AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA L’INVITO A RIPRENDERSI LA "PAROLA" E A RIDARE ORGOGLIO E DIGNITA’ A TUTTO IL PAESE: VIVA L’ITALIA!!!
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
FOTO: BERLUSCONI, UN TOCCO DI TRUCCO NEL FAZZOLETTO
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
#iorestoacasa, Forza Italia!
di Italo Mastrolia (Linkedin, 9 aprile 2020)
Storia di un marchio pubblico
In questi giorni di forzata permanenza in casa sto imparando a prestare attenzione alle cose; specialmente a quelle che, nella vita “ordinaria”, avrebbero meritato maggiore considerazione e tutela, ma che - nella distrazione generale - abbiamo tutti accettato e “subìto” nel tempo senza alcuna resistenza. Mi è capitato di leggere un commento su FB; si trattava di una considerazione relativa ad un programma televisivo: «Ma è proprio necessario che lo spot di Rai Sport finisca con “Forza Italia”»? L’interrogativo, che voleva essere soltanto ironico, è di un eccellente e famoso giornalista, il quale sollecitava una sorta di ’par condicio’, auspicando una analoga versione della sigla televisiva utilizzando la denominazione “Italia Viva”.
Ho ripensato a quando, in gioventù, lo slogan più diffuso (condiviso ed universale - specialmente nello sport -) era appunto “Forza Italia”: era il grido di tutti gli italiani che sostenevano le nostre squadre nelle competizioni internazionali (specialmente la nazionale di calcio); e ho pensato che, da quando è stato fondato quel partito politico che ha assunto proprio questa esatta denominazione, non abbiamo più potuto gridare o scrivere questa “esclamazione” in modo spontaneo . Ovviamente nessuno ce lo avrebbe impedito, ma ... insomma, abbiamo tutti avvertito un senso di imbarazzo (o addirittura di contrarietà); oppure - più semplicemente - abbiamo preferito non correre il rischio di essere fraintesi.
Insomma, all’improvviso quello storico ed universale slogan non è stato più utilizzato, ed è scomparso dal vocabolario della tifoseria sportivo. Nulla era più come prima.
Ho svolto una rapida ricerca: il nome si ispirava allo slogan Forza Italia! utilizzato nella campagna elettorale della Democrazia Cristiana del 1987, curata dal pubblicitario e accademico Marco Mignani. Ma il nuovo partito pensò di registrare il marchio presso l’Ufficio Marchi e Brevetti: i primi due depositi risalgono al 24 giugno 1993 - attraverso una società di Milano -; assicuravano la tutela dei marchio d’impresa per ben 13 classi di merci e servizi. Sono seguiti ulteriori 11 depositi integrativi, fino al 2008, attraverso i quali le classi merceologiche sono arrivate fino a 21.
Mi sono chiesto se la registrazione di quel marchio con l’indicazione geografica (Italia) potesse essere vietata (secondo l’art. 13 Codice Proprietà Industriale). Niente da fare; non sarebbe stato possibile impedirlo: tale divieto, infatti, non è assoluto. È consentito registrare un nome geografico che, in relazione al servizio o al prodotto, non si presenti come indicazione di provenienza, ma come nome di fantasia. Quindi, sulla base di questa disposizione normativa, “Forza Italia” (con il quale il partito non intendeva indicare la provenienza geografica dei proprio “prodotti”) venne considerato come denominazione di fantasia, e - in quanto tale - legittimo ed utilizzabile.
Però (ho obiettato) quelle due parole costituiscono uno “slogan” collettivo, un modo di dire, una locuzione condivisa da tutto il popolo... niente da fare un’altra volta: secondo la giurisprudenza dell’Unione Europea il ‘marchio-slogan’ è sempre registrabile purché abbia carattere distintivo: a prescindere dal suo significato promozionale, infatti, deve avere qualcosa che permetta al pubblico di percepirlo come indicatore dell’origine commerciale dei prodotti o dei servizi che lo stesso contraddistingue. In effetti, l’articolo 4 del Regolamento sul marchio UE prevede che “Possono costituire marchi UE tutti i segni, come le parole, compresi i nomi di persone o i disegni, le lettere, le cifre, i colori, la forma dei prodotti o del loro imballaggio e i suoni”.
Quindi nulla vieta di registrare come marchio uno slogan pubblicitario.
Insomma, sembra proprio che la registrazione del marchio-slogan “Forza Italia” sia stata del tutto legittima, frutto di un’abile e geniale operazione giuridica con la quale, profittando del rigore formale della normativa vigente, si è trovato il modo (legittimo) per sottrarre alla collettività una frase appartenente a tutti, e attribuirla ad un partito politico per contraddistinguere i propri beni e servizi su cui poter ‘apporre’ il marchio (ripeto ... per ben 21 classi merceologiche!).
Però è innegabile che quelle due parole messe insieme hanno sempre costituito uno slogan collettivo, una storica esortazione popolare che - richiamando la nostra nazione - può essere ricondotta al concetto di res publica e - senza esagerare - a quello di patrimonio culturale immateriale. La questione merita un ben diverso approfondimento.
Nonostante tutto questo, è bello vedere che le persone - attraverso varie forme espressive - iniziano spontaneamente a “riappropriarsi” di quella storica esortazione sportiva; c’è un ritrovato orgoglio nazionale che, facendo vincere gli imbarazzi, mostra una tardiva reazione di sdegno a quella (seppur legittima) “sottrazione” del nostro grido più amato. A partire dal quella sigla del programma RAI, fino al web e agli striscioni sui balconi, finalmente ricompare senza imbarazzi la scritta “Forza Italia”!
A nessuno viene in mente, però, di usare la frase “Italia Viva”. In sincerità, la scelta di assegnare ad un partito questa locuzione è stata molto meno astuta e del tutto ’innocua’ per la collettività; vedremo se la registrazione di quel marchio verrà autorizzata dall’Ufficio Marchi e Brevetti (la domanda è stata depositata il 26.9.2019 ed è ancora in fase di esame).
DECRETO-LEGGE 30 aprile 2019, n. 34 :
Capo III
Tutela del made in Italy
Art. 31
Marchi storici
1. Al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 sono apportate le seguenti modificazioni:
Messaggio di Mattarella nell’XI° anniversario del terremoto de L’Aquila*
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato al Sindaco de L’Aquila, Pierluigi Biondi, il seguente messaggio:
«Il ricordo della notte del 6 aprile di undici anni or sono è impresso con caratteri indelebili nelle menti e nei cuori dei cittadini de L’ Aquila e di tutti gli italiani. Un terribile terremoto portò morte e devastazioni, gettò numerose famiglie nella sofferenza e talvolta nella disperazione, rese inaccessibili abitazioni, edifici, strade, costringendo a un percorso fortemente impegnativo, prima di sopravvivenza, poi di ricostruzione.
Nel giorno dell’anniversario desidero rinnovare i sentimenti di vicinanza e solidarietà a tutti gli aquilani, a quanti nei paesi e nei borghi limitrofi hanno condiviso sia quei momenti tragici sia gli affanni della ripartenza, ai nostri concittadini di numerosi altri territori del Centro Italia che, nel breve volgere di pochi anni, si sono trovati a vivere drammi analoghi e ora sono impegnati, come a L’Aquila, per restituire a se stessi e all’Italia la pienezza della vita sociale e i valori che provengono dalla loro storia.
La ricorrenza di quest’anno si celebra in un contesto eccezionale, determinato da una pericolosa pandemia che siamo chiamati a fronteggiare con tutta la capacità, la responsabilità, la solidarietà di cui siamo capaci. Un’emergenza nazionale e globale si è sovrapposta a quell’itinerario di ricostruzione che gli aquilani stanno percorrendo, che ha già prodotto risultati importanti ma che richiede ancora dedizione, tenacia e lavoro.
La ricostruzione de L’Aquila resta una priorità e un impegno inderogabile per la Repubblica. I cittadini hanno diritto al compimento delle opere in cantiere, al ritorno completo e libero della vita di comunità, alla piena rinascita della loro città.
Di fronte agli ostacoli più ardui possiamo avere momenti di difficoltà ma l’Italia dispone di energia, di resilienza e di una volontà di futuro che ha radici antiche e che, nei passaggi più difficili della nostra storia, è sempre stata sostenuta da una convinta unità del popolo italiano. Oggi questo senso di solidarietà e di condivisione rappresenta un patrimonio prezioso a cui attingere per superare l’emergenza di questi giorni».
*
Fonte: Sito della Presidenza della Repubblica, Roma, 06/04/2020
Tu quis es?
Intellettuali
di Ivano Dionigi (Avvenire, martedì 17 marzo 2020)
Dove sono finiti gli intellettuali, figure che mettano il loro sapere a confronto col potere e a frutto del bene comune ? Per i quali la virtù sia per se ipsa praemium ? Che abbiano nel sangue il senso del destino delle persone ? Missing, scomparsi. Sostituiti da intrattenitori, giornalisti, velinari, rappresentanti politici, tecnici delle singole discipline. Dovunque ti giri, stesso spettacolo : loquaces, muti sunt, « blaterano, ma sono muti », direbbe Agostino.
Tra le diverse cause di questa scomparsa, direi anzitutto il primato indiscusso della comunicazione, questo rinnovato impero della retorica, che impone messaggi semplice e semplificati, e che ai pensieri lunghi preferisce gli slogan.
E poi loro, gli intellettuali, i quali, non si fanno scrupolo di scodinzolare attorno al principe o principino di turno e di asservirsi al potere, tradendo quella “convinzione” e quella “responsabilità” che dovrebbero caratterizzarli.
Infine i partiti, che, tra miopia e istinto di sopravvivenza, hanno ridotto la politica a pratica amministrativa oppure a pura spartizione di potere, estranea al pensiero e al progetto.
Fanno riflettere le parole di Socrate, lontano dalle cariche pubbliche e condannato dalle leggi della città : «Io credo di essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti » (Gorgia 521 d).
Lombardi Vallauri.
Ma nella lingua che parliamo l’inganno è sottinteso
Il linguista Lombardi Vallauri nel suo nuovo libro indaga come la comunicazione pubblica fa spesso ricorso al "non detto": «più si usano gli impliciti, più il messaggio può diventare disonesto»
di Andrea Lavazza (Avvenire, sabato 22 febbraio 2020)
Ci sono strutture linguistiche che permettono di utilizzare strategie comunicative utili a essere persuasivi, indipendentemente dal contenuto che si trasmette. Le più importanti tra queste strategie linguistiche sono quelle che fanno ricorso agli impliciti. Spesso ciò non comporta problemi etici. Altre volte quel confine viene superato e allora pubblicità e propaganda politica assumono un carattere manipolativo.
Non sono conoscenze arcane, che solo pochi spin doctor padroneggiano nelle segrete stanze delle fake news. Sono anzi modi consueti di esprimersi ai quali, proprio per questo, non facciamo sufficiente attenzione. Uno slogan delle elezioni 2006 - «Una sanità che funziona rende tutti più liberi» - o un’affermazione strappapplausi tratta da un recente comizio - «Questa città deve tornare ad avere una dignità» - ne sono esempi tipici. Di primo acchito non siamo particolarmente impressionati, sembrano due delle mille frasi che ascoltiamo in contesti politici senza che ci colpiscano particolarmente. Ma il “trucco” è proprio questo. Lo spiega in un libro scientificamente rigoroso e insieme di impegno civile il linguista Edoardo Lombardi Vallauri, docente all’Università Roma Tre.
La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione (il Mulino, pagine 286, euro 16,00) è infatti uno studio approfondito che usa gli strumenti dell’analisi tecnica concentrandosi sulla comunicazione pubblica in Italia, commerciale e partitica. E lancia un appello a una migliore alfabetizzazione comunicativa, affinché diventiamo consumatori e cittadini più capaci di resistere alle sottili influenze di una comunicazione che fa appello agli automatismi cognitivi e sorpassa il controllo vigile.
Professor Lombardi Vallauri, che cosa sono gli impliciti linguistici?
Sono costrutti della lingua che almeno parzialmente nascondono una porzione del messaggio che in numerosi casi, se ne ne fosse consapevole, il destinatario rifiuterebbe. Nel modello che ho elaborato negli ultimi dieci anni, distinguo due tipologie, abbastanza consolidate. La prima è l’implicatura, o impliciti del contenuto. Essa, mentre veicola un contenuto, induce il destinatario a estrarne altri non espressi esplicitamente, spesso con l’aiuto del contesto. È qualcosa che funziona senza problemi nella nostra vita quotidiana, per esempio nel seguente scambio: «Andiamo al cinema questa sera? »; «Domani ho un esame», dove la risposta non è formalmente pertinente alla domanda, ma il messaggio trasmesso è chiaro: «Devo studiare, non posso». Le cose cambiano se si usa uno slogan del tipo: «Di nuovo la tassa di successione? No grazie », in cui il sottinteso è che il partito avversario sia pronto a introdurre una nuova tassa e, se vince, lo farà. E quest’ultima informazione non risulta necessariamente vera. L’essenza persuasiva di questi impliciti sta nel fatto che il destinatario, poiché non “vede” l’emittente asserire quel contenuto - anzi, è lui stesso a costruirlo -, più difficilmente lo metterà in discussione.
Come lavora invece il secondo di tipo di implicito?
Si tratta delle presupposizioni, dette impliciti della responsabilità perché, pur esprimendo un certo contenuto, anziché presentarlo come informazione introdotta al ricevente dall’emittente, lo presentano come un dato di fatto di cui l’emittente sia già a conoscenza. Consideriamo questo dialogo fra un capo e il vice: «Ho deciso di affidare l’incarico a Rossi»; «Ottima idea, specie ora che Rossi ha smesso di bere», dove il vice informa di un elemento che però non asserisce, tanto che il suo scopo potrebbe essere proprio indurre il capo a ripensarci, sebbene affermi che affidare l’incarico a Rossi costituisce un’«ottima idea». In politica si ha un implicito della responsabilità quando un premier sostiene che «bisogna tornare a governare il Paese in modo efficiente», dando per presupposto che finora il Paese sia stato governato male. Que- sti impliciti abbassano l’attenzione critica, perché il destinatario non li vaglia con attenzione, in quanto (su suggerimento dell’emittente) li considera qualcosa di già noto e accettato: alludere al fatto che il dato è già noto induce a prestarvi meno attenzione, anche perché di solito le presupposizioni in cui ci imbattiamo sono vere.
Potrebbero sembrare trucchetti da poco, facilmente smascherabili...
Certo, abbiamo evoluto la tendenza a non fidarci, e i messaggi espliciti del tipo «compra questo», «vota quello» non ci ingannano. Ma dobbiamo considerare che abbiamo risorse cognitive limitate da impiegare al meglio, anche facendo ricorso a processi automatici e inconsci per elaborare più informazione possibile in meno tempo. Gli impliciti sotto apparenza di una cosa ce ne dicono un’altra. Potenzialmente siamo in grado di decostruire i messaggi, ma non possiamo farlo sempre. Lo dimostrano studi sperimentali che abbiamo condotto. Risulta che l’implicatura rivela l’intenzione, ma al tempo stesso occul- ta il messaggio, mentre la presupposizione esprime il contenuto, ma passa inosservata e ha un effetto più durevole perché il destinatario potrebbe non rendersi mai conto che si tratta di informazione nuova e non scontata.
Quanto è «disonesto» utilizzare gli impliciti nella comunicazione pubblica?
Quando un emittente affida agli impliciti informazioni vere in buona fede, si limita a sfruttare un elemento messo a disposizione dal linguaggio per economizzare risorse di processazione. Quando invece lo si fa con le proprie opinioni, equiparandole a fatti, o comunque con un contenuto discutibile, o addirittura falso, la comunicazione diventa a rischio di disonestà. Esprimere opinioni discutibili rimane onesto se le si presenta esplicitamente come tali, anziché farle surrettiziamente implicare dal destinatario o fingere che siano fatti assodati. E più si fa ricorso agli impliciti, più il messaggio può diventare disonesto, come la lingua usata.
Conoscere queste strategie può aiutarci?
Gli studenti a un certo punto dei miei corsi dicono: «adesso capisco, esamino più a fondo i messaggi». Un’alfabetizzazione testuale a scuola risulta incompleta se non insegna anche la distinzione fra esplicito e implicito. Stiamo lavorando perché in alcuni nuovi protocolli di certificazione di qualità della comunicazione aziendale si segnali quando viene implicitato il falso. In Francia, si è fatta una efficace campagna contro l’uso dell’amalgame per la propaganda politica, ovvero l’elencazione di elementi diversi che perciò sembrano così avere aspetti importanti in comune, mentre così non è. Per esempio: «ripulire le città di rapinatori, truffatori e immigrati», come se questi tre gruppi fossero omogenei.
Con il suo gruppo a Roma Tre ha messo a punto un test per quantificare la disonestà dei testi persuasivi, un modo - lei dice - per sorvegliare i politici...
Esattamente. Si tratta di analizzare discorsi o post sui social, individuando gli impliciti e pesandoli, in modo da assegnare un punteggio complessivo che misura le modalità di comunicazione più o meno onesta utilizzate dai singoli esponenti politici. Non è un test di perfetta oggettività, perché i giudizi non hanno natura matematica, ma devono tenere conto di che cosa sia vero e che cosa sia falso, il che non è sempre banale; però rappresenta un passo avanti importante. Per farlo, servono tre “giudici” esperti che lavorano in parallelo e un’ora ogni diecimila caratteri, ovvero mezz’ora di comizio. Uno strumento di questo tipo potrebbe essere adottato da organismi di vigilanza o garanzia indipendenti per offrire agli elettori uno strumento in più di valutazione sull’atteggiamento comunicativo più o meno onesto nei loro confronti, e quindi sulle vere intenzioni dei politici, creando anche una forma di “pressione benefica” su coloro che sono controllati affinché siano più espliciti nei loro messaggi. Con alcuni miei allievi lo stiamo già facendo, attraverso il nostro Osservatorio Permanente sulla Pubblicità e la Propaganda visibile sul sito www.oppp.it.
L’ ITALIA, LE “ROBINSON-NATE”, E LA “POESIA” DEL PRESENTE ... *
“OGGETTO: Per la nostra sana e robusta Costituzione.... ” (Mail, 2002): “[...] Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato “Forza Italia”, discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: “Prima potevo gridare “forza Italia” e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!”. Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: “Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!” (Si cfr. RESTITUITEMI IL MIO URLO! ... DALLA CINA UNA GRANDE LEZIONE!).
ITALIA, 2 GIUGNO 2019. A pag. 2 dell’inserto “ROBINSON” (n. 130) di “la Repubblica” del 1° Giugno 2019, in un testo con il titolo “Mia madre, il Re e la cosa di tutti “, e il sottotitolo “Il 2 giugno 1946 l’Italia scelse di non essere più una monarchia. Lessico familiare del Paese che puntò su se stesso”. L’autore - dopo aver premesso che “una persona sola che incarna lo Stato e incarna il popolo intero non può che essere, essere, simbolicamente, una persona «sacra»“, e chiarito che “è per definizione, per ruolo un signore al di sopra delle parti, non rappresenta una frazione, rappresenta l’intero. L’unità. La comunità. (...) la sua carica è elettiva. Non è un raggio divino, e nemmeno il raggio della Storia attraverso l’espediente dinastico, a fargli incarnare «la cosa di tutti»” (...) La repubblica è anti-assolutista anche in questo suo sapiente scegliere gli uomini che la incarnano a seconda dei sommovimenti della politica e della società (...) così si avvia alla conclusione: “Dunque si è repubblicani - o almeno lo sono io - se si ama e si accetta ciò che non è assoluto, NON SIMULA L’ETERNO, ACCETTA IL LIMITE, lo traduce in politica”.
E, INFINE, l’autore così CHIUDE: “Mi rimane da dire che quando Eugenio Scalfari fondò un giornale che si chiamava «la Repubblica» andavo all’università e subito pensai: che bel nome! Che nome giusto per un giornale! Ma come è possibile che a nessuno prima di lui, sia venuto in mente di chiamare così un pezzo di carta che si occupa soprattutto della «res publica», della cosa di tutti, e lo fa tutti i giorni? E’ al tempo stesso un nome umile e alto. Peggio per chi non se ne è accorto prima” (Michele Serra).
POESIA, COSTITUZIONE, E FUTURO RADICALE...: “Come certi capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno - i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite” (Italo Testa - sopra).
ITALIA: “ESAME DI MATURITA’ 2019”. - PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema .
Federico La Sala (20 giugno 2019)
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO... *
Prodi
"Al Pd serve un padre. Zingaretti può diventarlo. Decisivo votare alle primarie"
L’ex premier invita a recarsi in massa ai gazebo: “Sarà fondamentale, un leader prende forza dal suo popolo. Importante il segnale delle Regionali: alle Europee va fermata la tendenza nazionalista e autoritaria dei populisti”
Intervista di Andrea Bonanni (la Repubblica, 07.02.2019)
BOLOGNA «Da ormai troppo tempo ci si azzuffa nel governo e nel Pd. Eppure l’Italia e il Pd avrebbero tanto bisogno di un padre: è un sentimento che vedo crescere in tutti gli italiani.»
Presidente Prodi, ma il padre del Pd non sarebbe lei?
«Al massimo io sono un nonno. Uno che fa molte prediche e cerca di ispirare buoni comportamenti E tale voglio rimanere».
Quali buoni comportamenti?
«Il primo è quello di andare assolutamente a votare alle primarie. L’affluenza ai gazebo avrà un’importanza enorme. Il numero degli elettori dovrà essere così elevato da dimostrare che il Partito democratico si pone come un’alternativa credibile: oggi è l’unica alternativa possibile. Andare a votare significa affermare la nostra identità. E il vincitore del confronto deve essere il leader indiscusso del partito. Basta leadership per interposta persona».
Un padre, dice?
«Certo. Usciamo da anni in cui sia il partito, sia il Paese, si sono estenuati in diatribe continue, rancori, isterismi, proclami ignoranti e liste di proscrizione. Per il Paese, spero che il padre non sia qualcuno che ha sempre bisogno di mettersi in divisa per apparire forte. Per il Partito democratico c’è bisogno di una figura autorevole, che sappia finalmente ascoltare, riconciliare, tranquillizzare ma anche decidere».
Questa figura può essere Zingaretti?
«Se intensifica il lavoro di allargamento e di pacificazione che ha iniziato, le sue possibilità sono molte, ma lo dovranno decidere le centinaia di migliaia di cittadini che voteranno alle primarie. Un leader prende forza dal suo popolo. E per dare forza alle primarie saranno di grande importanza i segnali che manderanno le elezioni in Abruzzo e in Sardegna. Il Pd ha in entrambi i casi i candidati più autorevoli: sono fiducioso proprio perché sento che si sta esaurendo il tempo nel quale competenza ed esperienza sono visti come un valore negativo. E poi, naturalmente, ci saranno le europee».
Le elezioni europee si avvicinano mentre i due partiti populisti al governo polemizzano con Bruxelles, con Parigi, con Berlino e perfino con l’Olanda. E invece il campo progressista stenta a ritrovarsi sotto la bandiera europea. Dovunque governino gli antieuropeisti, dalla Gran Bretagna all’Ungheria alla Polonia, le bandiere dell’Europa sventolano in piazza come segno di protesta. Qui da noi non sventola nulla...
«Le vedremo, le bandiere dell’Europa. Forse non si è ancora riflettuto abbastanza sull’importanza di ritrovarci sotto simboli comuni. Per questo ho lanciato l’idea che il 21 marzo in tutte le case si esponga la bandiera europea accanto a quella italiana. L’Unione europea è indispensabile per il nostro benessere e per il nostro futuro di cittadini liberi. Dobbiamo capirlo e dobbiamo dirlo con forza».
Invece gli italiani sembrano diventati euroscettici...
«Quando abbiamo fatto l’euro e quando abbiamo voluto l’allargamento, gli italiani erano i più decisi sostenitori di quelle scelte. E sa perché? Perché capivano che l’Europa prendeva decisioni per il futuro di tutti. Ma da allora questa capacità di prender decisioni si è indebolita nell’Ue. Con la bocciatura del progetto di Costituzione da parte dei francesi, il potere è passato dalla Commissione al Consiglio. È ritornato agli stati membri. Non si guarda più al bene collettivo ma all’interesse nazionale. I populisti vorrebbero accentuare ancora questa rinazionalizzazione del nostro destino. Le prossime elezioni europee devono ribaltare questa tendenza».
Che valore politico ha, oggi, la bandiera europea?
«Innanzitutto rappresenta il nostro futuro, quello dei nostri figli e dei nostri nipoti. Come ripeto sempre agli studenti, gli italiani sono quelli che meglio dovrebbero capirlo. Nel Rinascimento l’Italia dominava il mondo. Ma gli staterelli italiani divisi furono spazzati via dalla prima globalizzazione della storia: la scoperta dell’America. Oggi, con la globalizzazione totale, neppure la Germania, da sola, ha la forza di costruire le nuove caravelle, che si chiamano Google, Amazon, Alibaba, Tencent, Microsoft. Dobbiamo fare l’Europa prima che l’intelligenza artificale e la rete 5G ci distruggano completamente».
Non sembra proprio l’aria che tira, presidente. Tantomeno in Italia...
«Questa maggioranza ha dovuto intanto prendere atto che chiedere l’uscita dall’euro e dall’Unione europea sarebbe un suicidio, anche se non perde occasione per sparare sulla Francia, sulla Germania e persino sull’Olanda, per soffiare sul fuoco del nazionalismo come ha fatto su quello del razzismo e della xenofobia. Vogliono un’Europa debole e divisa perché vogliono una società debole anche in Italia.
Si tratta di forze che praticano una politica autoritaria e verticale, dall’alto verso il basso, ignorando i corpi intermedi e la società civile, che siano i sindacati, gli enti locali, le imprese o la stampa. Persino il Parlamento è stato svuotato della sua funzione, violando nei fatti il dettato costituzionale. Certo, quello dell’autoritarismo è un vento che soffia su tutto il mondo.
Ma la complessità e la ricchezza del tessuto democratico sono gli elementi costitutivi dell’Europa e della nostra libertà. Anche per questo dobbiamo difenderla».
E invece nel Pd sono riusciti a produrre due manifesti sull’Europa: quello di Calenda e quello degli eurodeputati. Non le sembra un po’ troppo?
«I valori, i concetti e i programmi dei due manifesti sono identici e condivisi da tutti. Le divergenze sono su come applicarli».
Grande coalizione europeista o liste separate che corrono in parallelo?
«Ma è proprio questo il punto. Si tratta di decisioni solo pragmatiche, da prendere tenendo in considerazione che esiste il sistema proporzionale ma esiste anche la soglia di sbarramento del 4 per cento. Gli europeisti devono muoversi in modo da ottimizzare il loro risultato complessivo. E queste decisioni spettano al nuovo leader del Partito democratico. Per questo deve ricevere una investitura popolare forte, tale da conferirgli di fatto la paternità non solo del partito ma di quella maggioranza di italiani che continua a credere nell’Europa. Come me».
Consigli al presidente del Lazio? Intensificare il lavoro di allargamento e di pacificazione che ha iniziato L’Europa è la garanzia della nostra libertà, dobbiamo farla prima che intelligenza artificiale e rete 5G ci distruggano
Il professore
Romano Prodi, 79 anni, due volte presidente del Consiglio, ha guidato la Commissione europea dal 1999 al 2004
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
Società.
Nudge, quella spinta gentile che orienta e influenza i nostri comportamenti
Si chiama “Nudge” ed è una strategia economica che sostiene le nostre decisioni facendo leva su aspetti psicologici e comportamentali. Viale: così siamo «liberi» di scegliere ed essere felici
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 30 ottobre 2018)
In principio furono gli agenti di commercio. Che i venditori conoscano l’arte della persuasione è noto, ma esperimenti condotti dagli anni 70 del secolo scorso hanno confermato che nella vendita sono sfruttati principi psicologici solidi e fino allora poco indagati, alla base oggi dell’economia comportamentale e di un filone sempre più rilevante delle politiche pubbliche. Pensiamo alla reciprocità, una regola sociale pervasiva, secondo la quale se io faccio X, allora mi aspetto che tu faccia Y. Se contraccambiare è un meccanismo potente che riflette sia una norma introiettata con l’educazione sia il tentativo di evitare il biasimo degli altri, ecco che l’omaggio o il campione gratuito dato al cliente innescano l’obbligo di sdebitarci comprando il prodotto che viene proposto.
Non pensiamo davvero che un piccolo regalo ci impegni all’acquisto, si tratta di un processo inconscio che ci guida in modo quasi automatico. Siamo dunque manipolati quando vengono messe in atto queste strategie di marketing? La risposta migliore è quella più deludente: dipende. Ma la posta in palio non è più o soltanto un acquisto poco ponderato. Una svolta recente nella scienza psicologica e lo sfruttamento delle nuove conoscenze da parte dei governi costituiscono una frontiera estremamente rilevante sia per la ricerca sia per la vita di tutti i cittadini, come spiega Riccardo Viale, scienziato cognitivo docente all’università Bicocca di Milano, in un libro rigoroso ed estremamente informativo ( Oltre il nudge. Libertà di scelta, felicità e comportamento, il Mulino, pagine 264, euro 26,00).
Rivelato al grande pubblico da alcune delle più recenti scelte per il Nobel dell’Economia (Daniel Kahneman nel 2002, Richard Thaler nel 2017), un filone di ricerca sperimentale ha ormai demolito l’ideale dell’homo oeconomicus perfettamente razionale e consapevole delle alternative a sua disposizione, capace di scegliere per il meglio coerentemente con le sue preferenze più radicate. In ogni ambito di decisione, la nostra razionalità è limitata, ci facciamo fuorviare dalle circostanze in cui ci troviamo, non sappiamo gestire scenari probabilistici, tendiamo a sovrastimare il presente a scapito del futuro.
In genere, siamo guidati da processi inconsapevoli e automatici che ci aiutano a rendere rapide e poco dispendiose le nostre scelte ma spesso, in ambienti che sono diversi e molto più complessi di quelli in cui ci siamo evoluti, ci conducono a comportamenti subottimali o addirittura dannosi. Il punto, sottolinea Viale, è che le istituzioni politiche, economiche e giuridiche continuano a rapportarsi alle persone secondo un’idealizzazione irrealistica.
Vie di uscita si cominciano però a progettare. Una pietra miliare è il volume di Thaler e Sunstein pubblicato nel 2008 che ha messo in circolazione il termine chiave del dibattito attuale: Nudge. Nella traduzione italiana (Feltrinelli) è stato reso con «spinta gentile», una serie di interventi, calibrati in base alle reali modalità di scelta delle persone, che possono indirizzare in positivo le decisioni legate a denaro, salute e benessere personale. La prima spintarella si ottiene mettendo come opzione di defaultil percorso preferito: se non si sceglie, si è incanalati in un percorso già stabilito. Avviene per esempio con la donazione degli organi: quando il soggetto non esprime un parere, si presume l’assenso all’espianto post-mortem.
Poi vi sono le modificazioni dell’architettura della scelta: si organizza la mensa in modo che prima siano proposti cibi salutari e poco calorici; l’hamburger arriva alla fine, quando, si presume, il cliente ha già riempito il vassoio. Oppure, si può enfatizzare un certo tipo di informazione: se si scrivono lettere ai contribuenti segnalando che tutti i vicini hanno già pagato le tasse dovute, la propensione all’evasione fiscale diminuisce notevolmente. Invece, prendano nota i nostri decisori, biasimare di frequente la disonestà di tanti finisce con l’incentivare tali comportamenti, essendo il ragionamento implicito: lo fanno tutti, lo posso fare anch’io.
Il nudge è una forma di paternalismo perché implica che qualcuno sappia meglio di noi, spesso irrazionali e autolesionisti, che cosa è bene e come raggiungerlo. Ma è un paternalismo liberale perché lascia comunque la scelta finale al consumatore, che può ancora mangiare cibi grassi e non versare le imposte. Viale tuttavia evidenzia come la situazione risulti ben più complessa, sia dal punto di vista dei meccanismi psicologici sia dal punto di vista della coercizione cui il cittadino è sottoposto con le spintarelle gentili. Elementi strettamente scientifici e aspetti politico- normativi si intrecciano in quella che dovrebbe essere una tematica ben più discussa nel nostro Paese.
All’estero, a partire dalle iniziative di Obama e di Cameron, si sono costituiti comitati per l’applicazione dell’economia comportamentale, la stessa Unione europea si sta muovendo in tale direzione. In Italia un tentativo fatto da Renzi con alcuni studiosi è stato interrotto dalla caduta del governo. Il problema della diffusione del gioco d’azzardo e dei modi di evitare ludopatie compulsive rientra pienamente in questa discussione. Il libro di Viale ha comunque il merito di aprire scenari. Per esempio, a parere di chi scrive questo articolo, una forma estesa di nudge, tesa a contrastare le fake news, potrebbe essere quella di introdurre su ogni post di Facebook e su ogni tweet l’opzione per l’autore di marcarli con una piccola, singola lettera dell’alfabeto. Nessuna imposizione, soltanto una schermata prima di pubblicare che chieda: «vuoi marcare il tuo post/tweet come segue?». Si sceglie «no» e si procede, perdendo al massimo qualche secondo le prime volte, poi al massimo il tempo istantaneo di un clic. Se invece si sceglie di marcare, le opzioni potrebbero essere: «fonte conosciuta - FC»; «fonte ignota (segreta; non divulgabile) FI»; «rilancio diretto di altro messaggio - RM».
Quale sarebbe l’effetto? Se posto che Obama non è nato negli Usa e quindi non poteva fare il presidente e non marco il mio messaggio, gli altri utenti sapranno subito che si tratta di una mia opinione, di un’accusa che lancio senza prove. Se marco il messaggio con FI, perché l’ho sentito dire e non ho voglia di impegnarmi in una discussione sulla fonte o sulle prove della mia affermazione, i lettori possono sapere che non vale la pena di prendere troppo sul serio la cosa. Se invece qualifico il mio post o il mio tweet con FC, suscito l’attenzione degli altri utenti e qualcuno potrebbe chiedermi quale è la fonte o quali sono le prove della mia tesi. Ovviamente, la maggior parte dei messaggi sono considerazioni o commenti personali, e come tali non hanno bisogno di sostegno epistemico.
Tuttavia, se voglio veicolare un messaggio credibile, dovrò alla lunga marcarlo con FC, sapendo che qualcuno vorrà sapere le basi fattuali della mia affermazione, senza però che io sia in alcun modo obbligato a farlo. Se non le espongo, d’altra parte, il peso della mia tesi sarà minore e potrà più facilmente essere contrastata. Nei casi in cui non marco il messaggio o lo segno come FI, la sua forza sarà fin dall’inizio minore, anche nel caso in cui spieghi poi che la fonte deve rimanere riservata. Insomma, non una panacea alle fake news, ma un «incorniciamento» virtuoso della comunicazione che non costringe l’utente a fare nulla, ma gli offre possibilità diverse di valorizzare le proprie affermazioni fattuali e alla lunga potrebbe ridurre diffusione e influenza delle notizie false.
il principio e i dogmi
La prevalenza della politica sulla scienza: gli esempi terribili del passato
Non dimentichiamo la biologia staliniana di Lysenko, la fisica ariana nella Germania nazista e l’antropologia fascista della difesa della razza
di Riccardo Viale *
Il dogma principale della scienza è che non ha dogmi. Il suo principio base è la falsificabilità, non la certezza. La storia della scienza è una catena di affermazioni e successive falsificazioni. Monumenti come le teorie di Newton, Darwin ed Einstein, appena nate cominciarono a essere subito messe in discussione. L’affermazione di ipotesi avviene, spesso, attraverso scontri laceranti. Alcune volte teorie inadeguate rimangono in voga transitoriamente a discapito di anomalie empiriche e contraddizioni formali. Il finanziamento di programmi di ricerca o la selezione di articoli scientifici è, talvolta, viziato da parrocchialismo. Che conclusioni possiamo derivare da questo elenco di debolezze? Che della scienza non ci si può fidare e che l’astrologo vale quanto l’astronomo?
A chi sostiene questo tipo di convinzioni si potrebbe rispondere con la stessa battuta fatta da Winston Churchill a proposito della democrazia: «È stato detto che la scienza è la peggior forma di conoscenza, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora». Perché? Innanzitutto esiste il principio unificante dell’adeguatezza empirica: tutti sono d’accordo che prima o poi le ipotesi devono passare sotto le forche caudine dei fatti. La scienza è profondamente democratica. Il merito delle proprie ipotesi è discusso all’interno della comunità e la decisione segue una qualche forma di regola della maggioranza. La politica interagisce costantemente con la scienza. Ad esempio attraverso le scelte allocative su settori e programmi di ricerca. Forse però esponenti politici come Barillari o i No Vax intendono qualcosa di diverso quando tifano per la democrazia e la politica nella scienza. Forse per loro la democrazia nella scienza è sostenere il principio del «tutto va bene» e l’assenza di autorità. E la prevalenza della politica significa trasferirle un ruolo epistemologico nel discriminare il vero dal falso. Esempi nel passato ce ne sono stati tanti: la biologia staliniana di Lysenko, la fisica ariana nella Germania nazista e l’antropologia fascista della difesa della razza.
* Corriere della Sera, 8 agosto 2018 (modifica il 8 agosto 2018 | 21:01)
La festa del 2 giugno
La democrazia a un bivio
di Guido Crainz (la Repubblica, 01.06.2018)
Mai come quest’anno il 2 giugno ci costringe a interrogarci sul nostro essere nazione e sulla tenuta della nostra democrazia, ed è difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a un bivio. Mai infatti, neanche nelle fasi più aspre, questa data ha cessato di essere la festa di tutti gli italiani: il momento in cui ribadiscono i fondamenti culturali, politici e civili del proprio vivere collettivo. Mai qualcuno aveva pensato di utilizzare il 2 giugno per contestare le nostre regole costituzionali. Mai, neanche per un attimo, era stata proposto di lacerare questa giornata con una manifestazione di parte volta a colpire proprio quelle regole, assieme alla figura istituzionale che ne è garante ( e il vulnus resta, anche se la miserevole proposta è crollata grazie alla alta e necessaria fermezza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella).
Non avvenne neppure nel clima teso della Guerra fredda, nonostante le profonde divisioni e contrapposizioni di allora. E non avvenne negli anni cupi della strategia della tensione e del terrorismo degli anni Settanta: la centralità del 2 giugno verrà appannata semmai dalla smemoratezza degli anni Ottanta, nel prolungarsi dell’abolizione della festività decisa nel 1977 (discutibile conseguenza di esigenze di “austerità”).
Quell’appannarsi era in realtà il sintomo dell’indebolimento civile del Paese, malamente mascherato dalle euforie di quel decennio, e alla vigilia del crollo della “ prima Repubblica” Giorgio Bocca evocava a contrasto, su queste pagine, l’Italia uscita dalla guerra: eravamo divisi in fazioni, scriveva, in un Paese distrutto, eppure «uniti nel vivere, liberali, cattolici, monarchici, comunisti, padroni, operai, tutti certi di essere padroni del nostro destino. Ma questa voglia di avere un’identità, di essere noi, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo? Che cosa significa essere italiani? » . In quella crisi il valore centrale del 2 giugno sembrò offuscarsi ancora e la sua decisa riaffermazione fu parte integrante della pedagogia civile avviata con forza dal presidente Ciampi e proseguita dai suoi successori.
Fu parte integrante del loro impegno a rifondare il “ patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva, collocandolo nella più ampia appartenenza europea e rafforzandone al tempo stesso i momenti simbolici e le date fondative. In primo luogo, appunto, la festa del 2 giugno, ripristinata da Ciampi nella sua interezza e accompagnata da una parata che poneva ora al centro l’impegno dell’esercito nelle calamità civili e nelle missioni di pace. Ciampi stesso ha ricordato: andai a quella prima, rinnovata sfilata «in una vettura scoperta, con al fianco il ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Eravamo circondati da una folla festosa che mi diceva di andare avanti, mi ringraziava, era contenta » . Quella ispirazione è andata via via arricchendosi e sono ancora vive le immagini di un anno fa, con la folta presenza di sindaci e con quell’enorme tricolore che calava sul Colosseo.
È forte dunque la sensazione di essere oggi di fronte a una possibile, inquietante divaricazione, e nei giorni scorsi lo abbiamo compreso in maniera traumatica: in essi infatti il fantasma del populismo è uscito definitivamente dal limbo delle definizioni astratte o da territori ancora lontani. È diventato forza corposa e devastante, con la lacerante contrapposizione fra una “ sovranità del popolo” arbitrariamente interpretata e le istituzioni che la fanno realmente vivere, svilite e calpestate assieme alle loro regole. Questo abbiamo vissuto e viviamo, e quelle lontane parole di Giorgio Bocca sembrano di nuovo drammaticamente attuali.
Elezioni: 75 simboli ammessi su 103 depositati
Per 19 serve sostituzione o integrazione, 9 sono stati ’bocciati’
di Redazione ANSA*
Primo ’taglio’ per i 103 simboli consegnati lo scorso weekend al Viminale dai partiti che intendono partecipare alle elezioni politiche del 4 marzo. Nove contrassegni sono stati ’bocciati’ per "carenza documentale" e non accederanno dunque alla presentazione delle liste, 75 sono stati ammessi e 19 non ammessi. Chi ha depositato questi ultimi ha 48 ore di tempo per integrarli o sostituirli: tra di loro anche simboli storici come lo scudo crociato della Democrazia Cristiana e la fiamma del Movimento sociale italiano.
Nelle apposite bacheche al piano terra del Viminale è stato inserito il quadro riepilogativo dello stato di tutti i simboli. Due di quelli tradizionali - Dc e Msi - non hanno avuto il via libera perché analoghi ad altri già depositati. Lo Scudo crociato si trova infatti nel contrassegno consegnato da Noi con l’Italia-Udc di Lorenzo Cesa, mentre la Fiamma tricolore è presente in quello presentato da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. E la legge vieta la presentazione di simboli "identici o confondibili con quelli presentati in precedenza ovvero con quelli riproducenti simboli usati tradizionalmente da altri partiti".
Fanno parte dei non ammessi, inoltre, i Forconi, Pensionati Consumatori, Indipendenza del Veneto. Tra i 9 invece definitivamente ’bocciati’ c’è La Margherita - Democrazia è Libertà, Fronte Verde, Ragione e Libertà. La nuova legge elettorale prevede ora che entro 10 giorni (31 gennaio) dalla scadenza del termine per il deposito dei contrassegni, sulla sezione Elezioni trasparenti del sito del Ministero dell’Interno saranno pubblicati per ciascun partito, movimento e gruppo politico organizzato che ha presentato le liste: il contrassegno depositato, con l’indicazione del soggetto che ha conferito il mandato per il deposito; lo statuto ovvero la dichiarazione di trasparenza depositati; il programma elettorale con il nome e cognome della persona indicata come capo della forza politica depositati. Nella stessa sezione, entro 10 giorni (8 febbraio) dalla scadenza del termine di presentazione delle liste dei candidati, saranno pubblicate per ciascun partito, movimento e gruppo politico organizzato, le liste di candidati presentate per ciascun collegio.
VIVA LA PIZZA! L’Organizzazione delle Nazioni Unite ha premiato così il lungo lavoro del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali che nel 2009 aveva iniziato a redigere il dossier di candidatura con il supporto delle Associazioni dei pizzaioli e della Regione Campania, superando i pregiudizi di quanti vedevano in questa antica arte solo un fenomeno commerciale ....
Arte del pizzaiuolo napoletano è patrimonio dell’Unesco
Entra in lista patrimonio dell’umanità, dal Comitato voto unanime
di Redazione ANSA *
"L’arte del pizzaiolo napoletano è patrimonio culturale dell’Umanità Unesco". Lo annuncia il Ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali Maurizio Martina su Twitter. "Vittoria! Identità enogastronomica italiana sempre più tutelata nel mondo", sottolinea. Dopo 8 anni di negoziati internazionali, a Jeju, in Corea del Sud, voto unanime del Comitato di governo dell’Unesco per l’unica candidatura italiana, riconoscendo che la creatività alimentare della comunità napoletana è unica al mondo.
Per l’Unesco, si legge nella decisione finale, "il know-how culinario legato alla produzione della pizza, che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto della pizza, esibirsi e condividere è un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaioli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale, il cui bancone e il forno fungono da "palcoscenico" durante il processo di produzione della pizza. Ciò si verifica in un’atmosfera conviviale che comporta scambi costanti con gli ospiti. Partendo dai quartieri poveri di Napoli, la tradizione culinaria si è profondamente radicata nella vita quotidiana della comunità. Per molti giovani praticanti, diventare Pizzaiolo rappresenta anche un modo per evitare la marginalità sociale".
L’Organizzazione delle Nazioni Unite ha premiato così il lungo lavoro del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali che nel 2009 aveva iniziato a redigere il dossier di candidatura con il supporto delle Associazioni dei pizzaioli e della Regione Campania, superando i pregiudizi di quanti vedevano in questa antica arte solo un fenomeno commerciale e non una delle più alte espressioni identitarie della cultura partenopea. Il dossier della candidatura e la delegazione sono stati coordinati dal professor Pier Luigi Petrillo. Al termine dell’iscrizione della candidatura, l’ambasciatrice italiana all’Unesco, Vincenza Lomonaco, ha ringraziato tutti gli Stati che hanno votato a favore dell’Italia, sottolineando la centralità dell’Italia nel promuovere le tradizioni agroalimentare nel contesto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Subito dopo la proclamazione, in sala è scoppiato un lungo e fragoroso applauso che ha festeggiato il successo italiano a lungo atteso, e molti dei delegati presenti sono venuti ad abbracciare i rappresentanti italiani che nella lunga notte del negoziato finale hanno stretto in mano un cornetto napoletano porta fortuna, rosso come tradizione impone.
Renzi, orgoglio per tradizione e stimolo per futuro - "L’arte del pizzaiolo napoletano riconosciuta come patrimonio Unesco è un simbolo bellissimo di quello che l’Italia è stata. Ma è simbolo anche di ciò che dovremo essere. La cura per la tradizione, la passione per il cibo, la capacità di farsi rappresentare all’estero dai nostri prodotti sono elementi essenziali del nostro futuro". Cosi’ Matteo Renzi su fb. "Andiamo verso un futuro di robot e innovazioni tecnologiche: proprio per questo - scrive il segretario dem - avremo sempre più bisogno di radici, di identità, di qualità, di gusto. Le più grandi catene al mondo di pizza non sono italiane così come pure è straniera la maggioranza dei prodotti che hanno il nome che suona italiano venduti nel mondo. Insomma: nel mondo globalizzato il Made in Italy - anche alimentare - ha tante opportunità davanti. Il riconoscimento alla pizza è un orgoglio per la tradizione ma anche uno stimolo per il futuro. Avanti".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GLI APPRENDISTI STREGONI E L’EFFETTO "ITALIA". LA CLASSE DIRIGENTE (INCLUSI I GRANDI INTELLETTUALI) CEDE (1994) IL "NOME" DEL PAESE AL PARTITO DI UN IMPRENDITORE. Che male c’è?! - Materiali sul tema
L’ITALIA (1994-2016), TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITA’ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema
Federico La Sala
STORIA, CINEMA, E LETTERATURA ...
Fantozzi e Kafka. Vittime
di Sergio Benvenuto (DoppioZero, 15.07.2017)
Franz Kakfa era lo scrittore preferito da Paolo Villaggio. Questo non mi sorprende affatto, perché il Fantozzi che Villaggio ha fatto entrare nell’Enciclopedia dei Caratteri - assieme all’ipocrita, al misantropo, al millantatore, al soldato sbruffone, all’avaro, all’ipocondriaco, ecc. della commedia classica - è la versione burlesca, popolaresca, dei maggiori personaggi di Kafka, tutti un po’ fantozziani, anche se in chiave tragicissima. In fondo, anche Kafka spesso muove al riso, solo che la risata ci si congela in bocca, si storce in un ghigno di angoscia. La Repubblica ha riproposto Villaggio con lo slogan “Ci ha fatto piangere dal ridere”, Kafka invece ci fa ridere pur piangendo.
I protagonisti di Kafka sono quasi tutti, in effetti, delle vittime assolute. La più assoluta è forse Gregor Samsa, l’impiegato - guarda caso! - che un bel mattino si ritrova trasformato in scarafaggio, nel racconto La metamorfosi. Non solo Gregor è mutato nell’essere più abietto, ma la famiglia lo colpevolizza per questo, e suo padre finirà per punirlo con la morte. Impiegato vittima è anche Herr K. protagonista di Il processo. Si suol dire che K. subisce un processo e alla fine è condannato a morte per una accusa che non gli viene mai rivelata; ma Kafka non è così lineare. La verità è che a noi lettori l’accusa non è mai palesata, e il testo ci lascia liberi di pensare che invece K. la conosca, oppure no. Impiegato come agrimensore è il protagonista, chiamato K. anche lui, de Il Castello: qui l’eroe non riuscirà mai a entrare in contatto con i funzionari del misterioso Castello che pure lo ha chiamato; egli finirà col restare sempre nel villaggio dominato dal castello, cercando invano di essere accolto dall’invisibile datore di non-lavoro.
Kafka chiama K. molti suoi protagonisti perché era lui stesso un fantozzi. Prima di essere pensionato per la sua tubercolosi, per anni ha lavorato come impiegato all’Agenzia Assicurativa per gli Incidenti sul Lavoro del regno di Boemia. “Lavoro alimentare” da lui disprezzato, ma che pervade il mondo dei suoi eroi.
Come gli impiegati-vittime di Kafka, anche Fantozzi non è cattivo, non farebbe male a una mosca. È servile, pavido, imbranato, ma non cattivo. Ogni tanto ha dei moti alquanto velleitari di rivolta contro i suoi capi, tutti, anche se in modi diversi, sadici. Così il suo famoso urlo “La Corazzata Potëmkin è una boiata pazzesca!” quando un capoufficio cinefilo impone di vedere il film di Ėjzenštejn proprio in coincidenza con la finale del Campionato del mondo di calcio. Ma sono rivolte senza domani, puri scatti “non-costruttivi” che vengono puntualmente puniti.
Si è detto che la saga fantozziana avrebbe tacitamente contestato il primato che per la sinistra hanno avuto sempre la classe operaia e i contadini. Villaggio, focalizzando sulla miseria esistenziale degli impiegati, avrebbe reso comprensibile la famosa marcia dei 40.000 (impiegati) della FIAT a Torino che nel 1980 pose fine, in Italia, a una certa egemonia politica operaia. In realtà il povero impiegato era stato scoperto come eroe letterario già dal Romanticismo. Gli impiegati bacherozzi o condannati alla pena capitale di Kafka sono il culmine di una tradizione letteraria, e poi cinematografica, che ha prodotto grandi capolavori negli ultimi due secoli. È il filone che chiamerei La Tragedia della Mediocrità - il versante opposto della Banalità del Male di Hanna Arendt.
Tra i più eminenti di questo filone è certamente Bartleby lo scrivano, entrato ormai nel Canone occidentale. Fu pubblicato da Hermann Melville nel 1853, si noti, in forma anonima, come se l’autore avesse avuto vergogna di firmarlo. Il giovane Bartleby è assunto a Wall Street da un avvocato, un brav’uomo peraltro, e dapprima si comporta da impiegato modello, da solerte macchina umana. Poi, d’un tratto, quando il capo gli ordina qualcosa, risponderà sempre “I would prefer not to”, “avrei preferenza di no”, come tradotto da Gianni Celati. Questo sciopero cortese è però solo il primo passo verso un processo di catatonia, che porterà Bartleby a non muoversi più dall’ufficio, senza più parlare né mangiare, fino al suo ricovero nel manicomio di New York, e alla sua morte per anoressia.
All’epoca il racconto di Melville fu un flop. Fu solo nel XX secolo, ben dopo la morte di Melville, che questo è diventato uno dei testi fondamentali della letteratura. Ogni anno si pubblicano paper e libri su Bartleby, e tutte le chiavi interpretative che hanno riscosso qualche credito nell’ultimo secolo sono state usate per decriptare questa storia inquietante: marxiste, strutturaliste, anti-strutturaliste, mistico-religiose, psicoanalitiche, storiciste, decostruzioniste... Il racconto di Melville è certamente una coupure perché i personaggi tragici, prima, non erano mai grigi impiegati di concetto, ma figure sempre interessanti, affascinanti: re, regine, avventurieri, puttane, spadaccini, banditi, nobili decaduti o impazziti come Don Chisciotte...
Certo Bartleby fa il contrario di Fantozzi, non si piega, ma ha in comune con il suo discendente questo: entrambi non agiscono, sono come immobilizzati dalla loro condizione subalterna.
Fino agli anni ‘60 per indicare l’impiegato ideal-tipico non si diceva “un fantozzi” ma “un travet”. Da Ignazio Travet, protagonista della commedia piemontese "Le miserie d’Monsù Travet" del 1863, di Vittorio Bersezio, testo che idealmente inaugura l’Italia unita. Travet è un misero impiegato perseguitato dal capoufficio, disprezzato da moglie e figlia, insomma l’antesignano risorgimentale di Fantozzi.
Un’altra vetta è Death of a Salesman, “Morte di un commesso viaggiatore”, di Arthur Miller, del 1949. Il protagonista, un anziano venditore alla fine della carriera, si chiama Willy Loman, ovvero porta lo stigma del proprio essere nel nome stesso - Low-man, uomo basso, uomo mediocre. Anche qui si tratta di una storia tragica. Willy è uno che non vuole accettare l’evidenza di essere stato sempre un poveraccio, peraltro disprezzato dai due figli, che non sono riusciti in nulla. Egli si vanta di essere popolare, di conoscere un sacco di gente, insomma di essere simpatico. Anticipa la massa di persone fiere di avere migliaia di friends su Facebook e di avere centinaia di Like per internet. Anche se un suo amico gli dice più o meno: “A che pro aver cercato sempre di essere uno simpatico? Dovevi fare soldi. Quando hai soldi, diventi subito simpatico.” Loman si uccide contando sul successo di pubblico ai suoi funerali, ai quali invece saranno presenti solo pochi familiari.
Sia il tragico Morte di un commesso viaggiatore che il tragicomico serial di Fantozzi sono apprezzati anche da impiegati e venditori. Mi chiedo: come possono ridere di un loro collega? Certo Villaggio ha l’accortezza di rendere il suo eroe così ridicolo e irrealistico che tutti si diranno “Per fortuna non sarò mai come Fantozzi!”. Nessuno di noi sarà mai come Fantozzi, egli è sempre l’Altro di cui ridiamo. Eppure, il trick di Villaggio è molto sottile. C’è una parte di noi, anche se siamo intellettuali e professori, che sa di essere come Fantozzi. In fondo, tutti noi da qualche parte abbiamo un capo, a qualcosa o a qualcuno ci sottomettiamo. Fantozzi è la caricatura di una mediocrità di cui ciascuno può sospettare che sia la propria, se ci confrontiamo ai grandi in ogni campo. Mostrando in modo tragico o buffo la nostra mediocrità, l’arte ce la riscatta. Mettendola a distanza da noi in un capro espiatorio con la pancia e il berretto, ne diminuisce il peso.
Si potrebbe credere che quando Fantozzi getta l’anatema contro Ėjzenštejn, Villaggio presti al suo personaggio la propria stessa voce, ma non è vero. Villaggio era un intellettuale raffinato, un uomo politicamente a sinistra, insomma, suppongo che apprezzasse La corazzata Potëmkin. Credo che in realtà Villaggio abbia descritto l’embrione psichico di quello che diventerà poi il tipico elettore populista, in particolare di Grillo, ma anche di Bossi e Salvini. La rabbia erratica e impotente di Fantozzi contro “chi comanda” è stata poi intercettata politicamente, e l’apolitico Fantozzi ha trovato finalmente i suoi portavoce politici.
Costoro sono quelli che Peter Sloterdijk (in Ira e tempo) ha chiamato “banche dell’ira”. Il Fantozzi che è in molti di noi è un grumo di ira, che i demagoghi ben sanno gestire. Il populismo in effetti si riduce a questo: “chi sta sotto” è contro “chi sta sopra”. Non i poveri contro i ricchi, ma i Fantozzi contro i dirigenti. L’impiegato “tragico” non è assillato dalla povertà - anche se la sua condizione economica è modesta - ma dalla subalternità, e in effetti il cosiddetto populismo non se la prende con i ricchi. Se la prende con “chi sta sopra”, ovvero con i politici, e in fondo con gli intellettuali, quelli che godono nel vedere film muti. Perché l’impiegato non incontra quasi mai il ricco, non si confronta con lui: ogni giorno si confronta con chi per varie ragioni gli è superiore.
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MEDIOCRITA’, BANALITA’, E TRAGEDIA. LO "STATO" SONNAMBOLICO DELL’ITALIA...
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
ADOLF EICHMANN CHIARISCE COME E’ DIVENUTO “ADOLF EICHMANN”, MA HANNAH ARENDT TESTIMONIA CONTRO SE STESSA E BANALIZZA: “IO PENSO VERAMENTE CHE EICHMANN FOSSE UN PAGLIACCIO”!!!
BERLUSCONI E LA "MEZZA" DIAGNOSI DEL PROF. CANCRINI. Il Narcisismo e l’uso lucidissimo come arma politica dell’"antinomia del mentitore" - "L’Italia è il mio Partito": "Forza Italia"!!!
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Federico La Sala
CINEMA E STORIA. LO "STATO" SONNAMBOLICO DELL’ITALIA E LA CULTURA CHE SERVE PER UN CAMBIO DI SCENA.... E DI REGIA!!!
La corazzata Potëmkin, la rivolta e i «necrotweet» su Fantozzi
A cura di Wu Ming 1 *
Sera del 26/06/17, Piazza Maggiore, Bologna. Migliaia di persone - non meno di quattromila - applaudono in piedi La corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, film breve e dritto al punto, avvincente, popolare, bellissimo. Film girato novantadue anni fa.
La moltitudine ha appena seguito col cuore in gola la storia di un celebre ammutinamento avvenuto durante la rivoluzione russa del 1905, della solidarietà di un’intera città (Odessa) agli ammutinati, e della violentissima repressione che la popolazione subisce per mano dell’esercito zarista.
L’orchestra filarmonica del Teatro comunale di Bologna ha appena eseguito la partitura composta per il film da Edmund Meisel nel 1927 - una forza che staccava da terra sedie e culi - e ora si gode la lunga ovazione.
È stata la serata più intensa di quest’edizione, la trentunesima, del festival Il cinema ritrovato. Io ho portato qui mia figlia preadolescente, che si è emozionata, si è commossa, si è stretta a me durante le scene più violente, si è entusiasmata nel finale.
«FRATELLI!»
«Fratelli» è la parola chiave del film, appare all’inizio, scatena l’ammutinamento e annuncia il grande atto di solidarietà di classe nel finale.
La corazzata Potëmkin fu censurato in molti paesi per timore che scatenasse rivolte popolari e spingesse i soldati all’insubordinazione. Anche in URSS, al principio, non fu proiettato nei cinematografi ma soltanto nei circoli operai. Il poeta Majakóvskij minacciò fisicamente alcuni burocrati perché avesse una regolare distribuzione.
E il film si rivelò presto un grande successo.
Oggi è considerato una delle più grandi opere cinematografiche del Novecento, viene riproiettato di continuo in tutto il mondo, nel 2004-2005 lo hanno sonorizzato i Pet Shop Boys.
E in Italia?
Qui da noi, come ha scritto qualcuno, il film è stato «segnato da un destino davvero imprevedibile, che lo ha trasformato in qualcosa di diverso da quel che è.» Ma procediamo con ordine.
La corazzata Potëmkin è stato una grande sorpresa per la maggior parte dei presenti in piazza. Sui lati c’era chi all’inizio ridacchiava, qualcuno che mormorava la frase «cagata pazzesca» (sentito con le mie orecchie e più volte) e pensava di fermarsi pochi minuti, farsi un sogghigno e andare via, e invece è rimasto lì in piedi per oltre un’ora, magnetizzato, e magari ha pianto, di certo era tra chi ha partecipato alla lunghissima standing ovation, e magari era tra i volti fotografati da Lorenzo Burlando durante la proiezione.
Molti altri erano aficionados del festival o comunque si sono fidati della Cineteca, unica istituzione pubblica di Bologna non disprezzata dai più, anzi, oltremodo rispettata.
La Cineteca, appunto. Nei giorni precedenti, ha voluto fare una piccola e divertente campagna di “debunking”, con video e altri mezzi. Una troupe ha intervistato gente per le vie del centro, e molti erano convinti che il film durasse tre o quattro ore, se non di più. In realtà dura 70 minuti.
Bisogna sfondare il muro del pregiudizio. Non è vero che questo e altri film d’antan sono film per pochi, non è vero che «la gente non capisce». Se gli dài l’occasione di vederli, capisce eccome.
La differenza rispetto ad altri film d’antan è che La corazzata Potëmkin molti credono di sapere com’è anche senza averlo visto. Lo associano a qualcosa che credono di conoscere - cioè l’intento di Luciano Salce e Paolo Villaggio nella celeberrima scena de Il secondo tragico Fantozzi (1976) - e quell’associazione ha tenuto a distanza il film. La corazzata Potëmkin è divenuta, a torto marcio, emblema di lunghezza e pesantezza.
[Intermezzo. Alcuni «necrotweet» seguiti alla morte di Villaggio:
«Ci lascia l’unico che ha detto la verità sulla Corazzata Potemkin»;
«La corazzata Potëmkin è veramente una cagata pazzesca. Aveva ragione anche in quel caso»;
e fallo sapere anche lassù che la corazzata potemkin è una cagata pazzesca»;
«Oggi più che mai la corazzata potemkin è una cagata pazzesca!!!»
E altre centinaia di commenti così.]
Dice: - Villaggio è riuscito in quello che Dalí e Warhol avevano fallito con la Gioconda: non riuscire più a guardarla senza pensare al loro sberleffo.
Rispondo: - Non proprio. Qui è come se si sbeffeggiasse preventivamente la Gioconda senza averla mai vista.
Mi piace pensare che almeno quattromila persone, la sera del 26 giugno, vedendo il film, abbiano capito il vero significato della scena della rivolta al cineforum.
Sì, perché solo vedendo La corazzata Potëmkin si capisce che il bersaglio di Salce e Villaggio non erano banalmente le cose «pesanti» e «difficili», non erano gli «intellettuali», ma il potere - rappresentato dalla Megaditta che tutto controlla - che ingloba e svuota la cultura, anche la cultura della rivolta.
Qui è necessaria un’avvertenza: qualunque cosa abbia dichiarato nei decenni successivi (e ha detto ogni cosa e il suo contrario, anche su La corazzata Potemkin), ricordiamo sempre che all’epoca dei primi due Fantozzi Villaggio era all’estrema sinistra. Ancora undici anni dopo si candidò alle elezioni politiche con Democrazia Proletaria.
A forza di dire che la famosa scena prende in giro la cultura dei cineforum di sinistra, i tic degli «intellettuali di sinistra» eccetera, ci si è dimenticati che quello rappresentato nel film non è un cineforum di sinistra: è il cineforum della Megaditta, rivolto non a compagni ma a colletti bianchi “apolitici”. Guidobaldo Maria Riccardelli non è un compagno né un intellettuale di sinistra: è un uomo dell’azienda, del capitale.
L’unico marxista che appare nel mondo di Fantozzi è Folagra, che guardacaso non partecipa al cineforum aziendale ed è relegato in un sottoscala.
Folagra.
[Chissà quanti, oggi, capiscono che Folagra è l’unico personaggio positivo della saga. Proprio nelle intenzioni, non «ex post». È l’unico che dice a Fantozzi qualcosa di vero sulla sua condizione.
Tuco: - Oggi (quasi) tutti considerano un personaggio positivo Calboni, e vorrebbero essere come lui.
WM: - In fondo berlusconismo e renzismo sono minime varianti ideologiche di questo «voler essere Calboni».
IAmOst: - È il collega d’ufficio che nessuno vorrebbe avere, ma che tutti vorrebbero essere. Forse il più “italiano” di tutti.]
La corazzata Potëmkin - nel film di Salce parodiato in «Kotjomkin» - narra una rivolta, ma la rivolta è addomesticata, disinnescata, la cornice del cineforum aziendale e la modalità di fruizione la sviliscono, e la visione stessa è sminuzzata, non c’è più l’insieme, solo dettagli: «L’occhio della madre... La carrozzella...» E così sono gli impiegati a rivoltarsi, e poiché Salce e Villaggio sanno il fatto loro, la rivolta contro il film ripete quella nel film.
L’episodio del cineforum è un sottile remake del film di Ėjzenštejn, un’allegoria “a chiave” che ne ripercorre tutti e cinque gli atti:
il cineforum è la corazzata;
Fantozzi è il marinario Vakulenčuk che per primo grida la verità su quel che sta accadendo;
gli spettatori sono i marinai insorti;
l’odioso Riccardelli è gli ufficiali spodestati;
la sala occupata è Odessa;
la polizia che «s’incazza davvero» ha il ruolo dei cosacchi che reprimono.
Il finale, però, è molto diverso: gli insorti non hanno scampo e sono condannati a mettere in scena e subire ad nauseam la repressione zarista/aziendale.
Il fatto che in quest’allegoria il ruolo della carne marcia imposta ai marinai ce l’abbia - in una vertiginosa mise en abyme! - il film dove si narra la rivolta che gli impiegati ripetono rende l’intero episodio complessissimo.
Siamo di fronte a una parodia colta e, al fondo, per nulla anti-intellettuale.
Chi non ha mai visto il film di Ėjzenštejn non può rendersene conto.
Molti spettatori del 1976 lo avevano visto.
L’episodio, per il pubblico di allora, aveva una carica critica ad alto voltaggio, che però col tempo si è esaurita. Non poteva che esaurirsi: il contesto che rendeva l’episodio comprensibile in tutti i suoi aspetti e livelli - l’Italia degli anni Settanta, dei movimenti radicali, delle grandi lotte operaie -, quel contesto non c’è più.
E cosa rimane di quella critica, oggi, nell’interpretazione corrente di quella scena?
Pressoché nulla.
La scena, tolta dal suo contesto, rivista e ri-rivista da sola come frammento, citata e stracitata come semplice gag, col tempo ha cambiato significato: oggi è evocata per rigettare la cultura stessa e tutto ciò che è «difficile», in nome del parla-come-magni (detto quasi sempre da gente che mangia malissimo) e del solito «E fattela ‘na risata!»
Come abbiamo scritto in tempi non sospetti:
L’eterna ripetizione della gag ha diffuso l’idea che La corazzata Potëmkin duri molte ore e altri miti che il film manda in frantumi, se solo si supera il pregiudizio e lo si guarda. Ma il pregiudizio c’è, inutile negarlo. Un danno culturale c’è stato. Sì, danno culturale. L’arma della critica è stata girata e puntata contro la critica stessa, allo stesso modo in cui Riccardelli, gerarchetto della Megaditta, aveva girato e puntato il cinema di Ėjzenštejn contro i suoi sottoposti.
Qualcuno ci ha attaccati per aver fatto queste riflessioni sul film, la sua parodia e le diverse ricezioni di quest’ultima il giorno stesso della morte di Villaggio - VERGOGNA!!1!! - come se si trattasse tout court di un attacco al caro estinto.
Quel caro estinto, da molto tempo non lo stimavamo più. Eppure questa riflessione è l’omaggio più serio che potessimo dedicargli. Nondimeno...
«...VERGOGNA!!1!!»
Non è solo pavlovismo da «necrotweet day». C’è qualcosa di più profondo, che verrà capito meglio in futuro, da antropologi e storici delle mentalità che con ogni probabilità non sono ancora nati.
Oggi l’obbligo contro cui ribellarsi non è quello di guardare La corazzata Kotjomkin. Semmai, al contrario, è quello di non prendere mai nulla sul serio. Il «farsi una risata» come risposta a tutto, l’essere sempre ironici per non mostrarsi mai troppo coinvolti in nulla, perché coinvolti equivale a vulnerabili, e dunque ironia sempre, cinismo e disincanto, non devi dare mai l’impressione di credere fino in fondo a quel che dici. Soprattutto, fai vedere che ti stanno sul cazzo gli «intellettuali». Risulta molto più facile se adotti l’espediente di chiamare «intellettuali» tutti quelli che ti fanno sentire vulnerabile. Chiama «pippone» qualunque cosa scrivano o dicano.
In un simile clima culturale - che ci auguriamo venga spazzato via al più presto da un’immane tormenta - un film come quello di Ėjzenštejn, che mostra la fratellanza nella rivolta e a volte fa sarcasmo sul potere ma mai ironia sulla rivolta stessa, deve per forza essere considerato una «cagata pazzesca». Vige l’obbligo di conformarsi alla lettura più decontestualizzata e banale dell’episodio fantozziano.
È contro quest’obbligo che dobbiamo ribellarci, proprio come Fantozzi si ribellò al cineforum aziendale.
E gli applausi di Piazza Maggiore non saranno durati 92 minuti, ma bastano a convincerci che siamo nel giusto. «Братья!»
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* Questo post è la sintesi di una lunga discussione avvenuta su Twitter il 4 luglio 2017, e incorpora riflessioni di diverse persone. Grazie a tutte e tutti, anche a chi, senza pensarci un momento, è partito subito con gli insulti. La stolidità altrui ci spinge a fare meglio, a sforzarci di essere più chiari.
Fonte: http://www.wumingfoundation.com/giap/2017/07/potemkin/#more-29691 (ripresa parziale).
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
Presidente Napolitano, abbiamo il diritto di sapere se andremo a votare una riforma targata JP Morgan
di Tomaso Montanari Vicepresidente di Libertà e Giustizia (The HuffingtonPost - 05/10/2016)
Il presidente emerito Giorgio Napolitano non risponde a Salvatore Settis. Il presidente del consiglio scientifico del Louvre (un archeologo con due lauree ad honorem in diritto costituzionale) gli aveva chiesto di confermare o smentire un articolo del Corriere del 2014 in cui si diceva esplicitamente che la strada della riforma costituzionale era quella indicata dalla banca d’affari americana JP Morgan. Napolitano ha scritto che si tratta di "domande insinuanti e aspre", e non ha risposto. Eppure la domanda era non solo legittima, ma urgente.
Matteo Renzi ha più volte detto esplicitamente che il suo modello di leader politico è Tony Blair, e ha anche più volte annunciato che dopo due mandati alla guida del governo farà come lui: andrà in giro per il mondo a fare conferenze e consulenze.
La domanda è: sarà identico anche il finanziatore? Il Financial Times ha stimato in due milioni e mezzo di sterline il compenso annuo che la JP Morgan versa a Blair, e la prima volta che Tony e Matteo hanno cenato insieme (a Palazzo Corsini, a Firenze) l’organizzatore era proprio l’amministratore delegato della banca americana.
Sarebbe del più alto interesse sapere quali politici italiani siano attualmente sul libro paga della banca: e in questi giorni Ferruccio De Bortoli ha mostrato come tali nessi abbiano pesantemente condizionato, e rischiano di continuare a condizionare, la sorte del Monte dei Paschi di Siena. Ma proprio perché questo grado di trasparenza è, da noi, inimmaginabile, una risposta di Napolitano avrebbe reso decisamente più chiara la partita referendaria.
Dobbiamo infatti ricordare che la JP Morgan ha scritto (in The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) che "Le Costituzioni e i sistemi politici dei paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione. [...] Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi. [...] Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche".
Era esattamente questo il passo citato nell’articolo del Corriere del 1° aprile 2014: "Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è importante, anzi "improrogabile", dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro "la persistente inazione del parlamento". Spiegando che "la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata" (ciò che in Senato con identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale.
A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella "debolezza dei governi rispetto al parlamento" e nelle "proteste contro ogni cambiamento" alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace".
Ora, due anni dopo e in piena campagna referendaria, Napolitano trova "insinuante" la domanda di Settis: ma gli italiani hanno il diritto di sapere se stanno votando su una riforma targata JP Morgan. La vita politica italiana è malata: su questo concordano tanto i sostenitori del Sì che quelli del no. Ciò su cui si dividono è la diagnosi: e, dunque, la terapia.
La riforma costituzionale Napolitano-Renzi-Boschi è una "cura" motivata dalla convinzione che il male dell’Italia sia un eccesso di democrazia. I cittadini conterebbero troppo, il parlamento sarebbe troppo incisivo, i diritti dei lavoratori troppo garantiti, gli enti locali più vicini al territorio (le Regioni) troppo potenti. Ecco dunque la ricetta: far votare meno i cittadini (per esempio togliendo loro il potere di eleggere il Senato, che tuttavia continuerà a fare le leggi), far contare meno i loro voti (a questo serve l’Italicum), accentrare tutti i poteri in capo al governo di Roma (ecco il nuovo Titolo V della Costituzione), e così via. Nel momento in cui gli italiani sono chiamati a decidere se dar corso o meno a questa cura da cavalli, hanno il diritto di conoscere i titoli e il curriculum dei medici che la propongono.
Ora, la domanda è: possiamo fidarci del medico JP Morgan, e della sua ricetta? Davvero dobbiamo cambiare il sistema di garanzie democratiche costruite dopo il fascismo perché ce lo chiede una banca condannata a pagare una multa da 13 miliardi di dollari per aver piazzato pacchetti finanziari inquinati, ed aver quindi contribuito ad innescare quella stessa crisi che ora ci spinge a cambiare la Costituzione?
Io non credo. Sono d’accordo, invece, con ciò che un perfetto coetaneo e compagno di partito di Napolitano -Alfredo Reichlin- ha scritto sull’Unità del 30 settembre: "A me questo non sta bene. È chiaro? Io ho preso le armi per dare all’Italia un parlamento. Io ricordo i tanti che allora volevano un regime politico più "avanzato" nel senso di dare poteri più diretti al popolo (i CLN). E ricordo la risposta di Togliatti: no, il Pci vuole una repubblica parlamentare. E su ciò si fece la Costituzione. Il parlamento funziona male? Sì, ma solo il parlamento è lo specchio del paese, è la casa di tutto il popolo "ricchi e poveri, borghesi e proletari". Non è la privativa di nessuno. Di nessuno: nemmeno della JP Morgan. O dei suoi consulenti.
TWEET (18.09.2016). L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
Se la democrazia è incompatibile con il mercato
di Andrea Colombo (il manifesto, 27.05.2016)
Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni, in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con mesi di anticipo.
Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono «liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il cui perverso esito è stato «l’immobilismo».
Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi, anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno trovato ascolto alle orecchie del gran capo.
Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.
Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella media.
Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.
I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un libero Parlamento.
Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa da chi deve decidere per tutti.
Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.
Golpe, l’ultima tentazione del potere
La democrazia ha vinto. Ma lo Stato di diritto resta un nemico per le destre
di EZIO MAURO (la Repubblica, 10 maggio 2016)
IN PRINCIPIO, naturalmente, c’era il Regno dei Cieli. Ma subito sotto, il primo re nel mondo degli uomini fu Nemrod figlio di Cus che era figlio di Cam, uno dei tre figli di Noè. Lui, gran cacciatore al cospetto del Signore, "fu il primo a esercitare il potere sopra la terra" e il suo regno cominciò a Babel e proseguì in Assiria, dove costruì Ninive e la città grande di Resen. Nelle stesse pagine sacre della Bibbia insieme con il nome del primo sovrano è iscritto il primo colpo di Stato che fu di un figlio contro un padre, quando Assalonne si ribellò al re Davide, lo costrinse a fuggire da Gerusalemme piangendo a piedi nudi con il capo velato, seguito dai familiari con tutti i leviti che portavano l’Arca di Dio: finché in battaglia nella foresta di Efrain l’esercito ribelle fu sconfitto e tre giavellotti colpirono nel cuore Assalonne, uccidendo il primo golpista della storia.
Più che con un "putsch" nel senso classico del termine, dopo il diluvio il mondo della politica cominciò così con un’"intentona", come in Sudamerica chiamano i golpe falliti. La storia politica dell’umanità è dunque segnata fin dal suo inizio dal sangue versato per rovesciare il sovrano o per difenderlo perché il comando - dalle tribù agli Stati - porta da sempre con sé il volto demoniaco.
Ovvero il lato oscuro di quel trono che si mostra in pubblico ai sudditi illuminato dai bracieri e profumato dagli incensi. In quell’oscurità degli "arcana imperii" si muovono trame, congiure, tradimenti, complotti, giuramenti e presagi, insieme con le ambizioni, le paure, le ribellioni che nei millenni hanno agitato i Principi e il popolo portandoli a temere e concepire il colpo di Stato, strumento comune di lotta politica in ogni era e a ogni latitudine, ben prima che nascesse il concetto stesso di Stato nel senso moderno del termine.
Esattamente, infatti, il colpo di Stato è "un’azione ardita e straordinaria che i principi sono costretti a mettere in pratica per affari senza via d’uscita, contro il diritto comune e senza tener conto di alcun ordine né forma di giustizia". La diagnosi è del bibliotecario di Richelieu e Mazarino, Gabriel Naudé, che nel 1639 pubblica in dodici esemplari le Considerazioni politiche sui colpi di Stato, un’analisi erudita e libertina degli strumenti eccezionali usati in circostanze particolari per difendere nel sangue il trono o per abbatterlo.
Naudé scrive un secolo dopo il Principe e alla fenomenologia delle congiure di Machiavelli oppone una vera e propria teoria del golpismo, in particolare di quello che si chiamerà poi l’"autogolpe", cioè l’atto di forza compiuto dal potere sovrano per salvaguardare se stesso. Una teoria completa e sorprendente, che si apre col consiglio di San Tommaso ai tiranni (uccidere i ricchi, i potenti e i sapienti, non permettere scuole e conoscenza, creare scompiglio nel popolo, rendere poveri i sudditi, diffidare degli amici) e finisce con un vero e proprio manuale per l’uso del colpo di mano, dall’individuazione dei congiurati alla tempistica, all’inganno: "La più grande virtù che regna nelle corti è diffidare di tutti e dissimulare con ciascuno".
Le Considerazioni abbondano di esempi storici che raccontano come il "colpo" sia stato per secoli una risorsa politica comune, che non occorreva né spiegare né giustificare: quando Periandro, tiranno di Corinto, chiede come rendere sicuro il suo regno a Trasibulo, tiranno di Milito, quest’ultimo senza parlare va nel campo e tronca le spighe più alte: Poliandro capisce e fa uccidere i cittadini più illustri di Corinto. Ma spesso il potere e il contropotere insieme con la spada si servono del sacro, fingendo di essersi assicurati il favore del Cielo con inganni, visioni e superstizioni, con Silla che illustra il sostegno di Apollo alle sue azioni, Sertorio che riceve dalla sua cerva il racconto di ciò che si decide nel cenacolo degli dei, Carlomagno che entra in Spagna con la grande chiave caduta dalle mani di un vecchio idolo, come voleva la profezia. Tutte le monarchie, dice Naudé, hanno preso avvio da qualche espediente o soperchieria, "facendo marciare la religione e il miracolo in testa a un lungo seguito di barbarie e di crudeltà ".
D’altra parte, nei "coups d’Etat" è bene che tutto si faccia "di notte, all’oscuro, tra le nebbie e le tenebre " pregando la dea Laverna di coprire col buio i peccati dei congiurati, occultando le loro frodi. Si deve sentir "cadere il fulmine prima di udire il brontolio del tuono", scegliendo i mezzi più facili, svelando il piano ai congiurati solo all’ultimo, manipolando intanto il popolo con predicatori o libelli clandestini, in modo "da condurlo per il naso" dove si vuole, diffidando sempre perché il popolo è incostante è variabile, continuamente pronto a approvare e disapprovare insieme, a mormorare, a credere con leggerezza e lamentarsi all’improvviso. Ai congiurati servono "fortezza, giustizia, prudenza", per sfruttare le minime occasioni propizie, come Druso che riuscì a soffocare una rivolta delle legioni in Pannonia usando lo sconcerto provocato da un’eclissi di luna.
Inganno, sangue, frode. E qui le Considerazioni sfiorano e citano la teorizzazione di Giovanni Botero, che nel 1589, mentre lavora da ex gesuita alla Congregazione dell’Indice nella Curia romana si domanda per primo cosa sia la ragion di Stato e risponde che "è notizia di mezzi atti a fondare, conservare e ampliare un dominio fermo sopra popoli". Siamo alle soglie della moderna realpolitik, esasperata dalla violenza tipica dei colpi di Stato: la strada di chi detiene il potere - dice infatti il bibliotecario di Richelieu - "è più larga e più libera" di quella dei sudditi a causa della responsabilità che pesa sulle sue spalle. Per questo il sovrano può marciare con passo sbilenco e irregolare, perché "talvolta occorre che nasconda e deformi". È la teorizzazione della possibilità di trasgredire il diritto comune per il cosiddetto bene comune, valutato spesso a posteriori, da chi ha vinto. È quasi la teorizzazione dello "stato d’eccezione" di Carl Schmitt (il sovrano non è il garante dell’ordinamento ma colui che lo crea a partire dall’eccezione), con Naudé che ammette interventi straordinari fuori dal "diritto delle genti" e dalle leggi ordinarie per un interesse pubblico supremo. D’altra parte, spiega con lo scetticismo dei libertini, bisogna spesso servirsi "di una giustizia artificiale, politica, rapportata al bisogno dei governi, perché essa è abbastanza cedevole e molle da sapersi adattare".
Ci vuole teoria, sembra dire Naudé, dunque studio e scienza per un buon golpe. Ci vuole soprattutto metodo, risponderà nel 1931 Curzio Malaparte, nel suo insuperato Tecnica del colpo di Stato (Adelphi), proibito all’uscita da Mussolini e da tutte le dittature europee. Il problema della conquista e della difesa dello Stato moderno non è un problema politico ma squisitamente tecnico, dice Malaparte, un’arte specifica che non dipende dalle condizioni generali del Paese come credeva Lenin ma dalla capacità di organizzare l’insurrezione, come capì Trotsky, che infatti mentre Kerenskij difendeva i palazzi di Stato infiltrò con le sue "esercitazioni invisibili" le guardie rosse nei gangli dei servizi tecnici di Pietrogrado, dalle stazioni alle centrali dei telefoni, ai gasometri, ai telegrafi, collassando la città prima del governo. Il puro contrasto militare, come anche l’attacco di massa, non funzionano più: gli Stati si rovesciano e si difendono con una tecnica specifica che ogni dittatore aggiorna a se stesso, con Napoleone che pretende di compiere con la forza delle armi una rivoluzione parlamentare, Mussolini che si impadronisce dello Stato "molto prima dell’entrata delle camicie nere nella capitale" con una tecnica rivoluzionaria violenta che in tre anni porta il fascismo a fare il vuoto intorno a sé cancellando ogni forza organizzata politica o sindacale, proletaria o borghese.
Gli Stati dunque non si salvano e non si perdono con la tattica fondata sui sistemi di polizia, con i quali Cicerone sventò la congiura di Catilina. E in ogni caso conviene tener presente l’ammonimento di Machiavelli, per cui la congiura è "difficile e pericolosissima in ogni sua parte, donde ne nasce che molte se ne tentano e pochissime hanno il fine desiderato ". Si capisce il vincolo quasi sacro che unisce per la vita e per la morte i congiurati, con Catilina che nel racconto di Sallustio "fece girare delle tazze con dentro sangue umano misto a vino" e solo quando tutti ebbero bevuto svelò il suo piano, dopo l’"exsecrationem" rituale con cui si maledicevano i traditori. Il segreto resta il fondamento della congiura, a differenza del mistero e dell’occulto in cui affonda invece il complotto, secondo la distinzione di Alessandro Campi e Leonardo Varasano in Congiure e complotti. Da Machiavelli a Beppe Grillo (Rubbettino) per cui i colpi di Stato avvengono nella storia, con soggetti definiti e individuabili, mentre le cospirazioni complottistiche sono teorie e costruzioni astratte con soggetti indefiniti e entità misteriose. Una distinzione intellettualmente convincente, se non fosse che lo specifico del nostro Paese presenta una storia in cui abbondano negli snodi criminali proprio quei "soggetti indefiniti" e quelle "entità misteriose", di cui spesso conosciamo solo le sigle e la ragione sociale eversiva, in debito come siamo di verità.
Verrebbe da concludere che nella parte di mondo in cui viviamo la democrazia ha vinto e nessuno pensa più ai colpi di Stato. Ma se guardiamo oggi all’Europa di mezzo, vediamo che la nuova destra considera proprio i valori liberali dello Stato di diritto i principali avversari, non i valori giacobini. E ovunque, in Occidente, la democrazia esausta rischia di ricordare quelle conchiglie di spiaggia perfette nella loro forma esterna, mentre all’interno l’organismo sta morendo. D’altra parte proprio l’uomo di Richelieu ci ricorda che "le leggi ci perdonano i delitti che la forza ci obbliga a commettere". E non consola nemmeno pensare che c’è poca forza oggi nella politica occidentale, manca una leadership capace di concepire l’inconcepibile in democrazia. Perché vale sempre il monito di Malaparte: le risorse della mediocrità sono inesauribili.
Questione immorale
di Norma Rangeri
(il manifesto, 05.05.2016)
Almeno il fatto che in Italia c’è una questione morale, che poi, profanamente, potrebbe essere la traduzione del settimo comandamento (non rubare), è una banale constatazione. La diagnosi di una malattia grave sulla quale è difficile non convenire anche se poi si può chiamare in tanti modi.
Buttarsi in politica per fare affari, è, purtroppo un malcostume nazionale. Lo ha spiegato bene Stefano Rodotà scrivendo di «una proterva controetica esibita senza pudore anche in sedi governative e parlamentari». Lo ripete il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, in un’intervista all’Unità quando sostiene che «va evitata la commistione, specie a livello locale, tra attività economiche e attività politiche». Forse sarà per questo che in Italia non si riesce a fare una legge sul conflitto di interessi mentre si piazzano imprenditori al ministero dello Sviluppo. E dire che abbiamo avuto al governo, per vent’anni, il conflitto di interessi in persona (altra semplice constatazione, difficilmente confutabile). Conflitto di interessi, familismo amorale, cronica carenza di senso civico disegnano un quadro d’insieme disastroso. Specialmente se il politico ricopre un ruolo istituzionale, alla periferia come al centro del potere. Lo stiamo verificando nella vicenda delle recenti nomine del governo, con gli amici del premier candidati a ruoli di governo delicati e importanti.
Una volta diagnosticato il pessimo stato di salute dell’articolo 54 della Costituzione a proposito delle funzioni pubbliche da adempiere con «disciplina e onore», di tutto il resto si può discutere. Si può discutere se finire in galera perché si è un po’ taroccato un appalto per una piscina comunale sia eccessivo. Sicuramente lo sembra, probabilmente anche perché siamo un paese dove su una popolazione carceraria in crescita i detenuti per reati fiscali o finanziari nessuno li ha visti.
Sull’arresto del sindaco di Lodi è anche arrivato puntuale l’autogol del Pd con la richiesta dell’apertura di una pratica contro le magistrate che hanno mandato in carcere il sindaco piddino. Non stupisce che a chiedere un provvedimento disciplinare sia stato un componente del Csm iscritto al Pd, Giuseppe Fanfani, esponente di un blasonato casato politico aretino (salvo poi, scaricato da Renzi, fare marcia indietro). Tutta acqua al mulino dei 5Stelle.
Con un fenomeno di corruzione strutturale che investe la politica come la società, è difficile non arrivare ai ferri corti tra politici e magistrati. Ai rappresentanti del popolo non fa piacere ricevere l’accusa di essere i protagonisti del brutto film sul vasto mondo di corrotti e corruttori. Ed è vero che, fatalmente, i magistrati incontrando sulla loro strada professionale così tanti politici, finanzieri e imprenditori difficilmente riescono ad evitare collisioni di interessi e di poteri.
Il fatto è che tra un mese gli italiani di molte città saranno chiamati alle urne per decidere chi le deve amministrare. E il buon senso consiglia a Renzi di tenersi lontano dagli zelanti alleati del gruppo di Verdini. Che parlano di “complotto dei magistrati” mentre si coprono di ridicolo nel vano tentativo di smentire la loro partecipazione alla riunione di ieri con il ministro Orlando per definire la linea del governo sulla prescrizione. Renzi getta acqua sul fuoco («il complotto? ma de’ che»), ma se il Pd non si cura della qualità della sua classe dirigente (come ha fatto a Roma dopo Mafia-Capitale) rischia l’autocomplotto.
Il presidente-segretario, che già annuncia di schierare diecimila renziani per i porta a porta referendari, sa che ben prima, solo tra qualche settimana, deve affrontare le insidiose urne del 5 giugno. E l’unico boato che si ascolta per strada di questi tempi è l’intenzione di andare al mare.
Nespresso fa causa per uno spot di una concorrente con il sosia di Clooney
Chiesti 50mila dollari di risarcimento e rimozione spot
di Redazione ANSA ROMA 22 gennaio 2016
Clooney e Nespresso, binomio inconfondibile. Non per la compagnia di caffè israeliana, la Israeli Espresso Club, che ha cercato invece di confondere le idee a suo vantaggio ricorrendo ad un sosia della star hollywodiana per un suo spot. Mossa che che gli è subito costata una citazione in giudizio da parte della Nespresso che rivendica l’unicità del suo volto-immagine.
Durante la pubblicità della compagnia israeliana compare una scritta sullo schermo che avverte che l’attore, dai capelli argento e con in mano quello che sembra essere un sacchetto di Nespresso, "non è George Clooney. La Nespresso chiede 50,000 dollari di danni e la rimozione dell’annuncio pubblicitario.
Lo spot della società concorrente con il sosia di Clooney (da Youtube)
Il trionfo elettorale di B.
27 marzo ’94: il Caimano mostra i denti all’Italia
di Pino Corrias (il Fatto, 27.03.2014)
Il 27 marzo 1994, poche ore prima che l’Italia voltasse pagina per sempre, ipnotizzata dalla perpetua colonna sonora di Forza Italia, musica di Renato Serio, parole di Silvio Berlusconi, per infilarsi in un ventennio ad alta intensità lisergica e banditesca, soffiava, sulle impolverate macerie della politica, un venticello che annunciava tempesta. Specie a Milano, dove noi cronisti annotavamo, dopo i 5 mila arresti di Tangentopoli, la quotidiana carognata degli automobilisti che riconoscendolo per strada sputavano in faccia al giovane Bobo Craxi, colpevole di niente. E assistevamo increduli alla irresistibile ascesa di Umberto Bossi che sputava anche lui, ma solo ire secessioniste, contro “i porci di Roma”.
Di quasi nulla si accorgevano gli eleganti narratori della bella primavera romana, politici e giornalisti protetti dagli eterni velluti dei Palazzi, che avevano già assorbito gli sfracelli del Nord con un’alzata di spalle, archiviandoli come suoni gutturali dei barbari. E il nuovo potere dei magistrati neanche li impensieriva, persuasi com’erano che il vuoto in politica non poteva esistere: le foto segnaletiche dei vecchi politici non sarebbero state sostituite, semmai truccate con qualche artificio, la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto avrebbe perfezionato il compromesso storico, la Dc e i socialisti erano pronti a cambiare pettinatura, qualche mariuolo si sarebbe offerto di pagare il conto, e tutto sarebbe tornato come prima.
Il mio ex direttore Paolo Mieli, appena passato al Corriere , pronosticava che Berlusconi avrebbe incassato al massimo il 10 per cento dei voti per poi affidarli a Francesco Cossiga esperto di labirinti romani: “Cosa volete che ne sappia Berlusconi di Palazzo Chigi?” diceva in riunione, rasserenando tetre avvisaglie di imminenti sfracelli che filtravano dal mondo reale. Il suo giovane allievo Marcello Sorgi, responsabile romano de La Stampa, aspettava “il sicuro ritorno di De Mita”, o al massimo del suo amato Nicola Mancino. Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica , si limitava a prevedere l’insuccesso del “ragazzo Coccodè”. Mentre l’altro genio della politologia, Ernesto Galli della Loggia, rassicurava che quello di Berlusconi “era un partito di yuppies” che non conteneva nulla delle speranze, dei bisogni, delle idealità “della politica nobile”.
Come le tre scimmiette
Facevano tutti finta di non vedere, non sentire, non capire. Otto mesi prima, Raul Gardini, l’uomo più riccod’Italia,sierasparatoallatempiaalle9delmattino, in accappatoio, dopo avere bevuto il succo d’arancia preparato dal suo maggiordomo. Avrebbe dovuto andare a Palazzo di giustizia, dove Di Pietro lo voleva interrogare sulla tangente Enimont destinata al penta partito e sulla valigia di soldi consegnata al Pci in via delle Botteghe Oscure. Lo sparo era riecheggiato nei saloni di Palazzo Belgioioso, a pochi isolati dalla chiesa di San Babila dove in quei minuti si stavano officiando i funerali di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, che si era suicidato nella sua cella a San Vittore, soffocato dai rimorsi e da un sacchetto di plastica. Per salvare Gianni Agnelli, la Fiat aveva consegnato alle manette dei magistrati una modica quantità dei suoi manager maggiori, e pure Cesare Romiti si era genuflesso nella contrizione. Carlo De Benedetti era stato addirittura arrestato, anche se solo per una manciata di ore.
E l’impero di Silvio su quale cornicione stava? Sul più alto, sul più pericoloso. Nel tetro villone di Arcore, dove ancora aleggiava come una premonizione il fantasma della marchesa Casati Stampa distrutta dalle ossessioni sessuali del marito, Berlusconi stava respirando da molti mesi il rischio incombente. Fininvest stava per crollare sotto il peso dei debiti: 7 mila miliardi di lire, 4,2 lire di debito per ogni lira di capitale. Le banche più esposte - Monte Paschi, Banca di Roma, Bnl, Cariplo, Comit - avevano imposto Franco Tatò al vertice del Biscione, come garanzia del debito. E Tatò, dopo aver dato un’occhiata alla voragine dei conti aveva sentenziato: “Dobbiamo portare i libri in tribunale”. Berlusconi, che sa tutto di quello che c’è scritto e (specialmente) non c’è scritto sui libri contabili, non ci pensa proprio.
Nei 24 mesi appena passati ha visto il fuoco di Tangentopoli divorare uomini, carriere, aziende, patrimoni, partiti. Ha visto la macchina del Palazzo di Giustizia di Milano inghiottire un mondo e restituirlo in pezzi. Il suo mondo. Quello di Bettino Craxi, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti che lo hanno coccolato nella bambagia. Di Oscar Mammì, repubblicano che gli ha cucito una intera legge televisiva a sua misura, tre reti Fininvest contro tre reti Rai. Di tanti altri soldatini - da Giorgio La Malfa a Francesco De Lorenzo - che pretendevano e incassavano come fossero generali.
Da sei mesi aveva visto con chiarezza le alternative: consegnarsi alle indagini dei magistrati, sperando di uscirne vivo. Ma per farlo avrebbe dovuto sciogliere fin troppi misteri di bilancio del suo impero, a cominciare dai primi miliardi spuntati dalla Svizzera a metà degli anni Settanta, quando Stefano Bontade, il principe di Villagrazia, veniva a fargli visita, con quell’altro mafioso, Vittorio Mangano che si sarebbe installato per anni nel villone a guardia dei soldi e della incolumità dei figli, Marina e Pier Silvio. Oppure resistere, consegnare una rete alla sinistra postcomunista, come gli consigliavano Fedele Confalonieri e Maurizio Costanzo, per poi trattare la sopravvivenza con il nuovo potere politico. “Si è sempre fatto così, guarda la Rai” gli ripetevano i suoi colonnelli nei consigli di guerra del lunedì pomeriggio. Tranne uno, che da molti mesi gli diceva: “E noi faremo diverso”.
L’uomo chiave è Dell’Utri. Si tratta di Marcello Dell’Utri, palermitano, che da un decennio guida i mille venditori di Publitalia, organizzati regione per regione, città per città, riempie di spot le reti, fattura 2.500 miliardi di lire l’anno, organizza convention con migliaia di imprenditori, conosce i gusti, i sogni, i bisogni, le idealità degli italiani molto meglio di tutti i Galli della Loggia che galleggiano nel loro inchiostro. Dice: siamo lo scrigno dei desideri, abbiamo i soldi, le star televisive, i nostri capi area, i club del Milan che sono il doppio delle sedi Dc. Se siamo orfani dei partiti che ci proteggevano le spalle, è venuto il momento di tutelarci da soli. Propone l’impensabile, trasformare la Fininvest in un partito e il pubblico televisivo in un elettorato. Il Dottore mette in scena un ponderoso tormento, o almeno ce lo racconterà: “Non dormivo la notte. E qualche volta, sotto la doccia, piangevo”. Poi decide, si parte. La rumba comincia a gennaio, con il messaggio urbi et orbi “Questo è il Paese che amo”. Incassa la benedizione di Craxi e quella di Agnelli: “Se perde, perde lui. Se vince vinciamo tutti noi”, dirà l’Avvocato, credendo di essere un dritto.
Gli avversari in campo sono già metà della sua vittoria. Mino Martinazzoli, fuoriclasse della vecchia guardia democristiana, fuma, legge, fa politica, Berlusconi nessuna delle tre cose, gli italiani non hanno dubbi a scegliere tra i due. Achille Occhetto, traghettatore del post comunismo, veste giacchette di tweed marroncine. Ha i baffi, il ciuffo, ma passando (e parlando) non lascia traccia. Bossi lo chiama “paperello”. Nell’unico confronto tv con Berlusconi inciampa parlando della sua piccola barca a vela. Silvio (che di barche ne ha una dozzina) lo trafigge: “Meno male che lei ha il tempo di andare in barca. Io lavoro”.
Il quieto Segni, che pure era il trionfatore del referendum per il maggioritario e l’abolizione delle preferenze, ha il suo destino nel nome: Mariotto; fatta la legge elettorale non la capisce, come gran parte dei suoi alleati. Berlusconi invece la capisce eccome e la incorpora nel suo imbroglio di nuovo marketing politico: alleanza al nord con la Lega secessionista che “si pulisce il culo” col tricolore, e al centro-sud con gli orfani di Almirante, i post camerati guidati da Gianfranco Fini, che davanti al tricolore fanno ancora finta di lacrimare per l’emozione.
Una certezza per tutti
Durante la campagna elettorale Berlusconi orienta le sue parole d’ordine secondo la bussola dei sondaggi macinati dalla Diakron di Gianni Pilo. Parla male dei vecchi politici, tanto non gli costa niente. E benissimo dei magistrati, anche si gli costa moltissimo. Promette il taglio delle tasse sotto “la soglia naturale” del 33 per cento. E un milione di nuovi posti di lavoro: “In Italia ci sono 4 milioni di aziende. Basta che una su quattro assuma almeno un giovane e il gioco è fatto”. Con lui sembra tutto facile, tutto a portata di mano. È monopolista, ma predica il liberismo. Gli va bene l’Europa, il federalismo, l’autarchia. È massone, ma anche unto del Signore. È filo americano, ma fa affari in Russia. È libertino e credente. Ha due famiglie e tre zie suore. Ai suoi alleati dice: “Se vinciamo ce ne sarà per tutti”. Agli italiani: “Sono ricco, non ho bisogno di rubare”.
Tante ragioni preparano il suo trionfo. Offre sogni invece che sacrifici. Conosce la pancia degli italiani, le loro debolezze, la loro insofferenza alle regole: lui la pratica e se ne vanta. È nuovo, o almeno sembra. È allegro, o almeno sembra, in un’Italia cupa, che in 15 anni è diventata la nazione più anziana d’Europa. Che contiene la guerra strisciante delle tre mafie: 5 mila morti ammazzati nell’ultimo decennio in Sicilia, 3 mila in Calabria, altrettanti in Campania. Fino alla nuova stagione delle stragi, aperta con il boato di Capaci, durante la quale la mafia e lo Stato ridisegnano le loro reciproche compatibilità. Una classe dirigente corrotta. Una università a pezzi e una scuola in malora. Lui se frega, mostra tutti i denti del sorriso e dice: “Abbiamo il sole in tasca”.
Quando si apre il cristallo elettorale, ecco il portento: Forza Italia incassa il 21 per cento dei voti, Alleanza nazionale il 13,5, la Lega supera l’8. Il Polo è maggioranza. La sinistra esce annichilita e sconfitta. Come Napoleone, Silvio è sceso in campo e in tre mesi ha conquistato l’Italia, ma stavolta con un alleato formidabile, gli italiani. Il governo nascerà a maggio, con il voto decisivo di tre senatori a vita - Agnelli, Cossiga, Leone - a dire che il nuovo potere sì è già alleato con quello vecchio e peggiore. Comincia l’era delle grandi bugie. E della finta opposizione guidata da Massimo D’Alema, la volpe del Tavoliere e della Bicamerale. Qualche anno dopo persino l’inno di Forza Italia verrà accusato di plagio per aver copiato un brano americano, This Is The Moment, tratto dal musical Dottor Jeckyll & Mr Hide. La verità si nasconde nei dettagli.
Avanti popolo
La parola antica e moderna che mette in crisi la democrazia
Da quello delle primarie a quello delle piazze da quello sovrano a quello escluso
Indagine su un termine politicamente ambiguo
di Roberto Esposito (la Repubblica, 21.03.2014)
Alla base delle difficoltà a definire il popolo, c’è un’antinomia che lo caratterizza da sempre. Esso contiene al proprio interno due poli non sovrapponibili, e anzi per certi versi contrastanti - da un lato la totalità degli individui di un organismo politico e dall’altro la sua parte esclusa. Questo secondo elemento - espresso soprattutto nell’aggettivo “popolare” - non soltanto non coincide col primo, col popolo titolare della sovranità, ma ne costituisce una potenziale minaccia interna. Come è stato ricordato anche da Agamben (Che cos’è un popolo, in Mezzi senza fine, Bollati), tale dialettica non riguarda solo le nostre democrazie, ma coinvolge fin dall’origine le istituzioni occidentali.
Se in Grecia il demos indica al medesimo tempo l’insieme dei cittadini dotati di diritti politici e i ceti più bassi della scala sociale, a Roma la stessa dialettica è riconoscibile nel rapporto tra populus e plebs - dove questa è contemporaneamente parte e resto escluso del primo. Machiavelli spesso non distingue tra popolo e moltitudine, mentre Hobbes li contrappone: a differenza della moltitudine, un popolo è tale solo quando è unificato da un sovrano.
Con la Rivoluzione francese il popolo, identificato con la nazione, diventa esso stesso il titolare della sovranità, così da eliminare ogni differenza tra gli individui. Ma fin da allora il meccanismo della rappresentanza parlamentare, poi diffuso in tutte le democrazie, tende a riprodurre uno scarto tra coloro che esercitano il potere e coloro che lo subiscono. Non solo capita spesso che i rappresentanti rappresentino solo i propri interessi, ma un numero crescente di cittadini ha perso ogni fiducia nelle istituzioni. Benché formalmente rappresentata dagli eletti nelle elezioni, una parte della cittadinanza si sente esclusa dal patto sociale al punto da astenersi regolarmente dal voto.
Il problema che abbiamo di fronte, non soltanto in Occidente, come dimostrano le recenti rivolte nei paesi arabi e orientali, è che tutte le parti in conflitto dichiarano di rappresentare, e anzi di costituire, il popolo contro le altre. Cosicché, come è stato sostenuto sia a destra che a sinistra, a definire un popolo non sono tanto coloro che ne fanno parte, quanto quelli che ne vengono tenuti fuori. Durante il nazismo il popolo tedesco si identificava attraverso l’espulsione violenta di una sua parte infetta. Ma ciò è accaduto anche in altri momenti.
Durante la guerra d’Algeria, ad esempio, i termini “popolo francese” e “popolo algerino”, pur equivalenti, assumevano un ben diverso significato a seconda di chi li pronunciava. Ancora pochi mesi fa, d’altra parte, le folle di piazza Tahir dichiaravano di essere il popolo egiziano contro quello legittimamente rappresentato dal governo eletto. E che dire delle moltitudini che dovunque, anche contro i propri rappresentanti, reclamano accesso ai beni, al lavoro, alle cure mediche? Dove sta il popolo, in parlamento o nelle piazze, nelle istituzioni o nei cortei? Secondo Badiou quella di popolo è una idea dinamica: la nazione che esso incarna è sempre in qualche modo da costruire, mai del tutto realizzata dallo Stato presente.
Credo si debba prendere atto del fatto che la faglia da sempre aperta nella storia dei popoli non è del tutto eliminabile - se non in un futuro remoto i cui contorni ancora non si profilano. Ma che è possibile, e necessario, ridurla al massimo. A tale compito è ordinata la politica. Essa, come la democrazia, non può coincidere con una pura tecnica di governo. Se così fosse, la sovranità popolare sarebbe del tutto risolta nella rappresentanza degli eletti, così da escludere ogni altra forma di espressione politica - partiti, sindacati, movimenti spontanei. Ma così non è. Il potere costituito non risolve mai interamente in sé quello costituente, come il popolo presente non cancella mai completamente quello futuro.
Anche la celebre espressione “Noi, il popolo”, che inaugura la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, ha una portata performativa. Contiene assai più di una mera descrizione. È insieme il riconoscimento di quanto esiste, ma anche una promessa di quanto può darsi.
Come scrive Judith Butler nel saggio più intenso della raccolta, «“Noi il popolo” non presuppone né fabbrica un’unità, ma fonda o istituisce una serie di domande sulla natura del popolo e su ciò che esso vuole essere». Il trasferimento della sovranità popolare ai rappresentanti non è mai pieno e definitivo. Rimane sempre un certo numero di donne e di uomini che preme ai margini di un popolo per prenderne parte in senso effettivo. Si pensi non solo agli immigrati cui non è ancora stata riconosciuta cittadinanza, ma anche agli emarginati, ai derelitti, ai disperati che riempiono sempre più le nostre strade.
Mai come oggi, quando si accresce in maniera insopportabile la forbice tra i più ricchi dei ricchi e più poveri dei poveri, il popolo appare separato da se stesso. L’effetto più profondo della crisi sta proprio nell’allargare la frattura tra i “due” popoli.
Eppure, se c’è qualcosa che può ridare sostanza a una politica in drammatico arretramento, è proprio l’esigenza di ricucire questa ferita. Come la parte esclusa potrà farsi popolo anche nell’altro significato del termine? Perché ciò sia possibile occorre una duplice condizione. Da un lato che chi è dentro le istituzioni volga davvero lo sguardo a chi è fuori. Dall’altro che chi è fuori, abbandonando forme di proteste inefficaci, entri nelle istituzioni per cambiarle. Non è contrapponendo i due popoli che si sana la malattia della democrazia. Ma creando le condizioni di un nuovo patto sociale che rompa dovunque sia possibile le barriere che ancora li dividono.
Il popolo delle primarie, il popolo della sinistra, il popolo italiano, il popolo delle piazze in rivolta. Difficilmente un termine politico è suscettibile di connotazioni così diverse. Già Pierre Rosanvallon, del resto, in un saggio sulle forme di rappresentanza democratica, aveva dichiarato il popolo “introvabile”. Né il popolo-opinione né il popolo- nazione né il popolo-emozione riescono a fornire risposte adeguate al malessere che sale dal fondo oscuro delle nostre democrazie. Ma è un punto cieco che ci riguarda tutti.
Da qualche tempo immersi in una riflessione critica sui caratteri del populismo, è come se avessimo dimenticato il concetto da cui esso proviene, portandone dentro tutte le contraddizioni. E dunque, Che cos’è un popolo? È il titolo di un pamphlet appena tradotto da Derive Approdi, firmato da sei rinomati intellettuali come Badiou, Bourdieu, Butler, Didi-Huberman, Khiari e Rancière.
LE FORCHE? NO, GRAZIE!
di Aldo Antonelli
Sono stato tentato di partecipare, in prima persona ed anche in rappresentanza di Lbera, alla manifestazione dei "Forconi", ma ho avuto un altolà dalla mia coscienza che mi impedisce di prestar voce ad un movimento dubbio ed equivoco. Ancora non trovo risposte certe e precise alla domanda intrigante di chi ci stia dietro questo mivimento. Da più parti, però, mi si mette in allerta.
La Presidenza regionale del Piemonte dell’ANPI, per esempio, ha emesso un comunicato stampa che invita tutti gli antifascisti e i democratici a respingere con fermezza le iniziative illegali messe in atto da un fantomatico "Coordinamento nazionale per la rivoluzione 9 dicembre" che attraverso Facebook 09.12.13 ha indetto per lunedì 9 una manifestazione di protesta in tutta Italia rivolgendosi in modo particolare ad ambulanti, agricoltori, commercianti, autotrasportatori, disoccupati precari, e ad altre categorie «invitando il popolo italiano alla ribellione».
Si tratta di evento apparentemente spontaneo, "organizzato" viceversa da provocatori e con l’attiva presenza di nostalgici del fascismo e del "tradizionalismo" cattolico lefebreviano anti papa Francesco; al punto che, come denuncia l’ANPI, in un’affollata assemblea dei promotori nei giorni scorsi tenutasi nel torinese, un sedicente leader, tale Danilo Calvani, agricoltore di Latina, ha auspicato la costituzione di «un governo temporaneo magari con una figura militare di riferimento".
Ancora, i "Forconi" che fecero parlare di se’ in Sicilia, Forza Nuova, Terza Posizione e a Casa Pound sono parte attiva dell’iniziativa, in un pericoloso e torbido tentativo di pericolosa emulazione con la famigerata Alba dorata ellenica. Io mi unisco unisce all’appello alla vigilanza democratica dell’ANPI e denuncio pubblicamente la vicenda rivolgendo a tutti i cittadini democratici l’invito a respingere tali iniziative torbide e di stampo neofascista, intese a creare nel Paese un clima weimariano, vigilando e svolgendo azione di denuncia e informazione alla cittadinanza.
Non è un caso che ad Avezzano, a piazza Torlonia, ci siano presenze "scomode" e "fuoricampo"!
Aldo Antonelli
Viaggio alla ricerca del Paese smarrito
di Guido Crainz (la Repubblica, 07.12.2013)
NEL Rapporto del Censis sul 2013 diversi piani sembrano intrecciarsi, in parte contraddirsi o comunque offrirsi ad una riflessione problematica. La sottolineatura della gravità della crisi si intreccia infatti allo sforzo di individuare le possibilità di ripresa («il crollo atteso da molti non c’è stato (...) serpeggia una silenziosa constatazione che “ce l’abbiamo fatta”»). E la segnalazione della ambiguità di alcune “evidenze” (l’avvicinarsi del Paese al baratro, la “stabilità” come salvifico antidoto, l’inadeguatezza della classe dirigente) si accompagna alla denuncia del “vuoto di classe politica, di società civile e di leadership collettiva”. O alla constatazione che un “interventismo pedagogico” ha semmai “accentuato la fatica del vivere quotidiano e la mancanza di speranza per il futuro”.
Il Rapporto è indubbiamente molto franco sul deteriorarsi della realtà del lavoro, “emergenza nazionale”, e dei consumi. Il 2013 infatti “ha fatto venir meno la speranza” che la crisi del mercato del lavoro “possa essere breve e per certi versi contenibile”: “la sensazione che il peggio debba ancora venire accentua la dimensione di incertezza e paura”, in un disagio che si allarga ben oltre le fasce giovanili. Sono altrettanto eloquenti i dati sui consumi, ove la “sobrietà” rispetto a precedenti e non virtuosi modelli di consumo è intessuta di sacrifici talora pesanti, dall’alimentazione agli stili di vita. E ove cresce la protezione offerta di necessità dalle reti familiari o da quelle costituite da amici e conoscenti. Anche il trend dei consumi, insomma, ci parla di un Paese smarrito e profondamente fiaccato. Ci ripropone quell’erosione del “grande lago del ceto medio, storico perno della coesione e dell’agiatezza sociale” su cui si era soffermato il Rapporto dello scorso anno. Il Rapporto delle tre R: risparmio, rinuncia, rinvio.
Eppure, osserva il Censis con una torsione, “il crollo non c’è stato” e occorre semmai chiedersi quale realtà sociale abbiamo di fronte dopo la lunga fase segnata dalla necessità di sopravvivere. Prima di indicare possibili vie d’uscita il Rapporto non manca neppuredi segnalare alcuni “non entusiasmanti orientamenti di psicologia collettiva”. Da un lato laprogressiva perdita di quel “fervore del sale”, di quella capacità di dinamismo che ha costituito ilmotore del nostro sviluppo nella seconda metà del Novecento (insidiato ora da eccessi di furbizia, disabitudine al lavoro, immoralismo). Dall’altro un malcontento connesso al “grande e inatteso ampliamento” delle diseguaglianze sociali: un’Italia “sciapa e malcontenta” al tempo stesso, dunque.
Ma davvero è scomparso del tutto il fervore che aveva innervato il nostro sviluppo? Così non è, osserva il Censis rivolgendosi in primo luogo a quel “capitalismo molecolare” che è stato tradizionalmente al centro della sua attenzione e che non sembra aver smarrito tutte le proprie potenzia-lità: non in grado di avviare da sole, oggi, una nuova fase ma capaci di reagire positivamente a ulteriori stimoli. Vi aggiunge poi alcuni processi “in lenta emersione” come il crescere dell’imprenditorialità femminile o della presenza imprenditoriale e sociale degli immigrati. O il ruolo dei sempre più numerosi italiani, spesso giovani, che vivono all’estero per differenti ragioni e che possonorafforzare la nostra presenza nella “grande platea della globalizzazione”. E vi sono infine processi che possono offrire nuove opportunità di impresa, dalla revisione del welfare all’economia digitale.
Quale può essere però il filo rosso capace di agire da motore decisivo in tutti questi campi? Qui il Rapporto cala la sua parola chiave, connettività: cioè una capacità di relazione e interazione dal basso di cui si segnala già il manifestarsi e il procedere. Una “connettività orizzontale” tradizionalmente contrastata da tratti portanti del nostro vivere, dall’egoismo particolaristico alla “contrapposizione emotiva”: proprio essi però hanno accentuato la nostra crisi, e da qui può dunque prender avvio un ripensamento profondo e fecondo. Ipotesi suggestiva, certo, anche se l’auspicio sembra prevalere sull’analisi e trova al tempo stesso corposi ostacoli proprio in quella pesantezza della situazione che impronta di sé le parti centrali del Rapporto.
NOTE DI PREMESSA SUL TEMA:
di Roberto Napoletano (Il Sole-24 Ore, 01.12.2013)
A portare Platone in prima pagina sulla Domenica del Sole è il genio didascalico di Giovanni Reale. Il giorno dopo il suo allievo e successore, Roberto Radice, in un’aula della Cattolica di Milano, si rivolge a un gruppo di studenti e formula la seguente domanda: «Chi ha letto il pezzo di filosofia sul Domenicale?». Radice non attende risposte e chiosa: «Chi non legge il Domenicale è un pirla». Per capire fino in fondo che cos’è la Domenica del Sole, ribattezzata dai suoi affezionati lettori Domenicale, bisogna partire da qui. L’Accademia italiana e i giovani. Vittore Branca e un quarantenne prefetto della Biblioteca Ambrosiana che risponde al nome di Gianfranco Ravasi. Ludovico Geymonat, filosofo della scienza e marxista, che dice a Cossutta di avere trovato sulle pagine della cultura del Sole «il mio luogo di libertà», una giovanissima Elena Loewenthal che scrive di cose ebraiche, e un Federico Zeri che attribuisce alcuni dipinti di Assisi alla mano di Cavallini e non di Giotto.
I pesi massimi Eugenio Garin, Giovanni Pettinato, Alvar González-Palacios e le "giovani scoperte" dell’epoca Massimo Firpo, Carlo Ossola e Angela Vettese, critici teatrali e cinematografici del calibro di Renato Palazzi e Roberto Escobar. L’ironia amara di Peppo Pontiggia: «I narratori dovrebbero realizzare l’unica etica che appartiene a loro, l’etica del racconto. Potrà apparire cinica, tragica, disperata. Ma l’occhio che guarda il male è più prezioso di quello che si chiude» (18 aprile 1999). Tutto ciò, e molto altro, festeggia questa settimana il suo trentesimo compleanno. Un patrimonio che si riconosce nelle sue firme storiche e in tante altre che individua e alleva di settimana in settimana. Noi ci siamo portati avanti e abbiamo cominciato a festeggiare poco più di due anni fa quando abbiamo caparbiamente voluto restituire alla Domenica del Sole la forza espressiva del suo certificato di nascita, fatto di un formato tradizionale che combina in un unicum inscindibile testi, foto e disegni che appartengono alla storia della cultura italiana.
Un unicum, concepito e realizzato da un giornale finanziario, che è diventato materia di studio per tante tesi di laurea. Ne avvertiamo il peso e la responsabilità, c’è da custodire qualcosa che merita rispetto e unisce antico e nuovo. La mescolanza tra lettere e scienza, ma ancora di più tra i mille saperi della cultura, nessuno escluso, resta il principio guida, la base su cui poggiare la sfida culturale per eccellenza: aiutare questo Paese a riconciliarsi con il suo (grande) capitale dimenticato. Prima il Manifesto, poi due edizioni degli Stati generali della cultura, un nuovo indice elaborato dagli esperti del Sole 24 Ore che misura come il brand Italia perda terreno nel mondo. Non ci stancheremo mai di ripetere che la cultura, per come la intendiamo noi, arte, musei, lettere, ma anche ricerca scientifica e tecnica, innovazione e università, moda e design, talento della manifattura e dell’artigianato, deve essere collocata al centro della politica economica di sviluppo e di internazionalizzazione.
Sappiamo che la consapevolezza nella coscienza del Paese è aumentata e crediamo, in questo, di poter rivendicare un piccolo merito. Faremo la nostra parte selezionando e formando con una primaria banca i progetti giovanili di innovazione culturale che riterremo più convincenti e con un sito bilingue che si propone di ricordare al mondo il patrimonio italiano, i suoi talenti spesso abbandonati a se stessi, la forza e la suggestione di una bellezza e di un’identità uniche. Non ci rassegniamo all’idea che a tutto ciò si debbano negare non solo le risorse pubbliche (non ci sono) ma anche quegli stimoli fiscali (detraibilità e credito d’imposta per chi investe in cultura) che permetterebbero di attrarre risorse private, italiane e estere, necessarie per valorizzare un grande capitale dimenticato. Per non parlare dei vincoli che rischiano di soffocare istituzioni di qualità che ci si ostina a considerare come un ufficio dell’anagrafe e non per quello che sono: aziende culturali che reclamano (pensate) la libertà di muoversi sul mercato degli investitori.
Ricordo l’entusiasmo degli occhi e il sorriso sornione con cui Vincenzo Cerami accoglie la mia proposta di inventarsi critico cinematografico della Domenica e di regalarci un elzeviro al mese. Gli piace (tanto) l’idea di entrare nell’Accademia italiana e ci scherza su, a modo suo, con l’umiltà del grande cronista autore di Un borghese piccolo piccolo e sceneggiatore de La vita è bella, senza mai perdere la capacità di cogliere i segreti di uomini e donne e di restituirti luoghi, fatti e persone mai in posa. Anche per uomini come lui che non ci sono più (quanto ci manchi Vincenzo) vale la pena di impegnarsi perché la Domenica del Sole resti la bandiera di un’Italia che vuole (deve) riconquistare il suo primato culturale nel mondo chiedendo solo di non essere ostacolata e di potere contare su una parità di incentivazione fiscale con Paesi (molto) meno ricchi culturalmente e (molto) più lungimiranti.
Silvio Berlusconi e’ fuori dal Parlamento. L’aula del Senato vota per la decadenza
’E’ un giorno amaro e di lutto per la democrazia’, aveva detto Berlusconi parlando alla folla di sostenitori che si sono riuniti nel pomeriggio davanti a palazzo Grazioli *
Il Senato ha dichiarato decaduto Silvio Berlusconi da senatore. Lo ha annunciato in Aula il presidente Grasso subito dopo che l’Assemblea aveva respinto tutti e nove gli ordini del giorno presentati.
"Essendo stati respinti tutti gli ordini del giorno presentati in difformità dalla relazione della Giunta per le Immunità che proponeva di non convalidare l’elezione di Berlusconi la relazione della Giunta deve intendersi approvata". Lo ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso confermando la decadenza del Cav da senatore. A prendere il posto di Silvio Berlusconi al Senato è il primo dei non eletti in Molise per il Pdl Ulisse Di Giacomo.
"E’ un giorno amaro e di lutto per la democrazia": cosi’ Silvio Berlusconi aveva parlato in piazza del Plebiscito a Roma ai suoi sostenitori.. ’’Il Senato di sinistra con il suo potere ha ordinato al tempo di fare freddo’’, aveva detto Berlusconi aprendo il suo comizio davanti palazzo Grazioli. La magistratura vuole "la magistratura via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese", aveva aggiunto Berlusconi ai militanti di Forza Italia a via del Plebiscito. "Quando la sinistra non è al potere la magistratura fa di tutto per farla tornare al potere". ’’Noi siamo moderati. Si sono scagliati contro questa manifestazione ma vogliamo tranquillizzarli: questa è una manifestazione legittima e pacifica’’.
’’La sentenza sui diritti Tv è una sentenza che grida vendetta davanti a dio e agli uomini’’: così Silvio Berlusconi nel suo comizio in via del Plebiscito. Quella sentenza, ha aggiunto, ’’è basata solo su teoremi e congetture e su nessun fatto o documento o testimone’’. "Sono assolutamente sicuro che il finale di questi ricorsi sarà il capovolgimento della sentenza con la mia completa assoluzione", ha detto Berlusconi ai militanti di Fi a via del Plebiscito ribadendo la volontà di presentare domanda di revisione del processo Mediaset.
’’Non ci ritireremo in qualche convento, noi stiamo qui, restiamo qui, resteremo qui’’: così Silvio Berlusconi dal palco. "Nessuno di noi può stare più tranquillo sui propri diritti, sui propri beni e la propria libertà. E allora restiamo in campo. Non disperiamoci se il leader del centrodestra non sarà più senatore: ci sono altri leader di partito che non sono parlamentari e mi riferisco a Renzi e Grillo che dimostrano che anche da fuori si può continuare a battersi e combattere per la nostra libertà". Lo ha detto Silvio Berlusconi al comizio davanti a Palazzo Grazioli. ’’Oggi brindano perché sono riusciti a portare l’avversario davanti al plotone d’esecuzione: sono euforici, lo aspettavano da venti anni... ma non credo abbiano vinto la partita della democrazia e della libertà’’: così Silvio Berlusconi.
"Ci diamo un appuntamento preciso: l’8 dicembre ci incontriamo per festeggiare i primi mille club che si stanno fondando in Italia": cosi’ Berlusconi ai militanti di Forza Italia che manifestano a Via del Plebiscito.’’Altri se ne sono andati... ma noi siamo rimasti qui, siamo sicuri di essere la parte giusta, sicuri che non tradiremo mai i nostri elettori’’, ha detto il Cavaliere che ha fatto un implicito riferimento ad Alfano e al Nuovo centrodestra. La folla ha rivolto un lungo buuuuu agli alfaniani e il Cavaliere ha chiosato: "Interruzione ruvida ma efficace".
Secondo gli organizzatori della manifestazione di Forza Italia in Via del Plebiscito, i militanti presenti erano 20 mila.
I senatori di Forza Italia hanno cominciato a invocare il nome di Silvio Berlusconi nell’aula del Senato, durante le dichiarazioni di voto sulla sua decadenza. Dopo l’intervento di Annamaria Bernini, i senatori di Forza Italia si sono tutti alzati in piedi, gridando ’Silvio, Silvio’, ritmando il nome con il battito delle mani.
"L’ex premier italiano Silvio Berlusconi è stato espulso dal Senato". La notizia della decadenza del Cavaliere fa in una manciata di minuti il giro del mondo e irrompe come "breaking news" sui siti dei principali media internazionali: dalla Bbc al Wall Street Journal, dalla tedesca Faz allo spagnolo El Pais.
Grazia a Berlusconi, il Colle: mai arrivata
Dell’Utri l’aveva dato per certo in tv: “I cinque figli l’hanno avanzata” Ma anche Ghedini smentisce
di PAOLO BARONI (La Stampa, 09/11/2013)
ROMA L’annuncio arriva a sorpresa alle nove e mezza di sera. «Tutti e 5 i figli di Berlusconi, in modo compatto, hanno chiesto la grazia» per il cavaliere annuncia Marcello Dell’Utri ospite della trasmissione Virus su Raidue. L’ex senatore pdl è amico fidato dell’ex premier e seduto davanti alle telecamere rilancia il tormentone - grazia sì, grazia no - partito ben prima della condanna a 3 anni per frode fiscale sui diritti tv arrivata in pieno agosto. «Evidentemente non la vogliono dare, vogliono che Berlusconi si arrenda», sostiene.
A stretto giro di posta arriva però la smentita di un altro fedelissimo del Cavaliere: «La notizia che i figli del presidente Silvio Berlusconi avrebbero presentato domanda di grazia è destituita totalmente di ogni fondamento» afferma l’avvocato Niccolò Ghedini. Identica smentita si raccoglie da fonti del Quirinale. Dell’Utri ha cercato un’uscita a effetto, oppure ha fatto diventare realtà ragionamenti fatti nelle settimane passate dai cinque eredi del cavaliere, Marina, Piersilvio, Barbara, Eleonora e Luigi, e mai tradotte in atti ufficiali? Non si sa. Però ancora qualche giorno fa, intervistato da Bruno Vespa per il suo ultimo libro, Berlusconi si era lasciato sfuggire una parola di speranza: «Napolitano farebbe ancora in tempo...».
«Non è arrivato nulla» alla presidenza della Repubblica, hanno fatto sapere dal Quirinale. «Non ci ha sorpreso la dichiarazione diffusa dall’avvocato Ghedini, perché, già da tempo, al Presidente della Repubblica era stata esclusa da persone vicine all’onorevole Berlusconi ogni ipotesi di domanda di grazia». Ghedini, a sua volta, ha spiegato che la richiesta di grazia non solo non è stata avanzata nei giorni scorsi ma neanche lo sarà in futuro. E l’uscita di Dell’Utri? «Forse il senatore si sarà basato su quanto ha scritto il quotidiano il Tempo nei giorni scorsi, salvo dimenticare la smentita che avevo già dato in proposito. Anche perché un atto del genere non può certo essere tenuto nascosto».
Dell’Utri è convinto che Berlusconi sia «vittima di una situazione allucinante, condannato per frode fiscale quando era premier e la frode sarebbe stata commessa firmando i bilanci delle società, ma chi era responsabile della società non è stato condannato. E Berlusconi è stato condannato: è una cosa costruita dai magistrati». E comunque, a prescindere dalla domanda di grazia, per Dell’Utri ci sono gli estremi per una revisione del processo. «Perché sono emersi fatti nuovi».
Un insulto a tutta l’Italia
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 7 novembre 2013)
L’uomo che per un ventennio ha dominato politica e affari, che è stato presidente del Consiglio e che oggi è il referente di un partito di governo, ha dichiarato che i suoi figli «si sentono come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler».
È una frase che lascia a bocca aperta. Come si fa a spiegare a lui e soprattutto a chi lo ascolta la differenza che c’è tra le conseguenze di una condanna per evasione fiscale e lo sterminio di milioni e milioni di esseri umani? Non è possibile. Si è disarmati.
Il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha detto giustamente che più che agli ebrei Berlusconi dovrebbe delle scuse a se stesso. E Renzo Gattegna, presidente dell’unione delle comunità ebraiche italiane, ha provato a spiegare la differenza che passa tra l’Italia democratica di oggi e la Germania nazista. n
Ma la cosa è accaduta. Quelle parole sono state dette e immediatamente rilanciate dai media. Siamo davanti a un fatto pubblico, non a una battuta di ubriachi al bar.
Non mancheranno esegeti pronti a giustificarle come espressione di una sofferenza umana da meditare pensosamente, da usare come ricatto politico per chiedere una grazia presidenziale o un ennesimo sfregio alla giustizia.
Bisogna dunque chiedersi perché sia stato possibile che accadesse; bisogna chiedersi anche e soprattutto come si deve reagire a un fatto come questo. Lo dobbiamo a noi stessi, a chi osserva le cose italiane e ci giudica per quello che vede. Lo dobbiamo anche e soprattutto a coloro che questo tempo chiameranno antico.
Ci saranno in futuro storici che interrogheranno questo tempo nostro: avranno certamente strumenti più raffinati dei nostri. Saranno in grado di spiegare la malattia sociale italiana che ha preso il nome di quell’uomo individuandone le cause, così come noi siamo capaci di spiegare certe degenerazioni e follie del Medioevo perché sappiamo ad esempio quali allucinazioni potesse dare la segale cornuta del pane che mangiavano.
Questo nostro modernissimo Medioevo che si nutre soprattutto di chiacchiere e immagini televisive, ci pone invece davanti a episodi come questo, dove l’indecenza privata si mescola con una forte componente di responsabilità collettive.
Di indecente c’è la mancanza di pudore di un padre che tira in ballo i figli e se ne fa scudo: non solo, attribuisce loro pensieri e sentimenti che se fossero veramente da loro condivisi farebbero emergere un vuoto di cultura e di sensibilità tale da rendere urgente un ciclo di recupero scolastico e di alfabetizzazione elementare.
C’è da chiedersi se quei figli accetteranno in silenzio l’attribuzione di quei pensieri: perché anche all’interno dei rapporti più intimi c’è un momento in cui ognuno deve tutelarsi e prendersi le sue responsabilità. Non abbiamo dimenticato che, prima ancora dell’avvio del processo Ruby, ci fu una lettera pubblica con cui la signora Veronica Lario rese noto lo scandalo di quelle che definì le vergini offerte al drago: lei lo fece in nome del rispetto dovuto a se stessa.
Quella frase ha espresso e addebitato a presunti pensieri dei figli una forma di grave, inaudito negazionismo. Da un lato le file sterminate di milioni e milioni di uomini, donne, bambini che entravano nelle camere a gas e finivano poi nei forni crematori, dall’altro come un piatto della stessa bilancia i figli di Berlusconi e il loro stato d’animo in seguito alla condanna del padre.
Dovrebbe por mente a questo chi si è interrogato anche di recente su come si possa rendere giustizia alla memoria delle vittime e impedire quell’estrema, definitiva ingiustizia che è la negazione o la minimizzazione della Shoah. Si metta a prova su questo caso l’adeguatezza della misura penale di cui si parla nel paese e si dovrà discutere in Parlamento.
Quale punizione spetterebbe a chi, per la sua posizione sociale, per i media che governa e i giornalisti che paga, per il numero di cittadini italiani che ancora pendono dalle sue labbra, ha messo in circolazione nel linguaggio pubblico non una semplice minimizzazione ma una vera e propria ridicolizzazione della più grande tragedia del nostro tempo?
In casi come questi una amministrazione della giustizia meno torpida e priva di fantasia di quella che da noi è capace solo di misure carcerarie dovrebbe imporre forme di alfabetizzazione civile: per esempio corsi accelerati di storia contemporanea, servizio di assistenza ai visitatori della risiera di San Sabba, l’obbligo di imparare a memoria un congruo numero di pagine di «Se questo è un uomo».
Ma c’è un punto in cui il nodo delle responsabilità si aggroviglia, diventa un fatto di moralità pubblica e di responsabilità politica. Abbiamo sentito disquisire in questi giorni sul limite che divide privato e pubblico, sulle ragioni che dovrebbero impedire la permanenza al governo di un ministro non molto attento all’esistenza di quel limite. Ma si tratta di un fuscello rispetto alla trave che sta nell’occhio del Partito Democratico: una trave che si chiama alleanza di governo con Berlusconi e i suoi devoti.
Barbara Frank
di Massimo Gramellini (La Stampa, 7 novembre 2013)
I figli di B si sentono perseguitati come gli ebrei ai tempi di Hitler. La fonte della rivelazione è estremamente autorevole: B. In un libro di Vespa, tra l’altro. E allora perché ne parli? (Me lo domando da solo). Per analizzare il meccanismo che ha cambiato l’informazione e un po’ le nostre teste. Funziona così: da vent’anni, quasi ogni giorno, B pronuncia una sciocchezza terrificante, contraria al buonsenso e al buongusto. La sciocchezza ha lo scopo di ribadire l’unica idea forte su cui B ha costruito il suo successo in politica: il vittimismo. Gli italiani adorano i vittimisti.
Perciò un uomo che ha fatto affari con tutti i regimi e tutti i governi adora raccontarsi al suo popolo come il capro espiatorio di un’oscura macchinazione. B come i pellerossa, come gli ebrei, prossimamente come i migranti di Lampedusa. La scempiaggine provocatoria rimbalza sui siti e in tv, suscitando il commento divertito dei comici e quello indignato delle vittime vere. Ci cascano tutti. Ci cascano sempre. Per pigrizia, rabbia, automatismi strani. E la reazione alimenterà nel popolo di B il convincimento che lui sia veramente una vittima.
La tempesta di sabbia sollevata dalle panzane del Grande Incompreso è violenta ma breve, al pari di ogni altra emozione nella civiltà delle immagini. Il giorno dopo è già svanita nel nulla, lasciando un vuoto nevrotico che la prossima sparata provvederà a riempire. È una malattia di cui abbiamo inoculato il morbo. Non so chi perseguiti i figli di B. Ma mi sono fatto un’idea di chi, da vent’anni, perseguita noi.
Le Monde Diplomatique, Blog, 10 maggio 2013
I sondaggi contro le elezioni
di Alain Garrigou
(traduzione dal francese di José F. Padova)
http://blog.mondediplo.net/2013-5-10-Les-sondages-contre-le-elections
Fra le critiche che mettono in discussione il carattere democratico dei sondaggi la più elementare è stata quella di suggerire che essi costituirebbero una minaccia per l’elezione. Un pericolo percepito da molto tempo, a partire da chi introdusse i sondaggi in Francia, Jean Stoetzel. Non gli si prestò fede alcuna. Tuttavia gli aruspici avevano ragione.
I media non smettono di analizzare i record d’impopolarità dei dirigenti. François Hollande, eletto da un anno, ne stabilisce del resto uno nuovo. I commentari obbediscono ancora una volta al genere, infinite volte preso in giro, della corsa dei cavalli o della cronaca sportiva. Eppure qualcosa di nuovo è accaduto. Questa volta i dati scadenti hanno portato a rimettere in discussione l’autorità politica uscita dalle elezioni. Nelle manifestazioni ostili al matrimonio per tutti si sono udite grida di «Hollande dimissioni», riferite ai sondaggi. È un comportamento leale? In ogni caso è nuovo. Come lo è l’evocazione da parte di giornalisti politici dei loro dubbi sulla capacità di governare, lanciati sulla scorta dei cattivi sondaggi.
Mettere in questione la legittimità politica un anno dopo un’elezione può lasciare perplessi. I commentatori d’altra parte non mancano di buon senso ricordando gli effetti dei sondaggi, capaci, a forza di ripetizioni e di chiose, di erodere l’autorità dei dirigenti. Essi hanno quindi ragione nel contestare de facto l’affermazione dei sondaggisti che i loro sondaggi non avrebbero effetti politici - secondo la formula che vorrebbe che «non si cambia la temperature del malato rompendo il termometro».
Tuttavia, in questa materia, sono le credenze che hanno importanza, come vuole ciò che si è chiamato il «teorema di Thomas» (1). Secondo questa logica della predizione creatrice, se i cattivi risultati dei sondaggi si moltiplicano annunciando future disfatte, se le scontentezze vi trovano sostegno, è probabile che a termine i dirigenti politici ne saranno indeboliti. In un sistema politico come quello della IV Repubblica i sondaggi avrebbero già causato un valzer di governi. Il semplice fatto che dubbi sulla legittimità del potere si nutrano di sondaggi tanto vicini all’elezione presidenziale è sufficiente per mettere questi sondaggi in concorrenza con l’elezione stessa.
Ora vi sono sempre più misurazioni dell’opinione [pubblica]. Ai vecchi barometri mensili sono venuti ad aggiungersi altri tipi di sondaggi che simulano elezioni presidenziali appena un anno dopo di esse! Queste simulazioni, apparentemente sondaggi sulle intenzioni di voto, fanno sussistere intenzioni di voto retrospettive, poiché vi si mettono i protagonisti reali dell’azione precedente. Queste false elezioni retrospettive non rifanno la storia ma permettono di dubitare della legittimità dell’elezione ogni volta che i risultati sono molto diversi, lasciando supporre che molti elettori si siano sbagliati o rimpiangano la loro scelta. E significativamente non sarebbero i sondati di oggi che si sbaglierebbero, ma gli elettori di ieri.
Insomma, ancora una volta, perché privarsi di questi giochi mentre si ha modo di giocarli? Imponendosi come il modo pressoché esclusivo di fare indagini politiche, i sondaggi online, molto meno cari di quelli per telefono o di presenza, favoriscono il diluvio dei sondaggi. Tutte questo è fatto senza dimostrazione alcuna del loro rigore metodologico, checché ne dicano i sondaggisti, ai quali in ogni modo la maggior parte dei media non chiede garanzie. I sondaggi fanno dunque concorrenza alle elezioni nel momento stesso in cui la loro qualità si è fortemente degradata. Non sembra che i commentatori se ne emozionino e neppure i sondati remunerati per le loro risposte. D’ora in avanti l’opinione pubblica pagata è un contrappeso all’opinione pubblica «gratuita» del suffragio universale.
I sondaggi stanno modificando le regole del gioco democratico, non solamente intaccando la legittimità dei governi eletti, ma sconvolgendo il tempo dell’azione politica, determinando i suoi obiettivi. Nessun bisogno di un cambiamento costituzionale. È sufficiente produrre un’opinione furtiva e vantaggiosa, tramite imprese private, in un mercato autoregolato: un’opinione pubblica atomizzata e remunerata dai soldi di agenti interessati a ciò che produce. Questa nuova situazione serve gli interessi dei sondaggisti i quali, di commento in commento, per quanto futili siano, occupano i palcoscenici e le colonne, alimentando così il loro narcisismo. Forse vi si vede già il sintomo di un giornalismo indigente in tempo di crisi: il commento di chi non ha più niente da dire. Non si dimenticherà che i sondaggi hanno apportato una nuova risorsa ai giornalisti, che possono erigersi a interpreti dell’opinione pubblica nei confronti dei dirigenti politici. Poiché però nessuno statistico o sociologo concede molto credito ai sondaggi pubblicati ogni giorno, è significativo che tutta una professione non li sente e preferisce ascoltare i sondaggisti, quindi i commercianti. Qui, ancora, il desiderio di potenza con il quale i giornalisti più potenti danno lezioni di politica o prodigano punteggi buoni e cattivi fa rammaricare che essi non siano al comando. Quanto ai responsabili politici sembra che essi abbiano tutto da temere da questa elevazione dei sondaggi al rango di test permanenti della loro propria legittimità.
Lo sanno? Apparentemente non tutti. Il 6 marzo 2013, in occasione di una trasmissione di France 2 che faceva un bilancio della presidenza di François Hollande (2), il senatore socialista André Vallini ha dovuto spiegare il voltafaccia del governo sulla questione dell’amnistia ai sindacalisti, amnistia che il senatore socialista aveva anch’egli votato alla Camera alta. Come avrebbe spiegato una tale incoerenza? André Vallini accennò dapprima alle violente manifestazioni ostili al «matrimonio per tutti» e alla necessità, secondo lui, di non incoraggiare questo tipo di comportamento. Dal momento che questa sola giustificazione non sarebbe bastata - perché far pagare a militanti sindacalisti il comportamento di militanti di destra e d’estrema destra non è di assoluta logica - André Vallini aggiunse: «E poi, ecco i sondaggi: 70% dei francesi sono contro l’amnistia!». Un parlamentare accetta che il suo voto pesi meno di un risultato architettato da un’impresa di sondaggi è cosa nuova. E promette proprio bene?
Note
(1) «Quando gli uomini considerano alcune situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Vedi « La production de la croyance politique » su questo blog.
(2) « Hollande, année zéro ? », Mots croisés, 6 mai 2013.
La protezione incivile
di Francesco Merlo (la Repubblica, 27.10.2012)
La spavalderia è la stessa che Bertolaso esibiva sulle macerie quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso, gloria e vanto del berlusconismo, con certificati ammiratori a sinistra. Ma i testi delle telefonate che, in rete su repubblica. it, ora tutti vedono e tutti giudicano, lo inchiodano al ruolo del mandante morale. Quel «nascondiamo la verità», quel «mi serve un’operazione mediatica», quel trattare gli scienziati, i massimi esperti italiani di terremoti, come fossero suoi famigli, «ho mandato i tecnici, non mi importa cosa dicono, l’importante è che tranquillizzino », e poi i verbali falsificati...: altro che processo a Galileo! E’ Bertolaso che ha reso serva la scienza italiana.
Più passano i giorni e più diventa chiara la natura della condanna dell’Aquila. Non è stato un processo alla scienza ma alla propaganda maligna e agli scienziati che ad essa si sono prestati. E innanzitutto perché dipendono dal governo. Sono infatti nominati dal presidente del Consiglio come i direttori del Tg1 e come gli asserviti comitati scientifici dell’Unione sovietica. In Italia la scienza si è addirittura piegata al sottopotere, al sottosegretario Bertolaso nientemeno, la scienza come parastato, come l’Atac, come la gestione dei cimiteri. Dunque è solo per compiacere Guido Bertolaso, anzi per obbedirgli, che quei sette servizievoli scienziati sono corsi all’Aquila e hanno improvvisato una riunione, fatta apposta per narcotizzare.
Chiunque ha vissuto un terremoto sa che la prima precauzione è uscire di casa. Il sisma infatti terremota anche le nostre certezze. E dunque la casa diventa un agguato, è una trappola, può trasformarsi in una tomba fatta di macerie. In piazza invece sopra la nostra testa c’è il cielo che ci protegge. Ebbene all’Aquila, su più di trecento morti, ventinove, secondo il processo, rimasero in casa perché tranquillizzati dagli scienziati di Bertolaso. E morirono buggerati non dalla scienza ma dalla menzogna politica, dalla bugia rassicurante.
Purtroppo il nostro codice penale non prevede il mandante di un omicidio colposo plurimo e Bertolaso non era imputato perché le telefonate più compromettenti sono venute fuori solo adesso. E però noi non siamo giudici e non dobbiamo attenerci al codice. Secondo buon senso Bertolaso è moralmente l’istigatore dei condannati, è lui che li ha costretti a sporcarsi con la menzogna.
Tanto più perché noi ora sappiamo che questi stessi scienziati avevano previsto l’arrivo di un’altra scossa mortale, nei limiti ovviamente in cui la scienza può prevedere le catastrofi. Ebbene, il dovere di Franco Barberi, Bernardo De Bernardinis, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi, Claudio Eva era quello di dare l’allarme. Gli scienziati del sisma sono infatti le sentinelle nelle torri di avvistamento, sono addestrati a decifrare i movimenti sotterranei, sono come i pellerossa quando si accucciano sui binari. Nessuno si sogna di rimproverarli se non “sentono” arrivare il terremoto. Ma sono dei mascalzoni se, credendo di sentirlo, lo nascondono.
Il processo dell’Aquila dunque è stato parodiato. E quell’idea scema che i giudici dell’Aquila sono dei persecutori che si sono accaniti sulla scienza è stata usata addirittura dalla corporazione degli scienziati. Alcuni di loro, per solidarizzare con i colleghi, si sono dimessi, lasciando la Protezione Civile nel caos, proprio come Schettino ha lasciato la Concordia. Il terremoto in Italia è infatti una continua emergenza: giovedì notte ne abbiamo avuto uno in Calabria e ieri pomeriggio un altro più modesto a Siracusa.
Ebbene gli scienziati che sguarniscono le difese per comparaggio con i colleghi sono come i chirurghi che scioperano quando devono ricucire la ferita.
Ma diciamo la verità: è triste che gli scienziati italiani si comportino come i tassisti a Roma, forze d’urto, interessi organizzati, cecità davanti a una colpevolezza giudiziaria che può essere ovviamente rimessa in discussione, ma che non è però priva di senso, sicuramente non è robaccia intrusiva da inquisizione medievale. Insomma la sentenza di primo grado può essere riformata, ma non certo perché il giudice oscurantista ha condannato i limiti della scienza nel fare previsioni e persino nel dare spiegazioni.
E il giudice dell’Aquila è stato sobrio. E’ raro in Italia trovare un magistrato che non ceda alla rabbia, alla vanità, al protagonismo. Ha letto il dispositivo della sentenza, ha inflitto le condanne e se n’è andato a casa sua come dovrebbero fare tutti i magistrati, a Palermo come all’Aquila. Pochi sanno che si chiama Marco Billi. Non è neppure andato a Porta a Porta per difendersi dall’irresponsabile travisamento che ai commentatori frettolosi può essere forse perdonato, ma che è invece imperdonabile al ministro dell’Ambiente Corrado Clini, il quale ha tirato in ballo Galileo e ci ha tutti coperti di ridicolo facendo credere che in Italia condanniamo i sismologi perché non prevedono i terremoti, che mettiamo in galera la scienza, che continuiamo a bruciare Giordano Bruno e neghiamo che la Terra gira intorno al Sole.
Il ministro dell’Ambiente è lo stesso che appena eletto si mostrò subito inadeguato annunziando che l’Italia del referendum antinucleare doveva comunque tornare al nucleare. Poi pensammo che aveva dato il peggio di sé minimizzando i terribili guasti ambientali causati dall’Ilva di Taranto. Non lo avevamo ancora visto nell’opera brechtiana ridotta a battuta orecchiata, roba da conversazione al Rotary, da sciocchezzaio da caffè. E sono inadeguatezze praticate sempre con supponenza, a riprova che c’è differenza tra un tecnico e un burocrate. In Italia puoi scoprire che anche il direttore generale di un ministero non è un grand commis di Stato ma un impiegato di mezza manica.
So purtroppo che è inutile invitare personaggi e comparse di questa tragica farsa ad un atto di decenza intellettuale, a restituire l’onore alla ricerca, alla scienza e alla giustizia, e a risalire su quelle torri sguarnite della Protezione Civile senza mai più umiliarsi con la politica. A ciascuno di loro, tranne appunto al dimenticabile Bertolaso che intanto si è rintanato nel suo buco, bisognerebbe gridare come a Schettino: «Torni a bordo...».
APPELLO
Furto d’informazione *
La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia.
Il modo in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e una intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica. Le scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei, all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, vengono rappresentate, non soltanto dalle forze politiche che le condividono (e ciò è comprensibile), ma anche dai maggiori mezzi d’informazione (ivi compreso il servizio pubblico), come comportamenti obbligati ("non-scelte"), immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori.
Così, una teoria controversa, da molti ritenuta corresponsabile della crisi (perché concausa degli eccessi speculativi e degli squilibri strutturali nella divisione internazionale del lavoro e nella distribuzione della ricchezza sociale), è assunta e presentata come autoevidente, sottraendo a milioni di cittadini la nozione della sua opinabilità e impedendo la formazione di un consenso informato, presupposto della sovranità democratica.
Non possiamo sottacere che, a nostro giudizio, a rendere particolarmente grave tale stato di cose è il fatto che la sottrazione di informazione che riteniamo necessario denunciare coinvolge l’operato delle stesse più alte cariche dello Stato, alle quali la Costituzione attribuisce precise funzioni di garanzia e vincoli d’imparzialità. Tutto ciò costituisce ai nostri occhi un attacco alla democrazia repubblicana di inaudita gravità, che ai pesantissimi effetti materiali della crisi e di una sua gestione politica volta a determinare una redistribuzione del potere e della ricchezza a beneficio della speculazione finanziaria e dei ceti più abbienti assomma un furto di informazione e di conoscenza gravido di devastanti conseguenze per la democrazia.
Alberto Burgio, Mario Dogliani, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Alfio Mastropaolo, Guido Rossi, Valentino Parlato
* il manifesto, 24.07.2012
Il Salone del libro di Torino vince la causa sul nome *
Il tribunale di Milano ha dato ragione al Salone internazionale del libro di Torino nel ricorso contro Mjm editore, colpevole di pubblicizzare una propria iniziativa nel capoluogo lombardo usurpando marchi e notorietà del Salone torinese e contraffacendone modulistica e sito Internet.
L’ ordinanza del giudice Paola Gandolfi ha condannato Mjm a cambiare nome alla propria manifestazione, a cancellare il dominio Internet, a distruggere e rimuovere ogni materiale che facesse riferimento in modo surrettizio al Salone di Torino.
* Corriere della Sera, 05 luglio 2012, Pagina 39
L’ITALIA, IL "BAAL-LISMO", E LA FINE DELLA SOVRANITA’ E DELLA SOVRA-UNITA’. "LA REPUBBLICA, UNA E INDIVISIBILE", VENDUTA L’ANIMA E FATTOSI RUBARE IL NOME STESSO "ITALIA", E’ DIVENTATA LA CASA DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’" (1994-2011)!!!
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique (...) E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino.
La Costituzione, unica bussola
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 21.11.2011)
Avevano un suono diverso le parole pronunciate dal presidente del Consiglio e dai ministri del nuovo governo nel momento in cui giuravano di osservare "lealmente" Costituzione e leggi e di esercitare le loro funzioni nell’interesse "esclusivo" della Nazione. La formula apparentemente burocratica del giuramento rivelava un’assenza: la mancanza negli ultimi anni d’ogni lealtà governativa verso una Costituzione continuamente dileggiata e aggredita, l’abbandono dall’interesse esclusivo della Nazione a vantaggio di una folla di interessi privati e persino inconfessabili. Quelle parole scomparse e tradite sono ritornate nel momento in cui davanti al nuovo governo non è soltanto il compito assai difficile di affrontare i temi dell’economia riprendendo pure il cammino dell’equità e dell’eguaglianza, senza le quali la coesione sociale è perduta. L’insistita sottolineatura del nuovo stile di Mario Monti all’insegna di "sobrietà" e "serietà" non riguarda, infatti, segni esteriori. Ricorda un altro compito, forse persino più difficile e certamente bisognoso di molto impegno e di molto tempo, quello di far uscire il nostro Paese dalla regressione culturale e civile nella quale è sprofondato.
È questione che non si affida tanto a provvedimenti formali. Accontentiamoci, per il momento, d’una prima, non indifferente certezza. Il sapere che non vi saranno ministri della Repubblica che, di fronte alla domanda di un giornalista o di un cittadino, leveranno in alto il dito medio o risponderanno con una pernacchia (non il nobile e difficile "pernacchio" di Eduardo). Rispetto e lealtà non sono dovuti soltanto a Costituzione e leggi, ma a tutti coloro che nel mondo reale incarnano valori e principi che lì sono iscritti. In questi anni abbiamo assistito proprio al rifiuto dell’"altro", l’avversario politico o l’immigrato, lo zingaro o la persona omosessuale. L’indegna gazzarra scatenata alla Camera dai deputati della Lega contro la civilissima richiesta di avviare il riconoscimento degli immigrati come cittadini, e non come merce usa e getta, è stata la conferma evidente della difficoltà di invertire una tendenza che, mai contrastata efficacemente per convenienza politica e debolezza culturale, ha terribilmente inquinato l’ambiente civile.
Sarà la minuta sequenza degli atti concreti a dare sostanza all’abbandono di un perverso costume. Al governo spettano nomine importanti, sottosegretari e Rai per cominciare. Il rispetto della Costituzione, inoltre, muove dal rispetto degli istituti che la innervano, a cominciare dal referendum che ha ridato ai cittadini la possibilità di far sentire la loro voce, spenta da una legge elettorale indegna e venata da incostituzionalità. Proprio dal voto sui referendum di giugno vengono tre indicazioni che il governo non può in alcun modo eludere: il no al nucleare (lo ricordi qualche ministro che non deve avere bene appreso la lezione di sobrietà e umiltà invocata dal presidente del Consiglio); il rifiuto di ogni legislazione attributiva di privilegi; il nuovo ruolo attribuito ai beni comuni, all’acqua direttamente (non si segua il cattivo esempio delle furbizie nelle quali il governo precedente si stava esercitando). Se il governo vuole conservare la fiducia manifestata da una larga parte dell’opinione pubblica, e cercar di recuperare critici e scettici, deve essere consapevole che proprio questi sono i casi in cui massima dev’essere la sua lealtà verso la Costituzione. È bene aggiungere che, considerando i vari movimenti e indignati che occupano le piazze del mondo, in Italia il risveglio civile non solo si era manifestato prima che in altri Paesi, ma aveva trovato un fiducioso incontro con le istituzioni tramite i referendum. Sarebbe un grave errore politico mettere questa vicenda tra parentesi, poiché proprio da lì è cominciato quel rinnovamento che ha trovato nel governo Monti un suo approdo, sia pure controverso.
Come tutto questo incrocerà i sentieri parlamentari è questione tra le più aperte. A proposito della quale, tuttavia, è bene insistere su una banale verità, del tutto travisata da chi, gridando alla fine della democrazia, ha lamentato un ruolo marginale del Parlamento in una crisi tutta gestita tra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio incaricato. Ma abbiamo già dimenticato o cancellato il fatto istituzionale più clamoroso di questi ultimi anni, appunto la scomparsa del Parlamento, dileggiato da Silvio Berlusconi come luogo di inutili e incomprensibili lungaggini, espropriato d’ogni potere dai voti di fiducia e dai maxiemendamenti blindati, ridotto a mercato quando v’erano da reclutare truppe mercenarie, rattrappito nei suoi lavori in un paio di giorni a settimana, addirittura chiuso per mancanza di questioni rilevanti da mettere all’ordine del giorno? Uno degli esiti, o paradossi, di questa crisi sta proprio nell’aver rimesso al centro dell’attenzione pubblica e della politica proprio il Parlamento, ricordando così, come molte volte aveva già fatto il presidente della Repubblica, che la nostra rimane una Repubblica parlamentare ed è lì che i governi ricevono investitura e legittimità.
Sul rapporto tra governo e Parlamento si è insistito molto in questi giorni, discutendo soprattutto della possibilità che qualcuno voglia prima o poi "staccare la spina", di possibili maggioranze variabili nell’approvare singoli provvedimenti. Ma vi è un altro aspetto del problema, particolarmente rilevante nella prospettiva ricordata all’inizio della "bonifica" politica e civile del nostro sistema istituzionale e della nostra società. Qualcuno, nel dibattito parlamentare, ha avuto l’impudenza di invocare la ripresa del cammino parlamentare del disegno di legge sulle intercettazioni. Qualcun altro ha adombrato i temi della difesa della vita, con un trasparente richiamo al disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (testamento biologico) attualmente in discussione al Senato, e dopo che s’era verificato il grave episodio di un governo che, in articulo mortis, aveva diffuso le nuove linee guida in materia di procreazione assistita. L’insistenza su questi temi rivela un intento strumentale, volto anche a creare frizioni parlamentari che possono insidiare la tenuta del governo. Ma, se appare davvero improbabile un rinnovato assalto a favore di una legge bavaglio, più serie preoccupazioni destano i temi legati alla bioetica e al biodiritto.
Per proteggere il governo, non si tratta di invocare una "tregua etica" o rivendicare l’autonomia del Parlamento in materie non comprese nel programma governativo, magari facendosi forti di qualche improvvida dichiarazione che ha associato la costituzione di questo governo con il "ritorno" dei cattolici in politica. Se alla lealtà verso la Costituzione dobbiamo continuare a rifarci, è appunto il percorso costituzionale che deve essere rigorosamente seguito tanto dal governo che dal Parlamento. E questo significa mettere da parte il testo sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, grondante di incostituzionalità, sgrammaticature e difficoltà applicative in ogni suo articolo. Significa riprendere il cammino verso una seria disciplina delle unioni di fatto, comprese quelle tra persone omosessuali, alle quali la Corte costituzionale ha riconosciuto un "diritto fondamentale" al riconoscimento giuridico della loro condizione, indicazione finora del tutto disattesa dal Parlamento. Significa riportare a ragione e Costituzione la materia della procreazione assistita.
Per non rimanere prigionieri dell’emergenza che ha segnato la nascita di questo governo, e per sfuggire alle perversioni che questa può produrre, bisogna imboccare senza esitazioni la via di una politica che sia tutta politica "costituzionale".
GOVERNO
Monti, nel Pdl si arriva agli insulti
Frattini contro gli ex An: "Fascisti"
Il ministro degli Esteri vede con favore l’ipotesi di un esecutivo guidato dall’ex Commissario ue e tira una frecciata - poi ridimensionata - ai vari La Russa, Matteoli e Meloni. La replica del ministro della Difesa: "Ma chi parla? Un attivista del Manifesto?". Formigoni: "Dibattito armonico". La Lega insiste su Lamberto Dini *
ROMA -Il governatore lombardo Roberto Formigoni lo chiama "un dibattito armonico". Un eufemismo, a dire poco, se si scorre sul rullo delle agenzie il nervoso botta e risposta all’interno del Pdl sull’appoggiare o meno il governo Monti. Da una parte ministri come Sacconi, Brunetta e gli ex An - Matteoli, Meloni, La Russa - (che potrebbero contare su circa 100 parlamentari) che alzano barricate verso un governo guidato dall’ex commissario Ue. E lo fanno dando vita ad un scontro senza risparmio di colpi all’interno del partito del Cavaliere. Il quale, da parte sua, sembra in seria difficoltà a far quadrare il cerchio. 1 Sulla barricata dei "montiani". invece ci sono il segretario del Pdl Alfano, ministri come Frattini e uomini di peso come Quagliariello e Cicchitto.
Che i toni siano alti lo si capisce da uno sfogo di Frattini - poi ridimensionato - raccolto da un cronista della Dire: "E’ bastato che crollasse tutto che questi fascisti sono tornati fuori: già ci hanno fatto rompere con fini, e adesso provano di nuovo a mandare tutto all’aria...". Per il titolare degli Esteri ogni ipotesi di appoggio esterno a Monti (ipotesi ventilata da alcuni settori del Pdl) non ha senso: "L’impegno a sostenere il futuro governo deve essere pieno". La Russa, uno dei destinatari della frecciata di Frattini, si fa perfido: "Frate chi? Frate chi? Non lo conosco, chi è un militante del Manifesto?". Contro Frattini si schiera anche Giorgio Holzmann, deputato ex Msi poi transitato in An, che perfidamente ricorda come Frattini sia "lo stesso ministro degli esteri che qualche mese fa si è recato alle camere per rendere pubblico un fascicolo riguardante il famoso immobile di Montecarlo e la nebulosa vicenda di società off-shore, cui lo stesso sarebbe stato venduto". Tocca al titolare della Farnesina abbassare i toni: "Mi spiace che mi siano state attribuite frasi certamente travisate, non corrispondenti al mio pensiero e al mio usuale modo di esprimere pubblicamente la mia opinione".
Per il governo tecnico si schiera Quagliariello chiedendo, però, che "lasci intatte le differenze politiche che esistono nell’emiciclo. Non sacrificheremo le differenze con la sinistra su temi come giustizia, legge elettorale, principi non negoziabili". E se Altero Matteoli dice di non escludere "spaccature" nel Pdl, il governatore lombardo Formigoni crede che Monti "riuscirà a formare un governo che ha un unico obiettivo, salvare l’Italia dalla rovina economica e dall’attacco fortissimo della speculazione internazionale".
E proprio sul che farà Monti e che squadra di governo formerà, si appuntano le perplessità del capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto: "La situazione va chiarita. Il Pdl sta discutendo ma non ha fatto ancora nessuna scelta. Certo, alla fine del confronto ci sarà una voce sola", ma non può avvenire tutto come fosse "una corsa contro il tempo". E il nodo rimarrà "finchè non Verrà chiarito quali saranno il suo programma e la sua struttura". Struttura, ovvero ministri. Ed è forse questo il tasto dolente che agita e preoccupa, le varie anime del partito del Cavaliere.
Il tutto mentre Berlusconi chiede "uno scatto d’orgoglio", rivendicando un ruolo decisivo per il Pdl. "Serve un confronto, un tavolo sia sui nomi che devono entrare al governo, sia sul programma" ragiona il Cavaliere. In pratica una sorta di ’golden share’ del nuovo esecutivo". IN caso contrario meglio il voto. Come chiede la Lega a gran voce: ""Noi siamo assolutamente contrari a governi che non siano quelli usciti dalle urne e saremo all’opposizione" afferma il ministro Roberto Calderoli. Per la verità la Lega pensa ad un governo guidato da Lamberto Dini (rilanciato ieri sera dallo stesso premier). E proprio in questa direzione gli uomini del Carroccio starebbero pressando il Cavaliere. Stando alle cifre che i leghista ostentano al Senato Monti non avrebbe i numeri. Ed è a questo punto che scatterebbe l’opzione Dini che già nel ’95 prese il posto di berlusconi, sfiduciato in quel caso proprio da Bossi.
* la Repubblica, 11 novembre 2011
La crisi, i ricchi e le oligarchie
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 08.11.2011)
L’eguaglianza ha fatto il suo grande rientro nella politica quotidiana. Ed è un ospite non gradito per chi tiene le fila delle transazioni finanziarie e delle politiche monetarie. Lo si vede da come i governi hanno accolto la proposta di istituire una tassa sulle rendite patrimoniali - il nostro è all’avanguardia nell’aver escogitato tutte le misure che possono pesare sui molti senza direttamente toccare i pochi (in extremis e nella disperata ricerca di sopravvivere qualche giorno in più tira fuori la proposta di ‘Tobin tax’ ma senza dimostrare di crederci).
Presumibilmente perché a Roma l’oligarchia governa direttamente, senza intermediari. È fuori di dubbio che Silvio Berlusconi sia il più ricco italiano e quindi tra quell’1% che Occupy Wall Street ha individuato come la minoranza che accumula e concentra potere entrando fatalmente in rotta di collisione con la maggioranza e, quindi con l’eguaglianza. Oligarchia e democrazia sono esplicitamente visibili e in tensione.
In un ottimo libro dal titolo chiaro, Oligarchy, uscito per Cambridge University Press pochi mesi fa, Jeffrey A. Winters ci ricorda che la democrazia non elimina l’oligarchia ma la incorpora. Questo lavoro di inclusione dura e ha successo fino a quando l’economia cresce e produce ricchezza alla quale tutti, chi più e chi meno, possono sperare di accedere e, nei fatti, vi accedono anche. Ma quando questa condizione decade, allora la moltitudine comincia a proporre politiche che intaccano le ricchezze e le proprietà dei pochi, politiche fiscali redistributive. È a questo punto che la differenza tra oligarchia e democrazia si mostra con tutta la sua radicalità.
Occupy Wall Street - il nome di un movimento che è globale nella sua semplicità, come globale è l’1% -- è il segno che la tregua tra oligarchia e democrazia si è interrotta. Le pressioni delle dirigenze finanziarie e bancarie sulla democrazia greca, ce lo ricordava recentemente Gad Lerner su questo giornale, affinché non ricorra al referendum è il segno di un’escalation del potere oligarchico su quello democratico. E che il popolo greco non vada al referendum è un segno del potere che l’oligarchia ha di fare sentire la sua voce. Ma è anche un segno del fatto che le procedure democratiche stesse possono diventare un problema se il loro uso paventa esiti che possono mettere a repentaglio l’interesse materiale dei pochi. In questo frangente si è buttata alle ortiche la logica del proceduralismo democratico, che i manuali scolastici ci insegnavano a non giudicare dal punto di vista degli esiti ma delle possibilità di determinarli con le nostre autonome forze. Ora invece è proprio l’esito che viene invocato per neutralizzare la procedura. Un rovesciamento pericolosissimo poiché chi ci garantirà che le elezioni non verranno giudicate non opportune perché passibili di interrompere la stabilità di governo?
Il linguaggio per dualismi - "i pochi" e "i molti" - ha un sapore quasi antico, arcaico. Chi sono i pochi? E come denotarli? Non essendo più i pochi che producono dirigendo masse di lavoratori, non possono essere qualificati come capitalisti tradizionali. Sono super-ricchi - nuovi e meno nuovi. Individuabili solo per quantità: 1%. E infatti, quando Aristotele doveva definire il governo democratico lo faceva identificandolo con i poveri, che sono i tanti. Non perché una società democratica sia fatta di poveri, ma per una ragione molto più sottile e che si vede oggi molto bene: perché non appena la questione della ricchezza materiale si fa critica in quanto la sua distribuzione prende vie inegualitarie, allora i molti si rappresentano (e spesso sono) come poveri o impoveriti. A questo punto, il dualismo è una realtà che può essere rappresentata solo con la quantità, e ciò è in sintonia con la democrazia, la quale è un governo fondato sulla quantità (dei voti).
Allora 1% contro 99% diventa la raffigurazione aritmetica dell’identità della democrazia quando il patto tra i molti e i pochi si rompe perché la ricchezza si muove in una direzione soltanto.
Sono molti i casi di lotta oligarchica che il libro di Winters ricostruisce, dall’Atene e Roma classiche, all’Indonesia e le Filippine, da Venezia e Siena, dalle commissioni mafiose negli Stati Uniti e in Italia fino alle famiglie degli indiani Apalachi. Insomma non esiste società senza oligarchia. Gli Stati si possono quindi distinguere tra quelli schiettamente oligarchici e quelli che hanno siglato un compromesso con la democrazia. Nell’Atene classica quel compromesso riuscì per alcuni decenni, benché l’alternativa oligarchica restasse sempre una concreta possibilità visto che le grandi famiglie non accettarono mai il governo dei molti. I governi rappresentativi sono riusciti a correggere questa condizione di endogena precarietà della democrazia traducendo in meccanismi costituzionali il rapporto con "i pochi", dalla cui collocazione è sempre dipesa la stabilità dei sistemi politici. Consentire a questi di competere attraverso le elezioni è stato un modo per incorporarli - con il contributo dei molti che li eleggono, giudicano, controllano e limitano nel potere.
Il successo delle democrazie rappresentative costituzionali ha corrisposto a due secoli e mezzo di espansione della società di mercato nelle due forme che conosciamo: il capitalismo industriale e, ora, quello finanziario. È stato un successo reso possibile da una condivisione generale degli oneri che ha consentito che il divario tra arricchimento dei pochi e dei molti non fosse fuori controllo. Oggi questo compromesso è rotto. E per molti ordinari cittadini è cominciato un duro periodo di impoverimento - che non è la stessa cosa della povertà. La durezza di questa crisi consiste nel fatto che per la prima volta cittadini che avevano conosciuto per due o tre generazioni un’espansione dei diritti e delle possibilità, si trovano oggi di fronte alla perdita di status, a non potere aver progetti per il futuro. Con la propaganda mediatica, come ci racconta Paul Krugman, che li vuole convincere ad accettare l’impoverimento senza dare loro in cambio alcuna certezza per il domani. In passato quando si trattava di tirare la cinghia si invocava "l’interesse nazionale", e i super-ricchi erano in molti casi, come gli Stati Uniti, i primi a partecipare. Ma oggi non vogliono condividere gli oneri.
Questa è la gravità dell’attuale tensione tra oligarchia e democrazia: se le due forze si mostrano così bene oggi, se in altre parole l’eguaglianza, anzi la sua violazione, è oggi il tema centrale è perché il patto che mitigava la diseguaglianza e incorporava l’oligarchia dentro la democrazia mostra la corda. Nessuno può allo stato attuale delle cose dire come lo scontro si evolverà. Ma le pressioni dei "mercati" sulla Grecia affinché non convochi i molti a giudizio è un segnale nemmeno troppo velato dei rischi politici che questa crisi contiene. Per la democrazia non si promette nulla di buono.
L’ALTRO FOGLIETTO MOSTRATO AI MALPANCISTI: «PRENDO LA FIDUCIA? LASCIO»
E su un foglio spuntano le parole «traditori» e «dimissioni»
Il premier e gli appunti in Aula dopo il voto:
«ribaltone», «voto», «presidente della Repubblica».... *
MILANO - «Prenda atto, rassegni le dimissioni». È l’invito che Pier Luigi Bersani rivolge in Aula a Silvio Berlusconi dopo il voto sul rendiconto generale dello Stato. Il premier lo annota su un foglietto di carta, fotografato da diversi reporter a Montecitorio. Sul foglio ci sono anche appuntate le parole «ribaltone», «voto», «presidente Repubblica» e «una soluzione». In alto, come primo punto, «308, meno 8 traditori». Quello scritto in Aula dopo il voto non è l’unico foglietto di Berlusconi che esprime la momentanea incertezza del capo del governo. I malpancisti del Pdl recatisi a Palazzo Grazioli prima del voto hanno trovato il Cavaliere che maneggiava uno schema a tutta pagina con in bella mostra alcuni punti interrogativi. «Prendo la fiducia? Lascio? Governo tecnico? Reincarico?».
Ad ogni domanda il Cavaliere aveva inserito sul foglio una risposta, un percorso, evidenziando - riferisce chi è stato in via del Plebiscito - i pro e i contro delle ipotesi in campo. Dal Pdl riferiscono che lunedì sono state affrontati tutti gli scenari possibili e il presidente del Consiglio ha continuato a ripetere di avere intenzione di andare avanti. Anche oggi il premier ha ribadito di voler andare alla conta: devono avere la forza per buttarmi giù, mi devono far cadere, non sono uno che si arrende dall’oggi al domani, è il ragionamento del Capo dell’esecutivo che in questi giorni sta ascoltando tutti i ’fedelissimì per poi trarre le conclusioni. I vertici di via dell’Umiltà sono convinti che si supererà l’asticella dei 310 voti. Il timore, però, a questo punto è che il Quirinale possa tornare ad invocare garanzie di governabilità. Berlusconi agli ospiti ricevuti dice di fidarsi ancora di Giorgio Napolitano che, a suo dire, si è comportato sempre correttamente. L’obiettivo è sempre quello di superare lo scoglio della Camera e porre poi la fiducia al Senato sulla lettera della Bce. Lunedì a confortare il premier è stato in particolar modo la figlia Marina, mentre - sostengono fonti ben informate - gli altri figli, e soprattutto Eleonora, Barbara e Luigi, avrebbero chiesto al premier di evitare lo scontro a tutti i costi. In ogni caso il Cavaliere è ancora convinto di farcela.
Lunedì ad Arcore c’è stata anche una prima riunione sull’eventualità di un voto anticipato: sono stati prenotati gli spazi elettorali, sono spuntati i primi bozzetti con la scritta «Italia sempre» e «Italia viva», con logo e colori che si ispirano a quelli della vecchia Fi. La prima data utile per le elezioni è quella del 20 febbraio, sostengono fonti parlamentari del Pdl. «Questi malpancisti - dicono alcuni parlamentari di via dell’Umiltà - non hanno capito che così facendo accelerano il voto anticipato».
Redazione Online
* Corriere della Sera, 08 novembre 2011 18:09
L’importanza della verità
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 5.11.2011)
L’autunno italiano è triste, luttuoso, incerto. Gravano su di noi la maledizione della natura e l’irrisione del mondo intero. La lingua stessa sembra diventata di legno, equivoca, inservibile. Ma quando la usa il presidente della Repubblica tutti la capiscono. «Parliamoci chiaro, dice oggi Giorgio Napolitano nei confronti dell’Italia è insorta in Europa, e non solo in Europa, una grave crisi di fiducia. Dobbiamo esserne consapevoli e sentircene, più che feriti, spronati nel nostro orgoglio e nella nostra volontà di recupero». Dire la verità, dirla con chiarezza, con nettezza, in limpido italiano è il dovere d’ufficio che il capo dello Stato si è assunto. Oggi ne abbiamo avuto una nuova prova, tanto più importante quanto più amara è questa verità e più urgente la necessità che il Paese intero ne prenda coscienza. Da giorni, da anni, un altro uomo, uno che dice di governare l’Italia ma che è considerato da tutto il mondo un ostacolo alla credibilità di tutti noi come individui e come Paese, tenta di venderci la sua capacità di illusionista, mentre coi più meschini calcoli di potere personale rinvia le scelte necessarie e trascina sempre più in basso la credibilità del Paese avvolgendo nelle nebbie di messaggi vaghi la comunicazione con le istituzioni europee.
La parola di Napolitano giunge ancora una volta tempestiva in risposta alle incredibili dichiarazioni di un premier che cerca di raccontarci la sua favola preferita: quella dell’Italia paese ricco, dove abbondano i soldi e i consumi, dove i ristoranti e gli hotel traboccano di clienti, gli aerei di passeggeri. Dove se c’è qualche problema è per colpa dell’euro. A queste menzogne il Paese ha il torto di avere creduto nella sua maggioranza per troppi anni. Oggi scopre a carissimo prezzo di avere sbagliato: la voce dei pentiti non potrebbe essere più corale. E la verità è la medicina amara che deve prendere per guarire, per cessare di essere un burattino nelle mani di un manipolatore professionale dell’informazione.
Enorme è il conto che viene presentato all’Italia al risveglio dal suo lungo sonno. Ci vorranno generazioni intere per saldarlo - le generazioni dei nostri figli. Il nostro è oggi un Paese che va letteralmente in pezzi, giorno dopo giorno: qui se sono fatiscenti e abbandonati i ruderi del mondo antico, ancor più fragili sono le costruzioni recenti. Mai come oggi l’idea che ci sia qualcuno che governa l’Italia appare surreale. È per questo che è necessario dire agli italiani che c’è una grave crisi di fiducia nel mondo che ci riguarda e che dunque tutti gli italiani debbono sentirsi chiamati a risalire questa china. Il Paese Italia resterà inaffidabile finché parlerà al mondo con la voce dell’attuale presidente del Consiglio. Dunque deve esserci un’altra voce che si faccia ascoltare e che parli a nome di noi tutti. Poi ci divideremo nella divisione dei debiti e nel conteggio di chi deve pagare. Ma non oggi.
Riconciliare le parole con la verità è il primo passo della ricostruzione che ci aspetta. Sarà una lunga fatica ma senza questo primo passo non si può nemmeno cominciare a rimboccarsi le maniche. Dunque è fondamentale che ci sia chi dice parole di verità: tanto meglio se lo fa con la garanzia di una credibilità che gli deriva non dalla sua pur altissima posizione istituzionale ma dal fatto di non avere mai mentito agli italiani e di avere saputo interpretare sentimenti e bisogni profondi del Paese. "La verità vi renderà liberi", si legge nel Vangelo di Matteo. "La verità è rivoluzionaria", scriveva Gramsci.
Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio
“Senso dello Stato”: chi ne parla non ce l’ha
di Marco Filoni (il Fatto, 22.10.2011)
L’ammazzaparole. Ecco il mestiere del lessicografo Henri Cinoc. Per decenni ha cancellato parole, eliminando quelle vecchie e desuete dal dizionario Larousse. Anche noi abbiamo i nostri Cinoc. Peccato però che non provengano dalla penna felice e visionaria di Georges Perec, che s’inventò il personaggio nel suo insuperabile La vita istruzioni per l’uso. No, i nostri sono persone reali in carne e ossa. Loro non cancellano le parole, è vero. Ma fanno qualcosa di più sottile: le svuotano di senso. Certo, una lingua subisce variabili storiche e sociali che la portano a trasformarsi. Eppure vi sono parole che sono concetti, con una storia e un valore da non modificare. Sono parole da difendere. Perché gli italici emuli di Cinoc - facile riconoscerli - nel loro sprezzante abuso del linguaggio producono danni. Del resto aveva ragione il linguista Leo Spitzer quando diceva che le parole sono spie dello stato psichico di chi se ne serve. Ecco perciò un piccolo dizionario delle parole da conservare affinché il blatericcio quotidiano non le saccheggi del loro vero significato.
CONCERTAZIONE . Era una pratica di governo delle relazioni industriali, in cui i sindacati partecipavano alle decisioni di politica economica. Oggi è un problema per le aziende. Un ostacolo da schivare, pena il trasferimento all’estero. Visto lo spirito dei tempi, proponiamo di sostituirla con crowdsourcing: un neologismo che significa un modello di sviluppo in cui si richiede la partecipazione, dal basso, dei soggetti interessati. Magari qualche idea buona viene fuori. Con questo metodo in Islanda ci hanno scritto nientemeno che la nuova Costituzione.
DIALOGO . Da Platone in poi, il dialogo propriamente detto è quello in cui le persone che vi partecipano non sono d’accordo, e intendono mettersi d’accordo. Una vera e propria arte, nella quale con l’ingegno e la retorica si cerca di convincere l’altro, di tirarlo dalla propria parte o confutarlo con argomenti validi. Oggi dialogano soltanto gli interessi, quasi sempre individuali e non della comunità. La politica viene meno alla condizione necessaria del dialogo, cioè l’ascolto. I politici danno voce a monologhi. Il loro è un dialogo muto.
ETICA . Si tratta del giudizio della condotta dell’uomo, i criteri in base ai quali si valutano i comportamenti e le scelte. È associata all’azione, nel senso che l’etica deve indicare i valori che orientano le scelte di chi agisce. Non a caso, per secoli e secoli, l’etica veniva posta di fianco alla politica. Da non confondere però con la morale, perché sono due cose distinte : banalizzando, la morale è individuale (perciò si parla di morali, al plurale); l’etica è il sistema, quindi morale concreta, storica e pubblica. L’etica dovrebbe dar forma a uno stile di vita. Ecco, basterà questa constatazione (e la lettura dei titoli dei giornali) per capire quanto oggi sia totalmente assente dal dibattito pubblico. Ormai si parla di etica associandola non più alle virtù, bensì ai vizi. Aveva ragione Bertold Brecht quando diceva che prima viene lo stomaco e solo dopo la morale. Ma un avvertimento, prezioso, lo ritroviamo nell’esortazione di Bertrand Russel: “Senza moralità civile le comunità periscono; senza moralità privata la loro sopravvivenza è priva di valore”.
INNOVAZIONE . Significa progresso e genera un cambiamento positivo verso il meglio. Cioè l’applicazione degli elevati livelli di conoscenze (tecnologiche, scientifiche, sociali) che garantiscono un miglioramento della qualità della vita dell’uomo. Va da sé, è strettamente legata alla ricerca. Che da noi non se la passa troppo bene. Anzi. Le uniche innovazioni a cui assistiamo sono sempre piuttosto macchinose. Ma se un’innovazione è troppo difficile da introdurre significa che non è necessaria. E poi in Italia non seguiamo la “Legge di Terman” sull’innovazione, variabile applicata della Legge di Murphy: “Se vuoi formare una squadra che vinca nel salto in lungo, trova una persona che salti nove metri, non nove che ne saltano uno”.
ISTITUZIONE . È una cosa seria. E andrebbe riservata alle persone serie. L’istituzione è una sorta di casa dell’uomo nella quale tutti e ciascuno possano riconoscersi e dalla quale possano essere riconosciuti. Istituti umani, quindi politici e sociali. L’istituzione è l’ombra allungata dell’uomo, come la descrisse R.W. Emerson. Oggi l’istituzione, ahinoi, ha assunto la forma farsesca del “Lei non sa chi sono io!”. Peccato. Perché l’istituzione è fatta dalle persone. E pensare che una volta, quando Chirac era presidente francese, al suo passaggio un uomo gli gridò dalla strada connard (stronzo). Lui gli andò incontro con la mano tesa dicendogli: Chirac, c’est moi!
LIBERTÀ . Montesquieu la definì come il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono. Nell’Ottocento il filosofo inglese John Stuart Mill lo corresse, dicendo che la libertà consisteva nel fare ciò che si desidera. Pare che qui da noi questa seconda definizione abbia preso il sopravvento. Nonostante la difficoltà di definirla, comunque, si può sostenere che la libertà non è mai fine a se stessa, ed è possibile soltanto in un paese dove il diritto ha più forza delle passioni.
RIFORME . Il riformismo nasce come alternativa alla rivoluzione. Nasce a sinistra, muore a destra. Oggi tutti sono riformisti. Chi per vezzo, chi per virtù. Molti lo sono in stile ottocentesco, il cui motto era “Riformate , affinché possiate conservare”! Il problema non è la riforma in sé: si parte sempre dall’esistente, che può esser sempre migliorato. Il problema è il contenuto e chi fa le riforme. Cavour sosteneva che riformare rafforza l’autorità. Ma se a riformare è un buon governo. Altrimenti aveva ragione Tocqueville, per il quale - l’esperienza insegna - il momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui comincia a riformarsi.
RIVOLUZIONE LIBERALE Molti la invocano. Quasi fosse una sorta di epifania alla risoluzione di tutti i mali. Nasce come progetto di applicazione delle teorie liberali, da Von Hayek ai sostenitori del laissez-faire. Nella realtà non è mai avvenuta. Gli stessi teorici pongono parecchi distinguo: una tale rivoluzione praticata senza vincoli potrebbe condurre la società a gravi difficoltà. Aveva ragione George Sorel quando affermava che la rivoluzione liberale è un’utopia. Ma alle utopie si può anche credere. Bisogna però far qualcosa affinché si realizzino. Un esempio? I giornali che invocano la rivoluzione liberale perché non rinunciano ai contributi pubblici e si mettono così in regime di libera concorrenza?
SENSO DELLO STATO . Qui siamo messi davvero male. Poche, rarissime eccezioni, sotto i nostri occhi. In generale dovrebbe essere la considerazione per l’incarico che si riveste, colmandolo di virtù affinché venga preso come esempio. Invece oggi è un’attitudine che si può riassumere con una citazione: “Lo Stato deve essere l’amministrazione di una grande azienda che si chiama patria appartenente a una grande associazione che si chiama nazione”. No, non è una dichiarazione recente di qualche politico aziendalista. L’ha scritto quasi cent’anni fa Filippo Tomaso Marinetti, che era un futurista e quindi un po’ burlone. Il testo che conteneva queste parole si intitolava, tutto un programma, così: Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio.
Alcuni ricercatori dell’università della California hanno dimostrato che certi messaggi pubblicitari riducono le capacità decisionali della mente e la "convincono": certi annunci sono irresistibili e così i consumatori acquistano senza porsi domande
Quegli spot che imbrogliano il cervello: comprare non è una scelta, ma un ordine
di Luisa Barbieri *
Viviamo nel contesto sociale della deresponsabilizzazione, ci hanno abituati a farci scegliere, piuttosto che a cercare di acquisire la consapevolezza che dovrebbe sostenere le nostre scelte, ponendole in relazione ad un bisogno personale. Del resto, in un mondo teso solamente al profitto, l’individuo modello è il consumatore impenitente, il soggetto facile al condizionamento che preferisce subire piuttosto che agire in nome proprio. Quindi l’essere corteggiati e sedotti dalla pubblicità è una ferma consapevolezza per tutti noi, purtroppo la normalità.
Siamo assoggettati ad un corteggiamento sfiancante, tanto che non facciamo più differenza tra l’acquisto consapevole e necessario, e quello dettato dall’impulso condizionato. Dobbiamo cercare di comprendere che un conto è uscire per acquistare un elettrodomestico, come potrebbe essere una lavatrice, perché la nostra è rotta e proprio non possiamo farne a meno, un altro è ritrovarci preda di un impulso, come tale incontrollabile, che ci spinge ad acquistare un mega televisore a schermo ultra piatto, ultra leggero, ultra supersonico... del quale potevamo assolutamente fare a meno. Un bisogno indotto corredato da caratteristiche precise ed identificabili che riescono a trasformare un messaggio in impulso.
I messaggi pubblicitari possono colpirci attraverso un meccanismo di persuasione logica (LP, logical persuasion) rappresentando le caratteristiche del prodotto relative al prodotto stesso, senza debordare in altro spazio immaginifico mentale; mentre, quando il messaggio aggira e raggira la coscienza (NI, non-rational influence), ad esempio stimolando fantasie che potrebbero o meno essere legate all’oggetto della pubblicità, ma che hanno il solo scopo di manipolare, allora la questione cambia e non di poco, ossia modifica in qualche modo lo stato di coscienza. Facile è comprendere come eticamente la manipolazione sia da porre nella sezione dedicata alla scorrettezza, quindi destinata all’eliminazione sociale. Le ricerche di neuromarketing vedono e prevedono i comportamenti a feed back dei consumatori, ma l’impatto sulle funzioni cerebrali procurate da queste manipolazioni nel mondo reale, non erano conosciute; oggi i ricercatori della UCLA e della George Washington University hanno dimostrato che diversi tipi di messaggi pubblicitari, evocano diversa attività cerebrale, a seconda che il soggetto venga sottoposto a LP oppure a NI.
Nell’articolo pubblicato sulla corrente edizione online di Journal of Neuroscience, Psychology, and Economics, il prof. Ian Cook (docente di psichiatria presso il Department of Psychiatry and Biobehavioral Sciences e il David Geffen School of Medicine at UCLA, e come ricercatore presso l’UCLA Semel Institute for Neuroscience and Human Behavior e il UCLA Brain Research Institute) e colleghi asseriscono che le regioni cerebrali coinvolte nei processi decisionali e in quelli emotivi sono particolarmente sollecitate, si mostrano più attive, quando gli individui sono sottoposti a messaggi che utilizzano la persuasione logica (LP), rispetto a messaggi che utilizzano l’influenza non razionale (NI). Queste regioni cerebrali parrebbero aiutare ad inibire gli stimoli dettati da impulso.
Facendo seguito al ragionamento del prof. Cook: “tieni d’occhio il tuo cervello e terrai d’occhio il tuo portafogli”, vorrei puntualizzare il fatto, emergente dagli studi del gruppo di ricercatori californiani, che i risultati sono a favore delle capacità selettive operanti nel nostro cervello. I bassi livelli di attività cerebrali registrati invece nel corso di interazione con messaggi NI, rinforza il concetto che istintivamente prevale l’azione tesa ad evitare il condizionamento, quale meccanismo inibitorio difensivo dall’impulso.
Sono stati valutati i tracciati elettroencefalografici di 24 giovani adulti (11 donne e 13 uomini) sottoposti alla visione di immagini pubblicitarie. Ogni partecipante è stato sollecitato da 24 pubblicità apparse su riviste e giornali: gli annunci che utilizzavano immagini LP comprendevano una tabella che si riferiva a situazioni e cifre relative alle sigarette, i dettagli su come costruire uno spazzolino da denti e suggerimenti relativi ai criteri da seguire per acquistare alimenti per cani in base alla loro attività motoria; gli annunci NI contemplavano l’immagine di una bella donna in piedi con le gambe allargate a pubblicizzare dei jeans, mentre a pubblicizzare le sigarette si mostrava l’immagine di una donna che, saltando su di un idrante, veniva inondata dagli spruzzi d’acqua, sotto lo sguardo entusiasta di un uomo, con chiari riferimenti di ordine sessuale.
Sulla base di queste sollecitazioni, si è visto che le immagini LP determinano elevati livelli di attività di tutte le aree del cervello coinvolte nel processo decisionale e/o nella trasformazione emozionale. Quindi le preferenze per l’acquisto di beni e servizi possono essere modellate da molti fattori, in primis dalle informazioni logiche e persuasive, cui possono sovrapporsi, a scopo seduttivo, le immagini o i testi che intervengono nel cambiamento comportamentale senza l’intervento della coscienza, senza che si richieda il riconoscimento consapevole.
Come dice il prof. Cook: “Poiché i risultati hanno mostrato che in risposta agli stimoli sensoriali non razionali, l’attività è più bassa nelle aree del cervello che ci aiutano a inibire le risposte agli stimoli, i risultati confermano l’ipotesi che alcuni inserzionisti vogliono sedurre, piuttosto che convincere i consumatori ad acquistare i loro prodotti”, in barba all’etica.
Note di approfondimento*
UCLA newsroom
Professor Ian Cook
Semel Institute for Neuroscience & Human Behavior
Buyer beware: Advertising may seduce your brain, UCLA researchers say
UCLA Department of Psychiatry and Biobehavioral Sciences
New UCLA study: brain seduction from ads
Napolitano: "In Italia troppa partigianeria. E i leader politici non siano gelosi di me" *
ROMA - In Italia c’è un eccesso di partigianeria politica. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro stamattina con i giornalisti della stampa estera.
All’incontro ha partecipato una rappresentanza di giornalisti di diverse testate internazionali e secondo quanto si è appreso il capo dello stato avrebbe fatto riferimento, come gli è capitato altre volte, a una partigianeria politica esasperata usando il termine inglese "hyperpartisanship".
"Penso che non ci sia per i politici italiani motivo di ingelosirsi, perchè viaggiamo su pianeti diversi, non ci sono comparazioni possibili, che non siano invece arbitrarie", ha aggiunto il capo dello Stato a proposito del suo ruolo. Spiegando poi che il compito del Colle è quello di "rappresentare l’unità nazionale" ed è "completamente diverso da quello dei leader politici".
* la Repubblica, 23 maggio 2011
di MASSIMO GIANNINI *
Il potere mente. Per abitudine alla manipolazione e per istinto di conservazione. Non c’è bisogno di aver letto la prima Hannah Arendt, o l’ultimo Don De Lillo, per sapere che "lo Stato deve mentire", o che il governo tecnicamente totalitario "fabbrica la verità attraverso la menzogna sistematica". Ma nessun potente mente con la frequenza e l’impudenza di Silvio Berlusconi. Non pago di aver danneggiato il Paese che governa, in un drammatico e surreale "colloquio" elemosinato a Obama a margine di un vertice tra gli Otto Grandi del pianeta, il presidente del Consiglio torna sul luogo del delitto. E, dopo aver inopinatamente e irresponsabilmente denunciato al presidente americano la "dittatura dei giudici di sinistra", lo "perfeziona", raccontando la stessa delirante bugia agli altri leader del G8.
Abbiamo già detto quale enorme discredito rappresentino, in termini di immagine internazionale, le parole scagliate contro l’Italia dall’uomo che dovrebbe rappresentarla al meglio nel mondo. Abbiamo già detto quali enormi "costi" imponga allo Stato, in termini di credibilità istituzionale, questo vilipendio della democrazia e dei suoi organismi. Ma è necessario, ancora una volta, squarciare la cortina fumogena con la quale il premier manomette i fatti, e denunciare l’ennesima menzogna sulla quale costruisce il teorema della "persecuzione giudiziaria". A Deauville, in una conferenza stampa costruita come una disperata requisitoria contro tutto e contro tutti, Berlusconi compie l’ultima metamorfosi: da comune inquisito si trasforma in Grande Inquisitore. Accusa le "toghe rosse", insulta "Repubblica" e i giornalisti, "colpevoli" di non indignarsi di fronte allo "scandalo delle 24 accuse che mi riguardano, tutte cadute nel nulla". "Vergognatevi", tuona furente il presidente del Consiglio, calato nella tragica maschera dostoevskiana dei Fratelli Karamazov. Dovrebbe vergognarsi lui, per aver violentato ancora una volta la verità.
A sentire il Cavaliere e i suoi "bravi", i processi che lo riguardano cambiano secondo gli umori e le stagioni. L’altro ieri aveva parlato di "31 accuse". In passato si era definito "l’uomo più perseguitato dell’Occidente, con 106 processi tutti finiti con assoluzioni". La figlia Marina ha evocato "26 accuse cadute nel nulla". Paolo Bonaiuti ha rilanciato con "109 processi e nessuna condanna". In realtà, come ha ricordato più volte Giuseppe D’Avanzo su questo giornale, i processi affrontati dal premier sono 16. Quattro sono ancora in corso: processo Mills (corruzione in atti giudiziari), diritti tv Mediaset (frode fiscale), caso Mediatrade (appropriazione indebita) e scandalo Ruby (concussione e prostituzione minorile). Negli altri 12 processi, solo tre sono state le sentenze di assoluzione: in un caso con "formula piena" (Sme-Ariosto/1, per corruzione dei giudici di Roma), negli altri due con "formula dubitativa" (Fondi neri Medusa e Tangenti alla Guardia di Finanza).
Gli altri 9 processi si sono conclusi con assoluzione, ma solo grazie alle leggi ad personam, fatte approvare nel frattempo dai suoi governi. Nei processi All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2 il Cavaliere è assolto dalla legge che ha depenalizzato il falso in bilancio. Nei processi sull’iscrizione alla P2 e sui terreni di Macherio è assolto perché i reati sono estinti e le condanne cancellate dall’apposita amnistia.
Nei rimanenti 5 processi (All Iberian/1, affare Lentini, bilanci Fininvest 1988/1992, fondi neri del consolidato Fininvest e Lodo Mondadori) il premier è assolto grazie alle "attenuanti generiche", che gli consentono di beneficiare della prescrizione (da lui stesso fatta dimezzare con la legge Cirielli) e che operano sempre nei confronti dell’imputato ritenuto comunque "responsabile del reato".
Questa è dunque la verità storica, sull’imputato Berlusconi. A dispetto delle "persecuzioni" che lamenta, e delle "assoluzioni" che rivendica. Bugiarde, le une e le altre. È penoso doverlo ricordare. Ma è anche doveroso, alla vigilia di un turno elettorale che può cambiare il corso di questa disastrosa legislatura. E può spazzare via, finalmente, i danni e gli inganni compiuti dal Grande Inquisitore di Arcore. m. gianninirepubblica. it
* la Repubblica, 28 maggio 2011
BERLUSCONI (CON I SUOI COM-PARI) RUBA LE CHIAVI DI CASA DELL’ITALIA INTERA, REALIZZA UN COLPO DI STATO, E IL PARLAMENTO E IL CAPO DELLO STATO PERMETTONO A 17 ANNI DI DISTANZA ANCORA L’ESISTENZA DEL SUO PARTITO!?!
DUE PRESIDENTI (1994-2011) GRIDANO "FORZA ITALIA"!!! E si pensa ancora che sia tutto una barzelletta!!! (fls)
di Gaetano Azzariti (il manifesto, 10.02.2011)
«Farò causa allo Stato», sarebbe questa la reazione di Berlusconi alla richiesta di rito abbreviato presentata dalla Procura di Milano. Vista la nota propensione a raccontar barzellette del nostro Presidente del Consiglio si può pensare che si sia trattato solo di una malriuscita battuta di spirito.
Se, invece, si dovesse prendere sul serio l’affermazione riportata dalle agenzie di stampa, essa apparirebbe sintomatica di una concezione premoderna dei rapporti tra poteri, estranea alla nostra cultura democratica e costituzionale, lontana dalla realtà dello Stato contemporaneo e dall’evoluzione che, dai tempi di Montesquieu, ha portato a conformare lo Stato come un’entità divisa.
Una barzelletta se s’immagina il «Capo» del governo che fa causa a se medesimo, chiedendo magari al «suo» ministro della giustizia il risarcimento per i danni subiti dal tentativo di svolgere i processi che lo vedono coinvolto. Vedere accanto la vignetta-copertina di Vauro, certamente illuminante più di ogni discorso su una simile schizofrenia dissociativa.
A noi non rimane che prendere sul serio quanto è stato detto. La dichiarazione è grave e inquietante perché tende a negare ogni autonomia ai poteri dello Stato, a quello giudiziario in particolare. Se si ha un minimo di rispetto per la divisione dei poteri (carattere fondativo della civiltà costituzionale moderna) si dovrebbe sapere che compete ai giudici l’esercizio della giurisdizione nei confronti di ogni soggetto di diritto, di ogni persona. La minaccia di «far causa» perché il giudice svolge le sue indagini ha come scopo quello di negare l’autonomia e l’indipendenza del potere, mira a delegittimare l’ordine della magistratura nel suo complesso.
Nulla può valere a giustificare le affermazioni del premier, neppure le sue eventuali ragioni «processuali». Non si può escludere allo stato, infatti, che la Procura di Milano stia interpretando male le regole processuali, né si può escludere che in sede dibattimentale le ragioni della difesa prevalgano su quelle dell’accusa, venendosi così a dimostrare la non perseguibilità penale per le imputazioni mosse. Ma ciò dovrebbe indurre Berlusconi a partecipare al processo che lo vede indagato, non a minacciarne un altro «eguale e contrario».
Deve essere chiaro che la Procura sta esercitando le sue funzioni d’indagine nel rispetto delle regole processuali. Ha presentato, infatti al Gip la richiesta di rito immediato ai sensi degli art. 453 e segg. del Codice di procedura penale. Spetterà ora al Giudice verificare la sussistenza dei presupposti.
Ci sono alcuni profili giuridici che dovranno essere valutati con attenzione e pacatezza: quelli concernenti la possibilità di procedere per via breve, oltre che per il reato di concussione, anche con riferimento all’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile; quello riguardante la competenza della procura milanese; quello relativo al carattere comune ovvero funzionale del reato di concussione posto in essere - secondo l’accusa - dal Presidente del Consiglio. Questioni delicate, che si dovrebbero sviluppare secondo la normale dialettica processuale, nel contraddittorio delle parti, in base a quanto stabilisce la legge.
Ma chi ha mai detto che è facile fare i processi? Anche le accuse dovranno essere provate. In fondo proprio a questo servono i processi. Sono le «sante inquisizioni» i riti d’indagine che non servono a nulla, avendo sin dall’inizio già formulato una condanna. Per fortuna il medioevo giuridico è alle nostre spalle, sebbene il Presidente Berlusconi non sembra essersene accorto. Noi, che siamo sempre stati garantisti, con tutti e in ogni caso, non indietreggiamo: è nel processo che si provano le accuse e può farsi valere l’innocenza di ciascun indagato.
Per cortesia Cavaliere, si faccia processare. Dimostri, se può, in quella sede la sua innocenza, almeno la non rilevanza penale dei suoi comportamenti privati: l’onore del paese ne verrebbe sollevato. Se è convinto che la procura di Milano non abbia «né la competenza territoriale né quella funzionale» faccia come tutti: lo dica al giudice che dovrà valutare l’operato della procura, eserciti i suoi diritti di difesa. Ma non fugga dal processo, non è più il tempo antico del «diritto sovrano». E poi, signor Presidente se lo faccia dire: se proprio non crede alla giustizia perché vuol far causa allo Stato?
In visita ufficiale nella ’Città dei Mille’
Napolitano: ’’Uscire da spirale insostenibile di contrapposizioni’’
L’intervento a Bergamo: ’’Non è mio compito interferire nella dialettica politica’’. *
Bergamo, 2 feb. (Adnkronos) - "Il mio compito è rappresentare l’unità nazionale che si esprime nel complesso delle istituzioni, le istituzioni sono il mio solo punto di riferimento. Non è mio compito intervenire e interferire nella dialettica delle forze politiche e sociali". Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlando nell’aula del Consiglio comunale di Bergamo all’inizio della sua visita ufficiale nella ’Città dei Mille’.
’’Per portare avanti riforme che sono all’ordine del giorno, e mi rivolgo a quanti sollecitano decisioni annunciate in nome del federalismo e ormai giunte a buon punto, per portare avanti l’attuazione di quel nuovo titolo V della Costituzione - ha proseguito il capo dello Stato - che fu condotto dieci anni fa all’approvazione del Parlamento e del Corpo elettorale da una maggioranza di centrosinistra ed è stato avviato a concrete applicazioni da una maggioranza di centrodestra, è stato decisivo e resta oggi decisivo un clima corretto e costruttivo di confronto in sede istituzionale’’, proprio per questo conclude, ’’si deve uscire da una spirale insostenibile di contrapposizioni, arroccamenti e prove di forza.
’’La mia generazione ha visto la guerra e l’Italia spaccata ma non ci scoraggiammo - ha aggiunto Napolitano rivolgendosi direttamente ai giovani per la celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia - e nonostante le divisioni politiche e ideologiche si riuscì a fare la Costituzione nel segno dell’Unità. A questo collaborarono forze politiche distanti che trovarono un punto di incontro’’. ’’A voi studenti chiedo di contribuire a costruire le condizioni per migliorare il Paese e per ricreare quel clima positivo che va proprio nell’interesse dei giovani e dell’Italia in un mondo sempre più competitivo’’, ha continuato il presidente della Repubblica.
Napolitano ha poi sottolineato che "il confronto politico e sociale nelle istituzioni locali è più pacato rispetto a quello che c’è nella Capitale dove ci sono più contrasti. Questo io lo vedo positivamente perché è indispensabile uno sforzo collettivo nell’interesse del Paese".
Il presidente della Repubblica ha lungamente ricordato il pensiero del ’padre’ del federalismo italiano Carlo Cattaneo ricordando che Cattaneo si dichiarava contrario ’’alla fusione e non all’unità’’ e riteneva che ’’una pluralità di centri viventi, stretti insieme dall’interesse comune, dalla fede data, dalla coscienza nazionale’’ fosse essenziale.
’’L’Unità della Nazione e dello Stato ha più che mai senso proprio in un mondo globalizzato e frammentato nel quale un’Italia divisa e una macro regione italiana sarebbe solo un irrilevante frammento’’, ha detto il capo dello Stato.
Napolitano ha poi sottolineato che ’’l’Unità nazionale nella sua ricchezza del pluralismo e delle sue autonomie e l’unità europea egualmente concepita, sono leve insostituibili per il ruolo dell’Italia intera nel nuovo contesto mondiale, sono leve irrinunciabili per mettere a frutto tutte le nostre potenzialità, soprattutto quelle oggi così frustrate e perfino poco ascoltate, delle nuove generazioni’’.
’’Le celebrazioni iniziate nel 2010 e in via di sviluppo nel 2011 vogliono essere e saranno, tale è il mio convincimento e il mio impegno, un modo di ritrovarci in quanto italiani nello spirito che ci condusse 150 anni fa a unirci come Nazione e come Stato. Saranno anche un’occasione per una riflessione comune sui travagli e sulle prove che abbiamo vissuto insieme - ha concluso il capo dello Stato - e sui problemi che abbiamo davanti’’.
* ADNKRONOS ultimo aggiornamento: 02 febbraio, ore 12:45: ultimo aggiornamento: 02 febbraio, ore 12:45.
Un nome da rossore
di Piero Stefani *
In una sera di maggio del 1915 un poeta vate, rivolgendosi alla folla accalcata in una piazza di Roma, così si esprimeva: «Su la nostra dignità umana, sulla dignità di ognuno, su la fronte di ognuno, su la mia, su la vostra, su quella dei vostri figli, su quella dei non nati, sta la minaccia di un marchio servile. Chiamarsi Italiano sarà nome da rossore ...». Con queste, e altre ancor più veementi, parole di [un] «grande» della letteratura italiana, Gabriele d’Annunzio, portava a compimento un esercizio di retorica che fingeva di premere sul governo al fine di prendere una decisione in effetti già assunta: l’ingresso in campo dell’Italia a fianco dell’Intesa. Non fu una scelta di cui gloriarsi.
In tutt’altro contesto, oggi si impongono con implacabile attualità, a patto di trascriverle al presente, alcune di quelle parole: «chiamarsi italiano è un nome da rossore». La vera ragione non è quella, pur reale, dell’immagine che si diffonde nel mondo legata agli inqualificabili comportamenti personali del presidente del consiglio. Lì, certo, ci sono ad abundantiam motivi di coprire le proprie guance di rubyno e tuttavia lo snodo fondamentale si trova altrove. Il vero motivo di vergogna che tutti ci accomuna è che, all’incirca da vent’anni, in Italia non si può fare a meno di riferirsi, in un modo o in un altro, a Berlusconi. Vi è un dato oggettivo: da quasi quattro lustri il Cavaliere è divenuto il perno su cui ruota l’intera vita nazionale.
Non siamo in una classica dittatura, le gigantografie di Berlusconi non appaiono agli angoli delle strade o sui palazzi istituzionali, nelle scuole o nei tribunali. Si tratterrebbe di un procedimento arcaico. Il fatto cruciale è che tutto il linguaggio della comunicazione, in modo diretto o indiretto, non riesce a ignorarlo o come persona o come stile di comportamento avversato e/o introiettato. Berlusconi si è impossessato dell’anima del paese. Questo è il vero motivo di incancellabile rossore. Essere all’opposizione politica è un rantolo di dignità, ma non sposta il baricentro della questione. Non ci si può dimenticare di lui. È lui che comanda il gioco. Prima o poi perderà; ma il torneo sarà sempre intitolato a lui anche dopo di lui. Lo sarà fino a quando non ci sarà una vera svolta. Giunti a questo punto, la rigenerazione dovrà, per forza, passare attraverso una fase traumatica, proprio come avvenne per l’altro ventennio: prospettiva realistica, ma non augurabile, i prezzi da pagare saranno infatti enormi.
Tutto è così. Quando ci si imbatte in forze positive impegnate nel sociale, nella concreta applicazione dei diritti, nell’elaborazione culturale seria, allora sorge, inevitabile, un interrogativo: come è possibile che un paese che ha queste potenzialità abbia una vita e un’immagine pubbliche così degradate? A parti rovesciate, la stessa conclusione va tratta quando ci si imbatte in comportamenti e stili di vita volgari, egoistici, narcisistici e dissipatori pervarsivamente presenti tra noi. In tal caso si è obbligati a constatare quanta terribile omogeneità ci sia tra il «paese reale» e quello legale.
Se si contemplano le opere d’arte del passato o si è avvinti dalla grande musica e letteratura dell’Italia di un tempo, ci si chiede come è possibile che una civiltà capace di aver prodotto quelle realtà si sia ridotta così. Se si è di fronte alla liturgia pubblica dei picchetti di onore, delle toghe, delle deposizioni di corone di alloro, delle solenni sedute inaugurali, delle celebrazioni e degli anniversari sorge, inevitabile, un senso di smarrimento constatando la vuotezza di quella ritualità di fronte al vero volto dell’Italia. Su questo declivio si potrebbe continuare, fino a giungere alla minuscola esemplificazione costituita da queste righe, anch’esse prigioniere di quello spettro che si aggira tra noi e dentro di noi.
Il modello «tirannico» (in senso classico) di chi governa la cosa pubblica in base al proprio interesse privato si è capovolto fino a far sì che anche il privato di ciascuno sia impregnato da un diuturno confronto con quello stile pubblico. Quando ci si alza la mattina, si è coperti da un rossore contraddistinto da tratti depressivi: non ce ne liberiamo, siamo ancora qui, non riusciamo a coagulare forze per uscirne.Nell’orizzonte italico vi è un altro rosso, quello cardinalizio. Anch’esso è ormai segno di vergogna. Quando il primo ventennio aveva imboccato la strada dello sfacelo, ci fu qualche sussulto; è il caso degli ultimi mesi di pontificato di Pio XI. Tuttavia neppure allora ci fu una seria messa in discussione dello scoperto appoggio che si era dato in precedenza. Né avvenne alcuna franca ammissione di aver sbagliato. La statura culturale di papa Ratti è imparagonabile a quella di un Bertone, di un Ruini o dell’evanescente Bagnasco. Da lui ci si poteva, forse, aspettare qualcosa, dagli odierni cardinali non è dato attendere nulla e i loro tardivi distinguo non fanno che rendere più intensa la porpora presente sui loro abiti e sulle nostre guance. Semplicemente essi non sono all’altezza di comprendere il dramma del nostro paese in quanto ne sono parzialmente corresponsabili.
* http://pierostefani.myblog.it/, 22 gennaio 2011
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 01.02.2011)
L’Italia s’è desta? Le parole un po’ logore dell’Inno di Mameli sono forse quelle che meglio descrivono un panorama sociale che ha visto in queste ultime settimane appunto un risveglio civile. Un risveglio persino inatteso, e che fa riemergere una idea e una pratica della politica che sembravano scomparse, sequestrate dall’intreccio perverso tra derive oligarchiche, uso privato del potere, perdita dell’etica pubblica, degrado del linguaggio, azzeramento della dimensione argomentativa.
E’ sempre opportuno non abbandonarsi ad entusiasmi frettolosi. Ma è altrettanto sbagliato non cogliere i segni del mutamento, sottovalutarli solo perché non stanno negli schemi canonici, e anzi se ne distaccano.
Nei mesi passati avevamo sofferto il silenzio della democrazia, emblematicamente testimoniato dalla chiusura del Parlamento, e l’assenza della politica come capacità di guardare a fondo nelle dinamiche reali. Ora quel silenzio è stato rotto, la voce è quella di persone che trasformano l’indignazione in richiesta perentoria di cambiamento, restituendo così alla politica quella presenza che sembrava scomparsa.
Elogio tardivo del movimentismo? Ricordiamo, allora, le parole che aprono Millennium People di
James Ballard: "Una piccola rivoluzione stava avendo luogo, così modesta e beneducata che quasi
nessuno l’aveva notata".
Chi sottovaluta, o pensa solo di strumentalizzare, il variegato mondo di quelli che protestano,
manifestano, si organizzano, non si rende conto che questa novità sociale interviene nel cuore di
una crisi drammatica, ne denuncia la gravità foriera di grandissimi rischi, e indica pure una via
d’uscita. Proprio la drammaticità della situazione che stiamo vivendo obbliga a cogliere la
profondità di un malessere che non si vuole più sopportare. Le persone rifiutano d’essere
considerate solo "carne da sondaggio", "consumate" da distruttive logiche di mercato, frammentate
dall’abbandono d’ogni logica sociale.
In un paese afflitto da egoismi e corporativismi, nessuno tra quelli che si uniscono per protestare sta rivendicando un interesse particolare. E’ una novità importante. Gli studenti, i professori, il mondo della cultura si sono fatti sentire perché non sia fatto tacere il sapere critico, per rivendicare la conoscenza come bene comune.
Gli operai hanno ridato forza alla parola "dignità", la stessa che guida le donne, che sono poi quelle che hanno individuato con più nettezza l’effetto devastante di un uso del corpo femminile che segna il punto estremo del degrado culturale e porta con sé una devastante idea del potere. E’ questa la ragione che spinge tanti uomini ad associarsi alle loro iniziative, nelle quale ricompaiono, inattese e benvenute, le ragazze, che tuttavia non si chiudono solo in questa "rivendicazione", ma sono presenti ovunque.
Si ricostruiscono così legami sociali, ceti e generazioni diverse tornano a parlarsi, parole che sembravano perdute, come "solidarietà", "interesse generale", "bene comune", "moralità" si ripresentano come ineludibili punti di riferimento.
Siamo al di là della categoria dei "ceti medi riflessivi" con la quale Paul Ginsborg aveva correttamente analizzato un’altra fase del risveglio della società civile. Quel che sta avvenendo in questo momento, infatti, è proprio l’emergere di una diversa società civile, composita, con una crescente capacità di auto-organizzazione, con una marcata autonomia.
Novità che hanno le loro radici soprattutto nell’uso della Rete, dov’è tutto un ribollire di iniziative, di discussioni magari sgangherate ma vitalissime. E, muovendo dalle piazze virtuali, i cittadini tornano ad affollare le piazze reali.
Vi sarà qualcuno, nello stanco ceto politico, capace di misurarsi con questo magma ribollente, realizzando quell’alleanza che tanto ha contato nel successo di Obama? Oggi, infatti, si fa più urgente il problema dell’"interlocutore politico" di questa nuova società.
Un interlocutore che dev’essere attento e umile, nel senso del rispetto dovuto a chi sta mettendo in gioco se stesso e, giustamente, rifiuta mediazioni troppo interessate. L’esempio è venuto dal Presidente della Repubblica quando, ricevendo gli studenti, ha colto la novità dei tempi, la richiesta, insieme, di un rapporto con le istituzioni e di un loro rinnovamento.
Non è un caso che i diversi movimenti siano unificati da un riferimento convinto alla Costituzione. Un’altra rilevante novità, infatti, è rappresentata proprio dal fatto che la Costituzione sta di nuovo incontrando il suo popolo. Se si vuole costruire una vera agenda politica, è da questo dato fondativo che bisogna partire, che illumina le diverse, puntuali indicazioni che vengono dai diversi soggetti del movimento in corso e che compongono un quadro programmatico selettivo e convincente.
Così, e non con improbabili alchimie, si costruisce un vero consenso politico. E si può contrastare un vizio impunito nella politica italiana, che si manifesta ciclicamente, e che consiste nel tentativo di cogliere qualsiasi occasione per cercare di liberarsi proprio del "programma costituzionale".
ORA BASTA!!!
di Maria Ricciardi (presidente Liberacittadinanza) *
Circola informalmente la notizia che il partito di Berlusconi cambi di nuovo nome. E’ ovvio che questo semplice atto non lo farà diventare migliore o più credibile. Per quel che ci riguarda può chiamarlo come gli pare, ma non certo "ITALIA"!
Berlusconi ha insultato e umiliato davanti al mondo intero e in ogni modo possibile l’onorabilità del nostro Paese e delle sue istituzioni , ma l’appropriazione indebita del nome della nostra nazione, "Italia", è per molti Italiani, e noi siamo fra questi, un’oltraggiosa offesa, che non gli permetteremo.
Non gli lasceremo usare come fosse "cosa sua" il nome di un Paese che ha dimostrato di non saper rispettare.
ORA BASTA!!!
FIRMIAMO... FIRMIAMO... FIRMIAMO
http://www.liberacittadinanza.it/petizioni/no-al-partito-nazione
Maria Ricciardi (presidente Liberacittadinanza)
www.liberacittadinanza.it
Il sermone della decenza
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 19 gennaio 2011)
Dovrebbe esser ormai chiaro a tutti, anche a chi vorrebbe parlar d’altro e tapparsi le orecchie, anche a chi non vede l’enormità della vergogna che colpisce una delle massime cariche dello Stato, che una cosa è ormai del tutto improponibile: che il presidente del Consiglio resti dov’è senza neppure presentarsi al Tribunale, e che addirittura pretenda di candidarsi in future elezioni come premier. Molti lo pensano da tempo, da quando per evitare condanne il capo di Fininvest considerò la politica come un sotterfugio.
Non un piano nobile dove si sale ma uno scantinato in cui si «scende», si traffica, ci si acquatta meglio. La stessa ascesa al Colle resta, nei suoi sogni, una discesa in sotterranei sempre più inviolabili. Molti sono convinti che i suoi rapporti con la malavita, la stretta complicità con chi in due gradi di giudizio è stato condannato per concorso in associazione mafiosa (Dell’Utri), il contatto con un uomo - Mangano - che si faceva chiamare stalliere ed era il ricattatore distaccato da Cosa Nostra a Arcore - erano già motivi sufficienti per precludergli un luogo, il comando politico, che si suppone occupato da chi ha avuto una vita rispettosa della legge.
Ma adesso l’impegno a fermare quest’uomo infinitamente ricattabile perché incapace di controllare la sua sessualità deve esser esplicitamente preso dai responsabili politici tutti, dalla classe dirigente in senso lato, e non solo detto a mezza voce. È una specie di sermone che deve essere pronunciato, solenne come i giuramenti che costellano la vita dei popoli. Un sermone che non deleghi per l’ennesima volta il giudizio morale e civile alla magistratura. Che pur rispettando la presunzione d’innocenza, certifichi l’esistenza di un ceto politico determinato a considerare l’evidenza dello scandalo e a trarne le conseguenze prima ancora che i tribunali si pronuncino. Ci sono reati complessi da districare, per i giudici. Questo non vieta, anzi impone alla politica di delimitare in piena autonomia la dignità o non dignità dei potenti.
Non è più solo questione del conflitto di interessi, che grazie alla legge del 1957 avrebbe sin dall’inizio potuto vietare l’accesso a responsabilità politiche di un titolare di pubbliche concessioni (specie televisive). Chi è sospettato d’aver pagato prostitute o ragazze minorenni, d’aver indotto - sfruttando il proprio potere - un pubblico ufficiale a fare cose illecite, chi è talmente impaurito dall’arresto di Ruby dal presentarla in questura come nipote di Mubarak, chi ha avuto rapporti con mafiosi e corrotto testimoni o giudici, deve trovare chiuse le porte della politica, anche se i Tribunali ancora tacciono o se vi son state prescrizioni. Attorno a lui deve essere eretto una sorta di alto muro, che impersoni la legge, la riluttanza interiore d’un popolo a farsi rappresentare da un individuo dal losco passato e dal losco presente. Tra Berlusconi e la politica questo muro non è stato mai eretto, nemmeno dall’opposizione quando governava. Se non ora, quando? È così da millenni, nella nostra civiltà: una società ha anticorpi che espellono le cellule malate, o non li ha e decade. L’ostracismo fu un prodotto della democrazia ateniese, nel VI secolo a.C.
Eraclito scrive: «Combattere a difesa della legge è necessario, per il popolo, proprio come a difesa delle mura». Berlusconi non avrebbe dovuto divenire premier, e non perché si disprezzi il popolo che lo ha eletto: non avrebbe dovuto neanche potersi candidare. Comunque, oggi, non può restare o tornare in luoghi del comando che hanno una loro sacralità: non può, se la coerenza non è una quisquilia, nemmeno presentarsi come patrono del proprio successore. Non è un monarca che va in pensione.
Gli italiani più restii a vedere lo sanno, altrimenti non avrebbero acclamato in simultanea, da 16 anni, Berlusconi e tre capi dello Stato. È segno che in un angolo della coscienza, sognano quel decalogo che nelle parole di Thomas Mann «altro non è che la quintessenza dell’umana decenza»: il non rubare, il non pronunciare il nome di Dio invano, il non dire il falso, il non sbandierare valori senza rispettarli, il non adulterare ciò che è chiaro e puro confondendolo con il torbido e l’impuro. È come se i padri costituenti avessero presentito tutto questo, vietando plebisciti di capi di governo odi Stato: come se condividessero la diffidenza di Piero Calamandrei per l’inclinazione italiana alla «putrefazione morale, all’indifferenza, alla sistematica vigliaccheria».
La responsabilità del sermone è dunque per intero nelle mani dei parlamentari, liberi per legge da vincolo di mandato. Così come è in mano ai contro-poteri che costituzionalmente limitano il dominio d’uno solo (parlamento, magistratura, stampa). Contro-poteri su cui la sovranità popolare non ha il primato, se è vero che essa viene «esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art 1).
Già una volta, nella «chiamata di correo» di Craxi, i politici caddero nel baratro, degradando se stessi. Fu il buco nero di Tangentopoli, e spiega come mai ancora abitiamo un girone dantesco fatto di menzogna e omertosi sortilegi. Il buco nero sono le parole di Craxi in Parlamento, il 3 luglio ’92: «Nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra. (...) Ciò che bisogna dire, e che tutti del resto sanno, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale.(...) Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia (...) criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi, i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro».
Difficile dimenticare il silenzio che seguì: nessun deputato si alzò, e ancor oggi la nostra storia stenta a non essere storia criminale. Ancor oggi si vorrebbe sapere perché i deputati che si ritenevano onesti rimasero appiccicati alla poltrona. Craxi pagò appropriatamente, perché le sentenze erano passate in giudicato e la legge è legge, ma pagò per molti: anche per Berlusconi, che con il suo aiuto costruì il proprio apparato di persuasione televisiva e profittò del crollo della Prima Repubblica sostituendola con un suo privato giro di corrotti e corruttori.
I deputati rischiano di restar seduti anche oggi, come allora: per schiavitù volontaria, o peggio. Il sermone oggi necessario deve essere un impegno a che simili ignominie non si ripetano. Proprio perché il conflitto d’interessi è sorpassato, e siamo di fronte a un conflitto fra decenza e oscenità, fra servizio dello Stato e servizio dei propri comodi, fra libertinaggio innocente e libertinaggio commisto a reati. Da molto tempo, c’è chi ha smesso di parlare di Palazzo Chigi: preferisce parlare di palazzo Grazioli come sede dell’esecutivo, e fa bene. Che si salvi, almeno, l’aura associata ai luoghi italiani del potere.
Domenica scorsa, Berlusconi ha fatto dichiarazioni singolari, oltre che ridicole. Definendo gravissima, inaccettabile, illegale, l’intromissione dei magistrati nella vita degli italiani ha detto: «Perché quello che i cittadini di una libera democrazia fanno nelle mura domestiche riguarda solo loro. Questo è un principio valido per tutti, e deve valere per tutti. Anche per me». L’uguaglianza fra cittadini equivale per lui alla libertà di fare quel che si vuole, in casa: anche un reato, magari. Non riguarda certo l’uguaglianza di fronte alla legge. L’antinomia stride, e offende. Siamo ben lontani dall’ingiunzione di Eraclito, se tutto diventa lecito nelle mura domestiche, e non appena succede qualcosa di criminoso l’uguaglianza cessa d’un colpo, e comincia l’età dei porci di Orwell, in cui tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
L’INDISCREZIONE
Addio Pdl, si chiamerà Italia
il nuovo partito di Berlusconi
L’indiscrezione pubblicata sul sito della Dire. Il nome della nuova forza politica sarebbe stato registrato subito dopo il voto di fiducia dello scorso 14 dicembre
Il nuovo simbolo secondo le indiscrezioni della Dire *
ROMA - Berlusconi si sarebbe deciso: sarà semplicemente "Italia" il nome della nuova creatura politica che prenderà il posto dell’ormai disintegrato Pdl. A rivelare la scelta è l’agenzia Dire 1 che sul suo sito pubblica anche il logo che dovrebbe sostituire quello attuale. Un cerchio azzurro con fascia tricolore al centro non molto diverso da quello attuale ma con la grande scritta "Italia" in stampatello nel lato superiore e "Berlusconi presidente" in quella inferiore.
Come sottolinea la rivelazione della Dire, gli strateghi del premier con la scelta del nuovo nome contano di sfruttare anche l’effetto promozionale indiretto legato al fatto che quello appena aperto è l’anno delle celebrazioni dell’Unità d’Italia. Niente ’Popolari’, quindi, come si era ventilato in un primo momento prima delle levata di scudi degli ex democristiani, ma, sottolinea ancora la Dire, "un nome ancora più asciutto e lontano dalla sigle partitiche di cui il Cavaliere si dice stanco da tempo". Tra i nomi scartati pare ci sia stato anche quello di "Viva l’Italia", per via dell’acronimo poco attraente di Vli.
Stando a quanto riferisce l’agenzia, anche i sondaggisti promuovono l’idea di Berlusconi di trasformare il Pdl in "Italia". Il nuovo nome, che secondo fonti di partito sarebbe stato registrato dal Cavaliere lo scorso 15 dicembre (all’indomani della fiducia conquistata in Parlamento), dice ad esempio Renato Mannheimer "evoca molti sentimenti in una buona parte dei cittadini".
LA TEOLOGIA POLITICA DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE E LA COSTITUZIONE.
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 11.01. 2011)
Quanto c’è di cristiano nelle nuove regole imposte da Marchionne a Mirafiori? L’interrogativo potrebbe suonare paradossale, ma si pone dal momento che il firmatario-guida del documento, Raffaele Bonanni, è il leader del sindacato che si richiama consapevolmente alla Dottrina sociale della Chiesa. Tanto più che la Cisl in anni passati si è spesa per portare gli altri sindacati confederali a festeggiare il 1º maggio in piazza San Pietro e, più recentemente, si è schierata con la Conferenza episcopale in quel Family Day, che sabotò la legge sulle coppie di fatto.
Nel crollo delle ideologie il sindacato di matrice cattolica ha sempre voluto attingere al patrimonio
della dottrina sociale della Chiesa, arricchito da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Giovanni
Paolo II ha dedicato al tema lavoro molta parte del suo magistero. All’inizio - sul piano geopolitico
l’attenzione era focalizzata sul diritto dei lavoratori polacchi di organizzarsi in un sindacato
“indipendente” (sebbene da subito, negli anni Ottanta, difendesse a São Paolo anche i diritti dei
sindacati brasiliani, guidati dall’allora trotzkista Lula). Tuttavia, dopo il crollo dell’impero
sovietico, Wojtyla ha continuato negli anni Novanta a occuparsi energicamente dell’argomento a
fronte di un capitalismo che lui chiamava “radicale”, cioè tendente a sopraffare ogni regola.
Lontanissimo e anzi avverso ad ogni concezione di antagonismo di classe, Karol Wojtyla ha messo al centro della sua riflessione il carattere del lavoro come “dimensione fondamentale dell’esistenza”, rigettando quel tipo di prassi in cui “l’uomo viene trattato come strumento di produzione” e il lavoro come semplice “merce”. E usando questi termini - cattolici - sottolineava che il pericolo non andava relegato all’epoca dell’industrializzazione primitiva, ma appartiene al tempo presente laddove prevalga una “civiltà unilateralmente materialistica”.
IL PERICOLO di trattare l’uomo come mera “forza lavoro” - scriveva nella sua enciclica Laborem Exercens - “esiste sempre, e specialmente qualora tutta la visuale della problematica economica sia caratterizzata dalle premesse dell’economismo materialistico”. Ciò che colpisce nel documento Mirafiori, esaltato come innovativo, simbolo di modernità, spartiacque di una nuova era da coloro che quasi certamente non lo hanno nemmeno letto, è precisamente il fatto che non c’è nulla di innovativo. Non è una rivoluzione nell’organizzazione della produzione o nell’individuazione di nuovi metodi di valorizzazione della persona-operaio. Non è neanche una rivoluzione o, più modestamente, un passo in avanti sulla via della partecipazione dei prestatori d’opera alla gestione dell’azienda: nel senso della Mitbestimmung, la cogestione tedesca, letteralmente “codeterminazione”. La vera carta che la Cisl per la sua tradizione potrebbe giocare e di cui non c’è traccia nel documento Mirafiori.
Il punto non è dunque di schierarsi aprioristicamente per l’una o l’altra componente sindacale, il punto è di valutare le norme del contratto.
E qui, in tema di rappresentanza, la divaricazione con la dottrina sociale della Chiesa è totale. Sosteneva Giovanni Paolo II che il diritto di associarsi è fondamentale perché ha come scopo la “difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni”. Cioè di assicurare la “tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei proprietari dei mezzi di produzione”. Il corollario, nella vicenda Solidarnosc, era che non toccava al proprietario dell’azienda - lo Stato in questo caso - decidere chi potesse parlare o no a nome dei lavoratori.
Leggendo il testo Mirafiori (e sono gli articoli su cui Bonanni tiene un profilo bassissimo, perché sa che gridano vendetta al cospetto di Dio... per usare un linguaggio biblico) si vede che tutti i paragrafi sotto il titolo “Sistema di relazioni sindacali” sanciscono il radicale smantellamento della presenza in azienda di qualsiasi organizzazione sindacale, che dissenta dal contratto firmato. Chi ha il 51%, cancella gli altri.
ORA UN CONTO è accettare democraticamente i risultati di un referendum, un conto è imbavagliare totalmente un soggetto sindacale che la pensa diversamente. L’articolo 1 permette la costituzione di rappresentanti sindacali soltanto alle Organizzazioni firmatarie. Chi non è Organizzazione firmataria NON usufruisce di permessi sindacali (art. 2), NON può convocare un’assemblea (art. 3), NON ha diritto a un locale per esercitare le funzioni di rappresentanza sindacale (art. 5), NON fa più parte del sistema per cui l’azienda trattiene direttamente dallo stipendio i contributi sindacali versandoli alle rappresentanze. L’abolizione della legge 1993 sull’elezione dei delegati in azienda (festeggiata dai ministri berlusconiani Sacconi e Romani) e la clausola di umiliazione, per cui chi aderisce dopo deve ottenere il consenso di “tutti” i firmatari, completano un impianto che cozza contro la libera partecipazione dei prestatori d’opera e l’organizzazione sindacale dentro l’azienda come “indispensabile elemento della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate”. (Laborem Exercens)
Per chi ritenesse che gli anni passano, Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in Veritate del 2009 sottolinea come segno caratteristico dell’epoca contemporanea la diminuzione delle libertà sindacali e della capacità negoziale dei sindacati. Tuttavia che si arrivasse a dividere i “bianchi” dai “neri” neanche un papa poteva prevederlo.
In Iran hanno intuito per tempo che lo sbarco di Murdoch era il cavallo di Troia per cloroformizzare l’opinione pubblica e le coscienze.
IMPARINO DAGLI AYATOLLAH
di Giulietto Chiesa *
La sinistra italiana, che ha regalato a Berlusconi il controllo dell’etere, invece di capire che fa più male “C’è posta per te” delle dichiarazioni di Cicchitto, continua ad inseguire le tv del Cavaliere sul terreno dei pollai televisivi.
Farebbero meglio a mandare una delegazione in Iran per imparare.
Perfino gli Āyatollāh sono più svegli della sinistra italiana. Cioè perfino loro hanno capito cosa significa l’intrattenimento per rincoglionire il colto e l’inclita. Si dà il caso che Rupert Murdoch abbia deciso di attaccare preventivamente l’Iran con i suoi incrociatori massmediatici (guai arrivare secondi!). Detto fatto ha comprato una televisione privata afghana, la “Farsi 1”, mediante un prestanome di nobile stirpe afghana e, mettendo la sua possente portaerei News Corp, insieme alla barchetta Moby Group di Saad Mohseni, ha cominciato a trasmettere via satellite verso il territorio iraniano.
“Farsi 1”, a differenza della Voice of America, o della Bbc, non trasmette informazioni: solo intrattenimento e pubblicità. Soap opera, amori, commedie, drammi sudamericani, detectives and mafia stories. Abbastanza sesso per solleticare il prurito dei voyeurs iraniani. Ma non troppo, per non suscitare reazioni puritane. Perfino baci in bocca e, ovviamente, capelli al vento per fare arrabbiare i mollah. Ma niente propaganda.
Dunque, se il governo di Teheran fosse stupido come lo sono stati tutti i governi di centro sinistra, lasciando campo libero a Berlusconi sul terreno di cui sopra, non avrebbe mosso un dito.
Avrebbe ragionato così, più o meno: se Murdoch si mette a fare politica noi chiediamo la par condicio e gliela facciamo vedere noi a quello stronzo. Ma siccome lui fa vedere solo un po’ di cosce indiano-americane, faccia pure.
Invece a Teheran hanno studiato “Divertirsi da Morire” di Neil Postman e hanno capito da tempo che vale di più una tetta scoperta, o anche allusivamente suggerita, che cento discorsi di Obama. Così come, trasferendo il discorso in Italia, vale di più una Maria De Filippi (per istupidire la gioventù italiana) di mille dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto.
E sono partiti all’attacco. Lo hanno fatto, per altro, con tecnologie raffinate: mettendo in campo i loro hacker (ne hanno anche loro, a quanto pare) e mandando sui siti di “Farsi 1” una serie di minacce non precisamente pacifiste. «I sogni di chi cerca di distruggere le fondamenta della famiglia conducono dritti alla fossa». Meglio perfino della Chiesa cattolica.
Il fatto è che Rupert ha un’armata di “ingegneri di anime”, presumibilmente non meno abili di Fedele Confalonieri, che riescono a infilare in un normale thriller anche l’idea che i musulmani sono tutti terroristi. Del resto metà dei film hollywoodiani ormai da oltre un decennio sono pieni di terroristi musulmani come gli agnolotti di Bologna lo sono di carne tritata.
E questo, soprattutto, non piace agli Āyatollāh che, avendo una dignità nazionale da difendere e sapendo - per averlo sperimentato direttamente - che la Cia non è seconda a nessuno nell’organizzazione di attentati terroristici, non gradiscono che sugli schermi di casa propria impazzino film dove i musulmani sono invariabilmente i cattivi. Per loro sfortuna, però, non hanno una cosa paragonabile a Hollywood, per cui far muovere gli hacker non serve granché, essendo cosa solo difensiva.
Hanno capito, questo è certo, che per liquidare un paese e la sua memoria storica basta lasciare agli americani il compito di “divertirlo”.
Per cui si limitano a ripetere la sconfitta dei russi. I quali non hanno ancora capito che gli Stati Uniti hanno demolito l’Unione Sovietica conquistando le anime dei russi con le loro televisioni. E, ancora adesso, venti anni dopo essere stati colonizzati dalla Cnn, non hanno ancora realizzato che dovrebbero fare come Murdoch ma alla rovescia: comprarsi delle catene televisive in Occidente e cominciare a “narrare il mondo” (citazione da Niki Vendola) dal punto di vista di Mosca.
Invece lasciano in giro i loro oligarchi coglioni a comprarsi squadre di calcio e a farsi fabbricare i loro yacht più lunghi del mondo, come Roman Abramovič, che con quei soldi si poteva comprare cento canali digitali in Europa. Ma questo è un altro discorso.
Torniamo a Teheran e al centro sinistra. Il quale ultimo (in tutti i sensi) pensava che impadronendosi delle tv di Stato, avrebbe potuto contrastare quelle del caimano. L’inghippo si verificò quando Romano Prodi, salito al governo dopo che D’Alema, Veltroni, Violante and company avevano regalato a Silvio Berlusconi tutto il regalabile in termini televisivi, invece di fare programmi e palinsesti alternativi a quelli di Berlusca, fecero sui loro canali (cioè sui nostri, ma occupati da loro) le stesse cose che faceva Berlusconi per istupidire il pubblico.
Così accadde quello che tutti sappiamo. Il rincoglionimento è stato elevato al quadrato, invece di essere ridotto della metà.
Dunque permettetemi di elevare un mesto omaggio agli Āyatollāh iraniani. Si difendono come possono, ma almeno si vede che hanno individuato il pericolo. Suggeriamo a Bersani di invitare una delegazione di Guardie della Rivoluzione qui a Roma, non appena Berlusconi avrà mollato l’osso.
Con il compito preciso di spiegare a Sergio Zavoli, a Gentiloni e a Paolo Garimberti che gli animi si conquistano solo dopo averli anestetizzati.
*
Giulietto Chiesa
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/5185-imparino-dagli-ayatollah.html
4.12.2010
Articolo pubblicato su www.lavocedellevoci.it di dicembre
Scuola di Adro, l’altolà di Napolitano
"Fuori i simboli padani dalle classi"
La lettera del capo dello Stato:
«Bene l’intervento della Gelmini» *
ROMA «Il capo dello Stato ha apprezzato il passo compiuto dal ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, invitando il sindaco di Adro a rimuovere quelle esibizioni».
Sono parole del segretario generale della presidenza della Repubblica, contenute nella lettera indirizzata ai 185 genitori del comune bresciano che nei giorni scorsi si erano rivolti al Quirinale per chiedere un intervento in merito alla presenza dei 700 ’Soli delle Alpì nel nuovo polo scolastico del paese. Napolitano - si legge ancora nella missiva - «ha ribadito la sua convinzione che nessun simbolo identificabile con una parte politica possa sostituire in sede pubblica, quelli della nazione e dello Stato, nè questi possono essere oggetto di provocazione e sfide».
È il più recente sviluppo di una vicenda che, giorno dopo giorno, sembra registrare sviluppi a senso unico. Il sindaco Oscar Lancini da più di una settimana non rilascia dichiarazioni. Ieri sera ha addirittura rinviato il consiglio comunale perchè i fotografi e gli operatori non intendevano attenersi alla sua richiesta di lasciare l’aula prima che la seduta iniziasse. Il consiglio si terrà domani, ma a porte chiuse, ulteriore testimonianza della tensione che regna in amministrazione ad Adro. Ieri sera, peraltro, i cittadini sia prima che dopo la decisione di non iniziare il consiglio hanno conversato e discusso senza particolare tensione.
All’ordine del giorno non era prevista la discussione della questione dei ’soli delle Alpì, ma i consiglieri d’opposizione erano fermamente intenzionati ad intervenire in merito. Il nuovo polo scolastico, intitolato a Gianfranco Miglio, è stato realizzato a tempo di record, in un anno, e inaugurato il 12 settembre scorso. Sin da quel giorno sono divampate le polemiche per la presenza del simbolo leghista del ’sole delle Alpì. Il sindaco Oscar Lancini ha sempre replicato che si tratta di «un simbolo del territorio e non di partito». Le polemiche hanno registrato ogni giorno una presa di posizione, ma la vera svolta si è avuta nel fine settimana successivo all’inaugurazione. Il ministro Maria Stella Gelmini ha infatti invitato il sindaco, attraverso il Dirigente Scolastico Regionale della Lombardia, a rimuovere i simboli. Lancini, il giorno successivo ha dichiarato: «se me lo dice Bossi, non domani, ma ieri».
La polemica si è accesa ulteriormente, ma da allora il primo cittadino di Adro non ha più rilasciato dichiarazioni. Lancini, che è stato riconfermato con il 62% dei voti nel 2009, ha sempre avuto una grossa fetta della popolazione al proprio fianco nella battaglia per la presenza dei «Soli» nella scuola. Secondo le opposizioni ora, però, sta solo attendendo che cali il clamore mediatico per attuare una “exit strategy” che non si profila agevole. Non fosse altro per quel sole delle alpi dal diametro di dieci metri che si trova sul tetto della scuola.
* La Stampa, 28/9/2010
GELMINI PREPARA IL NUOVO ANNO SCOLASTICO DEL REGIME E PROPONE ZERO IN CONDOTTA PER CHI NON PARTECIPA AL RITO MATTUTINO DELL’ALZA BANDIERA E AL CANTO DELL’INNO DEL PARTITO UNICO "Forza Italia"->http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3350]
Scuola, entra l’educazione militare
Con un accordo Gelmini-La Russa via a un corso che prevede la divisione degli studenti in "pattuglie", lezioni di tiro con la pistola ad aria compressa e percorsi "ginnico-militari".
di Francesco Anfossi *
Si chiama “allenati per la vita”. E’ il corso teorico e pratico, valido come credito formativo scolastico (alla sua quarta edizione), rivolto agli studenti delle scuole superiori, frutto di un protocollo tra Ufficio scolastico lombardo, Comando regionale dell’esercito, ministero dell’Istruzione e della Difesa (per la prima volta c’è l’investitura ufficiale dei due ministeri). E che cosa serve a un ragazzo per allenarsi per la vita? Esperienze di condivisione sociale, culturale e sportive , informa la circolare del comando militare lombardo rivolta ai professori della regione.
Dopo le lezioni teoriche “che possono essere inserite nell’attività scolastica di “Diritto e Costituzione” seguiranno infatti corsi di primo soccorso, arrampicata, nuoto e salvataggio e “orienteering”, vale a dire sopravvivenza in ambienti ostili e senso di orientamento, (ma l’autore della circolare scrive orientiring, coniando un neologismo). Non solo, ma agli studenti si insegnerà a tirare con l’arco e a sparare con la pistola (naturalmente ad aria compressa). E in più “percorsi ginnico-militari”. Gli istruttori sono militari in congedo (un centinaio). Gli allievi, tutti volontari, l’anno scorso sono stati 900.
Il perché bisogna insegnare la vita e la Costituzione a uno studente liceale facendolo sparare con una pistola ad aria compressa viene spiegato nella stessa circolare: “Le attività in argomento permettono di avvicinare, in modo innovativo e coinvolgente, il mondo della scuola alla forze armate, alla protezione civile, alla croce rossa e ai gruppi volontari del soccorso”.
Secondo il progetto Gelmini-La Russa, che ha già sollevato perplessità tra i professori che hanno ricevuto la circolare, “la pratica del mondo sportivo militare, veicolata all’interno delle scuole, oltre ad innescare e ad instaurare negli studenti la “conoscenza e l’apprendimento” della legalità, della Costituzione, delle istituzioni e dei principi del diritto internazionale, permette di evidenziare, nel percorso educativo, l’importanza del benessere personale e della collettività attraverso il contrasto al “bullismo” grazie al lavoro di squadra che determina l’aumento dell’autostima individuale ed il senso di appartenenza ad un gruppo”.
Seguirà, a fine corso, “una gara pratica tra pattuglie di studenti (il termine è proprio pattuglie, recita la circolare, termine che ha fatto storcere il naso a molti docenti, ndr)”. Intanto si è aperto il dibattito: è giusto inserire all’interno della scuola pubblica iniziative da collegio militare? O è solo un’opportunità in più per i ragazzi di conoscere meglio il mondo della cooperazione e delle missioni internazionali di pace e di avvicinarsi a organismi e istituzioni come protezione civile, esercito e croce rossa? La circolare ha suscitato un vivacissimo dibattito in Rete avviando numerosi blog e forum di discussione.
Francesco Anfossi
Il governo è salvo. l’Italia no
di MICHELE BRAMBILLA (La Stampa, 23/9/2010)
A prima vista la notizia del «no» all’utilizzo delle intercettazioni telefoniche che riguardano l’ex sottosegretario Cosentino sembra una buona notizia. Se fosse passato il «sì» il governo sarebbe entrato in agonia, per tirare le cuoia da qui ad - al massimo - un mese. Sarebbero stati ben pochi a rallegrarsene davvero. Sicuramente la Lega e Di Pietro, che alle urne ne avrebbero tratto profitto: ma proprio quel profitto avrebbe reso il Paese ancora più ingovernabile di quanto non sia già. Chiunque abbia a cuore non il proprio interesse particolare, ma quello generale, sa che mai come ora, malmessi come siamo, abbiamo bisogno di un governo. Anche il presidente Napolitano, una delle poche figure davvero di garanzia, s’è augurato che l’esecutivo tenga, perché il momento non è tale da poter permettere salti nel buio.
No sarà eccezionale, questo governo: ma come diceva Caterina II di Russia è meglio uno Stato con cattive leggi applicate che uno con buone leggi non applicate. Tuttavia lo spettacolo offerto ieri alla Camera è stato talmente desolante, anzi mortificante, da far svanire in un battibaleno il sospiro di sollievo provato per la «tenuta» del governo.
Primo. La maggioranza ha esultato perché è rimasta maggioranza anche senza i finiani. La soddisfazione è comprensibile. Ma su quale fondamentale tema è rimasta maggioranza? Su una riforma del fisco? Su un provvedimento per far ripartire le imprese? Su un intervento contro la disoccupazione? Niente di tutto questo (che poi è quello che servirebbe al Paese): la Camera ha detto, a maggioranza, che la magistratura non può utilizzare le intercettazioni che riguardano un parlamentare sul quale pende un mandato di arresto per camorra.
E’ perfino superfluo precisare che il parlamentare in questione, Nicola Cosentino, può benissimo essere innocente: anzi lo è finché non si dimostri il contrario. Ma per dimostrarlo occorrerebbero delle indagini, e la politica ieri ha detto che su un politico non si può indagare. Rinverdendo una tradizione che ci eravamo illusi fosse ormai sepolta, la nostra classe politica ha deciso di autogiudicarsi e, naturalmente, di autoassolversi. Si esulti pure, insomma, ma si abbia il buon gusto di farlo di nascosto.
Secondo. L’altro spettacolo mortificante di ieri riguarda il tormentone dell’ormai celeberrima casa di Montecarlo. Sui giornali è finita una lettera nella quale un ministro dell’isola di Santa Lucia, un paradiso fiscale delle Antille, dice al suo premier che il vero proprietario dell’immobile è proprio Giancarlo Tulliani, il cognato di Fini. In sintesi: se fosse vera, la lettera sarebbe la prova che la casa - lasciata in eredità ad An - è stata venduta a un prezzo stracciato a un familiare di Fini.
Questi ha reagito dicendo che quel documento è «un falso, talmente fatto bene da pensare che dietro ci siano i servizi». I suoi fedelissimi hanno rincarato la dose. Carmelo Briguglio ha formalmente chiesto che «il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica assuma una decisa iniziativa in relazione alla pubblicazione di atti di dubbia autenticità, se non addirittura falsi». I finiani parlano di «vergognoso dossieraggio contro la terza carica dello Stato». E perlomeno complice del dossieraggio sarebbe «il quotidiano di famiglia del presidente del Consiglio», cioè il Giornale, impegnato in una «incessante campagna scandalistica ai danni del presidente di un ramo del Parlamento».
E’ chiaro che i casi sono due. O l’Italia è un Paese in cui il premier usa i servizi segreti per far fuori il presidente della Camera; oppure è un Paese in cui il presidente della Camera lancia accuse gravissime senza dimostrarne la fondatezza. Nel primo caso sarebbe un letamaio; nel secondo un manicomio. Anche perché il dubbio non sembra difficile da sciogliere: basterebbe chiedere al governo di Santa Lucia se quel documento è autentico oppure no. E magari non sarebbe male neppure se Fini e suo cognato ci dicessero finalmente a chi hanno venduto quella benedetta, anzi maledetta casa. Insomma dopo la giornata di ieri il governo è salvo, e il Parlamento pure. Ma che ci sia davvero di che rallegrarsene, beh, questa è una domanda che viene spontanea. Com’è spontaneo chiedersi in che mani siamo.
"Nessuna ombra sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale di cui è parte integrante Roma Capitale" *
"E’ mio doveroso impegno ed assillo che non vengano ombre da nessuna parte sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale, di cui è parte integrante il ruolo di Roma capitale". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Roma Capitale al Campidoglio.
"Un ruolo - ha aggiunto il Presidente - che non può essere negato, contestato o sfilacciato nella prospettiva che si è aperta e sta prendendo corpo di un’evoluzione più marcatamente autonomista e federalista dello Stato italiano".
"Questa - ha proseguito il Capo dello Stato -, con il netto riconoscimento contenuto nel riformato Titolo Quinto della Carta e con la conseguente norma di legge del 2009, chiama piuttosto voi che rappresentate e amministrate Roma a un nuovo impegno ordinamentale, d’intesa con la Regione e la Provincia, e ad una nuova prova di efficienza e modernità nell’esercizio di funzioni ben più ricche che nel passato. Portarvi all’altezza di questa prova è ciò che conta e che vi stimola, non l’invocare formalmente il rango di Roma capitale".
Il Presidente Napolitano nel suo intervento ha anche elogiato Roma e la sua capacità di accoglienza: "Mai - ha detto - mi sono sentito a disagio, pur senza dissimulare la profondità delle radici e degli affetti che mi legavano e mi legano a Napoli: ed è forse propria dei napoletani l’attitudine a integrarsi, anche in luoghi ben più lontani, così come propria di Roma, e straordinaria, è la capacità inclusiva, l’attitudine ad aprirsi, ad accogliere altri, ad abbracciare, innanzitutto, ogni italiano".
Le celebrazioni per i 140 anni di Roma Capitale erano iniziate questa mattina con la deposizione di una corona di alloro da parte del Presidente della Repubblica al Monumento dei caduti di Porta Pia alla presenza del Segretario di Stato di Sua Santità, Cardinale Tarcisio Bertone, del Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, del Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, del Presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, del Presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, del sottosegretario Gianni Letta, e delle autorità di governo.
* SITO: PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
Porta Pia, festa grottesca
La commistione tra autorità civili e religiose assomiglia al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni ’30 e ’40, alleati con i loro nemici
di Nicola Tranfaglia (il Fatto, 21.09.2010)
Erano le cinque e un quarto del mattino quando il 20 settembre l’artiglieria italiana sparò i primi due colpi di cannone contro le mura di Roma all’altezza di Porta Maggiore e Porta Pia. La resa avvenne verso le undici del mattino dopo che Pio IX ha ordinato ai pontifici di presentare la bandiera bianca. I morti tra i bersaglieri sono 49, tra i pontifici 19. Pio IX, riuniti i diplomatici presso lo Stato Pontificio, definisce l’assalto “un attentato sacrilego” e dovranno passare altri cinquantanove anni prima che Mussolini e Pio XI firmino il Trattato del Laterano e i Patti annessi.
La pace tra Stato e Chiesa
DA QUEL MOMENTO regna, per così dire, la pace tra Stato e Chiesa ma la dittatura fascista lo ha fatto per avere la Chiesa dalla sua parte e non certo per realizzare la formula di Camillo Benso, conte di Cavour, che in anni lontani aveva detto: “Libera Chiesa in libero Stato.” E il Vaticano, a sua volta, ha ottenuto dallo Stato quel che non aveva mai avuto dalla classe dirigente liberale sul piano economico come su quello politico. Ed oggi, nel Ventunesimo secolo dopo che nel 1988 è stato rinnovato con qualche modifica il Concordato del 1929 e la Chiesa cattolica ha messo sull’attenti gran parte della classe politica, di governo e di opposizione, si può dire che la celebrazione del 1870 avviene nelle migliori condizioni possibili per la Santa Sede. Roma diventa Capitale con la legge appena approvata e il sindaco Alemanno che, da fascista che era è diventato un berlusconiano fervente, può celebrare oggi i centoquarant’anni della Breccia di Porta Pia non soltanto con il capo dello Stato ma anche con il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, come se la Chiesa fosse stata anch’essa dalla parte dell’Italia appena unificata piuttosto che contro a rispondere con le cannonate ai bersaglieri che premevano dal di fuori.
Ed è questo il centro della giornata di ieri e il significato che le autorità locali e centrali intendono fornire agli italiani, dimenticando quello che davvero l’arrivo dei bersaglieri aveva significato in quel mattino del 20 settembre 1870.
Non è un caso che oltre cinquanta tra associazioni, movimenti e forze politiche hanno deciso di festeggiare domenica la ricorrenza per non mischiarsi alle celebrazioni ufficiali. Ma se si guarda all’imponente serie di manifestazioni e di occasioni di visite e di mostre previste in questi giorni non si capisce davvero come Stato e Chiesa possano festeggiare insieme un avvenimento così limpido e chiaro.
L’Italia liberale del Risorgimento, dopo meno di dieci anni dall’unificazione nazionale, aveva deciso di scegliere Roma come sua Capitale e approfittando di un atteggiamento non negativo di due grandi potenze del tempo come la Francia e l’Inghilterra aveva mandato una spedizione ufficiale di soldati e di bersaglieri per entrare a Roma e far finire il Potere temporale dei Pontefici. E questo significato di fondo non si può rovesciare, celebrando la ricorrenza con la Santa Sede e con quel cardinale Bertone, segretario di Stato, che quando divenne vescovo di Genova si preoccupò immediatamente di chiudere gli archivi della diocesi per impedire che gli storici facessero luce sul ruolo del Vaticano nella fuga in Sudamerica dei criminali nazisti che si trovavano in Italia o che erano appena arrivati dalla Germania. Un amico mi ha detto, in questi giorni, che la commistione tra le autorità civili e religiose assomiglia al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni Trenta e Quaranta, alleati con i loro nemici.
E si potrebbe dire ancora molto di peggio di fronte a questo spettacolo. A differenza dei francesi, noi non abbiamo nella nostra Costituzione all’inizio un articolo dedicato alla laicità dello Stato ma in vari punti del dettato costituzionale emerge con chiarezza il profilo laico della nostra democrazia parlamentare che riguarda i credenti come i non credenti e che dovrebbe spingere tutte le forze politiche, a cominciare da quelle di centrosinistra, a difendere il significato della Breccia di Porta Pia e la difesa della formula cavouriana. Nella cosiddetta “Prima Repubblica”, e soprattutto da parte di chi aveva partecipato ai lavori dell’Assemblea Costituente, anche tra cattolici come Aldo Moro era centrale la rivendicazione della laicità dello Stato come elemento fondamentale dell’attività politica e istituzionale.
Oggi, soprattutto dopo l’89 e la caduta delle grandi ideologie che avevano diviso il mondo negli anni della Guerra fredda, le classi dirigenti italiane e in particolare quelle più vicine e legate alla classe politica, sembrano aver perduto il senso delle distinzioni tra una sfera laica e una sfera religiosa. La destra berlusconiana, così priva di valori etici e politici, ha bisogno dell’appoggio del Vaticano e il papa attuale non ha avuto difficoltà fino a ieri ad appoggiarne l’azione di governo.
La sinistra e il Vaticano
QUANTO alla sinistra, la fine del comunismo ha favorito l’avvicinamento degli ex comunisti al Vaticano e ormai da anni essi si confondono con gli altri esponenti politici devoti alla Chiesa. Pochi di fatto - e noi dell’Italia dei Valori siamo tra questi - ritengono che, al di là della fede cattolica di ciascuno, che sia necessario sostenere con chiarezza una posizione che si riallacci a quella liberale e democratica dell’Ottocento ma anche del Novecento e del nuovo secolo: la parità di tutte le fedi religiose, la difesa della sfera politica dalle intromissioni della Chiesa e delle Chiese. E proprio questa incertezza della politica e il suo degrado evidente conducono alla situazione di oggi che è nello stesso tempo grottesca e paradossale: si vuol ricordare la Breccia di Porta Pia e lo si fa con il sindaco fascista berlusconiano e con il segretario di Stato del Vaticano.
Adro, "Toglierò quei simboli
Solo se me lo ordina Bossi"
Il sindaco della cittadina respinge, di fatto, la timida richiesta del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. E il leader della Lega, Bossi, lo sostiene: "Ne ha messi solo troppi". Il parroco del paese: "Esagerazioni da entrambe le parti". Durissimo attacco alla Gelmini dall’opposizione *
BRESCIA - Il simbolo della "Lega", il "Sole delle Alpi", per ora resta nella scuola di Adro, in provincia di Brescia, intitolata all’ideologo del movimento leghista, Gianfranco Miglio. Resta, anche se il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ha chiesto al sindaco della cittadina di rimuovere tutti i simboli.
Resta, perché il primo cittadino di Adro ha implicitamente risposto affermando che a chiederglielo deve essere il leader della Lega, Umberto Bossi: "Se me lo dice lui, rimuovo i simboli non domani, ma ieri. Se li tolgo dalla scuola, però, farò lo stesso con gli edifici pubblici su cui è presente da secoli", ha aggiunto Oscar Lancini. "Sono sorpreso di quello che ho letto sui giornali. Io ho ricevuto comunque i complimenti dei vertici leghisti". In quanto alla lettera della Gelmini, Lancini sostiene che "Non mi è arrivato niente. Non ho letto nulla se non quello che c’è sui giornali. È da ieri che si dice che il ministro ha scritto al sindaco, è scritto su tutti i giornali ma, ad oggi, la verità è che io non ho in mano nessuna lettera".
E il "senatur" non ha perso tempo ad appoggiare, nei fatti, la posizione del sindaco del bresciano: "Forse ne ha messi troppi - ha detto Bossi a chi gli chiedeva se la Gelmini aveva sbagliato o no a chiederne la rimozione - Avrebbe potuto farne uno bello, che bastava". Per confermare poi la sua sostanziale "vicinanza" al primo cittadino, il ministro delle Riforme ha aggiunto: "Questi simboli la Lega li ha fatti diventare politici, ma sono graffiti delle Alpi. E a Brescia ce ne sono tantissimi".
A rincarare la dose c’è anche il ministro dell’Interno, Roberto Maroni: "Condivido quanto sostiene Bossi - ha detto - Intitolare la scuola a Miglio è stata una grande idea, ma io mi sarei fermato lì. Miglio vol dire tutto: è stato l’inventore delle tre macroregioni e quindi anche della Padania".
Una parola di equidistanza, a nome della popolazione della Franciacorta, è venuta invece dal parroco di Adro, don Giammaria Fattorini, nell’intervento che è stato letto oggi in tutte le messe celebrate nel comune: "La mia idea sulla questione, che sento condivisa da molti, è che si sta esagerando da entrambe le parti. Sta esagerando chi ha oggi il potere, dato loro dalla stragrande maggioranza della gente. Ma stanno esagerando anche le minoranze politiche che, avendo dichiarato guerra all’ultimo sangue ai vincitori alle urne, non perdono occasione per dare contro".
Taglia corto il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini: "Abbiamo già preso posizione, non c’è da aggiungere altro dopo la lettera inviata al sindaco del paese". E il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini, sostiene la linea tenuta dalla Gelmini, anche se non perde l’occasione per una battuta polemica: "Ha fatto bene il ministro, ma mi sarei aspettato che intervenisse prima. I bimbi non appartengono a nessuno e vanno lasciati fuori dalla politica".
Critici verso il ministro Gelmini gli esponenti dell’opposizione. Il senatore Silvio Pedica, dell’Idv, è durissimo: "La Gelmini, costretta dall’opinione pubblica indignata, si muove con una timida lettera in cui chiede di eliminare dalla sucola di Adro la griffe leghista. Questa vicenda evidenzia come il ministro gestisce la scuola in base alle proprie convinzioni personali e ai diktat della sua coalizione politica.
"I marchi leghisti - ha aggiunto - non sarebbero dovuti restare neanche un’ora, questi episodi sono precedenti pericolosi inquadrati in un clima politico dove un partito come la Lega, a colpi di incostituzionalità, non riconosce l’unità d’Italia e ingelosendosi di Roma Capitale, dichiara di voler una capitale del nord".
Pedica ha quindi concluso: "Regalerò alla Gelmini la carta igienica con il simbolo della Lega, troppo tempo tollerata l’ assurda idea di fare di una scuola un circolo di partito: il ministro Gelmini si deve dimettere".
E Nichi Vendola è ancora più duro: "Abbiamo contato fino a diecimila per avere una parola di buon senso dal Ministro per l’Istruzione, Mariastella Gelmini. Come si può immaginare - ha proseguito - che la discussione oggi sul tappeto sia quella della prospettiva del federalismo solidale, mentre frammenti di scuola pubblica diventano frammenti di scuola padana? Vuol dire che è una presa in giro. Vuol dire che si chiama federalismo quello che in realtà è un processo di separazione e di secessione. Il problema non è solo il tappetino leghista sulla scuola padana, sotto quel tappetino c’è una semina di cultura regressiva: l’idea che il Nord si può salvare se manda alla deriva il Sud. Hanno seminato veleni in questi anni. A noi - ha concluso il governatore pugliese - toccherà fare una lunga bonifica di questa terra avvelenata".
Dello stesso avviso il responsabile giustizia dell’Idv, Luigi De Magistris: "Il ministro dell’istruzione Gelmini è intervenuta in modo debole e fuori tempo massimo. Prima ha cercato di sminuire il caso, di fatto avallando una scelta antidemocratica da parte del sindaco Lancini, poi timorosamente e in ritardo ha deciso di suggerire un ritorno alla normalità democratica. E lo ha fatto, per altro, soltanto perchè costretta dalle proteste dei genitori e della società civile di Adro, oltre che dalle critiche piovute dall’opposizione. La trasformazione di una scuola pubblica in una sezione della Lega è un atto contrario alla Costituzione, che trova origine nel fondamentalismo razzista e delirante del partito di Bossi che tiene sotto scacco questo governo. Gelmini compresa".
* la Repubblica, 19 settembre 2010
di Philippe Ridet (Le Monde, 7 settembre 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
Si deve ad un teologo discreto una delle cose più vivaci dell’estate italiana. Approfittando di una - molto - breve pausa sul fronte delle polemiche politiche, Vito Mancuso si poneva un grave problema tramite una lettera aperta al quotidiano la Repubblica del 21 agosto: poteva continuare a pubblicare, “in pace con la coscienza” i suoi libri da Mondadori, mentre a questa casa editrice, controllata da Mediaset - il settore dei Media della holding finanziaria della famiglia Berlusconi (Fininvest) -, veniva consentito un ristorno fiscale di svariate centinaia di milioni di euro? La sua risposta è no.
Bisogna riconoscere che questa presa di posizione, piuttosto rara, e questa denuncia di un ennesimo conflitto di interessi non ha scombussolato nessuno più di tanto. Gli scrittori e gli intellettuali sollecitati dalla stampa a reagire non si sono precipitati ad esprimere la loro solidarietà ad un uomo che ormai si rifiuta che il proprio lavoro possa, in qualsiasi modo, arricchire Berlusconi. Al contrario, non sono mancate le riserve, né i sarcasmi. Perché una presa di coscienza così tardiva? gli si è rimproverato, sospettandolo di avere orchestrato una campagna pubblicitaria. Perché tanta ingenuità? gli hanno detto altri, per i quali questa battaglia individuale è persa in partenza.
Dal 1994, data della presa di controllo di Mondadori e della vecchia casa editrice torinese Einaudi da parte della Fininvest (per mezzo di un giudice la cui corruzione è stata accertata in seguito) nessuno ignora chi sia il proprietario di queste aziende. Questo non vuol dire tuttavia che gli autori pubblicati dalle case editrici del presidente del Consiglio non si siano posti il problema.
Roberto Saviano, l’autore del best-seller Gomorra, si è posto la questione della propria fedeltà alla Mondadori, quando, in primavera, Berlusconi aveva accusato gli scrittori che trattavano di “Mafia” di “rovinare l’immagine del paese”. Rassicurato da una lettera del presidente della Mondadori, Marina Berlusconi, figlia del Cavaliere, Saviano aveva messo a tacere i propri dubbi.
Ad oggi, quattro autori delle case editrici controllate da Mediaset - tra cui il Premio Nobel della letteratura del 1998 José Saramago (morto a giugno) - si sono visti rifiutare un libro a causa del contenuto ritenuto troppo ingiurioso nel confronti dell’azionista di maggioranza. Vuol dire forse che gli scrittori pubblicati da Mondadori o Einaudi hanno perso ogni capacità di indignazione, preferendo venire a patti col nemico per assicurarsi delle buone vendite?
In verità, è piuttosto un diffuso senso di stanchezza quello che si potrebbe notare. Stanchezza di fronte ad un dibattito continuamente rilanciato a partire dalla prima apparizione di Silvio Berlusconi al potere. Stanchezza all’idea di affrontare questo problema ricorrente: si può boicottare Berlusconi, vivere senza Berlusconi? Bisogna dire che l’impresa non è semplice. Se è facile denunciare l’onnipresenza del suo impero nell’economia italiana, è più difficile farne a meno.
Prendiamo il caso di un antiberlusconiano duro e puro, che per nulla al mondo vorrebbe contribuire all’arricchimento del Cavaliere. Chiamiamolo signor Rossi. Per la televisone è abbastanza semplice, il signor Rossi dovrà evitare i tre canali del “Cavaliere” (Canale 5, Italia 1, Rete 4). Il sacrificio non è particolarmente costoso vista la mediocrità dei programmi. Tuttavia dovrà usare con parsimonia i canali della TV pubblica: il capo del governo ha nominato la maggior parte dei dirigenti.
Al cinema il signor Rossi non andrà a vedere i film prodotti da Mediaset o distribuiti da Medusa. Per la stampa eviterà il Giornale, di proprietà del fratello di Silvio Berlusconi. Il signor Rossi rinuncerà ugualmente al settimanale Panorama, come pure ad una quarantina di riviste.
Andando oltre, le cose si complicano. Occorrerà al signor Rossi l’attenzione puntigliosa del vegetariano alla ricerca dei grassi animali. La Finivest possiede infatti partecipazioni in due società italiane, la banca Unicredit e l’assicurazione Generali, che sono tra i maggiori investitori italiani. Con un effetto a cascata, queste partecipazioni piazzano la Fininvest al centro dell’economia e dell’industria del paese. Qualche esempio: se il signor Rossi deve cambiare i pneumatici dell’automobile o il materasso, dovrà rinunciare a Pirelli. Per un conto in banca eviterà Intesa San Paolo, la più grande banca italiana. Se prende l’autostrada, deve evitare la Milano-Torino. Tifoso di calcio, eviterà gli incontri del Milan, di cui Berlusconi è proprietario e presidente. Si vede da questo che la vita senza Berlusconi non è cosa agevole in Italia.
Vito Mancuso è comunque deciso a tentare la sorte. Venerdì 3 settembre, in un nuovo scritto su la Repubblica, ha rinnovato la sfida chiamando gli scrittori di Mondadori e Einaudi a “liberarsi da questo conflitto di interessi nel quale sono tutti prigionieri”. Ma aggiunge: “so bene che non tutti possono sempre permettersi questa battaglia, perché esprimere pubblicamente il proprio pensiero è un privilegio abbastanza raro. Primum vivere deinde philosophari, questa antica massima di saggezza vale per tutti, nessuno è chiamato a fare l’eroe”. Il signor Rossi ne sa qualcosa.
STORIA D’ITALIA(1994-2010): IL GRANDE INCIUCIO. NEL 1994 IL MINISTERO DELL’INTERNO AUTORIZZA E REGISTRA IL SIMBOLO DEL PARTITO "FORZA ITALIA". CHE GRANDE SILENZIO: "LA GRANDE RECITA" COMINCIA ...
Il totalitarismo fascista si fondava sul principio della subordinazione del privato al pubblico, rappresentato dallo Stato: dalle eventuali prossime elezioni, uscirà probabilmente consolidato il corso di una democrazia recitativa, che da decenni ha subordinato il pubblico al privato. Una democrazia recitativa, per sua stessa natura, è l’opposto di uno Stato totalitario. La loro diversità è geneticamente insuperabile. Da uno Stato totalitario ci si può, alla fine, liberare: la storia lo dimostra. Da una democrazia recitativa, è quasi impossibile.
SOCIETA’
Dal panino global al caffè low cost
piccoli Davide sfidano le multinazionali
La Regione Sardegna si schiera con McPuddu’s contro McDonald’s. Carlo Petrini: mi verrebbe voglia di aprire un Mc Carlin per rispondere all’arroganza Usa
di MAURIZIO CROSETTI *
"E ITTE funtis narando?...", si chiede adesso il giovane imprenditore Ivan Puddu, in cucina tra un culurgione e una sebada. "Ma questi che stanno dicendo?...". Questi, cioè gli avvocati di McDonald’s che hanno intimato a Puddu di levare il "Mc" davanti al suo marchio "Mc Puddu’s". E lui, obbediente, ha eseguito, diventando nel giro di poche ore un più mite "De Puddu".
Era global, ora è di nuovo local. Una di quelle storielle tristi che fanno morire dal ridere.
"La multinazionale dell’hamburger sostiene che il mio Mc poteva confondere il consumatore. Ma quando? Ho due piccoli negozi alimentari con la mia fidanzata Martina, qui facciamo i culurgiones, sfoglie di pasta ripiena di patate e formaggio, anzi veramente li fa mia suocera. Mica panini imbottiti. Però non importa, non ho soldi da buttare in avvocati". Ora che tutta Italia parla di lui, c’è il sospetto di un’operazione pubblicitaria (involontaria?) colossale: "Ma io non posso mica sfornare migliaia di pezzi, mi limito a offrire una birra agli amici del paese, Santa Maria Navarrese, nell’Ogliastra, felice che si parli di prodotti e realtà locali. La pasta dei culurgiones cuciti con le dita la preparano anche i bambini, la domenica, nelle case sarde, sa di buono e di antico, è un rito di famiglia".
Dunque, Davide impasta e tira la sfoglia addosso a Golia, ai suoi cetrioli indigeribili e alle sue salse tremende. E la Regione Autonoma della Sardegna gli arma la mano contro il gigante. "L’Italia subisce ogni anno danni per 70 miliardi di euro a causa di falsi e imitazioni alimentari: diffidare un commerciante di tipicità sarde per il solo suffisso Mc, suona perciò come una beffa", dice l’assessore all’agricoltura Andrea Prato, nel cognome un destino.
Ma cosa racconta, questa bizzarra vicenda? I colossi patiscono davvero il solletico delle botteghe? "Un’arroganza così stupida, che mi verrebbe voglia di aprire un Mc Carlin’s!", risponde Carlin Petrini, presidente di Slow Food. "Il prefisso Mc vale l’italiano De, oppure l’irlandese ’O, dichiara l’appartenenza a una famiglia, mica è un’esclusiva di McDonald’s. Il signor Puddu ha tutta la mia solidarietà: ha fatto male a cambiare nome, qui serve una risposta mondiale contro chi ha rotto proprio le scatole. Anche perché sono sicuro che, in tribunale, McDonald’s perderebbe".
Se Davide mangia i tortelli e Golia vuole imporre il cheeseburger (regalando magari i bicchieri colorati, compreso l’introvabile color azzurro), si tratta di commercio ma anche di antropologia. E allora che ne pensa l’antropologo? "Oltre il ridicolo dell’elefante che se la prende con la formica, questa vicenda segnala l’anomalia di un produttore globale che ignora il locale", risponde il professor Giulio Angioni. "Eppure, è dimostrato che il primo non sopravvive senza il secondo. Poi, mi chiedo se fosse davvero il caso di usare quel prefisso all’americana". Forse, l’errore è copiare i grandi e poi lamentarsi se questi si ribellano. "Perché richiamarsi a McDonald’s?", si chiede infatti lo scrittore Salvatore Niffoi. "Siamo di fronte a un imperialismo alimentare e linguistico, contro la cucina della memoria e il valore della lentezza. La definirei un’aggressività regressiva. È anche vero che certi prodotti popolari stanno diventando di nicchia, costosissimi e per pochi, dunque elitari. E ormai, per campare si va al discount".
E magari i grandi e piccoli negozi possono anche non litigare. "Anzi, è indispensabile convivere", dice Giuseppe Brambilla, amministratore delegato di Carrefour Italia, 1450 negozi, 24 mila dipendenti. "L’ottanta per cento dei nostri punti vendita, non solo ipermercati ma anche piccoli negozi, è gestito da imprenditori: se hanno prodotti locali da valorizzare, penso al pane o alla carne, possono farlo. Quello che conta è offrire qualità corretta a prezzi bassi, arrivando a un risparmio per il cliente di oltre il 15 per cento. I prodotti del territorio sono indispensabili, senza assurdi combattimenti. La nostra logica si basa sulla flessibilità dell’offerta. È chiaro che, talvolta, il piccolo negoziante può soffrirne, però il mercato va in una direzione chiara: ci sono sempre meno soldi da spendere. Nulla contro i prodotti di nicchia, però non tutti se li possono permettere".
Forse la soluzione del problema è un asse da stiro. Quello che l’economista Mario Deaglio ha comprato proprio ieri mattina, in un ipermercato: "Ma la prossima volta, forse, lo ordinerò su Internet e me lo farò consegnare a casa il giorno dopo, risparmiando. La rete mette d’accordo locale e globale, è il famoso terzo litigante che gode: lì c’è posto per tutti, senza limite di scaffali. Detto questo, alla grande distribuzione imporrei due regole. La prima: concedere sempre uno spazio ai produttori locali. La seconda: se chiude il negozietto di paese, si deve aprire un altro punto vendita per non lasciare scoperta la zona. Bisogna fare in modo che i centri commerciali non siano distruttivi". Altrimenti, si va a stirare col computer.
* la Repubblica, 25 agosto 2010
IL COMMENTO
Macelleria istituzionale
di MASSIMO GIANNINI *
La macelleria politica e costituzionale del tardo-berlusconismo ha infine obbligato il Quirinale a compiere un atto irrituale ed estremo. Solo nell’Italia di oggi, destabilizzata dalle pulsioni tecnicamente eversive del capo del governo e avvelenata dalle operazioni di killeraggio mediatico dei suoi sicari, può accadere che un presidente della Repubblica debba scrivere in una nota ufficiale che chi nutre dubbi sul suo operato ha il "dovere" di chiederne l’impeachment. Come prevede la stessa Carta del 1948, che all’articolo 90 indica le modalità e le procedure della messa "in stato d’accusa" del Presidente, nei casi specifici di "alto tradimento" e di "attentato alla Costituzione".
A tanto, dunque, è stato costretto Giorgio Napolitano, per fermare "le gratuite insinuazioni e le indebite pressioni" che, nell’avvitarsi di una crisi sempre più drammatica del centrodestra, colpiscono da giorni la più alta carica dello Stato. Il suo comunicato dà la misura di quanto sia grave e pericoloso il conflitto istituzionale in atto. E solo una lettura ipocrita e riduttiva del monito lanciato dal Colle può ridimensionarne la genesi alla necessità di rispondere all’intervista che due giorni fa il vicecapogruppo del Pdl alla Camera ha rilasciato al "Giornale".
Maurizio Bianconi ha trattato Napolitano come un nemico, che "tradisce la Costituzione fingendo di rispettarla". L’ha accusato di "incoerenza gravissima", perché colpevole di dire "no al voto anticipato e sì alla ricerca di un governo tecnico". Parole inconsulte e irresponsabili, scagliate come pietre contro il massimo organo di garanzia della nazione. Ma chi ora definisce Bianconi un semplice "peone", o un "golpista da operetta", non rende un buon servizio alla verità. Non si può non vedere come questi vaneggiamenti riflettano un "sentire comune" che, nella disperata trincea del Popolo della Libertà, accomuna più o meno tutti gli esponenti dell’armata forzaleghista.
Da Alfano a Maroni, da Gasparri a Cicchitto: in queste settimane l’intera batteria dei luogotenenti del premier, sproloquiando di "ribaltoni" e di "congiure di palazzo", non fa altro che sfidare il Capo dello Stato, cercando di mettere in discussione il suo ruolo, di snaturare le sue prerogative, di condizionare le sue scelte. E non si può non vedere come queste urla riecheggino nel silenzio assordante e colpevole dello stesso presidente del Consiglio. Berlusconi tace, e dunque acconsente. Lasciando le ridicole precisazioni di prammatica ai Capezzone e ai Rotondi: tocca a loro riempire il tragico vuoto politico dell’agosto berlusconiano, replicando le intimidazioni ma rinnovando al presidente della Repubblica una "stima" e un "affetto" che suonano paurosamente vuoti, retorici e perciò falsi.
Siamo arrivati al limite estremo, alla rottura di tutti gli equilibri istituzionali. Dunque, quando Napolitano denuncia "interpretazioni arbitrarie" e "processi alle intenzioni", non è certo a Bianconi che si riferisce. Il Capo dello Stato parla a tutto il centrodestra, e rilancia la sfida al leader che ne incarna l’anima "rivoluzionaria" e ormai palesemente anti-statuale. In vista dell’ormai inevitabile showdown d’autunno, il comunicato del Colle suona quasi come una "chiamata finale", dalla quale si possono e si devono trarre alcune lezioni. La prima lezione: le istituzioni appartengono alla Repubblica, e non al Cavaliere, e dunque vivono nella reciproca autonomia e nel mutuo rispetto delle norme sancite dalla Costituzione.
La seconda lezione: la Costituzione è la casa di tutti gli italiani, e dunque non può essere piegata all’ermeneutica di parte o alla logica di partito. La Carta assegna prerogative precise e compiti tassativi al Capo dello Stato, che li esercita con la massima indipendenza e la massima responsabilità, nella normale dialettica tra i poteri e nella leale collaborazione tra gli organi di garanzia. Tutto questo vale sempre: nella fisiologia della vita politica, quando si tratta di promulgare o rinviare una legge al Parlamento, come nella patologia di una crisi, quando si tratta di sciogliere le Camere o di verificare se esistano maggioranze alternative. Questo dice la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il custode e il garante.
Di qui la terza ed ultima lezione: quando rivendica le sue prerogative costituzionali, Napolitano tutela la Costituzione formale, che non può essere stravolta da una costituzione materiale introdotta surrettiziamente con la semplice iscrizione della parola "Berlusconi" su una scheda elettorale, come fosse la formula magica della modernità politica. Il premier farà bene a ricordarselo, in vista della battaglia di settembre. Per quanto svilita, la democrazia ha le sue regole. E le regole sono una garanzia per tutto il popolo italiano, non un appannaggio del solo Popolo delle Libertà.
* la Repubblica, 17 agosto 2010
Breve storia del diavolo. Il male nell’era delle tentazioni quotidiane
di Marino Nola (la Repubblica, 10 agosto 2010)
Uno nessuno centomila volti per l’inventore della tentazione. Il diavolo non è mai uguale eppure resta sempre lo stesso. Serpente infido, angelo caduto, caprone volante, dragone sulfureo. Ma anche eroe maledetto, libertino irredimibile, mercante d’anime. E ancora anormale, marginale, deviante. Bel tenebroso oppure brutto sporco e cattivo. E perfino terrorista e serial killer. Dalla Genesi ai nostri giorni il maligno ne ha cambiate di facce.
A dirlo è Daniel Arasse, storico dell’arte della Sorbona, in un libro appena uscito in Francia per le Edizioni Arke. Titolo Il ritratto del diavolo. Argomento, le mille sembianze con cui la nostra civiltà nel corso della storia ha cercato di rappresentare il principio attivo del male. Finendo per fare del signore delle tenebre il mutaforma per antonomasia. Proprio come quelli che oggi popolano il cinema e la letteratura fantasy. Ma in realtà ad essere veramente diabolico è proprio questo trasformismo gattopardiano. Cambiare tutto perché nulla cambi, mimetizzarsi per continuare ad indurci in tentazione.
Sin dai primi secoli del Cristianesimo la vera arma del diavolo è proprio la sua capacità di trucco e di travestimento. Tertulliano, uno dei padri della Chiesa, sosteneva che gli angeli ribelli scacciati dal paradiso rivelarono alle donne arti diaboliche come l’uso della “polvere nera con cui si prolungano gli occhi”. Quello che oggi non a caso si chiama mascara.
Seduzione uguale tentazione. Come quella cui viene sottoposto sant’Antonio da un sexy-diavolo in sembianze femminili. Simile alla sensualissima Anita Eckberg che Fellini, in “Le tentazioni del dottor Antonio”, trasforma in una prorompente diavolessa bionda che sulle note di “bevete più latte” fa perdere la testa a Peppino De Filippo nelle vesti del bacchettone di turno. Di fatto Tertulliano, oltre a riaffermare che la tentazione è femmina, condanna la cosmetica in quanto mascheramento che snatura il modello divino di cui il volto umano è la copia rivelatrice. E in molte incisioni medievali il demonio viene riconosciuto proprio quando si toglie la maschera. Finendo letteralmente smascherato. Proprio come Diabolik. E come Arlecchino, la maschera per antonomasia, che in origine è anche lui un diavolo. Lo dice il nome stesso che viene dall’antico germanico hölle könig, che in inglese diventa hell king, ovvero re dell’inferno.
Ma questa capacità illusionistica non è solo uno strumento del mestiere, è anche la storica ragion d’essere del maligno. Che riesce, ieri come oggi, a rendere il male pensabile e soprattutto rappresentabile solo a condizione di restare un’icona a bassa risoluzione cui la Chiesa stessa non ha mai dato un volto definitivo. Ed è proprio grazie a questa indefinizione che il diavolo è rimasto un evergreen. Capace di un morphing perpetuo che ne fa sempre il profilo più aggiornato del male, la sua ultima versione.
Diceva Dostoevskij che in realtà l’uomo ha creato il diavolo a sua immagine e somiglianza. Come dire che ogni epoca ha il Lucifero che si merita. Lo mostra a chiare lettere la storia dell’arte occidentale che registra puntualmente le metamorfosi del grande nemico. Sin dalle prime raffigurazioni altomedievali dove Satana e Belzebù hanno facce da turchi, da mongoli, da africani. Tratti etnici per significare un male straniero, un pericolo che viene dall’esterno. Fino a quel tornante decisivo che sta fra medioevo ed età moderna quando il demonio perde le ali di pipistrello, la coda di dragone, gli zoccoli da satiro pagano, per lasciare il posto a un maligno dal volto umano.
Un diavolo politico, seppur cornuto, come quello che Ambrogio Lorenzetti mette al centro della celebre allegoria del cattivo governo, dipinta per il palazzo pubblico di Siena. Un tiranno, circondato da una squallida consorteria di vizi, che si mette sotto i piedi la giustizia, raffigurata con le mani legate (ogni riferimento al presente è puramente casuale). O addirittura un diavolocardinale, come quello del Michelangelo della Sistina che nel Giudizio universale dà al signore dell’inferno il volto del potentissimo Biagio da Cesena, maestro di cerimonie del pontefice Paolo III. Non più ibridi con gli occhi verdi di ramarro ma uomini dallo sguardo luciferino e dalla crudeltà mefistofelica.
Così il diavolo cede il posto al diabolico che è in ciascuno. Come diceva Paul Valéry, il diavolo diventa come Dio. Entrambi esistono, ma solo in noi e insieme formano una coppia inseparabile di divinità latenti. Come dire che la modernità lascia all’uomo la scelta tra bene e male. Tra resistere alle tentazioni del peccato o al contrario cedere deliberatamente cancellando così l’idea stessa di peccato. Una rivoluzione che finisce per fare del diavolo il simbolo della vittoria del piacere e della libertà. O, addirittura, della forza vindice della ragione, per dirla con Giosuè Carducci. Un eroe bello e impossibile. Come il Satana di William Blake del Victoria and Albert Museum di Londra, uno Spartaco venuto dagli inferi che guida gli angeli ribelli all’assalto del trono di Dio. E come il Satana di Milton che preferisce essere re all’inferno piuttosto che servo in paradiso.
Ma proprio perché si è fatto umano, troppo umano, il diavolo sparisce progressivamente dalla pittura e dall’iconografia. Che hanno bisogno di forconi, di artigli, di squame e di occhi fosforescenti da incubo. Se è facile dipingere dei mostri è difficile rappresentare la mostruosità. E così l’agente del caos esce dai manuali di storia dell’arte per entrare in quelli di criminologia e di psichiatria. E a dargli la caccia sono gli scienziati come Cesare Lombroso che fa dell’antropometria una demonologia positivista popolata di delinquenti, anormali, briganti, mattoidi e “pazzi morali”.
Uno zoo umano affollato di poveri diavoli come il “falsario piemontese”, il “ladro napoletano”, “l’anarchico lucano”. Più demonizzati che demoni in verità. Oggi, scacciato dalla morale religiosa Satana si delocalizza e si scioglie nel sociale. Entra nei moderni tribunali della coscienza laica con un look tutto nuovo. Un diavolo che veste Prada. Terziarizzato, immateriale, interiorizzato.
E soprattutto medicalizzato. Un maligno da psicologi e dietologi più che da teologi. Un demonio interinale microfisicamente nebulizzato in mille piccole tentazioni e altrettanto piccole demonizzazioni che ci aiutano ad orientarci tra un bene e un male ad assetto variabile, più mutevoli degli indici della borsa. Dal colesterolo ai radicali liberi, dai grassi idrogenati ai raggi UVA. Dal sovrappeso agli inestetismi. Dalla mucca pazza all’effetto serra. E così il simbolo del male diventa sintomo di malessere. È tutto quel che resta del diavolo nell’era della flessibilità. Che ha tolto il posto fisso anche a Belzebù.
“Le portrait du diable”, un saggio di Daniel Arasse, ed. Arke
INCHIESTA P3
Dell’Utri non risponde, indagato Caliendo
Bankitalia commissaria il Ccf di Verdini
L’interrogatorio del senatore è durato meno di un’ora. Avviso di garanzia anche per il sottosegretario alla Giustizia. Berlusconi gli conferma la fiducia. Via Nazionale ravvisa "gravi irregolarita" nella banca del coordinatore Pdl. Il Riesame: interferenza metodica sulle istituzioni. Il Csm approvato trasferimento di Marconi
Dell’Utri non risponde, indagato Caliendo. Bankitalia commissaria il Ccf di Verdini Il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo *
ROMA - Dopo l’interrogatorio fiume 1 di Denis Verdini, oggi in procura a Roma è stato il turno di Marcello Dell’Utri. L’interrogatorio del senatore del Pdl è stato però molto più breve. Meno di un’ora. Dell’Utri, indagato assieme allo stesso Verdini e a Flavio Carboni nell’inchiesta sulla cosiddetta P3, si è avvalso, infatti, della facoltà di non rispondere.
All’uscita dalla procura, Dell’Utri ha spiegato così il suo "silenzio" davanti al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e al sostituto Rodolfo Sabelli: "A Palermo 15 anni fa", ha detto dell’Utri, "ho parlato 17 ore e sono stato rinviato a giudizio sulla base della mie dichiarazioni. Ho imparato da allora"."Sono un indagato provveduto", ha continuato il senatore del Pdl, "mi sono avvalso della facoltà di non rispondere che reputo una regola fondamentale dell’indagato provveduto. Consiglio a tutti gli altri di fare come me".
"Ruolo di Dell’Utri superiore a Verdini". Secondo quanto scrive l’agenzia Ansa, i pm romani ritengono dopo gli interrogatori che il ruolo di Dell’Utri, sotto il profilo politico, sarebbe stato superiore a quello di Verdini. Sempre secondo quanto trapela da Piazzale Clodio, nonostante le nove ore di interrogatorio, le spiegazioni fornite dal coordinatore del Pdl non avrebbero convinto i magistrati, che le avrebbero trovate generiche.
"Verdini non convince". Tra le argomentazioni del coordinatore che non avrebbero persuaso i pm ci sono le spiegazioni sui 2,6 milioni pagati dalla Società Toscana Edizione (della quale Verdini è socio) allo stesso coordinatore, alla moglie Simonetta Fossombroni ed al coordinatore toscano del partito Massimo Parisi. Altro punto poco chiaro, le cene a palazzo Pecci Blunt, la casa romana di Verdini, che per i pm sarebbero servite tra l’altro, a stabilire interventi sulla Consulta per il lodo Alfano. In merito al dossier a luci rosse per screditare la candidatura a governatore della Campania di Stefano Caldoro, Verdini avrebbe ammesso di esserne stato a conoscenza, ma di non avere preso parte al complotto.
Commissariato il Ccf. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti ha firmato il decreto di commissariamento del Credito Cooperativo Fiorentino, la banca di cui fino a ieri era presidente Verdini. La Banca d’Italia l’aveva proposto il 21 luglio "per gravi irregolarità nell’amministrazione e gravi violazioni normative", dopo "gli accertamenti ispettivi di vigilanza condotti presso il Credito Cooperativo Fiorentino - Campi Bisenzio - Società Cooperativa".
Indagato anche Caliendo. Capaldo e Sabelli hanno deciso l’iscrizione nel registro degli indagati anche del sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. Anche a Caliendo è contestato il reato di violazione della legge Anselmi sulle società segrete. Il sottosegretario potrebbe essere interrogato entro la fine di questa settimana. Il suo nominativo appare in alcune vicende sulle quali si è soffermata l’attenzione degli inquirenti. Tra queste una cena nella casa romana di Verdini, a palazzo Pecci Blunt, che avrebbe avuto il fine di stabilire le strategie di intervento sul lodo Alfano, sulla nomina di Alfonso Marra a presidente della Corte D’Appello di Milano e sul ricorso in Cassazione dell’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino contro l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei suoi confronti dalla magistratura napoletana.
Dopo aver appreso di essere stato iscritto nel registro degli indagati, Caliendo ha subito ribadito la sua estraneità alla P3: "Io non ho mai contattato né fatto elenchi di giudici della Corte costituzionale favorevoli o contrari al lodo Alfano".
Berlusconi: "Fiducia in Caliendo". Dopo il ministro della Giustizia Angelo Alfano, anche Silvio Berlusconi ha confermato la propria piena fiducia nel sottosegretario. In una nota di Palazzo Chigi si legge che il premier "ha incontrato il sottosegretario Giacomo Caliendo e, in relazione all’indagine quest’oggi annunciata nei suoi confronti, gli ha espresso la più ampia solidarietà e, rinnovandogli piena fiducia, lo ha invitato a continuare a lavorare con l’impegno fin qui profuso". Il deputato Niccolò Ghedini ha definito "sorprendente la decisione di indagare il senatore", auspicando "una immediata archiviazione".
Dal canto suo, dopo il colloquio con il presidente del Consiglio, Caliendo ha detto di aver chiesto tramite i suoi avvocati,"di essere sentito dai pm". Sto aspettando". "Mi ha confermato la sua piena fiducia e mi ha chiesto di andare avanti. Dunque resto nel mio incarico", ha aggiunto lasciando Palazzo Grazioli.
"P3 attiva anche nel Lazio". L’inchiesta si arricchisce intanto di nuovi sviluppi. Il "gruppo", che, secondo la magistratura faceva capo a Flavio Carboni, Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi, si interessò anche dell’esclusione della lista del Pdl provinciale dalle elezioni regionali del Lazio. E’ quanto emerge dall’ordinanza del tribunale del riesame con la quale i giudici hanno negato la scarcerazione a Carboni e Lombardi.
Nell’ordinanza scrivono i giudici, "Lombardi non manca di invitare l’onorevole Ignazio Abrignani, responsabile elettorale nazionale del Pdl, a seguire una via ’parallela’ rispetto a quella istituzionale (ricorso presso il Consiglio di Stato avverso l’esclusione della lista Pdl Roma e Provincia dalle elezioni regionali) suggerendogli di rivolgersi ad Antonio Martone (ex avvocato generale della Cassazione) perchè è ’molto amico’ e può risolvere il problema, ma della cosa questa volta il Lombardi segnala che è meglio non parlare al telefono".
"Interferenza metodica". Dal documento emerge inoltre come il gruppo abbia "portato avanti una metodica azione d’interferenza sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche, come la Corte Costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, la regione Sardegna, la Corte di Cassazione, la Corte d’Appello di Milano, l’ispettorato del ministero della Giustizia, venendo incredibilmente accettato come interlocutore accreditato". E’ a causa di questa "fitta rete di conoscenze", concludono i giudici, che "deve essere mantenuta la custodia cautelare in carcere".
Marconi trasferito. Dal Csm intanto arriva l’ok al trasferimento per incompatiblità ambientale di Umberto Marconi, fino ad oggi presidente della Corte d’Appello di Salerno, uno dei magistrati coinvolti nella vicenda P3. Il magistrato andrà dunque a svolgere funzioni di consigliere presso la Corte d’Appello di Napoli, come da lui stesso richiesto in una lettera inviata a Palazzo dei Marescialli. Al momento del voto, si è astenuto il vice presidente Nicola Mancino.
* la Repubblica, 27 luglio 2010
La patria dell’oblio collettivo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 6/6/2010)
Vorrei tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il 26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili. L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è questa: come funziona la memoria collettiva in Italia? Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati appuntamenti con la giustizia?
In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli (Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori, ministri ed ex ministri di destra e sinistra.
Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta (da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto: «Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio (3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.
Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista: «L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del ‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009. Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».
Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un «patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa, frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento sono responsabili i politici, per primi.
Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.
Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura, a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».
È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili. Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente acquisito», è permanentemente cestinato.
I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce. L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.
Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia. Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica, nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza.
La lezione di Tocqueville
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 4 giugno 2010)
La libertà di stampa è una di quelle libertà per le quali non può esistere una via intermedia tra massima libertà e dispotismo. Lo aveva capito quasi due secoli fa Alexis de Tocqueville, il quale, da critico diagnostico della trasformazione democratica delle società moderne, non si faceva scrupolo a confessare la sua ambigua attitudine nei confronti di questa libertà. Una libertà che diceva di amare non perché un bene in sé ma perché un mezzo che impedisce cose veramente indesiderabili come l’impunità, l’abuso di potere e le tentazioni assolutistiche di chi governa. Proprio perché ogni tentativo di regolare la libertà di stampa si risolverebbe invariabilmente in uno sbilanciamento di potere a favore di chi regola, meglio, molto meglio una libertà senza limiti.
Del resto, chi può decidere su quale sia il limite giusto? E poi, chi controllerà colui che decide sul limite? Per questa ragione, Tocqueville osservava che se i governanti fossero coerenti con la loro proposta di limitare la libertà di stampa per impedirne un uso licenzioso ed esagerato, dovrebbero accettare di sottomettere le loro azioni ai tribunali, di essere monitorati dai giudici in ogni loro atto. Se non amano il tribunale dell’opinione dovrebbero preferire il tribunale vero. Ma questo, oltre che essere irrealistico, comporterebbe se attuato un allungamento della catena di impedimenti fino al punto da asfissiare l’intera società sotto una cappa di controllori e censori. A meno di non ripristinare l’assolutismo di età pre-moderna - un vero assurdo.
L’impossibilità di trovare una giusta limitazione per legge della libertà di stampa sta nel fatto che nei governi che si fondano sull’opinione, come sono quelli rappresentativi e costituzionali, non è possibile sfuggire all’opinione, la quale deve pur formarsi in qualche modo ed essere libera di fluire.
È per questa ragione che l’azione del premier contro i due tribunali - la stampa e la magistratura - è in qualche modo anacronistica e assurda. Lo è per questa semplice ragione: nonostante la sua persistente passione censoria, egli vive di pubblico e non può restare celato agli occhi di chi è deputato a preferirlo e perfino amarlo. Il suo desiderio più grande è quindi quello non tanto o semplicemente di mettere il bavaglio alla stampa, ma invece quello di esaltare una forma soltanto di opinione, quella che non fa conoscere ma fa invece ammirare, preferire, amare. Egli vuole quindi l’impossibile: vivere di pubblico senza pubblico.
Poiché il pubblico è formato proprio attraverso diverse opinioni (questo è vero anche quando il pubblico è fatto di consumatori, e l’opinione è pubblicitaria, poiché in fondo anche di dentifrici ce ne sono di vari tipi sul mercato). Ma il premier vuole creare il suo pubblico e vuole che questo solo goda di libera circolazione: questa è l’ambizione assurda dell’assolutismo dispotico nell’era dei media.
Come ha scritto Ezio Mauro a commento dell’attacco in diretta che il premier ha lanciato contro chi aveva ricordato le sue passate dichiarazioni di sostegno agli evasori fiscali (Massimo Giannini) e contro chi aveva mostrato con i dati un suo calo nei consensi (Ipsos e Pagnoncelli), egli vuole «impedire ai giornali di raccontare la verità» per distribuire invece «un’unica verità di Stato».
I monarchi assoluti dell’età pre-moderna non avevano a che fare con il pubblico: il decidere liberamente (fuori dai vincoli dell’opinione e del voto) li rendeva, se possibile, meno esposti alla menzogna e se menzogna c’era era all’interno della cerchia di potere nella quale vivevano. Arcana imperii era il nome della politica fatta a porte chiuse in un sistema di potere nel quale non c’era nessun obbligo a tenerle aperte. Ma con l’avvento della politica del consenso - in primis della designazione elettorale dei governanti - questa condizione di libertà ha perso giustificazione e, soprattutto, si è rivelata impossibile. Infatti, per il leader, l’essere scelto, sostenuto, e perfino amato è possibile solo se acquista o si crea un’immagine pubblica, un’immagine che esca dal palazzo e circoli liberamente. La condanna del leader con ambizioni assolutisiche nell’era democratica è quella di non poter più aspirare al potere assoluto mentre i mezzi di cui dispone - la stampa e l’opinione- - alimentano enormemente questa sua aspirazione.
Ecco quindi il paradosso del quale siamo testimoni (e vittime) in Italia: un leader che è stato creato dai media e che per restare al potere deve poter contare sulla pubblicità di quell’immagine vincente, e per tanto su un sostegno acritico dei media stessi.
La premessa non detta di questo paradosso è che la verità sarebbe fatale a quell’immagine, e deve per tanto restare celata alla vista e all’udito. Ecco allora che la limitazione della libertà di stampa deve per forza essere più di questo per poter funzionare: deve coinvolgere non soltanto il momento della divulgazione delle opinioni scomode, ma anche quello del reperimento delle informazioni sulle quali quelle opinioni si basano (deve cioè mettere in discussione entrambi i tribunali). Aveva ragione Tocqueville: nella sfera della libertà di stampa non si dà né può darsi una via mediana tra massima libertà e dispotismo, perché una volta imboccata la strada della censura un limite tira l’altro senza che si riesca a vederne la fine.
Le forbici del potere
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 05.06.2010)
Se la tv di Stato taglia a metà la trasmissione di Roberto Saviano, vuol dire che lo Stato intende fare a metà la lotta alla camorra? In vista del cda Rai convocato per martedì prossimo l’interrogativo è più che lecito. Soprattutto alla luce delle inammissibili esternazioni con cui il presidente Berlusconi ha accusato lo scrittore napoletano di danneggiare l’immagine dell’Italia con i suoi libri e i suoi articoli contro la criminalità organizzata. È chiaro, comunque, che si tratta di un altro caso di censura preventiva, ai danni della televisione pubblica, dei telespettatori e dei cittadini italiani.
A quanto sembra di capire, sulle quattro puntate previste del programma che Saviano sta scrivendo per Rai Tre con Fabio Fazio, due sarebbero a rischio: una sulla ricostruzione post-terremoto in Abruzzo e l’altra sullo scandalo dei rifiuti in Campania. Due inchieste di approfondimento, dunque, su due vicende che certamente interessano l’opinione pubblica e hanno una rilevanza civile. Nessuno le ha ancora visionate, e forse non ne ha neppure letto il testo, ma la forbice del censore è già pronta a scattare per impedire a tutti noi di vedere e di giudicare.
Evidentemente, sotto il regime televisivo, siamo condannati ad avere una tv a sovranità limitata. Una tv dimezzata. Una tv con il silenziatore. E il fatto è tanto più grave perché deriva dalla pretesa di un premier-tycoon, un capo del governo che è anche capo del polo televisivo privato in concorrenza diretta con la televisione pubblica. Siamo, ormai, alla censura a reti unificate.
Prima che il presidente del Consiglio smentisca qualsiasi interferenza diretta o indiretta sull’autonomia della Rai, addebitando a chi lo critica l’arte della menzogna di cui è maestro, ricordiamo anche qui i precedenti. Già il 28 novembre del 2009, in un convegno dei giovani del Pdl a Olbia, il premier dichiarò minacciosamente: «Se trovo chi ha fatto le nove serie della Piovra e chi scrive libri sulla mafia che ci fanno fare una bella figura, lo strozzo». Poi, il 28 gennaio di quest’anno, nel corso di una conferenza-stampa a Reggio Calabria rincarò la dose: «Spero che questa brutta abitudine di fare fiction sulla mafia finisca. Queste fiction hanno danneggiato l’immagine del Paese».
Più recentemente, il 16 aprile scorso, lo stesso presidente del Consiglio ha ribadito il concetto che serial tv come La Piovra e libri come Gomorra fanno una cattiva pubblicità all’Italia nel mondo, promuovendo la mafia. Su questa scia, pochi giorni dopo il direttore del Tg 4 Emilio Fede ha sbottato: «Basta, Saviano non è un eroe. Non se ne può più!». E da ultimo, perfino il calciatore milanista Marco Borriello, napoletano di origine, s’è sentito in diritto di dichiarare che Saviano «è uno che ha lucrato sulla mia città», salvo poi pentirsi, esprimere il proprio rammarico e infine ammettere che «il problema è più grande di me».
Ecco, la conclusione del giocatore del Milan può valere anche per il patròn del Milan, per i suoi fans e ancor più per i censori della Rai. Lasciate stare: il problema, effettivamente, è più grande di voi. Non è il libro, il film o la trasmissione di Saviano che fanno una cattiva pubblicità all’Italia. Sono i problemi, i fatti, le situazioni che lui ha il coraggio di denunciare a non fare una buona pubblicità al nostro Paese. E sono le censure a danneggiarne l’immagine nel mondo, a farci fare una pessima figura.
C’è, al fondo di queste insulse reazioni, un’interpretazione puramente mediatica del potere; una visione esclusivamente propagandistica della politica. Come se tutto si riducesse a un maxi-spot, a una campagna promozionale o pubblicitaria, per nascondere i problemi reali, attirare masse di turisti ignoranti o creduloni e magari valorizzare, al di là delle bellezze naturali, le gambe delle nostre segretarie o gli attributi delle nostre escort. Un Carosello permanente al posto della lotta alla mafia.
Dice bene il sito della Fondazione Fare Futuro, presieduta da Gianfranco Fini: «Tagliare la trasmissione di Saviano significa che lo Stato abdica alle sue funzioni per accontentarsi di nani e ballerine, di zerbini e di veline». È il modello della tv di regime, rassicurante e consolatoria, compiacente e servile, falsa e bugiarda. Eppure, sappiamo tutti che all’interno della Rai non mancano né la competenza, né la professionalità né tantomeno il senso di responsabilità: quelle risorse, cioè, che giustificano e legittimano il ruolo della televisione pubblica.
Da Saviano a Santoro, da Floris a Dandini, da Ruffini a Busi, per citare solo i protagonisti o le vittime degli ultimi casi, questa funzione non si difende però a colpi di forbici. Si difende con l’impegno a fare informazione, intrattenimento o spettacolo, al servizio dei cittadini piuttosto che al servizio del potere.
Napolitano: «Rischio scontro tra i poteri dello Stato» *
C’è il rischio di un nuovo scontro tra poteri e organi dello stato. È l’allarme lanciato dal presidente della Giorgio Napolitano all’indomani dell’ultimo attacco del premier Berlusconi ai giudici.
In una lettera al vice presidente del Csm Nicola Mancino il Capo dello Stato scrive: «Da un lato gli sviluppi di delicate vicende processuali e dall’altro l’avvio di un’impegnativa competizione elettorale, rischiano di alimentare nuovamente drastiche contrapposizioni e pericolose tensioni non solo tra opposte parti politiche ma anche - come ho avuto, tempo fa, già modo di rilevare con comprensibile allarme - tra istituzioni, tra poteri e organi dello stato. Anche la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio dei cittadini, l’amministrazione della giustizia in un quadro di corretti rapporti istituzionali, non può trarre alcun giovamento da esasperazioni polemiche, da accuse quanto mai pesanti che feriscono molti e che possono innescare un clima di repliche fuorvianti: clima nel quale la magistratura associata apprezzabilmente dichiara di non voler farsi trascinare. Di qui il mio vivissimo auspicio che prevalga in tutti il senso della responsabilità e della misura, e che in particolare nelle prossime occasioni di dibattito, sotto la sua guida, nel consiglio superiore della magistratura l’attenzione si concentri su segni positivi che pure si sono registrati, anche in parlamento, di maggiore ascolto fra esigenze e posizioni diverse. Sarà questo il modo migliore di essere vicini a tutti i magistrati che sono impegnati con scrupolo e imparzialità nell’accertamento e nella sanzione di violazioni di legge da cui traggono forza la criminalità organizzata e la corruzione».
* © Il Sole-24 Ore, 28.02.2010nel 2010
Dopo la frase sui pm "talebani", lettera del presidente della Repubblica a Mancino
Il vicepresidente del Csm: "E’ necessario impegnarsi in un confronto civile e rispettoso"
Giustizia, Napolitano al premier:
"Basta polemiche e accuse pesanti"
Bersani contro Berlusconi: "Sui giudici ormai sragiona"
L’Idv: "Non possiamo accettare che i magistrati siano offesi. Siamo al golpe"
ROMA - Dopo l’attacco di Berlusconi ai giudici che il premier ha definito "talebani", il presidente della Repubblica con una lettera inviata al vicepresidente del Csm Mancino interviene perché vengano evitate "in tema di giustizia esasperazioni polemiche e accuse pesanti tra parti politiche, istituzioni, poteri e organi dello Stato". Invito che Mancino accoglie con sollievo, sottolineando come "il forte ed autorevole messaggio del presidente della Repubblica esorta tutte le istituzioni a guardare oltre i confini delle rispettive competenze e a impegnarsi in un confronto civile e rispettoso rivolto a realizzare il bene comune in un momento tanto difficile per il nostro Paese". Protesta anche l’opposizione: il segretario del Pd Pierluigi Bersani definisce quelle del premier "frasi inaccettabili".
La lettera di Napolitano. Nella lettera inviata a Mancino Napolitano esprime il "vivissimo auspicio che prevalga in tutti il senso della responsabilità e della misura, e che in particolare nelle prossime occasioni di dibattito, sotto la sua guida, nel Consiglio Superiore della Magistratura l’attenzione si concentri su segni positivi che pure si sono registrati, anche in Parlamento, di maggiore ascolto fra esigenze e posizioni diverse".
"Anche la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio dei cittadini, l’amministrazione della giustizia in un quadro di corretti rapporti istituzionali, non può trarre alcun giovamento - sottolinea napolitano - da esasperazioni polemiche, da accuse quanto mai pesanti che feriscono molti e che possono innescare un clima di repliche fuorvianti: clima nel quale la magistratura associata apprezzabilmente dichiara di non voler farsi trascinare".
"Sarà questo il modo migliore di essere vicini a tutti i magistrati - conclude il Capo dello Stato - che sono impegnati con scrupolo e imparzialità nell’accertamento e nella sanzione di violazioni di legge da cui traggono forza la criminalità organizzata e la corruzione".
La risposta di Mancino. "Non nasconde il Capo dello Stato - sottolinea Mancino nella lettera di risposta a Napolitano - il rischio di drastiche contrapposizioni tra le forze politiche e di ritorsioni esasperate. Anche un linguaggio più sobrio e austero può, infatti, aiutare a far prevalere un clima di dialogo costruttivo rispetto a tentazioni o a repliche giustamente definite fuorvianti"
Le proteste dell’opposizione. Contro le parole di Berlusconi insorge anche l’opposizione. Duro il segretario del Pd Pierluigi Bersani. "Penso - ha detto - quello che pensa una persona normale. Ormai siamo alle sparate, si sragiona. E’ preoccupante, sono frasi inaccettabili". "Dire che ormai ci siamo abituati, no - ha aggiunto Bersani - perché restano inaccettabili. Credo che veramente gli italiani debbano cominciare a pensare come andare oltre questa fase. Noi non possiamo essere tutti i giorni dentro a questa vicenda. Abbiamo un sacco di problemi, siamo davanti a fabbriche che chiudono. Non possiamo parlare sempre di Berlusconi e delle sue beghe coi magistrati". "E questa - ha ripetuto il segretario Pd - è una responsabilità che lui porta: mettere sempre al centro se stesso e le sue questioni". Bersani ha ricordato che "c’è un appuntamento elettorale. Non chiedo che il governo venga mandato a casa, ma chiedo che i cittadini mandino una letterina al governo per dire basta, cerchiamo di occuparci dei problemi nostri".
Ancor più allarmato l’Idv che parla per bocca del suo portavoce Leoluca Orlando. "Non possiamo accettare - dice - che i magistrati che amministrano la giustizia in nome del popolo italiano siano offesi solo perché svolgono con onestà il proprio dovere. Ci rivolgiamo al presidente della Repubblica, nella sua veste di garante della costituzione e dell’equilibrio dei poteri, nonché di presidente del consiglio superiore della magistratura, affinché difenda l’onorabilità delle toghe". "Siamo al golpe - avverte il portavoce di Idv - ad opera di un politico corruttore a capo di una banda di lestofanti e di rappresentanti nelle istituzioni di mafia, camorra e ’ndrangheta. Della banda di talebani fanno parte i corrotti, i corruttori, coloro che ridevano nel letto durante il terremoto dell’aquila e tutti coloro che, sentendosi al di sopra della legge, usano le istituzioni per far soldi a sfregio della costituzione e umiliando tutti i cittadini onesti".
* la Repubblica, 27 febbraio 2010
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
’Pm come Tartaglia’: interviene il Csm
Parole Berlusconi in dossier a tutela magistrati gia’ attaccati dal premier *
ROMA - Il Csm si occuperà delle frasi pronunciate ieri dal presidente del Consiglio, che ha paragonato "l’aggressione" giudiziaria nei suoi confronti a quella fisica subita in piazza Duomo a Milano per mano di Tartaglia. La prima commissione di Palazzo dei Marescialli ha infatti deciso di acquisire i giornali che riportano le dichiarazioni di Berlusconi e di inserirle nell’ampia pratica a tutela di magistrati oggetto in passato di accuse rivolte dal premier. Questo fascicolo pende da tempo e riguarda in particolare i giudizi espressi dal presidente del Consiglio sui magistrati delle Procure di Palermo e di Milano che hanno riaperto le indagini sulle stragi mafiose e sui giudici del processo Mills.
Berlusconi, parlando ieri dopo la riunione del Consiglio dei ministri, ha definito le aggressioni giudiziarie "parificabili a quelle di piazza del Duomo, se non peggio’’.’’Mi attaccano sul piano della persona con la ’character assassination’ che e’ stata messa in campo - ha detto ancora Berlusconi riferendosi ora a un ambito più generale -, mi attaccano sul piano patrimoniale, ora non gli resta che attaccarmi sul piano fisico, come hanno iniziato a fare, ma - ha avvertito - ’non praevalebunt’’’.
Sempre parlando di giustizia il Presidente del Consiglio ha annunciato che il governo ’’riproporra’ l’inappellabilita’ delle sentenze di primo grado nella riforma della giustizia che stiamo esamindando’’. Per quanto riguarda la riforma fiscale, ha invece parlato di tempi lunghi. Per ora - ha detto - la crisi non consente una riduzione delle tasse.
Di giustizia e molto altro, Berlusconi parlera’ oggi in un faccia a faccia con il presidente della Camera Gianfranco Fini, durante una colazione in programma a Montecitorio. All’ordine del giorno anche una ricognizione su equilibri nel Pdl, agenda di governo, regionali, innesti nel governo di nuovi sottosegretari, alleanze con l’Udc.
* Ansa, 14 gennaio, 10:57
Se l’Italia fosse Bologna
di Carlo Lucarelli (l’Unità, 8 gennaio 2010)
Ultimamente per una serie di motivi, anche letterari, mi capita di incontrare, sia in Italia che all’estero, molte persone che vengono dall’Eritrea.
Tutte le volte che mi chiedono dove abito io rispondo, per semplificare, che sto in un paese vicino a Bologna e quando lo dico - dico quella parola, Bologna - il mio interlocutore fa subito un sorriso e un cenno di assenso, anche se magari, a Bologna, non c’è mai stato. Bologna, mi dicono, è stata molto importante per gli eritrei durante gli anni in cui il loro paese era impegnato a combattere per l’indipendenza dall’Etiopia del regime sanguinario di Menghistu in una guerra che è durata trent’anni.
A Bologna molti fuoriusciti avevano trovato rifugio e ogni anno si teneva una grande festa, una specie di festival, che riuniva gli eritrei come in una seconda patria.
Oggi quella festa non c’è più e Bologna forse è meno importante in quel senso, ma il ricordo positivo di quel suono - Bologna! - è rimasto e quando dici ad un eritreo - anche negli Stati Uniti, come mi è capitato - che sei di quella città hai subito l’impressione di stargli più simpatico.
E siccome è una gran bella sensazione quella di stare istintivamente simpatico a qualcuno - perché è sempre molto più gratificante essere amati che odiati - ed è anche un buon punto di partenza per qualunque cosa, a me piacerebbe che anche quando dico che sono italiano chi mi sta davanti faccia lo stesso sorriso e lo stesso cenno di assenso.
Perché in Italia c’è stato bene - come turista, come lavoratore, come rifugiato, come persona e basta - e che per questo, guarda un po’ gli sto subito più simpatico.
Il premier perdona il suo aggressore ma confida nel giudizio dei magistrati
"Serve un segnale, non passi il messaggio che si può aggredire il presidente del Consiglio"
Berlusconi: "Ho perdonato Tartaglia
ma pm giudichino la gravità del gesto"
In giornata telefonata a Napolitano dopo il messaggio di ieri del capo dello Stato
Il presidente: "Buoni rapporti personali. Sono ragionevolmente fiducioso" *
ROMA - Silvio Berlusconi ha perdonato Massimo Tartaglia, l’uomo che lo ha aggredito una settimana fa a Milano. Ne dà notizia l’agenzia Ansa che riporta quanto riferito da una fonte presente a una conference call che il premier ha tenuto da Arcore con la sede Pdl di Roma per gli auguri di Natale. Perdona l’aggressore ma spera che i magistrati - riferisce la fonte - "nel giudicare il gesto non facciano passare il messaggio che si può aggredire il presidente del Consiglio, che resta un’istituzione da difendere". Perdono che per Tartaglia "sarà un sollievo", dice l’avvocato dell’uomo, Daniela Insalaco, certa che la decisione di Berlusconi "possa essere utile al mio assistito per rielaborare, con l’aiuto degli psichiatri lo hanno in cura, le conseguenze del grave fatto commesso".
Le parole di Berlusconi giungono nel giorno in cui il premier ha telefonato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per uno scambio di auguri e un confronto dopo le parole pronunciate ieri dal capo dello Stato. Che dice: "Con Berlusconi i rapporti personali sono sempre stati buoni. Mi ha fatto piacere che oggi mi abbia chiamato e che abbia apprezzato le linee generali del mio discorso’’.
Berlusconi: "Serve un segnale". "Umanamente l’ho perdonato", ha detto Berlusconi sempre secondo il resoconto di chi ha potuto ascoltarlo. "Sapete che non so portare rancore", ha aggiunto rivolgendosi agli interlocutori che lo ascoltavano dalla sede di via dell’Umiltà a Roma. Tuttavia, il premier ha sottolineato l’importanza che il gesto di Tartaglia non venga sottovalutato: non deve passare il messaggio che si può andare in giro e colpire liberamente il presidente del Consiglio che rappresenta un’istituzione; il rischio è che altrimenti parta un tiro al bersaglio.
"Si è gridato al tiranno". "A furia di gridare ’a morte il tiranno’, c’è chi ha cercato di uccidere il tiranno...". Nel corso della telefonata con lo stato maggiore del Pdl, Berlusconi torna sull’episodio dell’aggressione. "E’ stata frutto di un clima d’odio - ribadisce - in queste situazioni se a qualcuno riesce il colpo allora diventa un eroe, se non riesce si fa poco tempo in galera e può uscire tranquillamente più libero di prima". "Io - ha aggiunto - non ho mai scaldato il clima, ho fatto solo notare la provenienza di alcuni organismi istituzionali che è una provenienza chiaramente di sinistra.
Napolitano: "Fra noi buoni rapporti". Quanto alla telefonata fatta da Berlusconi al capo dello Stato, Napolitano ne ha parlato con i giornalisti quirinalisti. Che gli hanno chiesto se fra lui e il presidente del Consiglio si fosse "sciolto il gelo". "Io sono per natura scongelato" ha replicato il presidente della Repubblica, ribadendo che "una cosa sono i rapporti personali e una cosa quelli tra le istituzioni. E quando vengono toccate le prerogative delle istituzioni, io reagisco nel modo che mi pare più opportuno".
Riforme, Napolitano "ragionevolmente fiducioso". Quanto al tema delle riforme, Napolitano si è detto "né ottimista né pessimista" ma "ragionevolmente fiducioso". Nel discorso di ieri, ha aggiunto, "quando ho detto che non c’è ancora il clima propizio, mi riferivo alle scelte necessarie per ridurre il debito pubblico e riqualificare la spesa. Sulla possibilità di fare le riforme in questa legislatura sono stato più fiducioso".
"Riflessioni salutari". Sui temi citati ieri (l’importanza delle riforme e della condivisione, il ruolo centrale del Parlamento, l’invito a tutti i protagonisti della politica a non insistere su ipotesi di supposti complotti, il ruolo di salvaguardia della Costituzione) il capo dello Stato è tornato anche oggi nel corso dell’incontro con il corpo diplomatico. Dopo l’aggressione a Berlusconi ci sono state "nell’opinione pubblica italiana delle reazioni e riflessioni salutari", ha detto Napolitano.
Crisi e temi internazionali. Napolitano ha anche fatto una riflessione sul valore della crisi finanziaria, che "ha dato la prova inconfutabile di una interdipendenza cui nessun continente e nessun Paese può sottrarsi". Questa interdipendenza, ha aggiunto, "è il presupposto e insieme il portato oggettivo di quel processo di globalizzazione, i cui indirizzi e le cui ricadute richiedono un impegno e delle forme concrete di governance". Di fronte alla crisi quindi si è manifestata "la consapevolezza che il mondo è uno solo e insieme bisogna governarlo".
Calderoli propone la Convenzione. Apprezza il "nuovo" clima il ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli. E lancia una proposta: "E’ iniziato un dialogo con l’opposizione e con le cariche istituzionali che dovrebbe essere prodromico alle riforme. Verificherò con la maggioranza, col governo e con l’opposizione la disponibilità all’utilizzo di uno strumento che ho chiamato Convenzione, perché al processo partecipino non solo deputati e senatori ma anche il territorio con Comuni, Province e Regioni".
* la Repubblica, 22 dicembre 2009
L’inciucio
È cosa non buona e ingiusta
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 20.12.2009)
Ho letto con molto interesse l’articolo del nostro collaboratore Alexander Stille (figlio di tanto padre) pubblicato venerdì scorso su Repubblica. Spiega perché chi si opponga alla politica del Pdl non può che concentrare le sue critiche su Silvio Berlusconi. Non è questione di distinguere la parola "nemico" dalla parola "avversario", la parola "odio" dalla parola "opposizione". Su queste differenze lessicali potremmo (inutilmente) discutere per pagine e pagine senza cavarne alcun risultato, come pure potremmo discutere sulla personalizzazione degli scontri politici in altri paesi.
Negli Stati Uniti per esempio lo scontro personalizzato è una prassi durissima e assolutamente normale. Basta ricordare (ed è appena un anno fa) la polemica senza esclusione di colpi tra Obama e Hillary Clinton durante le primarie, quella tra Gore e Bush nella corsa alla Casa Bianca, la campagna dei giornali che portò alle dimissioni di Nixon e Bill Clinton ad un passo dall’"impeachment" all’epoca dello scandalo Lewinsky.
Eppure in nessuno di quei casi i protagonisti avevano mai personalizzato su di sé il partito o la parte politica che rappresentavano come è avvenuto per Silvio Berlusconi. Ma chi lo ha detto meglio di tutti e con maggiore attendibilità è stato Denis Verdini. Il suo non è un nome molto noto, eppure si tratta d’un personaggio di primissimo piano: è il segretario del Pdl, il numero uno dei tre coordinatori di quel partito e soprattutto il co-fondatore di Forza Italia.
Quando Berlusconi decise di scendere in campo nell’autunno del 1993, affidò la costruzione del partito ai due capi di Publitalia, la società che raccoglieva la pubblicità per il gruppo Fininvest, nelle persone di Dell’Utri e di Verdini. Il primo è da tempo distratto da altri affanni; Verdini è invece nel pieno del suo impegno politico.
Nell’articolo pubblicato dal Giornale il 18 dicembre Verdini elenca gli obiettivi che il Pdl si propone di realizzare nei prossimi mesi e descrive come meglio non si potrebbe il ruolo di Berlusconi. «Lui ha costruito la figura del leader moderno - scrive Verdini - anzi ha costruito la leadership come istituzione. Per affrontarlo anche gli altri partiti dovranno affidarsi ad una leadership e se non riusciranno a farlo saranno sempre sconfitti. Ma anche i "media" non potranno esimersi dal concentrare sul leader la loro attenzione se vorranno cogliere il vero significato di quanto accade».
Segue l’elenco degli obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Corte costituzionale; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier tutti i poteri dell’Esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l’eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.
Quest’articolo è infinitamente più preoccupante delle esagitate denunce e liste di proscrizione lanciate da Cicchitto in Parlamento, da Feltri e da Belpietro sui loro giornali e dai vari "pasdaran" del berlusconismo di assalto. Verdini l’ha scritto il 18 dicembre quando già Berlusconi era tornato ad Arcore ed aveva avviato la politica del dialogo con l’opposizione. Esso contiene dunque con lodevole chiarezza le condizioni di quel dialogo, con l’ovvio preliminare che essi comportano e cioè il salvacondotto in piena regola riguardante i processi del premier. Da qui dunque bisogna partire, tutto il resto è pura chiacchiera.
* * *
I giornali di ieri hanno dato notevole risalto alla battuta di D’Alema sull’utilità ed anzi la necessità, in certi momenti della vita politica, di far ricorso agli "inciuci". La parola "inciucio" denomina un compromesso malandrino tra parti politiche avversarie, un compromesso sporco e seminascosto che contiene segrete pattuizioni e segreti benefici per i contraenti, nascosti al popolo-bue.
Per esemplificare la sua battuta sull’utilità dell’inciucio D’Alema ha citato la decisione di Togliatti di votare, nell’Assemblea costituente del 1947, per l’inclusione del Concordato nella Costituzione italiana. Ma l’esempio è stato scelto a sproposito: la costituzionalizzazione del Concordato tra lo Stato e la Chiesa non fu affatto un inciucio ma un trasparente atto politico con il quale il Pci, distinguendosi dal Partito socialista e dal Partito d’azione, dichiarò la sua contrarietà a mantenere viva una contrapposizione tra laici e cattolici.
Si può non concordare con quella posizione; del resto la sinistra ha sempre privilegiato le lotte sociali rispetto alle cosiddette libertà borghesi, iscrivendo tra queste anche la laicità che non fu mai un cavallo di battaglia del Pci. Si può non condividere ma, lo ripeto, l’inciucio è tutt’altra cosa e D’Alema lo sa benissimo.
Credo di sapere perché D’Alema ha scelto di usare quel termine così peggiorativo: vuole stupire, gli piace esser citato dai "media", è una civetteria di chi, essendo molto sicuro di sé, sfida e provoca e si diverte.
È fatto così Massimo D’Alema. I compromessi gli piace descriverli, teorizzarli, talvolta anche tentarne la realizzazione, annusarne il cattivo odore, sicuro che se gli riuscisse di farli sarebbe comunque lui a guidarli verso l’utilità generale perché lui è più bravo degli altri. In realtà non è riuscito a metterne in pista nessuno. Ma la sua provocazione ha suscitato preoccupazioni nel suo partito e parecchie reazioni. Si è dovuto parlare di lui per l’ennesima volta. Sarà contento perché era appunto ciò che voleva.
I suoi contraddittori hanno deciso che bisognerà spostare il tiro sui problemi economici ai quali il governo ha dedicato pochissima attenzione. Sarà su di essi che si svolgerà il grande confronto tra la sinistra e la destra.
È vero, il governo non ha fatto nulla, la nostra "exit strategy" dalla crisi è del tutto inesistente e farà bene l’opposizione e il Pd a darsene carico, ma il centro dello scontro non sarà questo. Il centro dello scontro l’ha indicato Verdini, sarà sullo smantellamento della Costituzione. Sul passaggio dallo Stato di diritto allo Stato autoritario.
* * *
Berlusconi vuole il dialogo. Che cosa vuol dire dialogo? Lo spiega quasi ogni giorno sul Foglio Giuliano Ferrara. Lo spiegano gli editorialisti terzisti "ad adiuvandum": dialogo vuol dire mettersi d’accordo sul percorso da seguire e poi attuarlo con leale fedeltà a quanto pattuito. Insomma un disarmo. Unilaterale o bilaterale? Vediamo.
Berlusconi chiede: la legge sul legittimo impedimento come strumento-ponte che lo metta al riparo fino al lodo Alfano attuato con legge costituzionale; rottura immediata tra Pd e Di Pietro; riforme costituzionali e istituzionali secondo lo schema Verdini. In contropartita Berlusconi promette di parcheggiare su un binario morto la legge sul processo breve e di "riconoscere" il Pd come la sola forma di opposizione. Va aggiunto che Berlusconi non pretende che il Pd voti a favore della legge sul legittimo impedimento; vuole soltanto che essa non sia considerata dal Pd come un ostacolo all’accordo sulle riforme.
Vi sembra un disarmo bilaterale? Chiaramente non lo è. Chiaramente sarebbe un inciucio di pessimo odore.
In una Repubblica parlamentare il dialogo si svolge quotidianamente in Parlamento. Le forze politiche presentano progetti di legge, il governo presenta i propri, il Capo dello Stato vigila sulla loro costituzionalità, i presidenti delle Camere sulla ricevibilità di procedure ed emendamenti nonché sul calendario dei lavori badando che anche i progetti di legge formulati dall’opposizione approdino all’esame parlamentare.
Non si tratta dunque di un dialogo al riparo di occhi indiscreti ma d’un confronto aperto e pubblico, con tanto di verbalizzazione.
Quanto alla richiesta politica di rompere con Di Pietro, non può essere una condizione in vista di una legittimazione di cui il Pd non ha alcun bisogno e che la maggioranza non ha alcun titolo ad offrire. Come risponderebbe Berlusconi se Bersani gli chiedesse di rompere con la Lega? Che non è meno indigesta di Di Pietro ad un palato democraticamente sensibile ed anzi lo è ancora di più?
La conclusione non può dunque essere che l’appuntamento in Parlamento. Il punto sensibile è l’assalto alla Costituzione repubblicana. Ci sarà un referendum confermativo poiché sembra molto difficile una riforma condivisa. A meno che il premier non receda dai suoi propositi che, nella versione Verdini, sono decisamente eversivi. Uso questa parola non per odio verso chicchessia ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia.
LA POLITICA DELL’ODIO
di Alexander Stille (la Repubblica, 18.12.2009)
Dopo l’attacco contro Berlusconi si parla molto di amore e odio, del “clima di odio” che la sinistra e giornali come Repubblica avrebbero creato criticando Berlusconi e dell’amore che Berlusconi richiede al Paese e al suo popolo.
Ma il dissenso politico e il diritto di critica non sono questioni di amore ed odio. Il Washington Post non era animato da odio per il presidente Richard Nixon quando fece l’inchiesta su Watergate. La proprietaria del giornale, Katherine Graham, aveva tanti amici tra i repubblicani dell’amministrazione e il presidente non accusò mai il Post di odio. Come il New York Times non odiava Bill Clinton quando fece i primi pezzi sull’affare "Whitewater," che portò alla vicenda di Monica Lewinskye che quasi gli costò la presidenza. Il dissenso e la critica - talvolta anche aspri - sono elementi fondamentali di una democrazia sana. La mancanza di critica all’amministrazione Bush - nel clima intimidatorio dopo l’undici settembre - ha contribuito forse in un modo decisivo alla guerra disastrosa in Iraq.
Ma porre il problema in termini di amore e odio - cioè in termini personalistici - è caratteristico della politica di Berlusconi. Il momento che mi colpì di più intervistando Berlusconi nel 1995 arrivò alla fine del nostro incontro quando, cercando di convincermi che non poteva neanche esistere il problema del conflitto d’interesse, disse: «So creare, so comandare, so farmi amare». Come se farsi amare - piuttosto che gestire l’economia o riformare il sistema pensionistico - fosse il più grande requisito di un uomo politico.
Il dissenso in Italia parla di Berlusconi perché è costretto a farlo. Berlusconi si è sempre posto al centro delle cose e parlare del Popolo della Libertà senza parlare di Berlusconi è semplicemente un non-senso.
Parliamo di Berlusconi perché da quando è entrato in politica nel 1994 l’Italia è diventata ingovernabile. Ingovernabile perché i massicci conflitti d’interesse presentati da Berlusconi - un monopolista della televisione privata che ora controlla il suo competitore principale, la televisione di Stato, un indagato di reati gravissimi che gestisce il sistema della giustizia - sono macigni sulla strada di ogni governo.
Così il Paese ha vissuto colpi di spugna, lodi di tutti i tipi, leggi ad personam cucite su misura per evitare la galera a questo o quel collaboratore stretto del Cavaliere e possibili condanne allo stesso Berlusconi. Nel mezzo di questa crisi, il governo propone una legge per limitare la pubblicità alla televisione via satellite di Rupert Murdoch, il primo vero concorrente privato di Berlusconi. E subito siamo costretti a chiederci: è stata fatta per il bene del telespettatore o per il bene di Mediaset, l’azienda del premier? E così è per tutto, o quasi: lo scudo fiscale, i condoni per l’evasione fiscale, la detrazione di tasse per le aziende, l’eliminazione delle tasse di successione. Le ultime proposte di legge del centro-destra - sempre retroattive - dimostrano che Berlusconi è pronto a smantellare tutto il sistema giudiziario italiano pur di salvare sé stesso. Abbiamo il. governo di un uomo solo che si occupa esclusivamente della sua persona e delle sue aziende.
Siamo costretti a parlare di Berlusconi perché Berlusconi ha personalizzato la politica come mai era accaduto nel dopoguerra. I vecchi partiti come la Dc e il Pci, per esempio, rappresentavano delle idee e delle aree sociali del Paese, ma i loro leader erano decisamente meno importanti dei blocchi che rappresentavano: i cattolici da una parte, la classe operaia dall’altra. Berlusconi ha personalizzato la politica, presentandosi continuamente come l’unico capace di "salvare" il Paese dal pericolo del comunismo. «Sono in politica perché il Bene prevalga sul Male», ha detto nel 2005: «Se la sinistra andasse al governo l’esito sarebbe questo: miseria, terrore, morte. Così come avviene ovunque governi il comunismo».
Berlusconi ha creato attorno a sé il culto della personalità, nel decimo anniversario della creazione di Forza Italia ha perfino detto che la sua "discesa in campo" era stata un atto suggerito dallo Spirito Santo. Il volto di Berlusconi è su ogni manifesto politico. Ha cambiato la legge elettorale in modo che deputati e senatori servano al piacere personale del premier. Il Parlamento è pieno di veline e amiche e amici, molti impiegati o avvocati di Berlusconi. Non contento, Berlusconi propone di far votare solo i capigruppo, riducendo il ruolo dei parlamentari a quello di puro ornamento.
Berlusconi ha cambiato il lessico della politica italiana, introducendo il linguaggio privato, quello del bar e della rissa in casa nella sfera pubblica. Ha dato dei «coglioni» agli elettori del centrosinistra, ha chiamato «stronzate» le parole del suo avversario politico, Romano Prodi, «criminoso» il giornalismo di Enzo Biagi, Marco Travaglio e Michele Santoro. I magistrati sono «matti» e «mentalmente disturbati». L’ex presidente della Repubblica Scalfaro è un «serpente» e un «traditore».
Pensiamo allo spettacolo indecente in cui durante l’ultima legislatura, i senatori del Pdl, aizzati dall’attuale presidente del Senato Renato Schifani, hanno coperto di insulti e ingiurie il premio Nobel Rita Levi Montalcini per spingerla a dimettersi da senatore a vita e far cadere la maggioranza di governo. Sfido gli esponenti del centrodestra a trovare un singolo episodio in cui i principali leader del centrosinistra (Prodi, D’Alema,Veltroni) si siano lasciati andare a un linguaggio simile.
E’ stato Berlusconi ad invitare gli italiani dentro la sua vita privata: con i mille commenti sulla vita da "playboy" e le sue prestazioni sessuali («Se dormo per tre ore posso fare l’amore per altre tre»), sul suo matrimonio («Rasmussen è il primo ministro più bello dell’Europa. Penso di presentarlo a mia moglie»). E ci ha portati dentro il suo divorzio con le sue apparizioni a fianco di Noemi Letizia e le comparsate a "Porta a Porta". Se si facesse il conto di chi negli ultimi quindici anni ha parlato di più sulle televisioni italiane scopriremo, credo, che gli italiani hanno dovuto ascoltare e vedere Berlusconi almeno dieci volte di più di qualsiasi altro politico. La verità è che Berlusconi ha trasformato un intero Paese in un grande reality: "Casa Berlusconi". Chi non lo gradisce ha il diritto di protestare. Non è la politica dell’odio. È, semplicemente, la democrazia.
Lettera ai posteri
di Paolo Cortesi
16/12/2009
Cari posteri che leggerete questa mia lettera nel 2100,
i vostri migliori storici faticheranno a comprendere questo tempo (gli ultimi giorni del 2009), e non avranno categorie per classificare, o solo per nominare, il tempo in cui noi, vostri antenati, viviamo.
Voi stenterete a credere che sia davvero esistito un popolo con un così infimo livello di consapevolezza. Voi non crederete che la maggioranza di una nazione sia stata plagiata in uno dei processi di manipolazione mentale collettiva più inquietanti della storia. Voi resterete senza fiato e senza parole davanti al collasso di una civiltà che, nei secoli passati, espresse molte delle grandezze dell’umanità.
Voi, posteri, non troverete comprensibile il fatto che l’Italia sia tornata al regime feudale, in cui i signori avevano ricchezza, potere e immunità, mentre i nuovi servi erano condannati all’umiliazione quotidiana di lavori precari, sottopagati, monotoni.
E soprattutto voi non capirete come libere elezioni abbiano portato alla guida dello stato un uomo chiamato Berlusconi Silvio che ha trattato l’Italia come fosse la sua azienda, esigendo da un docile parlamento leggi ad personam che lo tutelassero da numerose vicende giudiziarie, che pretendeva dal popolo la stessa sottomessa adulazione che il padrone esige dai suoi dipendenti, che ha censurato e zittito le voci dissidenti, che ha espresso su se medesimo elogi così iperbolici che, detti da qualunque altro, avrebbero sollevato ragionevoli dubbi sulla sua integrità psichica, o avrebbero scatenato risate.
Per tentare di capire questa eclisse italiana, cari posteri, non vi è che una sola parola, bandolo dal quale si svolge tutta la velenosa matassa: televisione.
L’Italia del XXI secolo è stata la cloaca in cui è confluita tutta la demenza di massa indotta dalla televisione. Pensate, per esempio, ad una valanga: quando la massa nevosa si stacca dalla montagna essa aumenta progressivamente durante la caduta; ciò che giunge a valle è una quantità molto maggiore di quella iniziale. La televisione, nel corso di quasi sessant’anni, ha trasformato antropologicamente gli italiani (non solo gli italiani, è chiaro, ma essi più di altri e peggio di altri, per motivi che magari esamineremo in un’altra occasione).
Tutte le facoltà umane - nel corso di sessant’anni di esposizione generale e continua alla televisione - sono state come assorbite e disperse e atrofizzate dal senso del vedere, ma un vedere inerte e passivo: questo è l’elemento da cui dovrete iniziare la vostra analisi di questo nostro tempo scellerato.
La televisione è lo strumento di sottomissione per eccellenza, in nessun’altra forma di "intrattenimento" si è altrettanto ricettivi senza alcun diaframma. La lettura è l’opposto della visione della tv: la lettura richiede elaborazione del codice, interpretazione dei dati, memorizzazione, articolazione delle idee, due cervelli si incontrano e dialogano, quello dell’autore e quello del lettore. Nulla di solo simile avviene nel processo di assorbimento del programma tv: lo spettatore apre gli occhi e riceve un flusso di immagini, suoni e parole che viene gestito tutto e soltanto dalla sorgente. Le immagini si sono rivelate potentissime.
Nonostante siano passati Cartesio e Darwin, Leonardo da Vinci e Freud, Voltaire e Camus, ciò che si vede è enormemente più forte e incisivo di ogni altro messaggio. L’uomo medio del XXI secolo crede istintivamente a ciò che vede, qualunque cosa sia. Rinuncia alla più elementare analisi critica, abdica al filtro del dubbio e del ragionamento, apre gli occhi e assorbe le immagini che diventano per lui la realtà, la verità. Così è vero ciò che si vede, è falso -anzi peggio: non esiste- ciò che non si vede. Per rendere il processo di manipolazione ancora più stretto, si è aggiunto un ingrediente fondamentale: la nevrotizzazione.
Vi era infatti il pericolo che la semplice costruzione televisiva di una pseudo-verità potesse, prima o poi, rivelarsi per quello che è: una miserabile truffa. Allora si è trovato il metodo per alzare il livello di confusione, con una sorta di cortina fumogena che distorce: la nevrotizzazione, cioè l’irruzione dell’urlo, della rissa sistematica, della violenza verbale e non solo, della prevaricazione rabbiosa e della furia. L’esposizione pacata delle proprie ragioni è diventata debolezza; mentre la ripetizione ossessiva di poche sillabe gridate schizzando saliva è diventata la grandezza dialettica del nostro infame presente.
Ecco, cari posteri, come mezzo secolo di televisione ha devastato millenni di civiltà: l’uomo medio italiano del XXI secolo è un teledipendente, un drogato di immagini, un ricettacolo vuoto che si lascia riempire dall’urlo più alto, dall’immagine più colorata e ricorrente; la sua pigrizia mentale lo ha reso un semianalfabeta di ritorno, ed ha trasformato la sua mente in una tabula rasa. A questa folla di zombie inconsapevoli si può imporre tutto; è come un corpo anestetizzato che può essere aperto dal bisturi e non avrà la minima reazione. Ecco, cari posteri, questi sono alcuni spunti di riflessione che oggi vi affido e che forse vi serviranno quando tenterete, increduli, di trovare una spiegazione per un periodo in cui - come i suicidi di massa dei lemming - gli italiani apparvero sconvolti da una epidemia psichica.
Paolo Cortesi
Messaggio del premier a una manifestazione di solidarietà organizzata a Verona
"Mi date un’ulteriore spinta. L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio", ha ripetuto
Berlusconi: "Vado avanti per il bene del Paese" *
VERONA - "Andrò avanti per il bene del Paese". Questo il messaggio inviato stamane da Silvio Berlusconi ai partecipanti all’iniziativa indetta in Piazza Brà a Verona una settimana dopo l’aggressione subita dal premier a Milano. "Queste manifestazioni - ha detto Berlusconi, che ha chiamato al cellulare il sottosegretario Aldo Brancher - mi danno una ulteriore spinta ad andare avanti e a sostenere il nostro impegno per il bene del Paese".
"Sono commosso - ha aggiunto il presidente del Consiglio - e ringrazio Verona che ha per prima voluto organizzare questa manifestazione di solidarietà". "L’amore vince sempre sull’invidia e sull’odio", ha ribadito Berlusconi usando le parole pronunciate il giorno in cui è uscito dall’ospedale San Raffaele e scritte lo stesso slogan dello striscione che questa mattina campeggiava sulla scalinata del Municipio di Verona. "Questo è il messaggio - ha proseguito il premier - che stiamo portando in giro per tutta l’Italia". "Sotto l’albero di Natale - ha detto ancora, rivolgendosi ai sostenitori - regalate una tessera del Pdl".
In piazza Brà, secondo una prima stima, un migliaio di persone, tra le quali oltre a Brancher il sottosegretario Alberto Giorgetti, e vari sindaci e assessori comunali. La manifestazione si è chiusa con le note di "Meno male che Silvio c’è".
* la Repubblica, 20 dicembre 2009
Il presidente della Repubblica parla alle alte cariche dello Stato
"Serve massima condivisione per fare le riforme. Ma il clima non è buono"
Napolitano: "Nessun complotto
la Costituzione garantisce il governo"
ROMA - "Bisogna guardare con ragionevolezza allo svolgimento di questa legislatura ancora nella fase iniziale, non si paventino complotti che la Costituzione e le sue regole rendono impraticabili contro un governo che goda della fiducia della maggioranza in Parlamento". Giorgio Napolitano pronuncia parole chiare sulle tensioni politiche che agitano l’Italia. Ricordando la funzione di salvaguardia della Costituzione che impedisce "scorciatoie". E rilanciando la necessità delle riforme.
Parlando con le alte cariche dello stato al Quirinale, il presidente definisce il Parlamento "compresso", denunciando l’uso di "fiducie e maxiemendamenti". Invitando, infine, "alla più larga condivisione, strada maestra per realizzare le riforme istituzionali, strada percorribile". Cosa non facile, però. Soprattutto oggi: "Il clima non è ancora favorevole. Proprio per questo è necessario fermare il degenerare della violenza e nessuno si deve sottrarre". Ricorda l’aggressione a Berlusconi, Napolitano. Definendola "un fatto assai grave, di abnorme inconsulta violenza, che ha costituito motivo non solo di profondo turbamento ma anche di possibile (ne abbiamo visto i primi segni) ripensamento collettivo".
Certo Napolitano non sottovaluta l’esasperazione che segna il mondo della politica ("una conflittualità che va ben oltre il tasso fisiologico delle democrazie mature"), ma sottoliena come l’Italia non sia "un paese ’diviso su tutto. Stiamo attenti a non lacerare quel fondo di tessuto unitario vitale e condizione essenziale per affrontare i problemi".
Il Capo dello Stato ribandisce poi l’importanza del mantenimento degli impegni assunti, a cominciare da quello della guerra in Afghanistan: non si tratta infatti di "una missione o una guerra americana, ma un impegno della comunità internazionale e dell’Onu con l’unico scopo di proteggere il mondo dal terrorismo internazionale". "Per quanto serie siano le difficoltà di carattere finanziario non possiamo in nessun modo venir meno agli impegni presi - spiega il presidente - perché il ruolo che l’Italia svolge è fondamentale per la sua reputazione internazionale".
* la Repubblica, 21 dicembre 2009