E’ morto Giulio Andreotti
Giulio Andreotti è morto oggi alle 12 e 25 nella sua abitazione romana. Lo hanno reso noto i suoi familiari
ANSA, 06 maggio 2013, 13:34
http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/speciali/2013/05/06/MORTO-GIULIO-ANDREOTTI_8659655.html
Giulio Andreotti, il direttore d’orchestra di mezzo secolo di politica italiana
di Marie-Claude Decamps
in “Le Monde” dell’8 maggio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
I devoti contadini della sua Ciocaria, vicino a Roma, lo chiamavano “San Giulio” , vedendolo andare ogni mattina a messa. Giulio Andreotti, personaggio dell’ex Democrazia Cristiana, senatore a vita dal 1991, che fu per sette volte presidente del consiglio tra il 1972 e il 1992, e più di venti volte ministro, è morto lunedì 6 maggio a Roma, all’età di 94 anni.
I suoi avversari, che lo accusavano di aver consolidato la “grande pace democristiana”, all’indomani della seconda guerra mondiale, su acrobatici compromessi con tutti i poteri, tra cui quello della mafia, lo soprannominavano “Belzebù”.
Ma nessuno, nemmeno la giustizia, che lo assolverà nel 2003, dopo averlo condannato l’anno prima a ventiquattro anni di prigione per essere stato il mandante dell’assassinio da parte di uomini della mafia, nel 1979, di un giornalista “che dava fastidio”, Mino Pecorelli, è mai riuscito a penetrare davvero il mistero di Giulio Andreotti.
Nato il 14 gennaio 1919, l’ “inossidabile” , un altro dei suoi soprannomi, era amico di papi e cardinali, ma aveva anche frequentato, in certe occasioni, personaggi “sulfurei” come Michele Sindona, il “banchiere di Dio”, morto per aver bevuto un caffè al cianuro, o come Licio Gelli, gran maestro della loggia massonica segreta P2, o ancora come Roberto Calvi, il banchiere ritrovato impiccato sotto un ponte a Londra nel 1982. Con la scomparsa di Andreotti, che ha incarnato mezzo secolo di politica italiana, così segreto che diceva lui stesso, con la sua gelida ironia: “Se si vuole mantenere un segreto, non bisogna dirlo a nessuno, nemmeno a se stessi”, si volta una delle pagine più tormentate della storia d’Italia.
Il suo aspetto ingobbito e il suo sguardo impassibile favorivano le mille caricature da vampiro del potere, volteggiante nei corridoi della defunta prima repubblica italiana. Ma Andreotti, che fino alla fine ha occupato la funzione onorifica di senatore a vita di una repubblica che aveva contribuito a fondare, essendo stato già a 27 anni deputato dell’Assemblea Costituente, non se ne preoccupava. “In Italia, ironizzava, “mi ritengono responsabile di tutto, eccetto che delle guerre puniche!”.
Sia in occasione del rapimento e dell’assassinio del capo (dell’ala progressista) della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, da parte delle Brigate Rosse nel 1978, o della presa in ostaggio di 450 passeggeri dell’ Achille Lauro nel Mediterraneo nel 1985 da parte del palestinese Abu Abbas, che giustiziò un americano, l’atteggiamento del senatore è stato molto discusso. Ma ogni volta non ha perso nulla del suo potere, quel potere che “logora solo chi non ce l’ha”, secondo la sua formula più celebre, ribattendo gli attacchi con uno humor sconcertante.
Lo si punzecchiava per la sua ambizione? “Sono consapevole di essere di statura media, ma non vedo giganti attorno a me”. Per i suoi rapporti pericolosi con personaggi di dubbia reputazione? “Nessuno è al riparo da certe frequentazioni. Perfino Gesù Cristo, tra i dodici, aveva Giuda”.
Il potere gli va incontro tramite la Chiesa. Già nella sua infanzia di orfano (perde il padre a 2 anni), il bravo bambino allevato dalla madre Rosa è affascinato dagli splendori del Vaticano. Un giorno del 1938, quando, dopo aver pensato ad un futuro in medicina, questo ex studente della Gioventù di Azione cattolica, sceglie la diplomazia, si reca alla biblioteca del Vaticano. Chiede di consultare un’opera sulla flotta pontificia. “Non ha niente di meglio da fare?”, borbotta il bibliotecario, che non è altri che Alcide De Gasperi, futuro fondatore della Democrazia Cristiana, nel 1943, ma per il momento inseguito dai fascisti e “messo al riparo” tra i vecchi libri.
L’incontro sarà decisivo: Giulio Andreotti diventa il pupillo di De Gasperi, con cui collabora al giornale “Il Popolo”, edito clandestinamente e che diventerà più tardi l’organo della Democrazia Cristiana. “È un giovane capace, così capace che lo credo capace di tutto”, dirà presto il maestro davanti all’ascesa del suo protetto. Il partito, l’enorme “balena bianca” spiaggiata al centro dello scacchiere politico italiano, che ingoia tutto e il suo contrario, compresa la sua opposizione interna, gli si adatta come un guanto: diritto al centro-centro. Pur mantenendo simbolicamente un piede all’esterno ( “Non ho mai voluto essere segretario di partito” ), ne incarnerà gli slanci e i misteri, cementati da quel bisogno di compromesso che, basato all’origine su una santa alleanza anticomunista, finirà, man mano che cadranno gli alibi ideologici, per spingere la politica italiana sulla via degli scandali e del clientelismo.
Comincia una carriera interminabile: sette anni sottosegretario alla presidenza del consiglio, sotto De Gasperi nel 1952; per quindici giorni ministro dell’interno di un effimero governo Fanfani nell’inverno 1954; ministro del tesoro nel 1958; per tre volte di seguito ministro della difesa tra il 1960 e il 1964; ministro dell’industria nel 1966; poi degli esteri... I ministeri si accumulano, e presto i governi. Formerà il suo primo gabinetto nel 1972, il suo settimo ed ultimo nel 1991. Un’impresa per quest’uomo falsamente fragile, a cui i medici, durante una visita di coscrizione, predissero “solo sei mesi di vita”.
La base dei suoi successi? Una strettissima rete di relazioni, il cui anello centrale sarà il Vaticano. Un tempo presidente della Federazione degli Universitari cattolici (FUCI), sarà amico di sei papi, soprattutto di Pio XII, poi di Giovanni Paolo II. Con le sue entrature al tribunale ecclesiastico della Santa Rota e i suoi contatti in tutte le nunziature.
Per compensare, questo consumato artista del “compromesso”, frequenterà tutto ciò che conta nella sinistra comunista “benpensante”. Una rete di relazioni sviluppata anche all’estero, che lo avvicina a Henry Kissinger, ai Rockefeller o a George Bush. Da burattinaio preciso ed efficiente, domina le crisi ministeriali e instaura degli equilibri da funambolo ai limiti del possibile. Lui, l’uomo degli americani, incontra anche Gheddafi, Arafat e la maggior parte dei leader arabi. Così come, dopo aver costituito sbarramento ai comunisti che scalpitavano nell’anticamera del potere, diventerà nel 1978 capo del primo governo sostenuto dalla “non sfiducia” del PCI di Enrico Berlinguer.
Nel frattempo, si è costituita un’altra rete di relazioni, adatta al gusto del segreto di Giulio Andreotti: sono i legami tessuti in Sicilia, alla fine degli anni 60, con personaggi come Salvo Lima, futuro deputato europeo e “proconsole” andreottiano sull’isola, ma anche, dicono i pentiti di mafia, cinghia di trasmissione tra la DC e Cosa Nostra... Così, con la Sicilia “serbatoio di voti”, Giulio Andreotti diventa arbitro del potere in seno al suo partito, cioè padrone dell’Italia.
Eppure, alle elezioni del 1992, la Democrazia Cristiana vacilla. Il cemento anticomunista ha fatto il suo tempo, e, sotto i colpi violenti sia della Lega Nord, il primo partito guastafeste della “pace democristiana”, sia dei giudici anticorruzione dell’inchiesta “Mani pulite”, la prima repubblica crolla. Giulio Andreotti ripiega sul posto di senatore a vita offertogli dall’amico Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica. Ma tutto è cambiato: già in primavera, l’assassinio di Salvo Lima segna il declino. Ed è ancora dalla Sicilia che arrivano altri colpi: una decina di pentiti di mafia accusano Andreotti di essere in combutta con la mafia. La giustizia accetta le accuse. Per la prima volta, l’ “inossidabile” sarà oggetto di un processo.
Quindi sono le pagine più cupe della storia d’Italia che si illuminano di una luce inquietante, come l’assassinio del generale Dalla Chiesa, assassinato a Palermo nel settembre 1982. Una Palermo dove sarebbe stato mandato per ucciderlo più comodamente, questo specialista della lotta antiterrorismo, che aveva avuto il torto di trovare alcuni diari segreti scritti da Aldo Moro nel periodo della sua prigionia nella mani delle Brigate Rosse. Diari molto compromettenti, si pensa, per l’alto personaggio dello Stato che era allora Giulio Andreotti. Lo stesso che sostenne il rifiuto di negoziare con le Brigate Rosse per salvare Aldo Moro. Per la stessa ragione, il giornalista Pecorelli, che stava per pubblicare dei brani di quei diari, sarebbe stato assassinato a Roma nel marzo 1979, e il senatore a vita è ritenuto “l’istigatore del reato”. Condannato a ventiquattro anni di prigione nel 2002, viene prosciolto l’anno successivo.
Impassibile, l’ “inossidabile” , a cui la madre ha insegnato a non andare in collera “per non dare un’ulteriore soddisfazione a chi ti ha fatto soffrire”, dice allora di avere un solo rimpianto. La morte di Moro? La deriva della DC? Il suo processo? “No, dice, stupito, è di aver dovuto firmare, io cattolico, la legge sull’aborto nel 1978”, per evitare una crisi di governo. Giulio Andreotti diventerà quasi una star televisiva, portando il suo eterno sorriso in trasmissioni in cui offre i suoi oracoli politici e in cui mette un po’ di pepe con le sue battute.
Nella primavera del 2008, le elezioni riportano la destra al potere, Roma vive una psicosi di mancanza di sicurezza. Che cosa ne pensa Andreotti? “La mancanza di sicurezza a Roma? Niente di nuovo. Guardi, all’inizio, erano solo in due, Romolo e Remo. Beh, uno è riuscito a trovare il modo di uccidere l’altro...”
Infine, ultima e stridente consacrazione, alcuni mesi dopo, un film polemico, “Il Divo” , dedicato da Paolo Sorrentino alla leggenda nera di colui che per così tanto tempo è stato il direttore d’orchestra della politica italiana, ottiene il premio della giuria al Festival di Cannes. Furioso, l’eroe suo malgrado se ne lamenta ( “È volgare, cattivo, diabolico!” ), poi non resiste ad un’ultima battuta davanti al successo del film: “Sono contento per il produttore. Se avessi una partecipazione agli utili, sarei ancora più contento...”.
Statista, grande vecchio oppure belzebù:
Giulio Andreotti e 60 anni di storia italiana
È morto oggi a 94 anni uno dei protagonisti della storia politica italiana. Dalla Costituente alla nomina a senatore a vita, lascia un archivio da 3.500 faldoni
di MATTEO TONELLI *
"COSA vorrei sulla mia epigrafe? Data di nascita, data di morte. Punto. Le parole sono epigrafi tutte uguali. A leggerle uno si chiede: ma se sono tutti buoni, dov’è il cimitero dei cattivi?". Giulio Andreotti rispondeva così, non molto tempo fa, a chi gli chiedeva come avrebbe voluto essere ricordato. Ironia, basso profilo, cinismo, machiavellismo. Ma anche senso dello Stato.
L’uomo dei segreti e dei misteri della Prima Repubblica. "Belzebù", l’ormai famigerato bacio di Totò Riina, il sequestro Moro, tanto per citarne solo alcuni. Parlare di Giulio Andreotti, insomma, è parlare dell’Italia. Di uno che è passato attraverso due guerre mondiali, sette papi, monarchia, fascismo, prima e seconda Repubblica e sei processi per mafia. E’ tracciare il profilo di chi ha attraversato, segnandola, la storia (e i misteri) del nostro Paese. E lo ha fatto con quell’apparente aria di distacco e disincanto che nascondeva una cinica determinazione, resa più "leggera" da quel "motteggiare" che Andreotti aveva elevato ad arte. "Il potere logora chi non ce l’ha". "A pensare male si fa peccato ma spesso si indovina". "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia". Sapendo che, per lui, "tirare a campare" era tutt’altro che lasciarsi trasportare dagli eventi. Semmai guidarli discretamente. Meglio se da dietro le quinte.
Non è facile raccontare uno dei protagonisti dell’Assemblea costituente, sette volte presidente del Consiglio, otto volte ministro della Difesa, cinque volte ministro degli esteri, e delle Finanze e del bilancio, del Tesoro e degli interni. C’è la firma di Andreotti sul trattato di Maastricht, sulla legalizzazione dell’aborto, sulla nazionalizzazione del Totocalcio. La sua mano sulla decisione di adottare l’inno di Mameli come inno d’Italia. Si cominci col dire allora che Giulio Andreotti nasce a Roma il 14 gennaio 1919. Lo stesso anno del fascismo e del Ppi di Don Sturzo. "Di tutti e tre sono rimasto solo io" ironizzava non molto tempo fa. Comincia a occuparsi di politica da subito. Conosce De Gasperi e ne diventa segretario. Una frase di Indro Montanelli che fotografa il loro rapporto: "Quando andavano in chiesa insieme, De Gasperi parlava con Dio, Andreotti col prete". A 28 anni è già sottosegretario alla presidenza del Consiglio. L’inizio di una serie di cariche che ricoprirà in tutti i governi della Prima Repubblica.
Dal ’47 al ’53 è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, nel 1948 viene eletto segretario della Dc. Nel 1954, diventa per la prima volta di una lunga serie, ministro degli Interni. Negli anni che seguono cambia poltrona: prima le Finanze, poi il Tesoro, la Difesa e l’Industria. Conia la strategia dei due forni: che vede la Dc al centro che, di volta in volta, avrebbe dovuto rivolgersi al "panettiere" più conveniente tra sinistra e destra.
Nel 1972 si siede sulla poltrona di presidente del Consiglio. Una permanenza brevissima, dopo soli 9 giorni il governo cade. Dopo sei anni, però, Andreotti torna a palazzo Chigi alla guida di un monocolore Dc che nasce con l’astensione dei comunisti. Sono i tempi del compromesso storico, della crisi economica e del terrorismo. Ma il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro cambia improvvisamente lo scenario. E decreta la fine della solidarietà nazionale.
Si arriva così alla fase della politica estera, l’altro suo grande territorio d’azione. Siede alla Farnesina dal 1983 al 1989: dal Medio Oriente all’Est europeo l’opera del ministro è preziosa. Sono gli anni di Bettino Craxi con cui Andreotti darà vita ad un rapporto stretto ma anche segnato da contrasti. Memorabile la battuta con cui Andreotti ironizzerà sull’affollata spedizione in Cina organizzata dal governo a guida socialista: "Stiamo partendo con Craxi e i suoi cari....". Nasce allora il Caf (l’asse Craxi, Andreotti, Forlani) di cui farà le spese l’allora segretario democristiano Ciriaco de Mita.
Tangentopoli si avvicina. Nel 1991 Andreotti forma un nuovo esecutivo ma l’ora delle inchieste giudiziarie è scoccata. A metà degli anni ’90 viene processato da due procure: quella di Perugia e quella di Palermo. I magistrati umbri lo accusano di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, il direttore dell’Op, ucciso il 20 marzo 1979, quelli siciliani lo accusano di essere colluso con la mafia. Ma non griderà mai al complotto. Affronterà un lungo iter giudiziario, non mancando mai un’udienza.
Si arriva così hai giorni nostri. Nel 1991 Cossiga lo nomina senatore a vita. Nel 1992 punta alla presidenza della Repubblica, ma la strage di Capaci e l’assassinio del suo fedelissimo siciliano Salvo Lima, fa sfumare il piano che è anche il suo grande sogno di fine carriera. Nel 1994, allo scioglimento della Dc, aderise al Ppi di Mino Martinazzoli. Poi, nel 2001, confluisce nella Margherita.
Nel 2006 subisce l’ira del centrodestra che gli rimprovererà di aver votato, insieme agli altri 6 senatori a vita, la fiducia al governo Prodi. Un anno dopo, dopo aver annunciato voto favorevole in Senato ad una risoluzione di politica estera, cambia idea dopo aver sentito parlare l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema. Si astiene e assesta, al già fragile esecutivo Prodi, il colpo di grazia.
Politico fino alla fine, insomma. Uno della "casta" senza, però, quegli eccessi e i privilegi che tanto tentano i politici. Niente veline e feste per lui. Una sola moglie, Livia, discretissima. Quattro figli lontani dalle cronache. Alla moglie aveva promesso che si sarebbe ritirato a 60 anni: 31 anni dopo era ancora al suo posto. Di lui resta il suo archivio: 3.500 faldoni, dal 1944 in poi. E quei segreti che ha custodito fino alla fine e che si è portato con sé: "Un po’ di vita interna dello Stato la conosco, ma i segreti li tengo per me. Non farei mai un libro o un’intervista su certi episodi. La categoria del folklore politico non mi appartiene".
* la Repubblica, 06 maggio 2013
Accadde in Sicilia
Mafia, Andreotti era colpevole ma tutti in coro gridarono: “Assolto”
La sentenza d’Appello, confermata in Cassazione, stabilì che il reato fu “commesso fino alla primavera del 1980”. Lo salva la prescrizione
Dalla P2 a Pecorelli il suo nome non manca mai
Le trame golpiste del generale De Lorenzo, i rapporti con Gelli e Sindona, gli Omicidi di Ambrosoli e Della Chiesa.
Tra i protagonisti c’è sempre il Divo
L’ex Procuratore di Palermo
“Prove sicure e riscontrate ridicolo parlare di teorema”
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 07.05.2013)
Sul piano umano, la morte merita sempre rispetto. Dell’attività politica del sen. Andreotti non posso parlare perché non ne ho titolo. Posso invece parlare del processo di Palermo, avviato dalla Procura di quella città quando ne ero a capo, che l’ha visto imputato (in estrema sintesi) di rapporti con la mafia. In primo grado c’è stata assoluzione. In appello la sentenza del tribunale è stata parzialmente ribaltata. Mentre per i fatti successivi Andreotti è stato ancora assolto, per quelli fino all’80 è stato dichiarato colpevole, per aver COMMESSO il reato contestatogli.
È evidente che chi parla di assoluzione anche per i fatti prima del 1980 è completamente fuori della realtà. Il reato COMMESSO è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente COMMESSO. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello anche nella parte in cui si afferma la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980.
PROCESSUALMENTE è questa la verità definitiva ed irrevocabile. La Corte d’appello (confermata, ripeto, in Cassazione) si è basata su prove sicure e riscontrate. In particolare ha ritenuto provati - con altre decisive parti dell’impianto accusatorio - due incontri del senatore, in Sicilia, con Bontade, all’epoca capo dei capi, e altri mafiosi dello stesso calibro. Negli incontri (lo dice la sentenza) si discusse di fatti criminali gravissimi relativi a Piersanti Mattarella, capo della Dc siciliana, politico onesto che pagò con la vita l’essersi opposto a Cosa nostra.
Principale fonte di prova fu il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia (teste oculare di un incontro), un “pentito” rivelatosi sempre analiticamente preciso (già con Giovanni Falcone) e mai smentito. La Corte d’appello sottolinea poi che l’imputato non denunciò le responsabilità dei mafiosi incontrati, “in particolare in relazione all’omicidio di Piersanti Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utilissimi elementi di conoscenza”.
In conclusione, la Corte d’appello ha ravvisato a carico di Andreotti “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”. Fissiamo altri punti: fecero ricorso in Cassazione sia l’accusa che la difesa. Ecco la prova provata, secondo una logica elementare, che non vi fu “assoluzione” per i fatti fino al 1980. Mai visto, in oltre 50 anni di magistratura, un imputato che ricorre contro la sua assoluzione. Non esiste. La prescrizione è rinunciabile, ma l’imputato non lo fece, convinto che sarebbe stato assolto anche per i fatti fino al 1980, ma la Cassazione gli diede torto. La formula “reato COMMESSO” è nel dispositivo della sentenza d’appello. Sono 10 semplici righe. Sarebbe bastato leggerle per cancellare ogni dubbio. INVECE la verità è stata stravolta o nascosta: il popolo italiano - in nome del quale le sentenze vengono emesse - è stato truffato. Buscetta (che di Andreotti non volle parlare a Falcone: “Sennò ci prendono per pazzi”) in realtà ne aveva già parlato nel 1985 al pm Usa Richard Martin, che confermò la circostanza (sotto giuramento) in pubblica udienza del processo Andreotti. Con il che diventa ridicola qualunque accusa di “teorema”.
Con una sorta di distrazione di massa per cancellare la verità, le cronache (invece che sugli incontri con Bontade) si incentrarono pressoché esclusivamente sul “bacio”, che la Corte ritenne non riscontrato ma senza denunciare per calunnia chi ne aveva parlato. Ricorrendone tutti i presupposti, la Procura esercitò l’azione penale, che è obbligatoria. Non farlo sarebbe stato illegale, disonesto e vile. Nessuno quindi ha mai pensato di riscrivere la storia d’Italia. Chi ha nascosto la verità e non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come in una certa fase si è (almeno parzialmente) formato il consenso, ha reso un pessimo servizio alla trasparenza democratica del nostro Paese.