La disputa su lingue e dialetti ripropone il tema delle patrie molteplici
L’identità è una matrioska: somma di incontri e storie
Il senso di appartenenza e il dialogo con le diversità
Vivere le radici è l’opposto del localismo folcloristico
L’anarchia spirituale, come il matrimonio all’interno dello stesso gruppo sociale, produce malformazioni fisiche e culturali
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 07.09.2009)
Le dispute agostane sui dialetti e gli inni nazionali o locali possono essere tutte sfatate da una lapidaria riflessione di Raffaele La Capria sulla differenza tra essere napoletani e fare i napoletani.
Essere napoletani - o milanesi, triestini, lucani - significa sentirsi spontaneamente legati al luogo natio in cui ci si è rivelato il mondo, amare i suoi colori e sapori che hanno segnato la nostra infanzia, parlare il suo linguaggio - lo si chiami o no dialetto - indissolubilmente legato alla fisicità delle cose che ci circondano e alla loro musica; pastrocio , per me triestino, non sarà mai la stessa cosa del suo equivalente «pasticcio».
Fare i napoletani o i lombardi falsifica questa spontanea autenticità in un’artificiosa e pacchiana ideologia, aver bisogno di farsi fotografare sullo sfondo del Vesuvio o di inventarsi antenati celti, indossare qualche pittoresco e patetico costume folcloristico per mascherare l’insicurezza della propria identità. Chi sproloquia sui dialetti contrapponendoli all’italiano inquina la loro naturalezza, degrada la loro poesia a posa.
Il dialetto è una peculiarità fondamentale e ben lo sa chi, come me, lo parla correntemente ogni giorno a proposito di qualsiasi argomento, ma spontaneamente, non per rivendicare qualche stupida identità gelosamente chiusa, pronta ad alzare il ponte levatoio per difendere la propria sbandierata purezza. L’autarchia spirituale, come l’endogamia, produce malformazioni fisiche e culturali. La diversità è creativa solo quando, nell’affettuoso riconoscimento di se stessa, si apre al riconoscimento e all’amore di altre diversità, egualmente necessarie al mosaico del mondo e alla varietà della vita. La verità umana è nella relazione, in cui ognuno cresce e si trasforma senza snaturarsi, ha scritto Édouard Glissant, esortando a non sprofondare le radici nel buio atavico delle origini bensì ad allargarle in superficie, come rami che si protendono verso altri rami o mani che si tendono per stringerne altre.
Per parafrasare un celebre detto di Dante, l’amore per l’Arno - ossia per il luogo natale - e quello per il mare, patria universale, sono complementari. Il rullo compressore dei nazionalismi centralisti che ha spesso schiacciato le peculiarità e le autonomie locali è inaccettabile, ma lo è altrettanto il rullo compressore dei micronazionalismi locali, pronti a schiacciare le minoranze ancor più piccole viventi al loro interno. L’ipotesi del friulano quale lingua scolastica ufficiale aveva messo subito in allarme, a suo tempo, la minoranza bisiaca parlante bisiaco (peraltro non troppo dissimile) che vive nel Friuli-Venezia Giulia.
Una distinzione fra lingua e dialetto è scientificamente insostenibile; sappiamo benissimo, ad esempio, che il friulano ha una sua compiuta organicità, strutturale e storica. Non so se ciò renda necessario insegnare l’inglese o la fisica in friulano e non credo che per questo i miei avi, i miei nonni e mio padre, friulani, mi considererebbero un rinnegato. Diversi sistemi linguistici hanno diverse possibilità, egualmente importanti ma appunto differenti. Una delle più universali liriche che io abbia mai letto - l’ho riportata tempo fa sul «Corriere» - è una poesia di dolore per la morte di un bambino, creata da un ignoto poeta Piaroa, un gruppo di indios dell’Orinoco che quarant’anni fa erano soltanto tremila e forse - non lo so - oggi sono estinti. Quella poesia è degna di Saffo (che peraltro scriveva in dialetto eolico) o di Saba; non credo tuttavia che in lingua Piaroa si possano scrivere La critica della ragion pura, le Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni o la Commedia.
Ciò non significa negarle universalità, bensì prender atto di diverse possibilità e modalità di esprimerla. Herder, lo scrittore tedesco contemporaneo di Goethe, scorgeva in Omero e nella Bibbia la creatività aurorale e perenne della poesia, ma la trovava pure nell’anonima canzone popolare lettone ascoltata alla festa del solstizio d’estate.
Ogni luogo - come dice Alce Nero, guerriero Sioux e grande scrittore analfabeta - può essere il centro del mondo, piccolo o grande esso sia, molti o pochi siano i suoi abitanti - come i Sorbi che sono andato a visitare in Lusazia, i Cici o istroromeni che secondo l’ultimo censimento erano 822, un popolo a un terzo del quale ho stretto la mano, o gli abitanti di Wyimysau, un paesino in Polonia, che parlano una lingua unicamente loro. L’elenco potrebbe continuare a lungo, anche se di continuo muore qualche lingua, soggetta come gli uomini alla caducità. Ma il piccolo non è bello in quanto tale, come vuole un retorico slogan; lo è se rappresenta e fa sentire il grande, se è una finestra aperta sul mondo, un cortile di casa in cui i bambini giocando si aprono alla vita e all’avventura di tutti.
L’identità autentica assomiglia alle Matrioske, ognuna delle quali contiene un’altra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande. Essere emiliani ha senso solo se implica essere e sentirsi italiani, il che vuol dire essere e sentirsi pure europei. La nostra identità è contemporaneamente regionale, nazionale - senza contare tutte le vitali mescolanze che sparigliano ogni rigido gioco - ed europea; del nostro Dna culturale fanno parte Manzoni come Cervantes, Shakespeare o Kafka o come Noventa, grande poeta classico che scrive in veneto. È una realtà europea, occidentale, che a sua volta si apre all’universale cultura umana, foglia o ramo di quel grande, unico e variegato albero che era per Herder l’umanità.
I tromboni del localismo non possono capire la poesia, la potenziale universalità del dialetto. Sviluppando un’intuizione di Croce, Marin, notevolissimo poeta in gradese, distingueva «poesia in dialetto» e «poesia dialettale». La prima è semplicemente poesia tout court , che può essere anche grandissima esprimendosi nella lingua che le è congeniale, il veneziano di Goldoni o il viennese di Nestroy. La seconda è priva di universalità, è legata all’immediatezza vernacola e viscerale della peculiarità locale e incapace di toccare il cuore di chi non partecipa di quella peculiarità. Pure essa può essere molto simpatica nella sua colorita vitalità, ma non è poesia. Peraltro pure questa sua vitalità viene profanata dai cultori del geloso localismo, che senza volerlo la ridicolizzano nelle loro pretese di purezza originaria, come l’acqua del Po versata nel Po, non consigliabile da bersi.
C’è e c’è stata una sacrosanta rivendicazione del dialetto quale espressione di classi subalterne e sfruttate, tenute a lungo lontane dalla cultura nazionale dominante e per tale ragione iniquamente disprezzate da chi le aveva ridotte in tale condizione. C’è, fra le tante, un’incisiva testimonianza di Guido Miglia, lo scrittore istriano scomparso non molto tempo fa, che visse la drammatica esperienza dell’esodo dalla sua terra, alla fine della seconda guerra mondiale, da italiano che amava il suo paese senza indulgere ad alcun pregiudizio antislavo. Miglia ricorda come, quando insegnava nell’interno dell’Istria, ci fosse fra i suoi scolari uno che sapeva dire soltanto pasculat, perché portava le greggi al pascolo, ed era perciò tagliato fuori dall’istruzione scolastica.
Come ha capito don Milani a Barbiana, agendo in conseguenza, anche chi sa esprimersi solo con il linguaggio del suo elementare vissuto quotidiano si esprime fondandosi su un’esperienza reale e può dunque possedere una reale ancorché semplice cultura, capace di unire con istintiva coerenza la propria vita, la propria visione del mondo e i propri giudizi sul mondo. Tale cultura, anche se poco autoconsapevole ma vissuta con tutta la propria persona, può essere più profonda di quella più sofisticata ma orecchiata senza essere fatta veramente propria. Una pretesa cultura «alta » che ricacci brutalmente in basso quelle linfe - da cui nasce ogni cosa e da cui è nata quindi anch’essa - è ottusamente prevaricatrice, e lo è pure un’egemone cultura centralista che comprima le diversità locali che hanno contribuito e contribuiscono a formarla, così come - Dante insegna - i diversi volgari d’Italia hanno costruito il volgare italiano. Reprimere questi vitali processi è non solo ingiusto, ma anche autolesionista.
Il ragazzino inizialmente capace di dire soltanto pasculat dev’essere compreso nelle ragioni storico-sociali che lo hanno emarginato e aiutato a riconoscere se stesso e a conservare in sé le linfe elementari di quel pasculat . Ma, come Gramsci insegna, egli va soprattutto aiutato a innestare quelle linfe in una realtà intellettuale più ampia, aiutato a capire il mondo e la propria stessa arretratezza e dunque a combattere questa ultima.
Chi vagheggia culture «alternative«, dialettali o altre, favorisce la discriminazione sociale e ostacola il cammino di chi vuol emergere dal buio. Il dialetto non può essere usato regressivamente in opposizione alla lingua nazionale. Gramsci auspicava che il «popolo» si riappropriasse della cultura alta e magari del latino, che aiuta a capire la complessità del mondo e a non lasciarsi fregare. Ma il dialetto che esprime la sanguigna resistenza quotidiana al potere è l’opposto del folclore dialettale ostentato e compiaciuto, servo e strumento del potere e talora crassa espressione di potere. Chi fa il napoletano è il peggior nemico dei napoletani.
NOTA SUL TEMA *
«Capaci di intendersi e di volare».
Le dispute agostane sui dialetti e gli inni nazionali o locali possono essere tutte sfatate da una lapidaria riflessione di Raffaele La Capria sulla differenza tra essere napoletani e fare i napoletani. (...) Chi fa il napoletano è il peggior nemico dei napoletani. (Claudio Magris)
LA GUERRA LINGUISTICA E POLITICA DEL PARTITO "FORZA ITALIA" (1994-2009) CONTRO L’ITALIA!!! E LA CRISI POLITICA E COSTITUZIONALE: CHI FA IL "NAPOLITANO", E’ IL PEGGIOR NEMICO DEL ’NAPOLITANO’ - DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA!!!
AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, AL PRIMO CITTADINO, L’INVITO E IL DOVERE DI FARE CHIAREZZA, DI RIPRENDERSI LA PAROLA - "ITALIA", E DI RIDARE ORGOGLIO E DIGNITA’ A TUTTO IL POPOLO ITALIANO, IN ITALIA E NEL MONDO ...
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!!: IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
* Federico La Sala
L’esortazione è semplice: dai, dillo in italiano.
Qui sotto potete leggere il testo che accompagna una petizione in favore di un uso più accorto della lingua italiana da parte di chi ha ruoli e responsabilità pubbliche. Non è una battaglia di retroguardia, e non è un tema marginale. Non è neanche una battaglia contro l’inglese ma va, anzi, in favore di un reale bilinguismo.
La petizione chiede all’Accademia della Crusca di farsi portavoce di questa istanza, che può aver peso e buon esito solo grazie all’appoggio di tutti noi.
Perché è importante che firmiate? Perché la lingua italiana è un bene comune: ci appartiene, ha un valore grande ed è nostro compito averne cura.
Se siete d’accordo potete firmare su Change.org: vi basta un minuto. E poi parlatene e fate girare il testo in rete. E dai... fatelo subito. L’hashtag è #dilloinitaliano
Un intervento per la lingua italiana (#dilloinitaliano)
Una petizione per invitare il governo italiano, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese a parlare un po’ di più, per favore, in italiano. *
La lingua italiana è la quarta più studiata al mondo. Oggi parole italiane portano con sé dappertutto la cucina, la musica, il design, la cultura e lo spirito del nostro paese. Invitano ad apprezzarlo, a conoscerlo meglio, a visitarlo.
Le lingue cambiano e vivono anche di scambi con altre lingue. L’inglese ricalca molte parole italiane (“manager” viene dall’italiano maneggiare, “discount” da scontare) e ne usa molte così come sono, da studio a mortadella, da soprano a manifesto.
La stessa cosa fa l’italiano: molte parole straniere, da computer a tram, da moquette a festival, da kitsch a strudel, non hanno corrispondenti altrettanto semplici, efficaci e diffusi. Privarci di queste parole per un malinteso desiderio di “purezza della lingua” non avrebbe molto senso.
Ha invece senso che ci sforziamo di non sprecare il patrimonio di cultura, di storia, di bellezza, di idee e di parole che, nella nostra lingua, c’è già.
Ovviamente, ciascuno è libero di usare tutte le parole che meglio crede, con l’unico limite del rispetto e della decenza. Tuttavia, e non per obbligo ma per consapevolezza, parlando italiano potremmo tutti interrogarci sulle parole che usiamo. A maggior ragione potrebbe farlo chi ha ruoli pubblici e responsabilità più grandi.
Molti (spesso oscuri) termini inglesi che oggi inutilmente ricorrono nei discorsi della politica e nei messaggi dell’amministrazione pubblica, negli articoli e nei servizi giornalistici, nella comunicazione delle imprese hanno efficaci corrispondenti italiani. Perché non scegliere quelli? Perché, per esempio, dire “form” quando si può dire modulo, “jobs act” quando si può dire legge sul lavoro, “market share” quando si può dire quota di mercato?
Chiediamo all’Accademia della Crusca di farsi, forte del nostro sostegno, portavoce e autorevole testimone di questa istanza presso il Governo, le amministrazioni pubbliche, i media, le imprese. E di farlo ricordando alcune ragioni per cui scegliere termini italiani che esistono e sono in uso è una scelta virtuosa.
1) Adoperare parole italiane aiuta a farsi capire da tutti. Rende i discorsi più chiari ed efficaci. È un fatto di trasparenza e di democrazia.
2) Per il buon uso della lingua, esempi autorevoli e buone pratiche quotidiane sono più efficaci di qualsiasi prescrizione.
3) La nostra lingua è un valore. Studiata e amata nel mondo, è un potente strumento di promozione del nostro paese.
4) Essere bilingui è un vantaggio. Ma non significa infarcire di termini inglesi un discorso italiano, o viceversa. In un paese che parla poco le lingue straniere questa non è la soluzione, ma è parte del problema.
5) In itanglese è facile usare termini in modo goffo o scorretto, o a sproposito. O sbagliare nel pronunciarli. Chi parla come mangia parla meglio.
6) Da Dante a Galileo, da Leopardi a Fellini: la lingua italiana è la specifica forma in cui si articolano il nostro pensiero e la nostra creatività.
7) Se il nostro tessuto linguistico è robusto, tutelato e condiviso, quando serve può essere arricchito, e non lacerato, anche dall’inserzione di utili o evocativi termini non italiani.
8) L’italiano siamo tutti noi: gli italiani, forti della nostra identità, consapevoli delle nostre radici, aperti verso il mondo. Se sei d’accordo firma, parlane, condividi in rete. E fallo adesso. Grazie!
Lettera a
Membri del Consiglio Direttivo Aldo Menichetti, Massimo Fanfani, Vittorio Coletti, Luca Serianni
Presidente Accademia della Crusca Claudio Marazzini
Presidenti Onorari Accademia della Crusca Nicoletta Maraschio e Francesco Sabatini
Chiediamo che, forte del nostro sostegno, l’Accademia della Crusca inviti formalmente il Governo e le Pubbliche Amministrazioni, gli esponenti dei media, le associazioni imprenditoriali a impegnarsi per promuovere l’uso dei termini italiani in ogni occasione in cui farlo sia sensato, semplice e naturale.
Infarcire discorsi politici e comunicazioni amministrative, resoconti giornalistici o messaggi aziendali di termini inglesi che hanno adeguati corrispondenti italiani rende i testi meno chiari e trasparenti, meno comprensibili, meno efficaci. Farsi capire è un fatto di civiltà e di democrazia.
Ma non solo: la lingua italiana è amata. È la quarta studiata nel mondo. È un potente strumento di promozione nel nostro paese ed è un grande patrimonio. Sta alle radici della nostra cultura. È l’espressione del nostro stile di pensiero. Ed è bellissima.
Privilegiare l’italiano non significa escludere i contributi di parole e pensiero che altre lingue possono portare. Non significa chiudersi ma, anzi, aprirsi al mondo manifestando la propria identità. Significa, infine, favorire un autentico bilinguismo: competenza che chiede un uso appropriato e consapevole delle parole, a qualsiasi lingua appartengano.
Chiediamo inoltre che, come avviene in Francia, in Spagna, in Germania e nei paesi anglosassoni, l’Accademia della Crusca attivi, anche in rete e insieme ad altre istituzioni, iniziative e servizi utili a promuovere e a diffondere qui da noi l’impiego consapevole delle parole italiane, e chiediamo che vengano conferite le risorse per poterlo fare.
Aggiornamenti:
10 mar 2015 - L’Accademia della Crusca - lo scrive il suo Presidente - accoglie il nostro invito a farsi portavoce e autorevole testimone della richiesta collettiva e amplissima di privilegiare, ove possibile, l’impiego di termini italiani nelle leggi, negli articoli dei giornali, nella comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni e delle imprese.
È il sostegno di tutti noi a dare visibilità, importanza, forza e positiva energia a questa istanza che, peraltro, già nel momento in cui è stata resa pubblica ha raccolto un grande consenso da parte di tutti i mezzi di comunicazione.
*
FONTE: CHANGE.ORG
CIAO BENO FIGNON
di Associazione La Conta *
Ieri, domenica 6 settembre 2009, ci ha lasciato per sempre Beno Fignon.
Beno è stato sindacalista, giornalista, scrittore, fisarmonicista, ricercatore di cultura popolare, fotografo e poeta.
Beno si è impegnato nel mondo del lavoro, nell’attività culturale e nella solidarietà attiva della nostra città. Spesso lo si incontrava con la sua fisarmonica nelle serate a ballo o con le sue poesie nei vari circoli Arci, nei centri sociali e culturali o nelle scuole.
In Valcellina, Friuli, dove era nato settantanni fa, tutti conoscevano Beno: per la sua umanità, il suo sorriso dolce, l’instancabile attività culturale e la sua semplicità e discrezione. A quei luoghi ed a quelle genti ha dedicato molte delle sue ricerche, dei suoi scritti e poesie, tra i quali Andreis unica polis, Cellina, Aforismi 1 e 2.
Alla nostra Associazione Beno ha dato tantissimo. Ha partecipato alle varie rassegne dedicate alla fisarmonica ed alle serate di poesia. Sempre ha avuto per noi un suggerimento e un consiglio per aiutarci a fare meglio. E’ stato un fraterno amico ed un compagno di strada. Una bella persona, sensibile, generoso, buono, che sapeva ascoltare e sempre disponibile all’incontro ed al dialogo.
CIAO BENO, CI MANCHERAI E NON TI DIMENTICHEREMO MAI!
L’Associazione La Conta si stringe, nel cordoglio più profondo, ai suoi famigliari ed a tutti i loro cari.
I funerali di Beno si svolgeranno mercoledì 9 settembre 2009, alle 9,00 alla chiesa San Giovanni Battista alla Creta, in Piazza San Giovanni alla Creta 11 (Zona Inganni) a Milano
Ciao,
Sotto tiro i simboli di un Paese
di Andrea Manzella (la Repubblica, 08.09.2009)
Sono sotto tiro i simboli e i legamenti che tengono assieme questo paese: la bandiera, la lingua, l’inno, la capitale. Certo, c’è stato anche un gran rifiuto contro questo sfascismo, con voci variegate giunte un po’ da tutte le parti. E alcune, sprezzanti, parlano di «colpi di sole». Ma è più probabile il rischio opposto. Che sia cioè lo sdegno a svanire presto come polverone di mezza estate. Mentre l’offesa simbolica fa, per sua natura, danni irreversibili: e segna ulteriori tratti di un disegno che si precisa.
I rifiuti, per essere credibili, dovrebbero perciò legarsi ad un’idea forte della Costituzione: che quei simboli racchiude e riassume come emblemi unificanti di un «programma» politicamente vivo. Ma questa idea forte non trova un partito, un movimento, una forza politica che la faccia propria, come linea generale di azione repubblicana.
La ragione è anche di cultura istituzionale. Da tempo, si contrappongono due «costituzionalismi»: entrambi estranei agli interessi attuali degli italiani. Da un lato, il costituzionalismo tecnico dei ragionieri del diritto, con le formule «miglioriste» preparate a freddo, con le rime baciate dei compromessi: il costituzionalismo insomma delle «bicamerali», delle «bozze», delle «appendici» istituzionali ai programmoni elettorali. Dall’altro lato, c’è il costituzionalismo dei retori, impegnati a tramandare come miti la scrittura costituzionale e il suo tempo storico: un costituzionalismo senza Costituzione, dato che quella del 1948 è stata profondamente trasformata dall’Unione europea, dalla legge elettorale, dalla Corte costituzionale. Non trova posto, invece, un costituzionalismo che assuma la Costituzione come programma politico: per l’attuazione dei suoi obiettivi mancati; per il ristabilimento dei suoi equilibri scomposti. È intorno a questa «politicizzazione» della Costituzione che possono coagularsi organizzazione, adesione ideale, persuasiva comunicazione popolare, passioni.
È, d’altronde, la stessa struttura della nostra Costituzione ad essere politicamente programmatica. Ogni suo articolo rivela la consapevolezza di dover far fronte - in un futuro che allora appena cominciava - a storiche fragilità italiane. La frattura Nord-Sud. La sudditanza partitica della pubblica amministrazione. L’ottusità nazionalistica della proiezione estera dell’Italia. La vocazione protezionistica di un capitalismo assistito. La debolezza delle condizioni del lavoro subordinato. E, insieme a questa realistica visione d’avvenire, la Costituzione incorporò l’autocoscienza di una sempre possibile ricaduta nei «vizi biografici nazionali» che avevano condotto, da ultimo, al fascismo. Costruì perciò un ordine di garanzie e di libertà, di autonomie territoriali, di congegni istituzionali di contropotere. Fu, insomma, nell’uno e nell’altro senso, una Costituzione di opposizione. Nei confronti di un passato, da cui tuttavia si recuperarono preziose tradizioni; nei confronti dell’avvenire democratico, che si cautelava con forme e limiti al prepotere elettorale. Materiali, gli uni e gli altri, essenziali per comporre una nuova identità italiana.
L’esperienza di oggi ci mostra, invece, una maggioranza che vive la Costituzione come un impaccio, senza del quale la sua presunta capacità di decisioni non avrebbe ostacoli né ritardi. Sicché è persino naturale che, in questa insofferenza di fondo, trovi agevole ruolo, nel cuore stesso del governo di coalizione, un gruppo che, attaccando i simboli nazionali, mira a sbarazzarsi di fatto della Costituzione: almeno come rappresentazione della superiore unità che quei simboli riassume. Ma l’esperienza di oggi ci mostra anche una opposizione che, di fronte a questa deriva di logoramento, non si accorge degli spazi amplissimi che gli si aprono per un programma politico di costituzionalismo nazionale. Certo, protesta. Ma su certi punti si avvertono debolezze.
Come sul federalismo fiscale: dove le deleghe multiple e genericissime possono far saltare ogni ponte tra Regione e Regione, tra città e Regioni, tra Stato e Regioni. O quando si affaccia l’azzardo di una federazione di partiti territoriali: mentre è proprio la drammatica mancanza di partiti capaci di idee nazionali e tenuta istituzionale, a causare la crisi di sistema. O quando si mostra volenterosa indulgenza «tecnica» a progetti di rafforzamento dei poteri del governo: progetti che, con l’attuale legge elettorale e nel collasso delle garanzie, avrebbero il solo sicuro effetto di legittimare prassi oligarchiche antiparlamentari. O come quando qualcuno si affretta a istituire corsi di dialetto, come se si trattasse soltanto di una (peraltro, benemerita) questione culturale.
Non stupisce allora che, ormai da anni, la politica costituzionale la faccia, in solitudine, la Presidenza della Repubblica. La faceva Ciampi con la sua vittoriosa promozione del Tricolore e del canto di Mameli. La fa ora Napolitano: con un potere di persuasione tanto più efficace quanto più animato dal visibile sforzo di ammonire e correggere senza sanzionare, di ottenere adeguamenti evitando conflitti e crisi istituzionali.
Ma può continuare ad addossarsi ad una sola Istituzione, per prestigiosa e autorevole che sia, il compito di respingere continui assalti e sgorbi alla Costituzione? No, non è possibile. Basti solo pensare, per comprenderlo, alla molteplicità degli ultimi atti del capo dello Stato, prima delle ferie. C’è in quegli atti il richiamo al bene civico elementare della certezza di diritto. C’è la denuncia di criticità nelle norme sull’immigrazione e sulle «ronde». C’è l’imposizione di correzioni, a difesa dell’indipendenza della Banca d’Italia e della Corte dei Conti. C’è perfino la richiesta di chiarimenti sull’oscura questione Rai-Sky: per il peso di maggiore sofferenza nella condizione costituzionale dell’informazione pubblica.
Un panorama di per sé inquietante. Da esso si capisce anche però che il vero punto è la necessità di passare dalla Costituzione-garanzia alla Costituzione-programma. E questo non è compito del presidente della Repubblica.
Occorre una forza politica che abbia il coraggio e la cultura necessari per porre al centro della sua identità la questione istituzionale. E per organizzarsi intorno all’idea portante di Costituzione e di unità. Intorno all’idea di patria repubblicana, insomma, che sembra eclissarsi con i suoi simboli.
Un anno a lezione dall’asinello
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 28 gennaio 2012)
Un libro che sarebbe piaciuto a Brecht, tutt’altro che pio, questo Frate Indovino 2012, il calendario almanacco dei francescani. Non è azzardato definirlo un libro, come lo è uno zibaldone di racconti, apologhi, cronache, poco importa se cartaceo oppure online, volume ben rilegato o taccuino di fogli volanti, purché pervaso da un senso unitario della bislacca e amabile varietà del mondo e capace di narrarla.
Le Storie da calendario sono un vero genere letterario, che in Germania ha avuto dei veri capolavori nelle opere di Hebel, nel Settecento, o di Brecht. Il calendario scandisce il tempo, questa inafferrabile, forse inesistente ma essenziale tessitura della nostra vita, della nostra morte e della nostra sopravvivenza nel racconto che si tuffa nel passato e lo rifà presente. Il tempo è una grande sfida per la fede; la costringe a pensare e a sentire in modo concreto, carnale ciò che essa vive e sente come eterno. Non è dunque strano che frati francescani si occupino di calendari.
Frate Indovino 2012 riprende, in chiave attuale, gli almanacchi paesani di una volta, che parlavano della vita dell’uomo e del suo scorrere nel tempo. Davano notizie sul raccolto e sui rimedi contro i pericoli che lo minacciano; su piante, animali, costellazioni, venti, tempeste; su consuetudini, sulle feste, sulle devastazioni delle guerre e sui destini degli individui e dei popoli in quelle feste e in quelle devastazioni; distribuivano saggezza, conoscenze concrete e soprattutto raccontavano vicende ed esistenze umane, inserendole nel grande fluire del mondo e del cosmo.
Anche Frate Indovino 2012 è ricco di insegnamenti e di bizzarrie, semplici e precise informazioni sulle stelle e le posizioni planetarie, consigli per la salute e per i mutui, ricette, aneddoti comici, brevi racconti, detti proverbiali. È pervaso da quello spirito illuminista di informazione popolare che animava i calendari di un tempo, unito a gaia pietas religiosa e amore per la riottosa intemperanza della vita. Nozioni astronomiche o botaniche vengono espresse con semplicità, ma con chiarezza e precisione, una divulgazione scientifica più valida di tante pretenziose e brillanti elucubrazioni sofisticate; illustrando la posizione planetaria, insegna ad amare la geometria e il poetico incanto delle costellazioni e del cielo.
L’almanacco include molta sapienza popolare del passato, ma con uno spirito giocoso aperto al presente e al futuro; dovrebbe accogliere - e certamente accoglierà presto - nel suo senso totale e armonioso della vita e del cosmo pure le avventurose scoperte e le insensatezze del nostro mondo astratto e digitale, che fanno parte del creato come l’orto di casa. Ciò che accomuna le grandi religioni alle grandi filosofie materialiste è il sentimento dell’unità del mondo nelle sue incessanti metamorfosi, gli atomi di Democrito o i fiori cui San Francesco rivolgeva la sua preghiera. Le storie da calendario dicono che tutto racconta, nell’universo; ogni tronco corroso, ogni pietra, ogni traccia di Dna in un mollusco pietrificato è una storia che preme per essere narrata.
Ma soprattutto l’edizione di Frate Indovino di quest’anno è dedicata all’«Elogio degli asinelli ovvero la riscossa degli ultimi». L’asino, animale ingiustamente maltrattato nella realtà e nella rappresentazione, personifica tutte le creature che, dice una famosa ballata di Brecht, «sono al buio». In questo almanacco l’asino accompagna lo scorrere del tempo, in una gustosa serie di storielle, espressioni idiomatiche, immagini. La sua pazienza sotto le batoste è resistenza, premessa di riscossa degli ultimi, cui è promesso il Regno. Sulle sue strade di campagna, a portare il peso dell’ingiustizia, l’asino è più reale e più forte dei destrieri delle corse di Ascot, buoni per una fasulla vita in technicolor. Morro, l’asino di mio cugino Ruben in Friuli, era più veloce dei cavalli del paese.
La poesia ha risarcito l’asino delle percosse e degli insulti: Omero lo paragona ad Aiace che difende da solo le navi, col suo scudo simile alla groppa sotto tanti colpi; Jiménez ne ha fatto un personaggio immortale nel suo Platero.
I frati sanno bene che è stato un asino - non un purosangue e nemmeno l’onagro, il nobile asino selvatico - a scaldare Gesù nella stalla e a portarlo festosamente a Gerusalemme la domenica dellePalme; il Signore, nella Bibbia, fa parlare una volta un’asina presa a randellate. La pazienza dell’asino è stata celebrata quale pacata e sicura potenza sessuale, che nel romanzo di Apuleio soddisfa la molto esigente signora di Corinto e che Canetti, a Marrakech, ammira, con rispetto, nell’improvvisa erezione di un asino sotto i colpi di bastone.
Non è male, sfogliando il calendario, attraversare l’anno anche in compagnia dell’asino.
Asino e tuta
di Lorenzo Prezzi
in “settimana” - attualità pastorale - n. 3 del 22 gennaio 2012
Per un prete i "segni" in morte non sono secondari, come i segni-sacramenti che ha celebrato in vita. Luisito Bianchi (23 maggio 1927 - 5 gennaio 2012) è stato accompagnato al cimitero del suo paese (San Leonardo in Vescovato - Cremona) da un asinello e ha chiesto di essere sepolto in tuta. Ma nella precedente celebrazione nell’abbazia di Viboldone (Milano), dove ha vissuto gli ultimi anni, il suo vescovo, Dante Lafranconi, al momento dello scambio della pace è passato davanti alla bara, si è inginocchiato e l’ha baciata. Niente di più efficace per dire la cura della Chiesa per questo suo prete, ma anche la distanza, le incomprensioni e la necessità del perdono.
Non è stato un prete facile, don Luisito. Ordinato nel 1950, laureato alla Cattolica, assistente delle Acli, prima in diocesi poi a Roma, prete operaio alla Montecatini di Spinetta Marengo (Alessandria) per tre anni, poi benzinaio, inserviente ospedaliero, infermiere, traduttore ecc. Infine, sacerdote a disposizione delle monache benedettine di Viboldone. Una vita non tranquilla, segnata da una permanente tensione interiore e spirituale.
prete, non funzionario
Nella sua sensibilità sacerdotale e nei suoi riferimenti esemplari si ritrova molto della spiritualità di don Primo Mazzolari, prete della sua stessa diocesi. «Operai inconfondibili - aveva scritto dei sacerdoti don Primo -anche se inutili: non mercenari, ma perduti in un lavoro che è il nostro, in un campo che ci appartiene, per anime che sono nostre». «Il gusto di fare il prete è questo felice consumarsi di una lampada nell’attesa di chi è già presente e che ci scava infinitamente il cuore per restituirci coloro che credevamo perduti» (Ai preti, La Locusta, Vicenza 1977).
Don Luisito nei diari della sua esperienza operaia scrive: «Mi sento questa Chiesa, prostituta e amata. Porto con me le sue contraddizioni. Ma fino a quando riuscirò a identificarmi con questa Chiesa, senza sentire il richiamo forte a desolidarizzarmi dalla sua meschinità, che è la mia, per andare direttamente al Cristo?» (I miei amici, Sironi, Milano 2008, p. 159).
L’annuncio gratuito del Vangelo, l’assoluto disinteresse del messaggero, l’estraneità della Parola da ogni compromesso meschino sono stati i pensieri più coltivati nel suo ministero. In un solo termine: la gratuità. Fino a chiedersi se sarebbe diventato prete nel 1950 se ci fosse stato allora il sostentamento del clero ad assicurare una retribuzione mensile sicura: «Non so - risponde -. Forse sì, forse sarei stato addirittura contento di queste viscere materne della mia Chiesa che si preoccupava, al mio posto, di quello che avrei mangiato; o forse no, se qualcuno, col cuore di don Mazzolari, m’avesse parlato della gioia liberante della gratuità del ministero seguendo le orme di san Paolo, e non solo della povertà» (Regno-att. 20,2006,674).
operario, non militante
La tuta operaia come ultimo vestito e le numerose pagine delle sue opere legate alla sua esperienza di fabbrica (Come atomo sulla bilancia, Morcelliana, Brescia 1972; Sfilacciature di fabbrica, 1972; I miei amici, Sironi, Milano 2008) dicono la profonda risonanza personale della sua scelta di vivere del proprio lavoro. Ma, pur essendo e rimanendo prete operaio, non è mai stato del tutto organico o rappresentativo del filone prevalente dei preti operai italiani. Non solo perché poco propenso all’ideologia e refrattario ad appartenenze vincolanti, ma per un senso specifico della "diversità" del prete. «È inutile voler giocare un ruolo che non posso giocare: io non mi sono mai sentito né mi sento un operaio che voglia fare movimento operaio. Accetto la condizione sociologica dell’operaio fin che me lo permette il fatto d’essere prete, formato in questo modo, in questa Chiesa» (I miei amici, p. 151).
Niente di più lontano dalla sua sensibilità il fatto di perseguire una «Chiesa in classe operaia». E, tuttavia, del tutto interno a quel mondo, apprezzato collaboratore di Pretioperai e di Viator, difensore dei loro principi ecclesiali. Anzi, uno dei frutti migliori. Se la tradizione pastoraleitaliana deve non poco ai preti operai del Piemonte e del Triveneto, come pure il clero è spiritualmente debitore della ricerca interiore dei preti operai, anche la pubblicistica e la narrativa sul ministero ha in lui, come in Sirio Politi e altri, un riferimento importante.
letterato, non arcade
La poesia e la narrativa si sono rivelate alla lunga il campo più rilevante e ampio del suo ministero. Non appartenente all’accademia o all’arcadia, né a scuole particolari, la sua poetica nasce dentro la sua fede e il suo ministero. Forse si può sentire l’eco della passione di un Davide Turoldo. Ma il testo che gli ha riservato maggiore attenzione e risonanza, forse il romanzo "cattolico" più bello degli ultimi cinquant’anni assieme a Il cavallo rosso di E. Corti, è La messa dell’uomo disarmato (Sironi, Milano 2003), un racconto fluviale e drammatico sulla resistenza cattolica nelle aree della bassa milanese.
Le parole messe in bocca ad un vecchio parroco in memoria di un amico partigiano non credente suonano come un viatico per sé: «Certo, dobbiamo onorare i morti continuando a vivere senza rimpianti, anche se è duro pensare che loro hanno pagato per me, per tutti... Certo, bisogna continuare a vivere come se loro non fossero morti, dire ogni giorno nella messa: communicantes et memoriam venerantes in primis, non scandalizzarti Franco di questo vecchio prete, in primis - ripeté con più forza - gloriosum fratrum nostrorum, e faccio seguire quei nomi perché mi rimangano impressi per tutta la giornata e mi aiutino a portare il pondus diei et aestus. ... Non ci resta che questo comunicare con loro, e venerarne la memoria, in un anello che si congiungerà con un altro anello dopo di noi, quando saremmo annoverati fra coloro di cui si deve fare memoria, un anello fra i molti ma sempre completo nella sua individualità. In fondo, la vita è questo comunicare con coloro che ci hanno preceduto, e farne memoria» (p. 747).
Ma è nella traduzione della trilogia di san Giovanni della croce (Salita sul monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale, EDB, Bologna) che si coglie la sua monastica inclinazione alla mistica e alla profezia: «Là tu mi mostrerai/ ciò che l’anima mia pretendeva,/ e tosto mi darai/ ancora là, vita mia/ quanto già mi donasti il dì passato» (Cantico spirituale, p. 35).