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"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
intervista a Stefano Rodotà
«È stata la risposta più responsabile a una sfida eversiva»
a cura di Natalia Lombardo (l’Unità, 17 agosto 2010)
«Conosco Napolitano, per aver fatto quella nota vuol dire che è arrivato proprio al colmo dell’indignazione », commenta il giurista Stefano Rodotà.
Ci può spiegare in quali casi si applica l’articolo 90 della Costituzione?
«Nel caso di attentato alla Costituzione, un caso estremo che hanno preso in considerazione i padri costituenti, prevedendo una procedura precisa: è il Parlamento che incrimina il presidente della Repubblica, con una maggioranza qualificata. Una tale situazione determina una crisi costituzionale. Ma vediamo i dati di realtà: c’è una contrapposizione insistita, non del Capo dello Stato verso il presidente del Consiglio, ma, al contrario, un attacco del premier contro il presidente della Repubblica. Già il giorno prima dell’aggressione al Duomo di Milano, Berlusconi parlando ai Dc attaccò Napolitano e la Corte Costituzionale. Quelli contro la Consulta, con toni ignoranti della funzione e della composizione, sono proseguiti; quelli personali a Napolitano sono stati meno plateali ma sono continuati».
Fino a questi ultimi giorni, con l’intervista a l’Unità...
«Infatti, Berlusconi non ha parlato esplicitamente, ma di fronte a certe dichiarazioni da esponenti della sua maggioranza, un presidente del Consiglio che abbia il senso delle istituzioni e dello Stato sarebbe dovuto intervenire. Ecco che torniamo all’articolo 90: l’irresponsabilità politica del presidente della Repubblica esige che, di fronte agli attacchi, sia il governo a coprirlo. Ora non solo questo non avviene, ma gli attacchi vengono dal governo. Tutto ciò ci porta a una situazione eversiva, quindi è del tutto comprensibile la nota di Napolitano: un atto di grande responsabilità, di rispetto delle istituzioni e della persona. Di fronte a un tentativo eversivo il Capo dello Stato deve mettere ognuno di fronte alle sue responsabilità. E lo ha fatto».
I precedenti di impeachment in Italia?
«L’unico fu quello di Cossiga, io ero in Parlamento e sottoscrissi la richiesta di un dibattito parlamentare. Era nato dagli attacchi continui che lui portò alla Costituzione».
Il Pdl, non solo Bianconi, sostiene che valga di più una«costituzione materiale », il dettato della Carta superato dalla prassi, e su questo attaccano Napolitano. Da giurista cosa ne pensa?
«Per il fatto che Napolitano abbia dato l’incarico a Berlusconi dopo che ha vinto le elezioni? Ma si è sempre fatto così, non poteva non farlo. Il cambiamento c’è stato nella legge elettorale, ma la nostra resta una Repubblica parlamentare. Lo stesso Napolitano ha ricordato più volte che i cambiamenti avvenuti non sono arrivati al punto da trasformare la Repubblica parlamentare in presidenziale, o con un regime plebiscitario per cui l’investito dal popolo è sottratto alla fiducia parlamentare. Non basta infatti l’incarico dal Quirinale, il presidente del Consiglio deve avere la fiducia dal Parlamento. Riassumendo: l’articolo 90 è quello che è, la situazione vede il tentativo di delegittimare Napolitano quando il premier avrebbe dovuto difenderlo: tutto questo rivela la volontà di spazzare il terreno, eliminare il controllo da parte dei due massimi organi custodi della legalità costituzionale: il Capo dello Stato e la Consulta».
Pdl e Lega gridano al «golpe» nell’ipotesi di un governo tecnico.
«Se con le dimissioni di Berlusconi Napolitano sciogliesse subito le Camere, senza verificare se può esserci un’altra eventuale maggioranza, questo sì incrinerebbe il tessuto costituzionale, perché attribuirebbe al presidente del Consiglio un potere che non ha. Non siamo in Inghilterra. Napolitano ha fatto questo tentativo alla caduta del governo Prodi, Scalfaro lo fece con Berlusconi stesso nel ‘95 e lì si trovò un’altra maggioranza».
Berlusconi lo chiama «ribaltone».
«Fu un Parlamento, non un’assemblea, a sostituire un governo con un altro. E la scelta di Dini da parte di Scalfaro era avvenuta sulla base dell’indicazione di Berlusconi stesso, che allora riconosceva la legittimità di queste procedure che ora rifiuta. Tra l’altro Napolitano ha fatto notare la gravità di una crisi interna e internazionale, quindi sarebbe una forzatura sciogliere le Camere in presenza di un’altra maggioranza. Se poi questa non c’è allora è inevitabile. Insomma,il discorso va ribaltato »
Monarchia carismatica
Tra politica e show-business. Un regime privatizzato
Per sua natura e vocazione la monarchia carismatica, aziendale, populista e spettacolare
appare poco compatibile con la complessità degli assetti giuridici e istituzionali
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 11.03.2010)
Residenze private fatte pubbliche, da villa La Certosa a Palazzo Grazioli, con tanto di tricolore al balcone e seratine «simpatiche»come dice il premier. Picchetto d’onore a Palazzo Chigi per accogliere il socio d’affari, principe Al Walid. Istituzionalizzazione di casa Letta, del salotto Angiolillo e dello studio di Bruno Vespa per la firma del Contratto con gli italiani e la sua verifica annuale, sulla medesima scrivania in ciliegio.
Cosa è più, ormai, la distinzione tra forma e sostanza in tarda epoca berlusconiana? I miscugli di cui sopra si riferiscono al quinquennio 2001-2006, due legislature orsono. Per dirne l’evoluzione o regressione che sia, per far capire quanto poco al Cavaliere stia a cuore di salvare la forma, appunto, oltre che la sostanza, basterà qui far presente che dopo aver presentato il suo quarto governo alle Camere, nel maggio del 2008, non è più intervenuto né a Montecitorio né a Palazzo Madama.
Del resto lì ha messo gente anch’essa molto poco portata a soffermarsi sulle antiche distinzioni, tanto formali quanto sostanziali, che regolano i rapporti fra le istituzioni. Uno di questi testimonial del berlusconismo trans-istituzionale, anche lui segnalatosi per un’impegnativa e temeraria valutazione su forma e sostanza, è il presidente del Senato Schifani, a suo tempo (2002) innalzato dal suo ex compagno di partito Filippo Mancuso a «Principe del foro del recupero crediti».
Mancuso era quell’ex alto magistrato piccoletto, già Guardasigilli ribellatosi al governo Dini, che parlava una strana lingua aulica e assai espressiva, ma il senso giuridico della separazione senza dubbio lo possedeva. La sua turbinosa uscita da Forza Italia, dove era stato accolto come una sorta di coscienza della continuità, segna un punto di non ritorno nel processo di alterazione della norma e delle regole e quindi dei comportamenti. Con il che lo stesso giorno in cui Schifani ascese alla terza carica dello Stato pensò bene di andare a ringraziare a Palazzo Grazioli.
Fossero solo le liste elettorali, infatti, i decreti legge interpretativi o le pantomime in Consiglio dei Ministri quando c’è da legiferare sulla televisione e allora Berlusconi e Letta si alzano e fanno finta di astenersi. Tutto questo non dipende da innata cattiveria o conveniente ipocrisia. Solo quel tanto che attiene alla natura umana. È che per sua natura e vocazione, la monarchia carismatica, aziendale, populista e spettacolare appare del tutto incompatibile con la complessità degli assetti giuridici; né mai riuscirà a comprendere i vincoli posti da tradizioni lontanissime dalle logiche del potere personale, del mercato e dello show-business.
A proposito del suo governo ha detto il presidente Berlusconi nell’autunno del 2008: «Per la prima volta ne ho uno che fila come un orologio, sembra un consiglio d’amministrazione». Che l’ingranaggio si sia con il tempo un po’ rallentato non toglie nulla a un paradigma, a un modello, a una condizione del tutto inedita secondo cui il Cavaliere tiene moltissimo sia alla forma che alla sostanza: ma a patto che sia lui non solo a ridefinirne i confini, ma a stabilire cosa siano l’una e l’altra.
E poiché tale processo, che poi coincide con la definitiva presa del potere, non si è ancora compiuto, ecco che tra commistioni, contaminazioni, superamenti, scavalcamenti e altre poco simpatiche forzature, dal continuo miscuglione di forma & sostanza ha finito per generarsi una specie di "formanza". Mostruosa ibridazione, enigmatico incrocio che in fondo ha già cominciato a mettere a dura prova politici, giuristi, filosofi, sociologi e addirittura giornalisti rotti a qualsiasi invecchiatissima
La retorica delle “riforme”
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 28.12.2009)
Nel discorso politico attuale, molta ipocrisia e molti pericoli per la nostra democrazia. “Riforma” è la parola passepartout della politica italiana. Non c’è discorso politico che non la contempli.
Negli anni della cosiddetta prima repubblica era la sinistra parlamentare che la invocava per marcare la fedeltà alla democrazia costituzionale e un’identità non rivoluzionaria. “Riforme di struttura” era una delle espressioni più spesso pronunciate nel Partito comunista (e per qualche tempo anche in quello socialista): voleva dire portare la democrazia oltre le istituzioni politiche; estendere i metodi elettivi di selezione e controllo nei luoghi di lavoro e nelle scuole; fare politiche di redistribuzioni per dare al maggior numero possibilità concrete di esercitare la cittadinanza. Questa è stata dal 1948 in poi, l’utopia riformatrice italiana.
Alcune riforme importanti sono state fatte: gli Anni 70, ci hanno dato il decentramento amministrativo, un sistema sanitario e di previdenza nazionali, la pratica della concertazione tra le parti sociali per risolvere contenziosi sulle dinamiche salariali, le politiche occupazionali e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il termine riforma ha per decenni significato incremento e ampliamento della democrazia.
A partire dalla fine della Guerra fredda e del consenso largo che l’ha accompagnata, “riforma” è diventata una formula sulla quale si sono stabilizzati partiti nuovi o rinnovati nella convinzione che la crisi del sistema politico fosse essenzialmente una questione di ingegneria istituzionale e di tecnica elettorale. La retorica della riforma ha così cominciato a transitare dal sociale all’istituzionale. A partire dai referendum elettorali che si sono succeduti negli ultimi due decenni, le “riforme istituzionali” hanno sostituito nel linguaggio partitico le “riforme di struttura”, con una modifica radicale: non solo i partiti di opposizione ma anche quelli di governo hanno preso a dirsi riformatori o riformisti.
Oggi, tutti auspicano, propongono, vogliono riforme, con il risultato che il termine ha perso il significato che nella tradizione politica moderna ha generalmente avuto: realizzare le promesse scritte nella carta dei diritti costituzionali. L’esito è che riformare può anche significare smantellare quelle promesse: per esempio decurtando i diritti sociali, impoverendo la scuola pubblica, istituendo un federalismo che ricusa la solidarietà nazionale.
Infine, dalla nascita di Forza Italia ad oggi, e con una responsabilità nemmeno troppo velata dello schieramento opposto, la retorica delle riforme ha fatalmente esteso le sue mire sulla Costituzione e il sistema di giustizia. Non c’è settore della vita pubblica sul quale i nostri politici non si dilettino con proposte a volte bislacche e immaginifiche, sempre sollevando lo spettro dell’emergenza. La retorica delle riforme segue i cicli delle fortune politiche di chi la usa, la rilancia o l’atterra. Tutto il paese, noi tutti, dipendiamo da questi cicli e da questi leader guicciardiniani.
Con la recente riorganizzazione del Pd, la retorica delle riforme è tornata a fare da centro magnetico del discorso pubblico. Sul tappeto, non c’è la realizzazione delle promesse della democrazia, ma invece l’urgente bisogno del presidente del Consiglio di tutelarsi da possibili futuri guai giudiziari. L’attacco ai giudici comunisti si sta mescolando, colpevole il recente grave attentato alla sua persona, alla predica buonista della grande riconciliazione: “concordia” è la parola che torna spesso in questi giorni; non perché siamo in clima natalizio e la bontà di cuore è di pragmatica, ma perché si deve riuscire a convincere l’opinione pubblica che senza un intervento urgente per salvare il premier, sarà l’Italia intera a rimetterci. Bisogna far credere agli italiani l’opposto di quel che è, poiché è evidente che non è l’Italia ad aver bisogno di “queste” riforme.
Occorrerebbe aver il coraggio di dire che occorre conservare, non riformare: l’Italia ha urgente bisogno di conservare lo stato di diritto e il governo della legge. Scriveva Massimo Giannini su queste pagine alcuni giorni fa che esiste un condizionamento ferreo per il quale «se non c’è lo scudo processuale a breve per il suo capo, a prescindere dal tempo lungo delle modifiche per via costituzionale del Lodo Alfano e dell’immunità parlamentare, il Pdl non può concepire altre riforme di struttura». In sostanza, la maggioranza non è autonoma; la sua politica è direttamente dipendente dalla necessità di “queste” riforme, e con essa lo è la vita intera del nostro paese.
Questa mancanza di autonomia politica della maggioranza non può essere trascurata dalle opposizioni. Anni fa si cercò con una regìa non dissimile di imbastire una bicamerale. Quale che fosse l’intenzione ragionata, si trattò di una politica improvvida perché ha abituato i politici a usare la nostra costituzione come merce di scambio per creare o affossare alleanze. In quell’occasione, i leader politici (allora al governo) non ebbero l’acume di imbrigliare il potere dell’interlocutore prima di farci compromessi politici. Non fecero caso al fatto che solo tra eguali ci si può accordare perché chi ha un potere sovrastante fa quel che vuole e non onora gli accordi.
Ora si ripropone uno scenario simile, con l’aggravante che quel potere esorbitante governa il paese e l’opinione pubblica. Non si tratta di resistere alle sirene della concordia per ragioni di pragmatismo, una forma nobile di politica che non ha nulla a che fare con il trasformismo (“inciucio” in gergo). E nemmeno di appellarsi alla fiducia nelle buone intenzioni del premier. Il veto viene da un fatto più semplice e che domina l’arena politica con la forza di una legge naturale: chi vuole “queste” riforme non può permettersi di ottenerne altre rispetto a quelle di cui ha urgente bisogno.
Salvaguardare l’arbitro sarebbe interesse di tutti
di MARCELLO SORGI (La Stampa, 31.12.2009)
È senz’altro una scommessa, la decisione di Napolitano di porre anche su Internet, su «You tube», il suo tradizionale messaggio di Capodanno, che come tutti gli anni viene trasmesso stasera in tv. Mentre infatti in televisione il Presidente viene mandato in onda a reti unificate, nella larghissima platea di una particolare prima serata, in cui tutti o quasi tengono il televisore acceso anche come indicatore del tempo che manca al brindisi di mezzanotte, il Capo dello Stato, on line, si sottoporrà ad un particolare indice di gradimento: sarà interessante vedere quanti saranno i cliccatori e a che ritmo cresceranno.
Non è un mistero che, nel tempo, il messaggio abbia visto cambiare la sua funzione. Quando i Presidenti «regnavano» in una condizione di quasi assoluto riserbo, l’apparizione dell’inquilino del Quirinale, nel suo studio, alla sua scrivania, intento a cercare un dialogo con i cittadini e con le famiglie, riunite in un momento di serenità, aveva la forza di un evento eccezionale. Di qui l’attenta esegesi e le accurate interpretazioni che se ne facevano sui media, e le reazioni generalmente di consenso che lo accompagnavano.
Da quando invece il Paese è impantanato nella sua transizione infinita, quello del Presidente è diventato un mestiere infernale. Anche se i suoi poteri formali sono molto limitati, il Capo dello Stato è chiamato quasi tutti i giorni ad arbitrare e a cercare di moderare il livello di scontri politici ormai divenuti intollerabili e che spesso degenerano in veri e propri duelli istituzionali, tra governo e Parlamento, tra governo e magistratura o tra giudici e politici a prescindere dalla loro collocazione partitica.
Napolitano cerca di farlo con misura, tentando di indirizzare, nel contempo, le forze politiche a un confronto in positivo, che non si riduca solo a uno scambio continuo di veti o di insulti. Ma va detto che è un’opera assai ardua. Negli ultimi tempi è anche venuto meno quella sorta di rispetto istituzionale che tendeva a tenere fuori il Presidente dai giudizi contingenti dei partiti. Napolitano, in questi suoi tre anni e mezzo di presidenza, è stato attaccato da destra e da sinistra, senza remore. Dovrebbe essere interesse di tutti salvaguardare l’arbitro, specie in un periodo in cui lo scontro si fa sempre più duro. Se invece non lo si fa, vuol dire che la situazione è davvero oltre il livello di guardia.
Le condizioni per la pace del premier: leggi ad personam e stop all’Idv
di Ninni Andriolo *
Tutti ad Arcore, da Cicchitto a Letta, da Scajola a Miccichè. Una convalescenza di gran lavoro quella del Cavaliere. Per stasera è prevista una cena con Bossi e Tremonti. Possibile, prima di Natale, una nuova visita di Fini. Il Presidente della Camera si sta spendendo molto per dare gambe agli appelli berlusconiani a «rasserenare il clima». Come Gianni Letta, d’altra parte, che Berlusconi vorrebbe nominare vice premier.
Strada spianata verso il «patto democratico», quindi? Passati i giorni dello scoramento e dei buoni propositi, in realtà, il Cavaliere «vuole la pace», ma pone condizioni. La prima è che Pd e Udc rompano con Di Pietro, isolando l’ex pm di Mani pulite. Una richiesta che, riportata come una sorta di diktat da interlocutori non annoverabili tra le «colombe», giunge in realtà direttamente all’opposizione - e per altri percorsi - con toni più sfumati. Pace condizionata, quindi? «Prendo atto dell’apertura alle riforme del Pd - spiega Paolo Bonaiuti - Se sono rose fioriranno, vedremo. Il dialogo, il confronto, qualunque forma di apertura civile con l’opposizione può riprendere quando cesserà la spirale di violenza contro il presidente del Consiglio». E il senatore Pdl, Giorgio Stracquadanio, ultras pro Cavaliere, sottolinea che «è più che opportuna la distinzione tra opposizione democratica, con la quale cercare con tenacia un’intesa per le riforme istituzionali, e opposizione giustizialista». Gaetano Quagliariello, infine, auspica che «le forze responsabili dell’opposizione» compiano «un passo ulteriore per disinnescare il conflitto che da 15 anni impedisce all’Italia di diventare una democrazia compiuta».
È chiaro che Berlusconi non ha messo da parte l’assoluta priorità che assilla i suoi pensieri: la via d’uscita parlamentare ai processi che lo riguardano. E se è vero che oltre all’«isolamento di Di Pietro» il premier spera, in particolare dal Pd, un atteggiamento «soft» sulle leggi «ad personam», è anche vero che - con realismo - non mette nel conto né voti favorevoli, né aiuti nell’iter parlamentare. Tenta, però, di evitare «la demonizzazione». «La posizione di D’Alema, Bersani e di tutti noi - spiega il Pd Enrico Letta - È che non c’è un atteggiamento persecutorio o berlusconicentrico, ma solo il rispetto delle regole, della Costituzione e che le riforme devono essere di sistema».
Legittimo impedimento e Lodo Alfano bis: sembrano questi i provvedimenti intorno ai quali il Cavaliere occuperà il Parlamento tra gennaio e febbraio, pronto - in ogni caso - ad andare «avanti come un treno» forte, anche, delle rassicurazioni di Fini. Una modifica radicale del «processo breve» per dare un segnale a chi - nel Pdl, ma anche in Pd e Udc - chiede di non terremotare la giustizia? Possibile. Quanto alle altre riforme, tutto lascia pensare che se ne riparlerà dopo le regionali e che le urne decideranno molto anche del futuribile dialogo tra maggioranza e opposizione»
* l’Unità, 19 dicembre 2009
Messaggio del premier a una manifestazione di solidarietà organizzata a Verona
"Mi date un’ulteriore spinta. L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio", ha ripetuto
Berlusconi: "Vado avanti per il bene del Paese" *
VERONA - "Andrò avanti per il bene del Paese". Questo il messaggio inviato stamane da Silvio Berlusconi ai partecipanti all’iniziativa indetta in Piazza Brà a Verona una settimana dopo l’aggressione subita dal premier a Milano. "Queste manifestazioni - ha detto Berlusconi, che ha chiamato al cellulare il sottosegretario Aldo Brancher - mi danno una ulteriore spinta ad andare avanti e a sostenere il nostro impegno per il bene del Paese".
"Sono commosso - ha aggiunto il presidente del Consiglio - e ringrazio Verona che ha per prima voluto organizzare questa manifestazione di solidarietà". "L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio", ha ribadito Berlusconi usando le parole pronunciate il giorno in cui è uscito dall’ospedale San Raffaele e scritte lo stesso slogan dello striscione che questa mattina campeggiava sulla scalinata del Municipio di Verona. "Questo è il messaggio - ha proseguito il premier - che stiamo portando in giro per tutta l’Italia". "Sotto l’albero di Natale - ha detto ancora, rivolgendosi ai sostenitori - regalate una tessera del Pdl".
In piazza Brà, secondo una prima stima, un migliaio di persone, tra le quali oltre a Brancher il sottosegretario Alberto Giorgetti, e vari sindaci e assessori comunali. La manifestazione si è chiusa con le note di "Meno male che Silvio c’è".
* la Repubblica, 20 dicembre 2009
Intervista al Tg2 del presidente della Repubblica
"Misurare le parole e metter da parte complotti e scorciatoie"
Napolitano: "Politica esasperata
sbagliato alimentare tensioni"
"Tornare ad un confronto civile tra le parti, nel rispetto della Costituzione"
ROMA - "No al ritorno di ogni forma di violenza, all’esasperazione della lotta politica. E’ necessario misurare le parole ovunque si parli, e tornare a un civile confronto fra le parti politiche". E’ fermo l’appello del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, all’indomani dell’aggressione ai danni di Silvio Berlusconi e nel pieno delle polemiche e dello scontro politico che ne stanno seguendo.
Il capo dello Stato, in un’intervista al Tg2, ribadisce quanto già affermato in passato, ovvero la necessità di abbassare i toni della politica. "Ho fatto quella dichiarazione - insiste Napolitano - nella convinzione che ci sia un’esasperazione pericolosa della polemica politica", e che questa "vada fermata". "Non è la prima volta che lo dico - ricorda il presidente - dobbiamo impedire "che rinascano forme di violenza, che l’italia in un passato non lontano ha già conosciuto e duramente pagato". da questo nasce l’appello, rivolto "a tutti in nome di un’imparzialità che ho sempre rispettato e sono deciso a rispettare. In questo momento non ha senso che gli uni diano le colpe agli altri per il clima che si è creato".
Già, non è la prima volta che il capo dello Stato punta il dito sui rischi di un clima politico fuori controllo. E anche oggi torna a parlare ribadendo lo stesso concetto: "Non si alimentino tensioni, si misurino le parole, dovunque si parli: nelle piazze, nei congressi di partito e in tv", ciascuno faccia la sua parte restando nei limiti fissati dalla Costituzione".
La Costituzione resta, nella parole del presidente, il riferimento primo. A dispetto di chi ne mette in discusione validità e attualità. Ed è proprio la Costituzione a stabilire che la legislatura dura 5 anni e, dunque, "non si alimentino tensioni nè da una parte cercando scorciatoie, nè dall’altra parte vedendo complotti anzichè riconoscere dissensi".
Poi Napolitano torna all’aggressione di Berlusconi. Un gesto che deve "allarmare" tutti. "E quando dico tutti intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia e hanno a cuore che venga garantita la pacifica convivenza civile" conclude il presidente. Che si rivolge direttamente ai cittadini: "Abbiate fiducia nella giustizia".
* la Repubblica, 14 dicembre 2009
La farsa della pace
di MICHELE BRAMBILLA (La Stampa, 16/12/2009)
Com’era facilmente prevedibile, siamo già qui a officiare il funerale del «normale e civile confronto» invocato dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Il «normale e civile confronto» in Italia rientra a pieno titolo fra tutte le più belle cose cantate da Fabrizio De Andrè: vivono solo un giorno, come le rose.
Un giorno in cui s’è dato sfoggio a tutta quella retorica che è lì, nel vocabolario dei politici, sempre pronta a essere riesumata. La retorica per la quale la condanna è sempre ferma; la solidarietà piena; lo sdegno unanime; l’aggressione vile; la spirale pericolosa; la preoccupazione profonda; il monito severo. Quanto fossero sinceri certi buoni propositi, lo abbiamo visto già ieri. L’«auspicato dialogo» (altro termine-totem) centrato «sulla politica e sui problemi della gente», piuttosto che sugli attacchi personali, è ripreso a colpi non di fioretto, ma di cannone.
Non è nostra intenzione fare una classifica per stabilire chi s’è rivelato più incontinente. Tuttavia non può non colpire un fatto. Nelle ore successive al ferimento del premier, è stato il centrodestra a reclamare a gran voce - e a ragione - un abbassamento del livello dello scontro. Sarebbe stato quindi ovvio attendersi un comportamento che desse immediatamente il buon esempio. E invece si è partiti da un attacco del Giornale, già lunedì mattina, che ha parlato di «una regia dietro la violenza» in un articolo che ha indotto Pier Ferdinando Casini a sporgere querela. E stiamo parlando di Casini: non di un incendiario.
Ieri mattina poi, alla Camera, il capogruppo del Pdl Cicchitto ha dato dei mandanti morali al gruppo editoriale Repubblica-Espresso e ad «alcuni pm», e del «terrorista mediatico a Marco Travaglio». Anche Travaglio farà querela. Era stato tirato in ballo pure da Capezzone e dal condirettore del Giornale Sallusti, e ieri ha risposto loro su Il Fatto ricordando, a proposito di «normale e civile confronto», Berlusconi che dà dei «coglioni» agli italiani che non votano per lui; «l’uso criminale della tv» attribuito a Enzo Biagi; Sgarbi che dà degli «assassini» ai pm di Milano e Palermo; il pedinamento del giudice Mesiano; le false accuse al direttore di Avvenire Dino Boffo «di essere gay» e a «Veronica Lario di farsela con la guardia del corpo».
Insomma à la guerre comme à la guerre. Di Pietro, tanto per guardare anche dall’altra parte, era stato uno dei primi, già domenica sera, a ignorare l’appello ad abbassare i toni. Però ieri quando lui ha cominciato a parlare alla Camera, l’intero gruppo del Pdl ha lasciato l’aula: e non è un bel modo per gettare acqua sul fuoco. Così come benzina, e non acqua, ha gettato subito dopo sul fuoco il parlamentare dell’Idv Barbato, che ha definito il Pdl «popolo della mafia». Altri titoli di ieri. Il Giornale: «La Bindi? L’avevo detto: è più bella che intelligente»; «E Travaglio insiste: Si può odiare il premier»; «Bersani dagli insulti alle lacrime di coccodrillo». Perché ce n’è anche per il Pd: «La famiglia di Tartaglia ha detto di aver sempre votato per il Pd. Coincidenza pure questa?». Titoli visti, invece, su Libero: «In Italia si respira guerra. E la colpa è dei compagni»; «Le toghe tirano due statuette».
Intendiamoci. Il centrodestra ha ragione quando dice che da tempo contro Berlusconi s’è scatenata una caccia all’uomo che travalica ogni legittima critica politica. A quest’uomo vengono addebitati tutti i mali possibili e immaginabili, terremoti compresi. Resta però bizzarro invocare una tregua a Berlusconi sanguinante e infrangerla a Berlusconi ricoverato.
Il timore è che nessuno dei due «partiti» abbia intenzione di deporre le armi. Ieri un editoriale su Repubblica di Aldo Schiavone terminava con questa affermazione: «Non abbiamo bisogno di intelligenze "al di sopra delle parti", né abbiamo bisogno di edulcorare le nostre asprezze». Schiavone definisce simili atteggiamenti come «finzioni» e «ipocrisie». Sarà. Ma crediamo di non sbagliare se diciamo che in Italia c’è una maggioranza che vorrebbe una politica meno da ring, e che vorrebbe giudicare fatto per fatto, idea per idea, senza essere prigioniera di due curve di ultrà che rinunciano a pensare con la propria testa. È l’Italia che ha conservato non solo modi civili, ma anche uno sguardo senza pregiudizi sulla realtà
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
di Aldo Schiavone (la Repubblica, 11 gennaio 2010)
In questi giorni abbiamo ascoltato voci diverse, anche molto autorevoli - a cominciare da quelle dei presidenti della Repubblica e della Camera - invitare i protagonisti della nostra politica ad avere più a cuore l’«interesse nazionale» e il superiore valore dell’unità del Paese.
Si tratta di indicazioni che meritano la dovuta attenzione, e non soltanto per le personalità da cui ci giungono. Stiamo entrando in una campagna elettorale difficile, e la maggioranza annuncia di voler fare dell’anno che comincia «l’anno delle riforme». Sarà bene dunque riflettere pacatamente sul clima mentale con cui affrontare questi appuntamenti, per cercar di capire cosa fare per allontanare da noi quello «stato marziale dell’anima» (per dirla con James Hillman) che sembra ormai avvolgere tutta la politica italiana.
Dirò subito che non credo che formule come quella che abbiamo appena sentito del «partito
dell’amore» (così il Presidente del Consiglio) ci facciano fare davvero passi avanti. Mi guardo bene
sia chiaro - dal sottovalutare l’orizzonte cui si allude con questa formula. Credo anzi che l’amore
verso il prossimo - diciamo anche la questione della fraternità come regola universale nei
comportamenti sociali della nostra specie - sia il più grande nodo etico che la civiltà umana abbia di
fronte, reso attuale e ineludibile dalla forma stessa che la storia del mondo sta prendendo sotto i
nostri occhi. Se non saremo capaci di compensare con una autentica rivoluzione intellettuale morale
del nostro paesaggio interiore (delle nostre "anime", appunto) lo straordinario aumento di potenza
trasformatrice - della nostra stessa naturalità e dell’ambiente intorno a noi - di cui ormai
disponiamo, potremmo arrivare all’abisso. Ma si tratta, per ora, di un tema etico, non politico:
trasportarlo così meccanicamente su quest’ultimo piano ha qualcosa di intrinsecamente improprio e
quasi grottesco, che non fa bene. La politica - quella che conosciamo e che ancora conosceremo
abbastanza a lungo - non è amore: è distinzione, conflitto, regole, mediazione. E non vi si porge - se
non per calcolo - l’altra guancia.
Il problema che abbiamo innanzi è invece un altro. E cioè di come far sì che in una democrazia compiuta - che è sempre una democrazia dell’alternanza, fondata in qualche modo sulla bipolarizzazione dell’offerta politica - l’inevitabile conflitto fra le parti non oscuri nella coscienza collettiva quel sentimento di unità, di appartenenza condivisa e di riconoscimento reciproco costitutivo in modo primario di ogni comunità nazionale. Un sentimento che in Italia, per ragioni legate alla nostra storia profonda, fa sempre fatica ad affermarsi, senza essere prima misconosciuto, deformato o svenduto. Ed è proprio perciò, per proteggerci da questa nostra fragilità, che dobbiamo guardarci dal trasformare quegli inviti all’unità in una spinta verso accordi al ribasso, in una sollecitazione ad abdicare ai nostri princìpi, pur di ripristinare a ogni costo uno spirito di trattativa e di intesa. Non è di questo che abbiamo oggi bisogno. E non è stato così nei momenti alti della storia repubblicana: quando l’unità si è conquistata attraverso il raggiungimento di sintesi superiori e più avanzate rispetto alla dialettica che le aveva precedute, che non oscuravano le opposte posizioni di partenza, ma le trascinavano tutte su un terreno più solido e rischiarato. È accaduto per la nostra Costituzione.
Quegli ammonimenti vanno intesi piuttosto come un’indicazione alle parti politiche perché ciascuna sappia uscire dal proprio guscio, e trovi l’ispirazione e la forza per rivolgersi non solo alla propria gente ma all’intero Paese - un’attitudine che dovrebbe diventare una bandiera della sinistra che vorremmo - e perché ciascuna, nella chiarezza delle distinzioni, sappia accantonare tornaconti immediati - e per quanto riguarda la destra e il suo leader addirittura personali - in nome di un’idea condivisa di bene collettivo. Ma il punto è proprio questo: esiste oggi un simile patrimonio ideale? Esso non cade dal cielo, né è innato in un corpo sociale, e non lo si può invocare dandone per scontata la presenza. È un risultato e non un presupposto, frutto delle scelte storiche, delle esperienze stratificate nel tempo, e, per dir così, di una quotidiana pedagogia democratica. E richiede da parte di tutti un rigoroso rispetto delle regole. Non si può avere la pretesa di riformare su punti cruciali il funzionamento e la struttura stessa dell’ordinamento dello Stato, se si assume verso quelle stesse istituzioni su cui si dovrebbe intervenire "sine ira et studio", un atteggiamento di insofferenza che non esita ad assumere le tonalità della rivolta, e richiama a tratti quel "sovversivismo dall’alto" che ha sempre segnato i momenti più rovinosi nella storia delle nostre classi dirigenti. Non si può riformare, mentre si cerca di manomettere: ricordarlo all’attuale maggioranza e al suo leader non è una provocazione; significa solo far realisticamente presenti gli ostacoli da rimuovere per rendere possibile un dialogo. Quale può essere oggi "il bene comune" per il Paese? Due cose, direi, innanzitutto. La prima. Una riforma nel funzionamento della nostra macchina democratica, che ridia sicurezza, agilità e velocità alla decisione politica, trasparenza alla gestione del potere, e ruolo alle rappresentanze parlamentari.
La seconda. Creare le condizioni culturali e civili per un confronto limpido, serrato, e non disturbato dalla presenza di situazioni improprie, fra le due o tre idee d’Italia che stanno cominciando a delinearsi, e da cui dipenderà l’arresto o meno del nostro declino: quella "cattoleghista" di Tremonti e Bossi; quella della destra repubblicana di Fini e Casini; e infine quella (ancora nebulosa, ma con grandi potenzialità) di una sinistra plurale, aperta e riconciliata con il futuro. Il nostro "interesse nazionale" è tutto nella realizzazione di questa cornice.
Piazza Fontana, Napolitano: "Divergenze non sfocino in minacce alla vita civile" *
MILANO - La strage di Piazza Fontana ci ha consegnato "una lezione che non dobbiamo mai dimenticare, ci insegna che dobbiamo evitare che in Italia i contrasti e le legittime divergenze possano sfociare in tensioni tali da minacciare la vita civile". Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano incontrando, alla prefettura di Milano, i familiari delle vittime delle stragi terroristiche.
Il presidente della Repubblica reagisce con una nota ufficiale alle parole del premier
"Sono rammaricato e preoccupato, serve leale collaborazione tra i poteri dello Stato"
L’ira di Napolitano contro Berlusconi
"Attacco violento alle istituzioni" *
ROMA - Il presidente della Repubblica reagisce. Con parole gravi, e inusuali per l’inquilino del Colle. Napolitano è preoccupato e rammaricato per le frasi pronunciate da Berlusconi a Bonn contro giudici, Consulta e i tre ultimi capi dello Stato. Parla di "attacco violento alle istituzioni". Torna ad invocare "leale collaborazione" tra i poteri dello Stato.
La nota del Colle parla chiaro. "In relazione alle espressioni pronunciate dal presidente del Consiglio in una importante sede politica internazionale, di violento attacco contro fondamentali istituzioni di garanzia volute dalla costituzione italiana, il presidente della repubblica esprime profondo rammarico e preoccupazione".
Nel comunicato si precisa che "il capo dello Stato continua a ritenere che, specie per poter affrontare delicati problemi di carattere istituzionale, l’Italia abbia bisogno di quello "spirito di leale collaborazione" e di quell’impegno di condivisione che pochi giorni fa il senato ha concordemente auspicato".
* la Repubblica, 10 dicembre 2009
«Questo clima è anche colpa della caccia all’uomo da parte dei magistrati»
intervista di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera 15.12.09)
Don Verzé, Berlusconi è qui nel suo ospedale. Come l’ha trovato?
«Fisicamente, in ripresa. Psicologicamente, umiliato, terrorizzato. Non tanto per il dolore, quanto per aver provato sul suo corpo l’odio».
Quando ha saputo?
«Appena è successo. Mi ha avvisato il suo medico, Alberto Zangrillo. Ma non sono andato subito al San Raffaele. In questi casi ci vogliono calma, tranquillità. E anche solitudine. Attorno a Berlusconi c’erano i nostri medici migliori, e loro bastavano. Hanno fatto la Tac, per escludere danni cerebrali. Poi gli altri esami. Solo dopo abbiamo fatto entrare il fratello e i figli».
E lei?
«Io sono andato stamattina (ieri, nda ). Era giusto lasciargli un po’ di tempo. Quando accade una cosa del genere, quando si rischia la vita, ci si ritrova come sospesi tra Dio e il mondo. Soprattutto se si è uomini della statura di Berlusconi ».
Perché parla di un Berlusconi «terrorizzato »?
«Il problema non è lui. Lui si è già ripreso, la forte emozione che ha provato è già alle spalle. L’ho rivisto all’ora di pranzo, e il suo ottimismo aveva già preso il sopravvento. Anch’io sono un ottimista; ma perché ho novant’anni, e mi sento ormai nelle braccia di Gesù Cristo. Berlusconi è più ottimista di me. Il problema è l’odio. Questo episodio è anche un monito. Il segno che è davvero il tempo di cambiare la Costituzione ».
Perché? E in che modo, secondo lei?
«Non tocca a me dirlo. Tocca ai politici: l’ho detto a Berlusconi e agli altri che ho visto oggi, Fini e Bersani».
Come ha trovato Fini?
«Freddo. Forse perché l’ho visto per strada».
E Bersani?
«Caloroso. Sinceramente dispiaciuto. Bersani è una gran brava persona. Ci siamo anche dati un bacio. Certo, ha da governare una gabbia di tigri e leoni ».
Di Pietro dice che Berlusconi ha istigato all’odio. Anche la Bindi, con toni diversi, sostiene che il premier ha le sue responsabilità per il clima che si è creato.
«Sono loro ad aizzare all’odio, ad aver ispirato il gesto di quel povero diavolo ».
È giusto dare più poteri al presidente del Consiglio?
«Se ne occupino gli addetti ai lavori. Dico soltanto come cambierei l’articolo 1: l’Italia è una repubblica fondata non solo sul lavoro, ma anche sulla cultura; la politica divide, la cultura unisce. Quanto è accaduto è frutto di un’assoluta mancanza di cultura. Di rispetto. Di conoscenza dell’altro. Berlusconi mi ha detto: ’Perché a me? Perché mi odiano tanto, al punto da volermi ammazzare? Io voglio il bene del paese, il bene di tutti. Tu don Luigi lo sai che è così. Perché non se ne rendono conto?’».
È davvero così, don Luigi?
«Certo. Io conosco bene Berlusconi. È un uomo di fiducia e di fede. Conosce il vero insegnamento di Gesù: ’Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi’. Berlusconi ama tutti, anche i suoi nemici. È incapace di pensieri o parole cattivi».
Una volta definì «coglioni » gli italiani che non votavano per lui.
«Ma anch’io ne dico di tutti i colori alle persone che lavorano con me. Però loro non se la prendono. Perché, come Berlusconi, parlo con il sorriso sulle labbra; e loro sono indotti a sorridere».
Anche la magistratura, secondo lei, ha contribuito a creare questo clima?
«È chiaro che è così. Questo è il vero motivo per cui occorre ritoccare la Costituzione. Anche la caccia all’uomo giudiziaria ha creato il contesto in cui è stata possibile l’aggressione. La magistratura dev’essere ricondotta al suo ruolo. Che è al di sopra e al di fuori della politica. I magistrati non devono fare politica; sarebbe come se il Papa o la Chiesa pretendessero di farla».
Lei sa che diranno che Berlusconi e i suoi intendono approfittare della circostanza.
«So quel che diranno. Non si rendono conto del pericolo che incombe sul paese, del clima che si respira, della gravità di quanto è accaduto. Non si rendono conto che Berlusconi ama l’Italia, ed è per questo, non per i suoi interessi, che è sceso in campo, mettendo in gioco tutto se stesso, anima e corpo, anche a rischio della propria salute. Anche a rischio della propria vita, come si è visto. Io gliel’ho detto: ’Ricordati che sei una persona ricca’. Ma lui non si tira mai indietro. Poi, certo, non è un angelo del cielo. È un uomo. Un uomo sano e vitale. Può commettere errori. Come me, come lei. Per fortuna il San Raffaele è il suo angelo custode; e io sono il custode del suo angelo custode».
Perdonerà il suo feritore?
«L’ha già perdonato. Non mi stupirei che chiedesse di incontrarlo».
La patria non è lui
di Giovanni Maria Bellu *
In fondo il ragionamento non fa una grinza: io sono l’Italia, dice il premier, e dunque chi mi «sputtana», in realtà «sputtana» la patria. È giusto. La patria è sacra. Bisogna amarla in tutte le circostanze. C’è una guerra? E tu devi combattere per la patria. Un’immane catastrofe naturale? E tu devi ricostruire la patria. Mica puoi prendertela con lei. Sputtanarla, poi...
Il piano di Silvio Berlusconi per farsi patria ha avuto un’accelerazione formidabile dopo l’individuazione di alcune organizzazioni anti-italiane operanti nel territorio nazionale: la Corte costituzionale che ha vilipeso il lodo Alfano, argine giuridico creato a difesa della patria, e il presidente della Repubblica il quale si ostina a considerare patria quel territorio delimitato a nord dalle Alpi, attraversato longitudinalmente dagli Appennini e circondato dal Mar Mediterraneo.
Al contrario, per esempio, del ministro Maria Vittoria Brambilla che, rivela qua accanto il nostro Congiurato, reputa Silvio Berlusconi parte del patrimonio turistico nazionale, come il Colosseo, il campanile di Giotto e Piazza San Marco. O del ministro ombra degli Esteri Franco Frattini che, ci racconta il collega danese Mads Frese, continua a tenere impegnati i nostri sempre più imbarazzati ambasciatori nella titanica impresa di convincere la stampa estera che Silvio Berlusconi e il Canal Grande sono la stessa cosa.
Impresa, oltretutto, resa ancora più complessa dal verbo temerariamente scelto dal premier per denunciare le attività antipatriottiche. All’uditore straniero che per seguire le recenti cronache politiche italiane ha dovuto arricchire il suo vocabolario di parole che non aveva studiato nel corso di lingua, il verbo «sputtanare», più che un’attività anti-italiana, evoca le attività del premier medesimo.
Ma non illudiamoci che lo sgomento del mondo sia sufficiente a salvarci. Silvio Berlusconi non se n’è mai curato, come dimostra l’assoluto sprezzo del ridicolo con cui continua ad affrontare gli impegni internazionali. Gli basta essere patria in patria. Cioè nel luogo dei suoi interessi e dei suoi affari. Ha un piano. Rozzo ed efficace, come ci spiega Claudia Fusani: utilizzare il consenso di cui ancora gode per accelerare la svolta presidenzialista. Modificare il sistema costituzionale. Delegittimare il capo dello Stato e prenderne il posto. Fantapolitica? C’è stato un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui la descrizione del quadro attuale sarebbe stata liquidata come fantasia pura. La stiamo vivendo. Ed è qua che lo sbalordimento mondiale per il premier si estende a tutti noi. Leggiamo, alle pagine 4 e 5, le cronache sugli scandali in corso in Francia, Spagna, Inghilterra. Robetta rispetto alla nostra. Bazzecole. Eppure la stampa le denuncia, i politici sono costretti a dare spiegazioni, a dimettersi, a restituire il maltolto, anche quando si tratta di poche centinaia di sterline. «È un problema di diverse sensibilità», dice magnanimamente a Roberto Brunelli Michael Braun, corrispondente a Roma del tedesco Die Tagesszeitung. Già, solo la sensibilità democratica di chi ci vive può salvare la patria. Quella vera.
(Filo rosso del 14 ottobre 2009)
* Nemici Il blog a cura di Giovanni Maria Bellu 13/10/2009 09:30
L’ipocrisia infinita
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 29/11/2009)
Da qualche tempo son molti i politici italiani che pretendono d’aver abbandonato ogni falsità, d’aver infine compiuto l’intrepido gesto che sfata le ipocrisie, d’aver imboccato la via stretta della verità. Dopo parecchio vagare ammettono che in questione non è più l’agire del governo ma il privato destino d’un presidente del Consiglio che non è protetto da processi pendenti, e che potrebbe essere indagato per concorso in stragi mafiose.
Sentono che la terra trema sotto Palazzo Chigi e dicono, come Casini, che è inane sfasciare la giustizia pur di sbrigare un caso singolo: meglio «eliminare le ipocrisie» e riconoscere che serve una legge, la decisiva, per «salvaguardare Berlusconi». La Corte Costituzionale gli ha negato l’immunità, ma egli ha pur sempre vinto le elezioni e deve poter governare: diamogli dunque lo scudo che cerca, visto che alternative non ci sono.
Nella sostanza è il discorso di Berlusconi che vince: la magistratura impedisce alla democrazia di funzionare, quindi è eversiva. È in atto una guerra civile, insinua: uno spettro che in Italia tacita in special modo gli ex comunisti.
Le cose potrebbero tuttavia non stare così, e ci si può chiedere se uscendo da un’ipocrisia non si entri in un nuovo gioco mascherato, che vela anziché svelare. Chi ha detto che l’unica via sia lo scudo immunitario?
L’altra via stretta è la possibilità che Berlusconi si difenda non dai processi ma nei processi, come Andreotti. O la possibilità che il ceto politico tragga le conseguenze, allontanando un leader non condannato ma debilitato da troppi processi e congetture. È accaduto per molti dirigenti in molte democrazie occidentali. Quel che sorprende in Italia è che quest’alternativa, se si esclude Di Pietro, nessuno la propone: subito è detta sovversiva. Essa non presuppone il governo dei giudici, o addirittura dei pentiti. La decisione spetta alla politica, e se questa tace o s’accuccia, c’è solo la voce dei magistrati, per quanto sommessa, a esser udita. L’altra cosa sorprendente è che la tesi sul contrasto tra voto popolare e legalità intimidisca più l’opposizione che la destra.
Su questo giornale, il 23 novembre, c’è stata una presa di posizione forte, di Fabio Granata che è vicepresidente della Commissione antimafia e fedele di Fini, contro chi scredita i processi di mafia. Intervistato da Guido Ruotolo, Granata denuncia il «berlusconismo che rischia di cancellare la nostra identità: quella di chi crede nei valori della legalità, dell’antimafia, della giustizia, del senso dello Stato». Nel Pdl, egli è «guardato come un appestato», «accusato di essere giustizialista».
Ciononostante resiste: «Ho visto la gente impazzita di rabbia e dolore ai funerali di Paolo Borsellino, che (...) faceva parte della famiglia missina. Quella enorme e disperata domanda di giustizia l’ho tenuta nel cuore e per questo non potrei non sostenere chi dal ’92 cerca irriducibilmente di affermarla. Meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Vito Ciancimino. Liberare l’Italia dalle mafie dovrebbe rappresentare il primo punto all’ordine del giorno dell’azione di qualsiasi governo». Granata non ritiene colpevoli Berlusconi e Dell’Utri ma approva le inchieste di Palermo, Caltanissetta, Firenze (le procure che investigano sulle stragi del ’92-’93). Loda il «lavoro tenace» del giudice Antonio Ingroia (il procuratore aggiunto di Palermo che indaga sul patto Stato-mafia): «Lo ricordo perfettamente accanto a Paolo Borsellino, quel giorno alla sala mortuaria per riconoscere il corpo maciullato di Falcone».
La cosa strana non è che queste parole vengano da destra. Borsellino era vicino alla destra, e quest’ultima ha una lunga tradizione di lotta alla mafia, a causa del senso dello Stato acuto (a volte sfrenato) che la anima.
Ci fu l’attività di Cesare Mori in Sicilia, fra il 1924 e il ’29: attività peraltro ostacolata da dignitari fascisti che temettero il suo assedio.
Apparteneva alla destra storica il senatore Leopoldo Franchetti, il primo che perlustrò il fenomeno mafioso, scrivendo nel 1876 un rapporto sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia: un classico sulla malavita. Apparteneva alla destra storica Emanuele Notarbartolo, il direttore del Banco di Sicilia che volle far pulizia e fu ucciso dalla mafia il 1° febbraio 1893. Il mandante era un senatore mafioso, processato e poi assolto.
Strano è il cedimento-fatalismo dell’opposizione, al centro e nel Pd.
Ambedue vedono la legislatura divorata dai guai giudiziari d’un singolo, ma nell’essenza si dichiarano imbelli. È come se ritenessero del tutto impensabile una contromossa della politica che non sia l’accomodamento, o come diceva Gaetano Mosca nel 1900: il «lasciar andare, la fiaccona». Come se dicessero: il leader non può governare e il dilemma si risolve non ricongiungendo democrazia e legalità, ma disgiungendole. Fondando il primato della politica non su atti trasformativi, ma tutelativi.
Forse senza rendersene conto, il Pd interiorizza l’alternativa democrazia-legalità. Martedì a Ballarò Luciano Violante ne è parso prigioniero: da una parte la democrazia, dall’altra la legalità. Ha mancato di ricordare che le due cose o sono sinonimi, oppure non si ha né democrazia né legalità. Voleva probabilmente dire che non sono i giudici a far cadere un governo, tanto meno i pentiti. Ha finito col dire che non è neppure la politica (partiti, parlamento) a poterlo fare. Torna a galla l’idea leninista secondo cui la democrazia sostanziale può confliggere con quella legale. È una fortuna che Napolitano abbia detto in modo chiaro, venerdì, che spetta invece a politica e parlamento sanare i presenti squilibri.
Tutto questo avviene forse perché le indagini su politica-mafia sono a una svolta. Si accumulano verbali sempre più sinistri, che legano Berlusconi e Dell’Utri alle stragi. Ce n’è uno in particolare, quello del pentito Romeo, secondo cui nei primi ’90 «c’era un politico di Milano (il nome fattogli dal pentito Spatuzza è Berlusconi) che aveva detto a Giuseppe Graviano (un capomafia) di continuare a mettere le bombe», indicando perfino «i siti artistici dove metterle». I verbali non inducono ancora la magistratura a aprire un’indagine, ma la loro portata è oltremodo conturbante. Un sospetto malefico pesa sul presidente del Consiglio: che oltre al conflitto di interessi economici, ne esista un altro che lo espone a minacce di pentiti e carcerati mafiosi.
Il governo in realtà sostiene ben altro: la sua lotta alla mafia sarebbe dura; secondo alcuni, è sotto pressione proprio per questo. Nell’agosto scorso Berlusconi ha affermato di voler «passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia». Né mancano dati promettenti: la legge del carcere duro inasprita (legge 41 bis), i beni mafiosi sequestrati, un gran numero di capi malavitosi arrestati.
Al contempo tuttavia son favoriti i colletti bianchi che fanno affari con la mafia. C’è lo scudo fiscale, che chiede all’evasore una restituzione minima di quel che dovrebbe (il 5 per cento), e in cambio gli consente, restando anonimo, di cancellare reati come il riciclaggio di denaro sporco (lo spiega il giudice Scarpinato sul Fatto del 15-11-09). C’è la legge sulle intercettazioni, che ostacola le inchieste sulla mafia. C’è il Comune di Fondi, in mano alle destre: tuttora non sciolto, malgrado la collusione con la mafia sia certificata da oltre un anno. Contestata da don Ciotti, c’è una legge che mette in vendita parte dei beni confiscati alla mafia, col pericolo che prestanome incensurati li riacquistino. C’è infine il processo breve: un processo morto, per i colletti bianchi collusi.
La svolta secerne sospetti a raggiera. Quelli che Franchetti chiamava i facinorosi della classe media (amministratori, politici) potrebbero aver l’impressione che il cuore dello Stato sia nelle loro mani. È sospettato il presidente del Senato Schifani, per rapporti con i fratelli Graviano e assistenza giuridica al costruttore Lo Sicco, oggi in galera per mafia. È indagato Nicola Cosentino, sottosegretario al Tesoro, per concorso esterno in associazione camorristica. Ambedue restano al loro posto, sotto gli occhi non tanto dei magistrati quanto della mafia, esperta in ricatti. Che sia l’ora della politica è evidente. Le democrazie vivono e muoiono nel funzionare o non funzionare del comportamento politico, non di quello giudiziario.
Il presidente della Repubblica scrive a Berlusconi, a Maroni e ad Alfano
"Norme tra loro eterogenee, non poche delle quali prive di organicità e sistematicità"
Sicurezza, Napolitano promulga la legge
ma esprime "perplessità e preoccupazioni"
ROMA - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha promulgato la legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento il 2 luglio scorso, ma ha inviato al premier e ai ministri interessati una lettera in cui esprime "perplessità e preoccupazioni". Il capo dello Stato ha ritenuto di non poter sospendere in modo particolare la entrata in vigore di norme, ampiamente condivise in sede parlamentare, volte ad assicurare un più efficace contrasto - anche sul piano patrimoniale e delle infiltrazioni nel sistema economico - delle diverse forme di criminalità organizzata.
Suscita peraltro perplessità e preoccupazioni l’insieme del provvedimento che, ampliatosi in modo rilevante nel corso dell’iter parlamentare, risulta ad un attento esame contenere numerose norme tra loro eterogenee, non poche delle quali prive dei necessari requisiti di organicità e sistematicità; in particolare si rileva la presenza nel testo di specifiche disposizioni di dubbia coerenza con i principi generali dell’ordinamento e del sistema penale vigente.
Su tali criticità il presidente Napolitano ha ritenuto pertanto di richiamare l’attenzione del presidente del Consiglio e dei ministri dell’Interno e della Giustizia per le iniziative che riterranno di assumere, anche alla luce dei problemi che può comportare l’applicazione del provvedimento in alcune sue parti.
La lettera è stata inviata, per conoscenza, anche ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati.
* la Repubblica, 15 luglio 2009
LA Stampa, 6/7/2009 (15:12)
DDL INTERCETTAZIONI
Di Pietro: "Non basta una piuma per difendere la Costituzione"
Il leader dell’Idv lancia il suo appello a Napolitano. E infuriano le proteste di Franceschini e del governo
«Signor Presidente, lei sta usando una piuma d’oca per difendere la Costituzione dall’assalto di un manipolo piuttosto numeroso di golpisti». Il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, nel suo blog, critica Giorgio Napolitano rimproverandogli di aver aperto la strada, con il suo incontro con il ministro della Giustizia Alfano, a semplici a «modifiche di facciata» al ddl sulle intercettazioni. Di Pietro, che sostiene, invece, la neccessità dell’immediato ritiro di un disegno di legge che produrrebbe solamente effetti devastanti e un aumento vertiginoso della corruzione e degli atti criminali.
«Oramai - sottolinea il leader dell’Italia dei Valori - non è più possibile evitare lo scontro contro il governo dal momento che ha agito esclusivamente nell’interesse di pochi, spesso di una sola persona, a colpi di fiducia, di cene carbonare, di vili attacchi verbali, negando la realtà, la crisi del Paese, insultando la dignità dei cittadini ed usando la menzogna come strumento sistematico di propaganda. Affidarsi al buon senso della maggioranza accettando solo modifiche al ddl sulle intercettazioni non basta, bisogna ritirarlo. In una legge, dove il 90% del testo è da rifare, non si può parlare di ritocchi».
Immediato gli attacchi del presidente dei deputati Pdl Fabrizio Cicchitto, che definisce «pericolosa la deriva dell’avventurismo e dell’estremismo giustizialisti», e di Gasparri che accusa il leader dell’Idv di aver fatto dello scontro la sua unica attività parlamentare. Le critiche, tuttavia, non hanno tardato a giungere anche dal candidato alla segreteria del Pd Franceschini, secondo il quale «è intollerabile coinvolgere il presidente della Repubblica, che sta svolgendo con intelligenza la sua funzione di garante delle regole e degli equilibri istituzionali, nella polemica politica».
«Franceschini, come al solito, capisce fischi per fiaschi - è la secca risposta di Di Pietro - Nessuno se la prende con il Presidente della Repubblica al quale semmai abbiamo rivolto una supplica, non certo una critica. Noi -prosegue- ce la prendiamo e ce la prenderemo sempre con un governo che vuole, attraverso un provvedimento di legge, bloccare le intercettazioni e mettere il bavaglio all’informazione. Ma, come al solito, Franceschini guarda al dito e non alla luna, criticando chi denuncia lo scandalo e non chi lo commette. Ce lo ricorderemo -conclude- alle prossime regionali».
«Napoletani eccellenti nel mondo»
C’è anche il premier autore di canzoni
Tra i premiati Cannavaro, Ballabio, Aponte, Onorato
E a Trapani (ad Bulgari): lei cosa regala alle sue fidanzate?
NAPOLI (30 giugno) - Un premio per le eccellenze del mondo dell’arte, dello sport, della danza, dell’imprenditoria e della comunicazione provenienti da Napoli e che hanno raggiunto i massimi vertici nel proprio campo all’estero. È questo l’obiettivo del riconoscimento promosso dal presidente dell’Unione industriali di Napoli, Giovanni Lettieri, consegnato oggi in occasione dell’assemblea annuale degli imprenditori della provincia, presso il teatro San Carlo cui ha partecipato anche Silvio Berlusconi, che ha regalato a tutti i presenti un siparietto. «Vedendo i vostri gioielli mi è venuto un dubbio e mi sono chiesto: ma lei cosa regala alle sue fidanzate?». Accanto a lui, con Giovanni Lettieri promotore dell’iniziativa, l’amministratore delegato di Bulgari, Francesco Trapani.
Poi mentre consegna il premio ad una vincitrice scherza: «Ieri sera, alla cena in Prefettura, mi ha strizzato la mano e io gli ho chiesto se avesse un fidanzato e in quel caso di essere più delicata...».
Quando poi è la volta di Gianluigi Aponte, armatore del gruppo ’Msc crociere’ il Cavaliere si complimenta con lui per la nave ammiraglia ’Fantasia’ che ieri ha ospitato la conferenza stampa sul G8 in Abruzzo: «A lei abbiamo affidato parte della nostra missione di raddoppiare il turismo in Italia. Anzi penso che a Napoli sia possibile andare oltre il raddoppio. Grazie per il lavoro che fa perché lei contribuisce a dare una spinta alla rinascita di questa città».
Anche il presidente del Consiglio viene premiato per come si è sempre dichiarato «napoletano», per l’impegno nella guerra dei rifiuti e come autore di canzoni napoletane. Quando ne viene citata una dal titolo ’Ammore, senza ammore’, ricorda il brano scritto a quattro mani con il musicista napoletano Mariano Apicella che osserva: «Sì, amore senza amore, che è un disastro...».
Rivolto a Vincenzo Maurino, chirurgo ottico e primario del più importante centro di cura delle malattie degli occhi, Moorfield eye hospital di Londra, chiede: «Ho un pò di stanchezza agli occhi dopo le due di notte che mi consiglia?».
«Il riconoscimento, ideato dal presidente Lettieri, vuole contribuire - spiega una nota dell’Unione Industriali di Napoli - a dare un’immagine diversa della città ad un anno dall’emergenza rifiuti, partendo dall’enorme potenziale culturale, scientifico e umano che ha consentito l’emergere di eccezionali talenti nei più diversi ambiti professionali».
Tra i premiati Ciro Ferrara, neoallenatore della Juventus, l’architetto Silvio D’Ascia, autore della Stazione Porta Susa a Torino e della Città della borsa di Shanghai in fase di costruzione; Pasquale Terracciano, ambasciatore a Madrid (lui assente, ha ritirato il premio la madre); Francesco De Angelis, primo skipper non anglosassone a vincere la Louis Vuitton Cup; Fabrizio Freda, presidente e Chief executive di Estèe Lauder; Vincenzo Maurino, chirurgo ottico e primario del più importante centro per la cura delle malattie degli occhi, il Moorfields Eye Hospital di Londra; Vincenzo Onorato, presidente della Moby Lines e vincitore di sei titoli mondiali di vela.
Premiati anche Giovanni Abbadessa (oncologo clinico, fondatore e coordinatore di Prometeo Network), Giovanni Amelino-Camelia (fisico), Antonella Azzaroni (presidente Msc), Andrea Ballabio (Direttore Tigem), Alessandro Bombardi (fisico), Aniello Esposito (Vicepresident tecnica & operations The National shipping company od Saudi Arabia), Lucio Ghia (Avvocato internazionale), Enrico Giliberti (avvocato internazionale), Antonio Giordano (Direttore dello Sbarro Institute for Cancer and Molecular Medicine of Philadelphia), Carlo Grassi (coordinatore sistema Ects, facoltà design e arti), Anna Illiano (Direttore risorse umane e organizzazione Mbda Italia), Giovanni Ortolani (Ceo Societè generale corporate & Investment Banking), Ernesto Scotti (Presidente Stylemark), Vincenzo Trani (Presidente Mikro Capital), Maurizio Zazzaro (Country Manager Microsoft Home & Entertainment Division).
Domenica 22 il brano verrà presentato a ’Domenica in’
’Musica’ di Berlusconi debutta a Sanremo
Mariano Apicella all’Adnkronos: ’’Il premier ha scelto il brano più melodico e adatto per l’occasione. La nuova canzone parla, naturalmente, d’amore’’
Roma, 12 feb. (Adnkronos) - ’Musica’. E’ questo il titolo della nuova canzone scritta a quattro mani da Silvio Berlusconi e il cantautore napoletano Mariano Apicella scelta per il debutto del ’premier-compositore’ sul palco dell’Ariston.
Domenica 22, l’artista partenopeo sarà ospite di Monica Setta, nello spazio di ’Domenica In’ dedicato al Festival di Sanremo. In quell’occasione canterà le note del brano voluto dal Cavaliere per l’esordio alla kermesse musicale.
Il presidente del Consiglio ha preferito il testo melodico di ’Musica’ tra una rosa composta da tre new entry, tutte inedite, che faranno parte del nuovo cd in uscita a primavera. ’Se ti perdo’ e ’C’è amore’ sono le altre due canzoni in ballo per Sanremo composta da Berlusconi e il ’posteggiatore’ conosciuto circa sette anni fa all’Hotel Vesuvio di Napoli durante una cena elettorale. Dice all’ADNKRONOS Apicella: ’’Abbiamo scelto ’Musica’, perché è il brano più melodico e adatto per l’occasione. La nuova canzone parla, naturalmente, di musica e amore’’.
13:16 Berlusconi: "Ho giurato sulla Costituzione e la rispetto" *
Le guerre indiane del Cavaliere di CURZIO MALTESE *
COMINCIA molto male il 2009 del governo Berlusconi. Un giorno un veto di Bossi, un altro la lite con Fini. L’immagine regale del premier che comanda tutto e tutti, unto da un consenso oceanico, mostra le prime crepe. Combina poco e quel poco grazie ai voti di fiducia, quasi temesse la propria maggioranza, in teoria solidissima e compatta agli ordini del capo.
L’ultimo voto di fiducia, sul pacchetto anticrisi, ha suscitato la viva protesta del presidente della Camera, uno che negli ultimi tempi ha deciso di concedersi il raro lusso dell’indignazione. Gianfranco Fini l’ha detto chiaro: il governo chiede troppi voti di fiducia perché ha "un problema politico".
Si può aggiungere che è lo stesso problema da quindici anni. Berlusconi costruisce perfette macchine da guerra elettorale che poi si rivelano incapaci di governare. Il primo esperimento fallì dopo pochi mesi per la secessione leghista. Il secondo governò cinque anni, dal 2001 al 2006, senza realizzare una delle tante riforme promesse. Per colpa dei centristi, si giustificò. Il terzo, senza l’alibi Casini, ha già dimostrato d’essere inadatto a fronteggiare la recessione. Se il governo deve ricorrere alla fiducia in Parlamento per far approvare un pacchetto di misure anticrisi ridicolo, confrontato a quelli adottati nel resto dell’Occidente, chissà che cosa succederà quando si dovrà fare sul serio.
È un governo capace di vincere le "guerre indiane", quelle che si combattono con i cannoni contro archi e frecce. Berlusconi e i suoi ministri sono insomma bravi a far crocifiggere dalle televisioni singole categorie di poveri cristi, dalle maestre agli immigrati, dagli impiegati statali agli assistenti di volo, di volta in volta additati come i responsabili delle sciagure economiche.
Già quando si sale verso i piani alti, per esempio dalle elementari alle baronie universitarie, dagli impiegati ai grandi manager pubblici o dalla piccola parrocchia sindacale alla Chiesa, il riformismo e il rigore si stemperano, il moralismo si relativizza. Il pacchetto anticrisi, nella sua mediocrià, sfiorava qualcuna di queste categorie protette, ed era a rischio di agguato parlamentare. Berlusconi, che continua a confondere il Parlamento con Mediaset, prova a imporre la legge del padrone, in attesa e come rodaggio del vagheggiato presidenzialismo. Ma il Parlamento non è un’azienda ed è positivo che almeno uno dei suoi due presidenti lo ricordi.
Ma il problema politico cui allude Fini è molto più grave del dissidio fra Berlusconi e questo o quell’alleato. Oggi come nel ’94 e nel 2001, le componenti della maggioranza difendono interessi diversi e spesso in contrasto. La Lega vuole il federalismo fiscale che An e Forza Italia, partiti sempre più meridionali, possono concedere volentieri a parole, mai nei fatti. L’ultima vicenda dell’Alitalia ne è una prova assai concreta ed evidente. Quando si è trattato di scegliere fra Air France e Lufthansa, in pratica fra Fiumicino e Malpensa, il governo ha scelto Roma contro Milano. Il resto sono chiacchiere. È vero che finora gli elettori leghisti si sono contentati delle chiacchiere e non dei fatti, invero pochini. Ma siccome, da gente pratica, prima o poi se ne accorgeranno, Bossi e i suoi si tengono con un piede nella maggioranza e uno fuori. È già accaduto che la Lega ne uscisse, nel ’94, ottenendo alle elezioni successive il suo più grande successo. Una replica del ribaltone appare oggi improbabile. Fra l’altro, non troverebbe una sponda solida nel rocambolesco accrocco delle opposizioni. Eppure con la crisi alle porte, molte cose possono cambiare in fretta. Esiste poi l’altro conflitto, sia pure meno pericoloso, con la componente di An. Soprattutto con Gianfranco Fini, che si è stufato di fare il delfino a vita. Ha capito che non diventerà mai il successore, quindi si concede finalmente libertà d’azione e di pensiero. Con uscite largamente apprezzabili, dal fascismo agli immigrati, dalla laicità alla difesa delle istituzioni.
In tutto questo, Berlusconi pure difende un interesse non negoziabile, il proprio. L’interesse di Berlusconi è ottenere oggi la riforma della giustizia e domani il presidenzialismo. Una naturale evoluzione: dalle leggi ad personam alle riforme ad personam. Ma non si vede davvero perché gli alleati dovrebbero avere tanta fretta di consegnargli un potere assoluto, quando possono campare benissimo negoziando di volta in volta. Infatti né Bossi né Fini, a quanto s’è capito, fremono d’impazienza. Sullo sfondo di questo complesso teatrino ci sarebbe un paese sull’orlo di una lunga recessione aggravata dal terzo debito pubblico del pianeta. Ma questa naturalmente è l’ultima delle preoccupazioni.
* la Repubblica, 14 gennaio 2009
Il silenzio delle sentinelle
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 22.12.2008)
Dovremmo aver imparato in questi quindici anni che, nonostante l’abitudine alla menzogna, Berlusconi non nasconde mai i suoi appetiti. Il sermone di fine anno ci ricorda che la sua bulimia non conosce argini.
Vuole il presidenzialismo come il compimento della sua biografia personale. Non si accontenta di avere in pugno due poteri su tre. Dopo aver asservito il Parlamento al governo, pretende ora che evapori l’autonomia della magistratura. Dice che la riforma della giustizia è pronta e sarà battezzata al primo Consiglio dei ministri del 2009. Anticipa quel che ci sarà scritto: i pubblici ministeri se le scordino le indagini. Diventeranno lavoro esclusivo delle polizie subalterne al ministro dell’Interno, quindi affar suo che governa in nome del popolo. I pubblici ministeri, ammonisce, diventeranno soltanto «avvocati dell’accusa». Andranno in aula «con il cappello in mano» davanti al giudice a rappresentare come notai, o come burocrati più o meno sapienti, le ragioni del poliziotto. Dunque, del governo. Con un colpo solo, si liquidano l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 della Costituzione, «Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge»); l’indipendenza della magistratura (art. 104, «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere»); l’unicità dell’ordine giudiziario (art. 107, «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni»); l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 ««Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale»); la dipendenza della polizia giudiziaria dal pm (art. 109, «L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria»).
Soltanto un effetto autoinibitorio può impedire di udire, nelle "novità" di Berlusconi, una vibrazione conosciuta e cupissima. Anche a rischio di indispettire il suo alleato decisivo (Bossi), il mago di Arcore rimuove ? per il momento ? il federalismo dalle priorità del 2009 per rilanciare il castigo delle toghe e la nascita della repubblica presidenziale. Sarà un gaffeur o un arrogante, sarà per ingenuità o per superbia, Berlusconi propone la necessità di una riforma costituzionale con le stesse parole ? e per le stesse ragioni ? di Licio Gelli.
Se non lo si ricorda, davvero «le memorie deperiscono e i fatti fluttuano», come ripete nel deserto Franco Cordero. Appena il 4 dicembre il «maestro venerabile» della P2, intervistato da Klaus Davi, ha detto: «Nel mio piano di rinascita prevedevo la creazione di una repubblica presidenziale, perché dà più responsabilità e potere a chi guida il Paese, cosa che nella repubblica parlamentare manca». Berlusconi, 20 dicembre: «Sono convinto che il presidenzialismo sia la formula costituzionale che può portare al migliore risultato per il governo del paese. L’architettura attuale non permette di prendere decisioni tempestive e non dà poteri al premier».
Fa venire freddo alle ossa il farfuglio dell’opposizione di fronte a questo funesto programma da realizzare presto (si annotano soltanto parole che dicono d’altro). E’ un silenzio che lascia temere o lo stato confusionale di opposizioni ormai assuefatte al peggio o un’altra letale tentazione di quella commedia bicamerale che, senza sfiorare il conflitto di interessi, concesse al mago di Arcore l’impero mediatico e, in nome del primato della politica sulla giustizia, la vendetta sulla magistratura. Dio non voglia che, con il prepotente ritorno al proscenio di qualche campione di quel tempo, la stagione si rinnovi. In una giornata di sconcerto, sono così un balsamo le parole di Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione e dello Stato poi fattosi monaco (le ha ricordate ieri Filippo Ceccarelli). Vale la pena tornarci ancora su.
In memoria del suo grande amico Giuseppe Lazzati, e in coincidenza della prima vittoria delle destre, Dossetti pronuncia un discorso famoso. Il titolo lo ricava da un salmo di Isaia (21,11) «Sentinella, quanto resta della notte?». In quei giorni del 1994, egli vede affiorare un male diagnosticato con molti anni di anticipo: la supremazia di una concezione individualistica, in cui il diritto costituzionale regredisce a diritto commerciale (il primato del contratto, l’eclissi del patto di fedeltà); il dissolversi di ogni legame comunitario, mascherato dietro l’appello al "federalismo" (il "politico" diventa pura contrattazione economica); il rifiuto esplicito di una responsabilità collettiva in ordine alla promozione del bene comune (la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole sino alla riduzione al singolo individuo). Non si può sperare, dice Dossetti e parla ai cattolici, che si possa uscire dalla «nostra notte» «rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (la politica familiare, la politica scolastica)».
Dossetti non nega la necessità di cambiamenti. Elenca: riforma della pubblica amministrazione; contrasto alle degenerazioni dello Stato sociale; lotta alla criminalità organizzata; valorizzazione della piccola e media imprenditoria; riforma del bicameralismo; promozione delle autonomie locali. Teme però riforme costituzionali ispirate da uno «spirito di sopraffazione e di rapina». «C’è ? avverte ? una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Questa soglia sarebbe oltrepassata da ogni modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dalla Costituzione. E così va pure ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per l’avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo ancorché fosse realizzato attraverso referendum che potrebbero trasformarsi in forma di plebiscito».
I referendum, segnati da «una forte emotività imperniata su una figura di grande seduttore», possono trasformarsi infatti «da legittimo mezzo di democrazia diretta in un consenso artefatto e irrazionale che appunto dà luogo a una forma non più referendaria ma plebiscitaria». Il "padre costituente" denuncia senza sofismi quel che vede dietro la «trasformazione di una grande casa economico-finanziaria in Signoria politica». Vede la nascita, «attraverso la manipolazione mediatica dell’opinione», di «un principato più o meno illuminato, con coreografia medicea». Dossetti chiede allora ai cristiani di «riconoscere la notte per notte» e di opporre «un rifiuto cristiano» ritenendo che «non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
Nessuna trattativa. Per trovare queste parole che aiutano a sperare ancora in una via diurna, si deve ricordare Dossetti. Dove sono le "sentinelle" a cui si può chiedere oggi: «Quanto resta della notte»?
La dittatura mediatica
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 23.12.2008)
È sintomatico che, nelle reazioni polemiche alla boutade di Silvio Berlusconi sul presidenzialismo, in pochi abbiano sentito finora la decenza di ricordare il macroscopico conflitto di interessi che grava tuttora su di lui, capo del governo e capo di un’azienda che funziona in regime di concessione pubblica.
E dunque, controparte di se stesso, in quanto locatore e nello stesso tempo conduttore delle frequenze televisive che appartengono allo Stato. Quasi che una tale anomalia fosse stata rimossa dalla memoria collettiva, abrogata dall’opinione pubblica, cancellata dalla consapevolezza nazionale.
A parte le pudiche allusioni di Walter Veltroni che ieri s’è dichiarato contrario al presidenzialismo «nelle condizioni date e con le distorsioni già esistenti», è mancata o comunque è stata carente nelle file dell’opposizione una replica netta e precisa su questo punto. Sarà che ormai il Paese ha metabolizzato il problema; sarà che oggi, con Berlusconi per la quarta volta al governo in quindici anni, la questione appare praticamente insanabile; oppure sarà per la cattiva coscienza che perseguita ancora il centrosinistra per non essere riuscito a risolverla quando era in maggioranza. Fatto sta che, fra tutte le motivazioni a favore o contro il presidenzialismo, questo argomento è rimasto nell’ombra, virtualmente accantonato, come se fosse stato messo in archivio o nel congelatore.
Si dirà: ma tanto ormai Berlusconi fa il presidente del Consiglio, che differenza c’è se diventa presidente della Repubblica? D’accordo. È già uno scandalo gravissimo che il conflitto di interessi in capo al premier non sia stato risolto finora, nonostante le promesse e gli impegni assunti pubblicamente. E anzi, non sarebbe mai troppo tardi per rimuovere la trave, tanto più quando si va a guardare la pagliuzza nell’occhio altrui, come nel caso di Renato Soru, governatore dimissionario della Sardegna.
Ma un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, e per di più con poteri esecutivi, proprietario di tre network privati, titolare di una concentrazione televisiva e pubblicitaria senza uguali al mondo, né in quello civile né in quello incivile, riunirebbe nelle proprie mani troppi poteri per risultare compatibile con un livello minimo di legittimità e autorità democratica. La sua sarebbe, a tutti gli effetti, una dittatura mediatica. E allora il capo dello Stato rischierebbe di non rappresentare più l’unità nazionale, il garante supremo della vita politica, la "guida della Nazione".
Sappiamo bene che al di qua o al di là dell’Atlantico, dall’America alla Francia, esistono regimi presidenziali dotati di pesi e contrappesi, con tutti i crismi della democrazia. In nessuno di questi Paesi, però, un tycoon televisivo è mai diventato premier e meno che mai potrebbe diventare capo dello Stato. Il "modello Berlusconi" è un inedito assoluto, universale, planetario. Un "unicum" non replicato e non replicabile.
Ma la verità è che a questo punto il danno è stato già fatto, i buoi sono scappati dalla stalla e perciò sarebbe inutile chiuderla adesso. Nell’Italia berlusconiana, il regime presidenziale ha un rapporto simbiotico con la dittatura mediatica: nel senso che l’uno è funzionale all’altra e viceversa. Dopo aver imposto dalla metà degli anni Ottanta l’egemonia della sua cultura o incultura televisiva, su cui poi ha costruito la leadership politica che gli ha assicurato la maggioranza e il governo del Paese, ora Berlusconi vuole tentare l’ultimo colpo, l’assalto finale al Colle, il salto nell’empireo dei "padri della Patria". E in linea con la sua natura predatoria e populistica, non cerca soltanto un’elezione, tantomeno tra i banchi del Parlamento; ma piuttosto un referendum o meglio un plebiscito, nelle strade, nelle piazze, nei gazebo. Se potesse, anzi, gli basterebbe certamente un sondaggio d’opinione o magari un televoto.
A quasi dieci anni di distanza, dunque, vale ancora l’ammonimento che il senatore a vita Gianni Agnelli consegnò al nostro direttore in un’intervista apparsa su Repubblica il giorno dell’elezione di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. Alla domanda se non pensasse che quella sarebbe stata l’ultima votazione parlamentare del Capo dello Stato, l’Avvocato rispose: «Francamente, penso che sarebbe un errore. Vedo troppi rischi in un’elezione diretta del presidente della Repubblica, senza il filtro delle Camere per un ruolo così delicato e di garanzia. Con le televisioni, tutto diventa troppo semplice, esagerato, con pericoli di populismo. Meglio di no». Ecco, troppo semplice, esagerato: proprio così.
Berlusconi: piano segreto per il G8. I miracoli di San Silvio
http://www.sueddeutsche.de/politik/577/453270/text/
Vino, donne e canti: scoperto un incartamento segreto: rivela come Silvio Berlusconi vuole mettere in riga il G8 nel 2009. Il clou: il Capo del governo italiano canta in prima persona.
Un’attenta considerazione di Hans-Jürgen Jakobs per Süddeutsche Zeitung.
(traduzione dal tedesco di José F. Padova)
Talvolta i reporter di avanscoperta hanno semplicemente pura fortuna. Come poco tempo fa nella capitale italiana, Roma, quando, sulla panca d’angolo di un locale nel quartiere di Trastevere, a un giovane giornalista balzò agli occhi una bozza rilegata in una copertina lilla, sulla quale era impresso il titolo: “Amore mio G8 - Forza Europa”. Vi era stata lasciata per sbaglio.
Una piccola premessa rendeva chiaro che all’interno del grande partito italiano di governo “Popolo della Libertà” una task force aveva messo assieme idee di base per il nuovo anno 2009. Evidentemente questo gruppo poco prima aveva tenuto una riunione in quel ristorante romano. Ciò che spiccava particolarmente in quelle carte era una lunga enunciazione del capo del partito e del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi, anni 72..
Qualcosa si era già sentito o letto da lui in questa o in analoga forma, ma qualcos’altro è nuovo e corrisponde a una più alta forma di verità.
La dichiarazione comincia (“Cari amici della Libertà, cari compagni di lotta”) con una descrizione dello status quo: “Il 2009 deve diventare l’anno dell’Italia, il nostro anno, il mio anno. Poiché la nostra Nazione assume la direzione della più importante associazione del mondo, il G8, abbiamo la chance di uscire ogni settimana sui più grandi telegiornali del mondo. Perciò non dobbiamo limitarci ai pochi incontri del G8, ma offrire sempre nuove proposte e iniziative. Così ho deciso per esempio di dare una regolata a Internet e liberarlo dalla pornografia infantile e simili. Abbiamo bisogno di più riforme di questo calibro”.
Per favore non troppo seri
Ma tutto non deve succedere troppo seriamente, spiega Berlusconi, “iniezioni di serietà” già ce ne sono abbastanza. Quindi: “Ridere è la medicina migliore. Se si dà il caso giova una mia battuta sciolta, come l’ho detta settimane fa sul mio futuro amico del G8 Barack Obama, che è giovane, di bell’aspetto e perfino abbronzato. Queste spiritosaggini funzionano sempre sui media. Chi ride non ha nemici”. Per quanto riguarda l’anno del G8 sotto l’egida italica, la gente deve sempre chiedersi: “Dove comincia la festa? Quando arriva Silvio?”.
Scrive Berlusconi, continuando, di non temere di portare con il massimo impegno la propria persona sotto i riflettori dei media internazionali: “Io attiro su di me le frecciate, come Gesù Cristo sulla croce ha sofferto i chiodi”. E infine di aver ricoperto la presidenza del G8 già nel 1994 e nel 2001 (“un record assoluto, perché Kohl e Mitterrand sono stati preidenti soltanto due volte”). Con i molti viaggi nei Paesi del G8, ma anche in Stati importanti come la Cina, l’India, il Brasile, il Messico o il Sudafrica, che dovrebbero essere legati più strettamente al G8, potrebbe essere annunciato il primato: “Viaggio, quindi sono”, cita l’Autore, per una volta scherzando.
E Berlusconi continua affermando di sapere anche molto bene come i propri elementi personali possono diventare politica: “Per anni ho costruito amicizie di grande valore, con piacere, anche nella mia villa sulla Costa Smeralda in Sardegna. Queste hanno enormemente rafforzato il rapporto dell’Italia con un Tony Blair o con un Vladimir Putin. La mia casa è aperta a tutti! San Silvio può compiere ancora molti miracoli!”.
Meglio una canzone
In una lunga nota a piè di pagina l’autore Berlusconi cita ancora alcuni dei suoi “aforismi”, che presumibilmente appartenevano alle più citate espressioni di saggezza dei politici su piano mondiale. In seguito descrive in un lungo capoverso da che cosa dipende, secondo lui, l’anno “italiano” del G8: “La cosa più importante è: l’atmosfera, l’atmosfera e ancora una volta l’atmosfera. Un clima di colloqui carino, con divertimento e animazione, spiana le crisi diplomatiche più pesanti. Perciò ho dato disposizioni che al nostro incontro per il G8 all’inizio di luglio sul piccolo arcipelago de La Maddalena al nord della Sardegna accadano allegri giochi di parole sciolte”.
Egli stesso progetterebbe, si dice in una parte contrassegnata come “strettamente confidenziale”, di presentarsi là come cantante. “Come tutto il mondo sa, già in gioventù ho fatto molta esperienza nell’arte musicale vocale come artista sulle navi da crociera. Sì, ho anche venduto aspirapolvere, ma molto meglio ho cantato. Stavolta con precisione e tempestività vogliamo far uscire un nuovo CD, nel quale per la prima volta io stesso canterò una delle mie canzoni. Le altre saranno messe in scena come al solito dal mio amico Mariano Apicella di Napoli. Il successo dovrebbe essere più grande di quello della nostra prima opera Meglio una canzone. Nel gruppo di lavoro dovremo trattare in tempo chi dei colleghi del G8 potrebbe essere più adatto, allo show de La Maddalena, per [partecipare] al meglio a quale delle canzoni da cantare assieme. È già venuta fuori l’idea che io insieme a Angela Merkel e a Barack Obama potremmo cantare un facile canto popolare tedesco, si chiama “Marrone scuro è la nocciola” o qualcosa del genere. Ma per questo si devono fare ricerche più precise”.
Decantate le belle donne
Molte pagine delle carte “Amore” si riferiscono alle diverse culture degli Stati del G8, Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Giappone, Canada, Russia e Germania. “Ma c’è una cosa uguale in tutti i Paesi: l’amore per le belle donne. Dobbiamo approfittarne”, si dice nell’incartamento. “Già con il mio amico Putin ho discusso pubblicamente con grande successo che Paese ha le donne più attraenti. Perciò propongo uno show dei Paesi del G8 con elementi per una elezione di miss, alla televisione”.
Berlusconi indica pure tre grandi potenziali emittenti: Canale 5, Rete 4 e Italia 1. “Poiché tutte mi appartengono, per una realizzazione del programma non dovrebbe esserci problema. Con le elezioni delle Miss abbiamo già avuto successo. Inoltre sulla dirigenza della televisione di Stato Rai io ho notoriamente influenza e lì posso dare una spinta ai temi importanti del G8”. In ogni caso a La Maddalena devono presentarsi le ballerine, alcune potrebbero anche essere danzatrici del ventre, che “il mio amico Putin ha fatto danzare per me a San Pietroburgo”.
Fortemente sottolineato nel dossier “Amore Mio” è un capitolo sul significato dell’Italia come meta di turismo. “Qui ci sono i nostri classici vantaggi, per cui dobbiamo sempre fare conferenze specializzate in diverse belle città del nostro amato Paese. Mi riprometto molto dall’incontro dei ministri dell’Ambiente del G8 a Napoli, che ancora fino a poco tempo fa affondava nella spazzatura e che io ho ripulito. A tempo debito prima del termine dovremo chiedere in Francia come Sarkozy ha fatto con le idropulitrici nelle sue banlieue e se possiamo imparare anche noi”. Si deve anche trattare con sistemi idraulici il “mare, purtroppo ancora fortemente imbrattato” davanti alla costa di Amalfi, per fare sparire pezzi d’immondizia visibili, come “bottiglie di plastica, sacchetti, pezzi di gomme e simili, così posso offrire agli ospiti dal mio yacht un quadro entusiasmante dell’Italia”.
Infine nel documento si prende in esame il calcio. “Non è strategicamente utile che presto David Beckham giochi nel mio club AC Milan?”, chiede Berlusconi con enfasi. “Si adatta meravigliosamente a tutti gli altri giocatori che provengono dagli Stati del G8 e da altri importanti Paesi. È un vero e proprio All-Star-Team, qualcosa come una volta gli Harlem Globetrotter nel basket - una squadra del genere dovrebbe andare in turné”. Nel concreto Berlusconi propone incontri di punta con club come FC Chelsea, Zenit San Pietroburgo, Olympique Lyon o Bayern München, dei Paesi G8. Sulle tribune egli siederebbe quindi accanto ai capi di Stato di turno e verrebbe ripreso dalle telecamere TV.
In un punto Berlusconi richiama come una “carenza” il fatto che purtroppo ci sarebbero troppo poche apparizioni in scena con il papa Benedetto XVI. Il Vaticano all’inizio dell’anno si è sciolto perfino dalla legislazione italiana, “perché noi presumibilmente emaniamo troppe leggi che spesso anche differiscono con i principi fondamentali della Chiesa”, si arrabbia Berlusconi, “in questo poi sono cresciuto nel grembo della Chiesa, amo l’Opus Dei e ho ridotto strettamente le leggi a quelle che mi servono”. Forse sarebbe meglio avere un Papa che venga dall’Italia e non dalla Germania, nota l’Autore: “Ma fa lo stesso, lui deve venire con me davanti alle telecamere”.
Verso la fine scrive esattamente Berlusconi che per le interviste da seduto deve essere come sempre posta la massima attenzione perché una pila di libri sia infilata sotto il cuscino e siano sempre stabiliti gli appuntamenti per il controllo della capigliatura: “Soltanto in casi eccezionali uomini con la pelata passano per sexy. Per questo non voglio che capiti. Tutti mi vogliono completo di pelle e capelli”.
Nell’incartamento segreto sulla direzione italiana del G8 c’è anche un piccolo allegato sotto il titolo “Rischi”. Vi si dice che la strategia “Amore Mio” la spunterà con il cento per cento di probabilità “se si lascia perdere l’Italia e ci si mette nel sistema Berlusconi”. Potrebbe però succedere che ci sia gelosia, che il record berlusconiano del G8 sia osteggiato e si giunga a problemi di “Ego”. Inoltre non vi è chiarezza su come si dovrebbe valutare Barack Obama: “Con George W. Bush, il mio amico maschio, sapevamo a che punto ci trovavamo. Lui parla la mia lingua. Ma che succede col successore? Che cosa, se lui si trova costretto a doversi mettere in luce intellettualmente?”.
Il problema più grande però lo pone sicuramente Nicolas Sarkozy il Francese, si può leggere nelle carte. “L’uomo dell’Eliseo ci ha e mi ha già tolto lo show alla riunione del Mediterraneo, lui vuole anche risolvere la crisi à la française. Soprattutto non si può disconoscere che fa una buona figura sui media e con il suo outfit da jogging passa semplicemente per un giovane. A lui dobbiamo opporre il fattore esperienza”.
Ma uno svantaggio serio rimane, si lagna Berlusconi per ultimo: “È Carla Bruni. Nel programma per le signore del G8 lei sorpasserà chiaramente tutte le altre. Sarkozy ha semplicemente la donna più bella”. Il capo del governo del romano Palazzo Chigi fornisce anche allo stesso tempo l’idea salvifica: “Non potremmo far risaltare con più forza sui nostri media che la Signora ha origini italiane?”.