovviamente sì, ma l’esercizio richiede alcuni atti di equilibrismo. Chi governa il presente deve riappropriarsi del senso di possibilità, sfidando i tanti sacerdoti del «non si può fare altrimenti». Chi agita l’inquietudine dei governati (pensiamo ai leader populisti) deve a sua volta calibrare la propria immaginazione in base ai materiali disponibili, oggi, nel reale. I mondi possibili sono tanti, ma non tutti sono accessibili dal punto in cui ci troviamo. E, come ricorda Veca, alcuni non sono neppure desiderabili.
USCIRE DALLO STATO DI MINORITÀ! PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! ... *
Giacomo Contri
“Grazie a Lacan ho viaggiato su una nave pirata. La sua è l’intelligenza più spericolata nella quale mi sono imbattuto. Era il pazzo fuggito dalla gabbia, faceva paura"
di ANTONIO GNOLI (la Repubblica, 16.07.2017) *
Giacomo Contri ha introdotto Jacques Lacan in Italia. Lacan genio e provocatore: fumo (molto per alcuni) e arrosto. "Quando portai gli Scritti di Lacan in Italia la psicoanalisi si era ridotta al palloncino in mano alla creatura, robetta infantile, pisciatine nel letto, sgridate e avvertimenti. E allora ecco giungere un signore, con i suoi baveri di pelliccia e il fumo dei sigari, a portare lo scompiglio. Sì, improvvisamente, senza preavviso, il pazzo era fuggito dalla gabbia e tutti ne ebbero paura o ne furono soggiogati". Gli Écrits ai quali Contri allude comparvero in Francia mezzo secolo fa e in traduzione da Einaudi una decina di anni dopo. Rappresentarono, per molti versi, una svolta, un vocabolario nuovo: a volte astruso, altre affascinante su cui far poggiare quel vasto e traballante regno della psicoanalisi. "A quell’epoca Lacan aveva solo sporadici lettori in Italia. Ricordo ancora una quartina che Elvio Fachinelli mi dedicò: "Mena Lacan per l’aia/ Giacomo Contri analista/ Prima che sian migliaia/ Sparagli a vista". Elvio fu un amico, ma poi il fuoco ha abbondato" . Contri sembra un personaggio disegnato da Max Bunker, alias Magnus, l’accostamento mi viene anche notando una pila di fumetti, seminascosta tra una tenda e il mobile.
Legge anche fumetti?
"Perché non dovrei? È letteratura popolare, ne ho una biblioteca enorme".
Cosa la seduce del fumetto?
"La mitologia che le immagini si portano dietro. Il lato mitologico dell’esistenza fu avversato da Platone, che poi non disdegnò di usare il mito. Freud invece ne ha spremuto il succo".
Ha senso dirsi oggi freudiani?
" È soltanto un modo di dire, un’etichetta e niente più. È venuta meno quella unicità che Freud stesso si era attribuito con i suoi libri e le sue parole. Solo io, ripeteva, posso dire che cosa è o non è la psicoanalisi. Parlava come il Papa".
Poteva permetterselo?
" Certo, costruì la psicoanalisi come se fosse una scienza sperimentale. L’osservazione era il primo momento della sperimentazione. E il territorio delle nevrosi è in larga parte esplorabile".
Ma la nevrosi non è proprio ciò che sfugge alla sperimentazione? Ciascuno vive soggettivamente la propria nevrosi.
" Magari fosse così. La verità è che la nevrosi, come la psicosi, è una gabbia coattiva, non la si vive secondo un modo proprio. Voglio dire che la nevrosi è come un cristallo, incapace di varianti".
Ma allora perché Freud è tramontato?
"Sono tramontati i freudiani. Rimozione, coazione a ripetere, fissazione, angoscia non sono affatto tramontate".
Lei come è finito a occuparsi di psicoanalisi?
" La prima cosa che mi è accaduta è stata laurearmi in medicina. Ma non avrei mai fatto il medico. Mi iscrissi nel 1961, l’anno dopo cominciai a frequentare l’istituto di psicologia e in particolare entrai in contatto con Marcello Cesa- Bianchi. A quel tempo la psicoanalisi freudiana si incarnava in Cesare Musatti e nel suo allievo Franco Fornari. Poi lasciai Milano e presi la strada per Parigi. Pensai di trovare lì il clima culturale giusto".
Come si adattò?
"Cominciai a frequentare l’École pratique. I primi contatti furono con Roger Bastide, Roland Barthes e Claude Lefort. Avevo grande stima per Louis Althusser, e per il suo modo originale di leggere Marx e uccidere la moglie. Neanche Jarry avrebbe saputo tenere insieme quelle due tragedie".
Che cosa le legava?
"Fu un omicidio ad alto tasso simbolico. Consumato contro la sua comunità intellettuale, che gli faceva abbastanza schifo".
Mi sembra un accostamento azzardato.
"E perché? In entrambi i casi agiva contro l’autorità: il matrimonio, gli affetti, le lusinghe. Disse che su Marx si era inventato tutto e che li aveva presi in giro. Trovo divertente che per molto tempo Étienne Balibar, suo allievo prediletto, tutte le settimane gli portasse i panini in manicomio!".
Lei lo avrebbe fatto per Lacan?
"Il manicomio di Lacan era il mondo!".
Come lo ha conosciuto?
" Sentii parlare dei suoi celebri seminari. Avevo conosciuto François Wahl, il direttore delle edizioni Seuil, suo amico. Gli chiesi se poteva introdurmi. Venivo da un po’ di letture psicoanalitiche e nel 1968 ebbi tra le mani gli Écrits. Lacan abitava in rue de Lille. Giunsi in una tarda mattina con la mia personalissima mitologia sull’uomo. Faceva molto freddo. Mi venne ad aprire Gloria, la segretaria".
E Lacan?
" Arrivò dopo un po’. Guardai quest’uomo che sembrava avesse fretta. Avemmo una conversazione rapida e insensata. A un certo punto mi chiese cosa stessi leggendo, risposi Max Weber. Il colloquio si interruppe a quel punto".
Forse si aspettava che citasse un suo libro.
"Non era tipo da accettare piaggerie. Andai a trovarlo diverse volte. Mi considerava un potenziale allievo. Cominciai l’analisi con lui".
Era necessaria?
"Beh, se volevo lavorarci assieme era una premessa indispensabile. Le sue sedute psicanalitiche erano famose per la rapidità, non superavano mai il quarto d’ora".
Finita la seduta come si sentiva?
" Bene, mi piacevano quegli incontri. Avevo la netta sensazione che qualcosa di non presente in me uscisse dal mio pensiero".
Catherine Millot in un recente libro (edito da Cortina) ha raccontato il Lacan privato, ne esce un ritratto piuttosto insolito, perfino sorprendente.
" Ho conosciuto bene Catherine, una donna bellissima che fu prima amante e poi compagna di Lacan. Non ho letto il libro, ma credo sapesse molte cose della sua vita privata".
E lei cosa sapeva del Lacan meno noto?
"Aveva ereditato qualcosa del vecchio surrealismo".
Un provocatore?
" Un provocatore e un maramaldo, nel senso " tu uccidi un Io morto". Non aveva nessuna fiducia nell’Io; nel pensiero; nella norma. Semplicemente era dalla parte della legge simbolica non da quella giuridica. Mi torna in mente un piccolo episodio".
Quale?
"Eravamo in macchina, lui guidava con molta spericolatezza e detestava i semafori. Diventava matto davanti a un semaforo rosso. Era uno dei suoi tratti patologici: non accettare la norma".
Insomma un pessimo cittadino.
" Non era un esempio di urbanità e di disciplina. Per lui il diritto era una entità impensabile. Come impensabile era la libertà. Anni dopo, staccandomi da quella visione, sostenni che dopotutto la vita psichica è vita giuridica".
Un’affermazione misteriosa.
" Frutto delle mie letture kelseniane. Kelsen teorizzò una cosa che ho fatto mia: l’uomo non è imputabile perché è libero; è libero perché è imputabile".
È libero perché una norma può condannarlo?
"Secoli di discussioni sul libero arbitrio sono stati azzerati. La vita psichica è vita giuridica perché niente di quello che facciamo è esente dall’imputabilità. Noi compiamo atti che sono imputabili da altri secondo norma".
Che ruolo gioca la colpa?
" Nessuno. Da quando in qua il delitto è fonte e senso di colpa? Quando Freud legge Delitto e castigo vuole capire perché Raskolnikov prima uccide la vecchia e poi tenta di tutto per farsi scoprire. Il motivo è chiaro: Raskolnikov deve dare un contenuto alla propria colpa. È il senso di colpa che giustifica il delitto e non viceversa".
Il crimine come gratificazione?
" Perfino nella Bibbia si dice: guardatevi da questi uomini, commettono le ingiustizie più atroci e sono felici".
Più che la Bibbia sembra il Marchese De Sade.
"Mi viene in mente il saggio di Lacan su Kant contro Sade".
Le viene in mente perché?
"Sono messe a confronto due forme di perversione".
Sade certamente, ma Kant?
" Kant è uno scrittore dell’orrore e della perversione. È il prezzo che paga per essere il pensatore della purezza e della ragione. Dietro il suo pietismo cristiano si nasconde la più formidabile macchina anticristiana che la modernità abbia mai costruito".
Qual è il suo rapporto con la religione?
"Perché me lo chiede?".
Ci sono molte tracce nel suo pensiero.
"Il cattolicesimo è stato uno dei miei orientamenti. Potevo gettare la fede alle ortiche o tentare di fare un passo ulteriore".
Verso quale direzione?
" Mi sono convinto che Gesù non fosse un semplice maestro, un guaritore o un santone. Era un pensatore, come fu Platone prima di lui o Galileo e Marx dopo di lui. La mia considerazione non implica nessun riferimento alla sua esistenza storica. Per me è sufficiente sapere che il suo pensiero formale si è costituito nella seconda metà del primo secolo".
Si sostiene che sia stato Paolo a dare forma a quel pensiero.
"Si è spesso detto che, stringi stringi, Paolo abbia inventato il cristianesimo. Secondo me lo ha messo in bella copia. La verità è che il cristianesimo nasce da un oscuro pensiero che lo precede".
Oscuro perché? La predicazione del Cristo fu semplice e diretta.
"Nel senso dello "Spirito" che precede la "lettera". Il pensiero di Gesù non è ontologico, né metafisico, mantiene una distanza netta dal pensiero greco. Né tanto meno è un pensiero teologico".
Non è un pensiero religioso?
"È un pensiero che non è né ha religione. È il pensiero dell’innocenza ".
Però lei è cattolico.
"Apostolico e romano. Da questo punto di vista definirei la Chiesa non un unione mistica né di massa, ma una costellazione di legami sociali. Se ha senso distinguere una fede questa può solo consistere in un giudizio di affidabilità. Fede è comprendere se un pensiero è affidabile. Altrimenti è solo un gadget dello spirito".
So che lei si è affidato a don Giussani.
"Sono stato tra i primi a partecipare al movimento di Comunione e Liberazione fondato da don Giussani".
Come avvenne l’incontro?
" Al ginnasio dove lui insegnava religione. Lo incontrai nel 1956. Fino al 1969 sono stato ad ascoltarlo. Nella piattezza abitudinaria del mio credo fu un fulmine a ciel sereno. Parlava di Gesù come di un "fatto"".
Come un fatto in che senso?
" Fuori dalle traiettorie teologiche e morali. Meritava di essere ascoltato. Era un prete che non aveva niente del prete. Il che sembra quasi impossibile".
È una notazione interessante.
"Mi pare fosse Guicciardini a parlare della scelleratezza dei preti. E Giussani non aveva niente di scellerato".
La sua lezione in che cosa è consistita?
" Forse nella difficile collocazione del suo pensiero. Aveva un orientamento che chiamerei il senso del religioso. Che è molto diverso dalla religione in quanto tale. È arduo definire Giussani cattolico e forse anche per questo non ha mai contrastato le cose ufficiali del cattolicesimo. L’ultima volta che lo vidi fu in casa di amici comuni".
Un congedo?
"In un certo senso. Era sulla sedia a rotelle. Mi guardò con quegli occhi grandi e sporgenti che accentuavano il volto scavato: Giacomo, disse stringendomi la mano, non si capisce più niente".
Cosa c’era da capire?
" Non c’era una risposta canonica in grado di spiegare quella confessione che mi fu fatta all’inizio del nuovo secolo. Un uomo che aveva lottato per tutta la vita per un fine improvvisamente si trovava davanti a un fallimento epocale e certo non bastavano, a rendergli meno amara la situazione, le decine di migliaia di persone che componevano il suo movimento. La verità è che don Giussani è stato uno degli uomini più soli che abbia mai conosciuto".
Ma ha coinvolto e fatto crescere un movimento.
" È vero, ma mi fermerei lì. Quel " non si capisce più niente" lo avevo vissuto molti anni prima e fu il motivo per passare armi e bagagli a Freud e poi a Lacan".
Forse a questo punto bisognerebbe accennare al cattolicesimo di Lacan.
"Ah! Diceva di avere un grande amore per il cattolicesimo. Ma nelle sue migliaia di pagine non ho letto nulla di significativo sull’argomento. Dal cattolicesimo aveva ereditato l’amore per le chiese barocche e l’ipocrisia suprema".
Dopo tanti anni di frequentazione non le è venuta la tentazione di liberarsi di Lacan?
"La sua fu l’intelligenza più spericolata nella quale mi sono imbattuto. Con lui è stato come andare dagli Appennini alle Ande senza cercare la mamma. No, non intendo liberarmi dall’esperienza di avere viaggiato su una nave pirata".
Che cosa è un maestro per lei?
" Il maestro non è la buona via, ma tant’è ci passiamo tutti. A Lacan il maître non piaceva né come maestro né come padrone. Ma lui fu maledettamente entrambe le cose".
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ...
Fedeli, femminicidio fenomeno strutturale e trasversale
Serve nuovo patto scuola-famiglia-società, competenze a docenti
di Redazione *
ROMA - "La violenza sulle donne non è un’emergenza sociale ma un fenomeno strutturale, trasversale in tutti i ceti sociali, in tutte le età della vita, e che riguarda gli uomini". Così Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca partecipando a un convegno sulla violenza di genere e sui minori.
"Si tratta di una violazione dei diritti che interroga i rapporti che si sono storicamente determinati tra uomini e donne. Siamo convinti che la scuola e l’università devono fare il loro lavoro tenuto conto del ruolo molto importante di tutte le agenzie formative. Noi - aggiunge la ministra - siamo pronti a affrontare il tema della formazione e delle nuove competenze su questo tema da parte dei nuovi insegnati.
Ora - conclude Fedeli - serve un nuovo patto tra scuola, famiglia e società. E su questo fronte siamo pronti a fare la nostra parte, pur di superare, a partire dalla scuola, le discriminazioni tra ragazze e ragazzi che poi portano alla violenza".(ANSA).
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. LA LIBERTA’ DI MARIA E DI GIUSEPPE ...
Milano. Scritta pro aborto sulla chiesa, la reazione del parroco vola sui social
Lettera aperta di don Andrea Bellò sulla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, a Milano, è diventata virale.
di Gigio Rancilio (Avvenire, mercoledì 31 maggio 2017)
Questa è una piccola “brutta” storia ma che sta dando ottimi frutti. Arriva dalla pagina Facebook della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita, in zona Corvetto, periferia sud di Milano. E come tutte le notizie, soprattutto quelle che girano sui social, va verificata. Al telefono la voce femminile che risponde al numero della parrocchia, appena dici che sei un giornalista, si irrigidisce un po’. E ti liquida con un “il parroco non c’è”. Sfoderi la voce più pacata che riesci a fare e spieghi: “Volevo soltanto sapere se la storia è vera e se la pagina Facebook della parrocchia è davvero vostra”. “Sì, è tutto vero. Ma il parroco non c’è”.
Il parroco è don Andrea Bellò, diventato famoso nelle ultime ore, suo malgrado, per un post Facebook che ha firmato e pubblicato sulla pagina della Parrocchia san Michele Arcangelo e santa Rita. Ottenere 3700 reazioni, 307 commenti e 1590 condivisioni, per una pagina che normalmente registra 15 mi piace, è un record.
A colpire gli utenti è stata la reazione di don Andrea, dopo che il muro della sua parrocchia è stato imbrattato con una scritta offensiva: “Aborto libero (anche per Maria)”. Il parroco ha deciso di scrivere su Facebook una lettera aperta all’anonimo “imbrattatore”.
Eccola:
Che una Chiesa venga imbrattata da scritte offensive, purtroppo non è una novità. E nemmeno che un parroco usi i social per cercare un dialogo con un aggressore. E non è una novità nemmeno che un sacco di persone plaudano alla sua scelta.
Ciò che è nuovo, anzi rinnovato è il coraggio di questo gesto. La bellezza di questo gesto. L’esempio di questo gesto.
“Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989)” di Elvio Fachinelli a cura di Dario Borso, una raccolta di testi che offrono una chiave inedita per affrontare le questioni politiche
di Delia Vaccarello (l’Unità, 1 giugno 2016)
Psicanalisi e politica: due volti per un solo “cuore”. C’è un nesso stretto tra la psicanalisi che considera l’inconscio un “ospite interno”, straniero eppure intimo, e una visione secondo la quale «il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Due volti e una voce, quella di Elvio Fachinelli nella veste di giornalista che giunge a noi grazie alla raccolta Al cuore delle cose.
Scritti politici (1967-1989) a cura di Dario Borso (DeriveApprodi). Pagine attraversate da uno slancio che vede il pensiero, la clinica e la pratica politica in grado di lavorare per azzerare barriere ed esclusioni. Fachinelli crea, anticipa, interroga con quel coraggio che al contrario di Don Abbondio «uno se lo può dare». La sua politica, che vuole uscire dai problemi «tutti insieme», trova radici nelle innovazioni da lui proposte in psicanalisi. Ed è legata all’uso di una parola che è atto in grado di cambiare la realtà sia nelle stanze di analisi (quando il setting funziona) che nella politica degna di questo nome.
Nelle riflessioni “Sulla spiaggia”(“la mente estatica”, Adelphi) Fachinelli abbandona la psicanalisi come difesa pignola da un presunto pericolo interno, come fabbrica di armi ben appuntite e di corazze, per volgersi all’accoglimento dell’inconscio, a un modo «femminile» di andare al cuore delle cose. L’inconscio, ancora prima di esaminarlo, diventa un «ospite» da accogliere. Ma se il sistema di vigilanza-difesa è collegato con la impostazione virile, «allora accogliere: femminile? Il femminile sarebbe allora nel cuore, il cuore di molte e diverse esperienze». Sarebbe esporsi all’estasi laica e alla gioia, rinunciando all’illusione di padronanza. Tematica ripresa dalla «fachinelliana» Cristiana Cimino nel suo Il discorso amoroso (manifestolibri, del quale abbiamo parlato in queste pagine) dove proprio a partire dalla «posizione femminile», che implica l’accantonamento del primato della coscienza ed è strada praticabile da maschi e femmine senza prerogative di genere, c’è una possibilità di uscire da sé per intrecciare un legame intimo.
Con Fachinelli giornalista è come se ci trovassimo alla radice di un doppio registro: se non mi difendo dall’Altro che mi abita dentro, cioè dall’inconscio, ma lo accolgo, posso aprire gli occhi anche sull’Altro fuori di me e prendermi cura del legame sociale. Il cambiamento rispetto all’inconscio diventa «visione». Così una psicanalisi che è atto etico nei confronti dell’Altro può ispirare una politica che si muova nella stessa direzione. Messaggio attualissimo.
Pensiamo alla necessità di rapportarci agli esclusi di oggi, i migranti, che sono in mezzo a noi ma “estranei”, in cerca di casa e lavoro, ma sempre di passaggio. Ospiti. Specchio di una precarietà esistenziale che suscita inquietudine e angoscia. Sarebbe vitale una politica dell’immigrazione ispirata dall’etica di una vulnerabilità che riguarda tutti. I migranti di oggi sono, negli scritti politici di Fachinelli, i ragazzi che scrivono Lettera a una professoressa con Don Milani, e saranno tra le urgenze che lo spingeranno a immergersi nel ’68. «Trovai in quel libro», dice, «un richiamo alla eguaglianza delle condizioni e una prima denuncia delle deficienze della istituzione scolastica».
Di 56 alunni, dopo gli anni dell’obbligo, ne erano rimasti 16. Richiamo che lo portò nell’asilo autogestito di porta Ticinese ad analizzare il sorgere della società fascista o mafiosa: se manca la figura dell’adulto, a fare legge è la prepotenza, dice Fachinelli, o meglio “Elvio cacato”, come per un periodo fu chiamato da quei bimbi molti dei quali immigrati del nostro Sud. Articolo dopo articolo vediamo la psicanalisi offrire chiavi alla politica. Così ne Il desiderio dissidente, scritto comparso in Quaderni piacentini proprio nel ’68, «la società che soddisfa il bisogno ruba l’identità».
Allora, essenziale per i gruppi di giovani che si stavano formando proprio in quel momento è alimentare uno stato nascente: «il gruppo impara sempre meglio che essenziale per la sua sopravvivenza non è l’oggetto del desiderio ma lo stato di desiderio», laddove il desiderio appagato muore trascinando con sé il gruppo. Occhio ad incarnare il desidero nella figura del leader - che sia persona o valore -perché altrimenti si entra nella fissità del bisogno. Osservazioni fertili anche oggi se pensiamo alla trasformazione dei movimenti nati grazie al web in nome di una modalità orizzontale di rappresentanza e gestiti poi dalle logiche del leaderismo. Anni dopo, nel 1988, in “estasi metropolitane” la condizione estrema della mente, nella sua accezione laica diviene accessibile a tutti grazie al gusto della «velocità per la velocità» che attrae in quanto stravolgimento del tempo.
Una metropoli come New York permette l’estasi della promiscuità, l’appartenenza a una dimensione più vasta e la gioia. Se la voce di Fachinelli si fa graffiante e interrogante dinanzi al «suo paziente più complicato» che fu l’Italia, come sottolinea l’ottimo curatore , non è priva dei toni dell’indignazione e dello scacco. Una delle chiavi va trovata nell’uso del termine «prudenza», cioé viltà. Con i ragazzi di Barbiana Fachinelli concorda: si accettano consigli «purché siano per la chiarezza, si rifiutano i consigli di prudenza». Nel ’75 analizzando il nuovo rapporto tra operai e imprenditori, gli uni “pro tetti” gli altri “assistiti”anticipa la fisionomia della futura classe dirigente: «ne deriva un nuovo potere costretto a concentrare politica, economia e controllo sociale».
Così come una società frenata, immobile, che taccia di “imprudenza” i piccoli gruppi capaci di cambiamento: le femministe, i radicali per l’aborto. Toccante, infine, l’ultimo scritto della raccolta, Don Abbondio, “il vittorioso”. Fachinelli nota che Manzoni, mostrando il cuore nero (e avaro) dell’universo umano, ha cancellato dal lessico del curato viltà e coraggio, e «al posto della prima troviamo la prudenza». E’ il 1989, Fachinelli sta per morire, lasciandoci un buon itinerario per andare al «cuore delle cose» . E tutto il suo coraggio.
Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana
FACHINELLI, "SU FREUD".
Dal 26 al 29 maggio il congresso della Società Psicoanalitica Italiana
Antiche certezze: la Terra è Madre
Freud torna a Goethe per aiutarci
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera, 23.05.2016)
Viviamo in un’epoca di crisi in cui l’orizzonte del futuro si è fatto opaco. Difficile per i giovani elaborare un progetto di vita in una società statica, dove il ricambio generazionale sembra essersi inceppato. La stagnazione, indebolendo la speranza, favorisce comportamenti ripetitivi, monotoni e coatti, come quelli indotti dalle dipendenze. Questo è uno dei problemi che saranno discussi nel prossimo Congresso nazionale della Società Psicoanalitica Italiana (Spi), che si terrà a Roma da giovedì 26 a domenica 29 maggio intitolato Le logiche del piacere, l’ambiguità del dolore.
Sotto il segno dell’ambivalenza tra piacere e dolore saranno affrontati molti temi, quali la malattia, l’anoressia, l’autismo, la seduzione della violenza, la corruzione, il terrorismo suicida, le mutilazioni genitali.
Ma quello delle dipendenze appare, per gravità e diffusione, uno dei più urgenti. Il loro ambito, un tempo riservato alle sostanze tossiche, come l’alcol e gli oppiacei, si sottrae ormai a qualsiasi catalogazione perché tutto può divenire droga: Internet, il sesso, il cibo, il gioco d’azzardo, persino il lavoro. Ciò che contraddistingue i comportamenti coatti è l’eccesso, la mancanza del limite, la dismisura. Come tali si rivelano effetti dell’inconscio, di un’economia onnipotente che ricerca il piacere sino a prevaricarlo per inseguire un «aldilà» che, come aveva svelato Freud, finisce per convergere con la pulsione di morte. La morte ci attrae perché offre un «rifugio» per la mente che, evitando la conflittualità che ogni relazione comporta, s’illude di bastare a se stessa.
La psicoanalisi più attuale e radicale, posta di fronte a queste contraddizioni, sta elaborando un nuovo modello che, articolando le dicotomie freudiane, come quelle tra pulsioni di vita e di morte, piacere e dolore, esterno e interno, individua scambi, commistioni e fusioni che rendono più complessa la teoria e più raffinata la clinica. La terapia non si limita ad abolire il sintomo ma si propone di trasformare l’assetto della mente per renderla capace di accettare l’ambivalenza e aprirsi alla percezione della bellezza creata dal lavoro analitico stesso.
La parte più innovativa del programma consiste tuttavia nel confronto con la neurobiologia delle emozioni, in particolare con le proposte di Jaak Panksepp che, riprendendo la convergenza auspicata da Freud nel Progetto (1895), propone di fondare una «neuropsicanalisi». Una prospettiva che coinvolge la ricerca, la formazione, la terapia, il modo di pensare noi stessi.
Non dimentichiamo però che, nel saggio Il problema dell’analisi condotta da non medici (1926), Freud indica, per la formazione degli psicoanalisti, un programma prevalentemente storico-letterario in cui lo psicoanalista ideale risulta un intellettuale complessivo. Una figura che sarà ribadita dal progetto Geografie della psicoanalisi che, affrontando il rischio dell’incomprensione, apre il sapere dell’inconscio a culture diverse e lontane.
L’ultima giornata infine, che fa da contrappunto alla discussione scientifica, sarà dedicata alla dimensione estetica nella natura, nell’arte e nella vita psichica stessa. Mentre la psicoanalisi classica sonda soprattutto il tempo, quella contemporanea valorizza lo spazio nella convinzione che il paesaggio esterno e interno interagiscano tramite una segreta, speculare sintonia. La contemplazione del mondo, non solo umano ma globale, naturale e culturale, ricongiunge etica ed estetica, riprendendo la coincidenza tra bello e buono degli antichi Greci.
Ogni nuovo nato incontra una primordiale esperienza della bellezza nella contemplazione della madre, che rappresenta per lui tutto l’ambiente. Riconoscere questa priorità significa recuperare una visione premoderna della Madre-Terra: valorizzare il nostro essere parte del cosmo, non per dominarlo e sfruttarlo ma per comprenderlo e tutelarlo.
Questa prospettiva ci riporta al dialogo che Freud intrattiene con Goethe quando, nel Faust , scorge nella bellezza la forza creativa che salverà il mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Psicoanalisi, Storia e Politica....
"LA FRECCIA FERMA". La lezione sorprendente e preveggente di Elvio Fachinelli
PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA "KANT CON SADE" E SI AUTO-INTERPRETA CON "L’ORIGINE DEL MONDO" DI COURBET.
Cultura. Sessualità, etica, psicoanalisi ...
PERVERSIONI di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
Pistoia-Dialoghi sull’uomo, festival di antropolgia culturale del contemporaneo *
Perché vincere non insegna nulla
di Pier Aldo Rovatti (Il Sole-24 ore, Domenica, 22 maggio 2016)
«Mettersi in gioco non è un gioco». Ecco una frase che mi è capitato di ascoltare in un dibattito pubblico attorno al competere come carattere della società contemporanea. La parola «gioco» ha un significato e un’operatività non univoci: va bene «mettersi in gioco» purché il gioco non sia quella ovvietà cui solitamente ci riferiamo ma qualcos’altro. Che cosa? Qualcosa di molto serio e coinvolgente che ci mette radicalmente all’opera. Come negarlo? Ma, attenzione, così la parola «gioco» perde o guadagna qualcosa? Guadagna e perde. Un poco si snatura.
L’istruzione numero uno potrebbe allora essere la seguente: facciamo in modo che la frase «mettersi in gioco» non si svuoti di ciò che è più importante, ovvero del gioco stesso, delle risorse di pensiero che nella sua performatività cioè nella sua pratica, il gioco può mettere a nostra disposizione. Il gioco è per noi una x che va sondata e tradotta in un esercizio che non ci è affatto abituale.
Il gioco è irriducibile a ogni volontà di potenza e perfino alla semplice volontà di un soggetto. Non è riducibile al desiderio di affermarsi nella competizione e al piacere/godimento di prevalere sugli altri. Saper giocare significa giocare e al tempo stesso essere giocati. Saper giocare vuol dire riuscire a «sospendere» il rapporto univoco e oppositivo tra attività e passività. Perciò saper giocare può rendere possibile l’aprirsi/instaurarsi di un diverso legame sociale a partire dalla consapevolezza del fatto che tutti siamo sempre in gioco.
Il gioco è una pratica che può diventare una politica dell’esistenza. Il giocare non può mai ridursi a una successione di partite, e il saper giocare è un apprendimento di noi stessi come soggetti che devono deporre la propria corona se vogliono stare nel gioco. In questo senso si tratta di un esercizio etico in cui la nostra libertà non può che essere un equilibrio instabile difficile da mantenere.
Roger Caillois - il pensatore che secondo me ci ha lasciato la eredità filosofica più significativa sul gioco - dice in sostanza che il giocare è una competizione indebolita dal caso, ma che se lo riduciamo a una mescolanza tra abilità e fortuna, come di solito accade nella nostra società, lo snaturiamo e finiamo per strumentalizzarlo: occorre completare l’idea e la pratica del gioco con le dimensioni della maschera e della vertigine, cioè con il fatto che non si dà «vero» gioco senza una qualche alterazione del nostro sé (ovvero senza una componente di perdita della propria identità) e senza l’introduzione dell’azzardo (ovvero senza una componente di messa a repentaglio di noi stessi).
Ne consegue che saper giocare vorrebbe dire essere disposti a oscurare la pretesa di governare completamente la nostra soggettività: non solo accettare che ciò avvenga, ma «sapere» che questa è la chance positiva offerta dal giocare. Ne consegue anche che saper giocare è molto difficile poiché è inevitabilmente il passaggio attraverso una perdita che non riguarda solo una posta misurabile o monetizzabile, ma è sempre in qualche modo una perdita di noi stessi. Mentre il vincere alla fine non ci insegna nulla, il saper perdere può risultare un apprendimento del rapporto non solo con noi stessi ma anche con gli altri giocatori. Questo uso positivo della perdita di sé è forse l’insegnamento più importante che possiamo ricavare dal gioco.
Che cosa significa «essere presi» dal gioco? Giocare senza essere presi dal gioco - i bambini ce lo mostrano, noi adulti tentiamo di nasconderlo - non è un vero giocare. Ma anche giocare senza provare «divertimento» non è un vero giocare, e divertirsi significa distogliersi, allontanarsi dalla realtà quotidiana quel tanto che basta per non venirne oppressi.
Qui c’è un rapporto tra essere dentro ed essere fuori rispetto alla realtà quotidiana che sembra comprensibile solo ricorrendo nuovamente alla parola «gioco» e all’esperienza alla quale essa si riferisce. C’è un gioco sottile tra fuori e dentro, e se lo eliminiamo, perché restiamo esterni al giocare o perché ne veniamo assorbiti al punto di dimenticare la realtà quotidiana, allora abbiamo smesso di giocare.
Questo gioco sottile ha a che fare con uno scarto che si tratta di riuscire ad «abitare». Da questo scarto possiamo ricavare una sorta di arte del distanziamento tanto da noi stessi quanto dalle cose. Potremmo così scoprire che grandi questioni filosofiche come quella della sospensione del giudizio, ma anche la stessa idea di esercizio si riescono a vivere e dunque a capire solo se ci riferiamo all’esperienza del gioco e al «saper» giocare.
Chiamerei ironico tale distanziamento per diversi motivi. Perché ci sfugge sempre senza lasciarsi fissare in una definizione. Perché comporta un godimento che accompagna alla leggerezza del divertirsi una sorta di smorfia nei confronti del peso del mondo e dei suoi effetti vincolanti. Infine, perché allontana irrisoriamente noi da noi stessi, facendoci vedere come di solito ci prendiamo troppo sul serio.
* La settima edizione di Pistoia-Dialoghi sull’uomo, festival di antropolgia culturale del contemporaneo, ideato e diretto da Giulia Cogoli è dedicato a: L’umanità in gioco. Società, culture e giochi. GUARDA IL PROGRAMMA.
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
IL SOGGETTO COLLETTIVO
Dalla psicanalisi a due alla psicanalisi a enne
di Antonello Sciacchitano (psychiatryonline, 19 marzo 2016)
L’Elvio, nel senso di Fachinelli, non si è mai concesso al maestro.
Ogni volta che passava per Milano - siamo negli anni Settanta - Lacan faceva visita a Fachinelli o gli lasciava un biglietto per dirgli che l’aveva cercato.
Cosa cercava Lacan in Fachinelli?
Per rispondere a questa domanda bisogna aver ben presente il sintomo (o la sublimazione?) di Lacan. Più vicino alla perversione che alla nevrosi, il sintomo di Lacan, che si poneva in posizione di maestro, era mes élèves; gli allievi erano il feticcio di Lacan. Riuscì ad averne un migliaio, che seguivano i suoi seminari; il top, se non sbaglio, ai seminari su Joyce senza inconscio.
Non soddisfatto di mille, Lacan cercava l’uno. Fachinelli era l’uno che gli mancava. Cosa aveva di speciale Elvio? Semplice: Elvio era un lacaniano pensante; era diverso dagli allievi parigini di Lacan, che erano semplicemente lacaniani. Cosa pensava Elvio? Pensava la psicanalisi del collettivo, una dimensione carente in Freud, fissato alla psicanalisi individuale, e appena abbozzata in Lacan con la teoria del discorso come legame sociale. Ma l’ “Elvio cacato” praticava effettivamente - non solo pensava - una psicanalisi collettiva, cioè di tutti e per tutti, senza bisogno di indottrinare nessuno; la “faceva” all’asilo non autoritario di Porta Cicca, quartiere popolare e ai tempi degradato di Milano.
Insomma, Elvio era il prezioso pezzo mancante alla collezione di allievi del maestro parigino. Il collezionista forse pensava di farlo suo, sfruttando la posizione ambigua - un po’ dentro, un po’ fuori - di Elvio rispetto alla società musattiana di psicanalisi. Ingenuo, il maestro. Elvio non entrò mai nel cerchio magico che il maestro cercava di disegnare in Italia, il “tripode” di Verdiglione, Contri, Drazien, che avrebbe dovuto formare il nucleo di una scuola lacaniana in Italia. Insomma, non glielo diede.
Dettagli personali a parte, che sono di scarso interesse, la lezione che il potenziale allievo diede all’attuale maestro, ha una rilevanza teorica non piccola, tuttora da recepire e che forse il maestro non recepì.
Si tratta della freudiana Versagung, che dovrebbe caratterizzare il regime in cui condurre l’analisi terapeutica. I freudiani ortodossi traducono con “frustrazione”, nel senso che in analisi non si dovrebbe soddisfare il desiderio del paziente. I lacaniani, che pretendono - wollen, si direbbe in tedesco - tornare a Freud, oscillano tra varie versioni: dalla “disdetta” al “diniego”, passando per l’improbabile dottrina morale lacaniana, per cui l’etica dello psicanalista sarebbe non cedere sul proprio desiderio.
Niente di tutto questo. La Versagung è la funzione dell’oggetto del desiderio che “non si concede” al soggetto. Sich versagen in tedesco significa “non concedersi” (la negazione è nel prefisso ver); non significa “dire di no”, ma “non dire di sì”; introduce così una sospensione temporale nel cui intervallo fa avvenire qualcosa del soggetto.
La mia versione non antropomorfa di questa situazione è che l’oggetto del desiderio, essendo infinito, non si concede al soggetto finito. Ma non entro nei dettagli di una complessa topologia, che non ha niente a che vedere con la topologistica lacaniana. Mi limito a ricordare che, originario del Trentino, Elvio sapeva un po’ di tedesco. E diede una lezione di tedesco al maestro francese.
Raccontare il discontinuo
ELVIO FACHINELLI. Psicoanalista di formazione freudiana, lo scrittore trentino è stato un interprete critico della società, contribuendo all’esperienza dell’educazione non-autoritaria di Porta Ticinese
di Marco Dotti (il manifesto, 05.03.2016)
Il 21 dicembre 1989, un giovedì, a Milano, moriva Elvio Fachinelli. In quelle ore, in un altrove che credevamo non ci riguardasse troppo ma coglieva forse meglio e certo più di tanti scenari il cuore infinitamente nero del nostro tempo che proprio Fachinelli aveva saputo indagare con il rigore eccentrico del flâneur, Nicolae Ceausescu, uno di quei piccoli uomini senza rigore e senza smalto che talvolta fanno la storia, si affacciava dal suo palazzo presidenziale e ripeteva una menzogna di lungo corso.
Nelle parole pronunciate in quello che fu il suo ultimo discorso pubblico, il conducător mostrava un misto di incredulità e disprezzo. Incredulità rispetto ai fatti di Timişoara, alle rivolte, ai minatori, allo sgomento per la «necessaria» repressione. Disprezzo per una una realtà che non solo gli era sfuggita di mano, ma proprio non vedeva più, continuando imperterrito a parlare di «società plurilateralmente sviluppata» e di «splendore del socialismo romeno». Il giorno dopo, di quello splendore e di quello «sviluppo onnilaterale» sarebbe rimasta solo la polvere. Il ritorno all’ordine non aveva avuto luogo. E noi, scomparso Fachinelli, avevamo uno sguardo in meno per cogliere ciò che davvero stava mutando fuori, dentro e persino oltre di noi.
Elvio Fachinelli era nato a Luserna, in Trentino, nel dicembre di sessantun anni prima. Aveva trascorso gli anni dell’infanzia a Melun, una cinquantina di chilometri da Parigi, dove si erano trasferiti i genitori - il padre era impegnato nel settore edile -, si era laureato in medicina a Pavia, specializzato all’Ospedale Maggiore di Milano dove conobbe Enzo Morpurgo, cominciò a lavorare presso una casa di cura, tra i suoi colleghi figurava anche Franco Fornari, e infine fu avviato all’analisi da Cesare Musatti. «Probabilmente, con i criteri attuali», osserverà Fachinelli, «sarebbe giudicata un’analisi selvaggia - come del resto le analisi fatte dalle prime generazioni di psicoanalisti. Eppure secondo me è stata una buona analisi: ho ricevuto sorprese, e questo per me è fondamentale in ogni analisi. Ho imparato e mi sono anche divertito».
Servirebbe tutta un’archeologia di quegli incontri e di quei - topologicamente parlando - «divertimenti» per capire il «dopo» di una delle teste più lucide e attive dell’altra cultura, quella né contro per posa, né dentro per vocazione. Semplicemente diretta al cuore delle cose. Confliggere - ma su questo si è detto e scritto tanto - non sarebbe mai stato «il» problema per Fachinelli che, editore, redattore, parte attiva di imprese al limite dell’utopia - ricordiamo l’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, aperto il 12 gennaio del 1970 - non è stata figura di second’ordine nel panorama culturale italiano. Né apocalittico, né integrato Fachinelli mostrava una modalità atipica ma non esclusiva di venire ai ferri corti con le cose. Toccare il loro cuore era ben più necessario che colpire retoricamente al cuore un Moloch di per sé senza cuore.
Il «dopo», a partire dal 1967 ci consegna un Fachinelli già co-curatore della Traumdeutung freudiana per il primo volume delle Opere edite da Boringhieri. Ma a Fachinelli, nel 1965 divenuto membro della Società Psicoanalitica italiana e avviatosi alla professione di analista, non bastava l’interpretazione dei sogni. Bisognava muovere anche da un’altra urgenza: interpretare i segni. Soprattutto quando scendono in strada. Soprattutto quando più che i sogni, sono gli incubi a coprire con la loro ombra con quella cosa che - dopo il diluvio lacaniano - abbiamo persino timore di pronunciare: il reale. All’inizio del suo lavoro, Freud pose non a caso un esergo virgiliano tratto dall’Eneide, esergo che sarà sempre molto caro a Elvio Fachinelli che lo riprenderà in una memorabile puntata di Fuori Orario dove, nonostante la malattia avanzasse, continuò a tenere una rubrica fissa: «Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo». Se non posso smuovere i fiumi del cielo, muoverò quelli dell’inferno. In qualche modo, il rapporto col concreto e con la realtà fantasma che troppi, con l’alibi di Lacan hanno teso a ridicolizzare, era tenuto in massimo conto da Fachinelli, che al corteggiatissimo Lacan conosciuto a Roma e frequentato a Milano oppose un gran rifiuto, quando il 30 marzo del 1974 rifiutò l’investitura a presiedere la sezione italiana dell’École freudienne.
«L’incubo è reale, questa volta, ed è qui la sua importanza collettiva», scriveva Fachinelli in un testo pubblicato su L’Espresso il 7 novembre del 1971 con il titolo «Ritorno all’ordine». Parlava di un caso di cronaca, uno di quei faits divers che di lì a poco avrebbero invaso spazio e campo del sociale tutto, per non parlare del politico allora ritenuto autonomo da quel sociale. Parlava Fachinelli - ma senza la fredda anatomia del semiologo - della scomparsa di tre bambine a Marsala. Una di essere venne ritrovata morta alcuni giorni dopo, uccisa dallo zio. Ma questo si seppe solo fuori tempo massimo, dopo l’ennesima caccia al mostro. Dentro quel testo - ma si potrebbe dire in quasi tutti i sessantun articoli, interventi e microsaggi raccolti in volume - c’è già tutto. Quante volte l’abbiamo sentito dire?
Eppure è così e c’è da rabbrividire se confrontiamo i predicozzi deglj psicotutto da tastiera con i testi raccolti in Al cuore delle cose. Scritti politici(1967-1989) (DeriveApprodi, pp. 192, euro 17), per la cura minuziosa di Dario Borso, che in tre pagine tre di introduzione riesce a spiegarci Fachinelli più e meglio di tanto inchiostro e parole spesi in forma agiografica su di lui. Articoli brevi e lunghi, interventi e interviste spesso introvabili. Ritagli di giornale che si rianimano in un’inedita e attuale cornice di senso, ben oltre l’esperienza della rivista «L’Erba voglio», fondamentale certo ma non esclusiva del suo lavoro.
Il lavoro di collazione di Dario Borso è discreto, non straripante come si conviene al filologo e alla vecchia talpa che riaffiora a prender aria solo dopo tanto scavo, e proprio per questo ancora più utile se, come si spera, finirà tra le mani anche di lettori che di quei «formidabili anni» non sono reduci ma, tutt’al più, «prodotti». Se accogliamo l’intuizione del curatore secondo cui il paziente più complicato dell’analista Fachinelli «fu l’Italia, e il trattamento più lungo fu della realtà italiana», dobbiamo anche aggiungere che Fachinelli fugge sempre dalla boria sociologica e si concentra su fatti «grandi» ma con attenzione al minuto, al linguaggio, alle piccole crepe nella grande muraglia.
Borso parla non a caso di una psicoanalisi della domanda, invece che della risposta e di uno sguardo obliquo, appreso da Musatti e da Freud. Dell’Italia, «quasi fosse un quadro, seppe cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti da esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi: tre decenni tondi, che nella sua attività giornalistica sezionò e ricompose con sapiente tempestività». Un’attività giornalistica, disseminata non solo sulle riviste ma su quotidiani - Il Corriere della Sera, Il Giorno - su temi «caldi» come il terrorismo, Mao, le nuove droghe, la vita nelle metropoli, la mutazione dei cristianismi. Memorabile un suo ritratto, datato 1985, di Roberto Formigoni dove coglie sul nascere il «nuovo che avanza» e, dopo il 1989, si sarebbe affermato a pieno titolo nelle coscienze e in un immaginario antropologicamente mutato e sradicato persino nelle dinamiche del suo perenne mutamento.
Torniamo all’articolo pubblicato dall’Espresso. Fachinelli parla di un fenomeno che potrebbe essere dell’oggi, perché sempre l’oggi è la risultante di un processo di media o lunga durata. Se nella sfera pubblica ha spazio solo “chi lacrima e chi sanguina” come ebbe a dire un noto impresario brianzolo che di lì a poco sarebbe passato dalla speculazione edilizia a quella sull’immaginario e infine a una politica degna di Ubu, i nostri incubi privatissimi rischiano di assumere importanza collettiva e diventare tragicamente reale. Fatti su fatti, ma che cosa accade se ogni fatto - è questa la cronaca? - si inserisce «in una serie di altri fatti (politici, sociali, morali) che hanno in comune una sola cosa, ma essenziale: la circostanza di non avere soluzione, di non trovare sbocco? ». Viviamo - e non da ora - «tragedie in cui manca sempre l’ultimo atto». Incubi dove l’intensità della partecipazione collettiva consuma ogni desiderio.
Che fare? Siamo a un bivio. Oggi più di ieri, e sono passaro 45 anni. Da una parte, scriveva Fachinelli a proposito dei fattacci di Marsala, «ci si libera dall’incubo e si va verso una realtà accettabile. Questo vuol dire, per esempio, affrontare di petto quella serie di problemi collegati che si chiamano educazione sessuale, controllo delle nascite, liber zione della donna, critica pratica dell’istituzione familiare. È la strada meno probabile. L’altra è stare nell’incubo e vederlo progressivamente crescere e proliferare dentro la vita collettiva e dentro ogni individuo». Diagnosi impeccabile sul corpo di un’Italia malata. La cronicità del suo male, i tempi lunghi dello snervamento nulla tolgono alla ludicità attualissima delle diagnosi di Fachinelli. Nella miseria di chierici asserviti al selfie, tutt’al più la confermano.
SCHEDA EDITORIALE. Elvio Fachinelli, Al cuore delle cose *
Quelli raccolti in Al cuore delle cose sono la quasi totalità dei testi di tenore variamente politico consegnati dallo psicanalista Elvio Fachinelli (1928-1989) alla carta stampata (quotidiani, settimanali, riviste): di questi sessanta testi (dall’articolo al saggio, dal diario alla conferenza) cinquanta erano praticamente introvabili, mentre i restanti dieci sono comparsi in antologie ormai non più in commercio.
Rivolta studentesca, lotte operaie, speranze e accelerazioni negli anni Sessanta; terrorismo, derive autoritarie, progetti di autonomia, delusioni e tracolli nei Settanta; riflusso edonistico, innovazioni tecnologiche e nuove forme di sopravvivenza negli Ottanta: questi fondamentalmente i temi trattati, con un approccio per chiavi e spie assolutamente inedite, per brevi rilievi sismografici che segnalano una realtà in continuo movimento.
Non quindi storia, e men che meno enciclopedia - piuttosto un mosaico formato dallo sguardo obliquo di uno straordinario psicanalista. Che della psicanalisi e di Sigmund Freud ha adottato la capacità di cogliere i particolari illuminanti, gli imprestiti delle esperienze altrui, le persistenze di uno stile nell’alternarsi dei periodi. Tre decenni, appunto, che nella sua attività «giornalistica», col senno di poi ma la curiosità del momento, sezionò e ricompose, in una versione lieta e spietata del carpe diem.
Riccardo Antoniucci - Ufficio Stampa DeriveApprodi
Elvio Fachinelli: una psicoanalisi della domanda
Sempre poco allineati. Esistenze indipendenti
Tipologia:
#semprepocoallineati
Ospite:
Luisa Muraro,
Massimo Recalcati,
Pier Aldo Rovatti,
Romano Madera
20 MARZO 2016
(Domenica) Ora 18:30 - 20:30
Indirizzo
PALAZZO DEL GHIACCIO:
BALCONATA
Via Piranesi 14, 20137 Milano
Dettagli:
Elvio Fachinelli: una psicoanalisi della domanda. A cura di Dario Borso.
Con la partecipazione di Sergio Benvenuto, Giuditta Fachinelli, Romano Madera, Luisa Muraro, Massimo Recalcati, Pier Aldo Rovatti.
«L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli», il saggio curato da Lea Melandri per le edizioni ipoc press
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 05.03.2016)
È un volume importante quello curato da Lea Melandri e dedicato a L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli (ipoc press, pp. 142, euro 16). Non solo per il tenore rigoroso e appassionato dei saggi di Manuela Fraire, Ambrogio Cozzi, Fabio Fiorelli, Romano Màdera, Nicole Janigro, Antonio Prete, Antonello Sciacchitano e della stessa Melandri; l’efficacia e la solidità del testo, apparecchiato per lo studio e l’approfondimento e con una bibliografia più che eccellente e completa, risiedono nel dare conto di un percorso più lungo, complesso che porta a una chiarificazione di alcuni passaggi capitali del pensiero e dell’opera di un intellettuale dissidente, eccentrico e articolato come Fachinelli.
L’avvio è certamente dettato dal desiderio di Lea Melandri che negli anni non solo ha condiviso con Fachinelli gioie e dolori di molte iniziative politiche - tra le quali la più nota è l’esperienza della rivista L’erba voglio (animata dal 1971 al 1977) - ma ne ha sempre sottolineato il portato teorico e politico imprescindibile, partecipando a incontri pubblici e, tra le ultime imprese, al numero monografico che aut aut ha preparato su Elvio Fachinelli. Un freudiano di giudizio (352/2011), piuttosto articolato e utile per leggere anche alcuni materiali già introvabili cinque anni fa. Fuori commercio perché depositati in sedi difficili da consultare, si trattava in quel caso di comporre una piccola mappa che fornisse un vademecum sui primi e necessari scritti dell’autore trentino.
Nel crocevia tra psicoanalisi e pratica politica, Melandri dettaglia ora e con maggiore agio l’elemento di novità - sia nel linguaggio sia nel metodo: questioni entrambe che in Fachinelli ben si attagliano al partire da sé, in questo con un punto di congiunzione con quanto negli anni Settanta le donne già praticavano. Nella cifra di autenticità posseduta da Fachinelli, Melandri individua infatti alcune zone tematiche da perlustrare con dedizione e rinnovata cura per un percorso niente affatto scontato e che, se facilmente può essere ascrivibile allo sconquasso giovanile e imprudente respirato tra gli anni ’60 e ’70, in Fachinelli assume delle punte di originali dirompenze, risacche tutte da sondare, «un procedere per oltrepassamenti, riprese e salti, svolte, illuminazioni improvvise».
Ed è su queste ultime, miste a quella «attualità inattuale» riportata nel titolo del volume, che si concentrano i saggi quasi tutti affidati a psicologi e psicoanalisti che dunque ne osservano la conseguenza o nel lavoro specificamente terapeutico o nella teoresi ma pur sempre a esso legata. In ogni caso si tratta di un approccio che fuoriesce dal mero omaggio tra addetti ai lavori e si dipana in un’interrogazione profonda rispetto la trasformazione - che ha subito nei decenni attraversati da Fachinelli cadute e riprese - della pratica analitica. Fin dal suo Il bambino dalle uova d’oro (1974) affronta la «nexologia umana», nominando la potenza del nexus - ovvero l’intreccio, il legame - in cui a essere implicato come interlocutore è il corpo.
Ciò che riesce da subito a individuare Fachinelli è dunque un grado di complessità delle relazioni intersoggettive, delle stesse esistenze particolari che si fanno carico di un lavoro su di sé, difficile da rappresentare se non nella figura di qualcosa che sta in rapporto e che al contempo ne determina il groviglio inscindibile. In questa direzione desiderio e felicità diventano, come suggerisce la stessa Melandri nella preziosa prefazione al volume, temi utili alla comprensione e cifra del suo tragitto di ricerca e di impegno politico.
Nel superamento di ogni dualismo e dicotomia, così come nel riconoscimento di un solco di costante discussione tra le vaste e imprendibili temporalità che ci abitano, la riflessione di Fachinelli deve essere considerata come il frutto maturo di una «ricerca unitaria» che ha tessuto le linee dell’insubordinazione, sia all’altezza delle letture critiche rivolte a Freud sia dell’orizzonte pratico e politico entro cui poteva essere decifrato il presente. Nella medesima direzione è da considerarsi la riflessione sul tempo, sia quello dilatato dell’analisi - su cui si sofferma il contributo di Fabio Fiorelli a partire dal lavoro di Fachinelli inserito in Claustrofilia (1983) - sia quello puntiforme della quotidianità.
Le declinazioni del tempo, rintracciabili fin da La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo (1979) ma rinvenibili anche successivamente in brevi e fulminanti contributi; alcuni di essi sono comparsi nei Quaderni piacentini come per esempio «Quando Benjamin non ebbe più nulla da dire» (1981) che è al centro dell’intervento di Manuela Fraire, nella distinzione tra «attuale» e «profetico». Sempre sullo scritto del 1981 si sofferma anche Antonio Prete che, nell’incedere tra esperienza privata e politica del proprio passaggio attraverso il ’68, percorre la lezione di Fachinelli intorno alla sua passione critica per i testi e i nuovi nessi che ne possono nascere.
Interessante a tal proposito ciò che Benjamin gli suggerisce, e che Prete sottolinea, nella somiglianza tra una delle protagoniste delle Affinità elettive e alcune posture del movimento: «per una particolare congiuntura storica il ’68 fu una figura adolescente, indecisa, staccata o renitente rispetto alla realtà produttiva dei Paesi d’Occidente. Come l’Ottilia goethiana, questa generazione colpì per una sorta di bellezza essenziale, fine a se stessa, non di altro preoccupata che di se stessa. Come Ottilia, come Benjamin, il ’68 cadde vittima di forze distruttive che aveva in sé, che non riuscì a dominare, che piegarono le sue esili spalle di adolescente». In questa somiglianza che non deve apparire bislacca vi è invece l’intuizione originale di un dispiegarsi di scacco e speranza, seguendo fedelmente ciò che è il confine fragile e vulnerabile di un momento paradigmatico e irripetibile.
Contro l’ortodossia sia analitica che politica, è da leggersi anche la definizione che Fachinelli offre di estasi, o meglio il tratto che porta «dal movimento all’estasi» - così nel titolo di una intervista che rilasciata a Elisabetta Rasy nel 1989 - anno in cui viene dato alle stampe il suo noto La mente estatica. Con un certo acume, Lea Melandri individua in questo dilatarsi dello sguardo, nella «esperienza a cui partecipa tutto il corpo» non è poi così distante da ciò che aveva da dire Marx rispetto la molteplicità di manifestazioni delle vite umane: «ho imparato a vivere il discontinuo, a non pretendere passaggi di sicurezza là dove non ce ne sono, o perlomeno là dove non ne conosco. Forse meglio dire: sopportare l’angoscia. Meglio ancora: sopportare la solitudine».
Elogio del rompiscatole
di Pier Aldo Rovatti (Forum salute mentale, 10 giugno 2013)
“Sono un rompiscatole”, aveva detto di sé don Gallo, il “prete di strada” più amato d’Italia, una vita intera dedicata concretamente ai deboli e ai diversi, ai tossicodipendenti, alle prostitute e a tutti quelli che stanno ai bordi della società o ne vengono rifiutati.
E chissà quante volte questa espressione è stata pensata e usata nei suoi confronti anche dall’istituzione cui apparteneva, ovvero la Chiesa, che di fatto lo ha emarginato e ignorato.
Non è l’unico, né si tratta solo di preti battaglieri: il “rompiscatole” è una figura emblematica del mondo in cui viviamo, uno che sa rompere gli equilibri e non si presta mai a essere disciplinato, perciò diventa un corpo estraneo, temuto sia da chi ha il compito di governare e raffreddare le istituzioni, sia dalla massa opaca di coloro che credono di poter barattare la propria servitù volontaria con il mantenimento di privilegi acquisiti e pallide promesse di carriera.
Quando un grande e produttivo rompiscatole muore, l’istituzione tira finalmente un sospiro di sollievo che maschera a fatica con onoranze postume e perfino riti di beatificazione. Quando, invece, sono i tanti piccoli rompiscatole a lasciare il terreno, il cinismo ovunque trionfante non ha neppure bisogno di cerimonie riparatrici e fa calare in fretta un pesante sipario di silenzio. L’etica minima, in questi casi, è surclassata da una convinta e completa assenza di moralità civile.
Avrei voluto esserci, sabato scorso, dentro la chiesa del Carmine a Genova, durante le esequie di don Gallo, in mezzo a quel popolo che ringraziava, insieme dolente e battagliero. Si era mosso perfino, a officiarle, il cardinal Bagnasco, il capo dei vescovi; e poiché l’encomio riparatore da lui pronunciato aveva evitato qualunque accenno di autocritica, allora qualcuno ha cominciato a tossire e in breve la tosse pur sommessa ha prodotto una cascata assordante e la cerimonia si è bloccata diventando un caloroso e irrituale omaggio. Il funerale si è così trasformato in un inno alla vita.
Si parla tanto dello spirito critico di cui avvertiamo distintamente la mancanza. Ognuno di noi vorrebbe averne un poco o magari di più, ma poi quasi sempre ci si arresta ai buoni propositi, ci si appaga di parole e discorsi gratificanti. Questi ultimi, sì, non mancano e in essi circola soprattutto la lamentazione.
Ci lamentiamo di continuo delle storture e delle ingiustizie, stigmatizziamo i comportamenti dei potenti, i cattivi modelli dei politici, e abbiamo un’imponente materia per farlo. Ma non basta. Infatti, bisognerebbe superare la linea e osare rischiare qualcosa. Lo spirito critico avvista innumerevoli “scatole” che imprigionano i comportamenti individuali e sociali, inanella denunce su denunce, ma finché non tenta di “rompere” questi involucri ingabbianti, non comincia davvero a farlo, resta solo la voce di un’anima bella, intellettualistica e inerte. Ciascuno, là dove vive, nell’ambiente che gli è proprio, in quel pezzo di sociale che frequenta, può scendere giù tra la gente. Uno spirito critico che rinuncia a “questa” politica è un falso spirito critico, addormentato, già cadaverizzato.
L’esempio dei grandi rompiscatole - cui dedico questo modestissimo elogio - ci insegna che ciascuno di noi può incrinare, dovunque e in qualsiasi momento, la pellicola delle convenienze che continuiamo ad accettare per quieto vivere o per qualche astuta viltà.
Il rompiscatole è il contrario del furbo, cioè di quello che sembra essere ormai diventato il nostro abituale stile di vita. Il furbo calcola cosa è più profittevole per lui, misura vantaggi e svantaggi personali di ogni suo minimo atto. Il rompiscatole se si limitasse a calcolare, non esisterebbe neppure. Così, ciascuno di noi, se non fosse anche un po’ rompiscatole (nei confronti degli altri ma anche di se stesso), non agirebbe mai.
I grandi rompiscatole (come don Gallo) sono molto rari, forse inimitabili. Noi, normalmente, siamo un misto in cui la furbizia conserva la sua parte e dove, però, il rischio di rompere le uova nel paniere del “così fan tutti” potrebbe avere - sempre - uno spazio proprio.
Quello che possiamo fare, quotidianamente, è cercare di comprimere al massimo la parte dell’egoismo individuale e di dare una dimensione sempre più ampia alla parte di noi che si avventura a infastidire l’accettazione acritica di ogni scatola sociale, dai luoghi di educazione dei bambini alle case di riposo, dal mercato del lavoro alle forme del welfare, per non parlare di tutti gli scomparti in cui viene rinchiusa normalmente ogni diversità.
Un Commento a “Elogio del rompiscatole”
Michela 12 giugno 2013 alle 8:06 pm
Zico Perani ci invia: don Gallo era presente, uno che rispondeva “io ci sono”, soprattutto di fronte al vuoto del mondo. Non abbandonava un’anima viva per strada perché, se Dio c’è, Dio ha lasciato il posto a un prete che sapeva amare, che aveva in cuore il primato della libertà di coscienza e la resistenza del suo mondo, che non aveva dubbi sul fatto che la speranza vive nel cuore dell’umanità quando ama la pace, la libertà e ogni vita al mondo. A oltranza.
PSICOANALISI E FILOSOFIA. DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE....
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
ANDIAMO IN ESTASI
di Alfredo Giuliani *
PER ANNI ho letto trattati e saggi di psicoanalisi come fossero romanzi, zibaldoni poetici, peripezie antropologiche e terapeutiche di nuovi intrigantissimi sciamani. Sono stato toccato nel vivo della fantasia, nell’ ombelico dei sogni, nel cocuzzolo mitologico-filosofico. La letteratura psicoanalitica ha finito con l’ occupare uno spazio cospicuo della mia biblioteca.
A un certo punto della vita ho fatto una soddisfacente esperienza, né troppo breve né troppo lunga, del confessionale junghiano. Che tutto questo mi sia servito per conoscere un po’ meglio me stesso e gli altri, a percepire la forza e le deformazioni degli impulsi, per congetturare la presenza di campi e confini invisibili, mi sembra ovvio.
Per me il fascino principale dell’ analisi risiede nel metodo e nell’ idea che lo muove: che si possa riuscire a conoscere (o riconoscere) ciò che non sappiamo di sapere, ossia la nostra distorta ignoranza o sepolta sapienza. Infatti, c’ è un’ altra cosa ovvia che troppo spesso viene dimenticata: gli oggetti di cui discorre la psicoanalisi sono tanto arcaici e lontani quanto i modi della nostra vita emozionale, affettiva e mentale.
La psicoanalisi è un’ arte maieutica, è un teatro alchemico e manierista, è l’ avventura psichica, come aveva intuito lo Zeno di Italo Svevo; e l’ operatore, lo sciamano, lo esercita a proprio rischio, modificandosi continuamente. Certo, esistono anche sciamani mediocri o cialtroni; ma questo è un altro problema. Nel fascino esercitato dall’ analisi c’ è un fondamentale elemento critico. Io devo supporre che il nostro sciamano possieda i criteri della Ragione e della patologia psichica; e insieme con lui, grazie alla delicata e penetrante manovra di tali criteri, mi avventurerò nel mio sepolto e confuso sapere.
E’ vero che per l’ analisi non esiste la malattia, esiste il malato. Eppure, oggigiorno la relazione terapeutica (che dovrebbe configurarsi come una trasfusione di ritrovamenti e ideazioni dall’ analista al paziente e viceversa) corre due pericoli perfino grotteschi. In sostanza, che sia l’ analista sia il paziente si abbarbichino al già noto. L’ uno per l’ accumulo di conoscenze e interpretazioni trasmesse e collaudate. L’ altro perché subisce la frammentazione temporale delle sedute e perché tende a incanalarsi nella prevedibilità delle cose da dire. Prevedibilità che non finisce mai, attirata dal miraggio di comunicare tutto.
In un libro uscito presso Adelphi nel 1983, Elvio Fachinelli ha indagato con molta finezza questi meccanismi; ma il fatto curioso è che il suo Claustrofilia individua un’ area psicologica che circoscrive diversi fenomeni, tutti individuati dalla ricerca del chiuso (immagine o modello: l’ utero materno). Sicché dalle considerazioni sui limiti e il tempo dell’ analisi si arriva ai sogni di soggiorno intrauterino e al tempo stagnante, estatico, vissuto dal feto nella sua unità duale con la madre (relazione contraddittoria di co-identità).
Se si tiene conto che esperienze di tipo protonirico sembrano presenti nel feto negli ultimi mesi della gravidanza, mentre maturano le funzioni del suo sistema nervoso centrale, e quindi un inizio di vita mentale e sensoriale si sviluppa prima della nascita, ecco che ci si può azzardare a supporre che il bambino non ancora nato avverta nella sua estatica dimora l’ oscura e terrorizzante intrusione di un terzo! La claustrofilia sarebbe dunque un sentimento naturale, acquisito nel soggiorno intrauterino (casa-fortezza, bellissimo giardino, buia piscina ondulante).
L’ avventura psichica comincia assai prima del trauma della nascita; ma, in fondo, le madri sensibili non l’ avranno sempre sospettato? E proprio riflettendo sul tempo stagnante del soggiorno intrauterino, su quel tempo estatico fuori del tempo che a volte ritorna nei sogni dei pazienti, e che si lascia plausibilmente ipotizzare come protoattività mentale secondo le recenti acquisizioni della neurofisiologia, Fachinelli è arrivato al suo appassionante nuovo libro, La mente estatica (Adelphi, pagg. 202, lire 20.000).
Scrittore lucido, sobrio ma vibrante, dotato di un bel garbo stilistico insolito tra i suoi colleghi, Fachinelli non ricorre pressoché mai al formulario gergale della psicoanalisi. Rigoroso nel pensiero e nello stile, non si adatta però completamente alla forma del resoconto scientifico; non lo appagano del tutto neppure le flessibili maniere del saggio.
Per lui un libro deve argomentare una sequenza di sorprese. Così La mente estatica presenta alla rovescia i capitoli d’ una intrepida peregrinazione esplorativa. Prima i risultati: l’ affiorare della percezione estatica, la scoperta che la nostra civiltà si è difesa dalla nozione di estasi attribuendola soltanto a stati di rapimento mistico o religioso, oppure confinandola nel patologico.
Poi la ricognizione storica di esperienze estatiche, per exempla: Meister Eckhart, Dante, il matematico Poincaré, Proust, Bataille e l’ inaspettato Moses Herzog, protagonista dell’ omonimo romanzo di Saul Bellox. Quindi: resoconti di varie esperienze, letture, note ai margini del tema, sondaggi rapsodici del tempo estatico. Segue un approfondimento e ampliamento del motivo già trattato in Claustrofilia: la disponibilità del feto, e qui soprattutto del neonato, alla percezione estatica (unità sublime con la madre). E infine: un sottilissimo esame di alcuni scritti di Freud (e di Lacan), che a detta dell’ autore costituisce l’ antecedente di quanto abbiamo letto nei primi due terzi del libro.
La struttura anomala della Mente estatica è in questo capovolgimento, che fa risaltare l’ assemblaggio delle parti. I capitoli, tanto diversi tra loro, sono scorci, passaggi, giri, percorsi a volte tortuosi, oppure misteriosamente rettilinei, di uno stesso labirinto. Come capita spesso quando si consultano i nostri sciamani, i loro discorsi sembrano inoltrarsi in zone dove le frontiere si annullano. Ma l’ oggetto che quei discorsi evocano con cauta suggestione lo riconosciamo sùbito. Ma s, l’ estasi! Chi può dubitare della sua diffusione profana? Non si dice comunemente: mi ha mandato in estasi, era in estasi, e così via? Lo si dice magari con una sfumatura di enfasi comica, ma anche in quella forma impoverita la parola attesta una parvenza di specialissima condizione esperibile da chiunque. Specialissima e banale! Quale portentosa contraddizione.
Ma l’ opinione di Fachinelli è che non sia più lecito separare dogmaticamente considerandoli incompatibili come si fa ora i differenti livelli dell’ esperienza estatica. Nell’ estasi di qualsivoglia natura si è come fuori di sé, fuori dal sé abituale, secondo il significato originale della parola greca ékstasis, e in questo stato si prova una contentezza, una gioia anch’ essa non abituale, un reale rapimento dell’ animo.
Tale excessus mentis, descritto dai mistici medioevali, è di fatto disponibile in ciascuno di noi. Lo si ammette generalmente nell’ ambito dei sentimenti, nell’ artista e in coloro che godono interiormente l’ opera d’ arte, quale essa sia. Ma come stacco rapinoso dal tempo, sospensione totale del vivere, quasi perdita del respiro, come attimo vuoto che ti accoglie e ti perde (campo di tensioni da attraversare), la situazione estatica viene misconosciuta o cancellata. Si vuole interrompere, perché fa paura, quel movimento verso il nulla, che è familiare al mistico, ma non gli è peculiare.
Il profano teme l’ abolizione dell’ io, per angoscia arretra prima che la smisurata gioia del rapimento invada il vuoto. Peccato, non sa quello che perde. Ma una spiegazione c’ è: si ha terrore della gioia eccessiva (stato che si pone al di là del piacere comunemente inteso) poiché essa è contigua alla pulsione di morte (il vecchio Freud l’ aveva intuito). Mi viene in mente la saggia e bella Porzia del Mercante di Venezia, quando nel terzo atto perora a se stessa: Mòderati, amore, reprimi la tua estasi, trattieni la tua gioia, frena questo eccesso!.
Lo sciamano, ancora una volta, ha attivato un vortice di pensieri che ci toccano nel cocuzzolo e nell’ ombelico. Alcuni di tali pensieri sono futili. L’ estasi degli antipatici sarà anch’ essa antipatica, o varrà la metà? E quella degli sciocchi, varrà poco più di niente? Fachinelli sembra dare la preferenza all’ estasi degli intelligenti. Ma l’ estasi, di per sé, sarà indifferente; cadrà dove vuole, come soffia il capriccioso Spirito biblico? Se è un tipo particolare di percezione, non si potrà attenderla e provocarla con un certo metodo? E chi si droga non è forse un estatico coatto?
Dice Fachinelli: l’ estasi non è soltanto nelle sue epifanie riconoscibili; è anche nella sua irradiazione al resto. Ma allora l’ attimo estatico avrebbe una inimmaginabile potenzialità trasformativa. Io credo che sia proprio così, ma ne traggo conseguenze personali e non saprei inferirne effetti teorici d’ interesse generale. Della gioia eccessiva non si può parlare. Il silenzio la custodisce, e tuttavia... essa parlava apertamente in certi romanzi che hanno segnato la nostra giovinezza.
Trovo strano che Fachinelli non si sia ricordato di Dostoevskij; nel suoi romanzi, penso principalmente a L’ idiota, c’ è un vero delirio di situazioni estatiche. Per alcuni dei suoi personaggi il cadere o il trovarsi fuori di sé, il provare una gioia smisurata, è una condanna, una frenesia ingovernabile che frantuma ogni convenienza, un segno grottesco-sublime del destino; potremmo dire che per loro l’ eccitazione estatica è il meglio dell’ incomprensibile. E può portare al peggio.
L’ argomento di Fachinelli ha mille risvolti, è vago e intenso e non vorrei abbandonarlo. La mente estatica è un libro di evidenze inquietanti, dove buio e luminosità, lontano e vicinoi accelerazione e immobilità, oggetti ancestrali e nuovissimi si proiettano in un misterioso deserto esistenziale popolato di sogni realizzati e di immani attese frustrate. Tempi e spazi percettivi hanno subìto un sommovimento, e anche l’ estasi brulica sulla terra in forme orripilanti.
Nel tempo accelerato e precipitoso, che ci prende tutti, la sospensione estatica del tempo, riconosciuta o no, è un fenomeno di massa. Non lo era anche nel Medioevo? Da religiosa che era è diventata profana, politeista, portatile. Distinguere le situazioni estatiche è l’ ultima risorsa della Ragione?
* di ALFREDO GIULIANI (la Repubblica, 04 aprile 1989).
ELVIO FACHINELLI E I TRUCCHI DELLA MENTE
di Alfredo Giuliani *
Circa tre anni fa in queste pagine (precisamente il 4 aprile 1989), segnalai all’ attenzione dei lettori un bellissimo saggio di Elvio Fachinelli, La mente estatica, notando che esso faceva seguito a un’ altra affascinante indagine, Claustrofilia, apparsa nel 1983. Claustrofilia è un termine coniato dall’ autore per circoscrivere diversi fenomeni psichici individuati dalla ricerca del "chiuso" (di cui l’ utero materno è il modello originario). Dalla ondulante dimora intrauterina, immagine di un sentirsi "fuori del tempo", Fachinelli era passato a studiare nelle varie modalità dell’ estasi (mistica o profana, eccezionale o comune) l’ esperienza del "fuori di sé", dello stacco rapinoso del tempo.
Quando parlai dei due libri qui sopra nominati non tenni presente un terzo saggio che li aveva preceduti e che era ormai introvabile (pubblicato da "L’ erba voglio" nel 1979). Si intitola, ed è un omaggio a Zenone di Elea, La freccia ferma e ora lo ristampa l’ editore Adelphi (pagg. 210, lire 16.000).
Perché avrei dovuto tenerlo presente? Perché i tre libri disegnano un percorso originale e avvincente dentro una dimensione paradossale che viviamo tutti. La freccia ferma ha un sottotitolo - Tre tentativi di annullare il tempo - che prefigura anche il tema dei due libri successivi. I trucchi escogitati dalla mente umana per denegare il tempo, segmentarlo, farlo girare in tondo e farlo tornare indietro, arrestarlo, annullarlo, questi trucchi, queste illusioni o ossessioni e ripetizioni incantate e parossistiche sono l’ inesauribile argomento di quella che ora possiamo chiamare la trilogia di Fachinelli.
Egli non era semplicemente uno psicoanalista. Aveva le attitudini dell’ antropologo e del filosofo. Percepiva gioiosamente il potere significante della poesia. Con rigore, e anche con prudenza, si avventurava in zone di confine, dove le risorse dell’ immaginazione sono altrettanto decisive dei sussidi tecnici. Ed era scrittore assai accattivante, lucido e calmo nel riferire le sorprese e le peregrinazioni del proprio indagare lo strano agire degli esseri umani. Dico aveva, era con profondo dispiacere: Fachinelli morì, appena sessantenne, pochi mesi dopo l’ uscita della Mente estatica.
Il libro che abbiamo sotto gli occhi prende spunto dal caso di un paziente ossessivo. Una storia clinica piuttosto banale: figlio unico di genitori modello, le cui immagini interne sono divenute talmente forti da renderlo incapace di distanziarli e affermare la propria identità. Come riuscirà a mantenere il loro amore e la loro stima? A stare alla loro altezza? Adolescente, viene mandato in un severo e prestigioso collegio di gesuiti, dove l’educazione religiosa impartita è di tipo precettistico.
"Ecco allora che con l’ osservanza dei comandamenti, richiesta dalla nuova autorità, gli si presenta la possibilità, così pare, di uscire dal dilemma. Osserverà scrupolosamente i comandamenti e questa osservanza impersonale gli varrà da garanzia, da pegno, da protezione magica, per ogni progetto di vita personale. In questo modo non è più direttamente in questione il problema delle sue scelte autonome; è in questione l’ obbedienza a un’ istanza superiore esterna".
Ora non è più esposto ai rischi di scelte personali (diventare colpevole di fronte all’ autorità interna, perdere amore e stima). L’ essenziale si sposta su un terreno ben definito, quello del "peccato", rispetto al quale esiste un sistema di regole altrettanto definite. Il ragazzo diventa il soggetto di una macchina morale che coincide con la vera religione, e ciò lo fa partecipe dell’ onnipotenza di Dio.
Il problema sembra risolto. La vita è comandata dal decalogo di Mosè. Solo che la legge è implacabile. Il peccato, il male, cacciato in ogni azione, parola, pensiero, risulta ovunque presente. Il decalogo si estende in maniera straordinaria, si ramifica al di là delle sue enunciazioni letterali.
Per esempio: pronunciare la parola giallo è atto impuro perché giallo rimanda a limone, e limone a limonare (pomiciare, flirtare). Se bisogna santificare la domenica, giorno del Signore, bisogna santificare anche il lunedì perché è contiguo alla domenica, e il martedì e così via. Si creano periodi di settimane e mesi nei quali è impossibile fare nulla perché dedicati al Signore. In ogni attimo c’ è un comportamento doveroso rispetto a un comportamento vietato. Certo vi è un residuo non eliminabile, vi sono azioni parole e pensieri inevitabili; allora intervengono ragionamenti "di sopravvivenza" (qualche masturbazione è necessaria: se mi vieto anche questo, tanto vale morire). Il senso di colpa acquista dimensioni gigantesche.
Il rimedio più semplice per non peccare sarebbe di sopprimere azioni, parole, pensieri. E così succede effettivamente, in gran parte. Col passare degli anni, diventato per così dire adulto, il paziente ha trovato il modo di controllare la minacciosa alternativa tra divieto e dovere, male e bene: "la segmentazione del tempo concreto, del tempo come flusso e forma individuale dell’ azione, in una serie di tempuscoli tendenzialmente sempre più piccoli. Ognuno di essi è separato e isolato dagli altri, allo scopo di effettuare nel modo giusto il segmento di azione corrispondente e per mantenerlo distinto dal tempuscolo successivo in cui si ripresenta l’ alternativa". L’ insieme di queste operazioni tende a stabilire un tempo seriale, senza storia, una collezione infinita di "ora".
Questo tempo segmentato, meccanico, è reversibile. Si può "annullare". Basterà compiere in senso inverso tutte le azioni cominciate con un atto "peccaminoso" (che, intendiamoci, ha la stessa rilevanza del limonare). Se il paziente, per portare certi documenti fiscali al suo avvocato ha dovuto rimuovere una rivista che li copriva (e che egli ritiene assurdamente "peccaminosa"), uscirà dallo studio dell’ avvocato scendendo le scale voltato all’ insù, farà retromarcia con la macchina fino a casa sua, salirà le scale di casa guardando all’ ingiù e finalmente riporrà i documenti nello scaffale nell’ esatta posizione in cui si trovavano. Così l’ azione impura sarà annullata.
La frammentazione e l’ annullamento del tempo da parte del paziente configurano un procedimento dialettico caricaturale finché si vuole, assai simile all’ immobilità della freccia di Zenone, la quale non si muove benché scoccata, perché essendo ogni distanza divisibile all’ infinito non può percorrere in un tempo finito infiniti tratti. Ovviamente non ci si può muovere nello spazio senza muoversi nel tempo. Le argomentazioni di Zenone comportano che anche il tempo, come irriflessivamente "sapeva" l’ ossessivo, è divisibile all’ infinito. E dunque immobilizzabile e percorribile alla rovescia.
Il "rendere non accaduto" (o "annullamento retroattivo") è un meccanismo di difesa descritto da Freud e considerato nell’ ambito del conflitto personale del nevrotico. Per Fachinelli, ciò che può apparire soltanto personale e derisorio (visto dall’ esterno) è il segno di una situazione, insieme tremenda e fascinosa, che rientra nel sacro.
Il tentativo di annullare il tempo vuol dire rendersi padrone del tempo. Si danno molti fenomeni che rivelano questa disposizione magica. Pensiamo al famoso bambino del rocchetto, raccontato da Freud in Al di là del principio di piacere. Quando la mamma lo lasciava solo per qualche tempo, invece di piangere, il bambino lanciava un rocchetto di legno (a cui era legato un filo) oltre la cortina del suo letto, lo faceva sparire, e contemporaneamente emetteva un suono forte e prolungato che significava "via"; poi tirava il filo e faceva ricomparire il rocchetto salutandolo con un allegro "qui".
Secondo Fachinelli, compiendo il rito di sparizione-riapparizione, il bambino padroneggiava il tempo dell’ abbandono significando "non ora" e "ora"; una modalità complessa, nella quale gesti e suoni vocali realizzavano un ritmo. Possiamo dire che la forma spazio-temporale implicita nel gioco rituale del bambino non è quella lineare, ma quella ciclica.
Il tempo ciclico, proprio di tutte le civiltà arcaiche, comporta l’ eterno ritorno dell’ effimero purché questo sia garantito dai pericoli emergenti dal caos. Per garantire il procedere dell’ universo è necessario il rituale, la ripetizione del comportamento degli eroi mitici. E’ necessaria la magia per ripristinare l’ ordine turbato, e bisogna intervenire sul tempo per ricostituire il ciclo cosmico e umano nei punti in cui è stato interrotto. L’ interruzione più radicale nel ciclo umano è la morte. Fachinelli fa un lungo e serrato esame del "culto degli antenati" nelle società arcaiche studiate dagli etnologi.
Se il morto è una persona che garantiva la sopravvivenza del gruppo, un re, un membro del consiglio degli anziani, o semplicemente un capo di famiglia, un componente autorevole della comunità, la sua riduzione a cadavere scompiglia il gruppo, elimina la garanzia. La soluzione obbligata è di rinnegare questa morte, perché se il morto non muore, anche il gruppo può continuare a vivere. Del resto, noi conosciamo benissimo tale atteggiamento. "Di fronte alla morte, di fronte a certe morti, siamo noi stessi internamente i nostri arcaici, e continuiamo a fare uso, più o meno forzato, di un comune processo di rinnegamento".
I complicati rituali degli arcaici non posso che riassumerli in poche parole. Il morto viene placato (giacché ha subito offesa, violenza), quindi assorbito in una vita trans-individuale che rimane in contatto col gruppo: egli diventa un antenato, entra a far parte del gruppo degli antenati. Gli antenati sono eterni, i viventi li incorporano ripetendone i comportamenti. Il tempo ciclico è costruito sull’ obbedienza radicale alle norme dettate dai morti.
I rituali arcaici (frazionamento e ripetizione di dettagliatissime procedure) somigliano parecchio ai rituali ossessivi. Lévi-Strauss parla di aspetti maniacali e disperati di taluni rituali. E Fachinelli avanza l’ ipotesi che il rituale diventi maniacale e disperato fino alla vera e propria ossessività soltanto là dove si è fatto problematico, difficile, il rapporto con l’ orizzonte mitico entro il quale si svolge la cerimonia.
Comunque sia, sembra che tre elementi fondamentali costituiscano l’ economia arcaica della morte: uno stato di notevole dipendenza rispetto alle figure-valore del gruppo; il rinnegamento della loro morte; la formazione di una comunità di antenati.
Ora, che cosa accade nell’ ossessivo? Al principio abbiamo una situazione di parziale appartenenza tra il bambino e una figura onnipotente, poi un rapporto strettissimo tra il soggetto concreto e un polo interno di onnipotenza magica, la Legge. Il soggetto vive le proprie aspirazioni a una identità personale come pericolo di morte o di messa a morte dell’ altro (che rappresenta l’ autorità). Ma il fatto è che anche la rinuncia a tali aspirazioni comporta il pericolo di morte.
Nell’impossibilità di uscire dal dilemma, egli effettua uno spostamento del rapporto su un piano magico. Insomma, i movimenti mentali di costituzione della comunità degli antenati, negli arcaici, sono gli stessi attraverso i quali, negli ossessivi, si costituisce l’ implacabile Legge.
La differenza è che il rituale ossessivo non sposta realmente la situazione. Nel gruppo arcaico la morte della persona garante è considerata una colpa, ma il gruppo purifica il morto e lo riassorbe nel mondo degli antenati. Nell’ ossessivo il lutto non può compiersi (e quindi deve ripetersi all’ infinito) perché la minaccia è interna; l’ ossessivo rispetta e al tempo stesso vorrebbe distruggere l’ autorità, il morto, che ha interiorizzato in posizione di onnipotenza. L’ ossessivo funziona come una microsocietà arcaica paralizzata perché tutti gli elementi stanno nello stesso individuo.
Arcaici e ossessivi si trovano ad affrontare, in condizioni totalmente diverse, un problema comune. Sulla base di queste analogie Fachinelli azzarda anche una interpretazione psicoanalitica del fascismo, cercando di comprendere le sue spinte antitetiche, la sua specifica "bivalenza" (così la chiamò Angelo Tasca).
Anche qui assistiamo a un disperato diniego della morte della patria, peraltro inconsciamente desiderata da tutti quei nazionalisti che avevano sofferto in modo inaudito, e in gran parte inutile, la guerra. "Se negli ossessivi il sacro pervade gli svolgimenti di una vicenda puerile,... col fascismo si è avuto un tentativo... di sacralizzare la storia di molti uomini... e di inserire la loro vita in un tempo altro". Il sacro fu presente soprattutto all’ inizio, come terribilità affascinante di un potere assoluto. "Il colore nero delle uniformi e delle bandiere, l’ uso di simboli mortuari come teschi e tibie intendevano affermare violentemente la minaccia di morte da parte di un potere che sovrastava e vinceva la stessa morte".
Si pensa che questo è impossibile in una società moderna, eppure è accaduto. I rituali affondano nel mito, nella mentalità arcaica; nel caso del fascismo le masse si riunivano ritualmente intorno al Capo e alla parola del Capo, ricostituendo una unità totale dentro un tempo del ritorno (i "colli fatali", la romanità ai più ignota e insignificante).
L’ elaborazione del tempo, fenomenologia senza confini, di cui La freccia ferma argomenta alcuni sondaggi, è una sorprendente invenzione umana. Non esiste soltanto un tempo storico, esistono differenti tempi storici. Svolgimenti che intendono abolire radicalmente la storia, o sacralizzarla, per paradosso danno talvolta luogo a veri parossismi storici. Il mistero resta sempre questo: è più facile comprendere una società nel suo insieme che un individuo a sé stante. Perché?
Nella società troviamo dispiegate una serie discontinua o articolata di posizioni che l’ individuo necessariamente concentra in sé. Tale dispiegamento nella società consente di afferrare problemi che nell’ individuo, nel compenetrato groviglio che è l’ individuo, risultano spesso inafferrabili. L’ individuo è uno, e tuttavia è molti. Ampliando le parole dello storico Fernand Braudel, Fachinelli, verso la fine del libro, se ne esce con una bella e a mio parere incontrovertibile affermazione: la storia non è soltanto la "somma di tutte le storie possibili", è anche la somma delle storie impossibili.
di ALFREDO GIULIANI (la Repubblica, 15.03.1992)
Il rabdomante e il tribunale
di Nicola Fanizza (Nazione, indiana, 14 novembre 2015)
Vitantonio Ruggeri era un individuo oltremodo stravagante, era un folle particolare, un matto che diceva il vero. La madre, piccola di statura, era una donna colta e intelligente, aveva studiato e sapeva declinare a memoria tutti gli articoli del codice civile. Uno sviluppo esteriore modesto caratterizzava anche il figlio, il quale aveva ereditato dalla madre la mania per la lettura. A differenza di quest’ultima, però, non rivolgeva la sua attenzione al passato, bensì al presente. Era attento alla vita, era attento a tutto ciò che resisteva alla morte, ai flussi di energia che animavano le forze in campo, agli equilibri instabili e coglieva in ogni attimo il non ancora. Ogni istante per lui conteneva una sorta di potenza, una potenza che non si esauriva mai completamente nell’atto.
Ruggeri si guadagnava da vivere facendo il rabdomante. Si era accorto di avere la capacità di avvertire la presenza dell’acqua nel sottosuolo allorquando, improvvisamente, sentì una scossa proveniente dal basso. Raccontò questo episodio a suo padre, il quale lo invitò a individuare una vena d’acqua nel fondo di famiglia.
L’aspirante rabdomante impugnò i lembi laterali di un ramo d’ulivo che aveva la forma di Y e attraversò per diversi giorni in lungo e in largo il podere di circa tre ettari. Si fermò solo quando si convinse di aver trovato il punto in cui aveva avvertito più volte un flusso di energia che aveva spostato la bacchetta verso l’alto. Si dice, però, che in quell’occasione non doveva essere molto convinto di aver trovato l’acqua, poiché invitò suo padre a reiterare l’esperimento. Il padre impugnò la bacchetta biforcuta ..., ma asserì di non aver avvertito alcun flusso di energia. Nondimeno quest’ultimo di lì a poco si convincerà che Vitantonio era un autentico rabdomante. Fece scavare il pozzo proprio nel punto che gli era stato indicato dal figlio e trovò una ricca vena d’acqua.
E’ accaduto allo scrivente di riflettere non tanto sulle presunte doti dei rabdomanti, quanto sui luoghi che essi indicavano per scavare i pozzi. Ebbene, questi luoghi si trovavano sempre a monte e mai a mare: ossia sempre nella parte più alta dei poderi e giammai nella parte bassa. I rabdomanti sceglievano tale punto poiché era congeniale per l’irrigazione del fondo medesimo. Dalla cisterna, alimentata dalle norie e coestensiva al pozzo, l’acqua poteva arrivare, attraverso appositi canali, in qualsiasi parte del terreno!
Allo stesso modo in cui fiutava la presenza dell’acqua, Ruggeri prefigurava gli eventi che in un futuro più o meno prossimo avrebbero riguardato il suo Paese. E quando ciò accadeva, avvertiva l’esigenza e, insieme, l’obbligo di dire il vero agli altri. Tuttavia Ruggeri viveva in un mondo che da tempo aveva consumato la sua rottura con la verità del discorso profetico. Si esprimeva con delle oscure profezie che la sua città - Mola - non era disposta a recepire. Per i molesi non aveva che parole di sdegno e ricorreva nei loro riguardi allo scherno e all’invettiva. Diceva che non credevano alle sue profezie, avevano la capa tosta, erano troppo sensibili alle sirene del potere di turno.
Dal suo fascicolo personale* - conservato presso il Casellario politico centrale -, apprendiamo che tre mesi dopo l’entrata del nostro Paese nella seconda guerra mondiale, Ruggeri andava dicendo in giro che l’Italia avrebbe perso la guerra e profetizzava la fine del fascismo. Per di più nella notte del 12 ottobre 1940 scrisse sulla fontana monumentale, che signoreggia al centro della piazza del paese, alcune frasi disfattiste e denigratorie nei confronti del regime fascista.
Sulla scorta delle soffiate dei delatori, il giorno dopo Ruggeri fu arrestato. I dirigenti dell’Ovra di Bari si resero subito conto che non ci sarebbe stato bisogno di una perizia per sincerarsi in merito alla sua fragilità mentale. Ciò nondimeno, nascondendo la sua pazzia, lo denunciarono al Tribunale speciale per difesa dello Stato per «disfattismo politico», ossia con l’accusa di «aver tracciato iscrizioni antinazionali e disfattiste su una fontana pubblica».
Tre mesi dopo si tenne a Roma il processo a suo carico, presso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il reato di cui Ruggeri era stato accusato era oltremodo grave, poiché prevedeva molti anni di carcere. Nondimeno il tribunale accolse solo in parte le richieste dell’accusa. Ecco qui di seguito il dispositivo argomentativo della sentenza: «Il Tribunale, in considerazione della menomata responsabilità dell’imputato (...) dimostrata da attestazioni mediche e da testimonianze a discarico, ha ritenuto - accogliendo la richiesta del P. M. - che nelle circostanze del fatto si integrassero gli estremi del reato meno grave di propaganda sovversiva, applicando il minimo della pena in mesi sei di reclusione». Di fatto quel Tribunale fu più crudele dell’Ovra poiché, pur non nascondendo la follia dell’imputato, lo ritenne comunque colpevole di un reato minore.
Il giorno dopo la sua condanna, Ruggeri chiese di poter tenere la corrispondenza con i suoi genitori e solo a partire dal mese successivo gli fu consentito lo scambio epistolare. Il Nulla Osta fu concesso solo quando le autorità di polizia appurarono che i suoi genitori erano «di buona condotta morale e politica, immuni da precedenti pendenze penali, di razza ariana e di religione cattolica». Questi ultimi cercarono in tutti i modi di ottenere le libertà del loro figlio e in questo senso si attivarono per rivolgere un’istanza di grazia al Tribunale speciale. Ma il 30 marzo 1941 il Ministero degli Interni respinse l’istanza di grazia in merito alla residua pena, tenendo presenti sia le «risultanze degli atti» sia il «parere contrario concordemente espresso dall’Autorità di P. S. e dall’Arma dei Carabinieri Reali».
Le dinamiche che portarono all’arresto e alla successiva condanna del Ruggeri le troviamo ottant’anni prima anche nella rivolta che ebbe luogo a Bronte nell’agosto del 1860, dopo lo sbarco dei Mille in Sicilia. Una jacquerie che Giovanni Verga ricostruisce, insieme alla successiva repressione, nella novella Libertà, mettendo in atto, però, una vera e propria mistificazione letteraria.
Ecco il passo della novella da cui questo particolare vien fuori: «Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che gliene fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono». Abbiamo messo in corsivo il nano: poiché è questo il punto.
Qui lo scrittore siciliano trasforma il matto, fatto fucilare da Nino Bixio dopo un processo sommario, in un ridicolo nano. Leonardo Sciascia dice che Verga non voleva turbare la sensibilità del lettore scrivendo «il pazzo»; e scrisse «il nano», dissimulando così in una «minorazione fisica la minorazione mentale». Eppure Verga sapeva benissimo che non si trattava di un nano ma di un pazzo: il pazzo del paese, un innocuo pazzo colpevole di aver vagato per le strade del paese con la testa cinta da un fazzoletto tricolore profetizzando, prima che la rivolta esplodesse, sciagura ai galantuomini e la fine del regime borbonico. I delatori lo avevano denunciato, proprio perché era un folle, era il più debole e, pertanto, correvano meno rischi.
Le motivazioni che spinsero i delatori a denunciare «il nano» sono - come abbiamo già visto - in larga parte identiche a quelle che porteranno ottant’anni dopo a promuovere l’arresto e poi la condanna del Ruggeri. In ambedue i casi ci troviamo di fronte alla medesima mistificazione messa in atto nei confronti del folle che dice il vero e, insieme, nei confronti di chi è più debole.
Ciò che sappiamo con certezza è che, dopo la fine della guerra, nessuno chiese conto ai giudici del Tribunale speciale in merito alle loro nefaste sentenze. Sappiamo altresì che uno di quei giudici, Gaetano Azzariti, che era stato Presidente del tribunale della razza, divenne nel 1957, addirittura, Presidente della Corte costituzionale.
I delatori che avevano denunciato Ruggeri continuarono a spiare i potenziali sovversivi non più per conto delle istituzioni fasciste, bensì per conto delle istituzioni repubblicane.
Per quel che riguarda Ruggeri, sappiamo che, dopo aver scontato la pena, tornò nel suo paese. Negli anni successivi - finita la guerra e caduto il regime fascista - continuava a rammaricarsi per il fatto che, benché dicesse il vero, nessuno credeva alle sue profezie!
* Vedi Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, Ruggeri Vitantonio, busta 4488.
Nota:
UN TESTO NON SOLO BELLO PER SCRITTURA, MA SORPRENDENTE E RICCO DI IMPLICAZIONI ANTROPOLOGICHE, FILOSOFICHE, E POLITICHE. A FIANCO DEL RABDOMANTE E COME IL RABDOMANTE, IL SUO E’ IL FRUTTO DI UNO STRAORDINARIO ESERCIZIO DI “PARRHESIA”! L’Autore, evidentemente, ha avuto il coraggio di accogliere le CONNESSIONI emerse dalla sua ricognizione (“SAPERE AUDE!”. Ricordiamoci di “che cosa è l’Illuminismo?” di Kant e... di Foucault) e ha saputo trovare il modo di parlarne in prima persona, e in spirito di verità o, meglio, di “spirito critico” (Barrington Moore Jr.) e di “amore conoscitivo”(Kurt H. Wolff).
Federico La Sala
L’ENIGMA DELLE NORIE (N. Fanizza). Una nota
SORPRENDENTE! IL “RABDOMANTE” (cfr. post precedente, sopra riportato) HA TROVATO L’ACQUA E HA TROVATO ANCHE LA SOLUZIONE, PER PORTARE L’ACQUA IN SUPERFICIE!
L’AUTORE, CON “L’ENIGMA DELLE NORIE”, RIESCE IN UN’IMPRESA FORMIDABILE: RIDARE CONTESTO E VITALITA’ A RESIDUE TRACCE DEL MONDO CONTADINO E, AL CONTEMPO, A FARE DELL’”ngegne” LA “MACCHINA” (IL “MARCHINGEGNO”) PER “ADACQUARE” ALTRI TERRENI E PORTARE AVANTI IL SUO PROGRAMMA DI RICERCA STORICO E ARCHéOLOGICO, ANTROPOLOGICO E FILOSOFICO.
Il cigolìo della noria e lo zampillare dell’acqua continuerà per i secoli dei secoli a togliere il sonno a ISABELLA LA CATTOLICA e ad esortare GUGLIELMO a scendere “senza alcun timore nelle viscere della terra”!
Federico La Sala
PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’ ("CHARITAS"):
Francesco, in un’intervista a un giornale olandese, parla anche di corruzione: "La tentazione c’è sempre nella vita pubblica. Sia politica che religiosa". Nell’omelia a Santa Marta: "Nella Chiesa ci sono gli arrampicatori, attaccati ai soldi" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare". Così Papa Francesco in un’intervista al giornale di strada olandese "Straatnieuws", realizzata il 27 ottobre e tradotta oggi da Radio Vaticana, nella quale mette in guardia dalla "tentazione della corruzione" che c’è sempre nella vita pubblica, "sia politica, sia religiosa". Parole che assumono una nuova veste alla luce dello scandalo Vatileaks bis.
"Vorrei sottolineare due tentazioni - spiega Bergoglio - la chiesa deve parlare con la verità e anche con la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare. Questa è la prima tentazione. L’altra tentazione è di fare accordi con i governi. Si possono fare accordi, ma devono essere accordi chiari, accordi trasparenti. Per esempio: noi gestiamo questo palazzo, ma i conti sono tutti controllati, per evitare la corruzione. Perché c’è sempre la tentazione della corruzione nella vita pubblica. Sia politica, sia religiosa".
LEGGI: E BERTONE RIDEVA SUI SOLDI AGLI OSPEDALI
Papa Bergoglio fa un esempio concreto: "Ricordo che una volta con molto dolore ho visto, quando l’Argentina sotto il regime dei militari è entrata in guerra con la Gran Bretagna per le isole Malvine, la gente dava delle cose, e ho visto che tante persone, anche cattolici, che erano incaricati di distribuirle, le portavano a casa. C’è sempre il pericolo della corruzione. Una volta ho fatto una domanda a un ministro argentino, un uomo onesto, che ha lasciato l’incarico perché non poteva sopportare alcune cose un po’ oscure. Gli ho chiesto: ’quando voi inviate aiuti, sia pasti, siano vestiti, siano soldi, ai poveri e agli indigenti, di quello che inviate, quanto arriva là, sia in denaro sia in spesa?’ Mi ha detto: ’Il 35 per cento’. Significa che il 65 per cento si perde. E’ la corruzione: un pezzo per me, un altro pezzo per me".
E spiega il perché della scelta di vivere a Santa Marta invece che nel Palazzo Apostolico: "Il Palazzo Apostolico non è un appartamento lussuoso. Ma è largo, è grande. Dopo aver visto questo appartamento mi è sembrato un imbuto al rovescio, cioè grande ma con una porta piccola. Questo significa essere isolato. Io ho pensato: non posso vivere qua semplicemente per motivi mentali. Mi farebbe male. All’inizio sembrava una cosa strana, ma ho chiesto di restare qui, a Santa Marta. E questo mi fa bene perché mi sento libero. Mangio nella sala pranzo dove mangiano tutti. E quando sono in anticipo mangio con i dipendenti. Trovo gente, la saluto e questo fa che la gabbia d’oro non sia tanto una gabbia. Ma mi manca la strada".
Papa Francesco sottolinea quanto sia importante continuare a lottare contro il peccato, la cupidigia e lo sfruttamento, soprattutto dei bambini. "Io vorrei un mondo senza poveri. Dovremmo lottare per questo. Ma io sono un credente e so che il peccato è sempre dentro di noi. E la cupidigia umana c’è sempre, la mancanza di solidarietà, l’egoismo che crea i poveri. Per questo mi sembra un po’ difficile immaginare un mondo senza poveri. Basta pensare ai bambini sfruttati come schiavi o ai bambini sfruttati per abuso sessuale. E un’altra forma di sfruttamento: uccidere bambini per togliere gli organi, il traffico di organi. Uccidere i bambini per togliere gli organi è cupidigia. Per questo non so se lo faremo questo mondo senza poveri, perché il peccato c’è sempre e ci porta l’egoismo. Ma dobbiamo lottare, sempre...sempre".
A una domanda sullo spinoso argomento dell’uso dei beni e delle ricchezze della Chiesa, Bergoglio risponde: "I beni immobili della Chiesa sono molti, ma li usiamo per mantenere le strutture della Chiesa e per mantenere tante opere che si fanno nei paesi bisognosi: ospedali, scuole. Se facciamo un catalogo dei beni della Chiesa, si pensa: la Chiesa è molto ricca. Ma quando è stato fatto il Concordato con l’Italia nel 1929 sulla Questione Romana, il governo italiano di quel tempo ha offerto alla Chiesa un grande parco a Roma. Il Papa di allora, Pio XI, ha detto: no, vorrei soltanto un mezzo chilometro quadrato per garantire la indipendenza della Chiesa. Questo principio vale ancora. Sì, i beni immobili della Chiesa sono molti, ma li usiamo per mantenere le strutture della Chiesa e per mantenere tante opere che si fanno nei paesi bisognosi: ospedali, scuole. Ieri, per esempio, ho chiesto di inviare in Congo 50mila euro per costruire tre scuole in paesi poveri, l`educazione è una cosa importante per bambini. Sono andato all`amministrazione competente, ho fatto questa richiesta e i soldi sono stati inviati".
Quanto ai "tesori della Chiesa", "non sono i tesori della Chiesa, ma sono i tesori dell`umanità. Per esempio, se io domani dico che la Pietà di Michelangelo venga messa all`asta, non si può fare, perché non è proprietà della Chiesa. Sta in una chiesa, ma è dell’umanità. Questo vale per tutti i tesori della Chiesa. Ma abbiamo cominciato a vendere dei regali e altre cose che mi vengono date. E i proventi della vendita vanno a monsignore Krajewski, che è il mio elemosiniere. E poi c’è la lotteria. C’erano delle macchine che sono tutte vendute o date via con una lotteria e il ricavato è usato per i poveri. Ma ci sono cose che si possono vendere e queste si vendono".
Ipocrisia e avidità tornano anche nell’omelia a Santa Marta: "Nella Chiesa ci sono questi, che invece di servire, di pensare agli altri, di gettare le basi, si servono della Chiesa: gli arrampicatori, gli attaccati ai soldi. E quanti sacerdoti, vescovi abbiamo visto così. E’ triste dirlo, no?. Dio ci salvi dalle tentazioni di una doppia vita, dove mi mostro come uno che serve e invece mi servo degli altri. Ci si chiede di metterci al servizio, ma c’è chi ha raggiunto uno status e vive comodamente senza onestà, come i farisei nel Vangelo. Mi commuovono quei preti e quelle suore che per tutta la vita sono al servizio degli altri"
* la Repubblica, 06.11.2015 (ripresa parziale).
Una virtù normale
Il coraggio ce lo si può dare
Come vivere in pieno la vita senza cedere alla paura, senza dimenticare gli altri, coltivando i giusti valori e la leggerezza
di Carola Barbero (Il Sole-24 Ore, Domenica, 14.06.2015)
«Coraggio» viene dal latino «coraticum» o «cor habeo», derivanti da «cor, cordis» (cuore) e da «habere» (avere): ho cuore. Il coraggio prima che un moto razionale e il frutto della volontà è quindi un moto del cuore. Ha coraggio chi butta il cuore oltre l’ostacolo nonostante la paura che fa tremare le gambe e toglie il fiato. Ha coraggio chi va avanti senza cedere ai ricatti, alle intimidazioni e a gesti più o meno efferati, certo che nell’esempio e nella responsabilità civile ci sia quanto di più prezioso un uomo può offrire a chi ha intorno.
Attenzione però, come ci ricorda Umberto Ambrosoli - in un libro in cui sono raccolti alcuni esempi di persone del mondo dell’imprenditoria, della politica e della giustizia che, in questi anni e nel nostro Paese sono state capaci di incarnare questa virtù - il coraggioso non è il temerario, l’eroe, bensì una persona normale che vuole lavorare e vivere la propria vita in pieno, guardando dritto, senza cedere alla paura (che pur avverte) e senza dimenticare la responsabilità che ha verso la collettività.
Don Abbondio ne I Promessi sposi di Alessandro Manzoni diceva che «il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare» e si sbagliava, perché nessuno è caratterialmente destinato ad avere paura e ad esserne sconfitto: si può sempre imparare, prendendo esempio da coloro che hanno scelto il coraggio. Sul fatto che il coraggio si possa trovare dentro di sé (anche quando si pensa di esserne sprovvisti), si soffermano anche Uber Sossi e Valeria Zacchi nel loro saggio la cui prima parte è dedicata, a partire dalla storia della parola «coraggio», a quelle pagine di letteratura, filosofia, psicologia, antropologia e sociologia che cercano di individuarne la natura; mentre la seconda parte propone riflessioni sul coraggio come stile di vita, come modo di stare al mondo. Il testo propone interessanti domande che hanno l’obiettivo di condurre il lettore in un percorso di riflessione personale alla ricerca delle tracce e degli esempi di coraggio che ognuno di noi può trovare nel proprio vissuto. Le risposte a tali interrogativi che via via si potranno individuare non saranno verosimilmente mai definitive, ma potranno accompagnare in quella continua ricerca di consapevolezza di sé e di senso che è la vita. Poco alla volta riusciremo forse così ad allontanarci da quella rassegnazione mista a paura, sconforto e sfiducia che sembra essere diventata il sentimento più diffuso nel nostro presente. Forse riusciremo a recuperare un po’ di quella leggerezza che si sprigiona quando si segue la forze del cuore. Sì, perché se si ha il coraggio di non farsi guidare dalla paura, la vita come costrizione e pesantezza scompare e diventa leggera, dove però la leggerezza non deve essere vista come superficialità, bensì come il non avere pesi sul cuore.
Laura Campanello nel suo libro spiega molto bene quale sia l’utilità di tale leggerezza e come la sua acquisizione possa aprire la vita al cambiamento, alla creatività e alla possibilità di immaginare una vita migliore. È dotato di leggerezza chi riesce a ricercare e coltivare, chi si propone come obiettivo di arrivare a trasformare il quotidiano, accettando i propri doveri e le proprie responsabilità, aggrappandosi ai giusti valori e alle buone radici e rifiutando tutto ciò che vincola, soffoca, inaridisce o fa marcire. La leggerezza si può imparare ed è auspicabile che ciò avvenga perché leggeri (in questo senso), si vive meglio.
Vivere con leggerezza vuol dire, in fondo, essere selettivi: prendendo a prestito le parole di George Eliot, «teniamo quello che vale la pena di tenere e poi, con il fiato della gentilezza, soffiamo via il resto». Liberiamoci dei pesi e delle costrizioni e usiamo la nostra intelligenza per lasciare spazio a una dimensione più autentica e responsabile del vivere, in cui il futuro sarà diverso perché noi avremo avuto il coraggio e la forza di cambiare il nostro presente. Italo Calvino, nella prima delle sue Lezioni Americane - il ciclo di lezioni che avrebbe dovuto tenere nell’utunno del 1985 all’Università di Harvard (e che non tenne perché morì nel settembre 1985) - dedicata al tema della Leggerezza, commentò il famoso libro di Milan Kundera spiegando come «L’Insostenibile Leggerezza dell’Essere è in realtà un’amara constatazione dell’Ineluttabile Pesantezza del Vivere [...] Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti. [...] Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna».
Umberto Ambrosoli, Coraggio, Il Mulino, Bologna, pagg. 112, € 12,00;
Uber Sossi, Valeria Zacchi, Coraggio, Mursia, Milano, pagg. 118, € 10,00;
Laura Campanello, Leggerezza, Mursia, Milano, pagg. 146, € 12,00
I “soggetti smarriti” della Scuola di filosofia *
TRIESTE - È nata da una costola del Laboratorio di Filosofia Contemporanea di Trieste, ma non è riservata a pochi addetti ai lavori. È una “Scuola di filosofia”, voluta da Pier Aldo Rovatti che del Laboratorio da un decennio è il direttore. Apre i battenti oggi, con un ciclo di lezioni dal titolo complessivo “Soggetti smarriti”, nella sede del Dipartimento di salute mentale di Trieste e continuerà fino a domenica 11 maggio. Si parlerà anche di letteratura, cinema, di psichiatria e psicoanalisi. «L’iniziativa è un esperimento - ha detto il filosofo Pier Aldo Rovatti - al centro c’è la parola filosofia e ciò che questa parola esprime e richiama. Accanto a ciò avevamo un’altra necessità, di mandare un messaggio più diffuso a tutta una serie di luoghi, aspetti e pratiche sociali ». Per saperne di più www.filolab.it.
* la Repubblica, 18.01.2014
Analitici contro continentali
per Socrate non avrebbe senso
Non c’è contrapposizione ma continuità tra filosofia come sapere logico-deduttivo e filosofia come pratica di vita
di FRANCA D’AGOSTINI (La Stampa, 25/07/2012)
Nell’articolo dal titolo «Filosofia prêt-à-porter», apparso su Repubblica di lunedì, Roberto Esposito si interroga su un fenomeno ormai ben noto: la «fortuna» della filosofia nell’epoca della globalizzazione. Festival, café philo , consulenze filosofiche per manager o individui in dissesto emotivo, segretari di partito che indicono riunioni per consultare i filosofi...
Esposito si chiede come mai però a questo gran fervore non faccia seguito alcun «significativo mutamento nelle coscienze, e tantomeno nei comportamenti». E la sua risposta è che un conto è la filosofia come «ermeneutica del sé» praticata dai filosofi che gli piacciono (Foucault e altri continentali) e un altro conto è l’«epistemologia della verità», praticata dai filosofi analitici: la prima avrebbe per oggetto la verità «nella profondità interiore della coscienza individuale», mentre la seconda mirerebbe alla verità come corrispondenza al reale.
Deduciamo dunque: se vi fosse più ermeneutica del sé e meno epistemologia della verità nei dibattiti, nei café philo, nei festival ecc., la filosofia potrebbe effettivamente incidere sulla contemporaneità, determinando quella «mutazione delle coscienze» che si rende necessaria nell’epoca della globalizzazione.
Strano. Anzi direi, decisamente bizzarro. Perché non mi risulta che nei festival, nelle consulenze filosofiche, e nelle riunioni indette dai politici, si pratichi intensamente l’epistemologia della verità o qualcosa del genere. Invece, la pratica che va per la maggiore mi sembra sia proprio e solo una sorta di ermeneutica del sé. Per restare al caso italiano, leggete i nomi dei protagonisti di caffè filosofici e festival, e non trovate mai o molto raramente - filosofi analitici, o comunque «epistemologi della verità».
Si dovrebbe dedurre allora che per i bisogni filosofici della contemporaneità occorrerebbero invece dosi massicce di filosofia analitica? Che i filosofi analitici dovrebbero andarsene in giro a educare l’umanità? Direi di no, specie se per «filosofi analitici» si intende quel che normalmente si intende in Italia, ossia una congrega di studiosi del linguaggio o della scienza, super-specializzati, ottimi professionisti, ma del tutto privi di interesse per i destini dell’umanità e del mondo.
In realtà, Esposito fa bene a segnalare che esiste un problema, ma non sono sicura che sia quello da lui indicato.
Anzitutto: non mi sembra che alla diffusione della filosofia segua solo un «tutto uguale, niente di nuovo». Già soltanto il fatto che si sia identificato come «filosofia» ciò di cui c’è bisogno è a mio avviso un gran risultato, se si pensa che fino a uno o due decenni fa molti si compiacevano di dichiarare, con Richard Rorty, che «la filosofia è un pericolo per la democrazia». Oggi per fortuna simili assurdità sono passate di moda, di fronte all’evidenza inequivocabile che i pericoli stanno decisamente altrove.
In secondo luogo: forse il problema consiste proprio nella dissociazione astratta tra ermeneutica del sé e epistemologia della verità, o tra «filosofia come pratica di vita» e filosofia come sapere «logico-deduttivo, lontano dalla realtà della vita», e categorie simili. Perché mai il sapere logico-deduttivo (se esiste come tale) dovrebbe essere nemico della vita? Esposito - come molti altri, e io stessa - coltiva l’idea «greca» di una filosofia che non è solo una disciplina di studio, ma è anche un’ipotesi antropologica, ossia: un modo in cui gli uomini dovrebbero essere, per essere migliori di quel che sono, per la felicità degli individui e della specie. Ma al centro dell’ipotesi greca c’era precisamente l’intellettualismo socratico, ossia appunto l’estrema importanza del sapere logicodeduttivo (di cui la dialettica socratica costituiva un’estensione), e delle virtù teoretiche. Allora come la mettiamo?
È chiaro che la contrapposizione di cui Esposito si preoccupa è un fatto culturale, e non riguarda la filosofia. Anzi è proprio, a mio avviso, quel dato culturale di cui la filosofia ha sofferto a lungo, dal secondo Ottocento fino agli ultimi decenni del secolo scorso, perché nel momento stesso in cui dico che c’è una incompatibilità tra le pratiche di vita e la conoscenza ècome se dicessi che la filosofia è insensata. All’epoca di Foucault le contrapposizioni tra vita e teoria, pratica politica e pratica intellettuale, forse avevano ancora un senso. L’idea di «sapere oggettivo» ereditata dal mainstream del primo Novecento era davvero esigua e problematica. Oggi però il quadro è cambiato, e coltivare «l’onda montante» della filosofia servendosi ancora di quel linguaggio e di quei parametri significa appunto affondare nel «niente di fatto» di cui Esposito si lamenta.
Piuttosto, vale la pena chiedersi: è davvero e sempre «filosofia», quella che si spaccia per tale? Forse no. Certo è che assistiamo al dominio per lo più incontrastato, in ambito pubblico, di teorie che non sono affatto «filosofiche» pur passando nominalmente per tali: una generica sociologia della cultura, un’etica sommaria e moralistica, con più punti esclamativi che argomenti, e una formidabile messe di banalità infarcite di Kant e Hegel, e talvolta anche (giusto per dire che non si è solo continentali) Searle e Wittgenstein.
La questione allora è molto semplice, e si può dire in breve: è vero che il mondo ha bisogno di filosofia, ma il punto è che anche la filosofia ha bisogno di filosofia.
Recitare o essere? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
di don Angelo Casati
Viandanti (www.viandanti.org, 30 marzo 2012
Mi succede - qualcuno la ritiene una mia ossessione - di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: "Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?". Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia - non tutti! - di farisei che "recitavano": "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesù, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo - lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava - che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita" una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato.
Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: "Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza.
Scrive Carlo Maria Martini: "Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del "perfetto". Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: "Un uomo" - scrive - "condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".
di Luisa Muraro (Metro, 28 marzo 2012) *
Non m’interessa che si faccia una politica in favore delle donne. Quello che invece m’interessa, è che le donne che entrano in politica, sappiano farsi valere con tutta la loro esperienza e competenza. Perché lo dico? Perché troppe di loro, man mano che fanno carriera, rinunciano invece al nome di donna e si presentano come dei neutri. Mi riferisco a quelle che, parlando ai giornalisti, dicono: chiamatemi ministro, sindaco, segretario, professore... La trovo una cosa scandalosa e incomprensibile, tanto più che negli altri paesi europei non lo fanno. Angela Merkel era deputata ed è diventata cancelliera della Germania. Ma guardiamo anche da noi: la donna che lavora in fabbrica si chiama operaia; quella che lavora in campagna, contadina; quella che vende, commessa. È giusto, lo vuole la lingua che parliamo, lo insegnano i vocabolari. Nei vecchi vocabolari non troviamo il femminile di sindaco, di ministro, di deputato, ma solo perché erano vocabolari di una civiltà patriarcale che escludeva le donne dalla vita pubblica. Questo non succede più. Da qui viene per me lo scandalo: se quelle che entrano nei posti di comando vogliono chiamarsi al maschile, che messaggio danno? Che il femminile è buono per sgobbare ma non per dirigere? Buono per la scuola elementare ma non per l’università?
Che una donna ammiri un uomo, ammesso che abbia qualche merito, non ci sono obiezioni, l’ammirazione è un sentimento libero. Ma che lo prenda come una misura per sé, in generale, questa o è soggezione o trasformismo. E ha degli effetti deteriori, perché in un posto di responsabilità, grande o piccola, bisogna portare non solo le conoscenze ma anche le esperienze, non solo un titolo di studio ma anche il proprio essere.
Storia
La rivista fondata sessant’anni fa da Paci: una vasta impronta interdisciplinare
Aut aut, il respiro della filosofia
"Come interlocutore costante il marxismo, si aprì all’esistenzialismo, alle scuole anglosassoni, alla fenomenologia
Primo segretario fu Gillo Dorfles, costante sarà l’attenzione per la psicoanalisi"
Pier Aldo Rovatti (a cura di) IL CORAGGIO DELLA FILOSOFIA. AUT AUT 1951-2011 Il Saggiatore, pp.533, 25
di Gianni Vattimo (La Stampa-TuttoLibri 18.2.12)
Non conosciamo quasi nessun volume dello stesso genere paragonabile, per valore intrinseco e utilità culturale (non solo specialistica) simile a quello che da qualche settimana è stato pubblicato, a cura di Pier Aldo Rovatti, con il titolo Il coraggio della filosofia. Aut aut 1951-2011. Come si sarà capito, è la storia della rivista filosofica nata sessant’anni fa per iniziativa di Enzo Paci, allora professore di filosofia a Milano, che ha continuato a vivere anche dopo la scomparsa del suo fondatore ad opera di un gruppo tra i più interessanti dei giovani filosofi italiani sotto la direzione appunto di Pier Aldo Rovatti.
Il carattere relativamente straordinario di questo volume è anzitutto di essere bensì nato da un intento commemorativo-celebrativo, trasformandosi però in una specie di enciclopedia del pensiero filosofico italiano ed europeo degli ultimi sei decenni. Lo sottolineiamo perché può capitare che un libro simile venga accolto con benevola ma poco impegnata attenzione: una sorta di omaggio dovuto sia alla memoria del fondatore sia all’impegno con cui, nel corso di più di mezzo secolo, li autori vi hanno collaborato.
In fondo, i lettori di Aut aut - che sono rimasti numerosi e costantemente aumentati in questi anni - ritrovano qui una antologia di cose che avevano già letto. Eppure rileggere tanti testi - da quello inaugurale e molto denso con cui Paci iniziava il lavoro della rivista, ai tanti che gli sono succeduti niente affatto caratterizzati da una appartenenza di scuola, è come un ripercorrimento - critico e ancora «inventivo» - della storia del pensiero di una buona metà del secolo passato. Non solo della filosofia, e non solo italiana.
Quando Aut aut comincia le sue pubblicazioni, la cultura italiana è appena uscita dalla lunga parentesi del fascismo e vive anche sul piano politico il clima della ricostruzione, con l’entrata in scena di molte correnti di pensiero che erano rimaste silenti o relativamente ignorate negli anni precedenti: non solo l’esistenzialismo, ma le scuole anglosassoni (filosofia del linguaggio, neopositivismo) e poi, a partire soprattutto dagli anni Sessanta, la fenomenologia.
Un orientamento che ha costitutivamente il «vantaggio», rispetto ad altre linee di pensiero, di aprire la filosofia a una vasta gamma di rapporti interdisciplinari: il primo segretario di redazione di Aut aut, leggiamo nella nota iniziale di Rovatti, fu Gillo Dorfles, un filosofo che era, ed è tutt’oggi, anche un grande critico d’arte. Con Paci lavorò pure il musicologo Luigi Rognoni, e costante fu l’attenzione per la critica letteraria (nella raccolta attuale figura un importante saggio di Fortini) e per la psicoanalisi.
Il libro è scandito in decenni, e l’articolazione stessa mostra la connessione del lavoro filosofico con gli eventi della società italiana. I due blocchi più caratteristici della storia della rivista paiono essere quelli degli anni Sessanta e degli anni Settanta: il primo, centrato intorno alla «scoperta» del rapporto tra marxismo e fenomenologia (marcato dall’incontro con La crisi delle scienze europee di Husserl, che nell’antologia si conclude con un importante saggio di Paci sui movimenti studenteschi del Sessantotto) e il secondo messo sotto la categoria dei «bisogni», dove compaiono Agnes Heller, Toni Negri, Cacciari.
Il marxismo rimane un interlocutore costante della rivista (che va considerata anche, al di là dei singoli contributi personali in articoli e libri, il vero grande lavoro filosofico del suo direttore, Rovatti) ; ma via via entrano in gioco altre voci, non solo l’ermeneutica ovviamente, anch’essa legata alla tradizione fenomenologica, ma più tardi Foucault, Deleuze, Derrida.
Un curioso piccolo articolo di Hans Blumenberg (ripreso da un giornale tedesco del 1987: L’Essere, un MacGuffin) sembra voler prendere le distanze dal primo grande allievo di Husserl, Martin Heidegger. Verso il quale, tuttavia, non ci fu mai alcun ostracismo, in Aut aut, piuttosto una sorta di cauta osmosi che dura anche oggi e che contribuisce a fare della rivista un punto di riferimento indispensabile, non solo italiano, di ogni pensiero militante.
Un saggio di Rovatti ci mostra perché non possiamo liquidare quelle teorie
Metodo e forza del pensiero debole
Una delle tesi di Freud è che ciascuno viva la realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente"
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 05.01.2012)
Quando gli psicoanalisti discutono animosamente tra loro tendono a farlo a colpi di diagnosi. L’avversario non viene solo contestato teoricamente ma viene innanzitutto psichiatrizzato come se fosse un paziente. Nei dibattiti filosofici si discute a colpi di "tesi". L’ultimo caso è quello della critica del "nuovo realismo" nei confronti del "pensiero debole". La colpa del pensiero debole come sottoprodotto dell’ermeneutica sarebbe quella di cancellare il peso oggettivo della realtà esterna, di introdurre al posto di questo peso il carattere aleatorio delle interpretazioni che finisce per fare evaporare la nozione stessa di realtà. Sino ad individuare in questa perdita del riferimento stabile alla Realtà la giustificazione ontologica dei sofismi interpretativi di ogni genere.
In un brillante libretto titolato Inattualità del pensiero debole (Forum, Udine) Pier Aldo Rovatti, che condivide con Gianni Vattimo la paternità del pensiero debole oltre alla cura del volume che nel 1983 ne ha sancito la nascita, prende posizione decisa in difesa della sua creatura.
Due le sue argomentazioni principali. La prima: nessuno ha mai sognato di contestare che se piove piove - era uno degli argomenti "forti" contro i debolisti -, ma nessuno può negare che a) non esiste un fatto in sé che non sia preso in una rete stratificata di significazioni (la pioggia può essere benvenuta o maledetta, può dare luogo a valutazioni meteorologiche o a poesie, ecc.) e, soprattutto, che b) il fatto in sé della pioggia apre inevitabilmente sul "vissuto" singolare di chi lo vive e questo vissuto, che pure è un fatto, non è mai semplice come un fatto! Nondimeno il riferimento di Rovatti a questa dimensione non anima chissà quale irrazionalismo, ma agisce come contrappeso critico nei confronti di quei saperi forti che vorrebbero prescindere dalla dimensione affettiva e interpretativa del soggetto e che invocano la Verità, la Vita, la Realtà, la Storia e il Soggetto stesso come assoluti dogmatici.
Mi chiedo, en passant, quanto la psicoanalisi potrebbe apportare a questo dibattito sull’esistenza nuda e cruda della realtà opposta alla natura artefatta delle interpretazioni. Una scarpa è una scarpa, è un fatto, ma per qualcuno - per esempio per un feticista - non è mai solo una scarpa ma diviene un idolo, un talismano, la condizione stessa che rende possibile il desiderio erotico.
E non si tratta affatto, come sarebbe stolto credere, di situazioni patologiche. Anzi, la psicoanalisi non ci obbliga forse a coniugare il tema dell’esistenza della realtà esterna con quello, ricchissimo di implicazioni etiche, della cosiddetta Normalità? Una delle tesi maggiori di Freud è che ciascuno viva la cosiddetta realtà attraverso gli occhiali speciali del suo fantasma inconscio che la colora "surrealisticamente", ovvero senza alcuna preoccupazione realistica. Ma quando Rovatti evoca la complessità stratificata del vissuto non ha in mente innanzitutto la psicoanalisi, ma una nozione di "esperienza" che eredita da Husserl attraverso la mediazione del suo maestro Enzo Paci.
La seconda argomentazione in difesa del pensiero debole avanzata da Rovatti riguarda invece l’importanza che sin dalla sua origine i debolisti hanno assegnato all’intreccio tra realtà e dispositivi di potere. «L’appello alla Verità e alla Realtà» - scrive Rovatti - «è un appello astratto» se non tiene conto dell’incidenza dei dispositivi del potere. La sfida filosofica del pensiero debole è nei confronti del dogmatismo concettuale che accompagna ogni pensiero dell’assoluto. Per questo Enzo Paci identificava la lotta contro la barbarie nella lotta della ragione filosofica contro ogni pensiero che escludeva la singolarità critica.
Anche nel nome della realtà - una certa psicoanalisi non ha fatto altro che celebrare il culto del "principio di realtà" e ha generato spesso mostri - si possono invocare gli spettri del conformismo e quelli del sacrificio e del terrore. Il riferimento a Foucault è su questo punto cruciale perché riconduce la questione ontologica della verità a quella del potere pensando la storia stessa - come ci ricorda Rovatti - come un "gioco della verità" attraverso i dispositivi organizzati dal potere. Anche tutto l’interesse che nell’ultimo decennio Rovatti ha manifestato verso l’opera di Franco Basaglia e la dimensione della follia si muove proprio in questa direzione: la follia non è un fatto nudo e crudo, non è mai un’evidenza oggettiva - non è una malattia del cervello -, ma è il risultato di pratiche violente di esclusione, di una stigmatizzazione che è innanzitutto storica e sociale.
Questo libretto testimonia come il pensiero debole lungi dall’essere un capitolo minore della storia più recente dell’ermeneutica o del post-modernismo, sia innanzitutto una lezione di metodo: la lotta contro la barbarie è innanzitutto lotta contro la violenza intrinseca nelle fissazioni oggettivistiche della Verità (e della Normalità).
Fuga dalla libertà
Guida antropologica al "servo arbitrio"
Un brano della lezione che Zagrebelsky terrà a Roma per il ciclo "Le parole della politica" Dobbiamo liberarci dei nemici che ci portiamo dentro. Per farlo servono diversità, legalità, cultura uguaglianza e sobrietà Sono quattro i tipi umani che rinunciano al loro volere: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 16.06.2011)
Nel 1549 fu pubblicato un libello in cui si studiava lo spettacolo sorprendente della disponibilità degli esseri umani, in massa, a essere servi, quando sarebbe sufficiente decidere di non servire più, per essere ipso facto liberi. Che cosa è - parole di Etienne de la Boétie, amico di Montaigne - questa complicità degli oppressi con l’oppressore, questo vizio mostruoso che non merita nemmeno il titolo di codardia, che non trova un nome abbastanza spregevole?. Il nome - apparso allora per la prima volta - è "servitù volontaria". Un ossimoro: se è volontaria, non è serva e, se è serva, non è volontaria. Eppure, la formula ha una sua forza e una sua ragion d’essere. Indica il caso in cui, in vista di un certo risultato utile, ci s’impone da sé la rinuncia alla libertà del proprio volere o, quantomeno, ci si adatta alla rinuncia. Entrano in scena i tipi umani quali noi siamo: il conformista, l’opportunista, il gretto e il timoroso: materia per antropologi.
a) Il conformista è chi non dà valore a se stesso, se non in quanto ugualizzato agli altri; colui che si chiede non che cosa si aspetta da sé, ma cosa gli altri si aspettano da lui. L’uomo-massa è l’espressione per indicare chi solo nel "far parte" trova la sua individualità e in tal modo la perde. L’ossessione, che può diventare malattia, è sentirsi "a posto", "accettato". Il conformista è arrivista e formalista: vuole approdare in una terra che non è la sua, e non in quanto essere, ma in quanto apparire. Così, il desiderio di imitare si traduce nello spontaneo soggiogarsi alle opinioni, e l’autenticità della vita si sacrifica alla peggiore e più ridicola delle sudditanze: l’affettazione modaiola. La "tirannia della pubblica opinione" è stata denunciata, già a metà dell’Ottocento da John Stuart Mill, e oggi, nella società dell’immagine, è certo più pericolosa di allora. L’individuo si sente come sotto lo sguardo collettivo di una severa censura, se sgarra, o di benevola approvazione, se si conforma. Questo sguardo è a una sorta di polizia morale. La sua forza, a differenza della "polizia" senza aggettivi, è interiore. Ma il fatto d’essere prodotta da noi stessi è forse libertà? Un uomo così è libero, o non assomiglia piuttosto a una scimmia?
b)L’opportunista è un carrierista, disposto a "mettersi al traino". Il potere altrui è la sua occasione, quando gli passa vicino e riesce ad agganciarlo. Per ottenere favori e protezione, che cosa può dare in cambio? Piaggeria e fedeltà, cioè rinuncia alla libertà. Messosi nella disponibilità del protettore, cessa d’essere libero e si trasforma in materiale di costruzione di sistemi di potere. Così, a partire dalla libertà, si creano catene soffocanti che legano gli uni agli altri. Si può illudersi d’essere liberi. Lo capisci quando chi ti sta sopra ti chiede di pagare il prezzo dei favori che hai ricevuto. Allora, t’accorgi d’essere prigioniero d’una struttura di potere basata su favori e ricatti, che ti prende dal basso e ti solleva in alto, a misura del tuo servilismo.
Quel de la Boétie, già nominato, ha descritto questo meccanismo. Il segreto del dominio sta in un sistema a scatole cinesi: un capo, circondato da pochi sodali che, distribuendo favori e cariche, a loro volta ne assoldano altri come complici in prevaricazioni e nefandezze, e questi altri a loro volta. Così la rete si estende, da poche unità, a centinaia, a migliaia, a milioni. Alla fine, il numero degli oppressori è quasi uguale a quello degli oppressi, perché appena compare una cricca, tutto il peggio, tutta la feccia degli ambiziosi fa gruppo attorno a lui per aver parte al bottino. Il tiranno genera tirannelli. Ma questi sono uomini liberi o parassiti come quelli che infestano il regno animale e vegetale?
c)L’uomo gretto è interessato solo a ciò che tocca la piccola sfera dei suoi interessi privati, indifferente o sospettoso verso la vita che si svolge al di là, che chiama spregiativamente "la politica". Rispetto alle questioni comuni, il suo atteggiamento l’ipocrita superiorità: "certo gli uni hanno torto, ma nemmeno gli altri hanno ragione", dunque è meglio non immischiarsi. La grettezza è incapace di pensieri generali. Al più, in comune si coltivano piccoli interessi, hobby, manie, peccatucci privati, unitamente a rancori verso la società nel suo insieme. Nell’ambiente ristretto dove si alimentano queste attività e questi umori, ci si sente sicuri di sé e aggressivi ma, appena se ne esce, si è come storditi, spersi, impotenti.
La grettezza si accompagna al narcisismo e alla finta ricerca della cosiddetta "autenticità" personale che si traduce in astenia politica accompagnata dal desiderio d’esibirsi. In apparenza, è profondità esistenziale; in realtà è la vuotaggine della società dell’immagine. Il profeta della società gretta è Alexis de Tocqueville, nella sua analisi della "uguaglianza solitaria": vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è estraneo al destino degli altri: se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria.
Su questa massa solitaria s’innesta la grande, terribile e celebre visione del dispotismo democratico: "al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Ama che i cittadini siano contenti, purché non pensino che a stare contenti". Ora, chi invoca su di sé un potere di tal genere, "immenso e tutelare", è un uomo libero o è un bambino fissato nell’età infantile?
d)La libertà può fare paura ai timorosi. Siamo sicuri di reggere le conseguenze della libertà? Bisogna fare i conti con la nostra "costituzione psichica", dice Freud: l’uomo civile ha barattato una parte della sua libertà per un po’ di sicurezza. Chi più di tutti e magistralmente ha descritto il conflitto tra libertà e sicurezza è Fëdor Dostoevskij, nel celebre dialogo del Grande Inquisitore. A dispetto dei discorsi degli idealisti, l’essere umano aspira solo a liberarsi della libertà e a deporla ai piedi degli inquisitori, in cambio della sicurezza del "pane terreno", simbolo della mercificazione dell’esistenza. Il "pane terreno" che l’uomo del nostro tempo considera indispensabile si è allargato illimitatamente, fino a dare ragione al motto di spirito di Voltaire, tanto brillante quanto beffardo: "il superfluo, cosa molto necessaria". E’ libero un uomo così ossessionato dalle cose materiali, o non assomiglia piuttosto alla pecora che fa gregge sotto la guida del pastore?
Conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza: ecco dunque, della libertà, i nemici che l’insidiano "liberamente", dall’interno del carattere degli esseri umani. Il conformista la sacrifica all’apparenza; l’opportunista, alla carriera; il gretto, all’egoismo; il debole, alla sicurezza. La libertà, oggi, più che dal controllo dei corpi e delle azioni, è insidiata da queste ragioni d’omologazione delle anime. Potrebbe perfino sospettarsi che la lunga guerra contro le arbitrarie costrizioni esterne, condotte per mezzo delle costituzioni e dei diritti umani, sia stata alla fine funzionale non alla libertà, ma alla libertà di cedere liberamente la nostra libertà.
La libertà ha bisogno che ci liberiamo dei nemici che portiamo dentro di noi. Il conformismo, si combatte con l’amore per la diversità; l’opportunismo, con la legalità e l’uguaglianza; la grettezza, con la cultura; la debolezza, con la sobrietà. Diversità, legalità e uguaglianza, cultura e sobrietà: ecco il necessario nutrimento della libertà.
"Io, la religione e la lettura biblica"
di Marco Vannini (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo. È un’accusa che respingo fermamente, chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael). Tale accusa si fonda infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità. Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia definita come "animalesca": non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile discorso. È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di riferimento fondamentale del libro - e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di "sinistro antigiudaismo"?
Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di "ebrei", senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico, alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso. È comunque evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra Gesù e il Padre - bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni. Che la storia biblica sia costruita su falsità - invenzione i Patriarchi, invenzione l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc. - e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid. p. 391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa. Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna, accanto a religione come verità. Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendica l’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di "farsi simili a Dio" nella giustizia. Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una conversione, di una "morte dell’anima", ossia di un radicale distacco dall’egoità. Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima - ed è su questo che il cristianesimo si è fondato - e che la mistica - unica vera erede della filosofia greca- ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo "gelido pessimismo", come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi. Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
Il coraggio e la solidarietà
di Giangiacomo Schiavi (Corriere della Sera/Milano, 7 gennaio 2010)
Per essere una città aperta non basta ricevere chiunque, da qualunque parte arrivi: bisogna saper accogliere, integrare, avere una cultura e un’identità, bisogna saper dare e anche prendere. Il cardinale Tettamanzi lo ricorda nel giorno dei migranti, con il Duomo gremito e due piccoli che suonano un violino: sono rom, e sciolgono il ghiaccio dal cuore di Milano.
Non hanno gli occhi spaventati dei bambini portati via dal campo nomadi di via Rubattino, ma come loro cercano in questa città uno sguardo solidale, un’attenzione diversa dal rancore e dall’ostilità. Tra noi ci sono buoni e cattivi, dice un ragazzo filippino, ma siamo visti come dei diversi: alcuni di noi non possono nemmeno andare a scuola. Aggiunge una giovane ecuadoregna: «Ti chiedo aiuto, caro don Dionigi, vorrei che papà e mamma mi insegnassero le cose che li hanno resi felici nella vita».
È nel suo simbolo più caro che bisogna cercare Milano. È nel Duomo e nel cardinale che la città si ritrova e fa sentire quell’umanità che a volte sembra smarrita. Sono crollate le vecchie ringhiere a Milano, quelle che intorno alle case portavano una solidarietà attiva, soprattutto nel bisogno. Ma non le abbiamo mai del tutto sostituite, per rendere meno difficile o tragica la sopportazione dei disagi, degli stenti, delle miserie della vita ai meno fortunati, che oggi sono sempre più stranieri, immigrati, e fra questi donne e bambini.
Non siamo riusciti a trovare qualcosa, come scriveva anni fa il grande Giovanni Testori, «che ci aiuti ancora a sopportare, non solo non facendo del male al prossimo nostro, ma facendosi reciprocamente del bene. Parole vecchie, usate, anzi, abusate? Ma non invecchiano, e turpemente, assai prima l’altre, quelle con cui abbiamo stabilito, come nostra corona, non già la milanese passione, bensì la nuova milanese indifferenza?».
È contro l’indifferenza che predica generosamente e con coraggio da mesi il cardinale Tettamanzi. Per farci guardare i poveri di Milano, gli immigrati, i senzatetto, gli emarginati, i disoccupati, oltre l’impressione del fastidio: invitandoci a riconoscere in loro una dignità e un’umanità troppe volte calpestata. Purtroppo ci sono cuori che non vogliono aprirsi, ha ripetuto ieri il cardinale, sfidando un’altra volta il muro di gomma che sembra avvolgere Milano. Ma richiamando anche i genitori migranti ai loro doveri, invitandoli a portare avanti i progetti educativi per la nuova società nella quale hanno scelto di vivere. Vanno aiutati a diventare nuovi milanesi.
Bisogna far emergere il meglio in ciascuno di noi, ha detto Tettamanzi. E cogliere i segnali di speranza e di fiducia che si vedono negli occhi dei bambini. Il violino dei piccoli rom in Duomo è anche questo. È una domanda forte, per tutti: cosa c’entrano i bambini con la sofferenza?
Il coraggio di creare un universalismo forte
di Khaled Fouad Allam (Il Sole-24 Ore, 27 dicembre 2009)
Il dibattito sulla proposta di legge sulla cittadinanza è appena iniziato alla Camera. È una questione complessa e difficile; la discussione è ricca e articolata, ma nessuno è in grado di offrire ricette miracolose. La sua complessità è legata al fatto che la questione della cittadinanza va oltre la questione dei diritti perché il contesto odierno è diverso da quello degli anni 70: mondo e individui sono cambiati. Su binari paralleli sono in atto globalizzazione e ricomposizioni identitarie; il dibattito sulla cittadinanza è essenzialmente un dibattito sulla società. Le società si interrogano sul significato di nazione, sul rapporto tra diritto e cultura, sul rapporto tra religione, diversità culturale e territorio, sul significato della democrazia: la cittadinanza interroga il divenire delle società a livello nazionale ed europeo.
Il contesto odierno è affine a quello di cui parlò Alexis de Tocqueville in L’ancien régime et la révolution: siamo nell’entre-deux, non siamo più nel prima ma non siamo ancora nel dopo, non c’è più l’ancien régime ma non è ancora la rivoluzione. Le tradizioni locali e nazionali tendono a misurarsi con la mondializzazione, il mondo in cui viviamo è decentrato perché le metropoli accolgono il mondo intero, diverse culture, tradizioni, certezze e incertezze. Per nessuno è facile governare tutto ciò, perciò oggi la cittadinanza non può più essere valutata come in passato.
I territori non sono più isolati, ma si viaggia su internet e attraverso le moderne autostrade; popoli e culture si confrontano; ma come trasformare tutto ciò in una comunità di destino? Come integrare il cinese, il musulmano, lo srilankese, mentre manca una cultura mondiale, manca una riformulazione dell’universalismo in cui il pianeta sia in grado di identificarsi, manca certo una riflessione profonda sul piano giuridico e sul piano culturale. Anche sul piano giuridico: nel caso dell’islam, è necessaria una riflessione sui diritti, in particolare sul diritto di famiglia, relativamente al quale la globalizzazione ha scardinato le antiche percezioni. La globalizzazione può avere una virtù pedagogica, spingendo le società più timorose del cambiamento verso una riformulazione giuridica e culturale, ad esempio nel rapporto tra uomini e donne.
Viviamo un tempo in cui il processo di globalizzazione induce a radicalizzare molte posizioni in un ripiegamento di tipo comunitario; le identità tendono a diventare sistemi di difesa di fronte alle nuove paure, alle insicurezze. Il risultato è che, sul piano legislativo, in quasi tutti i paesi europei le legislazioni sulla cittadinanza si avviano verso posizioni restrittive; s’instaura il dubbio sulla fedeltà degli individui alla nuova nazione d’appartenenza, e l’integazione è rimessa in causa Non parlerò del caso dell’islam perché ormai sembra che la questione integrazione riguardi esclusivamente i musulmani: secondo una tradizione storiografica che risale a Henri Pirenne, l’islam non sarebbe integrabile. Ma allora mi chiedo quale sia la soluzione: quella di cacciare tutti i musulmani come fece Isabella di Castiglia nel 1492, oppure ripetere ciò che è accaduto agli inizi degli anni 90 nell’ex Jugoslavia?
L’integrazione non è mai stata un processo facile, ma non abbiamo scelta. Gli esseri umani devono inventare la nuova comunità di destino: sentirsi italiano ed europeo non è impossibile per chi non vi è nato; si può benissimo amare Pergolesi e allo stesso tempo la musica indiana o quella araba; e si può amare sinceramente il paese di cui si è deciso volontariamente di diventare cittadino. Perché questo divenga il sentire condiviso, si deve creare una nuova cultura che ora non c’è.
Il silenzio degli intellettuali italiani mi preoccupa, troppo spesso tendono a rinuncia e pessimismo. Il risultato è che continuiamo a creare sacche di marginalità, creiamo cittadini che hanno paura di portare il proprio nome. I1 nuovo secolo ha bisogno d’altro: di coraggio e speranze per affrontare le difficoltà e le contraddizioni del nuovo mondo.
Antonio Tabucchi denunciato da Schifani Anno Zero 5 febbraio 2009
appello di esponenti della cultura internazionale
Sosteniamo Antonio Tabucchi
in “Le Monde” del 19 novembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)
Le democrazie vive hanno bisogno di individui liberi. Di individui coraggiosi, indisciplinati, creativi. Che osano, che provocano, che disturbano. Così è degli scrittori la cui libertà di espressione è indissociabile dall’idea stessa di democrazia.
Da Voltaire e Hugo a Camus e Sartre passando per Zola e Mauriac, la Francia e le sue libertà sanno ciò che devono al libero esercizio del loro diritto a guardare e a mettere in allerta di fronte all’opacità, alle menzogne e alle imposture dei poteri. E l’Europa democratica, da quando si costruisce, non ha smesso di sostenere questa libertà degli scrittori contro tutti gli abusi di potere e le ragioni di Stato.
Ma ecco che in Italia questa libertà è messa in pericolo dall’attacco esagerato di cui è oggetto Antonio Tabucchi.
Il presidente del Senato italiano, Renato Schifani, gli chiede in giustizia la somma esorbitante di 1,3 milioni di euro per un articolo pubblicato su l’Unità, giornale che tuttavia non è perseguito.
Il crimine di Antonio Tabucchi è di aver interpellato Schifani, personaggio centrale del potere berlusconiano, sul suo passato, sulle sue relazioni d’affari e le sue dubbie frequentazioni - tutte domande a cui l’interpellato evita di rispondere. Informarsi sul percorso, la carriera e la biografia di un alto responsabile pubblico fa tuttavia parte del necessario interrogarsi e delle legittime curiosità della vita democratica.
Attraverso la scelta particolare del bersaglio - uno scrittore che non ha rinunciato ad esercitare la sua libertà - e la somma reclamata - un ammontare astronomico per un affare di stampa -, l’obiettivo perseguito è quello di intimidire una coscienza critica e, attraverso essa, di far tacere tutti gli altri.
Dai recenti attacchi contro la stampa di opposizione a questo processo ad uno scrittore europeo, noi non possiamo restare indifferenti e passivi davanti all’offensiva del potere italiano contro la libertà di giudizio, di critica e di interrogazione.
Per questo motivo noi ci dichiariamo solidali con Antonio Tabucchi e vi invitiamo ad unirvi a noi, firmando in massa questo appello.
Laure Adler, giornalista e scrittrice;
Théo Angelopoulos cineasta;
Homero Aridjis scrittore, ambasciatore del Messico presso l’Unesco;
Michel Braudeau, scrittore ed editore;
Andrea Camilleri, scrittore;
Patrick Chamoiseau, scrittore;
Alain Corneau, cineasta;
Constantin Costa-Gavras, cineasta;
Antoine Gallimard, PDG delle Editions Gallimard ;
Edouard Glissant, scrittore;
Tony Judt,storico e scrittore;
Jean-Marie Laclavetine, éditore e scrittore;
Claude Lanzmann, cineasta e scrittore;
Antonio Lobo Antunes, scrittore;
Claudio Magris, scrittore;
Antonio Munoz Molina, scrittore;
Marie Ndiaye, scrittore, Premio Goncourt 2009;
Orhan Pamuk, scrittore, Premio Nobel di letteratura;
Daniel Pennac, scrittore;
Philip Roth, scrittore;
Boualem Sansal, scrittore;
Fernando Savater, scrittore e filosofo;
Jorge Semprun, scrittore;
Mario Soares, uomo politico;
Philippe Sollers, scrittore;
Serge Toubiana, direttore della Cinémathèque française;
Nadine Trintignant, attrice;
François Vitrani, direttore della Maison de l’Amérique latine.
Su Lemonde.fr La liste completa dei firmatari
Quel diverso che ci fa paura. Perché la tolleranza non basta più
Così nelle società globalizzate la convivenza tra culture differenti è diventata una caratteristica ineliminabile
Nel passato la presenza dello "straniero" era sempre un dato temporaneo
È necessario comprendere che le differenze sono una ricchezza inestimabile.
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 16.11.2009)
Pubblichiamo una parte dell’intervento tenuto in videoconferenza da Zygmunt Bauman al convegno su "La qualità dell’integrazione scolastica" che si è tenuto a Rimini nei giorni scorsi
Vivere con gli stranieri, che è il fondamento demografico e sociale dell’esposizione alle differenze, a una qualche sorta di alterità, non è affatto nuova nella storia moderna. Ma l’idea era grosso modo che chiunque sia alieno, straniero, diverso da te perderà prima o poi il suo carattere di straniero. La politica dominante verso gli stranieri, per la maggior parte della storia moderna, è stata una politica di assimilazione: "Voi siete qui, siete fisicamente vicini; diventiamo quindi vicini anche spiritualmente, mentalmente, eticamente", che vuol dire accettare gli stessi valori universali dove però, per "universali", abbiamo sempre inteso i "nostri" valori. Quindi, con questa prospettiva dove l’essere stranieri era soltanto uno spiacevole fastidio temporaneo, non esisteva l’idea di dover imparare a vivere con il diverso.
Ora per la prima volta nella storia moderna siamo arrivati a renderci conto che le cose non stanno così. La modernità è sempre stata un periodo di migrazioni massive di persone da un continente all’altro, da un capo del mondo all’altro, da una cultura all’altra, e la migrazione è avvenuta per necessità nelle circostanze moderne in cui le persone cosiddette in soprannumero, persone per cui non si poteva trovare una sistemazione nella loro società d’origine, non c’era spazio per loro nel nuovo ordine, nel nuovo stato avanzato del progresso economico, erano costrette a viaggiare. Tuttavia c’è una differenza: le migrazioni contemporanee hanno un carattere diasporico, non assimilatorio. Le persone che vanno in un altro Paese non ci vanno con l’intenzione di diventare come la popolazione ospite. La popolazione ospite, nativa, non è particolarmente interessata ad assimilarle.
Ci sono circa 180 diaspore che convivono a Londra, 180 diverse lingue, culture, tradizioni, memorie collettive. E il problema è che se la politica di assimilazione non è più facilmente percorribile, come possiamo vivere giorno per giorno con gli stranieri? Come possiamo comunicare, cooperare, vivere in pace senza che noi perdiamo la nostra identità e che loro perdano la loro, quindi in una coabitazione che non porta all’uniformità? In altre parole la questione non è più quella di essere tolleranti verso le persone diverse. La tolleranza in realtà è molto spesso un altro volto della discriminazione. "Sono tollerante verso le tue abitudini e le tue usanze bizzarre. Sono una persona molto aperta, sono superiore a te. Capisco che il mio stile di vita è irricevibile per te. Tu non puoi raggiungere lo stesso livello. Quindi ti permetto di seguire il tuo stile di vita ma io non lo farei mai se fossi in te".
La sfida con cui ci dobbiamo confrontare oggi consiste nel passare da questo atteggiamento di tolleranza a un livello più alto, cioè a un atteggiamento di solidarietà. Dobbiamo rassegnarci al fatto che ci sono degli stranieri ma anche imparare a ricavarne dei vantaggi. La maggior parte di noi vive in grandi città. Le città sono sempre piene di stranieri e la loro presenza è inquietante perché non sai come si comporterebbero se non li tenesse a distanza, destano sospetto, fanno orrore semplicemente perché sono delle entità estranee. Gli stranieri fanno paura. Ho chiamato questa paura tipica delle città contemporanee mixofobia, la fobia di mescolarsi con altre persone, perché là dove ci mescoliamo ad altre persone in un ambiente poco familiare tutto può succedere.
Ma la stessa condizione di mescolanza con gli stranieri provoca anche un altro atteggiamento. Ci sono due reazioni contraddittorie al fenomeno, entrambe osservabili nelle città contemporanee. La seconda è la mixofilia, la gioia di essere in un ambiente diverso e stimolante. Hannah Arendt fu probabilmente la prima pensatrice moderna che ripensando a Gotthold Ephraim Lessing, uno dei pionieri dell’Illuminismo tedesco, vide in lui una delle figure più lungimiranti fra i filosofi della prima modernità.
Secondo Lessing non bisogna limitarsi ad accettare il fatto che la differenza sia destinata a perdurare ma bisogna effettivamente apprezzarla, riconoscere che in essa c’è un potenziale creativo senza precedenti. Il fatto di mettere insieme esperienze, ricordi, visioni del mondo molto diverse può portare a una prosperità di sviluppo culturale.
È troppo presto per dire quali potranno essere gli sviluppi perché le due tendenze contrapposte, la mixofobia e la mixofilia, hanno più o meno uguale forza. A volte prevale l’una, a volte l’altra. La questione è incerta, siamo ancora nel mezzo di un processo che non sappiamo bene come andrà a finire.
Quel che stiamo facendo nelle vie delle città, nelle scuole primarie e secondarie, nei luoghi pubblici dove stiamo accanto ad altre persone è di estrema importanza non soltanto per il futuro delle città in cui vogliamo trascorrere il resto della nostra vita, o perlomeno in cui viviamo al momento, ma è di somma importanza per il futuro dell’umanità. Viviamo in un mondo globalizzato.
La globalizzazione ha raggiunto un punto di non ritorno, non possiamo tornare indietro, siamo tutti interconnessi e interdipendenti. Ciò che avviene in luoghi remoti ha un impatto formidabile sulle prospettive di vita e sul futuro di ognuno di noi.
Quindi è giunto il momento di fare ciò che Lessing predisse che avremmo dovuto fare, cioè imparare ad apprezzare le opportunità create dalle nostre differenze, anziché temere le conseguenze morbose del convivere con le differenze. Ci confrontiamo con le conseguenze della globalizzazione in ogni strada delle città in cui viviamo, in ogni scuola in cui insegniamo, ma dal canto opposto per la stessa ragione, le città, le scuole sono il laboratorio in cui sviluppiamo i modi per imparare, trarre beneficio, tesaurizzare e rallegrarci per l’appunto della natura diasporica della realtà contemporanea.
Non sto dicendo che si tratti di un compito facile. Confrontarsi con una sfida che i nostri antenati non hanno mai raccolto, ci pone di fronte a un compito che mette a dura prova la nostra mente e le nostre emozioni e che dobbiamo riuscire ad affrontare nel suo dispiegarsi, in corso d’opera, senza disporre di soluzioni precostituite.
Lo scrittore israeliano, i suoi viaggi e il suo impegno per il dialogo
Il mondo non è un nemico
Grossman: "Così ho vinto la paura dell’altro"
Mi piace il cambiamento, il movimento rapido Viaggiare ti porta a vivere nuove realtà
Bisogna avere il coraggio di capire, bisogna non temere di andare nei posti più dolorosi
di Alberto Stabile (la Repubblica, 19.10.2009)
GERUSALEMME. David Grossman, la trama di A un cerbiatto somiglia il mio amore è incentrata su un viaggio in Galilea. In altri suoi lavori compare il tema del viaggio.
Che cosa rappresenta per lei? È una fuga dalla realtà o un incerto percorso verso una migliore conoscenza dell’altro e di se stesso?
«Un viaggio non è mai una fuga, penso piuttosto che ti costringa ad affrontare nuove realtà, nuove persone, evochi nuovi elementi dentro di te. Mi piace il cambiamento, il movimento rapido. Il viaggiare è un continuo porsi delle domande, perché in un viaggio le condizioni cambiano ogni momento, non sei preparato. Ricordo quando camminavo in Galilea... Non avevo mai fatto prima una cosa del genere, camminare da solo, e per così grandi distanze. Ho subito capito che il viaggio mi aveva cambiato: il fatto stesso che fossi stato in grado di farlo, la gente che ho incontrato, le mie conversazioni con loro, essere attento a cose a cui prima non ero sensibile, come fiori, animali, odori, colori... Tutte queste cose mi erano completamente nuove».
Quando lei dice che un viaggio non è mai una fuga è perché, in fondo, si parte sempre per ritornare?
«Forse all’inizio si tratta sì di una fuga da qualcosa, ma pensi al profeta Giona, nella Bibbia. Lui scappava, voleva scappare dalla profezia che Dio gli aveva imposto, ma immediatamente si è trovato in una situazione così diversa e così tanto più drammatica di quella da cui stava fuggendo. Sto pensando ad altri libri che ho scritto e che sono anche libri "che corrono". Il primo libro che ho pubblicato in ebraico si chiamava Ratz, L’uomo che corre, e in Vedi alla voce: amore vi è anche il viaggio dei salmoni nel mare. So di avere questa duplicità in me, perché di solito la mia esistenza è composta da situazioni molto "passive": posso stare seduto delle ore e scrivere, poi, all’improvviso sento la necessità di movimento, e il bisogno di uscire, di incontrare gente e di espormi al mondo».
È una necessità sia fisica che psicologica?
«Penso di sì, anche se la gran parte della mia ispirazione mi viene quando sono a casa, seduto nella mia stanza. Non so più dove l’ho letto, penso che sia stato Albert Camus, che una volta disse che se una persona fosse stata a contatto con il mondo per un giorno e poi in seguito fosse stato imprigionato per il resto della sua vita, avrebbe avuto comunque abbastanza materia da masticare, da digerire».
Esiste in letteratura un viaggio che le ha lasciato un segno?
«Non so. Da bambini, ovviamente, abbiamo tutti letto Jules Verne, ma da adulto... mi ricordo del libro di Xavier de Maistre, un savoiardo vissuto nel Regno di Sardegna nel XVIII secolo, che fu rinchiuso nella sua stanza per 42 giorni e scrisse un libro meraviglioso, intitolato Viaggio intorno alla mia camera. Se una persona è abbastanza aperta di mente, non ha bisogno di molte attrattive esterne. Posso pensare inoltre all’Odissea, al ritorno a casa, a Itaca. Mi chiedo quanto della cultura occidentale sia influenzata dalle storie di Agamennone e della Guerra di Troia, di Giasone e degli Argonauti, e ovviamente di Ulisse. Anche l’Ulisse di Joyce è un viaggio. E quanto gli scrittori abbiano viaggiato, fra l’altro molti di loro proprio in Italia. Sto pensando ai viaggi in Italia di Goethe, di Thomas Mann, di Virginia Wolf...».
È vero, l’Italia è uno dei paesi più visitati del mondo, ma Gerusalemme non è da meno.
«Sì, Gerusalemme è come una calamita. Vi sono diverse città nel mondo che sono come un magnete e penso che questi siano luoghi che, quando li visiti, ti cambiano qualcosa dall’interno. L’ho sentito quando sono stato a Praga, che qualcosa dentro di me era cambiato. E lo stesso mi è successo al Cairo».
In che senso, esattamente?
«Sono arrivato in un paese che era stato un nemico. Avevo preso parte alla guerra contro l’Egitto (Guerra del Kippur, ottobre 1973, ndr), e all’improvviso mi sono ritrovato in un paese di cui avevo solo una conoscenza superficiale e dei pregiudizi. E mi sono trovato all’improvviso a camminare per le strade, a guardare le facce della gente e vedere la quotidianità della loro vita, la loro normalità».
Che cosa l’ha impressionata, la folla del Cairo?
«La folla, questa enorme quantità di persone che si muove come un fiume, tutto il tempo, giorno e notte, e questa mistura tra una cultura molto antica, gloriosa con i suoi faraoni e le sue piramidi e la povertà di oggi. È stata un’emozione molto forte».
C’è un luogo dove non è stato e che vorrebbe vedere presto?
«Damasco è un posto del genere. Circa venti anni fa, quando fu pubblicato in inglese il mio libro Un popolo invisibile, mi telefonò il vice direttore del National Geografic e mi disse: "Abbiamo letto il suo libro e siamo pronti a mandarla dovunque lei voglia" e io risposi immediatamente: "A Damasco". Rimase sorpreso e mi chiese: "Perché Damasco?". Gli risposi: "Perché Damasco mi fa paura"».
Perché paura?
«Perché da quando sono nato sono stato programmato a vedere nei siriani i nostri nemici più feroci. Sapevo che se fossi andato in un posto da cui ero così terrorizzato e mi fossi concesso la possibilità di "essere là" completamente, di vedere la complessità della situazione, mi avrebbe spinto con forza a scrivere di tutto ciò, avrebbe creato in me qualcosa di nuovo. Normalmente, quando scrivo, "vado" in posti che mi spaventano, tocco sempre temi che mi sono difficili, minacciosi. In quasi tutti i miei libri da Vedi alla voce: amore, con l’incubo della Shoah, o Il libro della grammatica interiore, in cui ero così ossessionato, per anni, dalle questioni del corpo e da come noi dobbiamo adattarci al nostro corpo, che non abbiamo scelto...».
E c’è un posto dove è stato e in cui non vorrebbe mai più tornare?
«No. Forse dovrei spiegare una cosa: mi hanno cresciuto facendomi credere che tutto il mondo era un nemico. Sono stato un bambino nell’Israele degli anni Cinquanta ed è così che la nostra generazione è stata cresciuta, con questo messaggio: "Il mondo è un nemico, stai attento, sii sospettoso. La gente tenterà di imbrogliarti, di manipolarti". I nostri genitori ci hanno davvero avvolti nella bambagia, hanno tentato di tenerci molto vicini a loro, cosa perfettamente comprensibile, se si pensa alla loro esperienza negli anni Quaranta. Da quando però ho cominciato a viaggiare per il mondo, ho scoperto l’esatto opposto. Ovviamente, qua e là si possono trovare imbroglioni o cattivi soggetti, ma più vado nel mondo e più ci vado disarmato, deliberatamente, e più incontro gente e ci parlo, più la mia impressione è l’esatto contrario. Persino in questo viaggio a piedi in Galilea, in cui ho camminato da solo. Di solito incontravo gente che andava in coppia o in piccoli gruppi, al massimo di una decina di persone. La maggioranza della gente che camminava allora, parlo di sei anni fa, in quella parte di Israele, erano coloni. Hanno questa ideologia. Mi dicevano: "I vostri figli vanno in esplorazione in Sud America, noi esploriamo il nostro Paese". Penso che in qualsiasi altro contesto io e loro ci fossimo incontrati, la cosa si sarebbe sviluppata in una lite, in uno scontro. Trovandoci nella natura, incontrandoci nella natura, con la generosità della natura...».
La natura ha mitigato gli animi, ha fatto da mediatore?
«Sì, e la gente ha davvero parlato con me».
Da Il vento giallo a Vedi alla voce: amore, dai racconti per bambini ad A un cerbiatto somiglia il mio amore sembra che lei abbia compiuto un lungo percorso. Come riassumerebbe il suo viaggio personale di scrittore?
«È una domanda molto seria. È il coraggio di capire. Capire altra gente, tentare di vedere la realtà attraverso gli occhi di altre persone, diverse da me e alle volte persino miei nemici, che mi possono sfidare o essere pericolose per me. Tentare di osservare la realtà da quanti più possibili punti di vista. È non temere di andare in posti che possano fare paura, o che possano essere molto dolorosi, o addirittura nei posti più dolorosi».
Italia anche questa è democrazia
di GIAN ENRICO RUSCONI (la Stampa, 15/9/2009)
Fine della democrazia? Postdemocrazia? No: più banalmente, la democrazia che c’è. O che ci meritiamo. I milioni di italiani che accettano questa situazione sono degli sprovveduti o dei turlupinati? Stento a crederlo. O se sono complici, di che cosa sono complici esattamente?
L’uso e l’abuso della particella post applicata alla democrazia e a quasi tutti i fenomeni attuali segnala l’incapacità di definire la nostra condizione specifica. Rischiamo di essere epigoni che si definiscono per differenza da ciò che c’era prima - un prima spesso idealizzato.
Nel nostro Paese - dove quasi tutti gli studiosi offrono diagnosi sulla soglia del catastrofismo - c’è mai stato un momento storico in cui funzionava una buona democrazia o quanto meno una democrazia accettabile? La risposta è affermativa a patto che si cancellino o si sdrammatizzino le critiche dure che gli stessi analisti di oggi (o i loro maestri) avevano fatto a suo tempo. Abbiamo dimenticato la «democrazia bloccata», la «democrazia di massa», «la democrazia senza alternanza», «l’ingovernabilità» e poi «il decisionismo» (craxiano) e «la democrazia dell’applauso» (Bobbio 1984)?
Alla fine non era unanime la denuncia che «i partiti» avevano espropriato «i cittadini» di ogni autentica possibilità di partecipazione democratica?
Si dirà che adesso siamo arrivati ad un punto rispetto al quale i difetti denunciati ieri appaiono persino veniali. Ma allora dobbiamo chiederci se si è trattato di un accumularsi irreversibile di vizi di struttura che non sono stati corretti quando si potevano correggere. Oppure di un «salto di qualità» imputabile a nuovi fattori strutturali generali che elenchiamo come una giaculatoria (globalizzazione, de-industrializzazione, precarizzazione del lavoro, tracollo dei movimenti operai tradizionali, elefantiasi dei sistemi mediatici, e quindi populismi di varia natura). Ma perché soltanto nel nostro Paese questi fattori hanno prodotto l’ascesa irresistibile di un personaggio come Silvio Berlusconi? Il monopolio mediatico-comunicativo e la sovrapposizione degli interessi privati e pubblici (con l’irrisolto conflitto di interessi) sono stati la causa o non piuttosto il sintomo di una insensibilità democratica diffusa e pregressa che aveva cause e motivazioni precedenti? Nel frattempo il berlusconismo ha realizzato il ricambio di classe politica più radicale dall’immediato dopoguerra. E sembra godere di un consenso che resiste ad ogni bufera.
I beneficiari e i protagonisti di questa mutazione, politici e intellettuali, si tengono ben stretto il successo di cui godono oggi, ma non fanno nessun serio tentativo di dare una forma concettuale o ideologica coerente alla situazione che si è creata. Uno solo continua a parlare e a dettare l’agenda politica e ciò che resta della cultura politica: Silvio Berlusconi. Gli altri reagiscono, compresa l’opposizione. L’indifferenza intellettuale personale del Cavaliere verso la qualità culturale del consenso/dissenso di cui può godere/soffrire si è trasmessa anche ai suoi sostenitori, compresi gli intellettuali di professione. Non è fuori luogo il sospetto che la campagna contro il giornalismo nasconda l’ostilità al ceto intellettuale come tale. Se è così, siamo davanti ad un fenomeno interessante in un Paese tradizionalmente caratterizzato dall’enfasi e dalla retorica dei «letterati» e degli ideologi. Ma a ben vedere l’impoverimento della riflessione politica e ideologica è l’altra faccia della logica del sistema comunicativo mediatico-televisivo rispetto alle forme tradizionali di trasmissione sia dell’informazione che della cultura. La politica come intrattenimento. Come intermezzo e sintesi del flusso mediatico continuo.
Che razza di democrazia è questa? In proposito da tempo è stato coniato il concetto di «populismo mediatico» che presuppone quello di «democrazia populista». Fermiamoci un istante a riflettere. Per decenni a sinistra la critica alla democrazia si è basata sulla distinzione tra «democrazia formale» (legata alle elezioni e a procedure di funzionamento riconosciute anche al sistema italiano) e «democrazia sostanziale» sempre carente, sempre attesa, sempre invocata.
Oggi questa distinzione sembra aver perso ogni efficacia esplicativa per due ragioni: per la rivoluzione mediatica, nel senso detto sopra e, più sottilmente, per la centralità assegnata nel gergo politico al concetto di «popolo» - il depositario degli interessi sostanziali della democrazia. Pensiamo alla denominazione del «Popolo della libertà» e alla retorica della Lega. In entrambi i casi il concetto di popolo è usato in senso polemico contro il sistema democratico esistente e le sue regole di rappresentanza.
Berlusconi ha retoricamente introdotto la novità del «popolo-degli-elettori». Il «popolo» è chi lo vota. Non è la nazione o l’etnia (vera o inventata) ma un evento politico. La democrazia del voto diventa la democrazia tout court. Più la stratificazione sociale nasconde i suoi connotati di classe tradizionali, complessificandosi nella diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, nella pluralità degli stili di vita e di consumo, nell’autopercezione personale e sociale - più si crea la finzione del «popolo» che persegue i suoi interessi sostanziali seguendo il leader. Di più: nelle intenzioni del leader se questo «popolo» vince le elezioni può pretendere di modificare a suo piacimento la Costituzione. Prende il posto del demos sovrano che è il fondamento stesso della democrazia. Se questa nostra osservazione è giusta, più che ad un dopo-democrazia siamo davanti a una mutazione genetica del concetto di demos. Il problema è antico: il demos nato come alta finzione di cittadini liberi, maturi, responsabili è entrato a partire dal XIX secolo in collisione, poi in competizione con la classe sociale, trovando quindi faticosi equilibri nelle varie forme di democrazia sociale. Oggi si annuncia una nuova fase innescata dalla destrutturazione delle classi e dal ruolo decisivo assunto dalla comunicazione di massa. Il demos è socialmente destrutturato e frammentato, ma una parte consistente di esso si polarizza politicamente verso il leader.
Facciamo un altro passo in avanti nella nostra analisi. Spesso per spiegare l’anomalia italiana molti analisti (a sinistra) hanno parlano di un’estraneità tra «il sistema politico» (inefficiente, inadeguato o appunto di semplice «democrazia formale») e «la società civile» (vitale e ricca di risorse e di energie, portatrice di «democrazia sostanziale»). E oggi quindi molti fanno appello ad una «società civile» italiana che si contrapporrebbe a Berlusconi.
E’ un errore. Il berlusconismo infatti è esso stesso espressione della «società civile» italiana. O se vogliamo, della sua disgregazione e del suo disorientamento. Molte patologie sociali (generalizzata assenza di senso civico e senso dello Stato, endemica complicità di molte regioni e gruppi sociali con la criminalità organizzata, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono dal di fuori, ma dal ventre della società civile. Non si tratta di negare l’esistenza di gruppi, settori, pezzi di «società civile» attivi, generosi, preziosi per la realtà concreta della democrazia. Ma è inaccettabile la contrapposizione di principio tra «la società civile» e il «sistema politico» come se fossero due poli ed entità autonome.
Il quadro della democrazia italiana è davvero complicato e difficile da decifrare. Le pulsioni autoritarie che provengono dall’alto e da altri settori non sono sufficienti per tracciare una diagnosi di una possibile, sia pure soffice, fascistizzazione. Ci sono solidi anticorpi democratici nel Paese, dentro e fuori le istituzioni. Non siamo nel 1923 o nel 1924. Assistiamo tuttavia ad una mutazione profonda della democrazia che, misurata ai suoi criteri ideali, ci sconcerta. Ma può e deve essere guidata. Chi ne ha la capacità?
La fine di un ciclo
di Rossana Rossanda (il manifesto, 04.09.2009)
Lo scenario politico degli ultimi anni sta arrivando a consunzione. Non sarà facile metterne alla luce uno più decente tanta è la bassezza, istituzionale e culturale, in cui siamo per responsabilità di molti, forse di tutti, nell’inseguire una transizione verso una seconda repubblica che, in assenza di un progetto di qualche spessore, si è risolta soltanto nel tentativo di minare lettera e spirito della Costituzione del 1948 - largo a un mercato da Far West, concessioni illimitate a una proprietà senza coraggio, abbattimento, e possibilmente fine, di ogni diritto sociale. Risultato, un decisionismo cialtrone sommato alla tradizione nazionale di evadere il più possibile la legge e il fisco.
In questo quadro, l’ascesa folgorante di una figura come quella di Silvio Berlusconi ha la sua logica. Non è solo per le sue imprese sessuali - ciliegina sulla torta della legge sulla sicurezza più indecente d’Europa - che si ride di noi, perduto quel rispetto che nel dopoguerra eravamo con fatica riusciti a conquistarci. Tale è l’imbarazzo che circonda l’Italia che siamo usciti perfino dalle abituali statistiche, non siamo neanche un’anomalia, siamo da non prendere sul serio.
Gli scricchiolii si avvertono a destra e a sinistra. Sulla sinistra è perfino superfluo tornare, è detta estrema solo perché ha una certa attenzione alle sofferenze del lavoro e una certa sensibilità allo scombussolamento delle coscienze, ma non è in grado di uscire dalla ripetitività di formule da una parte, Ferrero e Diliberto, e dall’altra dal troppo silenzio di un Vendola diventato oggetto di tiro regionale al bersaglio.
Né è possibile attendersi dal Partito democratico almeno un aggiornamento del keynesismo a livello 2009 - la crisi è tornata tutta nelle mani di chi l’ha provocata e a pagarne le spese sono i ceti più deboli e i lavoratori di ogni tipo, per il calo continuo dell’occupazione. Questo non è solo un problema nostro, anche Obama è in pericolo, incastrato com’è fra il corporativismo della società americana e l’eredità sempre più avvelenata del Medio Oriente.
Insomma "sinistra", parola che credevamo impraticabile per mollezza, è diventata addirittura simbolo di estremismo, neanche il Pd la pronuncia senza scusarsi, cosa che non succede neppure alla Spd, per non dire della Linke. Di Bersani non ricorderemo certo i voli di pensiero, noioso com’è a forza di buon senso emiliano, e di Franceschini ci rimarrà in mente lo sforzo d’un democristiano perbene per tenere assieme ai ds un settore cattolico lusingato da sirene da tutte le parti.
Questa inaffondabilità dei cattolici è il solo processo che emerga con qualche chiarezza assieme alla crisi del ciclo berlusconiano. Come succede con i personaggi del suo tipo, sarà una fine agitata, a colpi di coda, ma il suo blocco si è rotto.
La scelta del cavaliere per la Lega - unica vera tendenza di fascismo localista e in abiti nuovi - ha posto Fini in posizione di challenger, in nome di una destra meno turpe che non gli sarà facilissimo rappresentare; certo ce la mette tutta. Se l’ex Forza Italia non sa bene dove guardare, An è divisa fra lui e un Gasparri che lo sfida. Lega e Pdl sono entrati in conflitto con la Chiesa (s’erano tanto amati!) per le intemperanze del cavaliere e di Feltri: così pieni di sé che la prudenza è andata a farsi benedire.
Così sotto traccia riappare la voglia di un partito cattolico, sia in chi sta scomodo nel Pd sia in chi sta scomodo nel Pdl, via Casini. L’Italia continua a replicare la partizione tricolore, con un rosso sempre più sbiadito, un bianco sempre più sporco e un verde da giocare non con la Lega, ma con il Vaticano.
Verrebbe da dire "tanto rumore per nulla", se il suicidio del Pci e del Psi non avesse spostato a destra l’asse del centro. È curioso che il paese dove più lunghe sono state le code del sessantotto sia destinato a diventare di nessuna, o scarsa, importanza per l’Europa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’Onore ferito
di Ida Dominijanni (il manifesto, 03.09.2009) *
Concita De Gregorio, Natalia Lombardo, Federica Fantozzi, Maria Novella Oppo, Silvia Ballestra. Sono tutte donne le colleghe e amiche dell’Unità citate per danni dal presidente del consiglio per "lesa dignità". E’ un caso e non lo è. Perché fin dall’inizio dell’affaire che lo sta coprendo di ridicolo, in Italia e nel mondo, sono soprattutto donne, a partire da Veronica Lario, quelle che si sono prese la libertà di dire "vedo" di fronte al poker delle sue performance da "vero uomo". Vedo e non credo.
Basta questo per mandare in briciole il mito del grande seduttore a cui nessuna resiste. Vediamo, non crediamo, resistiamo. La libertà di stampa brucia. Se è libertà femminile brucia il doppio, perché per un vero uomo è doppiamente insopportabile. Lesiva non della sua dignità ma del suo narcisismo. E va doppiamente punita.
Come è stato per Veronica, data per "nervosa" («capita talvolta alle donne di essere un po’ nervose», commentò suo marito: questione ormonale), inaffidabile e manipolabile, e triturata dalla stampa del principe come "velina ingrata" (quel gentiluomo di Feltri) nonché moglie infedele. Com’è stato per Patrizia D’Addario, manovrata e pagata da chissà chi. Com’è stato per altre che si sono impicciate di altri affari del premier, a cominciare da Nicoletta Gandus, giudice sul caso Mills (qualcuno ricorda la faccia di Ghedini in tv mentre commentava la sua sentenza?).
Il premier e la sua corte hanno un’idea precisa di dove deve stare una donna e di come la si possa "utilizzare". Se una, due, cinque, cinquanta, cinquantamila in quel posto non ci stanno sono guai. Per lui, perché questo è l’ennesimo segnale di dove sia finito il mitico fiuto di Silvio Berlusconi che pareva metterlo sempre dalla parte del senso comune. In quel posto non ci stiamo, il senso comune stavolta dice questo. Il fiuto del grande comunicatore è svaporato.
Fa davvero piacere vedere il premier riconciliato con le virtù di quella giustizia che per anni ha denigrato, appellarsi pieno di fiducia a quegli stessi magistrati per i quali un tempo invocava test attitudinali e prove di stabilità psicologica. Aveva ragione. Ci vuole effettivamente molto equilibrio per decidere di questioni tipo questa: Luciana Littizzetto avrà leso o no l’onore del premier con le sue battute "sull’utilizzo di speciali accorgimenti contro l’impotenza sessuale"? Avrà leso o no «la sua identità personale presentando l’onorevole Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione»? Non invidiamo i magistrati, e nemmeno i periti di parte. Neanche per sorridere indagheremmo mai su quel "di certo": non ci serve. Di certo, quando un "vero uomo" mette sul tavolo l’evidenza letterale della sua potenza, è perché traballa quella simbolica.
Silvio Berlusconi è di certo un "vero uomo", di quelli che affidano alla mascherata sessuale la certificazione della loro misura. Altrettanto di certo è un uomo politico finito: nella miseria, nella rabbia, nella dismisura.
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!!: IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
Una ferita alla democrazia
di NADIA URBINATI *
Fatte salve le forme dell’uguaglianza civile e politica, ogni moderna democrazia funzionante è in grado di scegliere, di selezionare classi di governo in senso proprio, e di consentire il formarsi, nella società, di ceti dirigenti in senso lato, sulle basi dell’ingegno, dell’impegno e del merito. Sono le élites - aristocratiche, borghesi, operaie - quelle che hanno anticipato i nuovi orizzonti della società.
L’hubrys dominandi sembra rendere il nostro premier incapace perfino di comprendere il senso del limite e della limitazione. Il fatto preoccupante è che nessun contenimento tradizionale del potere sembra efficace abbastanza. La ragione di questa inefficacia non sta nelle strategie costituzionali, che sono chiare e ottime, ma in un fattore che è culturale e per questo difficile da modificare o contenere. Per dirla in parole povere, i contrappesi costituzionali e ogni azione di contenimento di carattere giuridico e istituzionale funzionano soltanto e fino a quando c’è da parte di chi governa la volontà di rispettarli, fino a quando cioè la costituzione formale e quella materiale coincidono. È proprio questa coincidenza che oggi si è spezzata cosicché alla costituzione scritta, come ha messo in evidenza più volte Gustavo Zagrebelsky, se ne è come sovrapposta un’altra, quella che si riflette nelle leggi, nelle politiche e nei comportamenti del governo e del suo leader. La regola che governa il nostro paese è funzionale a uno scopo molto semplice nella sua brutalità: conservare il potere ed esercitarlo per il bene e l’interesse di chi lo esercita. Qui sta il vulnus dispotico del quale soffre la democrazia italiana oggi.
Certo, si tratta di un vulnus che gode della maggioranza dei voti degli italiani; ma è bene essere consapevoli che quello che la maggioranza esercita non è un potere innocente, perché è stato costruito affidandosi in larga parte all’uso spregiudicato e poi al dominio diretto e incontrastato dei media. Ieri Berlusconi ha attaccato l’informazione nel suo complesso: ma quante sono le reti televisive e le testate libere in Italia?
Per questa ragione è fuorviante parlare di tirannia della maggioranza, perché, come ben compresero i liberali ottocenteschi, in un governo rappresentativo è sempre e comunque una minoranza a tenere le fila del potere della parola. Questo vale in maniera spropositata nella nostra democrazia, dove il rischio alle libertà civili primarie - in primis quella della libera formazione e manifestazione delle idee - - viene dai pochi, i molti essendo uno strumento di sostegno passivo. I cittadini sono ridotti a semplici spettatori con l’aggravante che lo spettacolo al quale assistono è scientemente manipolato e decurtato. Gli italiani - quell’80% che si affida alla televisione per informarsi - - vivono come in uno stato di autarchia mediatica, chiusi al mondo del loro paese e a quello che del loro paese il mondo pensa e scrive. Questa è la situazione gravissima nella quale ci troviamo.
Il premier considera e tratta l’Italia come il suo cortile di casa: con collaboratori domestici o addomesticati che si preoccupano di allontanare da lui ogni sospetto di dissenso, che confezionano notizie con lo scopo di nascondere la verità ai cittadini e passano leggi per accomodare il diritto alle necessità del premier; con intrattenitori e intrattenitrici che rallegrano la sua vita; con ministri che come visir sfornano politiche che falcidiano la cosa pubblica, dalla scuola alla sanità, e dirottano risorse non si sa bene dove e per fare cosa.
Perché tutto questo si tenga il dissenso deve essere azzerato con tutti i mezzi: dal mercato alle strategie intimidatorie. L’obiettivo è terrorizzare e ridurre al silenzio chi pensa liberamente per infine circondarsi di yes-men e yes-women. Che sia un segno di impotenza invece che di forza è evidente, tuttavia per chi tiene ai diritti e alla libertà gli effetti di questo potere di dominio sono disastrosi. Ora, non c’è da dubitare che il Pdl ospiti molti liberali, persone convinte che i diritti di libertà siano un bene prezioso che non può essere sacrificato a nessuna maggioranza - come possono questi liberali restare in silenzio? Come possono non comprendere che nella nostra Costituzione scritta è anche la loro sicurezza? Si usa dire che le costituzioni sono scritte quando il popolo è sobrio e pensando all’eventualità che potrebbe non esserlo sempre. I liberali hanno voluto legare la volontà della maggioranza con le costituzioni perché sono pessimisti abbastanza da non escludere che si possano formare maggioranze non sobrie che traghettino il paese verso acque pericolose. I liberali tutti non possono non vedere che l’Italia si trova oggi a navigare in un mare in tempesta, battuta da un lato da pericolose ondate di razzismo e intolleranza e dall’altro da un leader che ha in disprezzo i diritti fondamentali. L’attacco frontale a Repubblica, quello subdolo all’Avvenire, la critica durissima alla stampa estera - e l’ultima accusa al sistema informativo tout court - costituiscono un pericolo che nessun liberale serio può sottovalutare.
Le strategie di difesa contro questo esorbitante potere sono molteplici. In primo luogo è urgente che l’opposizione di scrolli dal torpore delle sue solipsistiche diatribe che ne paralizzano l’azione politica e si faccia promotrice di un coerente discorso politico alternativo che rimetta in moto un movimento civile di opinione che chieda a voce alta verità e giustizia, che sappia riportare i cittadini nell’agorà pubblica; in secondo luogo vanno usati tutti gli strumenti giuridici di cui il nostro Stato e l’Ue dispongono: portare il caso italiano davanti al parlamento europeo propone Gianni Vattimo, ma si dovrebbe anche aggiungere, rivolgersi direttamente alla Corte Europea dei Diritti; in fine, mettere in moto tutti gli strumenti dei quali l’opinione politica libera può disporre, e visto che non pare facile strappare il bavaglio imposto dalle televisioni nazionali, occorrerebbe attivare una rete di controinformazione tramite il web, i giornali, le associazioni della società civile, i movimenti. Ci troviamo in una condizione di emergenza e di eccezionale rischio. è la nostra dignità di cittadini che deve essere riscattata da questo clima di docilità e servizievole sudditanza. Ed è la nostra Costituzione scritta che ci legittima a fare quello che dobbiamo per difenderla.
* la Repubblica, 5 settembre 2009
Il cinismo delle élite
di Carlo Galli (la Repubblica, 05.09.2009)
Il nostro governo costituisce un serio problema per le libertà civili e l’ordine democratico del nostro paese. E come si è avuto modo di toccare con mano in questi giorni, esso costituisce un serio problema per l’Europa e i fondamenti di libertà sui quali è nata e si fonda l’Unione Europea.
Sono le élite che hanno elaborato categorie, stili, forme, linguaggi, in grado di imporsi in ambiti più vasti. Nella società di oggi, politici, imprenditori, professionisti, docenti, scienziati e intellettuali, gerarchie religiose, alti burocrati, giornalisti, a volte anche artisti - ciascun gruppo con forme diverse di selezione, con diversi gradi di chiusura o di apertura - perseguono il medesimo fine: esercitare influenza o potere nella società, presentando i propri interessi come indispensabili agli interessi generali del Paese. La democrazia di una società complessa si articola nella concorrenza di diverse proposte egemoniche.
Sono le élites ad avere la capacità, e il dovere, di esercitare più consapevolmente le virtù sociali e politiche, di esserne l’esempio concreto. Infatti, i loro membri sono sì orientati al successo, ma anche alla lungimiranza, alla disciplina, al differimento dell’utile, al merito, al decoro, all’efficienza; non per amore della virtù, ma per legittimare le proprie pretese. La loro deontologia - l’insieme dei doveri di ciascuno verso la professione, verso se stesso e verso i pari - è la loro morale civile: è l’assunzione di responsabilità, fondata sul rigore e sul merito, verso la società intera. E’ una morale in cui sono centrali le nozioni di prestigio e di vergogna, di efficienza e di credibilità.
Certo, i processi di democratizzazione e il formarsi di una società di massa, rendono le élites apparentemente meno legittimate davanti al senso comune; eppure, una società moderna ne ha bisogno. La controprova è data da quelle situazioni - fra cui purtroppo rientra, in parte, il nostro Paese - in cui le élites sono in sofferenza. Le nostre élites sembrano non volersi più sobbarcare il peso del rigore disciplinato che è necessario per articolare in chiave universale i propri interessi particolari, per coniugare al futuro, e non nella miopia dell’eterno presente, i verbi dell’agire sociale; per essere esempio civile.
A parte le splendide individualità o piccoli gruppi isolati di eccellenza che spesso hanno vita difficile - le élites italiane corrono il rischio di trasformarsi in corporazioni chiuse (a volte dinastiche, con modalità nepotistiche di trasmissione del potere), in un pulviscolo di piccoli o grandi privilegi o di snobismi, in Palazzi e Caste (non solo della politica); lungi dall’esibire l’orgoglio del merito, i membri delle élites aspirano piuttosto a essere vip; anziché vigilare sulle modalità di ingresso, di selezione, di addestramento dei propri membri, rilassano le pratiche di controllo, chiudono un occhio su insufficienze e infrazioni (purché sia garantita la docilità dei nuovi entrati).
È il cinismo delle élites - facilmente trasmesso all’intero corpo sociale - una delle più gravi tare del Paese, l’origine della sconnessione fra morale e politica, della corrosione dello spazio civile, del frammentarsi del discorso pubblico in una congerie di particolarismi dialettali. Ed è anche l’origine - oltre che il prodotto - dei tentativi della politica di polverizzare la società, di governarla attraverso il combinato disposto della propaganda e del populismo.
La forma civile complessiva di un Paese è data infatti oltre che dalle istituzioni, anche da quei nuclei di interessi e di sapere, di orgoglio professionale e di autostima, di senso del decoro e di vergogna sociale, che fanno sì che la civile convivenza non consista in un ammasso informe di atomi privi di relazione reciproca, ma sia un complesso e multiforme paesaggio, con un profilo e una fisionomia definiti, non plasmabili a piacere dal potere politico. Non a caso, quindi, le cronache italiane delle ultime settimane mostrano che chi ha come programma di governare senza contrappesi e istanze di controllo si appella con fare plebiscitario a una generica «gente», scavalca quando può le istituzioni e lotta contro quanto resta di élites autorevoli, o contro le loro frange non docili: magistrati, giornalisti, Scuola e Università, gerarchie ecclesiastiche (ultimi, gli economisti).
Né è un caso che Berlusconi resista aggressivamente a uno scandalo che avrebbe travolto (grazie alla reazione della stampa, delle tv, dell’opinione pubblica più qualificata, dei partiti) ogni altro leader politico di ogni altra democrazia occidentale: ha infatti potuto appellarsi alla compiaciuta tolleranza dei «molti», nella impotenza o nella indifferenza o nel cinico silenzio-assenso dei ‘pochi’ che avrebbero dovuto utilizzare il loro sapere e il loro prestigio per criticarlo e per rischiarare il giudizio collettivo.
Perché l’intero Paese non rischi di trasformarsi in un deserto morale, oltre che in una società inerte e inefficiente, e di pagare il proprio deficit collettivo di virtù democratica con la moneta della decadenza, qualcuno dovrà combattere credibilmente contro il cinismo, la rassegnazione, la passività, il conformismo, il mancato rispetto di sé e degli altri. Con un programma - in qualche misura neo-risorgimentale - di una riforma morale degli italiani, si tratta di ricominciare dai pochi (che saranno certo tacciati di moralismo, azionismo, giacobinismo), cioè da élites nuove o rinnovate, la cui rigorosa esemplarità sappia riportare la decenza e la vergogna fra le virtù civili della nostra democrazia.
"Le ragioni di un decennio" di Giovanni De Luna, storico e ex militante di Lotta Continua
Violenza, errori e memoria
Cosa sono stati gli anni ’70
"Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche", è l’invito dell’autore esteso a tutti i protagonisti di quella stagione
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 23.10.2009)
Anni Settanta, il passato che non passa. Un decennio irrisolto, schiacciato inesorabilmente nella sua declinazione plumbea, ancora oggi invocato a sproposito come un fantasma molesto. A questa iconografia granitica, alimentata prima dal silenzio più tardi dall’«epica brigatista» e ancora da «un’ipertrofia della memoria» che travolge la conoscenza storica, tenta di porre rimedio il volume di Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria (Feltrinelli, pagg. 254, euro 17, con le fotografie di Dario Lanzardo).
Già il titolo, a ricalco di un celebre libro di Paolo Spriano, rivela la natura insolita dell’impianto, né solo saggio storico né autobiografia. Oltre che studioso contemporaneista, De Luna è anche un ex militante di Lotta Continua, che oggi decide di misurarsi senza indulgenza con quell’evo così complicato, con la deriva violenta ma anche con le modalità più innovative dell’impegno politico.
Allo sguardo del testimone s’affianca così la lente dello storico, fino a produrre un’analisi disincantata del decennio. Il risultato è una fotografia lucida di un’occasione perduta, ferma nel ritrarre le potenziali energie che affluivano dal movimento ma anche i gravi errori di Lotta Continua e ferma nel denunciare le zone grigie di uno Stato che ancora evita di fare i conti con le sue ambiguità.
Perché il decennio dei Settanta è una storia che non passa? Il libro prende spunto dai morti dimenticati, espulsi dalla memoria pubblica. Militanti di sinistra che non erano del Pci o del Psi, non terroristi né poliziotti né vittime del terrorismo. I nomi sono quelli di Tonino Miccichè, Francesco Lo Russo, l’anarchico Franco Serantini e molti altri ancora, tutti «dediti con passione e generosità alla causa degli ultimi»: tutte vittime innocenti di una mano che è rimasta impunita. Così come non è mai stato trovato un colpevole in chiave giudiziaria per nessuna delle stragi riconducibili alla strategia della tensione: undici carneficine, centocinquanta morti, seicentocinquantadue feriti rimasti senza giustizia.
Quel che ne ricava lo studioso è che «lo Stato ha rinunziato a fare luce ogni volta che si sospettava un coinvolgimento dei suoi apparati». Un grado di coinvolgimento su cui si potrà pronunciare soltanto lo storico del futuro, essendo stato finora impedito l’accesso alle carte e agli archivi. Se il passato dunque non passa - è una delle tesi del libro - è anche perché l’opinione pubblica non ha mai potuto penetrare «il cuore nero della storia repubblicana» simboleggiato dai morti rimasti senza giustizia.
Fu proprio il «dilatarsi patologico» della sfera dell’invisibile a creare un disagio diffuso verso le istituzioni democratiche. Una sfiducia estesa in larghi strati della collettività, tra studenti, giornalisti e intellettuali. Più che alla teoria del doppio Stato e della doppia lealtà, lo studioso preferisce richiamarsi a Norberto Bobbio, il quale teorizzava l’esistenza in tutte le democrazie di una dose fisiologica di arcana imperi, ma anche la necessità di contenere il più possibile la «simulazione» e «l’inganno» insite nella segretezza.
Gli esordi di quel decennio furono invece segnati da una «pesante opacità», che finì per rendere «indecifrabili» e «inquietanti» le istituzioni dello Stato democratico. Era fondato questo senso diffuso di ostilità? Non peccava di ingenuità e di enfasi allarmistica? Lo storico - forte del senno di poi - non lo esclude. Però non può neppure trascurare i segnali sinistri che allora scuotevano le coscienze.
L’ansia di verità - in formazioni politiche come Lotta Continua - si coniugò con quella che lo studioso definisce una «rigidezza dottrinale ossessiva», con «giudizi politici superficiali» («il fanfascismo» o la «fascistizzazione dello Stato»), con «impazienze esistenziali», con la sostanziale incapacità di comprendere cosa stava avvenendo nelle pieghe più profonde della società italiana («la forza pervasiva dei mercati», «l’universalizzazione delle tecniche informatiche», «la marcata omologazione dei consumi e degli stili di vita», «il nuovo ruolo delle grandi banche e delle società multinazionali»). «Nessuno di questi scenari fu nemmeno intuito», scrive De Luna. «Rinchiusi nel Novecento, Lotta Continua e gli altri movimenti nati dal Sessantotto vi lessero solo ed esclusivamente una sorta di resa della democrazia e si consegnarono interamente al passato, affacciandosi con una sorta di impotente subalternità all’esplosione di violenza che nella seconda metà degli anni Settanta insanguinò la lotta politica».
Tra «concorrenza» alle Brigate Rosse e «netta alternativa» oscillò quella formazione, evocata fin dal primo congresso di Rimini (aprile 1972) nelle sue tonalità cupe ed aggressive. Riaffiorano i titoli del quotidiano, che festeggiano l’assassinio di Oberdan Sallustro, il dirigente della Fiat Concord ammazzato dai guerriglieri argentini. È questo il contesto in cui matura «la martellante campagna di stampa contro Luigi Calabresi, che fa da sfondo al delitto del commissario». Da «un compagno non può averlo fatto» si passa rapidamente «a un compagno può averlo fatto e, se lo ha fatto, ha fatto bene».
Poi il pendolo prese ad oscillare in direzione opposta, ma «la virata fu troppo brusca, troppo poco elaborata, troppo verticistica perché Lotta Continua fosse in grado di interpretare con efficacia il suo nuovo ruolo di avversario dichiarato del terrorismo nascente». Il resto è storia nota.
Il passato può passare - è la conclusione di De Luna - soltanto se ciascuno oggi è disposto ad assumersene la responsabilità, sul modello della commissione sudafricana su Verità e Riconciliazione. «Lo Stato riconosca il proprio coinvolgimento nelle stragi terroristiche», è l’invito dello storico, ma l’esortazione andrebbe estesa a tutti i protagonisti di quella stagione. «Imparare a perdonare», scrive Hannah Arendt, «vuol dire fare in modo che la vita vada avanti».
Ma per perdonare occorre che vi sia chi si assuma la responsabilità di quelle derive. E perché il passato possa passare è anche necessario che sulla troppa memoria prevalga la storia, la reale conoscenza d’una stagione di sconfitte, rispetto alla quale Le ragioni di un decennio può essere considerato un prezioso contributo.