Data: 08-07-2008
Descrizione:
Messaggio del Presidente Napolitano nel trentennale dell’elezione di Sandro Pertini a Presidente della Repubblica
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel trentennale dell’elezione di Sandro Pertini a Presidente della Repubblica, ha inviato al Presidente dell’Associazione “Sandro Pertini”, dott.ssa Elisabetta Favetta, il seguente messaggio: "Per chi, come me, gli e’ stato vicino in Parlamento e ha potuto cogliere la grande tensione morale e la passione civile con la quale egli interpretava il suo impegno - politico e nelle istituzioni - al servizio del paese, Sandro Pertini ha incarnato l’idea stessa della libertà come inseparabile dalla visione del socialismo in cui si riconosceva. Quella idea fu da lui strenuamente custodita e difesa nella stagione della dittatura e negli anni del carcere e dell’esilio.
Protagonista della lotta di liberazione, Pertini accompagnò la nascita e lo sviluppo della Repubblica dai banchi dell’Assemblea Costituente e della Camera dei Deputati, di cui fu Presidente rigoroso e imparziale, considerandola sempre la sede primaria delle scelte fondamentali per la vita della Nazione.
A questo profondo, assoluto rispetto per il Parlamento e la sovranità popolare che in esso si esprime egli volle informare con grande rigore il proprio mandato presidenziale, assolto in anni inquieti e drammatici della storia repubblicana, quando contro l’attacco terroristico allo Stato, scandito da una lunga scia di eventi luttuosi, egli seppe mobilitare la ferma risposta della coscienza civile e delle istituzioni.
A diciotto anni dalla scomparsa, l’eredità di Sandro Pertini mantiene intatta la sua forza e la sua attualità, soprattutto nell’imprescindibile legame fra politica, giustizia sociale e valori etici che ha nobilitato il suo alto magistero e che costituisce, ancora oggi, un essenziale riferimento."
Roma, 8 luglio 2008
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La dittatura mediatica
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 23.12.2008)
È sintomatico che, nelle reazioni polemiche alla boutade di Silvio Berlusconi sul presidenzialismo, in pochi abbiano sentito finora la decenza di ricordare il macroscopico conflitto di interessi che grava tuttora su di lui, capo del governo e capo di un’azienda che funziona in regime di concessione pubblica.
E dunque, controparte di se stesso, in quanto locatore e nello stesso tempo conduttore delle frequenze televisive che appartengono allo Stato. Quasi che una tale anomalia fosse stata rimossa dalla memoria collettiva, abrogata dall’opinione pubblica, cancellata dalla consapevolezza nazionale.
A parte le pudiche allusioni di Walter Veltroni che ieri s’è dichiarato contrario al presidenzialismo «nelle condizioni date e con le distorsioni già esistenti», è mancata o comunque è stata carente nelle file dell’opposizione una replica netta e precisa su questo punto. Sarà che ormai il Paese ha metabolizzato il problema; sarà che oggi, con Berlusconi per la quarta volta al governo in quindici anni, la questione appare praticamente insanabile; oppure sarà per la cattiva coscienza che perseguita ancora il centrosinistra per non essere riuscito a risolverla quando era in maggioranza. Fatto sta che, fra tutte le motivazioni a favore o contro il presidenzialismo, questo argomento è rimasto nell’ombra, virtualmente accantonato, come se fosse stato messo in archivio o nel congelatore.
Si dirà: ma tanto ormai Berlusconi fa il presidente del Consiglio, che differenza c’è se diventa presidente della Repubblica? D’accordo. È già uno scandalo gravissimo che il conflitto di interessi in capo al premier non sia stato risolto finora, nonostante le promesse e gli impegni assunti pubblicamente. E anzi, non sarebbe mai troppo tardi per rimuovere la trave, tanto più quando si va a guardare la pagliuzza nell’occhio altrui, come nel caso di Renato Soru, governatore dimissionario della Sardegna.
Ma un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo, e per di più con poteri esecutivi, proprietario di tre network privati, titolare di una concentrazione televisiva e pubblicitaria senza uguali al mondo, né in quello civile né in quello incivile, riunirebbe nelle proprie mani troppi poteri per risultare compatibile con un livello minimo di legittimità e autorità democratica. La sua sarebbe, a tutti gli effetti, una dittatura mediatica. E allora il capo dello Stato rischierebbe di non rappresentare più l’unità nazionale, il garante supremo della vita politica, la "guida della Nazione".
Sappiamo bene che al di qua o al di là dell’Atlantico, dall’America alla Francia, esistono regimi presidenziali dotati di pesi e contrappesi, con tutti i crismi della democrazia. In nessuno di questi Paesi, però, un tycoon televisivo è mai diventato premier e meno che mai potrebbe diventare capo dello Stato. Il "modello Berlusconi" è un inedito assoluto, universale, planetario. Un "unicum" non replicato e non replicabile.
Ma la verità è che a questo punto il danno è stato già fatto, i buoi sono scappati dalla stalla e perciò sarebbe inutile chiuderla adesso. Nell’Italia berlusconiana, il regime presidenziale ha un rapporto simbiotico con la dittatura mediatica: nel senso che l’uno è funzionale all’altra e viceversa. Dopo aver imposto dalla metà degli anni Ottanta l’egemonia della sua cultura o incultura televisiva, su cui poi ha costruito la leadership politica che gli ha assicurato la maggioranza e il governo del Paese, ora Berlusconi vuole tentare l’ultimo colpo, l’assalto finale al Colle, il salto nell’empireo dei "padri della Patria". E in linea con la sua natura predatoria e populistica, non cerca soltanto un’elezione, tantomeno tra i banchi del Parlamento; ma piuttosto un referendum o meglio un plebiscito, nelle strade, nelle piazze, nei gazebo. Se potesse, anzi, gli basterebbe certamente un sondaggio d’opinione o magari un televoto.
A quasi dieci anni di distanza, dunque, vale ancora l’ammonimento che il senatore a vita Gianni Agnelli consegnò al nostro direttore in un’intervista apparsa su Repubblica il giorno dell’elezione di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. Alla domanda se non pensasse che quella sarebbe stata l’ultima votazione parlamentare del Capo dello Stato, l’Avvocato rispose: «Francamente, penso che sarebbe un errore. Vedo troppi rischi in un’elezione diretta del presidente della Repubblica, senza il filtro delle Camere per un ruolo così delicato e di garanzia. Con le televisioni, tutto diventa troppo semplice, esagerato, con pericoli di populismo. Meglio di no». Ecco, troppo semplice, esagerato: proprio così.
Questione immorale
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 19/12/2008)
La questione morale esplose nel momento in cui si pose una questione politica enorme, scriveva ieri Emanuele Macaluso sulla Stampa. Parlava della crisi del Psi di Craxi e dell’implosione che ne è seguita per l’intero sistema partitico della Prima repubblica. E proiettava la stessa sindrome e la stessa diagnosi sul Pd di Veltroni oggi. Un’analisi acuta.
Ma forse i conti non tornano del tutto. Macaluso segue puntualmente la paralisi partitica interna di un Pd che non sa decidere nulla sulle grandi questioni (Europa e Pse, giustizia, bioetica, alleanza con Di Pietro e - aggiungo - l’ambivalenza verso la Lega). Ma dimentica che il contesto in cui tutto ciò avviene non è paragonabile a quello in cui si consumò l’ultimo craxismo e il tracollo del sistema partitico della Prima Repubblica. Oggi ci sono il berlusconismo vincente e un disorientamento depressivo della società civile che creano un contesto inconfrontabile con quegli anni.
Cominciamo dalla giustizia. È di moda prendere le distanze con toni di sufficienza dalla stagione di Mani pulite, ma si dimentica che - con tutti i suoi errori - fu un soprassalto di emozione collettiva, cui nessuno si sottrasse. Oggi la sfiducia verso la magistratura è diventata endemica. L’accusa di una giustizia politicizzata da arma di parte è diventata un sospetto sistematico. Questo è il regalo avvelenato del berlusconismo agli italiani sia che lo votino o no. Il nuovo attivismo della giustizia non ha l’effetto liberatorio di anni fa. E non è questione di colore politico. Il risultato è che quando tutte le parti partitiche parlano a turno di «riforma della giustizia» nessuno ci crede. Anzi si cerca il trucco.
Questo non vuol dire che i cittadini non reagiscano più alle denunce di corruzione o di cattiva amministrazione. Ma la loro reazione non si trasforma in plusvalore politico come fu negli Anni Novanta. Dà luogo ad astensionismo di protesta o al fenomeno Di Pietro, che non pare abbia le caratteristiche di un’autentica forza politica innovatrice. Da questo punto di vista, Berlusconi ha vinto la sua battaglia contro la giustizia. Deve solo formalizzarla, con l’aiuto tecnico dei suoi zelanti sostenitori.
Passiamo alla grande politica estera. La crisi degli Anni Novanta fu determinata dall’incapacità di reagire al radicale mutamento geopolitico internazionale ed europeo del dopo 1989. L’implosione politica all’interno era insieme il segno e la causa di questa incapacità. Nel giro di pochi anni il peso dell’Italia è drammaticamente diminuito in Europa e nel mondo. Per un certo tempo una parte del ceto diplomatico italiano ha parlato e ha scritto con toni preoccupati di «declassamento» dell’Italia. Con il berlusconismo vincente è proibito parlarne. Il corpo diplomatico si è allineato, confondendo la politica estera con i buoni rapporti economici italiani con il resto del mondo, finché durano.
Ma si può negare che da qualche tempo l’Italia riesca a «fare bella figura»? In effetti si è prodotta una singolare situazione. A suo agio nelle grandi rappresentazioni mediatiche internazionali ed europee, cui si è ridotta la grande politica, Berlusconi ha sempre modo di farsi notare con posizioni magari stravaganti nella forma, tuttavia mai dirompenti nella sostanza. L’ha capito Nicolas Sarkozy che lo conosce bene (per qualche inconfessata affinità elettiva?) quando dice: «Berlusconi inizialmente dice sempre di no, ma poi si adegua». Naturalmente ci si può chiedere se e come le «figure» berlusconiane servano davvero alla politica estera italiana, altrimenti affidata all’onesto lavoro di routine di Franco Frattini. Sì, servono sinché l’economia tiene e reggono le reti di collegamento con l’economia mondiale. Ma proprio su di esse è scesa la mazzata della grande recessione.
Il governo italiano sta reagendo in modo cauto e modesto, sottodimensionato, nascondendosi dietro la grinta intimidente di Giulio Tremonti, l’altra faccia del berlusconismo. Ma la gente ormai è rassegnata. Non si aspetta nulla di più. Accetta tutto passivamente. Questa è la vera catastrofe politica per il Pd all’opposizione. Siamo così tornati al tema da cui siamo partiti. Mentre negli Anni Novanta, dopo la crisi del sistema partitico, il centrosinistra sembrava poter offrire (con Romano Prodi) un’alternativa al primo berlusconismo, oggi non è più così. Ma il problema cruciale è la mancanza di linea e di energia politica, in un contesto mutato, non la questione morale in sé. O se vogliamo, la questione morale è soltanto un sintomo dell’impotenza politica.